Penale Cop98CD
28-04-1999 14:56
Pagina 1
RIVISTA ITALIANA DI
DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA
DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O
NUOVA SERIE - ANNO XLIII 2000
M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E
INDICE GENERALE
DOTTRINA AMISANO M., Privacy e omissione delle misure a tutela della segretezza dei dati (A) ................................................................................................................
1280
APA N., Ambiguità giurisprudenziali sull’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico (N) ..................................................................................................
738
BONZANO C., Nuovi confini processuali nella tutela penale del segreto di Stato (N) ................................................................................................................ CENTONZE F., Ripartizione di attribuzioni aventi rilevanza penalistica e organizzazione aziendale. Un nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità (N) ....................................................................................................... CERESA-GASTALDO M., Premesse allo studio delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta alle indagini (A) .............
324
369 544
CORVI P., Informazioni false o reticenti nel corso delle indagini preliminari (A) ......... DI CHIARA G., Linee evolutive della giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice (A) ............................................................................. DI CHIARA G., Note in tema di ‘‘valutazioni di colpevolezza’’ praeter legem, terzietà del giudice e ricusazione ‘‘transeunte’’ (A) .........................................
131
DOLCINI E., Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza (A) ................. FEELEY M.M., Le origini e le conseguenze del panico morale: gli effetti sulle Corti americane delle leggi ‘‘tre volte e sei eliminato’’ (A) .................................. FIANDACA G., Esigenze e prospettive di riforma dei reati di corruzione e concussione (A) .......................................................................................................
863
85 902
417 883
FORTE G., Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità (N) ..................................................................................................... GARGANI A., Usura semplice e usura qualificata (A) ..........................................
820 71
GAROFOLI V., Giudizio, regole e giusto processo. I tormentati itinerari della cognizione penale (A) ......................................................................................
512
GUCCIONE G., L’ipotesi dell’incidente probatorio ‘‘allargato’’ ex art. 6 comma 1 l. 7 agosto 1997 n. 267: ambito di operatività e difformità interpretative (N) ....... GULLO A., La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto tra versari in re illicita e principio di colpevolezza (N) ....................................
1197
IANDOLO PISANELLI L., Dibattimento e divieto di delega (A) ............................... INFANTE E., Il lucido delirio e il futile motivo - Note in tema di imputabilità (N) ........
116 1566
LOZZI G., Modalità cronologiche della contestazione suppletiva e diritto di difesa (N) ................................................................................................................
342
LOZZI G., Il giudizio abbreviato (A) .................................................................... MAIORE A.P., Provvedimento di perquisizione e motivazione (A) .......................
449 45
755
— IV — MANDUCHI C., La sentenza Eni-Sai: la Cassazione ritorna ad una concezione soggettiva della qualifica pubblicistica? (N) ..................................................... MANES V., L’atto d’ufficio nelle fattispecie di corruzione (A) ............................. MANTOVANO G., Alcune riflessioni in tema di mutui a tasso fisso, stipulati ante l. n. 108/1996 e superamento nel tempo della misura del tasso soglia (N) .. MAZZINI G., Alcune annotazioni sul delitto di abuso di ufficio: il danno ingiusto, il dolo, la clausola di riserva (N) ................................................................ MIEDICO M., La confessione del minore nella ‘‘sospensione del processo e messa alla prova’’ (A) ............................................................................................. MOSCARINI P., Profili costituzionali della richiesta di procedimento (A) ............. PAGLIARO A., Testo e interpretazione nel diritto penale (A) ................................ PALIERO C.E., La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la ‘‘Parte Generale’’ di un Codice Penale dell’Unione Europea (A) ........................... PEDRAZZI C., Tramonto del dolo? (A) ..................................................................
351 924 1216 801 1292 522 433 466 1265
PIZIALI G., Pluralità dei riti e giudice unico (A) ................................................. RISICATO L., Error aetatis e principio di colpevolezza: un perseverare diabolicum (A) ................................................................................................................ RIVELLO P.P., Una pronuncia della Cassazione che lascia aperti molti interrogativi sull’incompatibilità dei componenti del ‘‘tribunale dei ministri’’ (N) ...
966
RIVELLO P.P., Giudice unico e « legge Carotti » (A) ............................................ ROMANO M., I delitti di rifiuto ed omissione di atti di ufficio (A) ..................... ROXIN C., I compiti futuri della scienza penalistica (A) ..................................... RUGA RIVA C., Principio di affidamento e certificato di omologazione (N) ........
1313 17 3 771
SALCUNI G., Aporie e contraddizioni in tema di colpa professionale (N) ........... SCOPINARO L., Internet e delitti contro l’onore (A) .............................................. SIRACUSANO F., Brevi riflessioni in tema di presentazione delle liste testimoniali (A) ................................................................................................................
1596 617
584 386
1355
SISTEMA SANZIONATORIO E RIFORMA DELLE MISURE ALTERNATIVE MARINUCCI G., Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma (A) ........ PRESUTTI A., Una alternativa in crisi di identità ovvero l’affidamento in prova dopo la legge 27 maggio 1998 n. 165 (A) .................................................. BERNASCONI A., La semilibertà nel quadro della legge 27 maggio 1998 n. 165: aporie e disfunzioni (A) ...............................................................................
160
COMUCCI P., Problemi applicativi della detenzione domiciliare (A) .................... MACCORA V., Le incongruenze della risposta penale all’illegalità: le possibili nuove modifiche all’articolo 656 c.p.p. (A) .................................................
203
178 191
221
LA DEPENALIZZAZIONE DEL 1999 PIERGALLINI C., Il decreto legislativo di depenalizzazione dei reati minori n. 507 del 1999: lineamenti, problemi e prospettive (A) ........................................ DI GIOVINE O., La nuova legge delega per la depenalizzazione dei reati minori tra istanze deflattive e sperimentazione di nuovi modelli (A) ..........................
1378 1407
— V — PIERGALLINI C., Depenalizzazione e riforma del sistema sanzionatorio nella materia degli alimenti (A) ...................................................................................
1450
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO BERNARDI A., La disciplina prevista dal nuovo codice penale francese in tema di criminalità organizzata ................................................................................. FOLLA N., Riflessioni sul nuovo sistema penale sloveno ..................................... GIACCA M., Il patrocinio per i non abbienti nella disciplina italiana e statunitense: due sistemi a confronto ..................................................................... MEZZETTI E., Le cause di esclusione della responsabilità penale nello Statuto della Corte Internazionale Penale ................................................................ MUHM R., Il caso Kohl - Il ruolo del Pubblico Ministero in Germania ..............
237 1025
RAFARACI T., I mezzi audiovisivi nel processo penale tedesco .............................
266
988 644 684
RASSEGNE Giurisprudenza della Corte costituzionale (a cura di M. D’AMICO) ...... 284, 704, 1035, 1525 Progetti di riforma (a cura di C. PIERGALLINI) ..................................................... 293
COMMENTI E DIBATTITI BARTOLI R., L’irrilevanza penale del fatto ............................................................ CAGLI S., Condotta della vittima e analisi del reato ...........................................
1473 1148
EUSEBI L., Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato ............... MANGIONE A., Mercati finanziari e criminalità organizzata: spunti problematici sui recenti interventi normativi di contrasto al riciclaggio ..........................
1053 1102
NOTIZIE Nuovi scenari della psicologia giuridica. Congresso Nazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano, 5-6 ottobre 2000 (C. Liani Giarda) .. Il contraddittorio fra Costituzione e legge ordinaria. XIV Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale - Ferrara, 13-15 ottobre 2000 (A. Camon) .........................................................................................................
1513
1518
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA GUERRINI R., Il contributo concorsuale di minima importanza, Milano, Giuffrè,1997, pp. XIII-250 (L.B.) ....................................................................... PAPA M., Le qualificazioni giuridiche multiple. Contributo allo studio del concorso apparente di norme, Torino, Giappichelli, 1997, pp. 289 (A.C.) ...... AA.VV., Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, a cura di A. Acerbi e L. Eusebi, Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 1-272 (G.F.) ...
312 1553 302
— VI — NOBILI M., Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, CEDAM, 1998 (F.S.) .............................................................................................................
314
SCHIAFFO F., Le situazioni « quasi scriminanti » nella sistematica teleologica del reato. Contributo ad uno studio sulla definizione di struttura e limiti della giustificazione, Napoli, Jovene, 1998, pp. XVIII-365 (F.V.) .......................
1557
AA.VV., Le garanzie della giurisdizione e del processo nel progetto della Commissione bicamerale, Milano, Giuffrè, 1999 (L.M.) ....................................
308
BREDA R., COPPOLA C., SABATTINI A., Il servizio sociale nel sistema penitenziario, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 339 (L.T.) ..................................................
1542
FERRANTE M.L., La circonvenzione di persone incapaci, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 1-287 (F.C.) .................................................................................
311
FONDAROLI D., Illecito penale e riparazione del danno, Milano, Giuffrè, 1999, pp. XIX-605 (M.C.B.) ..................................................................................
1548
PATANÈ V., L’individualizzazione del processo penale minorile, Milano, Giuffrè, 1999 (V.F.) ...................................................................................................
1555
BELLAGAMBA G., CARITI G., I nuovi reati tributari. Commento per articolo al decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, Milano, Giuffrè, 2000, pp. XI-286 (S.T.) ............................................................................................................
1542
CAVALIERE A., L’errore sulle scriminanti nella teoria dell’illecito penale. Contributo ad una sistematica teleologica, Napoli, Jovene, 2000, pp. XV-627 (F.V.) ............................................................................................................
1544
CORSO P. (a cura di), Manuale della esecuzione penitenziaria, Bologna, Monduzzi, 2000, pp. XII-415 (L.B.) ...................................................................
1545
DONINI M. (a cura di), La riforma della legislazione penale complementare, Padova, Cedam, 2000, pp. XVIII-246 (C.M.) .................................................
1546
FIORE S., Ratio della tutela e oggetto dell’aggressione nella sistematica dei reati di falso, Napoli, Jovene, 2000, pp. 162 (L.S.) .............................................
1547
GIACONA I., Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, Giappichelli, 2000, pp. XI-495 (S.L.) ..........................................................
1550
LICCI G., Furto d’uso - Saggio su alcuni profili dell’art. 626 primo comma, n. 1 del codice penale italiano, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 88 (S.L.) .........
1551
MANNA A. (a cura di), Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, Torino, UTET, 2000, pp. XIII-446 (A.C.) ...................................................
1552
MELCHIONDA A., Le circostanze del reato. Origine, sviluppo e prospettive di una controversa categoria penalistica, Padova, CEDAM, 2000, pp. XVIII-822 (R.P.) ............................................................................................................
1552
PECORELLA C., Il diritto penale dell’informatica, Padova, CEDAM, 2000, pp. XII404 (C.R.R.) .................................................................................................
1556
ROMANO B., La tutela penale della sfera sessuale. Indagine alla luce delle recenti norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, Milano, Giuffrè, 2000, pp. 301 (M.T.F.) ................................................................................
1556
VIGANÒ F., Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, Giuffrè, 2000, pp. XIV-601 (L.M.) ...........................................................................................................
1559
GIURISPRUDENZA Abuso d’ufficio — Disciplina sulle perquisizioni - Mancanza della violazione di legge - Il fatto non sussiste (c.p. art. 323; c.p.p. art. 352) (con nota di G. MAZZINI) .........
789
— VII — — Disciplina sulla documentazione dell’attività di polizia giudiziaria - Violazione - Mancanza del danno ingiusto - Il fatto non sussiste (c.p. art. 323; c.p.p. art. 357) (con nota di G. MAZZINI) ......................................................................
789
— Sommarie informazioni della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini - Assenza di dichiarazioni confessorie - Mancanza del danno ingiusto Configurabilità del tentativo - Difetto dell’elemento soggettivo - Il fatto non costituisce reato (c.p. art. 323; c.p.p. art. 350) (con nota di G. MAZZINI) ...
789
— Violazione di norme di legge penale - Possibilità di configurare il reato - Mancanza del danno ingiusto - Il fatto non sussiste (c.p. artt. 323, 582, 594) (con nota di G. MAZZINI) .......................................................................................
789
Circostanze — Futile motivo - Sproporzione tra il movente dell’azione criminosa e la gravità della stessa - Sussistenza (C.p., art. 61, n. 1) (con nota di E. INFANTE) .......
1561
Colpa — Colpa professionale - Imperizia - Omicidio colposo - Nesso di causalità (con nota di G. SALCUNI) ........................................................................................
1592
Concorso di persone nel reato — Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti - Responsabilità per concorso anomalo - Ravvisabilità - Condizioni - Fattispecie: « spedizione punitiva » nel corso della quale uno dei partecipi ha usato un’arma da fuoco (con nota di A. GULLO) ..........................................................................................
1194
Dibattimento penale — Modifica dell’imputazione - Possibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione dopo l’apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale - Sussistenza (C.p.p., artt. 516 e 517) (con nota di G. LOZZI) ........................................................................................................
338
Imputabilità — Vizio di mente - Elementi di valutazione - Lucidità nella preparazione e nell’esecuzione del reato - Normalità della vita relazionale dell’imputato - Esclusione (C.p., artt. 88, 89) (con nota di E. INFANTE) .......................................
1561
— Futile motivo - Sproporzione tra il movente dell’azione criminosa e la gravità della stessa - Sussistenza (C.p., art. 61, n. 1) (con nota di E. INFANTE) .......
1561
Incidente probatorio — Casi - Nuova formulazione dell’art. 392 c.p.p. - Disciplina transitoria prevista dall’art. 6 della l. 7 agosto 1997, n. 267 - Possibilità di richiedere l’incidente probatorio al g.i.p. anche dopo la trasmissione degli atti al giudice del dibattimento - Esclusione (C.p.p. art. 392; l. 7 agosto 1997, n. 267, art. 6 comma 1) (con nota di G. GUCCIONE) ............................................................................
753
Lavoro — Prevenzione infortuni - Destinatari delle norme - Responsabilità del legale rappresentante - Assenza di delega formale - Necessità del riferimento ai compiti attribuiti ed alle concrete mansioni svolte (con nota di F. CENTONZE) ...
364
— Produzione, commercio, consumo - Prodotti alimentari - Detenzione per la vendita di sostanze alimentari invase da parassiti ex art. 5 lett. d) L. 30 aprile 1962 n. 283 - Impresa di rilevanti dimensioni - Responsabilità del legale rappresentante della società - Assenza di delega formale - Necessità di avere riguardo alla predeterminata ripartizione interna dei compiti (con nota di F. CENTONZE) ......................................................................................................
364
— VIII — Omicidio — Omicidio colposo - Colpa professionale - Imperizia - Nesso di causalità (con nota di G. SALCUNI) ........................................................................................ Prove — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Acquisizione dei tabulati del traffico telefonico - Mancanza del provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria - Conseguenze - Inutilizzabilità della prova (Cost. art. 15; C.p.p. art. 266, 267, 271, 191) (con nota di N. APA) ............................................. — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Acquisizione dei tabulati del traffico telefonico - Estensione garanzie - Introduzione nuova disciplina (L. 23 dicembre 1993 n. 547) - Rilevanza dati esteriori conversazioni telefoniche - Sussistenza (Cost. art. 15; C.p.p. artt. 266, 266-bis, 267) (con nota di N. APA) ................................................................................................................
1592
729
729
Reati contro la Pubblica amministrazione — Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio - Enti pubblici economici Membri della giunta esecutiva dell’ENI - Delibera avente un oggetto diverso da quelli attribuiti con la legge istitutiva - Formazione e manifestazione della volontà della Pubblica amministrazione - Qualifica - Sussistenza (C.p., artt. 357 e 358) (con nota di C. MANDUCHI) ......................................................... — Corruzione - Momento consumativo del reato - Continuazione - Configurabilità - Presupposti - Competenza territoriale (C.p., art. 318; c.p.p., art. 16) (con nota di C. MANDUCHI) ....................................................................................
349
Reati contro il patrimonio — Usura - Mutuo - Rilevanza del momento della pattuizione - Liceità degli interessi convenuti - Insussistenza del delitto - Rapporto con le fonti di provvista della banca stipulante (C.p. art. 644) (con nota di G. MANTOVANO) ............
1216
Reati contro l’amministrazione della giustizia — Favoreggiamento personale - Reiterata menzognera negazione, da parte dell’imputato di concorso in omicidio volontario, della propria presenza sul luogo del delitto - Favoreggiamento personale nei confronti del coimputato Configurabilità (con nota di G. FORTE) .........................................................
819
349
Reati contro la persona — Lesioni colpose - Infortunio sul lavoro - Affidamento circa la conformità alle misure di sicurezza di un’autogrù munita di certificato di omologazione ISPESL - Irrilevanza - Sussistenza della colpa (con nota di C. RUGA RIVA) . — Lesioni colpose - Infortunio sul lavoro - Ragionevole opinione della sicurezza di un’autogrù munita di certificato di omologazione ISPESL - Esclusione della responsabilità penale (con nota di C. RUGA RIVA) ........................................ — Omicidio volontario - Omicidio colposo - Equivalenza degli elementi probatori a sostegno dell’una e dell’altra ipotesi di reato - Principio del favor rei Configurabilità dell’omicidio colposo (con nota di G. FORTE) .......................
819
Reati ministeriali — Collegio per i procedimenti relativi a reati ministeriali - Competenza funzionale - Funzione di giudici per l’udienza preliminare - Sussistenza (l. n. 1⁄1989) (con nota di P.P. RIVELLO) .............................................................................
380
768
768
Segreto di Stato — Opposizione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri - Effetti - Limitazioni in via assoluta al compimento di attività d’indagine ed all’esercizio dell’azione penale - Esclusione (con nota di C. BONZANO) ................................
318
— IX — — Nozione di atti e documenti coperti da segreto di Stato - Divieto di acquisizione ed utilizzazione - Ambito di operatività - Inutilizzabilità indiretta - Sussistenza (con nota di C. BONZANO) ................................................................
318
— Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato - Violazione dei doveri di lealtà e correttezza - Illegittima acquisizione di atti e documenti coperti da segreto di Stato - Inosservanza - Effetti - Nullità - Sussistenza (con nota di C. BONZANO) ..............................................................................................................
318
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITA’ STRANIERE Cooperazione internazionale in materia penale (a cura di M. PISANI) — Atti adottati a norma del Titolo VI del trattato sull’Unione europea ............ — Per un autentico spazio di giustizia europeo .................................................
393 393
— ‘‘Ministro della giustizia’’ e cooperazione internazionale ...............................
397
— Ancora sui c.d. mandati di cattura internazionali .........................................
397
— Locus regit actum: in tema di sequestri all’estero in materia bancaria .........
398
— L’impunità e la deterrenza dei Tribunali internazionali .................................
398
— Dalla Croazia: l’impegno della non-consegna (e l’inerzia del Consiglio di sicurezza) ..............................................................................................................
399
— Italia-Sri Lanka: un negoziato per l’estradizione ...........................................
400
— Cooperazione internazionale nella lotta contro le sette .................................
400
— Italia-Spagna: estradizione e « specialità » in tema di ergastolo (il caso Puntorieri) ................................................................................................................
849
— L’art. 25 della nuova Costituzione della Confederazione elvetica ..................
851
— Sulla presenza di operatori stranieri nelle procedure elvetiche di cooperazione internazionale .................................................................................................
852
— Italia-Svizzera: « Brigate rosse », reato politico, terrorismo, estradizione .......
853
— Francia-Spagna: in tema di terrorismo basco .................................................
855
— Il riconoscimento di una sentenza thailandese: il caso Bubani .....................
855
— Una circolare statunitense sul trasferimento dei detenuti .............................. — Nuove regole di cooperazione giudiziaria .......................................................
857 860
— Rogatorie, termini di durata delle indagini preliminari, prescrizione .............
1252
— Il decreto ministeriale di estradizione: natura e modalità temporali .............
1254
— Italia-Spagna: un ‘‘Protocollo di cooperazione’’ e una ‘‘Dichiarazione congiunta’’ ............................................................................................................
1257
— Estradizione e detenzione ingiusta: il nuovo trattato col Paraguay ...............
1259
— La nuova disciplina francese dell’assistenza giudiziaria internazionale .........
1259
— La cooperazione internazionale: un percorso di guerra .................................
1260
— In tema di « paradisi fiscali »: il Liechtenstein ..............................................
1260
— (...) il Principato di Monaco ...........................................................................
1261
— Sulla Corte penale internazionale ................................................................... — Germania: verso la ratifica dello statuto della Corte penale internazionale ..
1262 1262
— Verso una « legge organica » ...........................................................................
1627
— Verso il riconoscimento reciproco delle decisioni penali in ambito europeo ..
1627
— Sul trasferimento all’estero delle persone condannate ....................................
1628
— X — — Argentina: la legge sulla cooperazione internazionale in materia penale ...... — « Insider trading » e non collaborazione ......................................................... — « Insider trading »: in tema di presupposti e condizioni della cooperazione Francia-Svizzera .............................................................................................. — Svizzera-Federazione russa: in tema di cernita e di « utilità potenziale dei documenti sequestrati » ...................................................................................... — Trasferimento a Stati esteri di valori patrimoniali confiscati a Ginevra ........ — Il caso Lojacono: una nuova fase .................................................................. — Lotta al terrorismo e cooperazione internazionale .........................................
1630 1631 1632 1632 1634 1634 1636
LEGGI E DOCUMENTI CAMERA DEI DEPUTATI - Disegno di legge n. 5491, presentato il 4 dicembre 1998 e contenente la ‘‘Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K. 3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997’’ ............................................................................................................ SENATO DELLA REPUBBLICA - Relazione delle Commissioni Permanenti 2a e 3a riunite n. 3915-A, comunicata alla Presidenza il 28 marzo 2000 sul disegno di legge n. 5491 ................................................................................................ SENATO DELLA REPUBBLICA - Testo approvato con modificazioni il 10 maggio 2000 ....
401
402 410
DOTTRINA
I COMPITI FUTURI DELLA SCIENZA PENALISTICA (*)
SOMMARIO: 1. Ringraziamento. — 2. L’unità della scienza del diritto penale. — 3. I compiti futuri della scienza del diritto penale sul piano nazionale. - 3.1. L’elaborazione del diritto nazionale su base internazionale. - 3.2. L’emergere nell’orizzonte della scienza giuridica di nuovi campi d’indagine e lo sviluppo di altri settori divenuti particolarmente importanti. - 3.3. La salvaguardia delle tradizioni liberali ed illuministiche: a) un diritto penale fondato sul criterio del danno sociale; b) il rispetto del principio dell’ultima ratio; c) la salvaguardia dei diritti individuali di libertà. - 3.4. La riforma del sistema sanzionatorio. — 4. I compiti futuri della scienza del diritto penale sul piano sovranazionale. - 4.1. Lo sviluppo dogmatico del diritto penale internazionale. - 4.2. Abbiamo bisogno di un codice penale per l’Europa o per l’Unione europea? - 4.3. Abbiamo bisogno di un codice penale europeo ‘modello’? - 4.4. Possibili oggetti di una legislazione penale europea: a) gli interessi economici e finanziari dell’Unione europea; b) la lotta alla criminalità trasnazionale. - 4.5. L’elaborazione di un manuale internazionale di diritto penale. — 5. Conclusioni.
1. Ringraziamento. — Per iniziare, un vivissimo grazie. La laurea che oggi mi viene conferita segna, a coronamento di un lavoro svoltosi nell’arco di decenni, uno tra i momenti più significativi per la vita di ogni studioso. Ci sono diversi modi di progettare la propria esistenza. Molti uomini mirano al potere, alla ricchezza, o anche solo ad una vita serena. Per il professore ideale, come io lo immagino, tutto questo passa in secondo piano. Il suo scopo è quello di operare nel mondo attraverso il pensiero e la parola e, se per avventura questo professore è uno studioso del diritto penale, quello di apportare un proprio contributo alla realizzazione di una convivenza sociale sicura, pacifica e libera. E se poi la sua fatica trova un’eco al di fuori dei confini del suo Paese e viene onorata con un riconoscimento come quello che oggi mi viene attribuito, tutto ciò diventa il premio più bello per il suo lavoro, anche se lui è ben conscio che il premio è sproporzionato ai suoi eventuali meriti: perché il progresso internazionale della nostra scienza è il frutto del lavoro comune di molti, al quale il singolo può apportare soltanto un modesto contributo. 2. L’unità della scienza del diritto penale. — Per questo io sono convinto, per quanto grande sia ora il sentimento della mia personale feli(*) Lo scritto riproduce la Lectio magistralis letta dall’Autore il 23 ottobre 1998, in occasione della Laurea honoris causa in Giurisprudenza da parte della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano.
— 4 — cità, che il riconoscimento che oggi mi viene attribuito abbia anche, e soprattutto, un significato sovraindividuale. Questa laurea diviene il simbolo del lavoro collettivo internazionale che caratterizza la nostra scienza, e al tempo stesso testimonia che noi stiamo lavorando ad un’opera comune. Una tale constatazione era, in passato, ben lungi dal suonare ovvia. All’epoca dell’assolutismo, e ancora nell’età del nazionalismo ottocentesco, il diritto era inteso, quanto meno dalla prassi, come un insieme di norme di rilievo esclusivamente interno, adottate in base ai particolari rapporti di potere ed interesse propri di una data società; ed appunto per questa estrema varietà del suo oggetto, dipendente spesso dalle casualità della storia, si arrivò a volte a negare alla giurisprudenza la dignità di scienza. Già Pascal si meravigliava della stranezza di una scienza per la quale la verità era diversa al di qua e al di là dei Pirenei (1); ed una prolusione, ancor oggi celebre in Germania, pronunziata nel 1847 dal procuratore generale di Berlino sul tema ‘‘La mancanza di valore scientifico della giurisprudenza’’ (2), fondava la sua tesi centrale sull’osservazione, divenuta poi un luogo comune, secondo cui ‘‘tre parole del legislatore, e intere biblioteche diventano carta straccia’’. La scienza è tensione verso l’unica verità, quindi non può esservi scienza dove coesistono più verità, che possono per di più in ogni momento essere modificate dagli uomini politici: questo è il nucleo essenziale di quella obiezione. L’obiezione è suggestiva, ma erronea: e sotto un duplice profilo. In primo luogo, l’oggetto della scienza del diritto penale è molto più omogeneo di quanto tale obiezione non suggerisca; in secondo luogo, la diversità delle norme nazionali non scalfisce l’unità della scienza del diritto penale. Voglio illustrare brevemente queste due tesi, che costituiscono il fondamento di quelli che saranno i futuri compiti europei, ed anzi mondiali, della scienza del diritto penale. Inizierò con l’unità di oggetto della scienza penalistica. La criminalità è un fenomeno presente in forme assai simili in tutti gli Stati industriali moderni. Le decisioni circa le condotte da sottoporre a sanzione penale non sono affatto arbitrarie, ma vengono in larga misura preparate dallo studio scientifico dei presupposti indispensabili per una convivenza sociale libera e sicura. Questo fenomeno è ben noto per quanto concerne i reati ‘‘classici’’ che costituiscono il nucleo del diritto penale: ogni società che non voglia precipitare nel caos non può non punire l’omicidio, il furto, la violenza sessuale, il sequestro di persona e molte altre condotte che non possono essere tollerate se non a costo di distruggere il sistema (1) PASCAL lo scrisse già nel 1670 (Pensées, ed. E. Wasmuth, 8a ed., 1978, frammento 294: ‘‘Curiosa giustizia, quella che è delimitata da un fiume. Vérité au deçà Pyrénées, erreur au delà’’). (2) La prolusione — in seguito più volte ristampata — fu pubblicata per la prima volta nel 1848. Il passo citato si trova a pag. 17 di quell’edizione.
— 5 — sociale, la cui conservazione costituisce la ragion d’essere del diritto penale. Ma le stesse considerazioni valgono per norme penali nuove e in misura maggiore o minore ‘‘senza storia’’. Chi voglia combattere efficacemente, su scala internazionale, la criminalità organizzata non può fare a meno di reprimere penalmente il riciclaggio; come debba poi essere concretamente configurata la relativa norma incriminatrice per risultare il più possibile efficace è a tutt’oggi un problema centrale, ancora irrisolto dalla scienza penalistica di ogni Paese. Analoghe questioni si pongono in ordine alla prevenzione dei danni ambientali, che solo negli ultimi decenni hanno raggiunto un livello di intensità tale da risultare socialmente dannosi; anche in questo settore gli strumenti penalistici disponibili sono ancora insufficienti, e il loro affinamento rappresenta uno dei compiti con i quali gli studiosi di ogni Paese devono confrontarsi. L’unità sovranazionale del diritto penale non emerge, però, unicamente con riguardo alla configurazione delle fattispecie astratte di reato. Anche le categorie della teoria generale del reato costituiscono oggetto di studio, a livello mondiale, da parte di ogni dottrina penalistica che abbia raggiunto un certo grado di sviluppo. Istituti come la legittima difesa o lo stato di necessità svolgono necessariamente una funzione in ogni ordinamento giuridico, dal momento che le ‘‘situazioni di vita’’ che ne hanno determinato la nascita si presentano ovunque. Lo studioso che rivolga il proprio sguardo ad un sistema così estraneo alle categorie tipiche dell’Europa continentale come quello penalistico nordamericano constaterà che anche in quell’ordinamento, nel capitolo dedicato alle cosiddette defences, sono affrontate le medesime questioni giuridiche che si pongono ai penalisti italiani e tedeschi (3). Parimenti, problemi come la causalità e l’imputazione obiettiva, il dolo, la colpa e l’errore, gli atti preparatori, il tentativo e il recesso, o ancora la punibilità dell’omissione, si pongono ovunque e non costituiscono certo problemi specificamente nazionali. È senz’altro vero, d’altra parte, che i problemi relativi alle singole figure di reato e alle categorie della parte generale non vengono risolti in maniera identica in ogni Paese. Ma anche questa constatazione — e con ciò giungo alla seconda delle tesi prima enunciate — non pone in discussione il carattere universale delle acquisizioni della scienza penalistica. Certo, i problemi sollevati dall’aborto, dal consumo di droga, dall’eutanasia e — per ciò che concerne la parte generale — le questioni della punibilità del tentativo inidoneo e del reato omissivo improprio trovano risposte differenti negli ordinamenti positivi dei vari Paesi. Tuttavia — ed è questo il dato essenziale — i problemi sono gli stessi; e gli argomenti che possono essere invocati in favore dell’una o dell’altra soluzione sono non solo nu(3) 1999.
Sul punto, cfr. STAUDER, Die allgemeinen defenses des New York Penal Law,
— 6 — mericamente limitati, ma hanno valore anche al di là dei confini nazionali e su di essi — a prescindere da ogni sforzo politico di assimilazione tra i diversi ordinamenti — può formarsi un consenso generalizzato in grado di favorire l’introduzione di normative identiche o quanto meno simili: un fenomeno, del resto, già oggi caratteristico di ampi settori del diritto penale, in molte parti del mondo. Non possiamo tuttavia dimenticare che i presupposti politici, sociali e culturali non sono identici ovunque e, soprattutto, non lo sono in ogni settore giuridico. Una tale identità non risulterebbe neppure auspicabile, dal momento che la ricchezza e le potenzialità della civiltà europea e mondiale presuppongono che sia lasciato spazio alle tradizioni specifiche di ogni Paese. Ai fini di una scienza sovranazionale del diritto penale tutto ciò significa che gli argomenti con i quali lavorare insieme per la soluzione dei compiti comuni non avranno necessariamente lo stesso peso in ogni Paese. Piuttosto, è evidente che i diversi presupposti storici e socioculturali potranno talvolta incidere sul ‘‘peso’’ dei singoli argomenti giuridici da mettere sul piatto della bilancia, onde è ben possibile che i singoli Paesi pervengano a soluzioni differenziate di un unico problema giuridico, le quali purtuttavia rappresentino il diritto ‘‘giusto’’ nell’ambito di ogni Paese. Esistono, in effetti, diverse ‘‘verità’’; ma questo non toglie nulla al carattere universale dei metodi scientifici che conducono alla loro scoperta. Anche al di fuori del diritto penale, ogni regolamentazione sociopolitica che aspiri ad essere efficace non può tralasciare di considerare le peculiarità dei singoli Paesi. 3. I compiti futuri della scienza del diritto penale sul piano nazionale. — Quanto sinora esposto può essere concretizzato, per ciò che concerne i futuri compiti della scienza del diritto penale sul piano nazionale, nei seguenti quattro punti. 3.1. L’elaborazione del diritto nazionale su base internazionale. — Il diritto penale del futuro, anche quando si occuperà dell’interpretazione e dell’evoluzione del diritto nazionale, si dovrà sviluppare necessariamente su base internazionale, come del resto già avviene in Italia in misura ragguardevole. La semplice circostanza che ogni penalista, affrontando lo studio di un determinato problema, consideri oggi non soltanto la tradizione e lo stato della dottrina del proprio Paese, ma attinga altresì alla più ampia ‘‘riserva’’ di argomenti desunti dal diritto penale degli altri Paesi, farà sì che le leggi penali e la loro interpretazione ad opera della dottrina e della prassi si evolvano nella direzione di un graduale avvicinamento tra i diversi sistemi penali. Nel dialogo scientifico, infatti, gli argomenti migliori tendono alla fine a prevalere. Ho già chiarito come un tale processo di assimilazione reciproca non impedisca che vengano conservate qua e là peculiarità nazionali.
— 7 — 3.2. L’emergere nell’orizzonte della scienza giuridica di nuovi campi d’indagine e lo sviluppo di altri settori divenuti particolarmente importanti. — Il compito futuro del diritto penale dovrà consistere, da un lato, nello studio scientifico di nuovi campi d’indagine connessi allo sviluppo della civiltà mondiale, come ad esempio il diritto penale dell’informatica e dell’ambiente, ovvero i problemi dell’approccio penalistico alla criminalità economica, alla tecnologia genetica, ai trapianti. Dall’altro lato, la scienza del diritto penale dovrà non soltanto migliorare, grazie alle sue sempre maggiori conoscenze, il complesso delle norme penali tradizionali, ma dovrà altresì promuoverne lo sviluppo assecondando i bisogni della società moderna. La scienza giuridica del XIX secolo poteva ancora trascurare l’emergere dei peculiari problemi giuridici sollevati dai delitti colposi, ovvero dai reati di pericolo rispetto ai reati di danno; ma in un’epoca in cui una svista tecnica può provocare una catastrofe e un solo prodotto difettoso può cagionare danni alla salute di centinaia di migliaia di persone, anche il baricentro dell’opera della scienza penalistica dovrà necessariamente essere riorientato tenendo conto di una tale mutata situazione. 3.3. La salvaguardia delle tradizioni liberali ed illuministiche. — Si badi: anche in futuro la dottrina penalistica dovrà salvaguardare le fondamenta spirituali sulle quali è sorto il diritto penale moderno. Da un punto di vista storico, la scienza giuridica dell’Europa continentale ha un debito decisivo verso quella italiana: non solo per quanto riguarda la recezione del diritto romano, così come rielaborato nell’Italia del Nord, ma anche, nel diritto penale, per quanto riguarda l’influenza del pensiero illuministico. Il libricino ‘‘Dei delitti e delle pene’’ di Beccaria viene ancor oggi continuamente ristampato in Germania (4). Non soltanto questo libro ha profondamente influenzato la scienza penalistica tedesca del XVIII secolo, ma ancora ai giorni nostri ha ispirato il Progetto Alternativo del 1966 (5) — alla cui redazione io stesso ho partecipato — e le successive leggi di riforma del diritto penale. Espressi con concetti moderni, tre sono i capisaldi del pensiero giuridico illuministico che ancor oggi posseggono inalterata vitalità. a) Un diritto penale fondato sul criterio del danno sociale. — Il primo caposaldo consiste nell’idea che compito del diritto penale non è la promozione della morale, della religione, ovvero di una determinata ideologia o visione del mondo, ma in via esclusiva la salvaguardia della sicu(4) L’opera è, ad esempio, oggi pubblicata in Germania nell’edizione Insel Taschenbuch n. 2166, 1998 (trad. a cura di WILHELM ALFF). (5) Il progetto è stato pubblicato nel 1966 e — come volume autonomo — nel 1969, ed ha sensibilmente influenzato la nuova parte generale del codice penale tedesco, entrata in vigore il 1o gennaio 1975.
— 8 — rezza individuale e della pace sociale (6) — di una pace, peraltro, che presuppone una misura sufficiente di giustizia sociale. La limitazione del diritto penale a compiti di controllo sociale è al tempo stesso un fattore unificante a livello internazionale, poiché si ha a che fare con esigenze razionali, sulle quali un comune consenso è molto più facile da raggiungere che non su principi morali o religiosi, riservati — nelle moderne società pluralistiche — alle scelte individuali. Il postulato che il diritto penale debba occuparsi soltanto di condotte socialmente dannose, e non di condotte moralmente riprovevoli, dovrà pertanto informare di sé, come già oggi accade, il diritto penale del futuro. b) Il rispetto del principio dell’ultima ratio. — In secondo luogo, ci si dovrà mantenere fedeli al principio che il diritto penale è un’arma a doppio taglio, che può certo operare sulla società in senso stabilizzante, ma che al tempo stesso è in grado di danneggiare gravemente, se non addirittura di distruggere, la vita dell’imputato (e a volte anche di colui che poi viene riconosciuto innocente) e della sua famiglia. Sotto questo secondo profilo il diritto penale interviene sul tessuto sociale come un fattore di disintegrazione, che non solo non contribuisce a prevenire la criminalità, ma addirittura la favorisce presso i gruppi socialmente emarginati. Pertanto, la pena deve rappresentare sempre la forma estrema della risposta statale, l’ultima ratio della politica sociale. Anche questa è una verità antica (7), che tuttavia il legislatore sovente trascura, ancora ai giorni nostri. E tuttavia grande è il suo significato per il futuro: l’aborto, la tossicodipendenza o la violenza degli hooligans spesso possono essere combattuti più efficacemente con misure sociali che non ricorrendo al diritto penale. Parimenti, danni ambientali o danni da prodotti difettosi si possono prevenire assai meglio attraverso controlli amministrativi preventivi che non con la minaccia di sanzioni ex post. Per quanto paradossale ciò possa suonare, uno dei compiti futuri della scienza del diritto penale sarà pertanto quello di lavorare per la sostituzione, o almeno per la limitazione, dell’intervento del diritto penale a vantaggio di migliori soluzioni di politica sociale. c) La salvaguardia dei diritti individuali di libertà. — In terzo luogo, irrinunciabile è l’idea, risalente anch’essa all’epoca dell’Illuminismo, che il miglior diritto penale possibile non è un sistema repressivo perfetto, ma è un insieme di norme in grado di conciliare un efficiente (6) Il Progetto Alternativo, citato alla nota precedente, ha espresso tale principio in forma programmatica nei termini seguenti: ‘‘Pene e misure di sicurezza servono alla tutela dei beni giuridici...’’. Sul punto, cfr. ampiamente ROXIN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, 3a ed., 1997, § 2, n. 1 ss. (7) Sulla sussidiarietà della tutela penale dei beni giuridici si veda ROXIN, Strafrecht, cit., § 2, n. 38 ss. (con ulteriori richiami).
— 9 — controllo sociale con il massimo grado di libertà individuale dei cittadini. I diritti fondamentali dell’uomo, formulati per la prima volta in termini giuridici nel XVIII secolo, costituiscono oggi — per quanto il loro contenuto non sia dappertutto incontroverso — la base comune di ogni legislazione penale progredita, e così dovrà continuare ad essere nel futuro. Si potrebbe pensare che tutto ciò sia tanto ovvio da non meritare alcuna particolare sottolineatura. Ma la realtà è ben diversa, come dimostra anche solo la giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo. E non solo: la legislazione tedesca dell’ultimo ventennio evidenzia ad esempio una tendenza ad intromissioni sempre più intense nella sfera privata non soltanto delle persone sottoposte ad indagine, ma anche di persone non sospettate con le quali gli indagati possano avere contatti. Questa tendenza ha raggiunto quest’anno il culmine, per ora, con l’introduzione della seconda legge sulle intercettazioni ambientali, che consente allo Stato di intercettare le conversazioni più intime che si svolgono nei domicili privati (8); e già si sostiene, a livello politico, l’opportunità di autorizzare una sorveglianza ottica globale. Non posso qui sviluppare ulteriormente le mie osservazioni critiche in proposito; ma mi preme sottolineare che anche nel futuro un compito essenziale della dottrina penalistica sarà quello di vigilare sulla salvaguardia dei fondamenti liberali del diritto penale, tra i quali va collocato — accanto alla tutela del complesso dei diritti del cittadino contro gli arbitri del potere statale (9) — anche il riconoscimento di una sfera privata della persona, nella quale sia vietata ogni intromissione da parte dello Stato (10). Non è esatto ritenere che la moderna criminalità possa essere combattuta soltanto con i metodi propri di uno Stato di polizia. Proprio i metodi di indagine con l’ausilio del computer, elaborati negli ultimi anni (11), e le tecniche di ricerca della prova che sono state spalancate dai progressi della genetica molecolare (12) mettono a disposizione degli inquirenti, nella lotta contro la criminalità, armi la cui efficacia supera di gran lunga quella dei vecchi metodi criminalistici. Tre sono dunque le eredità del passato che dovranno restare ancora le colonne portanti nella costruzione del diritto penale del futuro: l’orientamento al criterio del danno sociale, il principio dell’ultima ratio e la sin(8) La normativa è collocata nei §§ 100 c I n. 2, 100 d II, III del codice di procedura penale tedesco, ed è stata introdotta mediante la legge sul miglioramento della lotta alla criminalità organizzata del 4 maggio 1998. Sul punto, si veda ROXIN, Strafverfahrensrecht, 25a ed., 1998, § 10, n. 24 a con ulteriori riferimenti. (9) Sul punto, cfr. ROXIN, Gegenwart und Zukunft der Verteidigung im rechtstaatlichen Strafverfahren, in Festschrift für E.W. Hanck, 1999, pp. 1-25. (10) Sul punto, cfr. ROXIN, Involountary Self-Incrimination and the Right to Privacy in Criminal Proceedings, in Israel Law Review, vol. 31, 1997, pp. 74-93. (11) Si veda, sul tema, ROXIN, Strafverfahrensrecht, cit., § 10, n. 17 ss. (12) Tecniche oggi disciplinate nei §§ 81 e, f, g (introdotti con la legge di riforma del processo penale del 17 marzo 1997). Sul punto, si veda ROXIN, Strafrecht, § 33, n. 7.
— 10 — tesi tra efficacia dell’intervento punitivo e la salvaguardia del massimo grado di libertà dei cittadini. 3.4. La riforma del sistema delle sanzioni. — C’è poi un ulteriore compito della scienza del diritto penale, per la cui soluzione il passato non può esserci utile (13). Esso consiste nell’elaborazione di un nuovo sistema sanzionatorio. L’introduzione della pena detentiva al posto della pena di morte e delle pene corporali rappresentò, in origine, un grande progresso. Oggi, tuttavia, la pena detentiva è superata, fuorché per i delitti più gravi. Infatti, lacerando i legami sociali, creando un ambiente radicalmente diverso e semplificato rispetto alle relazioni di vita proprie del mondo libero, la pena detentiva rappresenta un fattore che tende ad incrementare anziché a prevenire la criminalità. D’altra parte il tentativo di un’esecuzione della pena ispirata a criteri di umanità e di risocializzazione del condannato, che sino ad oggi non è mai stato coronato da pieno successo, si scontra con forti resistenze politiche motivate dai suoi alti costi finanziari. Senza contare, poi, che la capacità delle nostre carceri di accogliere detenuti è assolutamente inadeguata al numero dei condannati. In Germania, per tale motivo, solo il 5-8% dei condannati sconta effettivamente la pena detentiva (14). Al suo posto è subentrata in larga misura la pena pecuniaria, che da noi copre oggi più dell’80% di tutte le condanne. Essa evita i difetti della pena detentiva pur mantenendone il carattere afflittivo, dal momento che determina un abbassamento del tenore di vita del condannato. Ciò spiega il suo successo. Tuttavia non può tacersi che la pena pecuniaria è inadeguata per molti gravi reati (specie violenti) e per molti autori (specie se nullatenenti), spesso non è suscettibile di esecuzione forzata, e la sua efficacia è facilmente annullata dal sostegno offerto al condannato da parenti ed amici. Abbiamo bisogno, pertanto, di un significativo ampliamento della gamma delle sanzioni, che ci consenta di adeguare le conseguenze giuridiche più efficacemente di quanto non sia accaduto sinora alle caratteristiche individuali dell’autore, alla sua condizione sociale e agli interessi della vittima — interessi prioritari per il ristabilimento della pace sociale. Non è necessario che io mi soffermi oltre nel sottolineare che proprio la realizzazione di un nuovo sistema sanzionatorio socialmente costruttivo e variamente sfaccettato dovrà tener conto delle acquisizioni scientifiche e delle (13) La globale riforma del sistema sanzionatorio è uno dei compiti all’ordine del giorno per il legislatore tedesco. (14) Sulla ripartizione tra pena detentiva e pena pecuniaria in Germania, cfr. GÖPPINa a GER, Kriminologie, 5 ed., 1997, p. 735 ss.; KAISER, Kriminologie - Ein Lehrbuch, 3 ed., a 1996, § 93, n. 36; ID., Kriminologie, 10 ed., 1997, § 44; SCHÖCH, Gutachten zum 52. DJT, C 20 ss.
— 11 — esperienze della prassi del mondo intero. È chiaro infatti che ciò che si è sperimentato con successo in un Paese può risultare efficace anche in altri Paesi, sempreché sussistano condizioni sociali analoghe. Tutto ciò che ho esposto all’inizio sull’unità sovranazionale del diritto penale in tema di presupposti della punibilità vale pertanto, allo stesso modo, per le conseguenze giuridiche della condotta punibile. Non mi è qui possibile scendere nei dettagli di un futuro sistema sanzionatorio; ho già parlato di questo tema l’anno scorso a Salerno (15) e non voglio ripetermi. Consentitemi soltanto di dire che il non luogo a procedere subordinato all’inflizione di sanzioni non penali, l’ampliamento delle ipotesi di sospensione condizionale della pronuncia della condanna o dell’esecuzione della pena, il lavoro socialmente utile, il ritiro della patente come pena autonoma anche per reati diversi da quelli della circolazione stradale, la detenzione domiciliare con sorveglianza elettronica, sanzioni ad hoc nei confronti delle persone giuridiche per la criminalità economica e, soprattutto, l’inclusione nel sistema sanzionatorio del risarcimento del danno e delle ulteriori forme di indennizzo in favore della vittima (con effetto di attenuazione della pena, di sospensione condizionale o addirittura di esclusione della punibilità) porranno la scienza del diritto penale, nei prossimi decenni, di fronte a grandi compiti. 4. I compiti futuri della scienza del diritto penale sul piano sovranazionale. — E con questo giungo all’ultima parte della mia esposizione. Tenuto conto dei compiti comuni che si pongono a molti ordinamenti giuridici nazionali e alla luce dei processi già in corso di reciproca assimilazione, abbiamo davvero bisogno di leggi penali mondiali, o quantomeno di un codice penale comune per l’Europa? O che cos’altro può favorire la cooperazione internazionale della scienza penalistica? Le possibilità sono molte; posso schematicamente sottoporne ad esame critico solo alcune. 4.1. Lo sviluppo dogmatico del diritto penale internazionale. — Un codice penale mondiale dovrà essere elaborato, in un futuro non troppo lontano, nel campo del diritto penale internazionale. Infatti il Tribunale penale internazionale, la cui istituzione è prossima, alla lunga non potrà operare con le poche e vaghe fattispecie delittuose che sono emerse dalla giurisprudenza del Tribunale di Norimberga nel solco del diritto internazionale consuetudinario (16). È senza dubbio necessario che siano puniti fatti come il genocidio o i crimini contro l’umanità, non importa se com(15) La conferenza, in versione rielaborata e tradotta in lingua tedesca, è stata pubblicata con il titolo Hat das Strafrecht eine Zukunft? nella Gedächtnisschrift für H. Zipf, 1999, p. 135 ss. (16) Nell’ambito della letteratura tedesca sul tema si vedano, in particolare, due lavori: WERLE, Menschenrechtsschutz durch Völkerstrafrecht, in ZStW, 1997, p. 809 ss.; JE-
— 12 — messi durante conflitti fra Stati o guerre civili. Infatti l’efficacia preventiva di un diritto penale internazionale funzionante è maggiore di quella di un diritto penale nazionale, perché ben difficilmente l’autore potrà confidare nell’impunità. Ciò potrebbe rappresentare un passo decisivo sulla via della realizzazione dell’antichissimo sogno dell’umanità di una pace perpetua. Fattispecie come quelle menzionate sono tuttavia elastiche e imprecise e non soddisfano il principio di determinatezza, che da lungo tempo è universalmente accolto nel diritto penale dei singoli Stati. Sono fattispecie che si prestano, pertanto, a strumentalizzazioni politiche e non solo non impediscono, ma possono addirittura produrre conflitti internazionali. Ciò spiega anche lo scarso entusiasmo sinora dimostrato da alcuni Stati nei confronti dell’istituzione di un Tribunale penale internazionale. Questa sfiducia potrà essere sconfitta solamente attraverso l’elaborazione di norme di diritto penale internazionale precise e in grado di essere unanimemente condivise. Per la scienza penalistica, che su questo terreno dovrà cooperare con il diritto internazionale, si schiude qui un campo di lavoro completamente nuovo. È chiaro infatti che le fattispecie delittuose non potranno essere quelle medesime già presenti nel diritto penale dei singoli Stati e dovranno quindi, per buona parte, essere create ex novo o comunque riformulate in maniera incisiva. Sarà altresì necessario giungere ad una codificazione del diritto processuale destinato ad essere applicato da tale Tribunale. 4.2. Abbiamo bisogno di un codice penale per l’Europa o per l’Unione europea? — La prospettiva di un codice penale per la criminalità comune, valido per tutta l’Europa o anche soltanto per l’Unione Europea, mi sembra invece ancora molto lontana. Com’è noto, le autorità europee non hanno a tutt’oggi alcuna competenza ad emanare norme penali; ed una tale competenza ben difficilmente potrà essere loro riconosciuta per gli ostacoli di ordine costituzionale frapposti dai singoli Stati. A parte questo, nel breve periodo non mi sembra nemmeno auspicabile un codice penale europeo (17). Tutto ciò che gli ordinamenti europei già hanno in comune e possono ulteriormente sviluppare — e ho già detto SCHECK, Zum Stand der Arbeiten der Vereinten Nationen für die Errichtung eines internatio-
nalen Strafgerichtshofs, in Festschrift für Nishihara, 1998, p. 437 ss. (17) Le opinioni sul punto, nell’ambito della letteratura in lingua tedesca, sono discordi. In favore della creazione di una parte generale del diritto penale è DANNECKER, Der Allgemeine Teil eines europäischen Strafrechts als Herausforderung für die Strafrechtswissenschaft, in Festschrift für Hirsch, 1999, p. 141 ss. Orientati in senso contrario: WEIGEND, Strafrecht durch internationale Vereinbarungen - Verlust an nationaler Strafrechtskultur?, in ZStW, 1993, p. 774 ss.; RÜTER, Harmonie trotz Dissonanz, in ZStW, 1993, p. 30 ss. In generale, sul tema: KÜHL, Europäisierung der Strafrechtswissenschaft, in ZStW, 1997, p. 777 ss.; VOGEL, Wege zu europäisch-einheitlichen Regelungen im allgemeinen Teil des Strafrechts, in JZ, 1995, p. 331 ss.
— 13 — che non è poca cosa — può essere realizzato anche nel quadro della legislazione penale nazionale. È infatti nell’ambito del diritto penale nazionale, in continua evoluzione, che dobbiamo ricercare le soluzioni di volta in volta migliori, che allo stato attuale della cultura penalistica non sono raggiungibili con l’aiuto di un codice penale unitario. Ho già dimostrato che una certa misura di diversità nazionali non solo è propria delle più feconde tradizioni europee, ma può anche rispondere a concrete esigenze giuridiche. Il livellamento di ogni differenza rientra da tempo immemorabile tra i pericoli caratteristici del centralismo, che si lasciano già osservare qua e là nell’attività delle autorità europee. Inoltre, un codice penale unitario redatto nel prossimo futuro non codificherebbe le soluzioni migliori, ma sarebbe necessariamente espressione di compromessi politici. Simili compromessi sono per lo più cattive soluzioni, perché su di esse determinati gruppi di potere hanno un peso maggiore della competenza scientifica, e perché dalle reciproche concessioni politiche spesso emergono norme contraddittorie e per di più peggiori delle norme contenute nei modelli di soluzione poi confluiti nel compromesso. Per queste ragioni mi sembra più opportuno mantenere, per lo meno nei prossimi decenni, una sorta di libera concorrenza fra gli ordinamenti penalistici nazionali, nei quali è comunque ravvisabile una tendenza ad una progressiva reciproca assimilazione. E dove le persistenti diversità non siano giustificate da particolari circostanze culturali o sociali, là si apriranno spazi per una sperimentazione che potrà condurre all’individuazione della soluzione migliore. In una parola: lo sviluppo graduale di un ordinamento penalistico europeo è da preferire alla imposizione centralistica di una codificazione unitaria. 4.3. Abbiamo bisogno di un codice penale europeo ‘modello’? — Un’altra questione è se si possa creare un ‘modello’ di codice penale non vincolante sul piano legislativo, dal quale gli Stati europei — e se del caso anche gli altri Stati — possano trarre ispirazione per la legislazione interna (18). Una tale soluzione ha dei precedenti nel nord e nel sud America, e anche il Consiglio d’Europa sta valutando tale prospettiva. Peraltro ogni istituzione, ogni gruppo di lavoro scientifico e anche ogni singolo professore è già libero di progettare un tale ‘modello’ di codice penale (19). Verosimilmente però un progetto di questo tipo acquisirebbe (18) La questione è risolta affermativamente da SIEBER, Memorandum für ein Europäisches Modellstrafgesetzbuch, in JZ, 1997, p. 364 ss. Sul punto, si veda anche la letteratura citata alla nota precedente. (19) Notevole è ad esempio, in questo senso, il lavoro di TIEDEMANN, Die Regelung von Täterschaft und Teilnahme im europäischen Strafrecht, in Festschrift für Nishihara, 1998, p. 496 ss.
— 14 — una certa autorità solo nel caso in cui venisse commissionato dalle comunità europee, e proprio su questa possibilità voglio concentrare le mie brevi riflessioni. Sono scettico anche riguardo a questa ipotesi. Molte delle obiezioni che sono state mosse contro una codificazione penale europea valgono anche contro un ‘modello’ unitario non vincolante. Troppo dipenderebbe dalla composizione della commissione incaricata di redigere tale modello e troppo dipenderebbe anche da influssi politici anziché scientifici. Ma soprattutto: un tale modello non è affatto necessario. Molti paesi europei si sono dotati negli ultimi dieci anni di codici penali totalmente o parzialmente nuovi e quindi hanno tenuto conto ovviamente dello stato della conoscenza scientifica europea e di quello dei principali Stati extra-europei. Non riesco ad immaginare quale importante nuovo bagaglio di conoscenze potrebbe offrire ai legislatori nazionali un ‘modello’ unitario di codice penale, di certo significativamente più povero rispetto all’attuale varietà e ricchezza dell’ ‘offerta’ internazionale. 4.4.
I possibili oggetti di una legislazione penale europea (20).
a) Gli interessi economici e finanziari dell’Unione europea. — Innanzitutto gli interessi economici e finanziari dell’Unione europea necessitano di una speciale protezione penalistica, che dovrebbe ragionevolmente essere la stessa in tutti gli Stati membri. L’Unione europea già oggi tenta di raggiungere questo obiettivo, ma attraverso strade diverse e non chiare: attraverso la previsione di sanzioni di stampo amministrativo, che malgrado le evidenti somiglianze non hanno il carattere di sanzione penale; attraverso convenzioni e trattati vincolanti i singoli membri, attraverso direttive e attraverso la richiesta di un’interpretazione ‘‘filoeuropea’’ delle norme penali nazionali. Questo garbuglio di regolamentazioni e richieste, che in parte devono ancora essere attuate dai Parlamenti e dai Tribunali nazionali, ha bisogno di essere riconosciuto dalla scienza penale come un autonomo settore giuridico che va sistematizzato e trattato in modo tale che esse vengano incorporate negli ordinamenti giuridici nazionali col medesimo contenuto, ed interpretate in modo uniforme dalla prassi giudiziaria. b) La lotta alla criminalità trasnazionale. — Lo stesso vale per quei delitti che, essendo frequentemente commessi su scala sovranazionale, possono essere combattuti efficacemente solo attraverso una cooperazione internazionale: mi riferisco, ad esempio, alla diffusione di pornografia infantile e di propaganda razzista su reti informatiche internazionali, ai delitti contro l’ambiente che danneggiano anche Stati confinanti, al terrori(20) Sui temi che saranno di seguito trattati sub a) e b) si veda la letteratura citata alle note 17 e 18.
— 15 — smo internazionale e al commercio di sostanze stupefacenti. La diversità di normative e di intensità nella repressione penale nei singoli Stati creano per tali reati — anche per esempio nell’ambito della frode e dell’evasione fiscale — delle oasi di criminalità, che possono rendere difficile o impossibile una lotta contro tali reati a livello meramente nazionale. In quest’ambito si è già compiuto qualche passo verso una maggiore uniformità, soprattutto ad opera del Consiglio d’Europa. Ma la dottrina non deve lasciare ai politici questi settori: essa deve anzi collaborare attivamente in direzione di una maggiore uniformità su basi europee. Con il tempo si creerà un nucleo di norme comuni, che potrebbe essere ampliato gradualmente e potrebbe costituire un seme per il futuro sviluppo degli ordinamenti penalistici europei. 4.5. L’elaborazione di un manuale internazionale di diritto penale. — Infine, intravvedo ancora un compito per la scienza penalistica, al quale può essere dato il via senza l’aiuto della politica. Abbiamo bisogno di un manuale internazionale di diritto penale — naturalmente in più volumi — nel quale sia spiegato, confrontato e interpretato il diritto penale di tutti gli Stati europei e anche dei più importanti Stati extra-europei. Esso dovrebbe includere l’insieme delle norme e del pensiero penalistico contemporaneo e al tempo stesso dar conto delle prassi giurisprudenziali e delle opinioni dottrinali più autorevoli, confrontando in una prospettiva sovranazionale, soppesandoli in termini di politica del diritto, i vantaggi e gli svantaggi dei diversi punti di vista teoretici e della loro applicazione pratica nei vari Paesi. Qualora poi, in sede di confronto, emergessero discordanze nella valutazione dei pregi e dei difetti dei diversi modelli di soluzione, ciò dovrà essere posto ben in evidenza, previa esposizione dei vari argomenti fatti valere, affidandone poi l’ulteriore valutazione al dibattito internazionale. Un lavoro in questa forma non è stato mai tentato. Eppure una tale opera, corredata dalla traduzione nelle varie lingue, sarebbe pienamente realizzabile, se vi prendessero parte il maggior numero possibile di studiosi del maggior numero di Paesi, attraverso un finanziamento relativamente esiguo da parte della comunità internazionale. Quale sarebbe l’utilità di un simile lavoro? Esso darebbe innanzitutto un grosso stimolo alla scienza penalistica, poiché consentirebbe ad ogni studioso di collocare immediatamente l’oggetto della propria ricerca in un contesto mondiale, più ampio rispetto alla tradizione e alla legislazione del proprio Paese. Al momento non vi è ancora alcuno strumento di questo tipo che consenta un orientamento rapido e globale, in grado di risparmiare allo studioso lunghe ricerche e riflessioni su ciò che è già stato studiato e sperimentato. La dotazione di letteratura straniera dei nostri istituti universitari e delle altre biblioteche giuridiche è di regola scarsa; e anche le barriere linguistiche — se si escludono particolari lingue ‘universali’
— 16 — — sono spesso pressoché insormontabili. Il superamento di queste difficoltà gioverà senz’altro al livello della scienza penalistica mondiale, consentendo a ciascuno studioso di avere a portata di mano senza alcuno sforzo l’insieme delle conoscenze già acquisite. Inoltre un tale compendio di tutti gli ordinamenti mondiali, che potrebbe anche essere reso disponibile attraverso i moderni sistemi informatici, sarebbe assai utile ai legislatori di ogni Paese. Quando all’inizio del secolo si volle riformare il codice penale tedesco, in vista di quella meta fu realizzata, con il contributo di un gran numero di penalisti, una Vergleichende Darstellung des Deutschen und Ausländischen Strafrechts (esposizione comparata del diritto tedesco e straniero) in sedici volumi (21). Della riforma allora non si fece niente, ma l’ ‘‘Esposizione comparata’’ è rimasta per decenni un’opera basilare, che ha avuto una grande importanza per lo sviluppo del diritto penale tedesco (22). Un manuale di diritto penale internazionale costituirebbe quindi per i legislatori di tutto il mondo una preziosa fonte di conoscenza. E, al contempo, costituirebbe — e con questo torno al tema con cui ho aperto la mia esposizione — la più convincente manifestazione di unità della nostra scienza penalistica a livello mondiale. 5. Conclusione. — È con questa prospettiva che concludo la mia esposizione. I compiti futuri della scienza del diritto penale, cui ho accennato in forma concisa, dovranno essere risolti dalle prossime generazioni. Io ho 67 anni e nel prossimo autunno chiuderò la mia attività accademica, ma spero non quella scientifica. Finché le forze mi sorreggeranno, vorrò ancora dare il mio contributo ai compiti che la scienza penalistica si trova di fronte. Oggi mi resta solo di esprimervi ancora una volta il mio grazie di cuore per avermi regalato uno dei più bei giorni della mia vita scientifica. CLAUS ROXIN
(21) L’opera è stata pubblicata da BIRKMEYER e altri tra il 1905 e il 1909. (22) RADZINOWICZ definì quest’opera ‘‘a landmark in the history of comparative penal studies’’ (International Collaboration on Criminal Science, in The Law Quarterly Review, 1942, p. 128).
I DELITTI DI RIFIUTO ED OMISSIONE DI ATTI DI UFFICIO (*)
1. L’art. 328 e il suo diretto antecedente. L’art. 328 originario e i rischi di interpretazioni formalistiche. Le istanze correttive e l’esigenza di una concreta offensività. Le ambiguità del nuovo art. 328. — 1.1. Nella versione attuale, introdotta con la riforma del 1990, l’art. 328 (1) è il risultato di un ampio dibattito snodatosi in un lungo arco di tempo riguardo al delitto corrispondente come configurato originariamente dal codice: malgrado la giurisprudenza fosse approdata sul punto ad interpretazioni nel complesso equilibrate, la straordinaria latitudine della fattispecie, con i rischi di un controllo giudiziario eccessivo sull’attività della p.a., aveva indotto molti a sollecitare un intervento legislativo correttivo, capace di assicurare maggiore certezza e coerenza applicativa. L’art. 328 (*) Il presente scritto è destinato agli ‘‘Studi in onore di Umberto Pototschnig’’. (1) Per una bibliografia essenziale, cfr. sin d’ora BENUSSI, in Cod. pen. comm., a cura di Dolcini e Marinucci, 1999, art. 328/1; CADOPPI-VENEZIANI, Omissione o rifiuto di atti di ufficio, in Enc. giur. Treccani, XXI, 1990, p. 1; DASSANO, Il nuovo delitto di rifiuto e omissione di atti d’ufficio, in Quad. CSM, 1992, p. 122; FIANDACA, Una riforma fallita?, in Foro it., 1991, V, c. 421; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte spec., I, 1997, p. 258; GROSSO, I delitti contro la pubblica amministrazione, in Giur. sistem. dir. pen., a cura di Bricola e Zagrebelsky, 2a ed., IV, 1996, p. 291; ID., I nuovi delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione: indebolimento o rafforzamento della tutela penale?, in Cass. pen., 1991, p. 1298; IADECOLA, Sulla nuova descrizione della fattispecie di reato di cui all’art. 328 c.p., in Giust. pen., 1991, p. 604; MANNA, La riforma del delitto di omissione di atti d’ufficio: alla ricerca della ‘‘offensività’’ perduta, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di Coppi, 1993, p. 302; ID., Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione, in AA.VV., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, coordinato da Padovani, 1996, p. 340; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, delitti contro la pubblica amministrazione, 8a ed., 1998, p. 291; PUTINATI, Omissione. Rifiuto di atti di ufficio, in Dig. disc. pen., VIII, 1994, p. 570; SEGRETO-DE LUCA, I delitti contro la pubblica amministrazione, 2a ed., 1995, p. 663; SEMINARA, in Comm. breve cod. pen., a cura di Crespi, Stella, Zuccalà, 3a ed., 1999, art. 328, I, p. 1; STILE, Commento art. 16 l. 26 aprile 1990, n. 86, in Legisl. pen., 1990, p. 322. Inoltre, CORNETTA, I nuovi delitti di rifiuto e di omissione di atti di ufficio, in Giust. pen., 1993, II, p. 640; IELO, in Cod. pen., a cura di Padovani, 1997, art. 328, p. 1; LI VECCHI, Omissione e rifiuto di atti di ufficio tra vecchia e nuova normativa (art. 328 c.p.), in Riv. pen., 1994, p. 577; MASI, La riforma dell’art. 328 c.p. e la l. 7 agosto 1990, n. 241: un coordinamento poco chiaro, in Riv. pen. econ., 1993, p. 67; NANNUCCI, È scomparso un delitto o un principio costituzionale?, in Foro it., 1991, V, c. 417.
— 18 — previgente (2), infatti, aveva avuto nel corso degli anni un’intensa applicazione giurisprudenziale ed era stato al centro di accese dispute dottrinali. Suoi antecedenti storici remoti erano costituiti dal crimine di lesa maestà e meno lontani nel tempo, nei codici italiani preunitari, alcuni tipi di denegata giustizia, costruiti sul modello della codificazione francese di inizio Ottocento, basato sulla frustrazione, da parte del funzionario, dell’istanza privata e sulla sua perseveranza nel diniego malgrado il successivo intervento dei superiori (3). Nel c.p. 1889, poi, il ruolo (e la tutela) del singolo soggetto privato sbiadiva ed in primo piano veniva a porsi la lesione (e la tutela) della p.a., della cui autorità il rifiuto dell’atto dell’ufficio scuoteva il prestigio. Il c.p. 1930 infine, in piena consonanza con l’ideologia dominante dell’epoca, accentuava ancor più tale ultimo aspetto, implicitamente esaltando pertanto i doveri di zelo, lealtà e fedeltà del pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio verso la pubblica amministrazione (4). 1.2. È a tale ispirazione di fondo che si doveva il difetto più grave dell’art. 328 vecchio testo, rappresentato dall’assolutezza implicita nella sua laconica genericità: risultavano assoggettati a sanzione penale, se solo ‘‘indebiti’’, sia il rifiuto che l’omissione o il ritardo, da parte del p.u. o i.p.s., di un ‘‘atto dell’ufficio o servizio’’. Non compariva nella norma alcuna limitazione: la pena era la medesima per ciascuna delle condotte e non si distingueva in alcun modo neppure tra i diversi atti a seconda della loro rilevanza meramente interna alla p.a. oppure esterna ad essa; non senza fondamento, dunque, la dottrina dell’epoca aveva potuto a lungo sostenere che qualsiasi atto doveroso del p.u. o i.p.s., se solo rientrante nella sua competenza, fosse da ricomprendere nella descrizione legale (5): (2) Questa la versione dell’art. 328 previgente: ‘‘Omissione o rifiuto di atti di ufficio. — Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire due milioni. // Se il pubblico ufficiale è un giudice o funzionario del pubblico ministero, vi è omissione, rifiuto o ritardo, quando concorrono le condizioni richieste dalla legge per esercitare contro di essi l’azione civile’’. Su tale disposizione v., in generale, MANZINI, Trattato di diritto penale, 5a ed., a cura di Nuvolone, V, 1982, p. 333; N. LEVI, I delitti contro la pubblica amministrazione (in Trattato di diritto penale, coordinato da Florian), 1935, p. 361; GRISPIGNI, I delitti contro la pubblica amministrazione, 1953, p. 206. Meno lontane nel tempo, si segnalano in particolare le analisi di STILE, Omissione, rifiuto e ritardo di atti di ufficio, 1974, p. 1; TAGLIARINI, Omissione di atti di ufficio, in Enc. dir., XXX, 1980, p. 60. Inoltre, FIANDACA, Considerazioni in tema di omissione di atti di ufficio, in questa Rivista, 1980, p. 606; FIORE, Rilievi sulla recente giurisprudenza pretoriale in materia di omissione di atti di ufficio, in Dir. giur., 1976, p. 534. (3) Riferim. in STILE, Omissione, rifiuto, cit., pp. 35 ss., 56; TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 64. (4) Particolarmente istruttiva, sul punto, la Relazione sui Libri II e III del Progetto definitivo, in Lav. Prep. cod. pen., 1929, n. 374. (5) Cfr. p.e. MANZINI, Trattato, vol. cit., p. 338; N. LEVI, Delitti, cit., p. 362.
— 19 — predisposta in linea di principio a reprimere così la semplice violazione di un dovere funzionale interno all’ufficio o al servizio (p.e. secondo l’istruzione di un superiore) come la protervia o la riottosità mostrate verso il privato che invano chiede il soddisfacimento di un suo diritto, la disposizione veniva ad apprestare alla p.a. una tutela ampia ed indifferenziata, sotto l’aspetto della sua essenziale funzione di servizio per il cittadino ed i terzi ma anche della sua organizzazione interna. Di fronte ad una così vasta e generica area di punibilità dell’omissione di atti di ufficio come prevista nell’art. 328 c.p. 1930, non desta meraviglia che l’esigenza di una riduzione sia stata nel tempo più volte avvertita e teorizzata in dottrina e in giurisprudenza (6). Gli evidenti rischi di interpretazioni formalistiche della norma, infatti, pronte ad attribuire rilievo già alla violazione di un qualsiasi dovere funzionale del singolo p.u. o i.p.s., sono stati vivacemente contrastati mediante letture invece sostanzialistiche (7): anche facendo leva talvolta sulla c.d. concezione realistica del reato, si affermava che l’omissione penalmente rilevante dovesse essere connotata da una dimensione di effettiva offensività e che, ciò dato, essa non poteva identificarsi già in una qualsiasi violazione del singolo funzionario, dovendosi più congruamente ravvisarsi nello specifico inadempimento, da parte della p.a. impersonalmente considerata, dei suoi doveri istituzionali. In questa ottica, il peso specifico del delitto veniva a cadere non sul semplice non fare, ma sulla conclusiva mancanza dell’atto dell’ufficio o del servizio (8): intesa normalmente in passato come reato di pericolo, l’omissione tendeva in questo modo a porsi come reato di danno e l’oggetto della tutela veniva identificato, non senza una puntuale valorizzazione dell’indicazione costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione, non nell’interna e statica organizzazione della p.a., bensì nel momento dinamico della sua concreta attività (9). 1.3.
La riforma del 1990 muoveva da questa situazione (10) e, per-
(6)
Per un’utile sintesi al riguardo, v. CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 7; PUTI-
NATI, Omissione, cit., p. 573.
(7) Su tale linea, pur con significative differenze tra loro, p.e. STILE, Omissione, rifiuto, cit., p. 77 ss.; TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 67; PAGLIARO, Delitti, cit., p. 301; v. anche FIORE, Rilievi, cit., p. 536; FIANDACA, Considerazioni, p. 608; DE VERO, Rifiuto o ritardo di obbedienza, in Enc. dir., XL, 1989, p. 828; in giurisprud., soprattutto Cass., Sez. un., 25 maggio 1985, in Cass. pen., 1986, p. 1523; Pret. Sampierdarena 22 gennaio 1987, in questa Rivista, 1988, p. 1529; ma v. già p.e. Pret. Pinerolo 23 aprile 1970, in Giur. mer., 1972, II, p. 239; Pret. Misilmeri 4 luglio 1979, in questa Rivista, 1980, p. 606. (8) Indicata a volte come evento del reato: p.e. STILE, Omissione, rifiuto, cit., p. 140; solo parzialm. diff. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 301; crit. sul punto, a ragione, FIANDACA, Considerazioni, cit., p. 610. (9) Così del resto, con particolare chiarezza, anche Cass., Sez. un., 25 maggio 1985, cit. (10) Cfr. p.t. GROSSO, Prospettive di riforma dei reati contro la pubblica amministra-
— 20 — seguendo con il nuovo art. 328 l’obiettivo di ridurre il sindacato del giudice sull’attività della p.a., raccoglieva l’istanza correttiva di restrizione dell’area di intervento della sanzione penale. Fermo un disegno del genere, ampiamente condivisibile e condiviso, la disposizione che ne è risultata non va tuttavia esente da vistosi difetti. In sintesi, e rinviando all’analisi delle due figure delittuose, si può sin d’ora osservare che nell’evidente ricerca di una più visibile sostanzializzazione delle fattispecie, ovvero nel tentativo di scongiurare applicazioni formalistiche e di fare pertanto emergere un’essenziale dimensione di reale offensività, il legislatore si è spinto troppo oltre: e infatti, nel delitto di cui al comma 1o, la delimitazione degli atti dell’ufficio rilevanti, ottenuta sia con l’indicazione delle ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità, sia con l’urgenza degli atti medesimi (perché da compiersi ‘‘senza ritardo’’), viene acuita in termini difficilmente tollerabili se soltanto si pone l’accento — come si vedrà doveroso — sulla incriminazione della sola condotta di ‘‘rifiuto’’; e quanto al delitto di ‘‘omissione’’ del comma 2o, la possibilità accordata al p.u. o i.p.s. di sottrarsi alla responsabilità penale esponendo le ragioni del ritardo nel compimento dell’atto rischia di condizionare seriamente l’effettività della norma e il potenziale incentivo alla realizzazione degli scopi istituzionali della p.a. Due gravi ambiguità, insomma, in aspetti del tutto centrali della nuova disposizione. Come dire, una performance non proprio brillante: dopo l’ampio dibattito culturale svoltosi per anni sull’art. 328 originario, dal legislatore del 1990 ci si poteva obiettivamente attendere una soluzione più equilibrata e razionale. 2. I delitti di rifiuto e di omissione di atti d’ufficio nel nuovo art. 328: generalità. Soggetti attivi, soggetti passivi. L’atto dell’ufficio (o del servizio) come atto verso l’ordinamento; la rilevanza esterna. Atti collegiali. L’accezione ampia dell’atto. — 2.1. Soggetto attivo di entrambi i reati dell’art. 328 è necessariamente un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (11), nell’esercizio attuale di funzioni o di svolgimento del servizio (12), con la conseguente inapplicabilità, in questo caso, dell’art. 360. Non vi sono esclusioni o eccezioni di sorta: la nuova zione, in Cass. pen., 1989, p. 1585; PETRONE, La nuova disciplina dei delitti degli agenti pubblici contro la p.a.: dalle prospettive di riforma alla l. n. 86/1990, in questa Rivista, 1993, p. 930; STILE, L’omissione di atti di ufficio nella riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in AA.VV., La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di Stile, 1987, p. 402. (11) Sul punto, sia consentito di rinviare al mio I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati. Le qualifiche soggettive pubblicistiche (artt. 336-360 c.p.), Milano, 1999, pp. 225, 254, 279 ss. (12) Decisive sul punto le pertinenti norme di diritto pubblico, in tema di assunzione in servizio o di dimissioni: p.t. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 294; cfr. anche, per l’art. 328 previgente, Cass. 19 maggio 1972, in Cass. pen., 1973, p. 1036.
— 21 — disposizione, intanto, non contiene più, a differenza dell’art. 328, comma 2o abr., alcuna particolare previsione per i magistrati, che — pur nella permanente specificità della normativa extrapenale — devono pertanto ritenersi ricompresi nella norma esattamente al pari degli altri p.u.; e anche asserite considerazioni a parte per quanto concerne i parlamentari non sono propriamente da riferire alla loro posizione o qualifica soggettiva, ma soltanto ad un diverso e ben più circoscritto (ma non pare totalmente impossibile) configurarsi, rispetto a tali soggetti, della doverosità degli atti presupposto della condotta penalmente rilevante (13). Soggetto passivo necessario, come risulta anche dalla ribadita collocazione della norma tra i delitti del titolo II, è la pubblica amministrazione. Nella figura di reato dell’art. 328, comma 2o, tuttavia, lo è anche il soggetto privato, titolare dell’interesse al compimento dell’atto dell’ufficio o del servizio da parte del p.u. o i.p.s.: già sostenuta in passato — ma forse allora da respingere — con riferimento all’art. 328 previgente (14), questa tesi è da accogliere per l’attuale art. 328, cpv.: diversamente dal comma 1o, infatti, le cui ragioni qualificate attinenti ad interessi generali assorbono l’intera lesività del fatto, il comma 2o segnala un reato plurioffensivo, poiché vi trova spazio e specifica considerazione anche l’interesse individuale, indicato dal ruolo attribuito dalla norma alla richiesta del singolo, che in termini penalmente rilevanti richiama (o attualizza) l’obbligo del p.u. o i.p.s. di compiere l’atto o di esporre le ragioni del ritardo (15). 2.2. Oggetto del rifiuto o dell’omissione ed elemento essenziale dei reati dell’art. 328 è, riferito al p.u. (ma da intendersi anche all’i.p.s.), un ‘‘atto del suo ufficio’’. Sulla via della recepita sostanzializzazione delle fattispecie, la nuova disposizione, con il possessivo ‘‘suo’’, ribadisce la necessità che l’obbligo ‘‘originario’’ della p.a. (ovvero del singolo ufficio cui spetta di provvedere) si concentri, ‘‘personalizzandosi’’, nella competenza propria del funzionario (16), ma al tempo stesso mostra di ritenere insufficiente un inadempimento solo interno all’ufficio (p.e. l’inosservanza di un ordine di servizio), che non si riverberi in alcun modo fuori di esso. (13)
Così anche, nella conclusione, TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 69; inoltre, CA-
DOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 13.
(14) Cfr. p.e. MANZINI, Trattato, vol. cit., p. 337; contra, invece, anche per l’art. 328 attuale, PAGLIARO, Delitti, cit., p. 293: il privato soltanto come eventuale danneggiato dal reato. (15) Con l’esplicita affermazione della plurioffensività del reato del comma 2o, individuano il privato come persona offesa p.e. Cass. 7 luglio 1995, n. 202.818; Cass. 28 ottobre 1997, in Riv. pen., 1998, p. 822. Nel medesimo senso Cass. 9 gennaio 1998, n. 211.123, con la precisazione che il privato è invece solo eventuale danneggiato nel reato del comma 1o. (16) Conf. p.e. Cass. 29 agosto 1990, n. 185.203; v. anche Cass. 15 dicembre 1997, n. 209.478; possibile interferenza, qui, della disciplina amministrativa del ‘‘responsabile del procedimento’’: art. 5 l. n. 241/1990. V. anche, sul punto, art. 5 d.lgs. n. 29/1993.
— 22 — L’atto rifiutato od omesso (e quindi mancante, non eseguito, non compiuto), è per l’art. 328 un atto esterno o comunque un atto che, entro un iter procedimentale, si presenti come strumentale ad altro esterno (p.e. un parere obbligatorio). Si conferma così la tesi, già formulata riguardo all’art. 328 originario, secondo cui atto dell’ufficio ai fini della norma penale non è propriamente un atto del p.u. verso la p.a. (il cui inadempimento riguarda la sola responsabilità disciplinare), ma un atto (dell’ufficio e dunque) della p.a. verso l’ordinamento (17). Nel contesto della rilevanza di soli atti esterni o interni a rilevanza esterna, merita particolare attenzione la questione degli atti collegiali. Anche questi sono atti dell’ufficio per ciascuno dei componenti dell’organo, ma sussumibile nella descrizione dell’art. 328 non sarà qualsiasi inadempimento del singolo, bensì soltanto quel rifiuto o quell’omissione che non consenta all’organo medesimo di assumere le deliberazioni previste e in questo modo di compiere l’atto ad esso riferibile, o che comunque ne vanifichi od ostacoli l’attività (18). Decisive saranno dunque le specifiche norme amministrative di riferimento, che di volta in volta indicheranno i termini e il rilievo della partecipazione dei singoli soggetti. 2.3. ‘‘Atto del suo ufficio’’, come si ricava anche dalla (sicura) parallela rilevanza dell’atto del servizio, è espressione da assumere in senso lato. Da escludere pare il rilievo di singoli atti ‘‘seriali’’ che la pertinente disciplina di diritto pubblico — almeno per il raggiungimento di essenziali fini istituzionali della p.a. nel settore interessato — consideri nella loro unitarietà (19). Ma fatta salva la necessità di una ragionevole ‘‘apprezza(17) Cfr. STILE, Omissione, rifiuto, cit., p. 114; DASSANO, Nuovo, p. 131; PUTINATI, Omissione, cit., p. 574; SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, II, p. 3; per l’art. 328 previgente, Cass., Sez. un., 25 maggio 1985, in Cass. pen., 1986, p. 1522; per l’art. 328 attuale, Cass. 18 ottobre 1994, n. 200.164; Cass. 21 marzo 1996, n. 204.381; Cass. 23 febbraio 1998, n. 209.978. V. anche, con riguardo ai soggetti legittimati a proporre la richiesta ex art. 328, comma 2o, infra, n. 8.1. Irrilevante è invece certamente il fatto che, accanto all’atto dell’ufficio, l’art. 328, comma 1o non menzioni più, a differenza del suo antecedente, l’atto del servizio. Poiché infatti l’i.p.s. continua ad essere uno dei possibili autori del reato, e non potendosi d’altra parte dubitare che rilevi solo una condotta specificamente da lui dovuta, e pertanto un atto del suo servizio, la mancata precisazione costituisce non più che una improprietà redazionale. (18) Sostanzialmente in questo senso p.e. Cass. 23 febbraio 1998, in Riv. pen., 1998, p. 481, che nega una responsabilità specifica, per la norma in esame, di chi abbia la rappresentanza esterna dell’organo collegiale. (19) Come avviene p.e. nel caso a suo tempo vivacemente discusso delle lezioni di un corso di insegnamento, in cui singoli limitati inadempimenti non inficiano il valore legale del corso stesso: conf. Pret. Roma 11 maggio 1968, in Giur. mer., 1971, II, p. 392; CAPOBIANCO, Aspetti penalistici dell’omissione di lezione da parte del docente universitario, in Giur. mer., 1971, II, p. 404; STILE, Omissione, rifiuto, cit., p. 147; diff. BROCCA, Se costituisca omissione di atti di ufficio il tenere un numero di lezioni inferiore a quello prescritto, in Giur. it., 1970, II, p. 96.
— 23 — bilità’’ o ‘‘significatività’’ dell’atto rifiutato od omesso, è vero che, intesa in un’accezione ampia nei delitti del titolo II la stessa p.a., è atto dell’ufficio anche — come l’art. 328 previgente rendeva ancor più chiaro con l’espresso riferimento all’omissione del ‘‘giudice’’ (insieme a quella del ‘‘funzionario del pubblico ministero’’) — il risultato dell’esercizio di una funzione giurisdizionale (p.e. una sentenza; un provvedimento d’urgenza); e quanto alle autorità amministrative, sono atti dell’ufficio, avendo a mente classificazioni accreditate, non solo i provvedimenti (atti negoziali: p.e. un’ammissione ad un concorso, un ordine; meri atti: p.e. una certificazione; atti misti: p.e. una diffida), ma anche atti compiuti nell’esercizio di potestà non propriamente amministrative: lo sono, così, gli atti normativi (p.e. un regolamento), ma altresì — come può agevolmente desumersi anche dal pari rilievo di atti del servizio, e dunque dell’effettiva prestazione del servizio medesimo — gli atti di diritto privato della p.a., nonché le operazioni o comportamenti materiali (20), in esecuzione di un previo atto o di leggi o regolamenti (p.e. lo scioglimento di un assembramento vietato). Dagli atti dell’ufficio non sono esclusi neppure gli atti discrezionali. L’esigenza di protezione degli interessi tutelati dall’art. 328 (e dunque la loro lesione se la tutela è di fatto mancata) sussiste evidentemente anche in tali casi e del resto entrambe le condotte dei reati dei commi 1o e 2o postulano di base non più che una doverosità del compimento dell’atto da parte (dell’ufficio) della p.a., o più in generale un dovere di attivarsi da parte di essa. Ciò premesso, della potenziale rilevanza del rifiuto o dell’omissione dell’atto, in presenza di una discrezionalità sul contenuto e/o sulla forma (sul quid o sul quomodo), non si vede come sia possibile dubitare (21); ma anche nel caso di discrezionalità sul tempo e sul se dell’atto (sul quando e sull’an), la rilevanza è ancora da ammettere (22) con ri(20) Sempre che risultino compatibili con la pubblica funzione o con il pubblico servizio: sul punto, cfr. ancora il mio I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., p. 293. Troppo restrittiva, pertanto, per l’art. 328 previgente, Cass. 24 aprile 1985, n. 168.867: ‘‘atto amministrativo in senso tecnico’’. Istruttiva, in un contesto affine, la dilatazione subita non solo in giurisprudenza dalla nozione di ‘‘atto dell’ufficio’’ nei delitti di corruzione: cfr. FORTI, L’insostenibile pesantezza della ‘‘tangente ambientale’’: inattualità di disciplina e disagi applicativi nel rapporto corruzione-concussione, in questa Rivista, 1996, p. 492, ove riferim. (21) Cfr. infatti, p.e., CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 15; PUTINATI, Omissione, cit., p. 577. (22) Conf. p.e. GRISPIGNI, Delitti, cit., p. 209; STILE, Omissione, rifiuto, cit., p. 126; PAGLIARO, Delitti, cit., p. 304; RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a., 1984, p. 397; STORTONI, La responsabilità penale dei pubblici ufficiali per omissione di atti d’ufficio nel quadro della repressione penale degli inquinamenti di acque, in Ind. pen., 1971, p. 558; SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, VI, p. 2; diff., invece, per la discrezionalità sull’an, p.e. SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit., p. 683; CORNETTA, Nuovi, cit., p. 647.
— 24 — guardo all’eventuale rifiuto od omissione dell’esame della situazione di fatto corrispondente a quella tipica prevista da una norma, esame che la p.a. sia tenuta ad effettuare per decidere se compiere o meno l’atto, dovendo anche, almeno in risposta ad avvenuta sollecitazione da parte di terzi (altra autorità o soggetti privati), dare conto dell’eventuale inerzia (23). Né la soluzione cambia per la c.d. discrezionalità tecnica. Alcune affermazioni giurisprudenziali sulla irrilevanza dell’omissione in casi del genere (24) sono da condividere, infatti, solo se intese limitatamente alla scelta, appunto discrezionale, con apprezzamento tecnico, delle concrete modalità d’intervento del p.u., ma non nel senso della radicale oggettiva insussistenza del reato quando fosse stata del tutto omessa la stessa valutazione della situazione di fatto corrispondente a quella tipicizzata dalla legge o non fosse dato alcun conto dell’inattività. 3. L’art. 328, comma 1o: il rifiuto di atti d’ufficio. Le ‘‘ragioni’’ degli atti dell’ufficio: la derivazione dall’art. 650 e il rilievo di qualificati interessi generali. L’urgenza degli atti: ‘‘senza ritardo’’. — 3.1. La figura delittuosa del nuovo art. 328, comma 1o ribadisce la tutela del regolare funzionamento della p.a., ma rispetto alla norma previgente, in opportuna coerenza con l’art. 97 Cost., sposta l’accento sull’attività, o meglio sugli obiettivi che essa è tenuta ad assicurare, come dire sull’efficace tempestiva realizzazione dei suoi fini istituzionali (25): limitando la rilevanza penale solo ad alcune (per quanto ampie) aree di pertinenza degli atti dell’ufficio (le ‘‘ragioni’’), per giunta con esclusivo riferimento ad atti che devono eseguirsi ‘‘senza ritardo’’, mostra di porre in primo piano il risultato, cioè di avere più a cuore — come del resto si comprende in relazione all’impiego di sanzioni di natura penale — la salvaguardia di interessi ritenuti di tangibile rilievo che non il mancato adempimento e/o lo zelo e la fedeltà del soggetto pubblico nell’espletamento dei suoi compiti. 3.2. Le ‘‘ragioni’’ degli atti dell’ufficio del comma 1o sono state evidentemente riprese da quelle dell’art. 650, norma contravvenzionale che punisce l’inosservanza di provvedimenti legalmente dati dall’autorità in alcune amplissime aree di interessi: alle ragioni di giustizia, sicurezza pub(23) In tal senso molto chiara p.e. Cass. 15 dicembre 1997, n. 209.719: l’obbligo di compiere l’atto discrezionale non sussiste, ma se l’atto non è eseguito sorge comunque il dovere del p.u. di fornire una risposta al richiedente (prima del termine previsto dall’art. 328, comma 2o). (24) Per l’art. 328 previgente, p.e., Cass. 25 giugno 1973, in Cass. pen. Mass. ann., 1974, p. 1118: autorità sanitaria in relazione ad impianti od opere di depurazione; Cass. 18 marzo 1983, in Cass. pen., 1984, 890: medico ospedaliero in rapporto alla dimissione di un paziente. V. anche Cass. 30 novembre 1988, in Riv. pen., 1989, p. 862. (25) P.e. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 291; STILE, Commento, cit., p. 331; più marcatamente, CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 11.
— 25 — blica, ordine pubblico e igiene, si è aggiunta qui la sanità, già peraltro ritenuta comunemente inclusa nella stessa igiene. Con queste ‘‘ragioni’’, il legislatore della riforma del ’90 ha inteso senza dubbio circoscrivere gli atti dell’ufficio rilevanti; ma va subito aggiunto che, proprio per la vastità di dette aree, tale delimitazione resterebbe in definitiva modesta se non vi fosse l’altra, rappresentata dall’urgenza degli atti (26). Derivate da quelle dell’art. 650, le ‘‘ragioni’’ ripropongono ampie aree di primari interessi generali. Con l’avvertenza di una notevole ‘‘fluidità’’, che la pur frequente applicazione dell’art. 650 non è riuscita negli anni ad eliminare, è da dire che anche nell’art. 328 in esame per ragioni di ‘‘sicurezza pubblica’’ e di ‘‘ordine pubblico’’, non del tutto distinguibili e separabili le une dalle altre, devono intendersi quelle genericamente relative alla pace e alla tranquillità sociale, alla tutela della proprietà, alla prestazione dei soccorsi in caso di privati o pubblici infortuni o calamità, alla prevenzione dei reati (27), e quanto alle ragioni di ‘‘igiene’’ (e ora di ‘‘sanità’’), vi rientrano senz’altro quelle ispirate alla salvaguardia delle condizioni della pubblica salute e alla prevenzione di malattie di ogni genere, per l’uomo, gli animali, le piante. Quanto alle ragioni di ‘‘giustizia’’, è opportuno sottolineare che nel ‘‘passaggio’’ dall’art. 650 all’art. 328, comma 1o subiscono un certo adattamento. A fronte di una consolidata interpretazione che per l’art. 650, per via della sua collocazione sistematica e del suo diretto riferimento all’attività amministrativa, esclude dall’espressione i provvedimenti emanati dal giudice nell’esercizio di funzioni giurisdizionali, nell’art. 328 (insieme ad atti di altri soggetti facenti parte o ausiliari dell’ordine giudiziario, come cancellieri, segretari dei p.m., ufficiali giudiziari, e ad atti della poli(26) Si rammenti, infatti, che per la vastità di dette ‘‘ragioni’’ l’art. 650 è indiziato di contrastare con il principio di determinatezza (ma non, a rigore, con quello di riserva di legge: v. invece, per l’art. 328, comma 1o, MANNA, Riforma, cit., p. 311). Perplessità sulla mancata previsione, nell’art. 328, di ulteriori ‘‘ragioni’’ attinenti ad altri interessi generali, come economia pubblica, ambiente e territorio, o in materia elettorale, esprimono p.e. DASSANO, Nuovo, cit., p. 139; GROSSO, Delitti, cit., p. 295; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, vol. cit., p. 260; PUTINATI, Omissione, cit., p. 578; v. anche CORNETTA, Nuovi, cit., p. 656; PICA, Osservazioni sulle proposte di modifica dell’art. 328 c.p. relativo al reato di ‘‘omissione di atti di ufficio’’, in AA.VV., La riforma, cit., p. 440, ma è da notare che almeno alcuni di questi interessi possono talvolta essere recuperati per... ‘‘coincidenza’’: p.e. ambiente o territorio e sicurezza pubblica (come anche almeno parte della normativa edilizia; vero che tale normativa non rientra ‘‘nel concetto di ordine pubblico’’, come afferma Cass. 11 marzo 1992, n. 190.005, non è escluso in assoluto che l’art. 328 risulti talora, in questo settore, uguamente applicabile). Per l’asserto che non tutti i provvedimenti prefettizi sono sorretti da ragioni di sicurezza pubblica, v. p.e. Cass. 3 novembre 1995, n. 203.197 (escluse ragioni di sicurezza pubblica nel caso di un ‘‘modesto manufatto’’ che minaccia rovina in zona rurale: Cass. 29 settembre 1998, n. 212.241); nel senso che l’omessa esecuzione da parte del sindaco dell’ordinanza di demolizione di manufatti abusivi non rientrerebbe tra gli atti urgenti di cui all’art. 328, comma 1o, Cass. 22 novembre 1996, n. 206.368. (27) Cfr. sul punto artt. 1 e 2 r.d. n. 773/1931, t.u.l.p.s.
— 26 — zia giudiziaria) detti provvedimenti — sentenze, decreti, ordinanze — devono invece ritenersi inclusi, anche quando pronunciati in procedimenti che dirimono contese individuali: conclusione, questa, che malgrado l’eliminazione nel nuovo art. 328 di ogni previsione apposita per i magistrati, risulta confermata dalla persistente rilevanza del diniego di giustizia in rapporto alla responsabilità penale per rifiuto o omissione di atti d’ufficio (28). Ma anche quando la situazione contingente si presti a tutelare l’interesse di un singolo, come spesso avviene per le ragioni di ‘‘sanità’’, la cui espressa aggiunta nella nuova disposizione pare ispirata alla considerazione ravvicinata e diretta di casi pratici che con un forte richiamo su una sensibile opinione pubblica — si allude soprattutto a ricoveri e dimissioni ospedalieri e ad assistenza medica in genere — hanno dato luogo ad un’intensa applicazione giurisprudenziale dell’art. 328 previgente (29), l’indicazione normativa intende comunque sottolineare il rilievo di funzioni pubbliche e pubblici servizi in aree di interesse e quindi in settori nei quali il mancato tempestivo adempimento del soggetto pubblico è considerato più pericoloso e più grave. 3.3. Questa maggiore gravità, segnalata dalla pena più elevata di quella del comma 2o, rimanda a sua volta all’urgenza degli atti: rilevano qui solo quegli atti che, per le ragioni qualificate di giustizia, ordine pubblico, ecc., debbano essere eseguiti ‘‘senza ritardo’’. Importante è notare che nella disposizione non compare alcun termine puntuale, né è necessario che esso figuri in altra legge o nella normativa amministrativa di riferimento, pertinente nel singolo caso. Piuttosto, sia indicato o meno un termine cronologico, è essenziale che la situazione contingente si presenti tale che il ritardo dell’atto comporterebbe un concreto pericolo per uno degli interessi delle aree indicate. Impraticabili definizioni più dettagliate, l’espressione ‘‘senza ritardo’’, sempre discutibile per precetti penalmente sanzionati, non può intendersi in senso assoluto: l’atto, cioè, sarà tanto più (certamente) urgente quanto più prossimo-e-consistente risulterà il pericolo per gli interessi in questione. Anche l’urgenza dunque, che pure è plausibile tradurre in immediatezza, ha una sua (ristretta) elasticità, essendo da determinare in relazione all’interesse da soddisfare nella situazione contingente (30). L’indifferibilità dell’atto comunque, si ripete, non (28) Infra, n. 7.2. (29) Tra le tante, cfr. p.e. Cass. 28 novembre 1975, n. 131.337; Cass. 18 aprile 1980, n. 145.045; Cass. 12 aprile 1986, n. 172.432; per l’attuale art. 328, p.e. Cass. 26 giugno 1996, n. 205.089; Cass. 18 aprile 1997, n. 207.543; riferim. in PISA, Giurisprud. comm. dir. pen., II, 1994, p. 252 ss. (30) Sostanzialm. in tal senso, p.e., Cass. 22 novembre 1996, in Riv. pen., 1997, p. 184; per la funzione selettiva del ‘‘senza ritardo’’ in rapporto alla ragione di sanità, istruttive
— 27 — dipenderà necessariamente da una specifica prescrizione di legge (31). Quando questa vi sia, il più delle volte solo la scadenza del termine segnerà l’inizio di rilevanza del ritardo, ma non può escludersi neppure il caso che, pur prevedendo la legge un termine ultimo, la salvaguardia (di uno) degli interessi indicati nell’evoluzione della situazione concreta renda doveroso, ai sensi del comma 1o, il compimento dell’atto ancor prima della scadenza. Viceversa, potrà accadere — e allora mancherà la situazione tipica del reato in esame — che il termine previsto sia trascorso ma che non sia concretamente sorto alcun pericolo per gli interessi in questione. 4. La condotta: il rifiuto dell’atto. La necessità della previa richiesta. La richiesta: i legittimati. Rifiuto espresso e rifiuto tacito. ‘‘Indebitamente’’. — 4.1. La condotta del delitto del comma 1o è descritta come rifiuto di compiere l’atto che il p.u. o i.p.s., per le ragioni indicate, deve eseguire senza ritardo. Mentre l’art. 328 previgente menzionava distintamente rifiuto omissione o ritardo, il nuovo art. 328, comma 1o cita ora il solo rifiuto, donde l’interrogativo, ovviamente centrale nell’interpretazione della norma, se il rifiuto presupponga necessariamente la previa richiesta di un soggetto terzo, o se possa ricomprendere anche il semplice mancato compimento dell’atto, ovvero la sua omissione, o addirittura lo stesso ritardo nell’esecuzione, senza che occorra la sollecitazione altrui. Malgrado appaia prima facie davvero sorprendente, la soluzione che ritiene indispensabile la richiesta conta a suo favore numerosi, inoppugnabili argomenti: a parte il riferimento storico alla denegata giustizia di un tempo, che come si ricorderà presupponeva un’istanza di parte, e l’indicazione della rubrica (il deciso ‘‘stacco’’ tra i comma 1o e 2o: ‘‘Rifiuto di atti... Omissione’’), sono da considerare il fatto che alcuni reati del codice in cui rileva il rifiuto richiamano espressamente la richiesta (art. 329; art. 651), il comune significato di rifiuto (quale inottemperanza a richiesta altrui) e soprattutto l’interpretazione ricevuta pianamente dal termine nel contesto dell’art. 328 previgente. In tale ottica, la rilevanza del solo rifiuto, con una sorta di ritorno all’antico, si inquadra nel disegno di restrizione dell’area punitiva dell’omissione: una soluzione senza dubbio fortemente discutibile, specie nel suo ancorare l’operatività della norma incriminatrice al previo intervento di un terzo anche per atti urgenti in settori concernenti primari interessi generali, sebbene non debba sottovalutarsi il contestuale vantaggio di una linea di demarcazione meno incerta tra illecito penale ed illecito amministrativo. p.e. Cass. 18 febbraio 1992, n. 189.765; Cass. 18 aprile 1007, n. 207.544; v. anche, per detta funzione selettiva, Cass. 3 novembre 1995, n. 203.197. (31) Cfr. invece SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit., p. 697.
— 28 — A tale soluzione potrebbero invero opporsi rilievi anche di qualche peso. Della consapevolezza del riferimento storico, p.e., non sembra vi sia stata nel legislatore del ’90 traccia alcuna; circa l’argomento sistematico, poi, è agevole constatare che là dove i reati descrivono una condotta di rifiuto ancorata ad una richiesta, questa viene per lo più espressamente menzionata, mentre qui non lo è (ma la norma la menziona nel comma 2o). E quanto all’accezione di rifiuto e all’interpretazione datane nel vecchio art. 328, potrebbe ancora obiettarsi che quel comune significato del termine, del tutto assodato in un contesto normativo che oltre al rifiuto alludeva anche ad omissione o ritardo, diviene invece meno certo nell’attuale comma 1o: pervenendo così alla conclusione che, citando il solo rifiuto, l’art. 328, comma 1o potrebbe avere inteso alludere insieme alla rilevanza di tre condotte concettualmente non lontane tra loro, accomunandole né più né meno come le accomunava negli effetti, pur menzionandole distintamente, la vecchia norma. Ma per quanto suggestiva, la tesi del rifiuto come termine sintetico, comprensivo anche di omissione o ritardo che prescinda da qualsiasi intervento altrui, non può accogliersi: non può sostenersi, cioè, che insistendo l’art. 328 su obblighi e divieti posti da norme amministrative di settore, la richiesta potrebbe essere (non solo quella di un terzo, ma) anche quella astrattamente rivolta al p.u. o i.p.s., al verificarsi di situazioni corrispondenti a quelle previste, dallo stesso ordinamento giuridico. Una siffatta interpretazione del rifiuto, infatti, appare obiettivamente come un’eccessiva, inammissibile forzatura a fronte della considerazione che, nel contesto di un’indubbia volontà di restrizione dell’ambito di rilevanza penale di condotte inadempienti del soggetto pubblico, l’intero nuovo art. 328, nella coerenza di entrambe le figure delittuose che descrive, mostra che si è inteso soprassedere ad una reazione penale sino a che il p.u. o i.p.s. non sia stato espressamente sollecitato ad adempiere l’obbligo dell’ufficio o servizio. 4.2. Il rifiuto dell’atto postula dunque una previa richiesta (32). Questa soluzione si presenta come l’unica consentita dal testo norma(32) Conf. PADOVANI, Commento a ‘‘La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in Corr. giur., 1990, p. 544; PAGLIARO, Delitti, cit., p. 297; PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo d’insieme, in questa Rivista, p. 832; STILE, Commento, cit., p. 325; CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 16; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., vol. cit., p. 261; GROSSO, Delitti, cit., p. 295, e Riforma, cit., p. 1159; IADECOLA, In tema di rifiuto di atti di ufficio e di abuso di ufficio (la — veramente insufficiente? — determinatezza della fattispecie e la rilevanza di interessi ‘‘zonali’’), in Giur. mer., 1997, II, p. 999; PUTINATI, Omissione, cit., p. 578; SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, V, p. 4; BENUSSI, in Cod. pen. comm., cit., art. 328/20; v. inoltre GARGANI, Rifiuto o ritardo d’obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica, in AA.VV., Delitti, cit., p. 386; QUARTA, L’art. 328, in AA.VV., Reati, cit., p. 300; TOTARO, L’art. 328 c.p.: terreno del giudice penale o della p.a.?, in Ind. pen., 1993, p. 667;
— 29 — tivo (33), per giunta confermato da un oggettivo argomento storico e da un dichiarato disegno di politica legislativa. La richiesta, svolgendo una semplice funzione di richiamo al p.u. o i.p.s. della doverosità del suo agire, nell’urgenza della situazione contingente, per ragioni di interessi generali, non abbisogna nel comma 1o di particolari requisiti soggettivi di legittimazione (34): potrà essere dunque presentata da chiunque, da un privato titolare di un interesse giuridicamente qualificato come anche da chi abbia un mero interesse di fatto; e potrà consistere anche nella sollecitazione ad opera di un’altra p.a., diversa da quella cui spetta di agire, o anche nell’ordine di un superiore gerarchico (35). Quanto alla condotta tipica, poi, accanto ad un rifiuto espresso (un diniego ‘‘attivamente’’ pronunciato... ore rotunno, sebbene magari... in forma scritta), potrà rilevare anche un rifiuto tacito, mostrato dal comportamento concludente del non compimento dell’atto malgrado la (cognizione della) richiesta del terzo e l’inutile trascorrere del tempo: intervenuta la richiesta, cioè, il rifiuto potrà consistere e manifestarsi anche in una condotta omissiva quando, sempre sul presupposto della sussistenza di effettive ragioni di giustizia, ordine pubblico, sicurezza pubblica, igiene o sanità, e dell’effettiva urgenza del provvedere per la salvaguardia di tali interessi, il soggetto pubblico resti del tutto inerte. E rilievo potrà assumere in questo caso anche lo stesso ritardo nel compimento dell’atto, che nelle condizioni date renda vana la richiesta del terzo. Sempre postulando tale richiesta, inoltre, il reato potrà realizzarsi (quanto meno nei suoi estremi oggettivi, sempre impregiudicato il dolo) anche con il compimento di un atto sì astrattamente corrispondente a quello dovuto ma giuridicamente inesistente o nullo (36), mentre sarà all’essenziale efficace tutela dei detti qualificati interessi, nella situazione contingente, che dovrà riportarsi l’eventuale rilevanza del compimento di un atto diverso rispetto a quello dovuto. Cass. 9 dicembre 1996, in Giust. pen., 1997, II, p. 571; Cass. 6 febbraio 1997, in Cass. pen., 1998, p. 1118; G.i.p. Trib. Teramo 10 aprile 1997, in Giur. mer., 1997, II, p. 998; contra, DASSANO, Nuovo, cit., pp. 127, 146; CORNETTA, Nuovi, cit., p. 649; SEGRETO-DE LUCA, Delitti, p. 694; v. anche TENCATI, Gli atti d’ufficio omessi fonte di responsabilità penale a carico degli appartenenti al sistema amministrativo, in Riv. pen., 1992, p. 210; Cass. 11 maggio 1998, in Riv. pen., 1998, p. 822. (33) A ragione si afferma che la soluzione opposta contrasterebbe con il principio di stretta legalità, sconfinando in un’analogia in malam partem: così SEMINARA, in Comm. breve, art. 328, V, p. 4. (34) Diversam., invece, nel comma 2o: infra, n. 8.1. (35) In tal senso, p.e. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 296; STILE, Commento, cit., p. 325; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., vol. cit., p. 260; SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, V, p. 4; in giurisprud., Cass. 9 dicembre 1996, in Giust. pen., 1997, II, p. 572. (36) Cfr. p.e. MANZINI, Trattato, vol. cit., p. 340; non invece quando si tratti di un atto soltanto illegittimo, che pur viziato svolga i suoi effetti: possibile tuttavia, qui, l’abuso d’ufficio ex art. 323.
— 30 — 4.3. Il rifiuto dell’atto rileva soltanto se avviene ‘‘indebitamente’’. Come già per l’art. 328 previgente, non si tratta di una mera riaffermazione dell’antigiuridicità segnata dalla stessa norma incriminatrice: piuttosto, l’avverbio rimanda alla disciplina dell’ufficio o servizio, indicando che una condotta del p.u. o dell’i.p.s. che non contrasti con la normativa di riferimento, con leggi o disposizioni amministrative che regolano competenze e forme, non è penalmente rilevante. Si ha qui un caso di antigiuridicità speciale: la contrarietà ai doveri (del singolo p.u. o i.p.s.) posti da altre norme di legge o regolamentari, o in base ad esse da istruzioni o ordini superiori, diviene un elemento della tipicità, con relative conseguenze anche in ordine al dolo. Necessaria sarà dunque, da parte del giudice, la verifica accurata che l’atto fosse dal p.u. o i.p.s. dovuto sulla base della competenza sua propria e di ogni altra pertinente norma di legge o regolamentare (37). Ma decisiva potrà rivelarsi anche la materiale impossibilità, nella concreta situazione, di compiere l’atto. È importante comunque notare che anche quando l’atto resti per l’ordinamento di base dovuto, il rifiuto, pur in sé conforme al tipo, può ancora essere lecito in presenza di una causa di giustificazione. Non potranno venire in considerazione qui l’esercizio di un diritto o l’adempimento del dovere, che escluderebbero in radice già lo stesso obbligo, ma potrà ben trattarsi, p.e., di uno stato di necessità: che opererà, peraltro, solo in presenza degli elementi di cui all’art. 54 c.p. ‘‘Indebitamente’’, infatti, ripreso pari pari dall’art. 328 previgente, sembra rinviare qui a norme giuridiche, non a semplici valutazioni sociali. Secondo alcuni, invece, l’avverbio significherebbe più latamente ‘‘senza giustificato motivo’’, rendendo irrilevante la condotta tipica già in presenza di particolari (38) difficoltà nel compimento dell’atto. Ma la tesi, che pure soddisferebbe una certa simmetria con ‘‘le ragioni del ritardo’’ di cui al comma 2o (39), non pare da accogliere, poiché introduce una pericolosa elasticità con un’interpretazione che in parte forza il dato testuale, per giunta in relazione ad atti urgenti dovuti dalla p.a. per ragioni di interesse generale. 5. Consumazione e tentativo. Il dolo. — 5.1. La consumazione del reato del comma 1o si ha nel momento in cui il p.u. o i.p.s. rifiuta (37) Anche nel caso di istruzioni o ordini superiori: un ordine illegittimo non attualizza l’obbligo, cioè non è vincolante, salva l’eventuale insindacabilità: art. 51 c.p. Non indebita la condotta, tra l’altro, neppure in caso di sciopero legittimo: cfr. p.e. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 311; SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit., p. 721; in passato, p.e. Trib. Livorno 29 marzo 1966, in Foro it., 1968, II, c. 416. (38) ‘‘Eccessive’’: così STILE, Omissione, rifiuto, cit., p. 156; v. anche TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 79, ma con precisazioni. (39) CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 19.
— 31 — l’atto dovuto. Sul terreno pratico, dato il presupposto dell’atto da eseguirsi ‘‘senza ritardo’’ (locuzione che suo malgrado mostra una certa elasticità: donde, di fatto, possibili incertezze), l’identificazione sarà tanto più agevole quanto più esplicito sia stato il rifiuto, oppure, nel caso di rifiuto tacito, quanto più evidente sia — sempre dopo la richiesta, e rispetto alle esigenze della situazione concreta — il decorso del tempo utile per un’efficace esecuzione (40). Il tentativo non può teoricamente escludersi, anche se estremamente difficile in concreto (41). 5.2. Il dolo del delitto del comma 1o consiste nella volizione del rifiuto, nelle forme indicate, con la consapevolezza dell’avvenuta richiesta e dell’urgenza dell’atto, da compiere per una delle ragioni di cui alla norma, cioè a dire per la salvaguardia dei relativi interessi generali altrimenti esposti a pericolo: prima ancora, il p.u. o i.p.s. deve conoscere (oltre alla propria qualifica soggettiva) la situazione concreta che attualizza l’obbligo come suo, di sua competenza; non è necessario che sappia che rifiutare l’atto o non darvi tempestiva esecuzione dopo la richiesta altrui è reato (ignoranza o errore ex art. 5, rilevante — nella specie può ben dirsi teoricamente — solo nel caso fosse inevitabile), sì invece che la sua condotta contrasta con i doveri dell’ufficio o servizio che lo riguardano (42). Se(40) Si noti che a seconda dei casi il reato può dunque essere commesso con una condotta attiva o con una condotta omissiva. A ragione, comunque, si afferma che si tratta di reato istantaneo (p.e. Cass. 7 aprile 1992, in Cass. pen., 1993, p. 2534; Cass. 25 settembre 1998, n. 211.569; diversam., ma per il diverso art. 328 previgente, Cass. 29 marzo 1974, in Cass. pen. Mass. ann., 1975, p. 1105; reato istantaneo, invece, per Cass. 5 marzo 1973, n. 123.428), che si realizza già con il rifiuto espresso o tacito dell’intervento urgente richiesto; quand’anche, dopo il rifiuto, persista il pericolo per gli interessi di cui alle ‘‘ragioni’’, sia ancora possibile provvedere e resti pertanto l’obbligo dell’ufficio o servizio di compiere l’atto, un ulteriore reato (in eventuale continuazione: analogam., pare, Cass. 7 aprile 1992, cit.) potrà realizzarsi soltanto con un ulteriore rifiuto ad altra richiesta (argom. dalla richiesta come elemento essenziale: supra, n. 4.1). (41) P.e., il p.u. predispone una situazione di fatto direttamente e univocamente idonea a rifiutare l’atto urgente, ma questo viene utilmente compiuto dal superiore che si sostituisce a lui. Si noti che il tentativo non può escludersi neppure considerando il reato, come preferibile, un reato senza evento (Cass. 18 aprile 1997, n. 207.545; per l’art. 328 previgente, v. Cass. 30 marzo 1981, in Cass. pen., 1982, p. 959: non si richiede alcun danno, oltre quello dell’ufficio o servizio insito nella condotta che esclude l’atto; per la configurabilità del tentativo, ma ritenendolo un reato ad evento, PAGLIARO, Delitti, cit., p. 316; riferim. anche in BENUSSI, in Cod. pen. comm., cit., art. 328/55; SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, IX, p. 2; PUTINATI, Omissione, cit., p. 582; SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit., p. 727; per la soluzione negativa, CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 20; in passato, già p.e. MANZINI, Trattato, vol. cit., p. 348; Cass. 30 marzo 1981, in Cass. pen., 1982, p. 959). Assumendo la possibilità di un tentativo, non può escludersi neppure la desistenza volontaria, se l’atto venga poi tempestivamente compiuto (ma dopo il rifiuto manifestato, non pare possibile il recesso attivo; concl. diff., invece, ma di nuovo muovendo dal reato ad evento, in PAGLIARO, Delitti, cit., p. 316). (42) Conf., p.e., Cass. 14 novembre 1990, in Cass. pen., 1992, p. 650; App. Firenze 24 febbraio 1995, in Giust. pen., 1995, III, p. 604.
— 32 — condo le regole, anche qui il dolo può assumere la forma eventuale (p.e. un rifiuto dell’atto pur ritenendo concretamente possibile l’esistenza dell’obbligo). Un effettivo danno per la p.a. non è elemento del fatto tipico, cosicché non si richiede per il dolo la relativa consapevolezza (43). Lo è invece l’ ‘‘indebito’’: l’errore su di esso, cioè il ritenere non doveroso l’atto malgrado una (‘‘seria’’) valutazione della concreta situazione, per un errore di fatto o di diritto inerente alle norme amministrative di riferimento (art. 47, comma 1o o 3o), esclude il dolo (44). La stessa conclusione vale se l’agente ritiene l’atto materialmente impossibile, o che l’atto che compie sia, per gli interessi delle ragioni qualificate, equivalente a quello dovuto (45); ma non pare anche nel caso in cui, sapendo che l’atto è dovuto e possibile, lo rifiuti per non pregiudicare altri (pur ‘‘rilevanti’’, ma) non precisati interessi (46). 6. L’art. 328, comma 2o: l’omissione di atti d’ufficio. ‘‘Fuori dei casi previsti dal primo comma’’. La richiesta dell’interessato e i suoi effetti: distinzione a seconda della previsione o meno di un termine extrapenale per il compimento dell’atto. — 6.1. L’art. 328, comma 2o, con la clausola di riserva iniziale, dispone per i casi che non rientrino nel comma 1o, cioè per tutti gli atti dell’ufficio o servizio non aventi alla base ragioni di giustizia, ordine pubblico, sicurezza pubblica, sanità o igiene, o che, pur avendole, non debbano comunque essere compiuti senza ritardo. In tali casi è punito — meno gravemente che nel comma 1o (qui reclusione fino a un anno, ma, disgiuntivamente, anche solo una pena pecuniaria) — il p.u. o i.p.s. che, non avendo compiuto l’atto dell’ufficio o servizio, non lo compie neppure dopo la richiesta dell’interessato e non risponde a tale richiesta esponendo le ragioni del ritardo. Pur avendo in comune con quella del comma 1o la previa richiesta (qui espressamente menzionata), la diversità degli altri elementi costitutivi indica che si è in presenza di una figura delittuosa autonoma, che poco plausibilmente accomuna nel trattamento atti di portata molto diversa, senza alcuna distinzione in relazione agli interessi che la loro esecuzione dovrebbe garantire. E a proposito di detta au(43) Diff. STILE, Commento, cit., p. 330. (44) Concl. conf., p.e., già in N. LEVI, Delitti, cit., p. 365; inoltre, PAGLIARO, Delitti, cit., p. 313; TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 80; Cass. 29 maggio 1979, in Cass. pen. Mass. ann., 1981, p. 206; Cass. 4 ottobre 1982, in Cass. pen., 1983, p. 1772; Cass. 11 marzo 1985, ivi, 1986, p. 897; contra, in passato, Cass. 13 giugno 1973, in Cass. pen. Mass. ann., 1974, p. 1119; Cass. 5 novembre 1983, in Cass. pen., 1985, p. 376; ma le norme extrapenali che fondano di volta in volta il dovere dell’ufficio o servizio non sono ‘‘in blocco’’ integratrici dell’art. 328, comma 1o, perché non concorrono a definire la fattispecie astratta del reato. (45) STILE, Commento, cit., p. 330. (46) V. invece, per l’art. 328 previgente, TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 83.
— 33 — tonomia, è opportuno osservare che la disposizione, pur tutelando a sua volta il regolare funzionamento della p.a. nel senso del compimento dell’atto richiesto, vi aggiunge qui l’importante aspetto della trasparenza e correttezza dei rapporti tra p.a. e terzi. L’opzione legislativa ha il pregio di instaurare un diretto rapporto tra il richiedente (per lo più il privato, l’ ‘‘utente’’) e la p.a. (47), consentendo al primo di ottenere soddisfazione dalla seconda almeno con le spiegazioni dell’inerzia (o dell’inefficacia dell’eventuale iniziativa), ma presenta anche il difetto di prestarsi di fatto a ‘‘trucchi’’ o ‘‘manipolazioni’’ da parte della stessa p.a., quasi che il disvalore sostanziale dell’omissione dell’atto potesse essere totalmente annullato da una semplice formale correttezza di rapporti. Se si considera poi che l’atto dovuto dalla p.a. può riguardare primari interessi generali (compresi gli stessi del comma 1o, ove non vi sia urgenza), nonché altrettanto importanti interessi individuali, la delimitazione dell’area di rilievo penale del comma 2o, di per sé da approvare, non può non apparire, con questa modalità di attuazione, particolarmente precaria. 6.2. Elemento essenziale del reato, anche nel comma 2o, è un obbligo ‘‘originario’’ della p.a. di compiere l’atto, che in forza di norme o istruzioni interne all’ufficio o servizio si ‘‘personalizza’’ in capo ad un singolo p.u. o i.p.s. Resta intatta anche qui, come nel comma 1o, l’illiceità speciale: malgrado manchi l’avverbio ‘‘indebitamente’’, il disvalore non si coglie se non includendo la contrarietà della condotta alla normativa extrapenale di riferimento (antigiuridicità speciale tacita). Quanto poi alla ‘‘richiesta’’ dell’interessato e ai suoi effetti, si deve distinguere: quando per il compimento dell’atto detta normativa preveda un termine finale, o questo sia in base ad essa ricavabile dalla situazione concreta, i trenta giorni dalla richiesta per compiere (pur tardivamente) l’atto o per rispondere spiegando le ragioni del ritardo — onde precludere ogni responsabilità penale — non potranno che decorrere soltanto dalla scadenza del termine stesso. Nei casi in cui, invece, per l’adempimento dell’obbligo non sia previsto né esplicitamente né implicitamente alcun termine finale, soccorre il brocardo quod sine die debetur statim debetur e la richiesta ex art. 328, comma 2o vale come istanza originaria rivolta ad ottenere il compimento dell’atto: si consideri, infatti, da un lato che tra gli atti rilevanti nel comma 2o possono anche esservi atti — se solo non rientrino tra quelli di cui alle ragioni del comma 1o — da eseguirsi (seppure da intendere in rapporto alla situazione concreta) senza ritardo; e dall’altro lato che, al di fuori di tali ipotesi, la richiesta dell’interessato lascia pur sempre al p.u. o (47) Sottolineano tale aspetto MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 2a ed., 1999, p. 459.
— 34 — i.p.s. un lasso di tempo almeno in linea di principio congruo per il suo attivarsi efficace o comunque per fornire spiegazioni del ritardo. Talvolta sarà la stessa richiesta di cui al comma 2o, dunque, ad attualizzare l’obbligo sancito dall’ordinamento e a fissare così per la p.a., e in particolare per il singolo p.u. o i.p.s., il periodo di tempo utile — onde non incorrere in responsabilità penale — per compiere l’atto medesimo o per esporre le ragioni del ritardo. Postulata in tal modo l’attualità dell’obbligo, il ‘‘ritardo’’ dovrà essere riferito, secondo i casi, o al termine già scaduto statuito dalla normativa extrapenale di settore, oppure al non compimento dell’atto nei trenta giorni dalla ricezione della richiesta prevista dalla disposizione in esame: periodo questo, come si può notare, che nel primo caso offre ai fini penali un’ulteriore dilazione rispetto al termine amministrativo fissato per l’adempimento, ma che nel secondo — quando l’obbligo venga reso attuale soltanto dalla richiesta dell’interessato — costituisce l’unico lasso di tempo valido, sempre per non incorrere in responsabilità penale, per compiere l’atto, o per spiegare perché non lo si compie ancora. 6.3. Non può accogliersi, allora, la tesi secondo cui la richiesta farebbe comunque decorrere il termine dell’art. 328, comma 2o per il compimento dell’atto o per la risposta con le ragioni del ritardo (48), poiché quando dalla disciplina amministrativa risulti per l’atto in questione un termine finale, non avrebbe senso che questo fosse pari pari ‘‘soppiantato’’ dalla norma penale, che non vi è motivo di ritenere abbia tacitamente abrogato disposizioni speciali di altri settori dell’ordinamento che indichino un periodo di tempo, magari più ampio dei trenta giorni del comma 2o, entro il quale, ferma la doverosità dell’atto, è ugualmente possibile utilmente provvedere, e prima del quale non esiste alcun ritardo che meriti propriamente spiegazione. Ma neppure persuade l’altra tesi, secondo la quale il periodo dell’art. 328, comma 2o postulerebbe sempre e comunque la previa integrazione di un illecito amministrativo, e che per quando la disciplina extrapenale non preveda per il compimento dell’atto alcun termine finale propone l’applicazione analogica dell’art. 2 l. n. 241/1990, che con diretto riferimento ad atti di tipo procedimentale, in assenza di specifiche indicazioni di singole p.a., assegna un termine di trenta giorni per concludere il procedimento (49). Infatti, non solo dalla disciplina extrapenale può non risultare alcun termine finale, ma può anche radicalmente mancare l’istanza origi(48) Così invece, pare, p.e. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 299; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., vol. cit., p. 261; ulter. riferim. in ROSSI, Il delitto di rifiuto e omissione di atti di ufficio dopo la riforma, in Studium iuris, 1996, p. 217. (49) In tal senso, pur con consapevole cautela, DASSANO, Nuovo, cit., pp. 154, 159; cfr. inoltre, sul punto, CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 21.
— 35 — naria, dovendo l’atto, al verificarsi di una data situazione, essere compiuto d’ufficio, a totale iniziativa della p.a. (cfr., del resto, l’art. 2, comma 1o l. n. 241/1990 cit.): e che in queste ultime ipotesi la (necessaria) sollecitazione dell’interessato valga a far decorrere un termine amministrativo, soltanto alla scadenza del quale possa inaugurarsi e funzionare, con una nuova richiesta, il ‘‘congegno’’ dell’art. 328, comma 2o, sembra obiettivamente, nel silenzio della norma al riguardo, un... ‘‘favore’’ eccessivo alla nostra p.a., notoriamente bisognosa, almeno in generale, di qualche... salutare incentivo. Con il termine per il rilievo penale dell’omissione, l’art. 328, comma 2o pone l’accento sull’interesse al compimento dell’atto, ma permette nel contempo di ‘‘bloccare’’ la responsabilità penale mediante la spiegazione delle ragioni del persistente inadempimento. Non sembra allora lecito sostenere la costante necessità dell’istanza originaria e della previa realizzazione di un illecito amministrativo, adducendo altrimenti l’eventuale sfasatura tra quest’ultimo e il termine penale di cui al comma 2o e l’assurdità che si realizzi il reato senza che vi sia l’illecito extrapenale. Quando infatti si postuli un atto della p.a. già attualmente doveroso, e il suo perdurante mancato compimento, è difficile negare plausibilità alla comparsa di una rilevanza penale della condotta se il p.u. o i.p.s. non si curi neppure di spiegare a chi vi abbia interesse le ragioni per cui l’atto non venga ancora compiuto: insomma, la novità del rilievo accordato con l’art. 328, comma 2o alla trasparenza dell’azione amministrativa e alla correttezza dei rapporti tra p.a. e terzi rende obiettivamente ragionevole un’accezione della richiesta dell’interessato che includa anche, ove la normativa extrapenale di riferimento non preveda o non consenta di ricavare un termine finale, una funzione di diretto aut-aut al soggetto pubblico. 7. Art. 328, comma 2o e diffide o messe in mora in disposizioni previgenti; in particolare, il rapporto con l’art. 3 l. n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati. Art. 328, comma 2o, silenzio-assenso e silenzio-rigetto: il caso dell’accesso documentale. — 7.1. Altra e diversa questione è quella del rapporto del nuovo art. 328, comma 2o con norme generali che, disciplinando l’attività della p.a., prevedano a loro volta, in caso di omissione di atti, forme di diffida o messa in mora, ricollegando all’eventuale ulteriore inerzia effetti di natura amministrativa o civile. Ciò riguarda p.e. l’art. 25 d.P.R. n. 3/1957, t.u. imp. civ. st. Ora, di fronte ad una siffatta previsione (in caso di omissione di atti, constatazione mediante diffida; se atto da compiersi su istanza di parte, efficacia della diffida solo dopo sessanta giorni dall’istanza; proponibile l’azione di risarcimento dopo trenta giorni dalla notifica della diffida), è difficile negare un impatto dell’art. 328 (nonché dell’art. 2 della coeva l. n. 241/1990): perché se è vero che — come già osservato — la norma penale non ha inteso
— 36 — abrogare specifiche disposizioni di legge che fissano il termine finale per singoli atti, è vero anche che la novità dell’art. 328 — in una prospettiva in parte simile a quella del cit. art. 2 l. n. 241/1990 — si muove evidentemente proprio nella direzione di un accorciamento dei tempi di attesa ‘‘al buio’’ (= senza comunicazione alcuna) in presenza di prolungate inerzie della p.a. 7.2. Discusso è, in un contesto simile, se ed eventualmente in che misura analoghi riflessi dell’art. 328 si siano in concreto prodotti anche in ordine alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati. Per l’art. 3 l. n. 117/1988 si ha diniego di giustizia quando il magistrato non compia l’atto, senza giustificato motivo, dopo che, trascorso il termine di legge per il suo compimento, siano decorsi trenta giorni dal deposito in cancelleria dell’istanza per ottenerlo; ma il termine è direttamente di trenta giorni dal deposito dell’istanza, invece, nel caso in cui non sia previsto un termine di legge (comma 1o). Prima della scadenza, il termine di trenta giorni può essere prorogato dal dirigente dell’ufficio, con decreto motivato, non oltre tre mesi, sempre dal deposito dell’istanza (e di ulteriori tre mesi per la redazione di sentenze di particolare complessità: comma 2o). Quando l’omissione o il ritardo riguardi la libertà personale dell’imputato, il termine del comma 1o è di soli cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell’istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà (comma 3o). Non ripetuto nell’attuale art. 328 il comma 2o nella versione introdotta dalla l. n. 117/1988 cit., che attribuiva rilevanza penale all’omissione o ritardo quando vi fosse diniego di giustizia per l’art. 3 l. n. 117/1988 cit., alcuni autori ritengono che il nuovo comma 2o abbia unificato nei trenta giorni dalla ricezione della richiesta i termini extrapenali (50), in questo modo abrogando anche la normativa civilistica della l. n. 117 cit. (51). Ma la tesi dell’abrogazione non convince (52): non tanto, invero, perché se così fosse, sorgerebbe la responsabilità penale dove manchi quella civile (53), quanto perché pare inaccettabile che una disposizione penale possa avere prodotto tacitamente effetti di così radicale ri(50) Cfr. p.e. GROSSO, Delitti, cit., p. 294; PAGLIARO, Delitti, cit., p. 299; STILE, Commento, cit., p. 332. (51) P.e. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, vol. cit., p. 263; GROSSO, Delitti, cit., p. 294; MANNA, Riforma, cit., p. 316; PUTINATI, Omissione, cit., p. 580; BENUSSI, in Cod. pen. comm., cit., art. 328/42; v. anche LI VECCHI, Omissione, cit., p. 580. (52) Concl. conf. in SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, III, p. 3; v. inoltre BIFFA, Il delitto di omissione di atti d’ufficio: una riforma mancata, in Riv. pen., 1996, p. 6; parzialm. anche DASSANO, Nuovo, p. 141; Trib. Perugia 22 gennaio 1996, in Foro it., 1996, II, c. 393. (53) V. invece Trib. Perugia 22 gennaio 1996, cit.; SEMINARA, in Comm. breve, cit.,
— 37 — lievo su una normativa all’evidenza tutta speciale, per giunta a lungo e recentemente discussa, come quella relativa ai provvedimenti e alla responsabilità dei magistrati. Preferibile pare allora una differente conclusione, secondo cui la l. n. 117 cit. — con le sue previsioni — non è stata abrogata, ma i suoi termini risultano in parte modificati in rapporto al contenuto dell’art. 328, comma 2o. E cioè: quando la legge preveda il termine per il compimento dell’atto, è dalla sua scadenza che potrà formularsi (o avrà effetto se presentata prima) la richiesta ex art. 328, comma 2o, con il periodo di trenta giorni, che coincide con quello del deposito dell’istanza di cui all’art. 3 l. n. 117 (ma che per l’art. 328, comma 2o decorrerà dalla ricezione da parte del magistrato); quando invece il termine non sia previsto, la richiesta varrà come istanza e decorreranno anche qui i trenta giorni, con l’obbligo di compiere l’atto o di spiegare le ragioni del ritardo, ragioni tra le quali potrà esservi la proroga eventualmente concessa ex art. 3, comma 2o l. n. 117 (54). Diverso, infine, il caso di omissione o ritardo di un provvedimento inerente alla libertà personale: trattandosi di atto urgente per ragione di giustizia, infatti, verrà in considerazione subito (salva l’applicazione di altre norme incriminatrici) l’art. 328, comma 1o (ancorché con l’inconveniente della necessità di una previa richiesta). 7.3. Ancora a proposito dei rapporti tra la disciplina amministrativa e la norma penale in esame, merita un’apposita considerazione il caso del silenzio-assenso e silenzio-rigetto. Soprattutto quest’ultimo è stato al centro di particolare attenzione di dottrina e giurisprudenza in relazione al diritto di accesso ai documenti amministrativi. L’art. 22 l. n. 241/1990 riconosce a ‘‘chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti’’ il diritto di accesso ai documenti amministrativi, salvo alcune eccezioni previste, nei confronti delle amministrazioni statali, comprese le aziende autonome, gli enti pubblici e i concessionari di pubblici servizi. Il diritto si esercita con una richiesta motivata alla p.a. che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente: ‘‘trascorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende rifiutata’’ (art. 25, comma 4o). In proposito, si sostiene talora che dalla richiesta motivata di accesso decorrono i trenta giorni previsti dall’art. 22 l. n. 241 cit. e che alla loro scadenza, malgrado il silenzio-rigetto e proprio per cautelarsi nei conart. 328, III, p. 3: ma se davvero dovesse ritenersi abrogata la l. n. 117 cit., la responsabilità penale, con la violazione dell’art. 328, fonderebbe a quel punto quella civile. (54) Un richiamo all’art. 9, comma 6o l. n. 534/1995, che obbliga i dirigenti degli uffici a vigilare sull’osservanza dei termini processuali, in CIPRIANI, Nuove norme sul rispetto dei termini processuali da parte dei giudici (art. 9, 6o comma, l. n. 534/1995), in Foro it., 1996, II, c. 387.
— 38 — fronti di un’operatività potenzialmente arbitraria dell’istituto, sarebbe ammissibile la richiesta ex art. 328, comma 2o con l’alternativa prevista: entro i successivi trenta giorni o disporre l’accesso o almeno rispondere alla richiesta (55). Più radicalmente, poi, un’altra impostazione afferma che, nel caso di una richiesta di accesso, coincidendo il termine dell’art. 22 cit. con quello previsto dall’art. 328, comma 2o, dalla richiesta motivata ex art. 22 decorrerebbero i trenta giorni, già alla scadenza dei quali si realizzerebbe il reato (salva l’eventuale assenza di dolo), ove l’accesso non sia stato disposto e non sia stata neppure data risposta con le relative ragioni (56). Nessun ruolo viene così accordato al silenzio-rigetto, che sarebbe una mera fictio iuris idonea a legittimare la tutela giurisdizionale con il ricorso amministrativo al T.a.r. previsto dall’art. 25, comma 5o l. n. 241, ma non a precludere il normale ‘‘corso’’ della norma penale (57). Ma queste soluzioni non persuadono. Esatto pare piuttosto osservare che, essendo per l’accesso previsto un termine amministrativo, il termine dell’art. 328, comma 2o (diverso, anche se a sua volta di trenta giorni) non coincide con esso (sin qui da condividere, dunque, la prima tesi): come già rilevato, il nuovo art. 328, comma 2o non ha tacitamente abrogato i termini previsti da specifiche disposizioni extrapenali. Ma è un errore, invece, ritenere ininfluente a fini penali l’istituto del silenzio-rigetto (58). Come si vedrà subito meglio, infatti, l’art. 328, comma 2o, dopo la richiesta di chi vi abbia interesse, insiste in primo luogo per il compimento dell’atto, aggiungendo poi, per il caso che l’atto non sia compiuto, che è quanto meno dovuta la risposta con le relative spiegazioni. Ora, in un sistema che non può non coordinare per quanto possibile norma amministrativa e norma penale, l’istituto del silenzio-rigetto, come quello del silenzio-assenso, impone di ritenere che allo scadere del termine previsto l’atto dovuto è per l’ordinamento compiuto: vero che l’atto di cui all’i(55)
Cfr. CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 24, ove anche ulteriori sviluppi; TE-
NORE, Omissione di atti d’ufficio e omessa risposta ad istanza d’accesso: una criticabile sen-
tenza della Cassazione, in Foro amm., 1998, p. 1681; BENUSSI, in Cod. pen. comm., cit., art. 328/48. (56) Cfr. p.e. G.i.p. Trib. Vibo Valentia, in Foro it., 1994, II, c. 652; Cass. 5 maggio 1993, in Riv. pen., 1994, p. 298. (57) In tal senso Cass. 27 febbraio 1997, in Foro amm., 1998, p. 1674; cfr. anche, con riguardo all’art. 328 previgente, TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 77. (58) Concl. sostanzialm. conf. p.e. in IADECOLA, Sulla nuova, cit., p. 607; NANNUCCI, Rifiuto e omissione di atti d’ufficio: una riforma che non migliora invecchiando, in Cass. pen., 1997, pp. 2323, 2331; SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit., p. 713; SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, VII, p. 9; STILE, Commento, cit., p. 329; DE VITA, Successione di leggi penali, silenzio della pubblica amministrazione e configurabilità dell’omissione di atti d’ufficio, in Giur. it., 1997, II, p. 110; App. Campobasso 11 aprile 1996, in Giur. it., 1997, II, p. 88; Cass. 11 dicembre 1998, n. 212.311; v. anche Trib. Piacenza 10 dicembre 1993, in Riv. pen., 1994, II, p. 262; inoltre, D’ARMA, Il maturare del silenzio-rigetto vale ad escludere la fattispecie penale dell’omissione di atti d’ufficio?, in Cass. pen., 1997, p. 3022.
— 39 — stanza motivata è nella specie l’accesso, è altrettanto indubbio che all’istanza medesima è dato giuridicamente al funzionario di provvedere (negativamente) mediante il silenzio. Certo, è possibile che tale silenzio sia in concreto illegittimo; ma per questa eventualità è previsto lo speciale rimedio giurisdizionale di cui all’art. 25 l. n. 241 cit. È il sistema stesso, insomma, a scongiurare qui tecnicamente l’omissione. Si potranno auspicare soluzioni normative differenti abolendo del tutto i casi di silenzio-rigetto, oppure introdurre specificamente, per detti casi, una meritoria più estesa e puntuale trasparenza della p.a.: ma de iure condito questa è la situazione. Ammettere allo stato attuale l’omissione ex art. 328, comma 2o equivarrebbe a spingersi ad affermare che per tale disposizione l’atto dovuto dal p.u. è sempre e soltanto l’atto legittimo (59): il che sembra obiettivamente eccessivo. 8. La richiesta: i legittimati; il destinatario. Gli obblighi: il compimento dell’atto; la risposta per esporre le ragioni del ritardo. Modalità e contenuto della risposta. — 8.1. Sulla richiesta, il comma 2o afferma solo che deve provenire da chi ‘‘vi abbia interesse’’, avere forma scritta e che il termine di trenta giorni decorre dalla sua ricezione. Ogni altro aspetto deve dunque ricavarsi in via interpretativa. Così, l’accenno all’interesse e l’obbligo di spiegazione del ritardo che la richiesta comporta indicano certamente la legittimazione in un soggetto privato titolare di una situazione giuridicamente qualificata (60). Esclusi qui interessi di mero fatto (diversam. dal comma 1o), da cui non può ragionevolmente farsi discendere il suddetto obbligo, devono intendersi invece ricompresi gli interessi collettivi o diffusi la cui tutela sia affidata dalla legge a soggetti istituzionali (61); ma l’accenno del testo normativo a ‘‘chi vi abbia interesse’’ non esclude neppure la legittimazione di soggetti pubblici, in particolare di un’altra p.a., diversa da quella alla quale tocchi di compiere l’atto: sempre che da questo dipendano conseguenze esterne, infatti, non si vede perché, in presenza di una formula ampia come quella della norma in esame, non debba tenersi in conto l’esigenza di efficienza e di comunicazione anche tra differenti ambiti della p.a. (62). (59) Sul punto, supra, n. 4.2. (60) Diritto soggettivo o interesse legittimo: conf. p.e. Cass. 27 settembre 1995, in Riv. pen., 1996, p. 657; Cass. 15 dicembre 1997, n. 209.718; Cass. 29 settembre 1998, n. 212.242. (61) V. p.e. art. 91 c.p.p. Orientati nel senso di un’ampia legittimazione, v. p.e. IADECOLA, Sulla nuova, cit., p. 607; NANNUCCI, Rifiuto, cit., p. 2328: p.e. il difensore civico; sviluppi, sul punto, in DASSANO, Nuovo, cit., p. 151; v. anche BENUSSI, in Cod. pen. comm., cit., art. 328/37, ove ulter. riferim. (62) Cfr. Cass. 21 marzo 1996, n. 204.381: anche la violazione omissiva dell’ordine del superiore gerarchico può integrare il delitto, quando abbia rilevanza esterna: per l’inapplicabilità dell’art. 328, comma 2o nel caso di inerzie solo interne alla p.a., anche interorgani-
— 40 — Quanto al destinatario della richiesta, la natura penale della norma orienta ad individuarlo non nell’ufficio o struttura di servizio impersonalmente intesi ma, almeno se identificabile, in colui che ha l’obbligo di eseguire l’atto (e che dovrà — e sarà in grado di — spiegare le ragioni del ritardo). Questo, tuttavia, non è un requisito di forma della richiesta, che è valida ed efficace, sempre che lo scritto indichi in modo comprensibile l’atto cui allude (63), anche se diretta — inviata per posta, recapitata a mano, in qualsiasi modo trasmessa (non necessaria formale notifica; e neppure spedizione per raccomandata) — all’ufficio, al suo capo o ad altro funzionario (64). Ma resta vero, comunque, che il periodo di trenta giorni, rilevante per l’applicazione della disposizione in esame, non potrà che decorrere da quando ne prende conoscenza il p.u. o i.p.s. che deve provvedere all’adempimento (65). Questa conclusione, che pur presenta senza dubbio inconvenienti pratici (nel caso non proprio remoto di scarsa organizzazione, disordine burocratico, smistamenti interni poco efficienti, ecc.), sembra infatti la sola possibile, se si considera il rilievo che il periodo utile e la scadenza del termine assumono per la responsabilità penale dell’agente. 8.2. Dalla ricezione (cognita) della richiesta il p.u. o i.p.s. ha trenta giorni di tempo per compiere l’atto o per esporre le ragioni del ritardo (66). Più esattamente, egli non risponde penalmente se, pur non avendo compiuto l’atto in precedenza, e/o non compiendolo ora, risponde a chi ha legittimamente presentato la richiesta, spiegando — in modo serio e non pretestuoso (67) — perché non lo compie. Dunque, se compie l’atto, sul piano penale tutto finisce lì (ma se il termine amministrativo fosse già scaduto, è possibile una responsabilità amministrativa o discipliche, p.e. Trib. Siracusa 24 gennaio 1995, in Giust. pen., 1995, II, p. 295; Trib. Avellino 28 maggio 1997, in Giur. mer., 1998, II, p. 474; negativamente anche Cass. 23 febbraio 1998, in Riv. pen., 1998, p. 347, secondo cui ‘‘la tutela delle amministrazioni sarebbe assicurata... da istituti ben più efficaci... come interventi sostitutivi, surrogatori e simili’’; ma in verità l’un rimedio non preclude l’altro. (63) V. p.e. G.i.p. Trib. Piacenza 2 febbraio 1995, in Riv. pen., 1995, p. 617; richiama esigenze di forma, considerando la richiesta ‘‘sostanzialmente come una diffida’’, Cass. 29 settembre 1998, n. 212.243. (64) V. p.e. Cass. 15 dicembre 1997, in Riv. pen., 1998, p. 31, che sottolinea la necessità dell’oggettiva idoneità della domanda in relazione alla competenza del p.u. a compiere l’atto; da condividere, inoltre, Cass. 11 dicembre 1998, n. 212.312, secondo cui non ottengono tutela legale quelle richieste che, ‘‘per mero capriccio, o irragionevole puntigliosità, sollecitano alla p.a. un’attività superflua e non doverosa’’. (65) Così, anche con riguardo ai componenti un organo collegiale, Cass. 23 febbraio 1998, in Riv. pen., 1998, p. 481. (66) Ma i trenta giorni decorreranno dalla scadenza del termine amministrativo, ove fosse previsto e scadesse dopo la richiesta stessa; si noti che prima dei trenta giorni è possibile la rinuncia del richiedente: da condividere Cass. 15 dicembre 1997, n. 209.722. (67) Infra, n. 8.4.
— 41 — nare); se invece non lo compie, la rilevanza penale della sua condotta è preclusa soltanto dalla relativa spiegazione. Si noti che il testo del comma 2o potrebbe ingannare, lasciando credere che i due obblighi siano giuridicamente del tutto fungibili. Ma non pare sia così: la tutela del buon andamento della p.a. (e del raggiungimento dei suoi fini istituzionali), la vicinanza tra comma 2o e comma 1o pur nella loro diversità, nonché la ‘‘storia’’ stessa dell’omissione di atti d’ufficio, mostrano infatti che, malgrado il ruolo essenziale assunto sul terreno penale dalla richiesta e dalla mancata risposta, l’obbligo primario continua a consistere nel compimento dell’atto, mentre l’obbligo della risposta con la spiegazione attiene ad un diverso interesse, cioè alla trasparenza e alla correttezza dell’azione amministrativa. Questa ‘‘gerarchia’’ tra i due obblighi (68) merita di essere sottolineata: dalla priorità dell’obbligo di compiere l’atto, infatti, deriva che il p.u. o i.p.s. potrebbe liberarsi da responsabilità penale per il ritardo protrattosi sino al momento della risposta, ma essere poi ugualmente tenuto a compiere l’atto medesimo, con la conseguenza che non sarebbe esclusa l’eventualità di una successiva nuova richiesta dell’interessato, ancora ai sensi e per gli effetti del comma 2o in esame. D’altra parte, il rilievo pur succedaneo accordato dalla norma all’obbligo di trasparenza e di correttezza dei rapporti tra p.a. e terzi porta a ritenere che, sul presupposto della preesistenza dell’obbligo di compiere l’atto, la risposta sia dovuta anche se l’adempimento sia poi divenuto impossibile. 8.3. Quanto alla risposta del p.u. o i.p.s., la norma non dice alcunché sulle sue modalità, cosicché pare lecito ritenere che entro i trenta giorni debba bensì (se non viene compiuto l’atto) essere effettuata, ma non anche a rigore giungere al (richiedente) destinatario, e inoltre che, a differenza della richiesta, non debba avere necessariamente forma scritta (69). Circa il contenuto, poi, la risposta dovrà esporre ragioni veritiere, non false o pretestuose, che in relazione alla situazione concreta al momento della scadenza del termine amministrativo, nonché a quella presente al momento della risposta alla richiesta, possiedano una reale valenza giustificativa o di discolpa per il soggetto (tuttora) inadempiente: vero che il ‘‘congegno’’ normativo del comma 2o pare offrire al p.u. o i.p.s. e alla p.a. una comoda via di fuga dalla responsabilità penale (70), e (68) Concl. analoga, p.e., in DASSANO, Nuovo, cit., p. 163; CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 23; implicitam., anche Cass. 15 dicembre 1997, in Riv. pen., 1998, 31; nel senso di una ‘‘pura alternatività’’, invece, p.e. SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, VII, p. 8; v. anche STILE, Commento, cit., p. 329; NANNUCCI, Rifiuto, cit., p. 2329. (69) Contra, Cass. 15 dicembre 1997, n. 209.721: ma inaccettabilmente, anche se la forma scritta può essere fondamentale a fini probatori; in senso sostanzialm. esatto, invece, Trib. Cagliari 23 febbraio 1995, in Giur. it., 1996, II, p. 555. (70) V. p.e. PALAZZO, Riforma, cit., p. 833; STILE, Commento, cit., p. 330; FIANDACAMUSCO, Diritto penale, vol. cit., p. 262.
— 42 — vero anche che non può dirsi scongiurato del tutto un rischioso controllo di merito del giudice sull’operato della p.a., la conclusione che nega efficacia a ragioni false o pretestuose, riconoscendo al giudice il potere non di spingersi a sindacare l’opportunità o meno dell’atto, ma di verificare la veridicità delle notizie esposte (71), sembra la sola in grado di conservare una funzione al nuovo art. 328, senza che esso, già poco... brillante, scada in una parodia dell’intervento riformatore del 1990 (72). Si noti che in assenza di indicazioni normative, sul presupposto della veridicità delle allegazioni del p.u. o i.p.s., ragioni valide (73) potranno consistere in — o fondarsi su — cause oggettive ( p.e. la particolare complessità dell’istruttoria; la necessità di acquisire pareri amministrativi o tecnici; l’elevato numero di pratiche da evadere, ecc.) (74), o soggettive (malattie; temporanea assegnazione ad altri incarichi, ecc.). Ne deriva un sistema senza dubbio di precaria funzionalità (75), nell’insieme a dir poco... piuttosto ‘‘naïf’’, ma che, se potesse essere inteso e attuato nella prassi giudiziaria sì con il dovuto equilibrio ma anche con decisione (76), potrebbe contribuire nel tempo — e non sarebbe poca cosa — a porre rimedio ad un costume notoriamente chiuso ad ogni comunicazione tra p.a. e terzi. 9. Consumazione e tentativo. Il dolo. — 9.1. Il reato del comma 2o si consuma nel momento in cui il p.u. o i.p.s., non avendo compiuto l’atto entro il termine previsto dalla normativa extrapenale di riferimento o in base ad essa ricavabile dalla situazione concreta, né, decorso tale termine, dopo la richiesta dell’interessato, alla scadenza del termine di trenta giorni dalla ricezione della richiesta medesima — anche se dal ritardo non possa derivare alcun danno (77) — non abbia neppure risposto per esporre le ragioni del ritardo o abbia esposto ragioni false o pretestuose (ed è la violazione di tale obbligo ‘‘di chiusura’’ a fare del delitto in esame (71) P.e. CADOPPI-VENEZIANI, Omissione, cit., p. 23; inoltre, CORNETTA, Nuovi, cit., p. 655; NANNUCCI, Rifiuto, cit., p. 2329; App. Perugia 14 gennaio 1994, in Rep. Foro it., 1994, p. 434. (72) Sintomatica, sul punto, l’esigenza, in caso di ‘‘ragioni’’ false o pretestuose, di surrogare l’inadeguatezza del comma 2o così inteso con l’eventuale integrazione di un abuso d’ufficio ex art. 323: p.e. STILE, Commento, cit., p. 330; v. anche FIANDACA, Riforma, cit., p. 422; PUTINATI, Omissione, cit., p. 580. (73) Chiarimenti ammessi anche per relationem, cioè rinviando al contenuto di atti o documenti già noti a chi ha sollecitato il compimento dell’atto: da condividere Cass. 4 marzo 1994, n. 198.246. (74) Per un repertorio del genere v. la circolare del Min. Funz. pubbl. 4 dicembre 1990. (75) Scetticismo condiviso da molti autori: p.e. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 300; PUTINATI, Omissione, cit., p. 580. (76) Un certo rigore sembra trasparire p.e. da Cass. 14 novembre 1990, n. 185.753. (77) Da condividere Cass. 4 settembre 1992, n. 191.702.
— 43 — un reato istantaneo, pur quando permanga l’obbligo amministrativo di compiere l’atto richiesto) (78). È (teoricamente) configurabile il tentativo (preparazione di risposta con ragioni di pura fantasia) con eventuale successiva desistenza volontaria (risposta poi tempestivamente plausibilmente corretta). 9.2. Il dolo del delitto del comma 2o consiste nella consapevolezza, da parte del p.u. o i.p.s., della richiesta dell’interessato e dell’obbligo di compiere l’atto dell’ufficio o servizio (deve rappresentarsi che nella situazione concreta l’obbligo si attualizza come suo, di sua competenza), nonché nella volizione dell’inadempimento e della mancata risposta con le ragioni dell’inadempimento medesimo (o nella volizione di una risposta conoscendo la falsità o pretestuosità delle ragioni addotte) entro il termine utile dei trenta giorni. Così, sarà escluso il dolo nel caso che il p.u. o i.p.s. ritenga di non avere l’obbligo di compiere l’atto per un errore su una norma extrapenale di riferimento, e non risponda dunque alla richiesta per spiegare un ritardo che crede non lo riguardi (diverso invece sarebbe l’errore — ex art. 5, rilevante solo se in sé scusabile — di chi creda di non dovere neppure rispondere alla richiesta dell’interessato quando l’obbligo di compiere l’atto, cui era tenuto, sia ormai divenuto impossibile). Altrettanto rilevante, inoltre, sarà l’errore di chi ritenga che l’atto richiesto sia già stato efficacemente compiuto; come anche l’errore di chi — sulla base di notizie trasmessegli da altre competenze — ritenga di esporre per il ritardo ragioni veritiere, che tali invece non sono, ecc. 10. Rifiuto di atti d’ufficio o di servizio, omissione e concorso di reati. — 10.1. L’art. 328, comma 1o e 2o si applica, secondo i principi, sino a che il fatto non rientri in altre norme penali che descrivano condotte di rifiuto od omissione di atti con modalità o in contesti particolari, che proprio per questo sono diversamente (più o meno gravemente) valutate dal legislatore. Figure delittuose speciali, previste in disposizioni che si applicano in luogo delle due dell’art. 328 (a nulla rilevando l’eventuale differente collocazione sistematica), sono p.e. il rifiuto o ritardo di obbedienza del militare o agente della forza pubblica (art. 329), l’omessa denuncia di reato (artt. 361-362), il rifiuto di uffici legalmente dovuti (art. 366). È escluso il concorso reale di norme (e di reati) tra gli artt. 328 e 323. Entrambe le figure delittuose previste nel primo, infatti, sono meno gravi dell’abuso di ufficio nella versione ultima introdotta dalla l. n. 234/1997. Per la clausola di sussidiarietà espressa dell’art. 323, dunque, il rifiuto o l’omissione dell’atto dell’ufficio o servizio che si presentino come abuso d’ufficio, in quanto il p.u. o i.p.s., che violi una norma di legge o di (78)
Cfr., per il delitto del comma 1o, n. 5.1.
— 44 — regolamento, intenzionalmente, con dette condotte, procuri a sé od a altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrechi ad altri un danno ingiusto, daranno luogo alla sola applicazione dell’art. 323. Quanto al rapporto tra gli artt. 328 e 319 (corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio), deve anche qui ritenersi inammissibile il concorso di reati. Alla tesi che lo ammette, infatti (79), si oppone la circostanza che la ‘‘normale’’ corruzione propria, seppure non lo richieda per la consumazione, può dirsi ricomprendere, secondo l’id quod plerumque accidit, il disvalore del (successivo) effettivo compimento dell’atto contrario, o dell’omissione dell’atto dell’ufficio (80). MARIO ROMANO
(79) Per l’art. 328 previgente, p.e. N. LEVI, Delitti, cit., p. 366; Cass. 30 maggio 1979, in Giust. pen., 1980, II, p. 345; Cass. 28 maggio 1985, n. 169.496; per l’art. 328 attuale, p.e. PAGLIARO, Delitti, cit., p. 317; v. anche SEMINARA, in Comm. breve, cit., art. 328, X, p. 3. (80) Ergo, principio di consunzione (sul quale mi si consenta di rinviare al mio Commentario sistematico del codice penale, I, artt. 1-84, 2a ed., 1995, art. 15/32 ss., ove riferim.): concl. conf., ma richiamando il principio di specialità, p.e. in TAGLIARINI, Omissione, cit., p. 84; PUTINATI, Omissione, cit., p. 583; SEGRETO-DE LUCA, Delitti, cit., p. 732; per l’art. 328 previgente, MANZINI, Trattato, vol. cit., p. 338.
PROVVEDIMENTO DI PERQUISIZIONE E MOTIVAZIONE
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La motivazione del decreto di perquisizione: fondamento e ratio. — 3. Motivazione e « fondato motivo di ritenere » rinvenibili le cose che si ricercano sulla persona o in un determinato luogo. — 4. Motivazione e indicazione della condotta criminosa. — 5. Motivazione e indicazione delle ipotesi di reato. — 6. Motivazione e indicazione delle cose da ricercare. — 7. Motivazione e richiesta di consegna. — 8. Motivazione, determinatezza dell’oggetto e perquisizioni presso gli uffici dei difensori. — 9. Motivazione e determinazione del luogo nelle perquisizioni locali. — 10. Motivazione e perquisizioni « miste ». — 11. Motivazione e giustificazione dell’urgenza nelle perquisizioni domiciliari notturne. — 12. Mancanza della motivazione: conseguenze. — 13. Vizi della motivazione e impugnazioni.
1. Il nuovo sistema codicistico — com’è noto — differenzia i mezzi di prova dagli strumenti (mezzi di ricerca della prova) utilizzati per reperire ed acquisire al processo gli elementi probatori (1). La delicatezza della materia è data dai diversi e contrapposti interessi coinvolti nell’attività di ricerca di tali elementi, soprattutto se ciò avviene in una fase (quella delle indagini preliminari) in cui è bensì importante non disperdere il materiale probatorio relativo alla commissione del fatto, ma è altresì importante non vanificare le garanzie poste a tutela della libertà della persona e del suo diritto di difesa. Il difficile contemperamento delle esigenze investigative con i valori dell’individuo, tutelati nella prima parte della Carta costituzionale, emerge in modo netto a proposito della perquisizione (2), ed in particolare quando occorre definire i contorni ed il contenuto della motivazione del decreto che la disponga. La motivazione costituisce, infatti, per così dire, il nervo scoperto della disciplina nella materia de qua. Il codice non precisa che cosa l’autorità procedente debba indicare nel provvedimento di perquisizione: solo una interpretazione teleologicamente orientata del sistema nel suo complesso, allora, può riempire di contenuto quello che (1) In argomento v. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. Uff. del 24 ottobre 1989, n. 250 (Suppl. ord. n. 2), p. 59. E in dottrina, per tutti, F. CORDERO, Procedura penale, 4a ed., Milano, 1998, p. 749 ss., nonché P. TONINI, La prova penale, 3a ed., Padova, 1999, pp. 193-194. (2) Al riguardo v. ampiamente G. BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina del codice di procedura penale: aspetti problematici, in Ind. pen., 1976, p. 31 ss., nonché G. RICCIO, Le perquisizioni nel codice di procedura penale, Napoli, 1974, p. 218.
— 46 — l’art. 247, comma 2, c.p.p. indica genericamente — ma con intendimenti ispirati a ragioni specifiche (cfr. art. 125, comma 3) — come decreto « motivato ». A questo scopo appare utile procedere ad una sorta di « vivisezione » di detta motivazione, analizzandone i singoli profili e i singoli elementi, anche per ricostruire un quadro unitario e sistematico dell’argomento. Così facendo, sarà possibile verificare il grado di minuziosità e accuratezza che — sotto questo aspetto — deve connotare il decreto di perquisizione. Tra le altre e tante cose, sarà necessario approfondire, ad esempio, le modalità di indicazione delle ipotesi di reato poste alla base dell’attività di ricerca e il grado di determinatezza nell’individuazione delle cose oggetto della perquisizione. Sotto quest’ultimo profilo, poi, è necessario interpretare sistematicamente norme apparentemente « slegate », ed in particolare, tra l’altro, quelle disciplinanti la richiesta di consegna di « cosa determinata » (art. 248 c.p.p.) e quelle disciplinanti le perquisizioni effettuate presso gli uffici dei difensori per ricercare cose « specificamente predeterminate » (art. 103, comma 1, lett. b, c.p.p.). Dall’esame così condotto emergerà che il contenuto della motivazione deve essere, senza alcun dubbio, specifico e puntuale. Al riguardo, per vero, alcuna dottrina evidenzia la necessità di un contemperamento tra « l’obbligo sacrosanto alla motivazione » e la prematura discovery che « potrebbe avere effetti esiziali sull’accertamento della verità » (3). Ma, in senso decisamente contrario, va rilevato che, pur essendo innegabile che la perquisizione — tipico atto a sorpresa (4) — interviene normalmente nella fase delle indagini preliminari, quando il diritto alla difesa risulta fortemente attenuato (ex art. 329 c.p.p.) per le esigenze relative all’accertamento dei fatti, e che, dunque, ciò potrebbe implicare una attenuazione in ordine al « tasso » del quantum di motivazione dell’atto stesso, risulta, comunque, che il soggetto perquisito potrà pur sempre avvalersi di quegli strumenti che, in genere, l’ordinamento stesso predispone a tutela del suo diritto ad essere informato per poter così preparare le sue tesi difensive (5). (3) D. POTETTI, Attività del p.m. diretta all’acquisizione della notizia di reato e ricerca della prova, in Cass. pen., 1995, p. 141 ss. (4) V. approfonditamente G. BELLANTONI, Urgenza e perquisizioni, in Ind. pen., 1991, p. 309 (ora in Scritti di procedura penale, Soveria Mannelli (Cz), 1994, p. 35 ss.). (5) Così, il soggetto potrà chiedere, ex art. 335 c.p.p., che gli vengano comunicate eventuali iscrizioni che lo riguardano come indagato e, se i reati per i quali si indaga non rientrano tra quelli previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a, egli avrà diritto a tale comunicazione (salvo quanto previsto dal comma 3-bis dell’art. 335 c.p.p.) e con ciò quindi conoscere quanto meno il reato per cui si sta indagando (in argomento v. specificamente G. VOLPE-L. AMBROSOLI, voce Registro delle notizie di reato, in Dig. disc. pen., vol. XII, Torino, 1997, p. 43 ss., nonché L. CARLI, La notitia criminis e la sua iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., in Dir. pen. e proc., 1995, p. 736 ss.).
— 47 — Orbene, se destinatario del decreto di perquisizione è la persona sottoposta ad indagini, la temuta discovery sulle caratteristiche salienti del fatto per cui si indaga è da addebitarsi, in primo luogo, all’informazione di garanzia che il p.m. è obbligato ad inviargli (6). A ben vedere, infatti, il provvedimento che dispone la perquisizione non svela nulla di nuovo in relazione ai profili principali del fatto — quali, ad esempio, le norme che si assumono violate o il luogo in cui si è realizzata la condotta —, mentre per gli altri aspetti di cui si compone la motivazione — e che saranno qui di seguito illustrati — certamente non può ritenersi che essa attui una discovery ulteriore, rispetto a quella già effettuata con gli strumenti previsti dall’ordinamento, tale da non potere essere tollerata. 2. L’obbligatorietà della motivazione del provvedimento di perquisizione, stabilita dall’art. 247, comma 2, c.p.p (« La perquisizione è disposta con decreto motivato »), discende, ancor prima, direttamente dalla Carta costituzionale. In via generale, infatti, l’art. 111, comma 1o, Cost. dispone che tutti i provvedimenti giurisdizionali (7) devono essere motivati: attraverso l’illustrazione dell’iter argomentativo logico-giuridico seguito dal giudice nel provvedimento stesso, è possibile verificare se egli sia stato rispettoso della legge, cui è sottoposto — art. 101, comma 2o, Inoltre, l’art. 369 c.p.p. impone al p.m. di inviare l’informazione di garanzia quando compie un atto (come la perquisizione) a cui il difensore, ex art. 365 c.p.p., ha diritto di assistere. E in tal modo verranno rese note anche informazioni più circostanziate sulle modalità spazio-temporali della presunta azione criminosa: sul punto v. diffusamente G. BELLANTONI, voce Perquisizioni, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIII, 1991, p. 5 ss. (ora trasfuso in Lineamenti sistematici della disciplina delle perquisizioni, in Scritti, cit., p. 90 ss.); nonché ID., sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda e G. Spangher, Milano, 1997, p. 897 ss. (6) Se l’informazione di garanzia non è notificata contestualmente allo svolgersi della perquisizione, il decreto che dispone la perquisizione stessa dovrà almeno contenerne gli elementi identificativi: così G. BELLANTONI, voce Perquisizioni, cit., p. 6, nonché M. BARGIS, voce Perquisizione, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1994, p. 499. (7) Comunemente si rileva che i provvedimenti del p.m. non possono essere definiti « giurisdizionali ». La giurisdizione, infatti, consiste nel potere di ius dicere, cioè « nel potere di dichiarare, con forza vincolante, quale sia la volontà della legge in un determinato caso concreto, in cui la legge sia stata, o si ritenga violata » (cfr. G. PISAPIA, Compendio di procedura penale, Padova, 1986, p. 3 ss.). Solo il giudice, quindi, — come organo indipendente, imparziale, super partes ed espressione della giurisdizione — è il soggetto a cui ogni parte processuale (ed anche il p.m.), richiede una decisione giurisdizionale in accoglimento di una propria tesi (v., tra gli altri, G. TRANCHINA, in Diritto processuale penale, a cura di D. Siracusano-A. Galati-G. Tranchina-E. Zappala’, vol. I, 2a ed., Milano, 1996, p. 51 ss.). Tuttavia, è stato efficacemente osservato che quando il p.m. svolge funzioni giurisdizionali, come sono quelle connesse alla libertà personale dell’imputato, non può essere negata la sua configurazione come organo giurisdizionale: v., per tutti, G. BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina del codice di procedura penale: aspetti problematici, cit., p. 48, nota 83.
— 48 — Cost. — (8). La motivazione, in pratica, consente di controllare se il principio di legalità, cui ogni magistrato è soggetto, sia stato concretamente osservato. A ciò si aggiunga che la motivazione rende possibile la funzione di « controllo » della Corte di cassazione. L’art. 111, comma 2o, Cost. ammette infatti il ricorso al supremo organo giurisdizionale contro le sentenze e contro i provvedimenti che incidono sulla libertà personale, per violazione di legge (9): perché la Corte possa verificarne la legittimità (10) deve ovviamente conoscere le ragioni della singola decisione (11). L’obbligo di motivazione del decreto di perquisizione è poi previsto in modo specifico dall’art. 13, comma 2o, Cost. (« non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, [...] se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria »). La libertà personale costituisce, infatti, un diritto fondamentale garantito e tutelato dalla Carta costituzionale anche attraverso i principi di tassatività e di legalità: solo nei « casi » e nei « modi » stabiliti dalla legge si può limitare la libertà della persona. Prevedendo, in via generale ed astratta attraverso specifiche disposizioni normative, l’an e il quomodo di tali limitazioni si evitano invasioni arbitrarie e discrezionali nella sfera altrui. Ma non basta: ad ulteriore protezione del singolo nei confronti dello Stato, il provvedimento che dispone perquisizioni, ispezioni, sequestri, detenzioni o qualsiasi altra restrizione della libertà personale deve essere motivato e deve essere adottato dall’autorità giudiziaria, per sua natura indipendente ed imparziale. Con particolare riferimento alle perquisizioni, l’espressione onnicomprensiva « autorità giudiziaria » — cfr. art. 247, comma 3, c.p.p. — consente di individuare l’organo titolare del potere di disporre le stesse nel giudice (8) Cfr. V. DENTI, sub art. 111, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, vol. IV, Bologna-Roma, 1987, p. 6 ss. (9) L’attribuzione alla Corte di cassazione di tale potere di controllo realizza, secondo D. SIRACUSANO, I rapporti fra « Cassazione » e « rinvio » nel processo penale, Milano, 1967, p. 6 ss., la par condicio fra l’imputato e il p.m. e, con particolare riferimento ai provvedimenti incidenti sulla libertà personale, ne garantisce l’inviolabilità ‘‘nel quadro di una « tutela » definitivamente protesa a realizzare il jus litigatoris’’. (10) Come, peraltro, osserva F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, p. 7 ss., la motivazione ex art. 111 Cost. non è solo un mezzo per consentire il controllo mediante impugnazione del corretto instaurarsi del « rapporto giudice-legge », ma riguarda anche il rapporto giudice-fatto. Se, infatti, l’accertamento del fatto viene « stravolto », anche la legge viene raggirata. (11) In argomento v. V. DENTI, sub art. 111, in Commentario della Costituzione, cit., p. 8 ss., nonché A. BARGI, Il ricorso per cassazione, in AA.VV., Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, vol. II, Torino, 1998, p. 456 ss. Sui rapporti tra motivazione del decreto di perquisizione e impugnazione dello stesso v., comunque, più ampiamente, infra, § 13.
— 49 — del dibattimento e, durante le indagini preliminari, nel pubblico ministero (12). Le stesse garanzie devono essere osservate — in virtù del richiamo operato dall’art. 14, comma 2o, Cost. (nel domicilio non « si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale ») — anche per le limitazioni alla libertà di domicilio (13). L’inderogabilità degli artt. 13 e 14 Cost. rende la motivazione « requisito essenziale » del provvedimento di perquisizione (14). E ciò, naturalmente — v. art. 125, comma 3, c.p.p. —, « a pena di nullità » dello stesso (15). Il fondamento della obbligatorietà della motivazione del provvedimento di perquisizione, infine, è strettamente legato al riconoscimento, da parte dell’ordinamento, della presunzione di non colpevolezza, superabile solo con una sentenza definitiva. Si ipotizzi che la perquisizione personale intervenga durante le indagini preliminari (16), per ricercare elementi che poi, nel corso del giudizio, potrebbero essere usati per superare la suddetta presunzione e convincere il giudice della fondatezza delle tesi accusatorie. Il soggetto costretto a subire questa invasione nella propria sfera ha, quindi, il diritto di conoscerne tempestivamente le ragioni, in quanto solo così potrà esercitare un suo diritto fondamentale, quello alla difesa. Anche la Corte di cassazione ha rilevato che « l’interessato, ove ignori i precisi motivi, le particolari esigenze probatorie (...) che hanno determinato la perquisizione, viene ad essere privato del diritto di difesa in ordine al provvedimento adottato nei suoi confronti » (17). (12) Durante le indagini preliminari, nel caso di perquisizioni presso gli uffici dei difensori, sarà però il g.i.p. a disporre la perquisizione stessa autorizzando il p.m. a procedervi: v. M. BARGIS, voce Perquisizione, cit., p. 492. Ed è poi discusso se la perquisizione possa venire disposta dal g.u.p. in fase di udienza preliminare ex art. 422 c.p.p.: cfr. G. BELLANTONI, sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., pp. 895-896. (13) In argomento v. diffusamente, anche per i riferimenti, G. BELLANTONI, Appunti sulle perquisizioni domiciliari ex art. 33 l. 7 gennaio 1929, n. 4, in Riv. dir. fin., 1973, p. 303 ss., nonché G. AMATO, sub artt. 13-14 Cost., in Commentario della Costituzione, cit., vol. II, 1983, p. 5 ss. (14) Così G. BELLANTONI, voce Perquisizioni, cit., p. 5. (15) Cfr. G. BELLANTONI, sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 896; nonché Cass., sez. VI, 21 maggio 1993, Caputi, in C.E.D., n. 194374. In argomento v. più diffusamente infra, § 12. (16) La perquisizione, caratterizzandosi per essere un atto a sorpresa, si verifica, infatti, molto più frequentemente ad opera del p.m. nella fase delle indagini preliminari: in argomento cfr., ad esempio, L. IANNONE, Sulle condizioni legittimanti la perquisizione domiciliare, in Cass. pen., 1996, p. 1543. (17) Così, in motivazione, Cass., sez. V, 2 marzo 1995, Kugelmeier, in Cass. pen., 1996, p. 893. Più in generale, sul valore endoprocessuale della motivazione a fini di garanzia difen-
— 50 — 3. Il nuovo codice configura, accanto alle perquisizioni personali ex art. 249, le perquisizioni lato sensu locali. All’interno di quest’ultimo genus, si pongono poi — cfr. art. 251 — le perquisizioni domiciliari (18). Scopo del perquaerere è, in ogni caso, la ricerca del corpo del reato, di cose ad esso pertinenti e, per le perquisizioni locali, anche di persone da assicurare alla giustizia (19). Il ricorso a tale mezzo di ricerca della prova, comunque, non è rimesso ad libitum all’autorità giudiziaria. I limiti previsti dalla Costituzione — cfr. artt. 13 e 14 — sono peraltro relativi alle perquisizioni personali e domiciliari e non appaiono suscettibili di essere applicati sic et simpliciter alle perquisizioni lato sensu locali, in quanto queste non incidono né sulla libertà personale né su quella domiciliare (20). Tuttavia, il codice di procedura penale — cfr. art. 247, comma 1 —, consentendo all’autorità giudiziaria di disporre la perquisizione solo quando vi è « fondato motivo di ritenere » che in un certo luogo o su una data persona si possano rinvenire le cose o le persone che si ricercano, mostra l’intenzione — sotto questo aspetto — di voler disciplinare uniformemente le perquisizioni personali e quelle lato sensu locali. Il primo elemento di cui si deve comporre la motivazione è, dunque, l’indicazione e la valutazione della fondatezza dei motivi de quibus. Secondo certa giurisprudenza formatasi sotto il vigore del c.p.p. previgente, appoggiata da un certo indirizzo dottrinale, il motivo, per essere fondato, deve trovare ragione nel personale convincimento dell’autorità che procede (21). Alla base del giudizio di fondatezza starebbero, evidentemente, valutazioni soggettive del p.m. o del giudice operate con riferimento al momento in cui si dispone la perquisizione. Tuttavia, se così fosse, sarebbero sufficienti la mera congettura e l’osiva cfr. S. SOTTANI, Un sistema in trasformazione, in AA.VV., Le impugnazioni penali, cit., vol. I, p. 48 ss. (18) Il c.p.p. del 1930 disciplinava esclusivamente le perquisizioni personali e quelle domiciliari. Tuttavia, da più parti era stata sottolineata la possibilità che l’attività di ricerca si svolgesse anche in luoghi diversi dal domicilio, e si era quindi suggerito, de iure condendo, di dar vita alla figura della perquisizione locale: v., per tutti, G. BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina del codice di procedura penale, cit., p. 37, nota 30. (19) L’art. 247, comma 2, c.p.p. — come si è visto (v. supra, § 2) — impone, per il provvedimento di perquisizione, la forma del decreto. La scelta di tale veste formale appare appropriata. Il decreto, infatti, « esprime un ordine, un comando, un atto dell’autorità »; si tratta di un atto che di regola ha carattere amministrativo e che può essere emanato sia dal giudice che dal pubblico ministero. Esso — v. art. 125, comma 3, c.p.p. — deve essere motivato a pena di nullità, nei soli casi stabiliti dalla legge: cfr. A. GALATI, in Diritto processuale penale, cit., vol. I cit., p. 264. (20) In tal senso G. BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina del codice di procedura penale: aspetti problematici, cit., p. 37. (21) Cfr. U. PIOLETTI, voce Perquisizioni, in Noviss. dig. it., vol. XII, Torino, 1965, p. 1002.
— 51 — pinione basata su apparenze o meri sospetti, per giustificare il ricorso ad un mezzo profondamente incisivo della libertà del soggetto colpito. Proprio questa forte intrusione nella sfera altrui, induce allora la dottrina maggioritaria a richiedere che il motivo debba riposare su « un giudizio di probabilità e non di mera possibilità » (22). In pratica, occorre che gli elementi di fatto ed i concreti indizi a disposizione, attraverso un giudizio prognostico basato sull’id quod plerumque accidit, lascino desumere che le cose pertinenti al reato o la persona da arrestare possano essere rinvenute sulla persona o in un determinato luogo. A sostegno di tale opzione interpretativa si è osservato che il nuovo c.p.p. ha sostituito il precedente verbo « sospettare » con il verbo « ritenere » — « quando il giudice ha fondato motivo di sospettare (...) » disponeva, infatti, al riguardo, l’art. 332, comma 1o, c.p.p. 1930 — (23). Ne consegue che per disporre la perquisizione non si può fare riferimento a situazioni sussumibili nell’ambito delle congetture, dei sospetti né a denunce anonime o a fonti confidenziali (24), ma occorrono piuttosto indizi concreti (25), tutti univocamente diretti — come si è detto — a far ragionevolmente pensare che ciò che si cerca si trovi in un dato luogo o su una certa persona (26). In effetti, il verbo « ritenere » richiama un processo logico-deduttivo che, da alcuni elementi oggettivi iniziali, fa derivare alcune determinate conclusioni (appunto la prospettiva del rinvenimento degli oggetti). E di tale procedimento logico-deduttivo, l’autorità giudiziaria dovrà allora dare debito conto nel decreto che dispone la perquisizione. (22) Si veda, già sotto il vigore del c.p.p. 1930, P. BALDUCCI, voce Perquisizione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Milano, vol. XXIII, 1983, p. 144. (23) Parte della dottrina ha evidenziato che l’espressione utilizzata dal nuovo codice è meno vaga di quella utilizzata dal c.p.p. del 1930: così G. BELLANTONI, voce Perquisizioni, cit., p. 5, e, più diffusamente, ID., sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 896. Secondo altri, invece e al contrario, il « sospettare » sarebbe — addirittura — qualcosa di più del semplice « ritenere »: cfr. U. NANNUCCI, L’oggetto della perquisizione domiciliare: generico o specifico?, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 120. Richiede, al riguardo, un « plausibile sospetto » F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 754. (24) Così G. BELLANTONI, sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 896. In argomento cfr., altresì, A. ZAPPULLA, Le indagini per la formazione della notitia criminis: il caso della perquisizione seguita da sequestro, in Cass. pen., 1996, p. 1881; e, in giurisprudenza, Cass., sez. III, 26 aprile 1995, Ceroni, in Cass. pen., 1996, p. 1876; Cass., sez. V, 23 maggio 1992, Casini, in Foro it., 1993, II, c. 85 ss. (25) V. S. ERCOLI, Perquisizioni ed ispezioni, in Noviss. dig. it., (App.), vol. V, 1984, Torino, p. 864; nonché A. ZAPPULLA, Le indagini per la formazione della notitia criminis, cit., p. 1881. Sulla differenza tra indizi e sospetti, al riguardo, v. inoltre Cass., sez. V, 23 maggio 1992, Casini, cit., con nota di A. FERRARO. (26) Cass., sez. V, 5 gennaio 1996, p.m. in proc. Mosca, in Arch. nuova proc. pen., 1996, p. 475; Cass., sez. VI, 8 febbraio 1995, Palmieri, ivi, 1995, p. 434; Cass., sez. V, 18 gennaio 1995, Paticchio, in Cass. pen., 1996, p. 1539; Cass., sez. I, 7 gennaio 1994, Lenzi, ivi, 1995, p. 134; Cass., sez. I, 8 giugno 1993, Zoppoli Thyrion, ivi, 1994, p. 2192.
— 52 — 4. La perquisizione — come si è detto (27) — può intervenire sia nella fase delle indagini preliminari che in quella del giudizio, ma comunque dopo l’iscrizione della notitia criminis: dopo l’iscrizione, cioè, ex artt. 335 e 347 c.p.p., di ogni informazione avente ad oggetto « fatti specifici nei quali siano ravvisabili gli elementi essenziali di un reato » (28). La notizia di reato segna, infatti, il momento iniziale del procedimento penale (29): prima della sua iscrizione nell’apposito registro, l’attività del p.m. — artt. 330 e 335, comma 1, c.p.p. — mira ad acquisire la notizia stessa (30). In tale fase, secondo la dottrina maggioritaria, vige il principio di libertà delle forme, in quanto il procedimento inizia solo con l’acquisizione della notizia, mentre gli atti nei quali essa consiste non appartengono al procedimento, pur essendo rilevanti per la sua instaurazione (31). In pratica, come la Corte di cassazione ha più volte sottolineato, in tutti i casi in cui il p.m. svolga accertamenti e ricerche senza che sussista una formale notitia criminis, gli atti compiuti si pongono fuori dalle indagini preliminari (32). Il principio di libertà delle forme, tuttavia, potrebbe indurre a ritenere ammissibili nella fase pre-procedimentale tutti gli strumenti che, in qualsiasi modo, consentano di acquisire la notizia in questione. A ben vedere, se non sussistono dubbi sulla possibilità di richiedere documenti, di disporre consulenze, ricognizioni, etc. (33) — atti, cioè, non pregiudizievoli per i diritti dell’individuo —, altrettanto pacifico è che il p.m. in questa fase non può disporre perquisizioni, poiché, trattandosi di atti fortemente incidenti sulla libertà del destinatario, presuppongono, quanto meno, il fumus del compimento di un fatto di reato (34). L’attività di acquisizione della notizia di reato muove, invece, nella maggior parte dei (27) V. supra, § 2. (28) In tal senso G.M. BACCARI, Perquisizioni alla ricerca della notizia di reato: il problema della validità del conseguente sequestro, in Cass. pen., 1996, p. 895. (29) In argomento v., tra gli altri, L. CARLI, La notitia criminis e la sua iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., cit., p. 736 ss. (30) Sul punto v. D. POTETTI, Attività del p.m., cit., p. 136 ss., che definisce « preprocedimentale » l’attività precedente all’acquisizione della notizia di reato. (31) Cfr. A. GALATI, in Diritto processuale penale, cit., vol. I cit., p. 252. (32) Così, in motivazione, Cass., sez. III, 26 aprile 1995, Ceroni, cit., p. 1877. (33) Secondo A. ZAPPULLA, Le indagini per la formazione della notitia criminis: il caso della perquisizione seguita da sequestro, cit., p. 1878, in assenza di iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p., al di fuori del procedimento i poteri del p.m. ‘‘divenendo vaghi ed informali, rischiano di venire snaturati e risultare difficilmente controllabili da un « indagato » (di fatto) inconsapevole di essere tale e, comunque, privo della normale tutela giurisdizionale’’. (34) La Cassazione costantemente esclude che la perquisizione possa essere strumento di acquisizione della notizia di reato: v. Cass., sez. VI, 8 febbraio 1995, Palmieri, cit., p. 434; Cass., sez. V, 18 gennaio 1995, Paticchio, cit., p. 1539; Cass., sez. I, 7 gennaio 1994,
— 53 — casi, da meri sospetti o illazioni, se non da denunce anonime o fonti confidenziali (35). A conferma di quanto esposto, si osservi che nella sistematica codicistica le perquisizioni sono disciplinate tra i mezzi di ricerca della prova. Prova è, secondo la definizione di autorevole dottrina, « il fatto rappresentativo che consente la verifica del fatto, ipotizzato quale oggetto di prova » ed i mezzi di ricerca presuppongono, appunto, qualcosa da verificare (36). È preliminare, di conseguenza, l’individuazione del thema probandum. Con particolare riferimento alla perquisizione, nel decreto che la dispone sarà allora necessario illustrare preliminarmente l’evento storico oggetto di indagine, mediante l’indicazione, anche sintetica, dei riferimenti spazio-temporali di azione, idonei a configurare la presunta condotta criminosa (37). Ciò che si richiede è l’astratta configurabilità del reato, ipotizzabile anche in base ad una remota possibilità collegata agli elementi processuali già acquisiti in atti e non in base ad un eventuale sviluppo delle indagini (38). Nel provvedimento di perquisizione sarà necessario, quindi, precisare i contorni del fatto delittuoso posto in essere. Così, se, per ipotesi, si procedesse per il reato di cui all’art. 416 c.p., occorrerebbe indicare il programma dell’associazione, le singole condotte illecite, i mezzi utilizzati per commettere i reati-scopo (39). O, ancora, se si procedesse con riferimento a reati di bancarotta, l’autorità giudiziaria dovrebbe descrivere, anche se Lenzi, cit., p. 134, e da ultimo Cass., sez. VI, 17 giugno 1997, p.m. in proc. Tretter, in Riv. pen., 1998, p. 411. È bene specificare che il fumus necessario per la ricerca delle prove è quello inerente all’avvenuta commissione del reato e non si riferisce invece, alla colpevolezza del singolo: v. efficacemente Cass., sez. II, 10 settembre 1997, Becacci, in Arch. nuova proc. pen., 1998, p. 297. (35) Sull’inidoneità della denuncia anonima a fondare il ricorso a mezzi di ricerca della prova, quali perquisizione e sequestro, v., di recente, Cass., sez. III, 26 settembre 1997, Sirica, in Cass. pen., 1998, p. 2081. Per i rimedi in caso di ricorso, nella fase pre-procedimentale, a strumenti d’indagine ritenuti non legittimi, v. ampiamente, peraltro, A. ZAPPULLA, Le indagini per la formazione della notitia criminis, cit., p. 1883 ss. (36) Così D. SIRACUSANO, Diritto processuale penale, cit., vol. I cit., p. 338. (37) Cass., sez. III, 29 novembre 1996, Carli, in C.E.D., n. 207450; Cass., sez. I, 28 giugno 1995, Faggin, in Cass. pen., 1996, p. 3067; Cass., sez. V, 7 marzo 1995, Kugelmeier, cit, p. 892; Cass., sez. V, 18 gennaio 1995, Paticchio, cit., p. 1539; Cass., sez. I, 7 gennaio 1994, Lenzi, cit., p. 134. (38) V. Cass., sez. VI, 10 giugno 1993, Sabellico, in C.E.D., n. 194607. (39) La Corte Suprema ha annullato, per mancanza di motivazione, un provvedimento di perquisizione locale e successivo sequestro emesso dal p.m., in cui ci si limitava ad affermare che si procedeva per delitti previsti dagli artt. 416 c.p., 1 e 2 l. 25 gennaio 1982, n. 17, senza specificare il tipo di attività illecite poste in essere nell’ambito delle associazioni: v. Cass., sez. I, 22 febbraio 1994, Corona, in Cass. pen., 1995, p. 132 ss.
— 54 — non dettagliatamente, le condotte distrattive poste in essere, collocandole in una precisa dimensione diacronica (40). E, infine, se si trattasse di indagini relative ad associazioni massoniche, più o meno ‘‘deviate’’ sarebbe necessario indicare elementi fattuali e normativi specifici e precisi allo scopo di formulare, anche in via sommaria, una specifica fattispecie criminosa. Di guisa che non sarà sufficiente l’enunciazione vaga e astratta di ipotesi di reato genericamente collegate all’indicazione di « un’attività illecita massonica » (41). La mancanza di dati concreti in ordine al fatto specifico, dunque, non consente di formulare una ipotesi di reato, con il rischio di un uso improprio della perquisizione per fini di ricerca della notitia criminis, piuttosto che per reperire gli elementi probatori per come previsto dall’art. 247 c.p.p. (42). 5. Individuata la condotta criminosa, occorre ulteriormente che il provvedimento di perquisizione indichi le norme penali che si assumono violate, ovverossia determini la qualificazione giuridica della condotta stessa, specificando le imputazioni poste a fondamento della ricerca (43). E, secondo un recente orientamento giurisprudenziale (44), la motivazione deve altresì dare conto delle ragioni, sia pure sommariamente esposte, per cui tale fattispecie potrebbe integrare il reato ipotizzato. L’autorità giudiziaria, cioè, deve illustrare il procedimento di sussunzione del fatto criminoso posto in essere in una specifica ipotesi di reato. A tal proposito si è ritenuto, peraltro, in particolare, che l’incompleta individuazione del thema probandum da parte del p.m. non consenta al tribunale del riesame l’annullamento puro e semplice del provvedimento, ma imponga la verifica della effettiva sussistenza dei requisiti per la sua emissione e, in caso di esito positivo, l’integrazione del provvedimento stesso (45). E non basta indicare il titolo di reato oggetto delle indagini. È altresì (40) Si veda Cass., sez. VI, 4 febbraio 1997, Salvati, in Arch. nuova proc. pen., 1998, p. 297, nella quale si afferma che il decreto di perquisizione non può, per essere valido, limitarsi ad individuare i reati per cui si procede solo con riferimento alle norme di legge violate e, del tutto genericamente, alla commissione di fatti truffaldini. (41) Cass., sez. I, 7 gennaio 1994, Lenzi, cit. (42) Sul tema v., tra gli altri, G.M. BACCARI, Perquisizioni alla ricerca della notizia di reato, cit., p. 894; D. POTETTI, Attività del p.m., cit., p. 138; M. MURONE, Jus perquirendi e ricerca della notizia di reato, in Giust. pen., 1997, III, c. 360 ss.; nonché, più di recente, N. ROMBI, Anonimo, perquisizione, sequestro, in Cass. pen., 1998, p. 2085 ss. (43) Cfr. G. BELLANTONI, sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 896, cui adde D. POTETTI, Attività del p.m., cit., p. 362 ss. In giurisprudenza: Cass., sez. V, 5 giugno 1996, p.m. in proc. Mosca, cit.; Cass., sez. I, 28 giugno 1995, Faggin, cit.; Cass., sez. V, 2 marzo 1995, Kugelmeier, cit.; Cass., sez. I, 22 febbraio 1994, Corona, cit. (44) Cass., sez. III, 29 novembre 1996, Carli, cit. (45) Così Cass., sez. VI, 17 giugno 1997, p.m. in proc. Tretter, cit.
— 55 — necessario illustrare in motivazione le esigenze probatorie, ossia la necessità dell’attività perquirente ai fini del reperimento degli elementi che si mira a rinvenire (46). 6. Costituiscono oggetto dell’attività di ricerca in cui si sostanzia la perquisizione (47), « il corpo del reato » e « le cose pertinenti al reato » — da sottoporre a sequestro probatorio una volta che siano stati rinvenuti: v. art. 252 c.p.p. — e, per la perquisizione locale, anche l’imputato o l’evaso da sottoporre ad arresto (48): cfr art. 247, comma 1, c.p.p. L’art. 253, comma 1, c.p.p., occupandosi di « oggetto e formalità del sequestro probatorio », definisce corpo del reato « le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo », ma omette di fornire una nozione delle « cose pertinenti al reato » (49). E, anzi, è possibile rilevare dai lavori preparatori del nuovo codice che il legislatore ha intenzionalmente ritenuto opportuno rinviare, nella delimitazione di tale concetto, all’interpretazione giurisprudenziale (50). Al riguardo si è consolidato un orientamento (51) che considera cose pertinenti al reato tutte quelle utili anche indirettamente ad accertare la consumazione del reato, l’autore o altre circostanze rilevanti ai fini di causa (52). (46) Sul punto v., anche per i riferimenti, infra, § 6. (47) Sullo scopo della perquisizione e sulle sue differenze da istituti affini (sequestro probatorio, ispezione, accesso a fini fiscali) v., in genere, per tutti, G. BELLANTONI, voce Perquisizioni, cit., p. 1 ss.; nonché, più di recente, ID., sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 891 ss. (48) Con riferimento a quest’ultima ipotesi, la perquisizione si concluderà con un provvedimento restrittivo della libertà personale ed impropriamente l’art. 247 parla di « arresto ». Autorevole dottrina ha, infatti, evidenziato che il termine arresto designa una generica « manus iniectio sulla persona, a reato flagrante o no »: così F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 754. (49) Già sotto il vigore del precedente codice, parte della dottrina aveva rilevato come le due espressioni « corpo del reato » e « cose pertinenti al reato » non fossero equivalenti, dovendo la prima riferirsi a rapporti ben più stretti ed immediati tra la cosa ed il reato: v. G. BELLANTONI, L’oggetto del sequestro penale, in Ind. pen., 1974, p. 627, il quale, comunque, sottolinea che il concetto di corpus delicti rimane pur sempre contenuto in quello più ampio di cose pertinenti al reato (cfr. p. 632). Per un esame storico della funzione probatoria del corpus delicti anche nell’esperienza tedesca v., peraltro, K.H. HALL, Die Lehere vom Corpus delicti, Stuttgart, 1933. (50) V. Relazione al progetto preliminare al codice di procedura penale, cit., p. 68. (51) Per un quadro dei vari indirizzi giurisprudenziali sotto il vigore del vecchio codice v., ad esempio, Cass., 20 maggio 1966, Slucky, in Cass. pen. Mass. ann., 1967, p. 577, n. 871; Cass., 25 maggio 1971, Cazzani, in Giust. pen., 1972, III, c. 393.; nonché Cass., sez. I, c.c. 20 febbraio 1986, Fiorentino, in Riv. pen., 1987, p. 84. (52) Cfr. P.P. RIVELLO, sub art. 253, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 910 ss.
— 56 — Poiché uno degli « antecedenti logici necessari del provvedimento » di perquisizione è costituito dal rapporto di pertinenza tra gli oggetti che si ricercano e il fatto penale (53), la relazione di inerenza al fatto delittuoso oggetto di indagine deve essere talmente forte (54), da conferire agli oggetti in questione una concreta utilità ai fini del procedimento, ovverossia una concreta capacità probatoria (55). In effetti, già sotto il vigore del precedente codice, si precisava che « pertinenti al reato » erano tutte le cose che, presentando comunque un legame con il reato (anche indiretto), fossero necessarie o avessero almeno interesse con il procedimento penale (56). Secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione non occorre dimostrare, nel decreto che dispone la perquisizione, la necessità, ai fini dell’accertamento probatorio, della ricerca del corpo del reato, in quanto « l’esigenza probatoria del corpus delicti è in re ipsa » (57). In effetti, il corpus delicti è sempre necessario per l’accertamento dei fatti (58) e, quindi, l’autorità procedente non ha bisogno di specificare, nel decreto di perquisizione, i motivi fondanti la necessità della sua acquisizione (59). Dubbi non sussistono, invece, sulla necessità di dimostrare (nella parte motiva del provvedimento che dispone la perquisizione) l’esigenza probatoria delle cose pertinenti al reato (60). Queste ultime devono essere strumentali ai fini dell’accertamento dei fatti (art. 253 c.p.p.) e, dunque, (53) Così Cass., sez. III, 29 novembre 1996, Carli, cit. (54) Cfr. Cass., sez. III, 31 marzo 1993, p.m. in proc. Minarelli, in C.E.D., n. 194041. (55) In argomento v. D. SIRACUSANO, in Diritto processuale penale, cit., vol. I cit., p. 421. (56) Cfr. G. BELLANTONI, L’oggetto del sequestro penale, cit., p. 628. (57) Cass., sez. un., 11 febbraio 1994, p.m. in proc. Carella, in Giust. pen., 1994, III, c. 2225. Tale decisione muta il precedente indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni Unite, secondo cui occorreva in ogni caso verificare le esigenze probatorie, sia che il mezzo di ricerca della prova avesse ad oggetto cose pertinenti al reato, sia che riguardasse il corpo del reato (Cass., sez. un., 18 giugno 1991, Raccah, in Cass. pen., 1991, p. 925, seguita, da ultimo, da Cass., sez. II, 19 dicembre 1996, Galizia, in Giust. pen., 1998, III, c. 186). In senso conforme alla pronuncia delle Sezioni Unite del 1994, v., comunque, di recente, Cass., sez. VI, 5 marzo 1998, P.M. in proc. Sarnataro, in Riv. pen., 1998, p. 924, nonché Cass., sez. VI, 16 marzo 1998, Gulino, ibidem, ove tuttavia si precisa che nel provvedimento occorre comunque dare conto della relazione di immediatezza, ex art. 253 c.p.p., comma 2, tra res e illecito penale. (58) Secondo F. CORDERO, op. cit., p. 763, le cose costituenti il corpo del reato appartengono alla fisica del reato stesso. Sul punto, vigente il c.p.p. 1930, v. diffusamente, peraltro, G. BELLANTONI, L’oggetto del sequestro penale, cit., p. 632 ss. (59) L’argomentazione della Corte appare accettabile a patto, però, che dal decreto di perquisizione emerga in modo chiaro e preciso il fatto oggetto dell’imputazione: il rischio di un’accusa indeterminata, infatti, è che l’indeterminatezza si estenda all’oggetto dell’attività perquirente. (60) La Cassazione, infatti, ha evidenziato che, a differenza del corpus delicti in cui il rapporto con il reato è immediato, per le cose pertinenti al reato, invece, il rapporto con il
— 57 — sussiste il nesso di pertinenza solo se si tratta di oggetti che costituiscono prova del reato o delle conseguenze di esso (61). Fermo restando, dunque, che l’obiettivo dell’attività del perquaerere è costituito dal corpus delicti e dalle cose pertinenti al reato, occorre stabilire se, nella motivazione del provvedimento di perquisizione, sia necessario indicare le cose da ricercare o se queste, come sostenuto da un certo indirizzo giurisprudenziale, possano essere legittimamente designate con il mero utilizzo della formula di stile « quanto ritenuto rilevante ai fini delle indagini » (62). A dire di detto indirizzo giurisprudenziale, infatti, tale formula non sarebbe generica e illegale, ma, anzi, consentirebbe la ricerca di cose pertinenti al reato, allo stato non ancora individuabili con precisione (63). La perquisizione — si rileva — non potrebbe essere disposta in maniera « mirata » con riferimento ad una cosa specifica; e, se è vero che il luogo o la persona su cui effettuare la ricerca devono essere preventivamente individuati, ciò non sarebbe altrettanto necessario per le cose oggetto del perquaerere (64). Ma, per vero, può dubitarsi che un decreto così formulato rispetti i requisiti di forma e di sostanza richiesti dal combinato disposto degli artt. 247, comma 2, c.p.p. e 13, comma 2o, Cost. La perquisizione, infatti, è sempre un atto avente uno scopo preciso — la ricerca è finalizzata al successivo sequestro — e presuppone che si sappia già che cosa cercare. L’incertezza che domina l’attività perquirente può riguardare, quindi, il luogo (o la persona) in cui le cose si trovano (65), e non l’oggetto della ricerca stessa. E, peraltro, la stessa Suprema Corte, in altre decisioni (66), ha affermato che per evitare un uso improprio della perquisizione stessa per fini reato stesso è mediato dalla finalità della prova: così Cass., sez. I, 6 maggio 1994, Latanza, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 740. (61) Nel vigore del c.p.p. del 1930, v. Cass., sez. I, c.c. 20 febbraio 1986, Fiorentino, cit., p. 84. (62) V. Cass., sez. V, 15 dicembre 1994, Paticchio, cit., p. 1539 ss. (63) La Corte, in particolare, afferma che l’art. 247 c.p.p., per il decreto di perquisizione, fa riferimento solo a cose pertinenti al reato e che ‘‘l’indicazione aggiuntiva « necessarie per l’accertamento dei fatti » di cui all’art. 253, comma 1, c.p.p. riguardante il sequestro probatorio, non implica un rapporto di assolutezza probatoria ma soltanto richiede l’utilità della cosa pertinente al reato ai fini degli accertamenti di cui al procedimento penale’’: cfr. Cass., sez. V, 15 dicembre 1994, Paticchio, cit., p. 1540. (64) Così Cass., sez. I, 30 aprile 1997, Corini e altri, in Giust. pen., 1998, III, c. 397 ss. (65) Come puntualmente osserva G. BELLANTONI, voce Perquisizioni, cit., p. 2 l’elemento che differenzia la perquisizione dal sequestro è proprio il fatto che la prima postula un sospetto di occultamento del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, mentre attraverso il sequestro si mira soltanto ad acquisire al processo le medesime cose, che però non si ritengono occultate ma siano già note e reperite (magari mediante la precedente attività perquirente). (66) V., ad esempio, Cass., sez. I, 5 luglio 1994, Spinello, in C.E.D., n. 198397.
— 58 — di ricerca della notitia criminis, è indispensabile indicare nel decreto che la dispone, oltre alla condotta di reato, gli oggetti, con riferimento alle specifiche attività illecite. Per individuare in modo specifico e concreto il thema probandum e per dimostrare la necessità probatoria delle cose che si mira a ritrovare mediante l’attività di ricerca, appare dunque indispensabile quanto meno indicare le cose in parola (67), non essendo sufficiente, per procedere a perquisizione, la mera aspettativa di rinvenire spunti utili per proseguire le indagini. Così facendo, infatti, si abuserebbe di un mezzo di ricerca della prova, per dare impulso all’attività investigativa, finendo, come parte della dottrina ha rimarcato, per conferire al p.m. un illimitato potere di sequestro, potere che la giurisprudenza peraltro afferma di voler negare (68). A ciò si aggiunga che molto spesso la perquisizione è eseguita dalla polizia giudiziaria su delega del p.m. che la dispone. Lasciando alla polizia in sede di esecuzione l’individuazione delle cose da ricercare sulla semplice scorta delle delineazioni normative delle nozioni di « corpo del reato » e di « cose pertinenti al reato » (69), l’attività di ricerca così posta in essere necessiterà di convalida da parte del p.m. stesso (70). Se, infatti, il decreto non determinerà esattamente i limiti ed il contenuto della delega, anche con riferimento alle cose che si ricercano, ci si troverà di fronte ad una perquisizione e ad un sequestro operati motu proprio dalla polizia giudiziaria, magari anche fuori dai casi di urgenza in cui l’ordinamento consente all’autorità di pubblica sicurezza di potervi procedere — cfr. art. 352 c.p.p. — (71). 7.
Il decreto che dispone la perquisizione deve dunque recare l’indi-
(67) Cfr. Cass., sez. VI, 8 febbraio 1995, Palmieri, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 434, in cui si sostiene la necessità dell’indicazione delle cose da ricercare, ancorché non ancora individuate, ma che comunque siano riconducibili alle ipotesi accusatorie prospettate. (68) In tal senso v. L. IANNONE, op. cit., p. 1544. (69) Cfr. Cass., sez. I, 30 aprile 1997, Corini e altri, cit. Peraltro — come si è detto — almeno con riferimento al concetto di « cose pertinenti al reato », non esiste alcuna definizione normativa, essendosi il legislatore affidato, in materia, all’elaborazione giurisprudenziale di tale nozione (v. supra nota 50). (70) V., tra le tante, Cass., sez. VI, 4 febbraio 1997, Salvati, in Riv. pen., 1998, p. 115; Cass., sez. III, 4 novembre 1997, n. 3130, in Il Fisco, 1997, p. 14404; nonché Trib. Piacenza, 11 marzo 1997, Pisati, in Riv. pen., 1997, p. 501. (71) Una parte della giurisprudenza di legittimità si è così espressa sul punto, affermando la necessità che il provvedimento di perquisizione individui con sufficiente certezza l’oggetto specifico del sequestro medesimo: non basta, quindi, una generica indicazione di pertinenza di quanto (eventualmente) rinvenuto rispetto al reato ipotizzato: v. Cass., sez. VI, 5 giugno 1997, Mauro, in Riv. pen., 1998, p. 411. Sulle perquisizioni ad iniziativa di ufficiali e agenti di polizia giudiziari v., per tutti, G. BELLANTONI, Urgenza e perquisizioni, cit., p. 309 ss.
— 59 — cazione delle cose che si ricercano. Appare tuttavia opportuno verificare il grado di specificazione che tale indicazione deve raggiungere, anche utilizzando due istituti « chiave » e, precisamente, la richiesta di consegna e le perquisizioni presso gli uffici dei difensori. Orbene, nel caso in cui si ricerchi « una cosa determinata », l’art. 248, comma 1, c.p.p., prevede la possibilità, per l’autorità giudiziaria, di richiederne la consegna senza procedere a perquisizione. Sulla scorta di un’interpretazione a contrario di tale norma, si è ritenuto allora, da alcuna dottrina, che negli altri casi (in cui, cioè non si ricerca una cosa determinata), la perquisizione sia ordinariamente finalizzata a rinvenire cose bensì collegate al reato, ma che però non devono essere preventivamente indicate nel relativo provvedimento (72). Una deduzione di questo tipo va però assolutamente scongiurata. Allo scopo, appare dunque opportuno procedere ad una esegesi della disposizione normativa de qua, tenendo soprattutto presente la finalità perseguita dal legislatore con l’istituto della richiesta di consegna. Già in sede di lavori preparatori (73) si evidenzia che la ratio dell’istituto stesso è la tutela dei principi costituzionali in tema di libertà personale e domiciliare (74) e — sull’eco di quanto suggerito in dottrina (75) — se ne afferma l’estensione ad ogni tipo di perquisizione, personale e locale (76). Orbene, la perquisizione può dirsi diretta alla ricerca di una cosa determinata, quando la cosa stessa sia stata completamente individuata, mediante la precisa indicazione degli attributi materiali e/o giuridici che valgono ad identificarla. Ciò, tuttavia, non implica che nelle altre ipotesi non occorra pre-indicare le cose che si pensa di rinvenire in un certo luogo o su una data persona (77), ma piuttosto significa che l’oggetto della perquisizione può essere determinato anche in modo non specifico. Se, invece, l’oggetto della ricerca è noto nei suoi elementi identificativi (e dunque è specificamente determinato), l’autorità giudiziaria potrà richiederne la consegna (78). (72) Cfr. U. NANNUCCI, L’oggetto della perquisizione domiciliare: generico o specifico?, cit., p. 122. Peraltro, v. anche supra, § 6. (73) Cfr. Relazione al progetto preliminare al codice di procedura penale, cit., p. 68 ss. (74) In argomento v. E. BASSO, sub art. 248, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, p. 708 ss. (75) Cfr. G. BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina, cit., p. 38, nota 34. (76) L’art. 335, comma 1o, c.p.p. 1930, infatti, prevedeva l’operatività della richiesta di consegna solo con riferimento alla perquisizione personale. (77) Contra, ovviamente, U. NANNUCCI, L’oggetto della perquisizione domiciliare, cit., p. 122. (78) Si noti che la richiesta di consegna è rimessa alla discrezionalità dell’autorità stessa e che, quindi, non si tratta di un obbligo ma di una facoltà: l’autorità giudiziaria
— 60 — Peraltro, anche laddove il soggetto passivo aderisca alla richiesta e consegni la cosa determinata, l’autorità giudiziaria potrà comunque procedere a perquisizione, qualora lo ritenga utile « per la completezza delle indagini ». Questa formula aperta suscita perplessità in quanto l’espressione usata nell’art. 248, comma 1, c.p.p. rischia di frustrare proprio le finalità garantiste della norma. A seguito della consegna della cosa determinata, « il fondamento dell’atto di perquisizione dovrebbe essere venuto meno e, di conseguenza, si procederebbe ad una perquisizione sostanzialmente nuova » (79). Ciò deve indurre ad una interpretazione « restrittiva » del potere conferito all’autorità giudiziaria nell’ultimo inciso dell’art. 248, comma 1, c.p.p. Quest’ultima, quindi, potrà disporre la perquisizione solo se ciò sia assolutamente necessario per l’accertamento probatorio dei fatti inerenti ai medesimi reati per cui si sta procedendo (80) e, comunque, dovrà dare conto delle ragioni che, nonostante l’esito positivo della richiesta di consegna, la abbiano spinta a procedere ugualmente a perquisizione (81). La richiesta di consegna può essere altresì finalizzata all’esame di atti, documenti e corrispondenza presso banche. Tale possibilità è contemplata dall’art. 248, comma 2, — che riprende, modificandolo, l’art. 340, commi 2o e 3o, c.p.p. 1930 — (82), con lo scopo di contemperare due interessi ugualmente meritevoli di tutela, quello della riservatezza delle operazioni bancarie e quello della repressione dei reati (83), cercando di salvaguardare il più possibile il primo, per garantire il connesso « può » invitare dice, infatti, la littera legis (cfr. G. BELLANTONI, sub art. 248, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 900). (79) Così A. GIARDA, sub art. 248, in Codice di procedura penale. Commentario, Milano, 1992, p. 563. (80) V. F. CORDERO, op. cit., p. 756, che dopo aver sottolineato la vaghezza del comma in questione, intende la « completezza delle indagini » rispetto all’atto de quo e non rispetto alle complessive valutazioni formulabili dal pubblico ministero indagante. (81) Cfr. E. BASSO, sub art. 248, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. II cit., p. 711. (82) La nuova disposizione ha un contenuto, per alcuni versi, meno ampio del suo precedente storico che si riferiva espressamente a banche ed altri istituti pubblici o privati. È dunque necessario stabilire se l’attuale previsione dell’art. 248, comma 2, sia suscettibile di essere interpretata estensivamente. Il problema si è posto negli stessi termini con riferimento alla previsione dell’art. 255 sul sequestro presso banche. Al riguardo v. ampiamente, anche per i riferimenti, P.P. RIVELLO, sub art. 255, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 921; nonché G. SANTACROCE, Accertamenti, perquisizioni e sequestri presso banche: il superamento della riserva di giurisdizione e l’evoluzione della disciplina, in Giust. pen., 1993, III, c. 727 ss. Per alcuni spunti sul confronto tra vecchio e nuovo c.p.p. v. A. SETTE, Perquisizione e sequestro presso banche tra vecchio e nuovo codice, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 323 ss., nonché S. RAMAJOLI, La prova nel processo penale, Padova, 1995, p. 235 ss. (83) Su cui cfr. la Relazione al testo definitivo del nuovo codice di procedura penale, in Gazz. Uff. del 24 ottobre 1989, n. 250 (Suppl. ord. n. 2), p. 182.
— 61 — affidamento del cliente sulla segretezza professionale degli operatori bancari (84). Poiché la rubrica dell’art. 248 (« Richiesta di consegna ») si riferisce ad entrambi i commi di cui si compone l’articolo stesso, anche l’esame di atti, documenti e corrispondenza di cui al comma 2, ne presuppone la richiesta di consegna o di esibizione al preposto all’istituto bancario (85). In linea con tale interpretazione si pone il recente orientamento della giurisprudenza, la quale ha ritenuto legittima la richiesta rivolta dal p.m. alla banca di « bloccare le cassette di sicurezza al fine della loro apertura ed eventuale sequestro di quanto in esse contenuto ». Secondo la Suprema Corte, infatti, la richiesta di collaborazione alle banche, in questo caso, non ha finalità ablative ma conoscitive ex art. 248 c.p.p. e richiede, comunque, la partecipazione del cliente e della banca per potere aprire le cassette stesse (86). Allo stesso modo è stato ritenuto non abnorme il decreto con il quale il p.m. ingiunga ad una banca la consegna della documentazione relativa a libretti al portatore, nonché la disposta estrazione di copie autentiche (87). In tale fase si assiste, comunque, ad una sorta di attività « prodromica alla perquisizione » (88), che, però, non è detto segua all’esame degli atti in questione. L’autorità giudiziaria procederà, invece, senz’altro a perquisizione in caso di rifiuto della banca a collaborare (89). Si tratta di una particolare forma di perquisizione locale, che può mirare, altresì, ad accertare altre circostanze utili alle indagini (90). Anche in questo caso, peraltro, la perquisizione dovrà essere disposta con decreto motivato nel quale, oltre alle già segnalate specificazioni in ordine alla condotta criminosa e alle ipotesi di reato, l’autorità procedente (91) dovrà ulteriormente dare atto dell’intervenuto rifiuto e dovrà indicare i documenti che si ricercano. (84) In argomento v. G. BELLANTONI, sub art. 248, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 900, nonché, sotto le costellazioni del vecchio codice, ID., Il segreto bancario nella giurisprudenza penale, in Ind. pen., 1973, p. 605 ss. e, autorevolmente, M. PISANI, Accertamenti e sequestri penali presso banche, in Riv. dir. proc., 1981, p. 430 ss. (85) Cfr. G. BELLANTONI, sub art. 248, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 900. (86) Cass., sez. III, 1 ottobre 1996, Olivetti, in Giust. pen., 1998, III, c. 417 ss. (87) Cass., sez. VI, 15 settembre 1995, Berlusconi, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 475. (88) Così Relazione al progetto preliminare al codice di procedura penale, cit., p. 68. Al riguardo v., altresì, G. SANTACROCE, Accertamenti, perquisizioni e sequestri, cit., c. 726. (89) Da più parti è stata sottolineata la natura sanzionatoria della perquisizione in caso di rifiuto della banca a consegnare i documenti richiesti: v., a proposito della parallela norma contenuta nell’art. 340 c.p.p. 1930, G. BELLANTONI, Il segreto bancario, cit., p. 606. (90) Sul punto v. E. BASSO, sub art. 248, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., p. 714. (91) Anche gli ufficiali di polizia giudiziaria a ciò delegati possono esaminare gli atti,
— 62 — Con particolare riferimento alla richiesta presso banche, potrà dirsi adeguatamente motivato, ex art. 248 c.p.p., il provvedimento volto ad acquisire gli atti relativi, ad esempio, alle transazioni effettuate dal dato cliente su un conto corrente di cui siano note le coordinate bancarie (92). 8. Sulla scorta di quanto finora esposto, emerge che il decreto che dispone la perquisizione deve sempre indicare le cose che si ricercano. In alcuni casi, però, l’indicazione generica dovrà lasciare spazio all’individuazione mirata delle stesse. È ciò che si verifica, non solo — come si è detto (93) — con l’istituto della « richiesta di consegna », ma anche in occasione delle perquisizioni presso gli uffici dei difensori (94) — cfr. art. 103, comma 1, c.p.p. —, quando sono imputati essi stessi o persone che vi svolgono in modo stabile attività — v. lett. a — e, altresì, per ricercare cose o persone « specificamente predeterminate » — v. lett. b — (95). Al di là dei problemi di coordinamento delle ipotesi disciplinate nelle lett. a e b dell’art. 103, comma 1, c.p.p. (96), occorre qui verificare che cosa si intenda con la formula « specificamente predeterminate » riferita mentre si discute se a seguito del rifiuto opposto dalla banca essi possano procedere a perquisizione. L’interpretazione più rigorosa dovrebbe indurre a limitare tale possibilità alla sola autorità giudiziaria. Contra, però, v. E. BASSO, op. ult. cit., p. 714. (92) Per una panoramica delle richieste rivolgibili dall’autorità giudiziaria alla banca v. E. GIANFELICI, Il segreto bancario, Milano, 1996, p. 24 ss. (93) V. supra, § 7. (94) Si tratta, com’è noto, di una norma posta a tutela dell’effettività del diritto di difesa e, in seconda battuta, del diritto alla privacy del cliente, garantita attraverso il segreto professionale cui il difensore è rigidamente obbligato. In argomento v., già sotto il vigore del vecchio codice, M. PISANI, Perquisizioni e sequestri presso gli studi legali, in Riv. dir. proc., 1974, p. 622 ss., e, ora, G. FRIGO, sub art. 103, in Commentario al codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, Milano, 1989, p. 654, nonché A. MOLARI, in AA.VV., Manuale di procedura penale, Bologna, 1997, p. 150. (95) Sempre ad una logica garantista si ispirano le disposizioni sulle modalità di esecuzione della perquisizione. Intanto, l’art. 103, comma 4, c.p.p. indica il giudice quale autorità competente ad adottare il decreto, mentre il p.m. potrà eseguire la perquisizione nel corso delle indagini preliminari purché vi sia un’autorizzazione ad hoc da parte del giudice stesso (v. anche supra, nota 12). Nel senso dell’inammissibilità di un simile potere alla polizia giudiziaria v. G. SPANGHER, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, 4a ed., Padova, 1996, p. 115. Inoltre, l’avviso al consiglio dell’ordine forense del luogo rende possibile la partecipazione del presidente o di un consigliere da questo delegato alle operazioni. L’avviso, peraltro, può essere effettuato con forme non solenni, purché se ne garantisca l’effettiva conoscenza: in tal senso Cass., sez. VI, 22 agosto 1994, Pagliuca, in Giust. pen., 1995, III, c. 196. E, in dottrina, v. S. RAMAJOLI, La prova nel processo penale, cit., p. 249. (96) Si osservi che, secondo parte della dottrina, quando si proceda a perquisizioni o ispezioni presso studi legali devono ricorrere entrambe le condizioni indicate nelle lett. a e b dall’art. 103, comma 1o c.p.p.: in tal senso v. A. CRISTIANI, sub art. 103, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., p. 473. Altri, invece, ritengono le due ipotesi prospettate art. 103 come casi distinti e separati: v. F. CORDERO, op. cit., p. 291, nonché G. FRIGO, sub art. 103, in Commentario al codice di procedura penale, cit., p. 659.
— 63 — alle cose (o alle persone) che, tramite la perquisizione, si ricercano presso studi legali. Ripercorrendo le tappe dell’evoluzione legislativa dell’art. 103 c.p.p., emerge che né la legge-delega del 1974, né il progetto preliminare del 1978 si occupavano in modo organico delle garanzie di libertà del difensore nei confronti dei singoli mezzi di ricerca della prova. Infatti, mentre l’art. 102 di quel progetto poneva limiti al sequestro presso studi legali (97), l’art. 242, comma 3, occupandosi delle perquisizioni presso i difensori, prevedeva soltanto l’obbligo dell’avviso al presidente del Consiglio dell’ordine professionale (98). Con la legge-delega del 1987, invece, sono state previste — nel corpus di una sola disposizione (art. 103) — ulteriori e più incisive garanzie, non ultima la specifica predeterminatezza delle cose che si ricercano. Tuttavia, la lettura dei lavori preparatori non offre spunti argomentativi in ordine al problema della determinatezza dell’oggetto del perquaerere. Il quid pluris che caratterizza l’attività perquirente ex art. 103 c.p.p. è esclusivamente costituito da una maggiore precisione nell’indicazione dell’oggetto. Nella norma in parola, infatti, non si rinviene alcuna restrizione « tipologica » delle cose oggetto della perquisizione: che restano, quindi, le stesse di quelle previste, in genere, dall’art. 247, comma 1, c.p.p. (99). Da una interpretazione sistematica degli artt. 247, 248 e 103, comma 1, c.p.p., allora, le cose che si ricercano attraverso la perquisizione appaiono suscettibili di essere indicate nel decreto che dispone la perquisizione in modo variabilmente specifico, fermo restando che, in ogni caso, non è comunque ammissibile una perquisizione in incertam rem. Si deve prospettare, cioè, una graduazione della determinatezza dell’oggetto della perquisizione, graduazione che poi a sua volta si riflette sul grado di precisione della motivazione in ordine a tale elemento. Nella generalità dei casi l’autorità giudiziaria, nel decreto di perquisizione, dovrà indicare, anche se in modo non dettagliato, le cose che mira a rinvenire (100). Il provvedimento potrà allora dirsi adeguatamente mo(97) V. in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. I La legge delega del 1974 e il Progetto preliminare del 1978, Padova, 1989, p. 384 ss. (98) V., al riguardo, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I cit., p. 617 ss. (99) Si tratta, cioè, del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato (o di persone da arrestare). (100) In argomento v. M. BARGIS, voce Perquisizione, cit., p. 500 secondo cui ‘‘sono configurabili perquisizioni « generiche », aventi ad oggetto cose di cui non si conosce preventivamente né la qualità specifica né la quantità, mentre presso gli uffici dei difensori la perquisizione mira a ricercare non solo persone ma anche cose specificamente predeterminate’’.
— 64 — tivato sul punto se individuerà, anche solo mediante l’appartenenza ad un genus, l’oggetto della ricerca. Si pensi, ad esempio, ad un caso di omicidio. Nell’attesa che i risultati dell’autopsia e delle indagini balistiche rivelino lo strumento utilizzato in concreto, il provvedimento di perquisizione potrà avere un grado di determinatezza « relativamente » basso, in quanto potrà solo indicare l’oggetto della ricerca, genericamente, nel fatto di appartenere alla categoria delle armi (con conseguente sequestro di qualsiasi cosa compresa nel genus). Quindi, se, di norma, per rendere legittimo un decreto di perquisizione occorre che le cose siano individuate in modo non equivoco attraverso precisi parametri indicati dall’autorità giudiziaria procedente, per richiedere la consegna delle cose stesse ex art. 248 c.p.p. o per procedere a perquisizione ex art. 103, comma 1, c.p.p., o, ancora, per delegarne l’esecuzione alla polizia giudiziaria, è, invece, necessario un grado di precisione maggiore nell’indicazione dell’oggetto. Si pensi al citato caso della richiesta di documentazione bancaria con riferimento ad un certo cliente e a un determinato conto corrente. Orbene, in tutti questi casi le cose che si ricercano dovranno essere singolarmente menzionate e descritte (101), senza lasciare spazio a discrezionalità operative nel corso dell’esecuzione del provvedimento. 9. Come si è detto, la perquisizione lato sensu locale può essere disposta in qualsiasi luogo. Quando essa si svolge nel domicilio, ovverossia nell’« abitazione » e « nei luoghi chiusi adiacenti ad essa », la perquisizione, ex art. 251 c.p.p., diventa domiciliare. L’ambito spaziale della perquisizione locale deve essere indicato con precisione nel concreto provvedimento che la dispone. Si ipotizzi, ad esempio, che l’autorità giudiziaria, nel decreto di perquisizione, ne deleghi all’esecuzione gli ufficiali di polizia giudiziaria. Se si ritenesse ammissibile indicare genericamente il luogo in cui l’attività del perquaerere debba operare, si lascerebbe un eccessivo margine di discrezionalità alla polizia giudiziaria stessa. Comunque, come sostenuto in giurisprudenza, non occorre che il posto sia individuato in modo dettagliato mediante l’indicazione del numero civico, della via, etc. È però necessario che l’autorità giudiziaria procedente fornisca nel decreto elementi tali da delimitare con precisione l’am(101) In senso decisamente contrario, relativamente all’ipotesi di perquisizione delegata alla polizia giudiziaria, si è invece espressa — in linea, peraltro, con tutta l’impostazione di fondo recepita (v. supra, § 6) — Cass., sez. I, 30 aprile 1997, Corini, cit., secondo cui non occorre che le cose siano nominatim menzionate mediante la loro specifica descrizione, essendo sufficiente una loro sia pur indiretta identificazione da parte della polizia stessa mediante le indicazioni fornite dall’autorità giudiziaria.
— 65 — bito locale nel quale dovrà essere eseguita la perquisizione (102), ed indichi, in motivazione, le ragioni per le quali proprio in quel determinato luogo si reputa probabile il rinvenimento del corpus delicti o delle cose pertinenti al reato. Le indicazioni fornite devono consentire, pertanto, un facile reperimento dei luoghi in cui si svolgerà l’attività investigativa da parte della polizia giudiziaria. 10. L’art. 250, comma 3, c.p.p. prevede che nel corso delle perquisizioni locali, l’autorità giudiziaria possa disporre la perquisizione personale delle persone presenti o sopraggiunte, quando ritiene che le stesse possano occultare il corpo del reato o cose pertinenti al reato. Nel qual caso si parla, secondo l’espressione coniata da autorevole dottrina, di perquisizioni « miste » (103), nelle quali, alla perquisizione locale si affianca quella personale. È allora necessario un nuovo decreto con il quale l’autorità giudiziaria (104) deve motivare le ragioni che la inducono a ritenere probabile il rinvenimento sulle persone presenti del corpus delicti o delle cose pertinenti al reato. 11. La perquisizione domiciliare (105), species del più ampio genus delle perquisizioni locali, non può essere iniziata (106), in forza di quanto disposto dall’art. 251, comma 1, se non in delimitati ambiti temporali, e precisamente non prima delle ore sette e non dopo le ore venti (107). Si tratta, peraltro — v. art. 251, comma 2 —, di limiti derogabili « nei casi urgenti » (108). Il legislatore, però, non si è preoccupato di definire il tipo di urgenza (102) Cfr. Cass., sez. V, 18 gennaio 1995, Paticchio, cit, p. 1540. (103) Così F. CORDERO, op. cit., p. 757. (104) Sulla legittimazione, al riguardo, della sola autorità giudiziaria e non anche della polizia giudiziaria, v. G. BELLANTONI, voce Perquisizioni, cit., p. 4. (105) Per le varie interpretazioni del concetto di domicilio v., per tutti, F. CORDERO, op. cit., p. 758; nonché, ampiamente, A. SCAGLIONE, Le perquisizioni nel codice di procedura penale e nelle leggi speciali, Padova, 1987, p. 71 ss. (106) Giacché, però, il divieto concerne l’inizio della perquisizione (la perquisizione non può essere « iniziata » dice infatti la norma), si deve ritenere che, qualora la perquisizione sia iniziata in orario consentito, ben potrebbe essere proseguita, in caso di necessità, anche di notte fino all’espletamento di tutte le necessarie ricerche (così G. BELLANTONI, sub art. 251, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 907, e, vigente il c.p.p. 1930, M. PISANI, La tutela penale della « riservatezza »: aspetti processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, p. 790). (107) L’interesse che si mira a tutelare è quello alla intimità della sfera domiciliare privata nelle ore del riposo notturno: v. M. PISANI, La tutela penale della « riservatezza », cit., p. 790; nonché G. BELLANTONI, sub art. 251, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 907. (108) Sulle conseguenze dell’eventuale violazione dei limiti temporali in mancanza dell’urgenza, v., tra gli altri, G. BELLANTONI, Urgenza e perquisizioni, cit., p. 311, nonché N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 445 ss.
— 66 — necessario per poter iniziare la perquisizione domiciliare oltre i limiti di tempo stabiliti dal codice. Si è così in presenza di una sorta di norma in bianco (109), che, di per sé, lascia ampio margine alla discrezionalità dell’organo competente. Ad ogni modo, non c’è dubbio che di tale valutazione dovranno esserne illustrate le ragioni nella motivazione del decreto che dispone la perquisizione o, quanto meno, in un successivo ordine scritto (110). Dal corpo del provvedimento — più in particolare — dovranno emergere i motivi per cui nel conflitto tra i due contrapposti interessi — quello alla riservatezza correlata al riposo notturno e quello che spinge alla perquisizione domiciliare — si è preferito sacrificare il primo. Al riguardo, attenta dottrina (111) ha ribadito efficacemente che l’esigenza di tutela della pace domestica può essere posta in secondo piano solo se, procrastinando la perquisizione, si corra il rischio concreto di pregiudicarne l’esito, di non reperire, cioè, le cose oggetto della ricerca (112). E ovviamente, anche tali valutazioni andranno debitamente illustrate nel decreto stesso. L’urgenza, peraltro, va valutata — secondo un recente orientamento giurisprudenziale — con riferimento al momento in cui viene emesso il relativo decreto (ex ante in concreto) e non con giudizio ex post (113). 12. Da tutto quanto finora esposto, appare dunque chiaro che la motivazione del provvedimento che dispone la perquisizione non può certo esaurirsi con il ricorso ad una mera formula di stile — come spesso avviene nella prassi giudiziaria —, ma, al contrario, essa deve essere alquanto articolata, dettagliata e approfondita. Dal combinato disposto degli artt. 247, comma 2, e 125, comma 3, c.p.p. emerge poi - come si è avuto modo di rilevare (114) — che detta (109) Cfr. G. BELLANTONI, Urgenza e perquisizioni, cit., p. 311 ss. (110) Sul punto v. G. BELLANTONI, op. ult. cit., p. 311 ss., nonché E. BASSO, sub art. 249, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. II cit., p. 727. (111) Cfr. G. BELLANTONI, Urgenza e perquisizioni, cit., p. 313. (112) Secondo alcuna dottrina, però, ciò non sarebbe suffficiente, essendo infatti necessario dimostrare ulteriormente che soltanto attraverso questo mezzo di ricerca della prova si possa giungere al risultato prefissato. Se le cose ricercate sono reperibili in altro modo, si dovrebbe ricorrere a strumenti meno incidenti sulla sfera dell’intimità domestica del soggetto passivo del provvedimento (cfr. E. BASSO, sub art. 251, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., p. 728, secondo cui, altresì, occorrerebbe anche dimostrare che il differimento al mattino seguente dell’inizio della perquisizione produrrebbe conseguenze pregiudizievoli per l’intero procedimento: cfr. ivi, loc. cit.). L’art. 352, comma 3, c.p.p., in tema di perquisizione domiciliare notturna ad iniziativa della polizia giudiziaria, individua, invece, esplicitamente la ragione giustificatrice dell’urgenza nel periculum di dispersione del materiale probatorio: al riguardo v. diffusamente G. BELLANTONI, Urgenza e perquisizioni, cit., p. 312. (113) Cass., sez. VI, 17 ottobre 1994, Perri, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 711. (114) V. supra, § 2.
— 67 — motivazione deve corredare il decreto di perquisizione « a pena di nullità ». Quid iuris, allora, sulla tipologia di tale nullità? Si può escludere trattarsi di nullità assoluta, essendo quest’ultima collegata — com’è noto (art. 179) — ad una serie di ipotesi di nullità di ordine generale nonché ai casi in cui le nullità sono definite assolute da specifiche disposizioni di legge (115). Sembra allora versarsi in un’ipotesi di nullità relativa (116). Come tale, essa è rilevabile su eccezione di parte entro i termini previsti a pena di decadenza dall’art. 181 c.p.p. (117). Rilevante, in argomento, è l’art. 182, comma 2, c.p.p. secondo il quale, se la parte assiste all’atto, la nullità deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo. La mancata eccezione di nullità, essendo interpretata come una accettazione degli effetti dell’atto, ne comporta la sanatoria (art. 183, lett. a, c.p.p.). Annullato così il decreto di perquisizione per difetto di motivazione, occorre chiedersi che cosa accadrà all’eventuale sequestro del materiale rinvenuto proprio attraverso la perquisizione illegittima. Al riguardo, nette contrapposizioni sono registrabili all’interno della dottrina e della giurisprudenza. Accanto a chi autorevolmente propone l’applicazione al caso in esame della nota teoria « male captum bene retentum » (118), vi è chi, rilevando l’esistenza di un nesso non solo cronologico ma anche logico-funzionale tra perquisizione e successivo sequestro che rende quest’ultimo invalido, individua, nel caso di specie, un’ipotesi di prova illecita perché incostituzionale e, perciò, viziata da inutilizzabilità derivata (119). (115) Sul concetto di nullità e sulle sue peculiarità nell’ambito del processo penale v., sia pure sotto il vigore del c.p.p. 1930, A. GALATI, voce Nullità (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, 1978, p. 910 ss.; e, ora, ID., in Diritto processuale penale, cit., vol. I cit., p. 324 ss.; M. PISANI, in AA.VV., Manuale di procedura penale, cit., p. 217 ss. (116) Per le caratteristiche peculiari alla categoria delle nullità « relative » cfr., per tutti, O. DOMINIONI, sub art. 181, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, cit., vol. II, p. 283 ss. (117) Nel senso che l’eventuale vizio di motivazione del decreto di perquisizione può essere dedotto come causa di nullità prima che la perquisizione venga compiuta o immediatamente dopo v. Cass., sez. V, 27 dicembre 1995, Melillo, in Cass. pen., 1996, p. 1936. (118) F. CORDERO, op. cit., p. 763. (119) Sulla problematica attinente alle prove c.d. incostituzionali, v., ad esempio, tra gli altri, L.P. COMOGLIO, Perquisizione illegittima ed inutilizzabilità derivata delle prove acquisite con il susseguente sequestro, in Cass. pen., 1996, p. 1547 e ss.; F.M. MOLINARI, Invalidità del decreto di perquisizione, illegittimità del sequestro, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1130 ss.; F. FALATO, A proposito di inutilizzabilità derivata e perquisizioni, in Cass. pen., 1997, p. 2177 ss., T. BENE, L’art. 191 cod. proc. pen. e i vizi del procedimento probatorio, in Cass. pen., 1994, p. 116 ss.; nonché, da ultimo, M. MONTAGNA, Il male captum bene retentum è davvero applicabile ai rapporti tra perquisizione e sequestro?, in Diritto penale e processo, 1997, p. 1125 ss. E, già sotto il vigore del c.p.p. 1930, G. BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina del codice di procedura penale: aspetti problematici, cit., p. 50 ss.
— 68 — L’analoga disputa sul piano giurisprudenziale (120) sembra sedata da una (discussa) decisione delle Sezioni Unite (121) che, pur affermando che la perquisizione invalidata perché viola illecitamente i diritti tutelati dalla Costituzione travolge i risultati così raggiunti, ritiene — contraddittoriamente — che se però la ricerca della prova si è conclusa con il rinvenimento e il successivo sequestro ex art. 252 c.p.p., l’invalidità della perquisizione non si ripercuote sull’atto ablatorio dovuto (122). 13. Gli eventuali vizi della motivazione del provvedimento di perquisizione possono essere censurati attraverso l’impugnazione del provvedimento stesso (123). Con particolare riferimento all’esperibilità, in subiecta materia, dell’istituto del riesame, la giurisprudenza di legittimità è stata a lungo divisa (124). Si è però recentemente affermato, dalla Cassazione a Sezioni Unite, che, stante il principio di tassatività delle impugnazioni e a fronte della non previsione normativa del rimedio del riesame nei confronti del provvedimento di perquisizione, detto provvedimento non può essere sottoposto a riesame. Tuttavia — rilevano i supremi giudici — ove i provvedimenti di perquisizione e di sequestro siano inseriti in un unico contesto, il riesame del provvedimento di sequestro (ammesso per legge ex art. 257 c.p.p.), per la stretta interdipendenza che lega i due provvedimenti, si po(120) Dove, infatti, si sono registrati due diversi orientamenti: il primo esclude ogni ripercussione dell’illegittimità della perquisizione sulla sorte del sequestro (cfr., tra le altre, Cass., sez. V, 27 dicembre 1995, Melillo, cit.; Cass., sez. VI, 26 luglio 1995, Mazzanti, C.E.D., n. 202589); il secondo, al contrario, considerando il nesso intercorrente tra perquisizione e sequestro, fa derivare dall’illegittimità della prima l’invalidità del secondo (tra le altre, Cass., sez. V, 22 settembre 1995, Cavarero, in Cass. pen., 1996, p. 1546; Cass., sez. III, 26 aprile 1995, Ceroni, cit.). Per una più approfondita panoramica v. G. BELLANTONI, sub art. 252, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 908 ss. (121) Cass., sez. un., 16 maggio 1996, Sala, in Cass. pen., 1996, p. 3273, su cui v. G. BELLANTONI, sub art. 252, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 909. (122) Analogamente, da ultimo, v. Cass., sez. III, 27 gennaio 1998, Colucci, in Arch. nuova proc. pen., 1998, p. 471, secondo cui l’insufficiente motivazione del decreto di perquisizione non incide sul successivo sequestro. Tuttavia, la medesima Sezione della Suprema Corte ha affermato, in una diversa decisione, che la nullità del decreto di perquisizione emanato a seguito di una denuncia anonima — e, quindi, utilizzato come mezzo di acquisizione della notitia criminis e non come mezzo di ricerca della prova — travolge anche il conseguente sequestro, proprio in ragione dello stretto rapporto funzionale che lega i due atti: così Cass., sez. III, 26 settembre 1997, Sirica, cit. Con ciò, dunque, la querelle giurisprudenziale, lungi dall’essersi sopita, riacquista vigore e rimane quanto mai aperta ad ulteriori evoluzioni. (123) In argomento, v. G. BELLANTONI, sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 898. (124) Per la soluzione negativa cfr. Cass., sez. I, 8 marzo 1994, Frignani, in Riv. pen., 1995, p. 479, nonché Cass., sez. I, 31 marzo 1992, Miele, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 172. Sostengono, invece, l’ammissibilità di un controllo del giudice del riesame sul provvedimento di perquisizione Cass., sez. V, 27 dicembre 1995, Melillo, cit., p. 1936; Cass., sez. V, 17 ottobre 1994, Perri, cit.
— 69 — trà estendere anche sulla perquisizione, « nei limiti, però, di un’indagine strumentale all’accertamento della legittimità del sequestro medesimo ». Con la conseguenza che i motivi che costituiscono autonoma censura della perquisizione non possono essere presi in considerazione (125). È ancora controversa, invece, la possibilità di ricorrere in cassazione avverso un decreto di perquisizione. A fronte della tesi tout court negativa (126), una parte della giurisprudenza la ammette, invece, facendo leva sugli artt. 13 Cost. e 568, comma 2, c.p.p., per il solo decreto di perquisizione personale, rilevando che solo quest’ultimo incide, limitandola, sulla libertà personale e, in quanto tale, avverso il medesimo decreto è ammesso — cfr. artt. 111, comma 2o, Cost. e 568, comma 2, c.p.p. — il ricorso stesso (127). Così facendo, però, non si tiene conto del rinvio effettuato dall’art. 14, comma 2o, Cost. in tema di tutela della libertà domiciliare, alle garanzie previste per la libertà personale (nel domicilio non si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, « se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale »). Infatti, nonostante parte della dottrina intenda tale richiamo come un rinvio alle sole disposizioni contenute nell’art. 13 Cost. (128), appare più giustificata l’interpretazione di quegli Autori che, invece, intendono il rinvio operato dall’art. 14, comma 2o alle « garanzie prescritte per la tutela della libertà personale », come un rinvio globale a tutte le garanzie stabilite in genere, a tutela della libertà personale stessa, compresa, quindi, anche la garanzia di cui all’art. 111, comma 2o, Cost., proiettata ora nel codice di rito nell’art. 568, comma 2. E con ciò, quindi, si ammette il ricorso per cassazione anche avverso un decreto di perquisizione stricto sensu domiciliare (129) illegittimo perché privo di motivazione (130). D’altra parte, come ha osservato parte della dottrina, il domicilio è un bene tutelato anche perché costituisce un centro di esplicazione (125) Così Cass., sez. un., 29 gennaio 1997, Bassi, in Cass. pen., 1997, p. 1673. (126) Cass., sez. I, 8 marzo 1994, Frignani, cit., p. 479. (127) Cass., sez. V, 27 dicembre 1995, Melillo, cit., p. 1936. Per quanto attiene al ricorso contro i provvedimenti compressivi della libertà personale, la Cassazione non ha mai operato preclusioni di sorta in ordine ai motivi e vi ricomprende anche la deducibilità del vizio della mancanza della motivazione: cfr. D. SIRACUSANO, I rapporti fra « Cassazione » e « rinvio », cit., p. 61. (128) In tal senso v., tra gli altri, P. BARILE-E. CHELI, voce Domicilio (libertà di), in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 865. (129) Non si pongono problemi di impugnabilità del decreto di perquisizione lato sensu locale. Esso, infatti, non incide né sulla libertà personale né su quella domiciliare e, quindi, non è dato pensare ad una applicazione analogica degli artt. 13 e 14 Cost.: in tal senso G. BELLANTONI, sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 895. (130) Cfr., vigente il c.p.p. 1930, G. BELLANTONI, Le perquisizioni nella disciplina del codice di procedura penale: aspetti problematici, cit., p. 47 ss.; nonché, ora, ID., sub art. 247, in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 898 ss. e A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Lezioni, parte speciale, Padova, 1992, p. 224 ss.
— 70 — della libertà personale. Ciò dovrebbe indurre a ritenere ammissibili per il primo tutti i mezzi di tutela della seconda (ed anche il ricorso in cassazione), in quanto proteggendo il domicilio si protegge anche la libertà personale (131). È stato, del resto, esattamente sottolineato che scopo della motivazione (anche per i provvedimenti compressivi della libertà domiciliare) è quello di consentire ai destinatari del provvedimento di conoscerne le ragioni e di decidere tempestivamente la proposizione dell’eventuale impugnativa (132). Privare il soggetto di tale opportunità renderebbe inutile la prescritta obbligatorietà della motivazione, il cui fine ultimo è proprio la possibilità di un controllo sul provvedimento stesso (133). ASSUNTA PATRIZIA MAIORE Borsista di Procedura penale nell’Università di Catanzaro
(131) V. R. CHIARELLI, Domicilio (libertà domiciliare), in Enc. giur. Treccani, vol. XI, 1990, p. 3. (132) Cfr. I. FASO, La libertà di domicilio, Milano, 1967, p. 144 ss. (133) V. anche supra, § 2.
USURA SEMPLICE E USURA QUALIFICATA OSSERVAZIONI CRITICHE SULLA RIFORMA DEL DELITTO DI USURA ALLA LUCE DEL PARADIGMA CARRARIANO (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. I profili qualificanti l’usura penalmente rilevante nella prospettiva di Francesco Carrara. — 3. I limiti dell’attuale assetto normativo. — 4. La rilevante attualità delle osservazioni carrariane.
1. ‘‘Anche la dottrina penale ha i suoi atei: e tali sono coloro che sulle orme di Montesquieu e di Bentham, tengono come unica genesi del diritto la legge dello Stato’’ (1). Sulla base dei risultati conseguiti dalla legge umana in sede di riforma del delitto di usura, il richiamo alla dimensione razionale del diritto, più che un atto di fede o di speranza, è divenuto oggi una necessità. Tra i predicatori dell’ordine giuridico, spiccano la figura e l’insegnamento di Francesco Carrara. I postulati razionalistici della dottrina del maestro lucchese riflettono i principi del diritto naturale penale, racchiusi nel libro immutabile della ragione: si tratta di regole auree che si rivelano un prezioso strumento per valutare le tendenze evolutive dell’attuale sistema penale, quale, ad es., l’esasperato ricorso a tecniche di tutela anticipata volte ad estendere, in modo spesso incontrollabile, il ricorso alla minaccia della pena. Particolarmente significativa risulta, in questa direzione, l’analisi del modello di usura delineato nel Programma del corso di diritto criminale, nell’ambito dell’Esposizione dei delitti in specie. L’attualità dell’impostazione carrariana è sorprendente, se si considerano le profonde differenze socio-economiche che caratterizzano l’usura ottocentesca rispetto a quella odierna. La prima, relegata perlopiù in una dimensione familiare e provinciale, sullo sfondo di un’economia agricola; la seconda, ‘‘d’impresa’’, radicata in una civiltà postmoderna e tecnologica, caratterizzata da dinamiche (*) Il testo costituisce la rivisitazione, l’ampliamento e l’annotazione dell’intervento svolto a Lucca il 30 gennaio 1999, nell’ambito della giornata di studio su ‘‘Usura e attività creditizia-finanziaria’’, organizzata dal Centro Studi Giuridici ‘‘Francesco Carrara’’. (1) CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, Prolegomeni, ediz. 1859, Bologna, 1993, p. 49, nt. 1. Per un’introduzione allo studio del Programma, v. PADOVANI, Il legislatore alla scuola della ragione, in questa Rivista, 1985, p. 706 ss.
— 72 — estorsive e violente e dal dominio del crimine organizzato (2). Parimenti rilevanti i mutamenti sul versante criminologico: dal modello tradizionale dello strozzino, che agisce nella microrealtà economica di quartiere si è passati alla complessa gestione tentacolare, controllata dalla criminalità organizzata. Ciò nonostante, il confronto critico dell’attuale formulazione del delitto di usura con il corrispondente paradigma carrariano dà luogo a risultati di particolare interesse scientifico e politico-criminale (3). Ad assumere rilievo non sono tanto i contenuti transeunti attribuiti al delitto in esame sulla scorta delle incriminazioni del codice penale del Granducato di Toscana. Carrara è ben consapevole della contingenza delle soluzioni normative e dell’impossibilità di fissare e delimitare una volta per sempre i contorni criminosi delle pratiche usurarie (4). Meritevoli di attenzione risultano, piuttosto, le coordinate razionalistiche e metodologiche che, secondo la prospettiva deontologica del maestro lucchese, debbono regolare l’incriminazione del fenomeno in esame. 2. Per cogliere il significato della prospettiva carrariana si deve tener conto, da un lato, dell’accezione avalutativa e generica di usura quale compenso per l’uso del capitale altrui, dall’altro, della connotazione individualistica e liberale dell’oggetto giuridico. Quello di usura è infatti un delitto naturale (5), posto a tutela del patrimonio individuale ed è classificato come delitto contro la proprietà nella categoria dei c.d. furti impropri (identificati nei malefzi caratterizzati dalla violazione dell’altrui proprietà senza violazione del possesso) (6). Carrara critica la cornice pubblicistica apposta alla figura criminosa da parte di chi, facendo riferimento a consi(2) Sul punto v. E. GALLO, L’usura nell’evoluzione dei tempi fino agli ultimi provvedimenti normativi, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 300 ss.; sull’evoluzione storica del delitto in esame v. LA PORTA, La repressione dell’usura nel diritto penale italiano, Milano, 1963, p. 3 ss.; AMMIRATI, Il delitto di usura. Credito e sistema bancario (l. 7 marzo 1996, n. 108), Padova, 1997, p. 7 ss.; p. 65 ss.; BERTOLINO, Le opzioni penali in tema di usura: dal codice Rocco alla riforma del 1996, in questa Rivista, 1997, p. 774 ss. (3) Nel Programma del corso di diritto criminale, il delitto di usura è trattato nella Parte speciale ossia Esposizione dei delitti in specie, vol. IV, Sezione I, Classe VI, Capitolo VIII, Titolo VI, §§ 2382-2394. L’edizione del programma alla quale si fa riferimento è la seconda, pubblicata a Lucca nel 1869. (4) Carrara non si fa certo illusioni sulla possibilità di estirpare con lo strumento penale il prestito di denaro ad interessi esorbitanti: ‘‘il fenomeno che il povero spinto dal bisogno si arrenda e che il ricco spinto dall’avidità sprema il povero si è ripetuto e si ripeterà in tutti i tempi come conseguenza naturale delle rispettive passioni e della reciproca situazione’’ (Programma, Parte speciale, cit., § 2382, nt. 1, p. 554). (5) Sul punto v. CARRARA, Programma, Parte generale, cit., § 160 ss., p. 135 ss. (6) L’usura è inserita nella classe dei delitti contro la proprietà, nella categoria dei furti impropri, caratterizzati dalla violazione dell’altrui proprietà senza violazione del possesso: ‘‘il proprietario si spoglia volontariamente a favore di altri del possesso a seguito di inganno o artifizio preordinato a usurpare la proprietà, come nel caso dell’usura prava’’. Lo
— 73 — derazioni puramente economiche (ovvero l’impoverimento del capitale d’industria ad opera delle arti usurarie), aveva classificato tale reato nei delitti contro il commercio o contro la pubblica fede: ‘‘questa — osserva Carrara — può essere una verità economica e può tenersi come ragione per punire l’usura. Ma le considerazioni di economia sociale difficilmente si prestano ad indicare al giure punitivo la nozione giuridica e la classe di un malefizio’’ (7). Denunciando la frequente confusione dottrinale tra la ragione della punizione e la nozione giuridica (ovvero la classe del malefizio), Carrara ci ricorda ‘‘che, tranne eccezionali casi di prevalenza costante e perpetua, i reati si definiscono dal diritto aggredito immediatamente e l’usura ferisce il patrimonio privato per sua costante e diretta azione: l’influsso dei contratti usurari sul commercio è eventuale e meramente possibile’’ (8). Sia la storia morale dell’usura (in cui la dazione di denaro ad imprestito viene vista ora come atto indifferente ora come peccato vituperevole), che quella politica, rimangono ai margini dell’esposizione del delitto (9). Sono meri antefatti che ci preparano alla storia giuridica dell’usura, oscillante tra i due poli della tolleranza e della repressione penale, e dalla quale emerge la peculiare permeabilità della materia a interessi morali o utilitaristici, che prendono di volta in volta il sopravvento sulle regole proprie del diritto, deformandole secondo le esigenze del momento: la repressione penale — osserva lucidamente Carrara — trae perlopiù origine ‘‘da uno slancio di sentimento o da calcoli d’interesse, anziché da ragionate deduzioni giuridiche’’ (10). Di fronte all’eterogeneità delle soluzioni legislative adottate nei vari ordinamenti europei, l’autore mette a fuoco il nucleo del problema, tuttora al centro dell’odierno dibattito in materia di usura: è ammissibile punire il contratto usurario ‘‘oppure deve il magistero penale starsene indifferente ed ozioso lasciando le riparazioni al magistero civile, troppo spesso impotente?’’ (11) E in caso affermativo, come contrassegnare lo spartiacque tra la repressione penale del fenomeno usurario e il ricorso ordinario allo strumento civilistico? Quali sono le modalità con le quali il spossessamento volontario accomuna l’usura allo stellionato e al falso privato (v. CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2278 ss., p. 421 ss.). Sulla distinzione carrariana tra furto proprio e furto improprio, e, più in generale, per un’analisi del profilo storico dei reati contro il patrimonio v. SGUBBI, v. Patrimonio (reati), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, pp. 340; 354 ss. (7) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2385, p. 558, nt. 1. (8) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2385, p. 558, nt. 1. (9) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., §§ 2382 e 2383, p. 552 ss. (10) V. CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2384, p. 556. (11) La citazione è tratta da CARRARA, Frode - Prodigalità - Simulazione, in Opuscoli di diritto criminale, V, Prato, 1889, p. 545.
— 74 — magistero penale e quello civile debbono ripartirsi le rispettive competenze in materia di usura? Oltre che nei citati paragrafi del Programma, l’impostazione generale del problema la ritroviamo, negli Opuscoli di diritto criminale, nel saggio su ‘‘Frode, prodigalità e simulazione’’, laddove si analizza l’annoso problema della differenziazione di tutela e della delimitazione tra sfera penale e sfera civile: ‘‘qui — rileva Carrara — sta il delicatissimo punto di confine fra l’obbligo sociale di prestare protezione al diritto col mezzo del magistero punitivo, o di prestarla soltanto col mezzo del magistero civile. E qui stanno le divergenze fra le opinioni dei pubblicisti; le divergenze fra i dettami delle diverse legislazioni e fra gli effetti delle varie giurisprudenze’’ (12). Il compito, riservato al legislatore, di tracciare la linea di confine tra le due sfere di tutela, emerge in tutta la sua delicatezza: ‘‘è questo lo scoglio più pericoloso nel quale risica di urtare il legislatore. Distinguere il sindacato morale dal sindacato politico; e distinguere il magistero civile dal magistero penale. Ogni deviazione da tali confini è un’ingiusta offesa alla libertà civile’’ (13). Sul piano specifico dell’incriminazione dell’usura, la soluzione proposta da Carrara è ispirata al relativismo funzionale: l’usura in sé, semplice, consistente nel prestito di denaro con interessi superiori al tasso legale, in tanto può assumere rilevanza penale, in quanto presenti modalità concrete (quale, ad es., la frode), che mettano a repentaglio la sicurezza e l’opinione della sicurezza degli altri consociati. L’incriminazione dell’usura dipende quindi dall’entità del c.d. danno mediato o riflesso, e cioè dall’aggressione alla sicurezza sociale: in difetto di turbamento dell’ordine esterno non vi è necessità di ricorrere allo strumento penale (14). La ratio (12) CARRARA, Frode - Prodigalità - Simulazione, cit., p. 548. In ordine alla punibilità dell’usura, Carrara ricorda che ‘‘nelle vecchie pratiche è indubitato che si riconobbe la punibilità della simulazione illecita intervenuta in un contratto; e illecita si disse quando era in frode alla legge; come quando si trasmutava la vera indole del contratto per palliare un’usura; oppure in frode del terzo, come quando si simulava di vendere pel fine di sottrarre le proprie sostanze alle esecuzioni dei creditori, o quando si facevano apparire debiti fittizi per diminuire il reparto dei creditori veri sulle sostanze del debitore. La relativa teorica della prassi può riassumersi in due concetti. Quando la simulazione erasi fatta per nascondere un contratto usurario di quella forma che la legge criminale colpiva di pena, si applicava la pena dell’usura. E qui la dottrina niente aveva di speciale e correva per le vie logiche ed ordinarie; perché il delitto stava nell’usura e non nella simulazione la quale altro non era che un mezzo per occultare il fatto criminoso già come tale colpito dallo statuto penale, e che sarebbe stato punibile di per sé stesso quando anche apertamente e senza sotterfugi si fosse stipulato’’ (CARRARA, Frode - Prodigalità - Simulazione, cit., p. 555). (13) CARRARA, Programma, Parte generale, cit., § 17, p. 64. In ordine al concetto di aggressione alla sicurezza quale fondamento dell’idea speciale di delitto, v. CARRARA, Programma, Parte generale, cit., § 26, p. 70. (14) Cfr. CARRARA, Programma, Parte generale, cit., § 16, p. 64: ‘‘la violazione di un
— 75 — politico-criminale, l’obbligo di reprimere il fatto immorale e lesivo degli altrui diritti, discende dalla pravità politica, ovvero dal grado di disturbo sociale arrecato dal fenomeno usurario (15): ‘‘richiamata l’usura sotto questo criterio, parve a taluno che non si dovesse mai elevare a delitto, perché il pagamento degli esorbitanti interessi essendo liberamente consentito dal mutuatario nessuno aveva ragione di turbarsi e di temere per un danno al quale egli era libero padrone di non esporsi. Laonde prevalse il pensiero che a reprimere il mal uso fossero sufficienti i provvedimenti civili pei quali lui negasse all’usuraio l’aiuto della giustizia contro il debitore renitente: e a questo si desse invece soccorrevole mano’’ (16). L’ispirazione liberista è evidente: se non c’è frode, il cittadino è, in linea di principio, in grado di difendersi dall’aggressione al proprio patrimonio con i mezzi privati, ‘‘e non c’è bisogno della suppletiva protezione del giure penale, perché il magistero civile e la cautela e prudenza del privato bastando a tutelare il diritto, non nasce allarme nei cittadini, fatti tranquilli per la protezione di questo’’ (17). L’attuazione positiva di predetto canone di criminalizzazione viene contratto, benché prava e volontaria e benché dannosa all’individuo i cui diritti si offendono, non può dichiararsi delitto, perché gli altri cittadini, non sentendone commozione, l’ordine esterno non ne viene a patire. A tutelare il diritto manomesso basta la coazione diretta che si svolge col mezzo della magistratura civile’’. (15) Come tale distinto dalla pravità morale, che ha invece come criterio dominatore la bruttura morale (cfr. CARRARA, Programma, Parte generale, cit., § 18, p. 65). (16) CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2384, p. 56. (17) V. CARRARA, Frode - Prodigalità - Simulazione, cit., p. 548: ‘‘Occorre di più quello che dicesi elemento politico del malefizio, ossia la forza morale oggettiva consistente in una certa gravità di danno mediato. E questa gravità ha per suo necessario fattore l’insufficienza del privato a difendersi con i soli privati mezzi contro quella aggressione del suo diritto. La deficienza di questo estremo che per universale consenso esclude il carattere di malefizio punibile dal fatto semplice di chi non paga un debito, di chi non consegna la cosa venduta, di chi non eseguisce spontaneamente ciò che gli è imposto da un suo contratto o da un testamento o da una sentenza del giudice, ed altri atti consimili, ai quali manca l’estremo di un ingiusto danno, e spesso anco quello di una prava volontà, ma soltanto si considera non esservi bisogno della suppletiva protezione del giure penale (...)’’; ‘‘malgrado ciò — ricorda Carrara — perseverarono anche i criminalisti della scuola moderna a riconoscere delle condizioni nelle quali l’usura quantunque non procacciata per frode ma liberamente consentita, meritasse di essere elevata a delitto ed incontrare punizione: ma in ciò si procedette su due distintissime linee’’ (v. CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2385, p. 557). La prima, seguita dal legislatore francese del 1850 (e adottata anche dal codice parmense del 1820), fondava la criminalità dell’usura sulla abituale esigenza di interessi superiori al tasso legale e viene criticata dal Maestro proprio per tale fallace e lacunosa caratterizzazione; la seconda ispirò il codice granducale: ‘‘un’altra idea totalmente difforme fu quella del legislatore toscano’’ (CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2387, p. 560). Nei codici preunitari (toscano, estense, parmense, sardo, regolamento degli stati pontifici) si riscontrano disposizioni penali varie contro l’usura. L’unica eccezione è rappresentata dal codice per il Regno delle due Sicilie del 1819, che non prevedeva alcuna disposizione incriminatrice. Pochi anni dopo, a causa del grande disagio economico del meridione, fu introdotta la legge 7 aprile 1828, che prevedeva accanto a sanzioni civili, la sanzione penale, attri-
— 76 — individuata da Carrara nella direttrice punitiva seguita dal codice penale del Granducato di Toscana del 1853: ‘‘renduta inerte la giustizia penale sulle usure innominate, quelle cioè che consistono nel dare apertamente il denaro ad un saggio d’interesse superiore alla tassa legale, perché a questi illeciti guadagni bastantemente riparano i provvedimenti civili (la legislazione civile toscana prevedeva infatti un’apposita disciplina della misura degli interessi); serbò il rigore della repressione contro le usure nominate; che altri chiama vestite, altri qualificate’’ (18). L’incriminazione del codice toscano, assai più ristretta di quella adottata in seguito dal codice Rocco (19), era limitata a talune forme speciali della c.d. usura palliata (20). Carrara ricorda che ‘‘fino dagli antichi tempi le leggi nostre e le nostre pratiche giudiciali avevano designato con particolari nomi certe forme di usura la cui specialità consisteva appunto nel palliare l’indebito guadagno con artificiosi velami. Di qui nacquero nella pratica nostra i nomi di scrocchio, civanzo, barocchio, retrangolo e leccofermo, designativi ciascuno di loro di un artifizio particolare adoperato dagli usurai onde celare la usura e porsi al coperto dai provvedimenti civili’’ (21). Tra gli esempi di trasmutazione della vera indole del contratto per palliare l’usura o di occultamento di un contratto usurario mediante artifici (simulazione illecita o in frode alla legge), il c.d. scrocchio era la fibuendo altresì ad organismi qualificati il compito di stabilire anno per anno, in rapporto alle mutevoli condizioni economiche delle diverse provincie, il maximum del tasso consentito. Tale compito fu demandato alla Camera di Commercio di Napoli per quella provincia e per le provincie limitrofe, al Tribunale di Monteleone per la Calabria, alla Camera di Commercio di Foggia per la Capitanata ed alla Camera di Commercio di Palermo per la Sicilia. Con l’affermazione dello Stato sabaudo ed il definitivo avvento della visione liberistica del mercato, l’usura scomparve dal codice penale sardo. In seguito il codice Zanardelli confermò la linea abrogazionista, anche perché il codice civile del 1865 aveva nel frattempo sanato il principio secondo cui l’interesse convenzionale poteva essere stabilito a volontà dei contraenti (art. 1831 c.c.). Sulle misure adottate negli ex Stati italiani contro la pratica usuraria e sulle vicende legislative dell’incriminazione dell’usura nella legislazione italiana, v. LA PORTA, La repressione dell’usura, cit., p. 18 ss.; E. GALLO, L’usura nell’evoluzione, cit., p. 300. (18) CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2387, p. 560. (19) Come è noto, il codice penale del 1889 non prevedeva un’apposita incriminazione del fenomeno usurario. (20) Come osserva Boari, sotto lo stimolo delle situazioni economiche, tra i principali obbiettivi della dottrina vi era infatti quello di ‘‘ravvisare (e smascherare) l’eventuale presenza di usura in tutte le vecchie e nuove figure contrattuali, diverse dal semplice mutuo, che nella prassi andavano emergendo — o riemergendo — vuoi per la vivacità delle esigenze finanziarie, vuoi per la malizia degli operatori’’ (BOARI, voce Usura (dir. intermedio), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, p. 1138. (21) Si tratta di locuzioni gergali di rara suggestione, di strani denominazioni (definite da MANZINI, Trattato di diritto penale italiano secondo il codice del 1930, IX, Parte prima, Delitti contro il patrimonio, Torino, 1938, p. 694, ‘‘non meno brutte degli affari che designavano’’), corrispondenti alle pratiche usurarie del tempo ritenute abusive; sul punto v. LASTRAIOLI, in Usura e riciclaggio, in Atti convegno Empoli 22 giugno 1996, p. 87 ss.
— 77 — gura più prominente, tanto da essere contemplata espressamente (insieme all’aggravante del c.d. retrangolo) dal codice del Granducato all’art. 408, che vietava di abusare del bisogno di una persona richiedente un prestito pecuniario (le altre usure palliate — ricorrenti soprattutto nei traffici agrari — rimasero estranee al regime repressivo del codice granducale) (22). La fattispecie criminosa del c.d. scrocchio incarna uno sfruttamento usurario dell’altrui stato di bisogno e, secondo la definizione carrarariana, ‘‘si ha nel cambio ove si è dichiarato di avere ricevuto denaro, mentre invece non si è ricevuto in denaro che una piccola parte del capitale, e il rimanente si è dato in roba d’ordinario di valore meschinissimo, e stimata a prezzi favolosi’’ (23). In questa categoria ricadeva, ad es., il fatto dell’usuraio che ‘‘versava al soggetto passivo una parte in denaro, e altra parte in guanti per una sola mano, in scarpe per un solo piede in modo da costringere il ricevente a vendere siffatte cose allo stesso usuraio naturalmente a prezzo irrisorio. Così l’usuraio che inizialmente ha acquistato una partita di guanti o scarpe completi li suddivide in due partite di destra e di sinistra, che gira con enorme lucro tra i suoi disgraziati clienti’’ (24). La questione politico-criminale dell’incriminabilità o meritevolezza di pena dell’usura, deve, secondo Carrara, essere impostata sulla base della distinzione tra usura semplice e usura prava o qualificata, intendendo sotto questa seconda categoria i prestiti usurai camuffati sotto altre forme contrattuali, ovvero le modalità fraudolente con le quali può commettersi l’usura (25). L’elusione della disciplina civilistica tramite il ricorso alla simulazione illecita determina il bisogno di difesa e il conseguente attivarsi della tutela penale: ‘‘nel tempo stesso nasceva dalla frode una qualifica dell’usura. Cosicché l’elemento morale e l’elemento politico convergevano nel condurre all’incriminazione dell’usura qualificata anche quei legislatori che più volevano essere tolleranti verso l’usura semplice’’ (26). (22) In ordine alla citata fattispecie incriminatrice, v. Il codice penale toscano illustrato sulla scorta delle fonti del diritto e della giurisprudenza, V, Pistoia, 1858, p. 213 ss.; sul punto v. LA PORTA, La repressione penale dell’usura, cit., p. 18 s. (23) CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2389, p. 564. L’autore ricorda come la dottrina del tempo avesse ridotto a quattro gli estremi dello scrocchio: ‘‘il bisogno di denaro nel richiedente’’; ‘‘la scienza nel sovventore che chi prende la roba ha bisogno di denaro’’ (per cui non c’è delitto ‘‘quando anche il mercante per ragione della credenza abbia esagerato il valore; perché non è delitto il vendere a caro prezzo’’); ‘‘che siasi consegnata roba per riavere denaro’’; ‘‘che la roba data per denaro si sia valutata ad un prezzo superiore al giusto’’ (v. CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2393, p. 563 s.); ‘‘nasce il retrangolo quando lo stesso usuraio che ha dato la roba in luogo di denaro valutandola al prezzo di cento, la ricompra egli medesimo ad un prezzo inferiore a quello per cui l’ha data’’ (CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2390, p. 562). (24) V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 694, nt. 3. (25) CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2387, p. 564. (26) CARRARA, Programma, Parte speciale, cit., § 2387, p. 564.
— 78 — Il richiamo alla necessità di arginare congegni elusivi già ampiamente sperimentati dalla pratica e di fare ricorso allo strumento penale nella misura strettamente necessaria alla prevenzione di frodi e di abusi, è più che mai attuale (si pensi, ad es., alle innumerevoli dissimulazioni del finanziamento usurario). Ancor oggi il contratto usurario si dipana perlopiù attraverso meccanismi di complessa e fittizia attuazione il cui scopo è quello di mascherare le usure: se è vero che il contratto di mutuo è certo quello che si presta di più ai patti usurari, è indubbio che l’usura possa nascondersi anche nelle vendite, vere o fittizie, specialmente a rate, nel patto di riscatto, nella costituzione di rendita, nella transazione, nel leasing (27). 3. In sintesi, la repressione del fenomeno usurario deve, secondo Carrara, basarsi sul principio di sussidiarietà dello strumento penale e di progressività delle sanzioni: si deve ricorrere alla tutela penale solo nei casi in cui il magistero civile non offra sufficiente riparo (28). Al fondo di tale impostazione, vi è la netta distinzione tra il piano della legislazione criminale (fondato su valori assoluti) e quello delle leggi del c.d. buongoverno (fondato sul criterio della pubblica utilità) (29). (27) Cfr. ANTOLISEI, Diritto penale, Parte speciale12, I, Milano, 369. (28) V. CARRARA, Frode - Prodigalità - Simulazione, cit., p. 557. ‘‘Prevalse, io dico, il pensiero che il magistero penale non dovesse spiegare la sua protezione quante volte al danno lamentato dal cittadino poteva porgere sufficiente riparo il magistero civile, o quante volte la vittima di quel danno se lo era chiamato addosso con la trascurataggine propria per non avere usato le cautele che la legge civile gli avrebbe offerto a propria sicurezza’’. Per un acuto ed approfondito esame dell’effettivo ruolo dello strumento penale nella materia in esame svolto alla luce dei principi di extrema ratio e di offensività, v. CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione: il controllo del ruolo penalistico, in questa Rivista, 1995, p. 1206 ss. (29) In ordine alla necessità di distinguere i due piani, v. CARRARA, Programma, Parte generale, Prolegomeni, cit., p. 48: ‘‘il criterio che separa il magistero penale dal magistero di buon governo, e che distingue i delitti dalle trasgressioni, non può essere che questo: che il magistero penale deve colpire soltanto i fatti ai quali possa adattarsi il carattere di moralmente riprovevoli, perché ha la misura del suo diritto nella giustizia assoluta; mentre il magistero di buon governo può colpire anche fatti moralmente innocenti perché il fondamento del suo diritto è la pubblica utilità. Che se in qualche codice si videro manomesse coteste regole nella formazione delle classi; ed ora nella legge penale s’intrusero trasgressioni, ora alla legge di polizia si consegnarono veri delitti; ciò non contraddice la verità dei principi, ma prova soltanto l’errore e l’inesattezza dei legislatori. La scienza del giure penale non può occuparsi che dei primi fatti. Sui secondi non getta che uno sguardo fugace, per avvertire i legislatori ad essere miti e umani. Ma non può rendere comuni alle trasgressioni le sue teorie, senza generare inestricabile confusione. Il magistero penale è destinato a proteggere la libertà individuale. Gli ordinamenti la ristringono. Il magistero presuppone sempre un fatto violatore delle legge morale ed una intenzione riprovevole. (...) Al magistero di buon governo sta bene si assegni come fondamento del suo diritto la pubblica necessità od anche l’utilità: al magistero penale non può attribuirsi come genesi un atto di volontà umana: ma il precetto di Dio, promulgato all’uomo mercé la legge di natura. Gli ordinamenti di quello sono relativi e variabili: il magistero penale è assoluto in tutti i suoi principi fondamentali. E
— 79 — Se dall’esempio dell’incriminazione del codice toscano, radicata sulla necessaria dannosità sociale (30), volgiamo lo sguardo all’attuale disciplina dell’usura, ci accorgiamo subito che, come è stato osservato in dottrina, il legislatore del 1996 non ha avuto alcuna memoria storica (31): la distanza da Carrara è siderale. Ispirata dal malcelato obbiettivo di introdurre un calmiere (32), la nuova fattispecie di usura c.d. ‘‘presunta’’ si rivela artificiosa e avulsa dal nucleo criminologico dei casi in cui la punizione è veramente reclamata dalla coscienza pubblica, e cioè il vero e proprio strozzinaggio, risultando molto più illiberale e dirigista dell’opzione del codice Rocco. Pur superando la mera incriminazione della c.d. usura palliata, il codice penale del 1930 si poneva, infatti, in linea di continuità con l’impostazione selettiva suggerita da Carrara: ‘‘non ogni obbligazione usuraria può ritenersi reato: i due termini non sono equivalenti. Una cosa è l’usura semplice, altra l’usura prava. Non ogni contratto illecito può considerarsi un delitto. Occorrono elementi ulteriori che integrino la violazione di superiori diritti sociali che giustificano la sanzione penale’’ (33). Il nucleo della fattispecie previgente (approfittamento dello stato di bisogno) dava risalto al tipo d’autore dello strozzino quale esso si delinea nell’immaginario collettivo, nel linguaggio comune e nella tradizione popolare, ovvero una sintesi di di vero se il gius di punire nella mano dell’uomo procede dalla legge eterna dell’ordine, la scienza del giure penale deve essere indipendente da qualunque provvisione di legge umana e diretta soltanto da regole di assoluta ragione’’ (CARRARA, Programma, Parte generale, Prolegomeni, cit., p. 48 s.). (30) È sociale il danno ‘‘che non possa con altri mezzi, tranne col sottoporlo alla repressione della legge, provvedersi alla tutela dell’ordine esterno. Se il danno è ristretto all’individuo o riparabile con un’azione diretta il legislatore eccederebbe i suoi poteri dichiarando delitto l’atto che ne fu causa’’ (CARRARA, Programma, Parte generale, cit., § 14, p. 64). (31) V. SELLAROLI, Il tasso di usura prefissato: una pericolosa illusione?, in questa Rivista, 1997, p. 225; nelle pagine precedenti l’autore rileva (op. cit., p. 220) come ‘‘siamo dunque passati dal mito della razionalità del legislatore, uno dei pilastri della sistematica e dell’ermeneutica giuridica dell’800, all’opposta realtà di un legislatore consapevole di dar vita a leggi, definite da lui stesso ‘lacunose’, ‘sbagliate’, ‘disperate’, ‘non adeguatamente ponderate’, ‘incongrue’, ‘incoerenti’, al punto da sollecitare, già all’atto dell’approvazione, opportuni ‘interventi correttivi’ ’’. Sulla nuova normativa v. CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, Torino, 1996; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, I delitti contro il patrimonio, Bologna, 1996, p. 206 ss.; MANNA, La nuova legge sull’usura. Un modello di tecniche ‘‘incrociate’’ di tutela, Torino, 1997; MUCCIARELLI, Disposizioni in materia di usura (commento alla l. 7 marzo 1996, n. 108), in Legisl. pen., 1997, p. 511 ss.; AMMIRATI, Il delitto di usura, cit.; BONORA, La nuova legge sull’usura, Padova, 1998; MANZIONE, Usura e mediazione creditizia. Aspetti sostanziali e processuali, Milano, 1998. (32) Cfr. PADOVANI, Prefazione a MANZIONE, Usura e mediazione creditizia. Aspetti sostanziali e processuali, Milano, 1998, XIII. (33) Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, II, p. 408. Sulle modalità di repressione dell’usura adottate nel codice Rocco, v. VIOLANTE, v. Usura (delitto di), in Noviss. Dig. it., XX, Torino, 1975, p. 381 ss.; GROSSO, voce Usura (diritto penale), in Enc. dir., XXX, Milano, 1992, p. 1142 ss.
— 80 — aspetti di avidità e di sfruttamento, di sordido parassitismo (‘‘nel milieu sociale, osservava Bettiol, più che la figura logica del delitto di usura, è sentita come decisiva la figura o il tipo dell’usuraio, come speciale tipo di delinquente’’) (34). La fattispecie di usura ‘‘presunta’’ introdotta dalla riforma del 1996 produce, invece, un ingiustificato ed artificioso livellamento di disvalori assai eterogenei (35), distaccandosi dai canoni di selezione e di differenziazione, storicamente adottati in sede di incriminazione del fenomeno (36). Come è stato osservato in dottrina, il reato di usura è infatti sfociato nel mare magnum del diritto penale della prevenzione: posto storicamente a tutela del patrimonio individuale, esso si è trasformato in reato di mero scopo, anzi in un vero e proprio reato di sospetto, fondato sulla mera disubbidienza (37). Risultano incriminate di azioni prive di qualunque costrizione od aggressività, sulla base di una formulazione onnicomprensiva che anticipa la soglia di rilevanza penale a condotte poste a monte dell’eventuale lesione, mediante lo strumento della presunzione di danno (38). Non riuscendo a individuare comportamenti effettivi o effettuali si colpiscono i sintomi, con la conseguente crisi dei principi di effettività e di offensività: l’automatica estensione della fattispecie a situazioni non bisognose di tutela penale produce esiti incontrollabili e paradossali (39). All’abnorme oggettivizzazione ed espansione della tutela, fanno (34) L’osservazione, formulata dall’autore in riferimento ad una sentenza del Tribunale di Bologna (in Giur. it., 1946, II, p. 33 ss.), è riportata testualmente da VIOLANTE, v. Usura (delitto di), cit., p. 385; sul concetto di approfittamento dello stato di bisogno altrui nella precedente formulazione del delitto di usura, v. CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, cit., p. 1228 ss. (35) Sul fenomeno di ‘‘obbiettivizzazione’’ del reato e sulla semplificazione strutturale della fattispecie, v. MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, cit., p. 36 ss. (36) Per un bilancio sui risultati della riforma del delitto in esame v. MASULLO, A due anni dalla riforma del delitto di usura: una riflessione sulla nuova scelta strategica, in Cass. pen., 1998, p. 2198 ss. (37) Cfr. CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, cit., p. 1260 ss.; sul punto v. anche PADOVANI, Prefazione a MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, cit., p. XI ss. La modifica strutturale della fattispecie finisce per ridare lustro a un autore quale Florian, che, nel lontano 1935 (Il delitto dell’usura. Nota economico-giuridica, in Giur. it., 1935, IV, p. 945), aveva individuato l’interesse tutelato dalla norma penale nella tutela del credito, inteso come specificazione del bene collettivo dell’economia nazionale. Sulla connotazione pubblicistica e superindividuale del bene giuridico protetto nell’odierna formulazione del reato v. MANNA, La nuova legge, cit., p. 66 ss.; CERASE, L’usura riformata: primi approcci a una fattispecie nuova nella struttura e nell’oggetto di tutela, in Cass. pen., 1997, p. 2595 ss.; BERTOLINO, Le opzioni penali in tema di usura, cit., p. 792 ss.; MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, cit., p. 70 ss.; sul ruolo del bene giuridico nella fattispecie-base prevista dall’art. 644 del codice Rocco, v. le significative osservazioni di CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, cit., p. 1214 ss. (38) Sul punto v. per tutti MANNA, La nuova legge, cit., p. 66 ss. (39) Cfr. i rilievi di PADOVANI, Prefazione a MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, cit., p. XIII.
— 81 — pendant il difetto di coordinamento con il piano dei rimedi civilistici e l’inversione della regola dell’extrema ratio (la reazione penale si manifesta prima di quella civile) (40). 4. Mutatis mutandis, di fronte ad una tale involuzione e trasfigurazione dell’usura, Carrara muoverebbe non pochi (e nemmeno sommessi) rilievi critici sia al legislatore attuale, sia a quella parte di dottrina che continua a confondere tra ratio dell’incriminazione e bene giuridico (41). Si tratta di indicazioni di metodo relative sia alla specifica figura dell’usura, sia più in generale alle linee evolutive del diritto penale della prevenzione, ed in particolare del diritto penale dell’economia, del quale il delitto di usura è entrato ormai a far parte. In riferimento alla riformata fattispecie di usura, le osservazioni critiche che si possono muovere al legislatore sulla scorta degli insegnamenti carrariani sono a questo punto evidenti. La fattispecie basata sul superamento della soglia prefissata si estende anche a ipotesi in cui — per usare la terminologia carrariana — il danno immediato è solo presunto e quello mediato è assolutamente virtuale e artificioso. Infatti, il carattere usurario del prestito, più che dall’elevatezza dell’interesse pattuito, può dipendere, dall’insieme delle condizioni in concreto imposte al soggetto finanziato: il profilo usurario può risultare, ad es., dal rilievo assunto dalle modalità temporali di rientro o dalla gravosità delle garanzie richieste. L’ulteriore profilo critico attiene alla necessità di selezionare modalità particolarmente pericolose o lesive per il patrimonio e di distinguere, in una prospettiva adattata alla realtà criminologica attuale, tra usura semplice e usura qualificata. È solo la specifica modalità di aggressione al patrimonio del soggetto che può giustificare l’intervento della sanzione penale: le concrete forme di offesa restano fondamentali per distinguere illecito penale e illecito civile (42). Oltre che nelle modalità fraudolente, esse dovrebbero oggi essere individuate, nei comportamenti intimidatori, estorsivi e violenti che caratterizzano sempre più il fenomeno in esame. (40) Sugli aspetti civilistici dell’usura, v. QUADRI, Profili civilistici dell’usura, in Foro it., 1995, V, p. 337 ss.; MASUCCI, Disposizioni in materia di usura. Le modificazioni del codice civile in tema di mutuo ad interesse (commento all’art. 4, l. n. 108 del 1996), in Le nuove leggi civ. comm., p. 1328 ss.; MASULLO, A due anni dalla riforma del delitto di usura, cit., p. 2218 ss.; sulle disposizioni di natura civilistica introdotte dalla riforma, v. MANNA, La nuova legge, cit., p. 147 ss.; si è altresì osservato che ‘‘la reazione penale si manifest(i)a ancor prima e prescindendo da una sproporzione rilevante in sede civile’’ (v. MASULLO, A due anni dalla riforma del delitto di usura, cit., p. 2219); nello stesso senso v. PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Studium iuris, 7-8, 1996, p. 781 s. (41) Sul punto v. CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, cit., p. 1266; MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, cit., p. 70 ss. (42) In ordine al ruolo degli strumenti alternativi di tutela in materia di usura, v. CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, cit., p. 1248 ss.
— 82 — Un ulteriore aspetto problematico è dato dall’oscuramento del ruolo degli strumenti civilistici come ordinari e regolari rimedi all’usura, in funzione di prevenzione e repressione della criminalità economica. La differenziazione della tutela rimane imprescindibile: in uno Stato moderno, in grado sia di garantire uno standard decoroso di efficienza del proprio sistema di giustizia civile, sia di controllare il proprio territorio, al diritto civile andrebbe affidato il controllo delle condotte usurarie che non presentano un pericolo grave per il patrimonio del soggetto passivo, perché, ad es., manifestamente o apertamente usurarie (43). Un’ultima osservazione deve essere riservata alla difficile praticabilità di un unico modello onnicomprensivo di usura, in cui non si distingue tra usura reale e usura pecuniaria (44): espungendo dall’incriminazione tale radicata e necessaria divisio, il legislatore ha snaturato definitivamente l’incriminazione, accentuandone il deficit di effettività (45). Sul piano generale, l’attenzione deve invece essere rivolta alla tendenza attuale del diritto penale ad evolversi verso un sistema di prevenzione, caratterizzato da forme di tutela sempre più remote e anticipate: emblematico in questo senso il diritto penale dell’economia, in cui spesso l’economia non è più oggetto di tutela, ma di mera disciplina, con la previsione di reati funzionali, a tutela di regole che attengono al corretto svolgimento delle funzioni (46). Uno dei massimi esperti in materia, Pedrazzi, raccomandava tempo fa un uso parsimonioso di fattispecie non immediatamente imperniate sulla lesione dell’interesse protetto, sottolineando il rischio di intonazioni artificiose, formalistiche, e della proliferazione di fattispecie in funzione preventiva (47). Ad un sistema manifestamente orientato alla tutela delle funzioni o di mere regole di organizzazione, si accompagna l’inarrestabile declino dei principi di gradualità e progressività della sanzione, e l’incriminazione di comportamenti che meglio potrebbero essere sottoposti ad altre sanzioni giuridiche. Carrara richiama ancora una volta il legislatore alla ‘‘scuola della ragione’’, sottolineando il principio di civiltà giuridica (43) Sull’esigenza di ‘‘un migliore controllo del territorio e di un arretramento dell’intervento penale a favore di quello civilistico, ai fini di un’efficace strategia complessiva di tutela’’, v. CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, cit., p. 1212. (44) Sul tema dell’usura reale, v. MANNA, La nuova legge, cit., p. 72 ss. (45) Sulle esigenze di effettività della tutela, v CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, cit., p. 1209. (46) In generale, sul punto v. PADOVANI, Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario, in Atti del IV Congresso Nazionale di diritto penale: ‘‘Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario’’, Torino, 1996, p. 76 ss.; MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni, in questa Rivista, 1995, p. 343 ss. (47) Cfr. PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, in AA.VV., Comportamenti economici e diritto penale, a cura di PEDRAZZI e COCO, Milano, 1979, p. 33.
— 83 — secondo il quale, a causa del rango primario della libertà personale, occorre circoscrivere per quanto possibile l’ambito del penalmente rilevante. Alcuni dei principi di ragione (e di diritto materiale) sostenuti dal Maestro con inimitabile chiarezza nei Prolegomeni al Programma hanno oggi forza di principi costituzionali (48). Si tratta di canoni materiali di politica criminale, di criteri informatori, fondati su valori garantistici e liberali che dovrebbero guidare il legislatore nelle scelte di incriminazione. Essi si sostanziano nei principi di frammentarietà (nel significato moderno di intervento penale di estensione limitata e non generalizzata); di sussidiarietà (diritto penale come extrema ratio di tutela) e di proporzione (misura tra gravità del fatto concreto e sanzione): finalizzati all’economia dell’intervento punitivo, garantiscono, di riflesso, l’efficienza e l’effettività del sistema penale. In conformità dell’ispirazione liberale dell’autore, l’intero Programma è orientato nel senso della riduzione dell’area del penalmente illecito, contro l’inflazione penalistica: un obbiettivo il cui conseguimento, alla luce della pervasività della formulazione attuale del delitto di usura, appare oggi a dir poco utopistico (49). Le cicliche aporie del sistema penale vengono tratteggiate con la consueta incisività: ‘‘è questo lo scoglio nel quale i legislatori del Reame d’Italia, imitando sempre (e sempre infelicemente) i tristi esempi di Francia, minacciano di urtare. La crescente civiltà di un popolo e l’allargata sua libertà dovrebbero essere potente ragione di diminuire gradatamente il numero delle azioni dichiarate delitti. Ma invece cresce tra di noi la mania di moltiplicarne il numero per ricorrere al periglioso rimedio del magistero penale contro azioni che i veri caratteri di delitto non avrebbero; e avverso le quali i padri nostri si appagarono di altri modi di prevenzione. Da questo ne avvenne che gli italiani, dopoché furono proclamati liberi, trovarono con sorpresa loro l’esercizio dell’attività individuale più ristretto che prima non fosse. Fenomeno che ha la sua cagione nella mania di troppo governare; e nella insipienza di tutto governare col mezzo di criminali processi’’ (50). È stato di recente osservato come, di fronte alla crisi e al ridimensionamento del ruolo del bene giuridico, parte della dottrina sia tornata a cercare la legittimazione del magistero punitivo in un rinnovato ancoraggio al pensiero filosofico del diritto naturale o di ragione (51): a quella (48) Sull’apporto di Carrara al processo di secolarizzazione del diritto penale in chiave di selezione dell’area del penalmente illecito, v. BRICOLA, Introduzione a CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, cit., p. 17 s. (49) Sulle critiche carrariane all’estensione dell’area penalistica e sulla strenua difesa del diritto soggettivo come oggetto di tutela, v. BRICOLA, Introduzione a CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, cit., p. 16 s. (50) CARRARA, Programma, Parte generale, cit., § 17, p. 64. (51) V. FIANDACA, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 46 ss.
— 84 — scienza del giure penale, ‘‘la quale mantiene inconcusse le verità da lei professate a traverso le onde degli umani capricci’’ (52). I principi di diritto naturale e razionale indicati da Carrara costituiscono, in effetti, dei valori fondanti, anche (e, soprattutto) in prospettiva della formazione di un ordinamento penale europeo. Ma sarebbe inutile farsi illusioni. Ormai occultati da quella nebulosa oscura che è l’attuale sistema penale, i principi del giure penale sembrano essersi eclissati dal nostro orizzonte. ALBERTO GARGANI Ricercatore di diritto penale nell’Università di Pisa
(52)
CARRARA, Programma, Parte generale, Prolegomeni, cit., p. 49, nt. 1.
LINEE EVOLUTIVE DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE IN TEMA DI IMPARZIALITÀ DEL GIUDICE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa metodologica. — 2. Il tramonto dell’ancient régime: imparzialità del giudice e (vecchie) giurisdizioni speciali. — 3. Imparzialità versus giudice naturale precostituito: rimessione e dintorni negli itinerari del giudice delle leggi. — 4. Imparzialità e alterità del giudice: la vicenda del ‘‘vecchio’’ giudizio pretorile. — 5. Imparzialità e ‘‘giusto processo’’: alla scoperta di una nostrana due process of law clause. — 6. Terzietà e giurisdizione civile (ovvero: dell’imparzialità flessibile). — 7. La sfera a tre strati e il ‘‘nocciolo duro’’ dell’imparzialità: cenni conclusivi.
1. Premessa metodologica. — Sembra innegabile che si generi una sorta di istintivo corto circuito ove, in quest’ultimo scorcio degli anni novanta, venga suggerito al processualista di riflettere sull’imparzialità del giudice nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale: l’edificio dell’incompatibilità endoprocessuale, imponente nella massa pur se non sempre lineare nella struttura, costruito dal giudice delle leggi nel volgere di pochi anni sull’esile corpo dell’art. 34.2 c.p.p. (1), ingombra subito il campo visuale, rischiando di porre in ombra percorsi e scenari meritevoli, invece, di più pacato scandaglio. Già, d’altronde, i dati quantitativi del fenomeno si appalesano sintomatici del denunciato rischio di istintivo schiacciamento dell’orizzonte visuale dell’interprete: delle 63 declaratorie di incostituzionalità, che tra il 1990 e il 1997 hanno interessato 54 articoli del ‘‘nuovo’’ — ma è un paludato eufemismo — codice di procedura penale, 15 pronunce hanno investito l’art. 34.2, schiudendo — si è scritto — la via a un record assoluto (2); se a ciò si aggiunga che, con riguardo al medesimo arco temporale, sul raggio di curvatura del solo art. 34.2 — or(*) È il testo, con l’aggiunta di essenziali riferimenti in nota, di una relazione tenuta nel corso dell’incontro di studio sul tema ‘‘L’imparzialità del giudice’’ organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura in Frascati, dall’1 al 3 marzo 1999. (1) La letteratura in materia, fiorita sulla scorta dei molteplici interventi della Corte costituzionale, può ormai dirsi imponente. Rinviando infra, per più analitici richiami concernenti singole pronunce di maggior interesse ai fini dell’argomento qui sviluppato, deve subito rinviarsi, per una ricca visione d’insieme aggiornata alla vigilia della ‘‘trilogia d’ottobre’’ (infra, nel testo, § 5), a P.P. RIVELLO, L’incompatibilità del giudice penale, Milano, 1996, nonché allo stimolante affresco tracciato da A. GIARDA, Imparzialità del giudice e difficoltà operative derivanti dall’incompatibilità, in Il giusto processo, Atti del convegno di Salerno, Milano, 1998, p. 35 ss. (2) Così G. CONTI, L’incompatibilità del giudice tra microconflittualità costituzionale
— 86 — mai trasfigurato, e in attesa dell’ingresso a regime del giudice unico (3) — si sono sovrapposte 26 sentenze (15 di incostituzionalità, 5 di infondatezza e 6 di inammissibilità) e 53 ordinanze (24 di manifesta infondatezza, 23 di manifesta inammissibilità e 6 di restituzione degli atti al giudice a quo), per un totale, dunque, di 79 pronunce, appar chiaro come l’ingombro quantitativo del fenomeno assuma vesti cospicue. Né — è appena il caso di rimarcare — può dirsi che la cennata istintiva deformazione centripeta sia la banale conseguenza di un surplus di attenzione, da parte del giudice delle leggi, valutabile in termini di mera quantità: al contrario, è l’indiscutibile peso specifico — oltre che della materia in sé — delle singole pronunce che su quegli scenari si sono avvicendate a catalizzare oltremodo, in prima battuta, le cure dell’interprete. È, d’altronde, innegabile che le norme in tema di incompatibilità endoprocessuale abbiano offerto, nella fucina del giudice delle leggi, la materia prima di un complicato processo di lavorazione interpretativa in cui il telaio concettuale dell’imparzialità del giudice è stato non solo rimesso a lucido ma, per più aspetti, addirittura riforgiato. Spetta, però, all’interprete il compito di vigilare contro istinti distorsivi o illusioni ottiche: il patrimonio di idee sotteso al principio dell’imparzialità del giudice giunge da ben più lontano, e il percorso merita, mappe alla mano, di esser rifatto dall’inizio; chi vi abbia meditato percepisce, anzi, netta la sensazione che, ove si prescinda da quei primi, ancora un po’ incerti, strumenti di scandaglio offerti dalla giurisprudenza costituzionale nella parabola che dai primi anni sessanta si inarca per tre lustri, il discorso rischia di perdere buona parte delle sue basi genetiche e strutturali, fatalmente depauperandosi. Muove da questa consapevolezza l’avvertita necessità di ripercorrere qui i tracciati che condussero, ab initio, la giurisprudenza costituzionale ad occuparsi — pur tra oscillazioni e sfuocature, come si vedrà — del principio di imparzialità del giudice. A fronte della messe davvero cospicua di pronunce che, dagli anni sessanta ad oggi, hanno — con diversità di timbri, di accenti, di cifre stilie prospettive di riforma ordinamentale, in I nuovi binari del processo penale. Tra giurisprudenza costituzionale e riforme, Atti del convegno di Napoli, Milano, 1996, p. 198. (3) Sulla modifica dell’art. 34 c.p.p. operata dall’art. 171 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), che diverrà — come è noto — operante a decorrere dal 2 giugno 1999 (secondo quanto prevede l’art. 247.1 d.lgs. n. 51 del 1998 così come modificato dall’art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188), cfr., per tutti, E. MARZADURI, L’introduzione del giudice unico di primo grado ed i nuovi assetti del processo penale, in Leg pen., 1998, p. 372 s., nonché G. VARRASO, in Processo civile e processo penale. Le riforme del 1998, a cura di C. CONSOLO, F.P. LUISO, A. GIARDA e G. SPANGHER, Milano, 1998, sub art. 171 d.lgs. n. 51 del 1998, p. 126 ss. [In ordine alle successive vicende circa la data di efficacia dell’art.34.2-bis c.p.p. e il relativo — non nitido — regime transitorio cfr. l’ormai noto art. 3-bis d.l. 24 marzo 1999 conv. con modifiche nella l. 22 luglio 1999 n. 234 (‘‘Disposizioni urgenti in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’)].
— 87 — stiche — affrontato il nodo dell’imparzialità, l’osservatore non tarda ad avvedersi come la materia di base della qui proposta analisi si sostanzi in una giurisprudenza imponente nella quantità, variegata negli specifici temi coinvolti, oscillante nelle ricostruzioni delle trame argomentative, e per il resto fluita anche attraverso le personali convinzioni di personalità spiccate, che — da relatori-estensori — hanno lasciato impronte nitide del loro passaggio dagli austeri saloni di Palazzo della Consulta. Bisognerà in tutto ciò mettere ordine, ipotizzando un metodo di lavoro proficuo e perciò — qui — in grado di offrire non solo suggestioni archeologico-concettuali ma anche (e soprattutto) indicazioni operative per l’interprete di oggi. V’è, d’altronde, un nitido file rouge che attraversa l’intera parabola della giurisprudenza costituzionale da sottoporre ad analisi: la collocazione, fluida e fluttuante, del principio di imparzialità del giudice nell’ordito costituzionale fa da trait d’union della vicenda giurisprudenziale qui in esame, imponendosi peraltro — può ben dirsi — quale naturale temaguida di ogni indagine in argomento. Occorrerà muovere, in quest’ottica, da un dato noto, oggettivo, ineliminabile: nel tessuto epidermico della Carta fondamentale l’imparzialità è un suono latente; nessuna norma la enuncia e la garantisce ex professo. Un corpo invisibile, si direbbe, e a volte impalpabile (è questa la sensazione che l’interprete trae dalla giurisprudenza costituzionale a cavallo tra gli anni sessanta e la prima metà dei settanta), ma non per questo meno presente e consistente. Dove si alloca, dunque, la garanzia di imparzialità del giudice, nella Carta fondamentale? E quale contributo ha recato, in termini di risposta al quesito, l’opera della Corte costituzionale? Seguendo questo tracciato si procederà qui per schede tematiche; all’interno di ogni singola scansione si avrà cura di scomporre ciascun mosaico nelle tessere costitutive (principali) la cui risultante ne disegna la fisionomia. 2. Il tramonto dell’ancient régime: imparzialità del giudice e (vecchie) giurisdizioni speciali. — La scheda tematica d’esordio — che è senz’altro, per il quadro degli interessi coinvolti, la più articolata — si sovrappone al primo nodo problematico storicamente affrontato dalla giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice: l’esigenza di espellere dal sistema le ingombranti eredità del passato di una miriade di soi-disant ‘‘giurisdizioni’’ che si agitavano sull’orizzonte della giovane repubblica costituzionale italiana. Le scelte del Costituente in tema, anche sulla scorta di spettri ben vivi nella memoria storica del Paese, sono note: divieto di istituzione di giudici straordinari o speciali (art. 102.2 Cost.); necessità di ‘‘revisione’’ degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salve le giuri-
— 88 — sdizioni del Consiglio di Stato, della Corte di conti e dei tribunali militari (VI disp. trans. e fin.); indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, oltre che del pubblico ministero presso di esse e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia (art. 108.2 Cost.). È, peraltro, risalente la consapevolezza che le garanzie di indipendenza dei giudici speciali (art. 108.2 Cost.) necessitano di essere a fortiori tutelate, rinforzate e anzi blindate, proprio per il fatto che tali giudici non afferiscono all’ordine giudiziario, ‘‘autonomo e indipendente da ogni altro potere’’ (art. 104.2 Cost.): la generale soggezione del giudice solo alla legge (art. 101.2 Cost.), certo applicabile anche ai giudici speciali, necessita in tal caso di essere ancor più robustamente garantita (4). Sotto la scure della Corte costituzionale, nella consapevolezza della necessità indilazionabile di depurare il sistema da sin troppo vistose distorsioni, cadono, così, una nutrita schiera di giurisdizioni di cartapesta (absit iniuria verbis, ma requiescant in pace), ruderi deambulanti dopo il 1o gennaio 1948 perché vestigia di trascorsi non più costituzionalmente difendibili: è dichiarata illegittima la giurisdizione del Ministro-giudice della marina mercantile in tema di ricorsi contro i provvedimenti che determinano le indennità di requisizione delle navi (5), la giurisdizione del Consiglio comunale e della Giunta provinciale amministrativa in materia di controversie elettorali (6), la giurisdizione speciale contabile del Consiglio di prefettura (7), la giurisdizione dell’Intendente di finanza sui reati contravvenzionali previsti da leggi finanziarie (8), la giurisdizione penale e civile del Comandante di porto (9), la giurisdizione del Presidente del Consorzio autonomo del Porto di Genova (10). Cospicuo interesse rivestirebbe uno studio analitico dei singoli elementi della serie, impossibile in questa sede: occorre qui puntare, piuttosto, ad un esame delle linee concettuali-argomentative delle pronunce cause efficienti del crollo dell’ancient régime, seguendo i percorsi di questa giurisprudenza e ricostruendone il mosaico per veloci tasselli. La sele(4) Per tale netta sottolineatura cfr., per tutti, F.G. SCOCA, Indipendenza del giudice tributario e giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1964, spec. p. 1074 ss. (5) Corte cost., sent. 13 luglio 1963, n. 133, in Giur. cost., 1963, p. 1477 ss., con nota di V. ANDRIOLI, Un altro Ministro giudice che se ne va. (6) L’incostituzionalità è dichiarata rispettivamente da Corte cost., sent. 27 dicembre 1965, n. 93, in Giur. cost., 1965, p. 1288 ss., con nota di U. POTOTSCHNIG, Il giudice interessato non è indipendente, e Corte cost., sent. 22 marzo 1967, n. 30, ivi, 1967, p. 214 ss. (7) Corte cost., sent. 3 giugno 1966, n. 55, in Giur. cost., 1965, p. 879 ss. (8) Corte cost., sent. 3 aprile 1969 n. 60, in Giur. cost., 1969, p. 973 ss., con nota di P. FERRUA, Illegittimità dell’Intendente di finanza giudice penale. (9) L’incostituzionalità è dichiarata rispettivamente da Corte cost., sent. 9 luglio 1970, n. 121, in Giur. cost., 1970, p. 1513 ss., con nota di P. FERRUA, Indipendenza del giudice e unicità della giurisdizione (ovvero la fine della giurisdizione penale del comandante di porto), e Corte cost., sent. 7 luglio 1976, n. 164, ivi, 1976, p. 1036 ss. (10) Corte cost., sent. 15 maggio 1974, n. 128, in Giur. cost., 1974, p. 850 ss.
— 89 — zione dei soli tasselli principali — cui sarà utile aggiungere rilievi tratti da coeve non meno rilevanti pronunce costituzionali di rigetto — è, d’altronde, pedaggio cui non sarà qui possibile sottrarsi: un’eccessiva polverizzazione del quadro consentirebbe di indugiare su sfumature pur utili ma finirebbe senz’altro per incidere in negativo sulla nitidezza dell’immagine d’insieme. A) È di rigetto la pronuncia che segna l’anello iniziale della serie: con la sentenza n. 92/1962 (Pres. Ambrosini, Est. Branca) (11) si avvia il controllo di costituzionalità della giurisdizione dei Consigli comunali in tema di controversie elettorali, che avrebbe poi condotto, tre anni dopo, alla su accennata declaratoria di illegittimità costituzionale. Sul piano del discorso che va qui sviluppato, la pronuncia contiene un asserto strategico in tema di fonti costituzionali dell’imparzialità del giudice: La Corte ritiene [...] che anche presso gli organi di giurisdizione speciale debbano essere garantiti sia il diritto di difesa sia l’indipendenza e l’imparzialità del giudice; indipendenza e imparzialità che, prima ancora d’essere scritte in disposizioni particolari della Costituzione, come l’art. 108, riposano nel complesso delle norme costituzionali relative alla magistratura e al diritto di difesa.
Si tratteggia, dunque, uno status di immanenza, nell’intera tramatura costituzionale in materia di garanzie della giurisdizione, di un principio che vive, perciò, allo stato diffuso: si affaccia l’idea energica — che larghi spazi avrà nel dibattito successivo, fino ai giorni nostri — di una sedes materiae poliedrica, che si inarca dalla prima alla seconda parte della Carta costituzionale, in cui riposano — perciò più stabilmente — le molecole costitutive del principio di imparzialità del giudice. Non è un caso, d’altronde, che in dottrina si sia rimarcato come il riferimento, contenuto nell’art. 108 Cost. all’indipendenza e non all’imparzialità, si spiega e si giustifica ‘‘per il fatto che, garantendo la funzione giurisdizionale, la Costituzione ha per ciò stesso garantito l’imparzialità del giudice’’ (12). B) La sentenza n. 108/1962 (Pres. Ambrosini, Est. Mortati) (13), in (11) Corte cost., sent. 22 novembre 1962, n. 92, in Giur. cost., 1962, p. 1359 ss. (12) Così F.G. SCOCA, Indipendenza del giudice tributario e giurisprudenza costituzionale, cit., p. 1075. Oltre alle classiche e limpide pagine di P. CALAMANDREI, Processo e democrazia [1954], ora in ID., Opere giuridiche, I, Napoli, 1965, p. 651 s., in tema cfr., altresì, con particolare vigore, V. ANDRIOLI, Le giurisdizioni speciali nella Repubblica, in Le giurisdizioni speciali amministrative, Milano, 1956, p. 12; per una recente nitida riconsiderazione del tema cfr. A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, 2a ed., Padova, 1999, p. 100 s. In tema cfr., inoltre, S. BARTOLE, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Padova, 1964, p. 237 ss. (13) Corte cost., sent. 20 dicembre 1962, n. 108, in Giur. cost., 1962, p. 1451 ss. È noto che, anche a seguito dell’appena indicata declaratoria di incostituzionalità, la l. 2 marzo 1963, n. 320 ha modificato il regime dei componenti privati delle sezioni specializzate agra-
— 90 — tema di garanzie di indipendenza degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del primitivo insoddisfacente status dei componenti privati delle sezioni specializzate agrarie, scandisce il secondo tassello dell’itinerario qui proposto. La pronuncia ha cura, anzitutto, di porre in rilievo un dato di fondo di cospicua importanza nella ricostruzione della categoria dell’indipendenza del giudice: Il requisito dell’indipendenza è difficilmente configurabile in termini precisi, perché la sua regolamentazione propone problemi diversi secondo la diversità delle strutture statali e le epoche storiche, e non consente uniformità, dovendo adeguarsi alla varietà dei tipi di giurisdizione.
L’autorevole estensore scolpisce, dunque, con asserto che riveste portata generale nel tessuto motivativo della pronuncia, una netta relativizzazione (storica e ratione materiae) dei caratteri dell’indipendenza del giudice. Nello statuto delle garanzie di indipendenza dell’extraneus che partecipi all’amministrazione della giustizia va d’altronde ricompresa l’applicazione di quegli istituti (come ad es. quelli dell’astensione e della ricusazione) necessari ad assicurare la [sua] estraneità all’interesse delle parti tra cui verte la controversia.
Orbene, nella specie la mancanza delle necessarie garanzie di indipendenza [...] appare ancor più accentuata quando si consideri il difetto di ogni predisposizione normativa relativa all’istituzione di membri supplenti. Tale carenza, infatti, rendendo praticamente impossibile l’applicazione degli artt. 51 e 52 c.p.c., conduce necessariamente alla violazione o del principio dell’imparzialità o di quello della precostituzione del giudice, ove si pensasse di sostituire il membro ricusato o astenutosi con altro che fosse designato per l’occasione.
Il difetto della garanzia di imparzialità viene, dunque, apprezzato quale deficit di indipendenza del giudice: che, sommato alle altre incrinature poste in rilievo in parte motiva, dà luogo alla declaratoria di incostituzionalità delle norme impugnate (art. 5 l. 18 agosto 1948, n. 1140 e art. 1 l. 3 giugno 1950, n. 392) per contrasto con gli art. 102.2 e 108.2 Cost. C) Il terzo tassello è costituito dalla sentenza n. 17/1965 (Pres. Amrie, consentendo ad essi — tra l’altro — l’applicazione dei meccanismi dell’astensione e della ricusazione. Corte cost., sent. 2 aprile 1970, n. 53 [Pres. Branca, Est. Mortati], in Giur. cost., 1973, p. 595 ss., nel dichiarare l’infondatezza di una nuova quaestio de legitimitate in tema, ha rimarcato come la citata l. n. 320 del 1963 avesse ‘‘pienamente soddisfatto quelle esigenze di assicurare tanto l’idoneità degli esperti alle funzioni loro attribuite quanto la loro indipendenza dalle parti e dalla pubblica amministrazione [...], anche per quanto riguarda quel particolare aspetto dell’imparzialità, che trova soddisfazione nella possibilità di ricorso, nei congrui casi, agli istituti dell’astensione e della ricusazione’’.
— 91 — brosini, Est. Sandulli) (14), in tema di competenza giurisdizionale dei Consigli di prefettura e promovibilità del giudizio ex officio. La pronuncia merita qui rilievo perché interviene sulla ‘‘questione delle fonti’’ del principio di imparzialità: il [suo] primo fondamento risiede nell’art. 3 Cost.
Caput et fundamentum dell’imparzialità è, dunque, il principio di eguaglianza: affermazione cara all’autorevole estensore, che ne aveva già assunto la paternità in un noto contributo scientifico edito poco prima (15). D) La sentenza n. 93/1965 (Pres. Ambrosini, Est. Branca) (16), che chiude la vicenda dei Consigli comunali in sede giurisdizionale con la definitiva declaratoria di incostituzionalità, segna il quarto tassello dell’itinerario qui proposto. Sotto il profilo definitorio, l’imparzialità viene intesa come indipendenza del giudice dagli interessi presenti in giudizio:
una delle possibili forme, dunque, di indipendenza del giudice, che riposa direttamente nel disposto dell’art. 108.2 Cost.; la declaratoria di incostituzionalità è qui adottata, per violazione del canone di imparzialità, ex art. 108.2 Cost. E) Il quinto tassello è costituito dalla sentenza n. 30/1967 (Pres. Ambrosini, Est. Sandulli) (17), con cui viene dichiarata l’illegittimità costituzionale della giurisdizione della Giunta provinciale amministrativa in materia elettorale per contrasto con il principio di indipendenza ex art. 102.2 e 108.2 Cost. In motivazione si tratteggiano, in termini di possibili effetti a cascata, i rapporti tra (mancanza di) indipendenza e (difetto di) imparzialità: Il pericolo poi che la mancanza di indipendenza possa degenerare in mancanza di imparzialità non è difficile da intuire, quando si considerino le materie spettanti alla giurisdizione di quest’organo [giunta provinciale amministrativa], tra le quali rientrano le controversie sulle elezioni amministative, i provvedimenti delle amministrazioni locali autonome, e persino provvedimenti dell’autorità governativa locale.
Va notato come i rapporti tra i due deficit siano letti in termini di pericolo, e non di necessaria implicazione: la caduta di indipendenza coa(14) Corte cost., sent. 31 marzo 1965, n. 17, cit. in Giur. cost., 1965, p. 176 ss., con nota di M.S. GIANNINI, Spunti sulla giurisdizione contabile e sui consigli di prefettura. (15) Cfr. A.M. SANDULLI, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Riv. dir. proc., 1964, p. 210 ss. e spec. p. 211. (16) Corte cost., sent. 27 dicembre 1965, n. 93, cit. (17) Corte cost., sent. 22 marzo 1967, n. 30, cit.
— 92 — gula, insomma, il rischio di una caduta di imparzialità, e tale rischio va sventato in radice. In termini di politica processuale ciò si traduce in scelte diversificate: tipizzazione delle cause, rilevanza oggettivo-organizzativa di talune di esse (incompatibilità), reti di controllo dei presupposti dell’astensione e della ricusazione del giudice. F) Il sesto tassello è costituito dalla sentenza n. 60/1969 (Pres. Sandulli, Est. Reale) (18), con cui viene dichiarata costituzionalmente illegittima la giurisdizione dell’Intendente di finanza in ordine ai reati contravvenzionali previsti da leggi finanziarie. La pronuncia esibisce statuizioni centrali nell’itinerario della giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice, che d’altronde costituiscono svolgimento e ulteriore messa a fuoco di intuizioni già in precedenza emerse: Il principio dell’indipendenza è volto ad assicurare l’imparzialità del giudice o meglio, come è stato osservato, l’esclusione di ogni pericolo di parzialità, onde sia assicurata al giudice una posizione assolutamente ‘‘super partes’’. Va escluso nel giudice qualsiasi anche indiretto interesse alla causa da decidere e deve esigersi che la legge garantisca l’assenza di qualsiasi aspettativa di vantaggi, come di timori di alcun pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l’obiettività della decisione.
L’indipendenza vi appare, dunque, in veste di strumento di tutela dell’imparzialità; è, perciò, l’imparzialità il valore-fine tutelato dall’ordinamento. Si tratta, come appare evidente, di una tra le statuizioni più importanti dell’intera parabola qui in esame, destinata ad arricchirsi, in seguito, in tempi più vicini a noi, con la messa a fuoco di un’ulteriore consapevolezza: attraverso la tutela dell’imparzialità del singolo giudice si tutela l’imparzialità della giurisdizione, che della concreta imparzialità dei singoli giudici è la risultante ultima, e diviene carattere fisionomico dello Stato (19). G) La sentenza n. 123/1970 (Pres. Branca, Est. Crisafulli) (20), in tema di cumulo di funzioni (requirenti e giudicanti) in capo al ‘‘vecchio’’ pretore in sede penale, individua ulteriori fluttuazioni sul piano dei rapporti concettuali tra indipendenza e imparzialità del giudice: l’indipendenza — vi si legge — è comprensiva anche della terzietà o imparzialità, intesa come assoluta estraneità rispetto alla res iudicanda. (18) Corte cost., sent. 3 aprile 1969, n. 60, cit. (19) Cfr., sin d’ora, in tal senso, soprattutto Corte cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, in Foro it. 1996, I, p. 1489 ss. (20) Corte cost., sent. 9 luglio 1970, n. 123, in Giur. cost., 1970, p. 1545 ss.
— 93 — In un’ottica non distante pare collocarsi la successiva sentenza n. 177/1973 (Pres. Bonifacio, Est. Trimarchi) (21), in tema di garanzie di indipendenza dei Consiglieri di Stato di nomina governativa, ove si allude alle caratteristiche, che [...] contraddistinguono [la magistratura], dell’indipendenza e della (per quanto di ragione, connessa) imparzialità.
H) L’ottavo tassello è costituito dalla sentenza n. 128/1974 (Pres. Bonifacio, Est. Verzi) (22), con cui si è dichiarata l’illegittimità costituzionale della giurisdizione civile del Presidente del Consorzio autonomo del Porto di Genova. Si tratta, sotto il profilo dello stilus curiae, di pronuncia che merita menzione perché esplicita, scoperta, stringata: Il requisito essenziale posto dalla Costituzione a presidio del retto esercizio della funzione giurisdizionale è quello dell’indipendenza del giudice, la cui attività deve essere immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione formale o sostanziale ad altri organi, e deve altresì essere libera da prevenzioni, timori, influenze, che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza. Il che importa che il principio dell’indipendenza è presupposto di quello dell’imparzialità. Orbene, il presidente del Consorzio autonomo del Porto di Genova, che ha adottato o concorso a pronunciare un provvedimento in sede amministrativa ritenendolo implicitamente regolare e legittimo, può trovarsi sostanzialmente vincolato dalle risultanze degli atti dell’ufficio di cui è capo, e non può quindi dare la necessaria garanzia di indipendenza ed imparzialità. Egli non può essere considerato super partes quando appare portatore di uno degli interessi in conflitto dal momento che la censura investe proprio il provvedimento da lui emesso.
L’imparzialità presuppone, pertanto, l’indipendenza; con il corollario, dunque, che tra i due principi ‘‘nessuna equazione è possibile’’, e ciò in quanto ‘‘l’imparzialità è regola che concerne la funzione mentre l’indipendenza attiene all’ufficio’’ (23). Premessa la profonda diversità delle due nozioni, e la diversificazione dei piani in cui l’una e l’altra garanzia operano, occorre, dunque, anzitutto tutelare l’indipendenza: un giudice indipendente possiede potenzialità e risorse tali da porsi — con riguardo agli interessi in contesa — in posizione di imparzialità. Insomma — per riecheggiare un’impostazione assai acuta — oggetto della garanzia costituzionale di indipendenza è la difesa del giudice anche dal pericolo di non essere imparziale, e non soltanto la difesa dal giudice parziale (24). (21) Corte cost., sent. 19 dicembre 1973, n. 177, in Giur. cost., 1973, p. 2348 ss. (22) Corte cost., sent. 15 maggio l974, n. 128, in Giur. cost., 1974, p. 850 ss. (23) Così U. POTOTSCHNIG, Il giudice interessato non è indipendente, cit., p. 1298. (24) In questi termini F.G. SCOCA, Indipendenza del giudice tributario e giurisprudenza costituzionale, cit., p. 107.
— 94 — I) La sentenza n. 135/1975 (Pres. Bonifacio, Est. Crisafulli) (25), in tema di giurisdizione ‘‘domestica’’ della Corte dei conti, segna l’ultimo passaggio di questa rapsodica rassegna. La pronuncia va qui segnalata perché affronta — tra l’altro — un tema modernissimo e tormentato, ed anzi una delle linee di fuoco più frastagliate dell’intero dibattito: [...] La fondamentale esigenza che il giudice sia disinteressato rispetto alla controversia sulla quale deve decidere, e perciò realmente imparziale, non può essere intesa in modo così lato e generico da farvi rientrare anche l’interesse che egli, come privato cittadino, possa avere a una determinata soluzione di problemi di principio inerenti a quella controversia, non essendoci giudice che non sia, al tempo stesso, elettore, pubblico dipendente, proprietario od affittuario, creditore o debitore, e via dicendo, ed insomma inserito in situazioni e rapporti della vita associata regolati dal diritto oggettivo dello Stato, al quale, nell’esercizio della potestà giurisdizionale conferitagli, deve dare concreta attuazione. Non per questo, tuttavia, un giudice si rende incompatibile per difetto di terzietà, com’è confermato anche dall’art. 51 c.p.c., che, al n. 1, gli fa obbligo di astenersi solo ‘‘se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto’’: con chiara allusione ad un interesse diretto, e perciò giuridicamente rilevante, sia nella causa sottopostagli, sia in altra effettivamente pendente davanti ad un diverso giudice.
Se è vero che l’imparzialità investe ‘‘l’intero mondo psicologico del giudice’’ (26), è innegabile che non ogni interesse indiretto può dirsi strutturalmente e definitoriamente idoneo a porla in gioco (27): altrimenti il giudice capax et habilis sarebbe talmente rara avis da risultare virtualmente estraneo alla natura rerum. Innaturale, dunque: è qui il punto. Si ripresentano, anche agli occhi dell’interprete di fine millennio, i due indirizzi di fondo — molto più variegati, poi, al loro interno — che disegnano lo scontro tra un giudice bouche de la loi, che annulla se stesso per rappresentare tutti (28), e un giudice che realisticamente non è un’essenza angelica, né deve esserlo, dovendo respirare l’aria che tutti respiriamo (29). Il tema ora lambito, che non può qui essere coerentemente sviluppato (25) Corte cost., sent. 11 giugno 1975, n. 135, in Giur. cost., 1975, p. 1337 ss., con nota di S. GRASSI, ‘‘Giurisdizione domestica’’ e indipendenza interna dei giudici della Corte dei conti (ivi, p. 1994 ss.). (26) Così ancora F.G. SCOCA, Indipendenza del giudice tributario e giurisprudenza costituzionale, cit., p. 1076. (27) Per rilievi nitidi in tal senso cfr., tra gli altri, P.P. RIVELLO, L’incompatibilità del giudice penale, cit., p. 17 ss., ed E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, Milano, 1989, p. 99 s. (28) Cfr., sul punto, le ormai classiche pagine di G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, 2a ed., I, Milano, 1965, p. 336 ss. (29) La formula è di F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Milano, 1987, p. 281. Sul tema, oltremodo complesso, deve rinviarsi, per tutti, a M. NOBILI, Commento all’art. 25, 1o comma, Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, Rapporti civili, Bo-
— 95 — e che, perciò, deve limitarsi a questi pochi cenni, diviene un terminale nevralgico, cui si connettono fasci concettuali di straordinaria importanza: individualità del singolo giudice-persona fisica, libertà di manifestazione del pensiero, ‘‘politicità’’ del giudice. Sono, è ben noto, temi ampiamente dibattuti, specie (ma non solo) in epoche storiche di trincea (anni settanta); che fanno la loro comparsa, sulla ribalta della giurisprudenza costituzionale, solo — per quanto consta — nell’alveo di una pronuncia di mero rito (ord. 187/1983, Pres. ed Est. Elia) (30): Ritenuto che il giudice a quo con l’ordinanza in epigrafe ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 51 e 52 c.p.c., nella parte in cui consentono l’astensione e la ricusazione di un giudice che abbia un interesse meramente politico alla controversia, in riferimento agli artt. 21 e 101 Cost.; considerato che il giudice a quo non fa propria l’interpretazione delle norme denunziate né sostiene che tale sia il diritto vivente, ma assume che essa è quella accolta dal Presidente del Tribunale di Milano [competente a conoscere dell’astensione e della ricusazione del Pretore giudice a quo], [...] la questione appare quindi sollevata per tuziorismo e si configura come eventuale.
Non si può, però, lasciare l’argomento senza aver richiamato — per rapidi cenni, e omettendo anche qui ogni pur doveroso approfondimento — il tema cruciale della rilevanza di una terzietà che osmoticamente lega le dinamiche del processo, terreno elettivo dell’imparzialità del giudice, con il mondo ‘esterno’ del suo essere politicòn zoòn (animale sociale, e perciò politico, in senso aristotelico). Il tema incrocia problemi assai complessi e, nel tempo, fluidi: guarentigie della magistratura, tipizzazione degli illeciti disciplinari e principio di legalità, diritti dell’uomo e diritti ‘‘sociali’’ del giudice. Sul punto ha interloquito la sentenza n. 100/1981 (Pres. Amadei, Est. Maccarone) (31), che ha dichiarato l’infondatezza di una quaestio, sollevata con riferimento agli artt. 25.2 e 21.1 Cost., coinvolgente l’art. 18 r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui identifica un illecito disciplinare nel fatto che il magistrato ‘‘tenga, in ufficio o fuori, condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario’’: I magistrati, per dettato costituzionale (art. 101.2 e 104.1 Cost.), debbono logna-Roma, 1981, spec. p. 173 ss.; A. PIZZORUSSO, Il principio del giudice naturale nel suo assetto di norma sostanziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, spec. p. 8 ss.; R. ROMBOLI, Il giudice naturale, Milano, 1981, p. 130; ID., L’interesse politico come motivo di ricusazione del giudice, in Riv. dir. proc., 1982, p. 454 ss.; S. SENESE, Giudice naturale e nuovo processo del lavoro, in Foro it., 1974, V, c. 113 ss.; nonché F. BONIFACIO-G. GIACOBBE, Commento all’art. 104 Cost., in Commentario della Costituzione, cit., La magistratura, II, Roma-Bologna, 1986, spec. p. 7 ss. (30) Corte cost., ord. 22 giugno 1983, n. 187, in Giur. cost., 1983, p. 982 s. (31) Corte cost., sent. 8 giugno 1981, n. 100, in Giur. cost., 1981, p. 843 ss.
— 96 — essere imparziali e indipendenti e tali valori debbono essere tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità nell’adempimento del loro compito. I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione; assicurano, nel contempo, quella dignità dell’intero ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa. Nel bilanciamento di tali interessi con il fondamentale diritto alla libera espressione del pensiero, sta [...] il giusto equilibrio, al fine di contemperare esigenze egualmente garantite dall’ordinamento costituzionale. Alla luce di tali considerazioni va interpretata la sentenza di questa Corte n. 145 del 1976, la quale riconosce ‘‘l’esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, che rientra senza dubbio tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti’’. Gli anzidetti rilievi consentono di affermare la piena compatibilità tra libera manifestazione del pensiero e tutela della dignità del singolo magistrato e dell’intero ordine giudiziario; l’equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati non comprime il diritto alla libertà di manifestare le proprie opinioni ma ne vieta soltanto l’esercizio anomalo e cioè l’abuso, che viene ad esistenza ove risultano lesi gli altri valori sopra menzionati.
L) Il primo quadro tematico può così ritenersi composto. Ove se ne volessero sintetizzare le direttive di fondo, occorrerebbe ancora sottolineare la fluttuazione del pensiero della Corte nell’opera di ricerca delle fonti costituzionali dell’imparzialità del giudice: una fluttuazione, tuttavia, che sembra ricomporsi, da ultimo, nella consapevolezza di fondo che il principio di imparzialità del giudice — definito, con lucida e generosa enfasi, il cardine della giustizia (32) — trae linfa da una pluralità di fonti costituzionali. 3. Imparzialità versus giudice naturale precostituito: rimessione e dintorni negli itinerari del giudice delle leggi. — Il secondo filone tematico, sviluppato dalla giurisprudenza costituzionale, che occorre qui ripercorrere concerne i rapporti tra il canone di imparzialità e il principio del giudice naturale precostituito. La parabola che ci si appresta a rileggere induce, però, ad interpretare il dittico in chiave non di giustapposizione congiuntiva ma di contrapposizione dialettica: non già, dunque, imparzialità e giudice naturale precostituito, sibbene — ove si volesse schematizzare semplificando — imparzialità versus giudice naturale precostituito. (32) Così E. FAZZALARI, L’imparzialità del giudice, in Riv. dir. proc., 1972, p. 200. Nel senso che l’imparzialità costituisce ‘‘la dimensione coessenziale del ruolo del giudice’’ cfr. M. PISANI, voce Giurisdizione penale, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 386.
— 97 — Va premesso come, nella corrente manualistica, si appalesi costante il rinvio all’art. 25.1 Cost. quale fonte primaria dell’imparzialità del giudice: il principio del giudice naturale precostituito per legge — si osserva — mira a garantire la presenza di un giudice imparziale nel singolo processo; le garanzie, poi, si radicano sul terreno positivo ordinario attraverso gli istituti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione del giudice (33). Anche nella più recente giurisprudenza costituzionale si scorgono, d’altronde, rinvii diretti all’art. 25.1 Cost. nel contesto di trame argomentative in tema di imparzialità del giudice: la sentenza n. 502/1991 (Pres. Corasaniti, Est. Spagnoli) (34) ritiene ex professo, ad esempio, che la garanzia costituzionale di imparzialità dell’organo della giurisdizione si radichi nell’art. 25 Cost. Perché, dunque, imparzialità versus giudice naturale precostituito? Le vicende sono note ed esemplari, e investono i profili degli spostamenti di competenza finalizzati a garantire l’imparzialità del giudice (35). A) L’istituto della rimessione dei procedimenti ha per primo offerto materia di riflessione circa i suoi rapporti con il principio del giudice naturale precostituito: ha interloquito in tema la sentenza n. 50/1963 (Pres. Ambrosini, Est. Manca) (36), con cui è stata pronunciata l’infondatezza di una quaestio concernente l’art. 55 c.p.p. 1930 sollevata in ordine all’art. 25.1 Cost., pur se cospicui dubbi — circa lo spigoloso tema dei criteri di individuazione del giudice cui rimettere il processo — rimasero allora privi di risposta. Sennonché, nell’interpretazione del ricordato art. 55, assumono particolare rilievo [...] le gravi esigenze che, con l’istituto della rimessione, regolato da tale articolo, si intendono soddisfare, esigenze le quali, al pari del divieto di distogliere alcuno dal giudice naturale precostituito per legge, rispondono anch’esse, come si è accennato, a principi costituzionalmente rilevanti, cioè l’indipendenza e quindi l’imparzialità dell’organo giudicante e la tutela del diritto di difesa. Quanto all’indipendenza, questa Corte, con la sentenza n. 108 del 1962, ne ha posto in luce il carattere fondamentale e connaturale alla funzione giudiziaria; (33) Cfr., tra gli altri, G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., Torino, 1997, pp. 42 e 46 ss.; A. MOLARI, in M. PISANI-A. MOLARI-V. PERCHINUNNO-P. CORSO, Manuale di procedura penale, 2a ed., Bologna, 1997, p. 53 ss.; G. TRANCHINA, I soggetti, in D. SIRACUa SANO-A. GALATI-G. TRANCHINA-E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, 2 ed., I, Milano, 1996, p. 58 ss. (34) Corte cost., sent. 30 dicembre 1991, n. 502, in Foro it., 1992, I, c. 625 ss. (35) Per un acuto e raffinato esame dell’intera problematica cfr. l’ampio studio di G. SPANGHER, La rimessione dei procedimenti, I, Precedenti storici e profili di legittimità costituzionale, Milano, 1984, spec. p. 193 ss. (36) Corte cost., sent. 3 maggio 1963, n. 50, in Giur. cost., 1963, p. 471 ss., con nota di M. SCAPARONE, Sulla costituzionalità della rimessione della competenza penale per gravi motivi di ordine pubblico o per legittima suspicione.
— 98 — indipendenza che la Costituzione ha garantito, con varie norme, riguardo agli organi della giurisdizione ordinaria (artt. 101, 104, 105 e 107); ed ha imposto che sia assicurata dal legislatore anche riguardo ai giudici speciali (art. 108). È indubitabile, infatti, che la mancanza, o la menomazione, di siffatte garanzie non può non incidere gravemente sull’amministrazione della giustizia, deviandola dalle sue fondamentali finalità, inerenti alla vita stessa dello Stato. Ora, la disposizione impugnata a tutela, sia dell’interesse generale, sia del diritto di difesa, del quale l’art. 24.2 Cost. esige la inviolabilità, tende appunto ad evitare che l’insorgere di particolari situazioni, o altri fattori esterni, possano, in qualsiasi modo, interferire nel processo penale, incidendo sull’obiettività del giudizio e sulla retta applicazione della legge, che si ricollegano ad una suprema garanzia di giustizia. Qualora invero, nella sede in cui si svolge il processo, e in relazione al medesimo, si presentino situazioni come quelle prevedute dall’art. 55, qualora cioè (in relazione all’ordine pubblico) si manifestino o siano sicuramente prevedibili [...] gravi turbamenti della pubblica tranquillità e della pacifica convivenza dei cittadini, con pericolo anche per la sicurezza delle persone, ovvero quando (riguardo al legittimo sospetto), con mezzi diretti o indiretti, non esclusa la violenza nei riguardi delle persone che partecipano al processo, si tenta di influire sullo svolgimento o sulla definizione di esso, appare chiara non soltanto l’opportunità, ma la necessità che, del processo, conosca un giudice diverso da quello originariamente stabilito dalla legge; giudice diverso la designazione del quale, per necessità pratiche, è demandata all’organo giudiziario.
B) La sentenza n. 109/1963 (Pres. Ambrosini, Est. Manca) (37), che ha interloquito sul vecchio meccanismo della rimessione dei procedimenti riguardanti magistrati, si colloca in un’ottica omogenea. Il congegno, previsto dal primitivo testo dell’art. 60 c.p.p. 1930, aveva — come è noto — raccolto valutazioni entusiastiche: ‘‘se c’è — s’era scritto — un istituto chiaramente preordinato al ‘regolare svolgimento delle funzioni di giustizia’, in quanto diretto a garantire nella misura maggiore possibile l’esercizio del diritto di difesa, l’imparzialità del giudice e la parità di trattamento dei cittadini entro l’ambito della giurisdizione penale, questo è certo l’istituto che, normalmente denominato della ‘rimessione dei procedimenti riguardanti magistrati’, mira ad evitare che i magistrati, eventualmente coinvolti in un processo penale come imputati o come persone offese dal reato, vengano assoggettati alle decisioni dell’ufficio giudiziario presso il quale esercitano le loro funzioni’’ (38). La Corte, chiamata a sindacarne la conformità al canone di naturalità e precostituzione del giudice, ne aveva difeso la ratio di fondo; si assisteva, d’altronde, ad un ulteriore aggira(37) Corte cost., sent. 22 giugno 1963, n. 109, in Giur. cost., 1963, p. 859 ss., con nota di G. CONSO, La rimessione dei procedimenti riguardanti magistrati e la garanzia del giudice precostituito per legge. (38) Così G. CONSO, La rimessione dei procedimenti riguardanti magistrati, cit., p. 860.
— 99 — mento del consueto problema concernente la cristallizzazione dei criteri per individuare il forum commissorium (39). È da tener presente che, con la sentenza n. 50 del 1963, questa Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 c.p.p. [...] precisando al riguardo: a) che la facoltà attribuita alla Corte di cassazione di rimettere l’istruzione, o il giudizio, da uno ad un altro giudice di sede diversa, per gravi motivi di ordine pubblico, o per legitimo sospetto, non importa discrezionalità da parte dell’organo giudiziario, bensì definizione di un giudizio incidentale, in seguito ad accertamento di circostanze obiettive; b) che lo spostamento della competenza, nei casi indicati, risponde ad una suprema esigenza di giustizia, pure costituzionalmente garantita, per assicurare l’indipendenza e quindi l’imparzialità del giudice, nell’interesse generale e in quello particolare della difesa dell’imputato. Ora, questi principi devono applicarsi pure in relazione alle disposizioni impugnate; nelle quali la rimessione ad un giudice diverso è prescritta dalla legge, quando si debba procedere contro un magistrato che appartenga all’ufficio giudiziario competente, o quando il magistrato stesso sia stato offeso da un reato. Anche riguardo a siffatte ipotesi, invero, debbono ritenersi sussistenti ed operanti quelle superiori esigenze, alle quali si è accennato: esigenze che si appalesano evidenti se si tratta di organo giudiziario con un unico magistrato, ma che non sono certo meno presenti e sentite se il magistrato fa parte di un organo collegiale. In tali casi, infatti, occorre che lo svolgimento del processo, nell’istruttoria, nel giudizio e nella definizione, resti assolutamente immune da ogni possibilità di dubbio, circa l’obiettiva imparzialità del giudice e la retta applicazione della legge. [...] Non ha neppure rilevanza in contrario la circostanza che, tanto nel 1o quanto nel 2o comma dell’art. 60, spetta alla Corte di cassazione, in seguito all’accertamento dei fatti preveduti in detto articolo, di designare, in concreto, il giudice diverso da quello predeterminato. Ritenuta, invero, la legittimità costituzionale del provvedimento, la conseguente designazione del giudice, come si è già avvertito nella precedente sentenza n. 50 del 1963, non può non essere demandata, per ovvie esigenze pratiche, se non all’organo regolatore della competenza; il quale provvederà, con prudente criterio, tenuto conto delle varie circostanze, apprezzabili caso per caso.
C) Si perviene, così, alla terza tessera del mosaico adesso sottoposto ad esame: la sentenza n. 168/1976 (Pres. Rossi, Est. Reale) (40), in tema di spostamenti di competenza territoriale imposti dalla sopravvenuta mancanza del collegio a causa di astensione o ricusazione di suoi membri, si colloca su una identica lunghezza d’onda, ancora ribadendo la coppia dialettica giudice imparziale versus giudice naturale precostituito, e di nuovo (39) Il tema è esaustivamente esplorato da G. SPANGHER, La rimessione dei procedimenti, cit., spec. p. 321 ss., cui, per tutti, si rinvia. (40) Corte cost., sent. 14 luglio 1976, n. 168, in Giur. cost., 1976, p. 1058 ss., con nota di G. PAOLOZZI, Rimessione del procedimento ad una Corte limitrofa per mancanza del numero legale in seguito ad astensione o ricusazione (ivi, 1977, p. 1589 ss.).
— 100 — soffermandosi — con toni una volta di più non persuasivi — sui criteri di scelta del giudice ‘‘finale’’ competente. Questa Corte in numerose occasioni, pur ribadendo che il principio enunciato dall’art. 25.1 Cost. importa che la competenza del giudice sia preventivamente determinata dalla legge in via generale, ha precisato che l’esigenza di assicurare l’indipendenza e l’imparzialità del giudizio (nell’interesse dell’andamento della giustizia e in quello particolare della difesa dell’imputato), senza peraltro compromettere la continuità e la prontezza della funzione giurisdizionale, possono eccezionalmente giustificare la sottrazione di una controversia al giudice originariamente competente (v. sentenze nn. 50, 109 e 156 del 1963; 173 del 1970 e 71 del 1975): il tutto in applicazione di norme le quali prevedono spostamenti di competenza da un giudice ad un altro che sia ugualmente precostituito per legge nel senso che la designazione del nuovo giudice discenda direttamente dalla legge e non venga affidata a scelte assolutamente discrezionali in ordine sia all’accertamento dei presupposti cui è subordinato il trasferimento stesso sia alla designazione del nuovo giudice. [...] Analoghe considerazioni giustificano la medesima conclusione in ordine alla norma impugnata la quale [...] prevede che, se per astensione o per ricusazione venga a mancare in un collegio il numero legale, il presidente della Corte o del Tribunale rimette il procedimento ad un’altra sezione della stessa Corte o dello stesso Tribunale o ad un’alta Corte limitrofa ovvero ad un Tribunale limitrofo dello stesso distretto. Anche in questo caso, invero, lo spostamento di competenza non è demandato all’insindacabile discrezionalità di un organo giudiziario ma dipende necessariamente dall’accertamento obiettivo di fatti ipotizzati dalla legge. Ed anche in tale situazione lo spostamento mira ad assicurare la continuità e l’efficienza della funzione giurisdizionale e, nel contempo, l’indipendenza e l’imparzialità del giudizio con la tutela del diritto di difesa: beni ed esigenze che, al pari del divieto di distogliere alcuno dal giudice naturale precostituito per legge, rispondono a principi costituzionalmente rilevanti (artt. 101, 104 e 24 Cost.) e possono pertanto giustificare [...] l’eccezionale sottrazione di una controversia al giudice originariamente designato dalla legge.
L’interprete si trova innanzi, dunque, a tre pronunce che all’unisono hanno ritenuto il valore dell’imparzialità — di regola sotteso al principio del giudice naturale precostituito — in grado, pur se per viam exceptionis, di contrapporsi ad esso. Sul piano della metodologia del controllo di costituzionalità, è appena il caso di osservare come a tale approdo può pervenirsi solo attribuendo all’imparzialità un rango pariordinato a quello proprio del giudice naturale precostituito: emanando entrambi da fonti di livello costituzionale, i due principi, ove venissero in conflitto, sarebbero tra loro bilanciabili, tenendo all’uopo conto della scala generale dei valori costituzionalmente tutelati. 4. Imparzialità e alterità del giudice: la vicenda del ‘‘vecchio’’ processo pretorile. — La terza scheda tematica intende esplorare — può dirsi in prima battuta — il paradigma dell’imparzialità come fisica alterità del
— 101 — giudice rispetto alle parti; l’editing della home page di questa scheda risulta, tuttavia, migliorato ove, per presentarne il contenuto, si rifuggisse dalla logica dell’equazione (quasi che l’alterità sia uno qualsiasi degli indifferenziati modi d’essere dell’imparzialità) e si alludesse, invece, all’alterità come primo e più elementare requisito dell’imparzialità del giudice. Viene primariamente in rilievo, in tale contesto, l’annosa vicenda del (vecchio) processo pretorile: i percorsi della giurisprudenza costituzionale descrivono qui la storia di una parabola che, muovendo da difese oltranzistiche puntellate di (autorevolissime) incongruenze cedevoli a sin troppo scoperte indulgenze alla ‘‘ragion di Stato’’, conduce, alla vigilia della riforma del 1988, a soglie più consapevoli, pur se ancora in extremis temporeggiatrici. Era, quella del pretore, anteriormente al varo del ‘‘nuovo’’ codice processuale, una giurisdizione senza azione, attivata ex officio iudicis (41) con ciò che ne consegue sul piano dell’equidistanza del ‘‘terzo’’ dalle parti? Ovvero il modello (un po’ ipocrita) del Giano bifronte (dopo che il pretore-inquirente ha istruito, il pretore-requirente richiede l’accertamento giurisdizionale al pretore-giudice, cioè ancora a se stesso) legittimava la foschiniana metafora del duetto del ventriloquo con il suo fantoccio (42)? E, dal punto di vista qui oggetto di studio: quale imparzialità in chi prima agisce, poi istruisce, poi giudica merito causae, magari confrontandosi in udienza con una pallida difesa d’ufficio nominata hic et inde (43)? Anche in tal caso la giurisprudenza costituzionale esibisce tre fotogrammi, le cui eloquenti dinamiche mostrano davvero, in progress, i segni dei tempi nuovi. A) La sentenza n. 61/1967 (Pres. Ambrosini, Est. Petrocelli) (44), che sigla il primo fotogramma della serie, può davvero dirsi l’emblema di tempi che furono: lucido nel declamare certezze contro ogni evidenza, e stupefacente nel conclusivo argumentum a fortiori incommensurabile rispetto al piano obbligato del discorso: (41) Cfr., tra gli altri, F. CARNELUTTI, Mettere il pubblico ministero al suo posto, in Riv. dir. proc., 1953, p. 261; G. CONSO, Vero e falso nei principi generali del processo penale, in questa Rivista, 1958, p. 298; O. DOMINIONI, Le parti nel processo penale. Profili sistematici e problemi, Milano, 1985, p. 32; G. FOSCHINI, Cenni sul pubblico ministero e sul pretore, in Riv. dir. proc., 1949, II, p. 98; G. ILLUMINATI, Diritto all’imparzialità del giudice in relazione al processo pretorile, in Giur. merito, 1970, II, p. 294; E. LEMMO, Il pubblico ministero nel procedimento penale pretorile, in Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, a cura di G. CONSO, Bologna, 1979, p. 174. (42) Cfr. G. FOSCHINI, Cenni sul pubblico ministero e sul pretore, cit., loc. cit. (43) Il tema è, tra gli altri, acutamente affrontato da G. ILLUMINATI, Diritto all’imparzialità del giudice in relazione al processo pretorile, cit., p. 294 ss. (44) Corte cost., sent. 24 maggio 1967, n. 61, in Giur. cost., 1967, p. 706 ss.
— 102 — Per ciò che riguarda il concorso nello stesso organo, nella fase anteriore al giudizio, delle funzioni di giudice e di pubblico ministero, va ricordato che questa Corte, in più sentenze, ha riconosciuto la legittimità di norme nelle quali talune deviazioni dalle regole generali del processo penale trovano fondamento, senza lesione alcuna di principi costituzionali, nel principio dell’economia processuale. È indispensabile infatti che taluni istituti, nell’interesse del sollecito andamento della giustizia, trovino possibilità di svolgersi con una propria e particolare disciplina. Recentemente, con la sentenza n. 46 del 1967, la Corte ha considerato, nel dichiarare infondate le relative questioni, che taluni poteri conferiti al pretore sono conseguenza necessaria del carattere particolare che, nel sistema processuale penale, assume il relativo procedimento, e delle esigenze di rapidità e semplicità cui esso si ispira. Di qui anche quella varietà di funzioni che a torto si vorrebbe presentare come costituzionalmente illegittima. Perfino in tema di diritto di difesa la citata sentenza ha ribadito che esso, senza violare il precetto costituzionale, bene può armonizzarsi con i vari tipi di procedimento. [...] E infine, anche al di fuori del profilo strettamente costituzionale della questione, non è fuori luogo considerare i servigi che all’ordinamento della giustizia sono stati resi, attraverso lunga tradizione, dall’ufficio del pretore, così come attualmente regolato; nonché l’entità degli assurdi sconvolgimenti che si pretenderebbe operare nell’istituto, in un momento in cui si fanno sempre più imperiose le esigenze della rapidità e semplicità degli ordinamenti processuali.
B) Il secondo fotogramma si sostanzia nella sentenza n. 123/1970 (Pres. Branca, Est. Crisafulli) (45), che affronta in termini analitici il problema della ‘‘terzietà senza alterità’’; appar chiaro come la non persuasiva soluzione che ne costituisce l’approdo risenta del non convincente percorso argomentativo adottato. D’altro canto, la disciplina delle attribuzioni pretorili denunciata nelle ordinanze non contrasta con il principio dell’indipendenza del giudice, comprensiva anche della terzietà o imparzialità, intesa come assoluta estraneità rispetto alla res iudicanda. Il pretore è un giudice, che gode come tale delle guarentigie spettanti a tutti i magistrati giudicanti dell’ordine giudiziario, e la circostanza che ad esso sia conferito il potere-dovere di mettere in moto il processo e che gli siano anche affidati taluni compiti ulteriori, che sarebbero altrimenti di competenza anche degli uffici del pubblico ministero, non incide sulla sua piena libertà di giudizio né lo rende in qualche modo ‘‘interessato’’ all’esito di esso. Anche quando procede a sommarie indagini o eventualmente ad una vera istruttoria, il pretore non persegue istituzionalmente altro interesse fuori di quello, oggettivo, dell’accertamento della verità e delle responsabilità: del quale l’interesse alla tutela dell’innocente è parte integrante allo stesso titolo dell’interesse alla punizione del reo. Ed è significativo al riguardo che l’art. 409, 3o comma, c.p.p. prescriva che il pretore debba indicare nel decreto di citazione a giudizio ‘i testimoni tanto a carico quanto a discarico dell’imputato, che reputi utili per l’accertamento della verità’, senza pregiudizio, naturalmente, delle ulteriori disposizioni in materia probatoria applicabili alla fase del dibattimento. (45)
Corte cost., sent. 9 luglio 1970, n. 123, cit.
— 103 — C) La sentenza n. 268/1986 (Pres. La Pergola, Est. Gallo) (46), che scandisce — ad oltre tre lustri di distanza dalla precedente — il terzo fotogramma, può ben dirsi il segno dei tempi nuovi: non solo le antiche certezze si sono sgretolate, ma la Corte tratteggia — e in termini di tuonante ultimatum — l’esigenza di interventi ortopedici tempestivi onde evitare futuri e annunciati collassi per incostituzionalità. La [...] giurisprudenza di questa Corte ha tenuto conto di un indirizzo tradizionale nel diritto positivo e nella cultura giuridico-processuale penale nel nostro Paese: quell’indirizzo secondo cui, riconoscendosi al pubblico ministero poteri istruttori e cautelari non dissimili da quelli attribuiti al giudice, si riteneva accettabile che, nei procedimenti minori, funzione requirente e giudicante potessero accorparsi in un unico magistrato in considerazione di un principio di economia processuale. Vero è che frattanto, anche per il progressivo avvicinamento del processo al rito di common law, la figura e i poteri del pubblico ministero andavano subendo una lenta ma continua trasformazionee tendenzialmente orientata a collocarlo in quel ruolo di ‘parte’ che meglio s’addice al processo di una moderna democrazia, dove si postula il principio di parità tra accusa e difesa. Ciò comporta, però, fatalmente che, al termine di questa fase evolutiva, che dovrebbe concludersi nella riforma in corso del codice di rito, si renderà assoluta l’incompatibilità della duplice funzione nel giudice-pretore. Purtroppo la riforma sta procedendo con estrema lentezza. Sembra, tuttavia, che l’approvazione del nuovo disegno di legge-delega non debba più essere così lontana da non giustificare l’opportunità di attendere che sia lo stesso legislatore a dare al rito pretorile una completa disciplina: anche per l’esigenza d’intervenire in quella parte del connesso settore dell’ordinamento giudiziario che la riforma in parola necessariamente sarà per coinvolgere. È certo, però, che frattanto la coscienza sociale va sempre più chiaramente avvertendo l’inderogabilità di una rigorosa tutela della ‘terzietà’ anche nelle funzioni del giudice-pretore: la Corte non potrebbe alla fine non rifletterla nella sua giurisprudenza, se i ritardi del legislatore dovessero perpetuarsi.
D) L’angolo visuale va, d’altronde, qui allargato. Ormai da tempo si è posto in rilievo come, accanto ad una imparzialità ‘‘organica’’, intesa come ‘‘assenza di legami e condizionamenti capaci di inquinare il rapporto tra il giudice e le parti o tra il giudice e l’ambiente’’, si collochi un’imparzialità ‘‘operativa’’, che rileva — a differenza della prima — sul piano dinamico e ‘‘investe il comportamento del giudice verso l’imputato, vietando atteggiamenti e comportamenti che presuppongono una preconcetta adesione alla tesi accusatoria’’ (47). Non v’è dubbio, alla luce di ciò, (46) Corte cost., sent. 15 dicembre 1986, n. 268, in Giur. cost., 1986, p. 2187 ss.; per proficui rilievi in tema cfr., tra gli altri, D. MANZIONE, Il pretore giudice-accusatore: un monito della Corte costituzionale, in Leg. pen., 1987, p. 336 ss. (47) In questi termini E. AMODIO, Eguaglianza delle armi nel processo, presunzione di innocenza e ruolo del giudice istruttore, in Ind. pen., 1981, p. 241. Il tema della c.d. neu-
— 104 — che l’antica commixtio pretorile finiva con il rendere evanescente l’imparzialità operativa del giudice monocratico, il quale muoveva sì la propria attività istruttoria finalizzandola alla ‘‘ricerca della verità’’, ma in ciò andava — ‘‘fisiologicamente’’, si direbbe — alla ricerca anzitutto degli elementi a carico, acquisendo quelli a discarico solo se e nei limiti in cui si fossero in itinere dischiusi ai suoi occhi (48). Gli ultimi cenni pongono, così, in rilievo il tema cruciale dell’esercizio di poteri ex officio iudicis, su cui può qui essere utile rapidamente soffermarsi indagandone i rapporti con il principio di imparzialità: può dirsi che un giudice non inerte deformi, per ciò solo, il suo essere super partes? O, in altri termini: l’attivazione di poteri ex officio determina in via automatica e ineluttabile una caduta dell’imparzialità del giudicante? È noto come la scienza processualistica abbia ormai da tempo messo in guardia contro il non condivisibile meccanicismo di simili ottiche: l’equazione imparzialità/passività assoluta/assenza di iniziative d’ufficio è stata — nel suo nudo porsi, senza ulteriori messe a fuoco — sottoposta a critica (49); di contro, è — si è detto — fisiologica opzione di politica del processo il conferire al giudice poteri ex officio in sede di ricerca o di formazione della prova, purché tali iniziative assumano carattere sussidiario o integrativo rispetto a quelle delle parti (50). È questo, dunque, il limite oltre il quale l’iniziativa officiosa trasmoda in vulnus al canone di imparzialità: ‘‘è chiaro, infatti, che un sistematico impegno del giudice nella ricerca delle prove, e quindi in attività di tipo investigativo — sicuramente non neutrali per la scelta che implicano della direzione in cui indagare — pregiudicherebbe la sua imparzialità alterando indirettamente la parità tra accusa e difesa, che sta a base del contraddittorio’’ (51). E) La più recente giurisprudenza costituzionale non ha mancato di occuparsi dei rapporti tra imparzialità e poteri ex officio iudicis. Pur se occorre, in questa sede, ancora una volta prescindere da analisi di dettaglio che condurrebbero assai lontano, non si può non riservare un cenno a quella summa del pensiero della Corte sul processo penale che è la sentralità metodologica è di recente ripreso da G. UBERTIS, Riflessi sistematici della giurisprudenza costituzionale in materia di garanzie giurisdizionali nel nuovo processo penale, in I nuovi binari del processo penale, Atti del convegno di Napoli, cit., p. 84 ss. (48) Cfr., in tema, ancora E. AMODIO, Eguaglianza delle armi nel processo, presunzione di innocenza e ruolo del giudice istruttore, cit., spec. p. 243 s. (49) Cfr. G. GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Pol. dir., 1986, p. 23 ss. (50) Cfr. P. FERRUA, voce Difesa (diritto di), in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 470; in senso non dissimile E. FAZZALARI, L’imparzialità del giudice, cit., p. 201 s. (51) P. FERRUA, voce Difesa (diritto di), cit., loc. cit.; per ulteriori attenti rilievi cfr., tra gli altri, R.E. KOSTORIS, voce Giudizio (dir. proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, agg. 1997, p. 5.
— 105 — tenza n. 111/1993 (Pres. Borzellino, Est. Spagnoli) (52): una pronuncia che segna l’apogeo del sentiero deflagrantemente dischiuso dalla giurisprudenza costituzionale del 1992, e che scolpisce — in termini, come è noto, criticati e criticabili perché sin troppo intrisi di dogmatismo (53) — i rapporti cruciali tra ‘‘giusto processo’’ e ‘‘giusta decisione’’. Quanto, poi, alla tecnica del processo, è ben vero che l’esigenza di accentuare la terzietà del giudice — perciò programmaticamente ignaro dei precedenti sviluppi della vicenda procedimentale — ha condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse. Ma tale opzione metodologica non ha fatto, né poteva far trascurare che ‘fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità’ (sent. n. 255/1992), e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25.2 Cost.) — che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate — nonché al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale (cfr. sent. n. 88/1991) non sono consone norme di deontologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (cfr. sent. 255/1992).
F) Terzietà del giudice / estraneità alle ‘‘leve di comando’’ delle iniziative probatorie versus ricerca della verità / accertamento ‘‘pieno’’ del fatto storico strumentale all’approdo della ‘‘giusta decisione’’: parrebbe, dunque, che la terzietà sia suscettibile di affievolimento a fronte della ricerca della verità. Il piano inclinato che così si disegna sembra, però, da una parte inquietantemente ripido, dall’altra tutt’altro che persuasivo già sul piano delle premesse: i poteri ex officio iudicis — segnatamente previsti dall’art. 507 c.p.p., così come riletto nel 1992 dal noto dictum delle Sezioni unite (54) — non sembrano, invero, incompatibili con il mantenimento di un ruolo di imparzialità; l’opposta (e un po’ manichea) chiave di lettura rischierebbe di muovere da una pretesa aprioristica equazione tra terzietà e inerzia assoluta, non solo — a ben vedere — inattuabile sul piano pratico-operativo, ma già in premessa non poco ideologicamente rischiosa. 5.
Imparzialità e ‘‘giusto processo’’: alla ricerca di una nostrana
(52) Corte cost., sent. 26 marzo 1993, n. 111, in Foro it., 1993, I, c. 1356 ss. (53) Cfr., tra gli altri, P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1994, p. 1065 ss.; P. GAETA, Il ‘‘sapere per la verità’’: inerzia probatoria delle parti e poteri del giudice del dibattimento, in Quest. giust., 1993, p. 557 ss.; A. GIARDA, ‘‘Astratte modellistiche’’ e principi costituzionali del processo penale, in questa Rivista, 1993, p. 889 ss. (54) Cfr. Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, in Foro it., 1993, II, c. 65 ss.
— 106 — due process of law clause. — Si perviene, così, alla quarta scheda tematica del qui proposto itinerario: una tappa recente ed importante, segnata dalla riscoperta, nella giurisprudenza costituzionale, di una (sino ad allora) inedita dimensione ‘‘nostrana’’ della due process of law clause, diffusa nel tessuto della Carta fondamentale. Ove si abbia cura di rileggere l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di incompatibilità del giudice, a partire da quella mutazione cromosomica dell’art. 34.2 c.p.p. (55) provocata dall’anello di avvio della serie (56), ci si avvede come è solo in progesso di tempo che si affaccia la sagoma di un giusto processo ‘‘interno’’: il fenomeno si rende manifesto a partire dalla svolta (traumatica) della decisione cautelare pregiudicante (id est della decisione de libertate come ‘‘luogo’’ del pregiudizio) operata, attraverso il noto overruling, nel 1995 (57). Anche qui può, allora, procedersi per fotogrammi. In questo caso, tuttavia, le varie immagini fotografano una realtà nella sostanza non in divenire ma — per dir così — già divenuta: è la svolta del 1995 ad introdurre l’epifenomeno della terzietà-imparzialità come molecola del ‘‘giusto processo’’; la sequenza delle pronunce, a partire dalla sentenza n. 432/1995, fa registrare non una realtà in progress ma solo variazioni sul tema, pur meritevoli di essere rapidamente passate in rassegna. Par quasi, insomma, che la riscoperta del ‘‘giusto processo’’ made in Italy — da cui è, peraltro, rigorosamente (e appena sorprendentemente) estraneo ogni riferimento a prospettive sovranazionali — abbia provocato un mutamento di ottica nel segno di una spinta verso la moltiplicazione dei ‘‘luoghi del pregiudizio’’. Un tale trend regge, come è noto, fino alla ‘‘trilogia d’ottobre’’ (sent. 306, 307 e 308/1997): ove, alla luce del recuperato slogan dell’ ‘‘organizzare la terzietà’’, si traccia secco lo spartiacque tra luoghi strutturali del pregiudizio e pregiudizi da individuarsi, ex post, volta per volta, attraverso i soli congegni dell’astensione e della ricusazione del giudice resosi (o apparso) suspectus (58). (55) G. CONTI, L’incompatibilità del giudice tra microconflittualità costituzionale e prospettive di riforma ordinamentale, cit., p. 199. (56) Corte cost., sent. 26 ottobre 1990, n. 496 [Pres. Conso, Est. Spagnoli], in Giur. cost., 1990, p. 2887 ss. (57) Ci si riferisce, come è noto, a Corte cost., sent. 15 settembre 1995, n. 432, in Foro it., 1995, I, c. 3068. Sul significato della svolta e sulla sua incidenza nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice cfr., tra gli altri, P. GAETA-G. TEI, I pregiudizi sul pregiudizio ovvero il falso mito della verginità del ‘‘giudice di merito’’, ivi, 1996, I, c. 411 ss., ed E. MARZADURI, Tutela dell’imparzialità del giudice ed emissione di provvedimenti sulle misure cautelari, in I nuovi binari del processo penale, Atti del convegno di Napoli, cit., p. 217 ss. (58) Sulla ‘‘trilogia d’ottobre’’ (Corte cost., sent. 1o ottobre 1997, n. 306 [Pres. Granala, Est. Zagrebelsky]; Corte cost., sent. 1o ottobre 1997, n. 307 [Pres. Granata, Est. Mezzanotte]; Corte cost., sent. 1o ottobre 1997, n. 308 [Pres. Granata, Est. Neppi Modona],
— 107 — A) Va, dapprima, ancora una volta sottolineata la problematica delle fonti costituzionali dell’imparzialità del giudice: la sentenza n. 502/1991 (Pres. Corasaniti, Est. Spagnoli) (59) — lo si è visto — ne individua tout court gli estremi nell’art. 25.1 Cost., mentre una più ampia piattaforma è tracciata dalla (appena) successiva sentenza n. 124/1992 (Pres. Corasaniti, Est. Spagnoli) (60): I principi della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101) e della sua precostituzione rispetto all’oggetto del giudizio (art. 25), garantendo l’indipendenza del giudice e la sua necessaria estraneità rispetto agli interessi ed ai soggetti coinvolti ed escludendo che la sua designazione e la determinazione delle sue competenze possano essere condizionate da fattori esterni, rappresentano i presidi fondamentali dell’imparzialità e ne definiscono il contenuto ineliminabile di connotato intrinseco dell’attività del giudice in quanto non finalizzata al perseguimento di alcun interesse precostituito.
B) La svolta della decisione cautelare pregiudicante — che, come è noto, si deve alla sentenza n. 432/1995 (Pres. Baldassarre, Est. Ferri) (61) — è giustificata dalla rimarcata convinzione di dover affermare un più pregnante significato dei valori del giusto processo (e del diritto di difesa che ne è componente essenziale).
La pronuncia ribadisce, d’altronde, l’antica figura della ‘‘forza della prevenzione’’ (62), destinata ad aver fortuna pressoché in tutta la giurisprudenza successiva: Anche in questo caso, pertanto, in raffronto alle ipotesi ora indicate, devono ritenersi sussistenti i medesimi effetti che l’art. 34 mira a impedire, e cioè che la valutazione conclusiva sulla responsabilità dell’imputato sia, o possa apparire, condizionata dalla cosiddetta forza della prevenzione, e cioè da quella naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento.
C) È, però, soprattutto la sentenza n. 131/1996 (Pres. Ferri, Est. Zatutte in Foro it., 1997, I, c. 2721 ss.) ci si permette, per brevità, di rinviare a G. DI CHIARA, Più che all’incompatibilità si guardi adesso alle cause di astensione e ricusazione, in Dir. pen. proc., 1998, p. 237 ss. (59) Corte cost., sent. 30 dicembre 1991, n. 502, cit. (60) Corte cost., sent. 25 marzo 1992, n. 124, in Foro it., 1992, I, c. 1993. (61) Corte cost., sent. 15 settembre 1995, n. 432, cit. (62) Sul tema cfr., tra gli altri, S. BORGHESE, voce Astensione e ricusazione del giudice (dir. proc. pen.), in Enc. dir., III, Milano, 1958, p. 955 s.; F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, II, Roma, 1947, p. 264 s.; G. SPANGHER, Problemi di incompatibilità e precedente sentenza istruttoria, in questa Rivista, 1981, p. 600 s.; E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, cit., p. 115.
— 108 — grebelsky) (63) a inquadrare il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione nella cornice del nostrano ‘‘giusto processo’’: Il ‘‘giusto processo’’ — formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e di difesa in giudizio — comprende l’esigenza di imparzialità del giudice: imparzialità che non è che un aspetto di quel carattere di ‘‘terzietà’’ che connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici, e condiziona l’effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio. Le norme sull’incompatibilità del giudice sono funzionali al principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione e ciò ne chiarisce il rilievo costituzionale. Questa Corte, in numerose pronunce, ha affermato che le incompatibilità dei giudici determinate da ragioni interne allo svolgimento del processo sono finalizzate ad evitare che condizionamenti, o apparenze di condizionamenti, derivanti da precedenti valutazioni cui il giudice sia stato chiamato nell’ambito del medesimo procedimento, possano pregiudicare o far apparire pregiudicata l’attività di ‘‘giudizio’’.
D) Le pronunce immediatamente consequenziali in tema di incompatibilità del giudice ribadiscono tale ricostruzione generale. Ecco come la sentenza n. 155/1996 (Pres. Ferri, Est. Zagrebelsky) (64) rifocalizza lo scenario del ‘‘giusto processo’’: I parametri costituzionali che i giudici rimettenti invocano convergono nel configurare quello che, in numerose occasioni, questa Corte ha indicato come il ‘‘giusto processo’’ voluto dalla Costituzione. Tra i principi del ‘‘giusto processo’’, posto centrale occupa l’imparzialità del giudice, in carenza della quale le regole e le garanzie processuali si svuoterebbero di signficato. L’imparzialità è perciò connaturata all’assenza della giurisdizione e richiede che la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto ‘‘terzo’’, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie che egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza.
Formule pressoché analoghe caratterizzano l’approccio introduttivo della sentenza n. 177/1996 (Pres. Ferri, Est. Mirabelli) (65): L’istituto dell’incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento penale concorre ad esprimere la garanzia di un giudizio imparziale, che non sia né possa apparire condizionato da precedenti valutazioni sulla responsabilità penale dell’imputato manifestati dallo stesso giudice tali da poter pregiudicare la neutralità del suo giudizio. Il principio del ‘‘giusto processo’’, difatti, implica e presuppone che il giudizio si formi in base al razionale apprezzamento (63) Corte cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, cit. (64) Corte cost., sent. 20 maggio 1996, n. 155, in Foro it. 1996, I, c. 1898 ss. (65) Corte cost., sent. 31 maggio 1996, n. 177, in Foro it., 1996, I, c. 2278 ss.
— 109 — delle prove legittimamente raccolte ed acquisite e non sia pregiudicato da valutazioni sul merito dell’imputazione e sulla colpevolezza dell’imputato, espresse in fasi del processo anteriori a quella del quale il giudice è investito.
E) Eguale quadro storico-ricostruttivo è ripercorso dalla ‘‘trilogia d’ottobre’’ (66): qui si mette a fuoco, però, la nota linea direttiva dell’ ‘‘organizzare la terzietà’’ (attraverso un numerus clausus di ipotesi di incompatibilità al giudizio), affidando, per il resto, la tutela dell’imparzialità del giudice a verifiche ex post e case to case, attraverso il ricorso in concreto ai meccanismi dell’astensione e della ricusazione. Basti, qui, anzitutto riferirsi alla sentenza n. 306/1997 (Pres. Granata, Est. Zagrebelsky) (67): Nell’ambito del principio del giusto processo di cui questa Corte, in numerose occasioni, ha definito i profili sulla base delle disposizioni costituzionali che attengono alla disciplina della giurisdizione, posto centrale occupa l’imparzialitàneutralità del giudice, in carenza della quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato. Tale principio in tutti i suoi aspetti, tra cui per l’appunto l’imparzialità del giudice, indubitabilmente vale anche in relazione al procedimento giurisdizionale di applicazione delle misure di prevenzione personali che incidono su diritti di libertà costituzionalmente garantiti per mezzo di una ‘‘riserva di giurisdizione’’. In questi casi, la garanzia rappresentata da tale riserva non può essere menomata attraverso l’affievolimento dei caratteri che la giurisdizione qualificano come tale. Date queste premesse, l’esigenza di preservare il giudice chiamato a pronunciarsi sulla proposta di applicazione delle misure di prevenzione da ogni pre-giudizio che possa comprometterne l’imparzialità si pone nella stessa misura in cui essa è stata affermata in relazione al giudice che è chiamato a pronunciarsi nel processo penale.
Non dissimili supporti argomentativi sono fatti propri dalla sentenza n. 307/1997 (Pres. Granata, Est. Mezzanotte) (68): È necessario premettere che il principio del giusto processo, secondo la giurisprudenza di questa Corte, risponde all’esigenza che il giudice non sia né appaia condizionato da precedenti valutazioni compiute nei confronti delle parti tali da far risultare pregiudicata la sua posizione di terzietà. Tale principio non si realizza nel nostro ordinamento secondo un modulo processuale unico e infungibile. Alla sua tutela sono infatti preordinati due diversi istituti: da un lato le incompatibilità determinate da atti compiuti nel procedimento (art. 34) e dall’altro l’astensione (art. 36) e la ricusazione (art. 37). Si tratta, va subito precisato, di strumenti tutti orientati alla garanzia dell’indipendenza del giudice, intesa nella sua specifica accezione di terzietà-non pregiu(66) Supra, nota 58. (67) Corte cost., sent. 1o ottobre 1997, n. 306, cit. (68) Corte cost., sent. 1o ottobre 1997, n. 307, cit.
— 110 — dizio, come dimostra il fatto che ciascuna delle situazioni di incompatibilità previste dall’art. 34 è destinata a risolversi in una causa di astensione e di ricusazione. Nonostante che il trattamento giuridico sia, nel suo nucleo centrale, alla fine lo stesso (ogni pregiudizio dà luogo a un diritto della parte pregiudicata di proporre istanza di ricusazione), collocare le varie fattispecie soltanto nell’area dei casi di astensione o di ricusazione ovvero anche nell’ambito delle situazioni di incompatibilità non è del tutto indifferente: in questa scelta si riflette una diversa articolazione della tutela del principio del giusto processo. Se è vero, infatti, che, nella disciplina contenuta nel capo VII, titolo I del libro I del c.p.p., a quanto risulta dal diritto vivente, le conseguenze della violazione del principio di terzietà sono sempre le stesse e approdano solo all’attivazione dei procedimenti di cui agli artt. 36 e 38 c.p.p., non può tuttavia negarsi che quando il motivo di astensione o di ricusazione consiste in un’ipotesi di incompatibilità, codificata come tale, quel principio riceve un supplemento di tutela in via preventiva. Una volta tipizzata in riferimento all’avvenuto svolgimento di funzioni, l’incompatibilità è, in effetti, prevedibile e quindi prevenibile, sicché la terzietà del giudice può essere organizzata, così da manifestarsi, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo, come modo d’essere della giurisdizione nella sua oggettività (sent. 155/1996). Ma la pretesa che la terzietà sia previamente organizzata appare ragionevole solo se riferita ad un medesimo procedimento e a tipi di funzioni definibili in astratto; solo se non si estenda, quindi, ad atti adottati in procedimenti diversi e considerati in ragione del loro contenuto in concreto (sent. 308/1997). Altrimenti, nella varietà delle relazioni che possono instaurarsi tra i procedimenti distinti, e nella molteplicità dei contenuti che i relativi atti sono suscettibili di assumere, si avrebbe una dilatazione enorme dei casi nei quali un qualche pregiudizio potrebbe essere ravvisato e l’intera materia delle incompatibilità, dispersa in una casistica senza fine, diverrebbe refrattaria a qualsiasi tentativo di amministazione mediante atti di organizzazione preventiva.
6. Terzietà e giurisdizione civile (ovvero: dell’imparzialità flessibile). — La quinta scheda tematica scaturisce dalla giurisprudenza della Corte in tema di decisione cautelare (penale) pregiudicante e dal dibattito, di seguito sviluppatosi, circa le refluenze di quegli indirizzi sull’establishment dell’incompatibilità del giudice civile: è noto, infatti, che specie all’indomani della pubblicazione della sentenza n. 432/1995 (69) iniziò a svilupparsi, in dottrina, una cospicua rimeditazione in argomento, che condusse presto al delinearsi di una tesi orientata ad estendere, per garantire la terzietà del giudice civile e, in ultima analisi, la coerenza dell’intero sistema, il principio della decisione cautelare pregiudicante anche alla sede civile (70). (69) Supra, nota 57. (70) C. MORETTI, L’imparzialità del giudice fra la cautela e il merito, in Riv. dir. proc., 1996, p. 1104 ss.; G. SCARSELLI, Terzietà del giudice e processo civile, in Foro it., 1996, I, c. 3616 ss.; G. TARZIA, Il processo di fallimento e l’imparzialità del giudice, in Riv.
— 111 — È, però, noto come la giurisprudenza costituzionale, a fronte di questioni di costituzionalità prontamente sollevate in sede di merito, abbia fornito in proposito risposte negative, ribadendo tradizionali indirizzi sulla scorta di non sempre persuasivi ‘distinguo’ (71). Per le vaste e sfaccettate implicazioni il tema non può certo, in questa sede, esaurirsi. Meritano, però, un rapido richiamo le più recenti decisioni cardine che hanno consacrato, con riguardo alla terzietà del giudice civile, la categoria — per dir così — dell’imparzialità flessibile. A) L’anello iniziale è costituito dalla sent. 326/1997 (Pres. Granata, Est. Ruperto) (72), che ha interloquito in tema di incompatibilità endoprocessuale e di catalogo delle cause di astensione e ricusazione del giudice civile: La previsione contenuta nell’art. 51 n. 4 c.p.c., secondo cui il giudice ha l’obbligo di astenersi ‘‘se ha conosciuto [della causa] come magistrato in altro grado del processo’’, trova remota origine nel Code Luis del 1667 (Ordonnance civile, tit. XXIV, art. 6), da cui è pervenuta, attraverso l’art. 472 n. 8 c.p.c. sardo e l’art. 116 n. 9 di quello unitario del 1865, pressoché identica nella vigente normativa. Essa, al pari di quella contenuta nell’art. 34.1 c.p.p., è funzionale al principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione.
B) Il principio dell’imparzialità flessibile ha conosciuto, di seguito, svolgimenti di cospicuo interesse (73). Al di là delle singole fattispecie merita, qui, di essere posto in rilievo il riepilogo ‘forte’ contenuto nell’appena indicata sentenza n. 51/1998 (74), in tema di incensurabilità costituzionale dell’omessa previsione, in sede civile, dello speciale foro per le cause coinvolgenti magistrati: Questa Corte ha già avuto occasione di notare che il ‘‘principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione [...] ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione’’ (sent. 327/1997). dir. proc., 1997, p. 13 ss.; per una posizione differenziata cfr., invece, C. CONSOLO, Il giudice civile cautelare non diviene in via generale incompatibile a statuire sul merito secondo la Consulta, in Giur. it., 1998, p. 410 ss., nonché già S. CHIARLONI, Intrasferibili al civile le declaratorie di illegittimità in tema di misure cautelari penali, in Corr. giur., 1996, p. 849 ss. (71) Per primi rilievi e ulteriori richiami si rinvia, tra gli altri, a G. SCARSELLI, Terzietà del giudice e Corte costituzionale, in Foro it., 1998, I, c. 1006 ss. (72) Corte cost., sent. 7 novembre 1997, n. 326, in Foro it., 1998, I, c. 1007 ss. (73) Corte cost., sent. 21 novembre 1997, n. 351 [Pres. Granata, Est. Neppi Modona], in Foro it., 1998, I, c. 1006 ss.; Corte cost., sent. 12 marzo 1998, n. 51 [Pres. Granata, Est. Ruperto], in Guida dir., 1998, fasc. 14, p. 30 ss.; Corte cost., sent. 24 luglio 1998, n. 341 [Pres. Vassalli, Est. Ruperto], in Foro it., 1998, I, c. 2329 ss. (74) Corte cost., sent. 12 marzo 1998, n. 51, cit.
— 112 — Ciò è ancora una volta da ribadire, pur dovendosi precisare che nella specie codesto principio non assume la stessa valenza attribuitagli con riguardo agli istituti dell’astensione e della ricusazione, regolati da norme aventi una diversa ratio e della cui (presenza e) generale operatività non si può, peraltro, non tener conto in sede di bilanciamento degli opposti valori e interessi nella materia de qua. Ma è da ribadire anche quanto in quella stessa sentenza si è osservato, nel rilevare la netta distinzione fra processo civile e processo penale: che cioè quest’ultimo è finalizzato essenzialmente all’accertamento del fatto ascritto all’imputato, e in esso la presunzione di un’apprezzabile influenza sul meccanismo psicologico che presiede alla formazione del convincimento del giudice di regola non subisce la mediazione dell’impulso paritario delle parti, operante invece nel processo civile. Sicché — ferma l’esigenza generale di assicurare che sempre il giudice rimanga, ed anche appaia, del tutto estraneo agli interessi oggetto del processo — il bilanciamento di cui sopra deve essere condotto secondo linee direttive non necessariamente identiche per i due tipi di processo, improntati — segnatamente in tema di competenza territoriale — a regole e criteri diversi, che si adeguano a distinte tradizioni ed esigenze attuali.
È appena il caso di rammentare come la pronuncia della Corte si sia incastonata alla vigilia (e in secca controtendenza) dell’interpolazione codicistica operata dall’art. 9 l. 2 dicembre 1998, n. 420, che ha innestato nel corpo del codice di procedura civile un art. 30-bis con il quale si è previsto che, in ordine alle cause in cui sono parti i magistrati, il giudice territorialmente competente si individua proprio facendo uso dei criteri di cui all’art. 11 c.p.p., peraltro riplasmato dall’art. 1 della medesima novella (75). 7. La sfera a tre strati e il ‘‘nocciolo duro’’ dell’imparzialità: cenni conclusivi. — Il poliedrico sistema di affreschi sin qui tracciato consente di abbozzare, in chiave di prima sintesi, un inventario delle linee di sviluppo della giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice: risulta, così, subito palese come si sia transitati dalle prime esplorazioni di una categoria appena intuita, dai contenuti ritenuti scontati e proprio per ciò posti a margine degli sforzi di congruo approfondimento contenutistico, al delinearsi, da ultimo, di un radicamento dell’imparzialitàneutralità della giurisdizione nel nucleo strutturale del ‘‘giusto processo’’. Nel disciplinare l’itinerario che dalla res iudicanda conduce alla formazione della res iudicata, il processo tutela e custodisce valori; in questo ambiente vive e opera, correlandosi con gli altri valori di fondo del sistema, il canone di imparzialità del giudice. Ove la si riguardi, collocata in questo tessuto connettivo, alla luce degli sviluppi della giurisprudenza co(75) Sul punto, per primi rilievi, cfr. P. BALDUCCI, Modificata la disciplina sulla competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, in Dir. pen. proc., 1999, p. 19 ss., e C. RIVIEZZO, Due riforme in tema di competenza, in Gazz. Giuffrè, 1999, fasc. 2, p. 5 ss.
— 113 — stituzionale, e se ne tracci uno spaccato che consenta di individuarne l’anatomia, l’imparzialità si presta ad esser descritta come una sorta di sfera a tre strati, ciascuno corrispondente ad una sua imprescindibile peculiare dimensione costitutiva. V’è, anzitutto, uno strato (per dir così) esterno, costituito dalla dimensione fisica dell’alterità: il giudice imparziale non può non essere fisicamente differenziato dalle parti; nell’orizzonte dell’actus trium personarum il giudice è Tertius, distinto da Primus e Secundus (76). Viene qui in considerazione la giurisprudenza costituzionale in tema di ‘‘vecchio’’ processo pretorile: il cumulo di funzioni requirenti e giudicanti implica l’indistinzione del giudice-pretore dalla parte pubblica che promuove l’azione e istruisce il processo; proprio contro tale indistinzione si era inequivocabilmente orientata la giurisprudenza costituzionale alla vigilia della riforma (processuale e, in parte qua, ordinamentale) del 1988. Il secondo strato, presupponendo il primo, lo precisa e lo radica in senso sostanziale: non basta che il giudice sia distinto dalle parti; occorre altresì che sia distante e, anzi, equidistante da esse; occorre che tale equidistanza, baluardo della ‘‘parità delle armi’’ tra le parti, sia insieme organica e operativa; occorre, infine, che tale equidistanza sia apprezzabile in astratto (ordinamentalmente) ma anche in concreto (con riferimento alla vicenda processuale singola) (77). Sotto il profilo semantico, le prime due dimensioni (giudice distinto dalle parti ed [equi]distante da esse) scolpiscono tipici concetti di relazione: l’alterità è distinzione dalle parti, l’equidistanza è lontananza (sine spe ac metu) dalle parti e dagli specifici interessi coinvolti nel processo. Può aggiungersi — ancora alla luce della giurisprudenza costituzionale, anche in tal caso specchio di un idem sentire diffuso e avvertito — che le prime due dimensioni sono strutturalmente apprezzabili sub specie tanto di essere che di apparire: non basta che il giudice sia distinto e distante dalle parti; occorre altresì che appaia distinto e distante, in linea con l’antico brocardo inglese justice must not only be done: it must also be seen be done (78). In fondo, nel ‘‘vecchio’’ dibattimento pretorile, l’alterità doveva esser assicurata dal pubblico ministero d’udienza; quanto, tuttavia, ciò si rivelasse un simulacro era chiaro a chiunque, e ciò travol(76) Sulla terzietà come assenza, nel giudice, di un interesse pubblico o istituzionale, che si traduce — in concreto — nell’esigenza che il giudice non sia portatore di interessi accusatori e che, pertanto, non eserciti simultaneamente le funzioni di accusa cfr., per una stimolante intelaiatura teorico-generale, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, p. 595. (77) Sugli stretti raccordi tra parità delle parti e terzietà del giudice cfr., tra gli altri, oltre al già indicato saggio di E. AMODIO, Eguaglianza delle armi nel processo, presunzione di innocenza e ruolo del giudice lstruttore, cit., spec. p. 240 ss., ancora L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 596 s. (78) In tema cfr. E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, cit., p. 94.
— 114 — geva tanto l’essere quanto l’apparire il giudice distinto dalle parti, oltre che — è ovvio — distante da esse. E, tuttavia, le prime due dimensioni (distinzione fisica ed equidistanza) non sono ancora in grado di esaurire la struttura connettiva dell’imparzialità del giudice, costituendo, invece, il vestibolo di accesso al nocciolo duro della garanzia. Si perviene, con ciò, alla terza dimensione, che consacra — per dir così — l’attitudine all’equidistanza in concreto: il giudice è imparziale se, distinto e distante dalle parti, si renda costantemente disponibile a pronunciare merito causae solo sulla base delle ‘‘prove legittimamente acquisite’’. Va notato come la ‘‘forza della prevenzione’’ — cui si riferisce la giurisprudenza costituzionale sin dalla prima svolta della decisione cautelare pregiudicante — costituisca il sintomo più eclatante, ma non il solo, della rottura di questa disponibilità: il pre-iudicium in senso forte è, a ben vedere, la negazione proprio di tale disponibilità. Un primo rilievo, a tal punto, si impone. A differenza delle prime due, la terza dimensione dell’imparzialità — che corona la struttura costitutiva della garanzia — individua una categoria assoluta: nessun concetto di relazione vi è coinvolto, né essa può leggersi — se non a prezzo di forzature cospicue — sub specie di apparenza. V’è di più. La disponibilità a pronunciare merito causae solo sulla base delle prove legittimamente acquisite, se da una parte sostanzia una categoria assoluta, dall’altra introflette la garanzia nel foro interno del giudice, ove vive, in senso forte, la radicale negazione del pre-iudicium. È in tale solco che riposa la ratio ultima di quelle ‘‘gravi ragioni di convenienza’’ che, pur obiettivate, segnano l’estrema valvola di sicurezza a tutela dell’imparzialità del giudice. Il rinvio è, ancora una volta, alla ‘‘trilogia d’ottobre’’, che d’altronde si edifica — in parte qua — sulla scorta di più risalenti asserti (79). Né va, peraltro, taciuto che tale valvola opera come causa di astensione ma non di ricusazione: da qui gli ‘‘inviti a dedurre’’ (sinora, per quanto consta, privi di seguito) che sigillano le tre pronunce (80). Nel siglare la radice profonda della garanzia dell’imparzialità del giudice, la disponibilità a pronunciare merito causae solo sulla base delle prove legittimamente acquisite fotografa, per tutto ciò, una dimensione che è insieme valore assoluto (ed anzi il più assoluto degli elementi costitutivi dell’imparzialità) e patrimonio del foro interno del singolo magistrato-persona fisica investito di poteri giurisdizionali. L’imparzialità appare, così costituita, nella sua veste di dovere funzionale del giudice ma (79) Cfr. segnatamente Corte cost., sent. 3 agosto 1976, n. 210 [Pres. Rossi, Est. Rossano], in Giur. cost., 1976, p. 1315 ss. (80) In tema ci si permette di rinviare a G. DI CHIARA, Più che all’incompatibilità si guardi adesso alle cause di astensione e ricusazione, cit., p. 241 s.
— 115 — anche di categoria dello spirito, obiettivata dal suo radicamento nella piattaforma del ‘‘giusto processo’’ su cui indugia la più recente giurisprudenza costituzionale. L’introflessione dell’attitudine all’equidistanza in concreto nel foro interno del giudice reca, tuttavia, con sé un rischio: quello di collocare l’imparzialità in una dimensione intimistica, esasperatamente soggettiva, e perciò virtualmente incontrollabile (81). I più recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale — a partire, ancora una volta, dalla ‘‘trilogia d’ottobre’’ — pongono però in guardia da tale rischio: il sistema pretende che il tasso di imparzialità sia oggettivamente apprezzabile, esternabile, e perciò valutabile. Certo, ci si trova in presenza di contesti di frontiera: gli orizzonti dell’imparzialità — si è già da tempo notato — sono un crocevia cui convergono problemi normativi e organizzativi accanto a regole deontologiche (82); e non è certo casuale il rilievo che l’art. 9 del codice etico della magistratura ordinaria dedica, pur con i limiti e i contorni sfumati propri delle regole deontologiche, a questi paradigmi (83). Appar certo, infatti, che mai il ius positum sarà in grado, da solo, di regolare appieno la fisionomia dell’imparzialità, residuando comunque interstizi incodificabili. È in questi spazi che trovano posto le regole deontologiche, scritte e (soprattutto) non scritte: le quali, come avvertiva Bergson, costituiscono quell’irrinunciabile ‘‘supplemento d’anima’’ (84) a custodia di un valore oggettivo — l’imparzialità, appunto — che sublima il transito dal mestiere di giudicare al dramma insopprimibile dell’essere giudice. GIUSEPPE DI CHIARA Associato di Diritto processuale penale nell’Università di Bari
(81) Per un significativo cenno cfr. P.P. RIVELLO, L’incompatibilità del giudice penale, cit., p. 43. (82) Cfr. M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, 3a ed., II, Milano, 1984, p. 51. (83) Il testo del Codice è riprodotto in Guida dir., 1995, dossier n. 6 [Le regole deontologiche di avvocati e notai e i codici etici della magistratura], p. 44 ss. (84) Per acute considerazioni sulla deontologia come ‘‘supplemento d’anima’’ cfr., per tutti, M. PISANI, Il pubblico ministero nel nuovo processo penale: profili deontologici, in Riv. dir. proc., 1989, p. 181 ss. e spec. p. 192.
DIBATTIMENTO E DIVIETO DI DELEGA
1. Premessa. — Può ben dirsi punto fermo che l’istituto della delegazione di atti processuali sia pienamente compatibile con i connotati delle indagini preliminari del c.p.p. 1998, svincolate come esse sono dal compimento di una serie tipizzata di atti (1). Ogni atto viene infatti compiuto non secondo uno schema prefigurato, ma in « relazione all’utilità » che rappresenta nell’ottica generale della fase stessa (2), proiettandosi in funzione del risultato delle indagini. Lo stesso art. 329 comma 1 c.p.p. disciplina il segreto non in ordine all’intera fase delle indagini, bensì a singoli atti, siano essi compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, questi ultimi tanto autonomamente che su delega. L’atto delegato, prevedendo necessariamente la trasmissione mediante verbale, ben si adegua altresì al carattere della scrittura, la cui peculiarità consiste proprio nella redazione di processi verbali descrittivi delle operazioni di indagine. E non minore è la rispondenza con la decentrazione delle indagini, date le loro caratteristiche di discontinuità, mobilità, mutabilità e non contestabilità: infatti, le indagini preliminari si attuano mediante il compimento di singoli atti o gruppi di atti, anche con discontinuità temporale e senza vincolo spaziale. Poiché ben diversi sono, invece, i principi che, « dialetticamente connessi » (3) e « reciprocamente interferenti » (4), regolano il dibattimento di primo grado, costituendone il modo di essere ed il fondamento, per quanto riguarda tale fase il problema della delegabilità va affrontato in un’ottica completamente a se stante (5). (1) V. ampiamente il nostro IANDOLO PISANELLI, Indagini preliminari delegate, in questa Rivista, 1995, p. 1173. (2) L’essere la fase delle indagini preliminari libera anche da pastoie formali si riflette anche sulla variabilità delle forme di documentazione, enunciata dagli artt. 357 e 373 c.p.p.: cfr. VIGNA, Le indagini preliminari, in AA.VV. Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, a cura di PISAPIA, 1989, p. 6. (3) UBERTIS, Principi del dibattimento nel dir. proc. pen., in Digesto discipline penalistiche, 1989, p. 455. (4) Tali principi rappresentavano l’espressione tipizzata nel modo di essere del dibattimento, in antitesi ai caratteri dell’‘‘istruzione’’, in un costante equilibrio tra l’esigenza ‘‘persecutoria’’ e l’esigenza della ‘‘cognizione’’ (FOSCHINI, v. Dibattimento, in Enc. dir., 1984, p. 343). (5) Come già chiarito a proposito della legittimazione alla delega da parte del gip re-
— 117 — 2.
Principi regolatori del dibattimento:
a) La concentrazione. — È uso comune prendere le mosse dal principio di immediatezza (6), in forza del quale il dibattimento si realizza con la diretta e costante partecipazione del giudice e delle parti del rapporto processuale penale, in modo che la decisione sia il risultato di una comune esperienza. L’immediatezza viene, a sua volta specificata in due regole: l’una della non delegabilità degli atti del dibattimento, l’altra nella immutabilità del giudice. In relazione alla regola della non delegabilità, l’immediatezza non può prescindere dal rapporto di reciprocità con il principio di oralità. Tali due canoni, in stretta correlazione tra loro, integrano il più generale principio di concentrazione, tanto è vero che la violazione del principio di concentrazione, nel correlato significato di continuità del dibattimento, priva di significato l’immediatezza e l’oralità. Ed invero la non concentrazione delle udienze, riferita all’immediatezza, metterebbe il giudice nella condizione di non avere una visione completa delle prove assunte in tempi differiti, mentre, riferita all’oralità, darebbe ingiustificato rilievo alle trascrizioni ed ai verbali. Il processo orale ed immediato ha, pertanto, come nota fondamentale la concentrazione del dibattimento, reso ‘‘sintetico’’ ed ‘‘unitario’’ sempre dinanzi ad uno stesso giudice che potrà così garantire, muovendo dall’impressione diretta che percepisce assistendo al compimento di uno o più atti, una decisione fedele alla realtà processuale. Per far sì che il giudice decida sulla base diretta delle prove assunte innanzi a lui, è determinante che il processo si svolga nel ‘‘ravvicinamento dei vari atti’’ in unità di contesto e di tempo, a garanzia di una ‘‘attenzione non deviata da atti esterni’’ (7). La concentrazione si specifica in un duplice profilo: anzitutto, il prinlativamente all’esperibilità dell’incidente probatorio, l’esigenza di assicurare la formazione della prova « assolutamente non rinviabile » prevale sui principi che tale istituto anticipa dalla fase dibattimentale. Infatti, l’art. 398 comma 5 c.p.p. prevede che il giudice nell’ipotesi in cui non può effettuare l’incidente nella propria circoscrizione « per ragioni d’urgenza », possa delegare il giudice del luogo dove la prova deve essere assunta, ESPOSITO, Contributo allo studio dell’incidente probatorio, 1989, p. 109; VIGNA, Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di CHIAVARIO, vol. IV, p. 495. La delega disposta a « discrezione » del gip, al quale spetta peraltro fissare la data dell’udienza dinanzi all’altro gip, rimane comunque una procedura di carattere facoltativo ed eccezionale (MOLARI, L’incidente probatorio, in Indice pen., 1989, p. 578). (6) Esigenza primaria del dibattimento è che il suo svolgersi si attui con la diretta e costante partecipazione dei giudici del dibattimento in modo che la decisione sia conseguenza di una completa esperienza: v. per il codice precedente, FOSCHINI, voce DIBATTIMENTO, in Enc. dir., 1984, p. 346; BELLAVISTA-TRANCHINA, Lezioni di dir. proc. pen., 1987, p. 456; CORDERO, Procedura penale, 1987, p. 695. (7) MASSARI, Il processo penale nella nuova legislazione, 1934, p. 121.
— 118 — cipio di localizzazione, di natura spaziale (8); l’altro, rapportato al tempo, il principio di immediatezza in senso temporale. Con riguardo al primo aspetto, il dibattimento, a differenza della attività d’indagine, non può svolgersi in località diverse, ma deve attuarsi in un unico luogo in cui debbono confluire tutti coloro che vi partecipano. L’unica eccezione è riferita all’ipotesi del testimone, del perito o di un consulente tecnico impossibilitati a comparire per legittimo impedimento: il loro esame, ai sensi dell’art. 502 comma 1 c.p.p., può avvenire nel luogo dove questi si trovano. Per quel che concerne il principio di concentrazione, il dibattimento dovrebbe svolgersi senza soluzione di continuità, imprimendo nella mente del giudice le risultanze emerse dallo stesso dibattimento. (Segue): b) l’immediatezza e l’oralità. — Ciò premesso, al principio di oralità va attribuita una funzione strumentale rispetto agli altri canoni del dibattimento, dei quali rende più agevole l’attuazione. Sotto questo profilo l’oralità, nel sillogismo con l’immediatezza, va oltre la definizione di tipo tradizionale per la quale il giudice pone, a fondamento della propria decisione, gli elementi che gli pervengono in forma orale e non per il tramite degli atti scritti (9). Infatti, la nozione di oralità esprime non soltanto l’esigenza che il dibattimento privilegi la parola come mezzo di trasmissione, ma anche l’esigenza che il giudice emetta la decisione sul fondamento di risultanze probatorie direttamente percepite. Oralità significa ‘‘dialogo diretto fra il giudice e le persone di cui lo stesso deve raccogliere e valutare le dichiarazioni’’ (10). In questa prospettiva, anche il regime delle letture non è da considerare deroga al principio di oralità, ma forma con la quale si assumono taluni atti scritti del processo. Il processo orale si sostanzia nell’identità delle persone fisiche che costituiscono l’organo portatore del principio di immediatezza, appunto perché il giudice si procura il materiale probatorio direttamente, senza mediazione alcuna (11). Diversamente, il carattere della mediatezza trova applicazione sia (8) Dagli artt. 471 comma 2 c.p.p. e 146 norma di att. si desume che il dibattimento deve normalmente svolgersi in un luogo appositamente predisposto e attrezzato allo scopo: ‘‘aula di udienza’’, nel quale debbono convenire tutti i partecipanti al dibattimento. (9) ‘‘Il principio di oralità comprende una serie di principi conseguenziali: 1) l’identità fisica del giudice della causa, 2) la concentrazione della causa’’: CHIOVENDA, Principi di diritto proc. civ., 1928, p. 686. Nello stesso senso BELLAVISTA, Lezioni di dir. proc. pen., 1960, p. 278; LEONE, Trattato di dir. proc. pen., vol. II, 1961, p. 339. (10) L’espressione ‘‘principio della identità fisica del giudice’’ è di CHIOVENDA, op. cit., 1928, p. 610; nello stesso senso P. CALAMANDREI, voce Oralità e processo, in Nuovo Digesto it., 1939, p. 179. (11) ‘‘Oralità vuol dire contatto diretto del giudice con la fonte di prova ed identità
— 119 — nella fase delle indagini preliminari, contraddistinte dalla scrittura, sia nel dibattimento in appello e dinanzi alla Corte di cassazione, in quanto la convinzione del giudice e la conseguente decisione si fondano su elementi risultanti da atti scritti che appartengono ad un giudice diverso (12). (Segue): c) immediatezza e contemporaneità nella formazione della prova. — La struttura del nuovo dibattimento ‘‘esalta’’ accanto all’oralità, l’immediatezza (13), in quanto, se il dibattimento si svolge oralmente, necessariamente il giudice viene a diretto contatto con le risultanze dibattimentali, percependo tutti gli elementi di prova, nella ricostruzione della prova, senza alcuna intermediazione (14). Si intende in questo modo valorizzare le impressioni riportate dal giudice durante l’escussione dibattimentale. Il principio di immediatezza, dunque, non costituisce un ‘‘bene in sé’’, ma è ‘‘funzionale’’ ai valori insiti nella struttura organica del dibattimento: l’attendibilità della prova, la tutela della funzione del giudice, una migliore possibilità per le parti di difendersi (15). Per rispondere a tali esigenze, il principio suddetto si concretizza in un duplice rapporto: l’uno tra la prova e le parti, l’altro tra la prova ed il pubblico. Relativamente al primo profilo l’immediatezza si realizza essenzialmente nel rapporto diretto ed immediato del giudice con i testi e i periti, nonché con le cose ed i luoghi pertinenti al reato, perché il suo convincimento si formi attraverso le dichiarazioni assunte personalmente. Purtuttavia, le parti sono poste, al pari del giudice, in grado di partecipare all’acquisizione degli elementi probatori, in modo tale che la loro elaborazione non appartenga esclusivamente al giudice, ma sia la risultante di uno sforzo comune per la ricostruzione dei fatti. In riferimento al secondo aspetto, il principio di immediatezza si attra giudice che assume e giudice che valuta la prova stessa’’: CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, 1962, vol. I, p. 124. (12) Il dibattimento d’appello si differenzia dal giudizio dinanzi alla Corte di cassazione perché nel primo è possibile una rinnovazione totale o parziale del dibattimento, ai sensi dell’art. 603 c.p.p., con le regole proprie del principio di immediatezza; nel giudizio in cassazione, invece, la decisione si fonda esclusivamente sulle risultanze processuali che emergono da atti scritti (FOSCHINI, Sistema del dir. proc. pen., 1968, p. 383). (13) Il principio dell’‘‘immediatezza’’ indica l’esigenza che il giudice apprenda direttamente i mezzi di prova utili per il suo convincimento, in un contatto costante per tutto il dibattimento, che trova il suo epilogo nella decisione finale, sintesi di quanto il giudice ha da sé percepito: cfr. LOZZI, Riflessioni sul nuovo processo penale, 1992, p. 107. (14) ‘‘La decisione del giudice sarà tanto più rispondente a giustizia, quanto più diretta, immediata, personale e concentrata nel tempo sarà stata l’apprensione da parte di questi, delle risultanze processuali’’: C. MASSA, Il principio dell’immediatezza processuale, in Studi in onore di B. Petrocelli, 1972, p. 1122. (15) I. CALAMANDREI, voce Immediatezza, in Digesto discipline penali, 1992, p. 151.
— 120 — tua in maniera diretta attraverso il controllo dell’opinione pubblica sull’operato del giudice e, indirettamente, sul modo di fare giustizia. Così, ben a ragione, si può sostenere che la centralità del dibattimento, come garanzia non soltanto per l’imputato, ma per l’intera società, si realizza nella regola della libera valutazione degli elementi di prova da parte del giudice che li abbia acquisiti direttamente e non per il tramite di chi, estraneo all’attività dibattimentale nella sua interezza, potrebbe generare equivoci e distorte interpretazioni delle risultanze processuali. Sotto questo profilo l’immediatezza si specifica nell’art. 525 comma 1 c.p.p., che, al pari dell’art. 472 c.p.p. abr., sia pur con alcune differenze, mira a garantire la ‘‘continuità’’ tra dibattimento e decisione. Di conseguenza, la deliberazione deve aver luogo ‘‘subito dopo la chiusura del dibattimento’’ e non ‘‘terminata la discussione’’, espressione utilizzata dall’art. 472 comma 1 c.p.p. abr., riprodotta all’art. 518 comma 1 del progetto preliminare 1988 e modificata nell’attuale disposizione per scelte sistematiche, dal momento che nel nuovo rito la discussione dovrebbe risultare più concentrata, per preservare il rapporto giuridico processuale dal pericolo di dispersione delle prove. In giurisprudenza si è affermato che l’inosservanza del principio di immediatezza, di cui all’art. 525 comma 1 c.p.p. non produce nullità, a differenza della violazione del principio di immutabilità dell’organo giudicante, a norma del comma 2 dello stesso articolo, ma va considerata come ‘‘mera irregolarità’’ nel ‘‘comportamento non formalmente corretto’’ del giudice (16). Siffatto orientamento della Suprema Corte può dirsi condivisibile, stante la disposizione dell’art. 525 comma 1 c.p.p. che non sanziona in modo espresso la violazione dell’immediatezza. Viceversa, qualche perplessità suscita un’altra sentenza della Corte di cassazione, relativa sempre all’art. 525 comma 1 c.p.p., circa la possibilità per l’organo giudicante di pronunciare ‘‘subito dopo la chiusura del dibattimento’’ un provvedimento diverso da quello che definisce il processo, quale, ad es., un’ordinanza con cui venga disposta un’ulteriore attività dibattimentale (17). Si obietta, infatti, che il giudice, ritiratosi in camera di consiglio per deliberare, non può far regredire il processo alla fase dibattimentale. Il concetto di immediatezza contiene in sé l’idea di contemporaneità nella formazione della prova che si realizza eliminando le possibili intermediazioni tra la fonte di prova ed il giudice. Ne consegue il divieto di delega degli atti dibattimentali in quanto l’organo giudicante, nel momento della valutazione, deve aver presente l’assunzione delle prove effettuate in modo continuativo e non come let(16) Nella fattispecie il gip, in sede di patteggiamento anziché rendere la decisione, si era riservato di decidere, così violando il principio di immediatezza: Cass. 8 febbraio 1993, in Cass. pen., 1993, m. 2358; nello stesso senso Cass. 8 novembre 1993, ivi, 1995, m. 3043. (17) Cass. 17 marzo 1993, inedita.
— 121 — tura dei verbali di prove acquisite da altri. Difatti, l’attività processuale svolta, sia pure in parte, da altri organi, comportando come mezzo di trasmissione degli elementi acquisiti necessariamente la ‘‘scrittura’’, trasformerebbe il processo da ‘‘orale’’, qual era davanti al giudice delegato, in ‘‘scritto’’ rispetto al decidente (18) Inoltre, l’espressione dell’immediatezza, relativa alla non delegabilità si rapporta all’esigenza che il dibattimento si realizzi con la diretta e costante partecipazione di tutti coloro i quali appartengono all’ufficio giudicante, in modo che la ‘‘decisione sia conseguenza di quella completa esperienza che è essenziale affinché il dibattimento risponda alla sua stessa ragione d’essere’’. È, quindi, da ritenere illegittima la delega di attività processuale da parte del giudice del dibattimento ad un solo componente del collegio (19). Di riflesso, nell’ipotesi in cui il compimento di alcuni atti debba avvenire fuori dal luogo di udienza, sarà lo stesso giudice a spostarsi lì ove è possibile compiere l’atto. Si tratta della previsione dell’art. 502 c.p.p. relativa all’esame a domicilio di testimoni, periti e consulenti tecnici, al quale è chiamato a presenziare necessariamente l’intero collegio giudicante (20). L’attuale sistema processuale, per soddisfare integralmente il principio di immediatezza, non ha riprodotto, invece, l’incondizionato potere di delega che, a norma dell’art. 453, comma 2 c.p.p., consentiva al giudice procedente di affidare l’espletamento dell’esame ad altro giudice. Allo stesso modo, e in maniera più evidente data la differenza strutturale dei due sistemi, non trova rispondenza nel codice del 1988 la disposizione dell’art. 456 c.p.p. abr. riguardante la trasmissione di atti al giudice istruttore per l’assunzione di una perizia disposta in dibattimento (21). Nel precedente ordinamento si trattava, peraltro, di previsioni eccezionali, costituenti una ‘‘parentesi istruttoria’’, giustificata dalla (18) In una ipotesi del genere si derogherebbe all’immediatezza nel sillogismo con l’oralità: C. MASSA, voce Dibattimento, in Noviss. Digesto it., 1968, p. 582. (19) Già la Corte di cassazione si era pronunciata affermando che, in tema di prove, all’accesso sul luogo ai sensi dell’art. 400 c.p.p. abr., disposto dal giudice costituito in collegio, ‘‘dovesse intervenire l’intero collegio, non già uno dei suoi componenti all’uopo delegati’’ (Cass. 13 maggio 1931, in Giust. pen., 1931, p. 1258). (20) ‘‘Il giudice deve attingere con i propri poteri di percezione alle prove e alla formazione di esse, sicché il giudizio ne scaturisce puro e genuino senza l’interferenza di altri organi giurisdizionali’’: così BELLAVISTA, Studi sul processo penale, 1966, p. 139. (21) La Corte di cassazione ha ritenuto legittimo l’atto delegato, in quanto, nella fattispecie, lo stesso atto, pur qualificato come perizia, consisteva effettivamente in una ispezione giudiziale, perché non era richiesto alcun parere tecnico, bensì soltanto un accertamento relativo a dati desumibili dalla documentazione già acquisita nel processo: Cass. 5 luglio 1976 in Cass. pen., 1977, m. 1105; Cass. 3 luglio 1971, ivi, 1971, p. 1529; Cass. 23 ottobre 1972, ivi, 1973, p. 1523, m. 2053; Cass. 2 ottobre 1972, ivi, 1973, p. 1524, m. 2056.
— 122 — opportunità di evitare che indagini complesse fossero espletate nella fase dibattimentale (22). 3. Immutabilità del giudice e nullità a norma dell’art. 525 comma 2 c.p.p.. — Il principio di immediatezza si estrinseca anche nella regola della immutabilità del giudice, riferita sia all’effettivo svolgimento di attività dibattimentale sia al momento successivo della discussione. Ciò comporta la necessaria identità fisica tra il giudice innanzi al quale vengono raccolte le prove ed il giudice che provvederà, sulla base degli elementi acquisiti, ad emettere la decisione (23). Dall’ambito applicativo dell’art. 525 comma 2 c.p.p., riferito espressamente alla partecipazione del giudice al dibattimento, rimangono escluse le attività prodromiche rispetto alle quali non vi è né ‘‘investitura’’ né ‘‘partecipazione del collegio’’ (24). Il principio della immutabilità del giudice, formulato nell’art. 525 comma 2 c.p.p., deve ritenersi violato, con conseguente nullità assoluta della sentenza emessa, nel caso di prove assunte da un organo diversamente composto rispetto a quello che le ha successivamente valutate per giudicare nel merito (25). Si tratta di nullità assoluta di ordine generale per la duplice sanzione posta, per un lato, dall’art. 178, comma 1 lett. a perché, mutando il giudice che delibera rispetto a quello che ha partecipato al dibattimento, si determina una condizione di incapacità del giudice stesso, e per l’altro, dalla specifica disposizione di cui agli artt. 179 comma 2 e 525 comma 2 c.p.p. La giurisprudenza, costante nel ricollegare la sanzione della nullità assoluta alla violazione di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p. (26), si è pro(22) In dottrina si era precisato che l’atto compiuto per delega non riporta il procedimento in fase istruttoria, ma lo lascia nella fase dibattimentale: GATTI, Sull’ammissibilità della trasmissione degli atti dal giudice del dibattimento al giudice istruttore, in rapporto ad operazioni commesse al traduttore, in Giur. it., 1967, II c. 251. (23) ‘‘Il giudice il quale decide sulla richiesta delle prove, ammettendole o negandone l’ammissione, non può non essere lo stesso che delibera la sentenza’’: Cass. 13 settembre 1996, C.E.D. Cass. 206456; Cass. 30 agosto 1995, C.E.D. Cass. 202417; Cass. 19 gennaio 1998, C.E.D. Cass. 209238. (24) ‘‘Il suddetto principio riguarda l’effettivo svolgimento di attività dibattimentale, ma non un provvedimento ordinatorio, ad es. gli atti introduttivi al dibattimento, mirante soltanto all’ordinato svolgimento del processo, nell’osservanza delle regole procedurali, non implicante alcuna decisione idonea ad avere qualsivoglia valenza sul giudizio in corso: Cass. 25 giugno 1996, in Cass. pen., 1997, p. 2189, m. 1257; Cass. 26 maggio 1996, ivi, 97, p. 2190, m. 1258; Cass. 3 marzo 1995, ivi, 96, p. 1931, m. 1129. (25) UBERTIS, Dibattimento (principi del) nel dir. proc. pen., in Digesto delle discipline pen., 1989, p. 453; L. MARINI, sub art. 525 c.p.p., in Comm. al nuovo c.p.p., a cura di CHIAVARIO, 1991, p. 490. (26) Cass. 14 luglio 1997, C.E.D. Cass. 208950; Cass. 15 maggio 1997, C.E.D. Cass.
— 123 — nunciata analogamente su altre fattispecie non strettamente rientranti nell’ambito di applicazione della norma. Per la Suprema Corte, infatti, non è ravvisabile la nullità prevista dall’art. 525 comma 2 c.p.p. se i componenti il collegio deliberante risultano diversi da quelli innanzi ai quali si sono realizzati gli atti introduttivi del giudizio, sul presupposto che il dibattimento, fase nella quale opera la regola della immutabilità, inizia con la ‘‘dichiarazione di apertura’’ (27). Non sussiste violazione del suddetto principio allorché il giudice, in diversa composizione collegiale, rispetto alle precedenti udienze, si sia limitato a rinviare il dibattimento ad altra udienza, essendo questo un provvedimento di natura ordinatoria. Allo stesso modo non violano il principio della immutabilità del giudice il provvedimento incidentale adottato da un collegio diversamente composto, nonché i provvedimenti emessi ‘‘de plano’’, in quanto l’art. 525 comma 2 c.p.p. ‘‘non è applicabile alle decisioni adottate inaudita altera parte’’ (28). Dalle ipotesi, sia pur sinteticamente esaminate, si può evincere che la delega di attività dibattimentale è da ricomprendere, a giusta ragione, nel gruppo caratterizzato dalla espressa sanzione della nullità assoluta, a garanzia dell’immutabilità del giudice. Infatti l’ammissibilità della delega verrebbe ad incrinare il sillogismo, più volte sottolineato, ‘‘partecipazione al dibattimento ed effettivo svolgimento dell’attività dibattimentale di acquisizione della prova’’, a fondamento dell’art. 525 comma 2 c.p.p. (Segue): a) l’ambito di applicazione. — In linea con la generale esigenza di immutabilità del giudice che ha provveduto alle acquisizioni probatorie e ad ogni attività istruttoria funzionale alla decisione, la Suprema Corte ha ritenuto di dover applicare, per analogia, il suddetto criterio al procedimento camerale ex art. 127 c.p.p. (29). Quanto ai procedimenti speciali, la Corte di cassazione nei confronti del giudizio direttissimo, ha puntualizzato che, non essendo configurabile una distinzione tra atti introduttivi e dibattimento, la composizione del collegio deve rimanere inalterata sin dalla prima udienza. Per il giudizio abbreviato l’applicazione del principio ha riguardo ‘‘alla valutazione del 208117; Cass. 24 dicembre 1996, C.E.D. Cass. 206432; Cass. 30 agosto 1993 C.E.D. Cass. 195515. (27) Nella fattispecie il primo collegio del tribunale, diverso nella composizione dal collegio che aveva concorso alla deliberazione, aveva provveduto solo alla dichiarazione della contumacia: Cass. 24 maggio 1994, in Cass. pen., 95, m. 1597. (28) In tema di giudizio di riesame avverso un sequestro parzialmente eseguito: Cass. 29 luglio 1996, C.E.D. Cass. 206019. (29) Nella fattispecie la Corte di cassazione ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame, a causa del parziale contrasto tra il verbale d’udienza e l’intestazione del provvedimento, per il dubbio che uno dei magistrati della deliberazione non fosse stato presente all’udienza: Cass. 4 luglio 1994, in Cass. pen., 1995, m. 2922; Cass. 17 gennaio 1992, C.E.D. Cass. 188906.
— 124 — merito della contestazione’’ e non alla sola ammissione del rito, che può aversi da parte di altro collegio. L’art. 525 comma 2 c.p.p. è applicabile anche al procedimento pretorile, in forza del rinvio operato dall’art. 549 c.p.p. (30). Il principio di immutabilità del giudice, affermato dall’art. 525 comma 2 c.p.p. con riferimento al dibattimento di cognizione e alla connessa decisione del giudice mediante sentenza, è ritenuto altresì applicabile, in via analogica, al procedimento di esecuzione, strutturato nell’attuale normativa in base a criteri di accentuata giurisdizionalità, nonché al procedimento di sorveglianza, stante l’esigenza che la decisione giurisdizionale, ‘‘qualsivoglia forma venga ad assumere (quindi anche l’ordinanza)’’, sia emanata dallo stesso giudice che ha provveduto alla trattazione (31). (Segue): b) la rinnovazione degli atti del dibattimento. — Nel rispetto del principio di immediatezza, l’art. 525 comma 3 c.p.p. mira a garantire la concentrazione temporale della decisione in presenza di situazioni extraprocessuali. In tal senso la norma introduce una disciplina, in parte sconosciuta al precedente ordinamento, riguardante due ipotesi di sospensione della deliberazione. L’una, già contenuta nell’art. 472 c.p.p. abr., prevede situazioni di ‘‘assoluta impossibilità’’ per la prosecuzione della deliberazione, l’altra, innovativa, include nell’art. 528 c.p.p. l’ipotesi di necessaria assistenza da parte di soggetti specializzati alla lettura del verbale di udienza redatto mediante stenotipia (32). Qualora, invece, dopo la sospensione non sia più possibile riprendere la deliberazione con lo stesso organo giudicante, anche per la sostituzione di un solo magistrato del collegio, si procede alla integrale rinnovazione del dibattimento, proprio per l’adeguamento alla regola della immutabilità del giudice. Purtuttavia, è possibile dar lettura degli atti della precedente fase di(30) Relativamente al giudizio direttissimo v. Cass. 15 novembre 1993, C.E.D. Cass. 19823. Per il giudizio abbreviato non può considerarsi violato il principio di immutabilità del giudice nel caso in cui, in dibattimento, venga ammesso il rito abbreviato e in tale forma, il procedimento sia poi trattato, unitamente, da altro collegio: Cass. 12 febbraio 1997, in Cass. pen., 1998, p. 604; Cass. 20 agosto 1996, C.E.D. Cass. 205982. Per il procedimento pretorile Cass. 25 giugno 1997, C.E.D. Cass. 207937; Cass. 4 novembre 1994, in Riv. pen., 95, m. 1249. (31) Cass. 6 agosto 1996, C.E.D. Cass. 205484; Cass. 20 aprile 1996, in Cass. pen., 1997, p. 66; Cass. 8 luglio 1994, C.E.D. Cass. 198969; Cass. 20 aprile 1994, in Cass. pen., 95, p. 1896; Cass. 25 guigno 1993, C.E.D. Cass. 195658. (32) È una ulteriore conferma del principio di immediatezza l’aver stabilito che l’attività deliberativa, una volta iniziata, non può essere sospesa ‘‘se non in caso di assoluta impossibilità’’: PERCHINUNNO, Il giudizio, in A.A.V.V. Manuale di procedura penale, 1996, p. 473.
— 125 — battimentale, ‘‘dal momento che gli stessi, entrati legittimamente a far parte del fascicolo del dibattimento, sono pienamente utilizzabili’’ (33). La rinnovazione degli atti del dibattimento, quale espressione della costante partecipazione dell’ufficio giudicante, nella sua originaria composizione, sottolinea ancor più la regola del dibattimento relativa al divieto di delega. 4. Interrogatorio delegato e garanzie difensive. — La possibilità che un ‘‘atto delegato’’ trovi ingresso nel dibattimento è collegata alle ‘‘dichiarazioni’’ rese dall’imputato alla polizia giudiziaria su delega del p.m. e successivamente utilizzate, in veste di letture consentite, dall’art. 513 comma 1 c.p.p. Si tratta della norma che attiene alla proiezione delle indagini preliminari oltre il limite delle ‘‘determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale’’, con la conseguente valenza probatoria degli atti già compiuti. In proposito il legislatore del 1988 aveva condizionato l’utilizzabilità al sillogismo ‘‘natura dell’atto’’ e sua ‘‘non ripetibilità’’. In dottrina, invece, si è ritenuto che non sempre esiste tale nesso, perché alcuni atti possono, anche in momento successivo, acquisire quel valore probatorio, non attribuito da singole disposizioni della fase d’indagine (34). Al di là, comunque, della connotazione processuale di ‘‘lettura dibattimentale’’, preliminarmente è da chiarire come la disposizione di cui all’art. 513 comma 1 c.p.p. si pone nei confronti dei principi del dibattimento relativi, in particolare, al tema delle prove. In primis, il principio di oralità che, come dialogo diretto tra chi giudica e chi rilascia dichiarazioni, di per sé potrebbe anche consentire un’anticipazione della relativa acquisizione, purché questa avvenga dinanzi ad un organo giurisdizionale. Ma con il termine ‘‘oralità’’ si fa riferimento ad uno specifico modello processuale, caratterizzato dall’intreccio di una serie di principi tra i quali, in stretta correlazione, quello del ‘‘contraddittorio’’ definito, nella sua accezione più tecnica il ‘‘confronto dialettico qualificato e diretto’’ (35), perché offre la possibilità ad ognuna delle parti di immediatamente controbattere sulle altrui asserzioni, in modo che il giudice terzo possa formare, su quegli elementi, il proprio convincimento. (33) L’art. 511 comma 2 c.p.p. consente appunto la lettura dei verbali di dichiarazioni, non solo dopo l’esame della persona le che ha rese, ma anche quando, per qualsiasi ragione, l’‘‘esame non abbia luogo’’: Cass. 13 giugno 1997, C.E.D. Cass. 209313. (34) Così le sentenze ‘‘allo stato degli atti’’ si fondano sulle attività già compiute, conferendo alle stesse una definitività probatoria che spesso non deriva dalla natura dell’atto: RICCIO, Profili funzionali aspetti strutturali delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1990, p. 106. (35) CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio nel processo penale it., in questa Rivista, 1966, p. 410.
— 126 — Il contraddittorio, così inteso, postula una dualità antagonistica, o meglio paritetica, e, pertanto, richiede una consapevole partecipazione alle attività dibattimentali, tanto da poter affermare che in ogni forma di effettivo contraddittorio trova tutela il diritto di difesa. Alla definizione di contraddittorio in posizione inscindibile con il diritto di difesa si contrappone la tesi di quella parte di dottrina che respinge ogni identificazione tra i due principi, sulla considerazione che l’uno è funzionale soltanto agli interessi della giustizia (36). Ne consegue che il rispetto dei diritti della difesa si misura sui diritti riconosciuti all’accusa, di modo che gli uni non risultano lesi nelle ipotesi di ‘‘azzeramento’’ di poteri per entrambe le parti. Una interpretazione così atecnica della nozione di contraddittorio probabilmente ha costituito il fondamento della scelta operata dal legislatore prima e dalla Corte Costituzionale nei successivi interventi relativamente all’art. 513 c.p.p., al fine di ammettere che la lettura dei verbali relativi alle dichiarazioni rese, nel corso delle indagini preliminari, non si porrebbe in violazione dell’art. 24 Cost. non derogando al contraddittorio, in quanto le parti si troverebbero in posizione di ‘‘parità senza contraddittorio’’ (37). Un più esplicito riconoscimento al dettato costituzionale e al principio del contraddittorio relativamente all’art. 513 c.p.p. si è avuto a seguito della più recente riforma in virtù della quale l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese in altro procedimento, da parte di soggetti coindagati, è subordinata ad un preventivo consenso. Tra gli altri aspetti di tale riforma, in questa sede interessa particolar(36) ‘‘Se è vero che in ogni forma di effettivo contraddittorio trova rassicurante tutela il diritto di difesa, questo non è sempre, identificabile come diritto al contraddittorio’’: GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Politica del diritto, 1986, p. 26. (37) L’art. 513 c.p.p., nella versione originaria, introduceva una serie di deroghe al sistema dei rapporti tra fase preliminare e dibattimento, pur nel rispetto dei principi di oralità e contraddittorio. I successivi interventi della Corte costituzionale hanno creato una slabratura nel sistema, mirando a conciliare la necessità di evitare il rischio di dispersione di determinati elementi conoscitivi, con l’esigenza di non deprimere il principio di tendenziale formazione della prova nel contraddittorio tra le parti. Il rispetto del metodo orale si contempera con l’esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile: così C. cost. 9 giugno 1992, n. 255, in Giur. cost., 1992, p. 1962 v. anche C. cost. 25 luglio 1995, n. 381, ivi, 1995, p. 2778; C. cost. 24 febbraio 1995, n. 60, ivi, 1995, p. 508, n. 1070; C. cost. 23 luglio 1993, n. 338, ivi, 1993, p. 2660; C. cot. 13 aprile 1993, n. 176, ivi, 1993, p. 1241; C. cost. 22 dicembre 1992, n. 476, ivi, 1993, p. 514; C. cost. 3 giugno 1992, n. 254, ivi, 1992, p. 1932. È la formulazione del concetto di ‘‘non dispersione dei mezzi di prova’’, peraltro estranea al codice perché il legislatore si era preoccupato non solo che la ‘‘formazione della prova’’ e la sua ‘‘valutazione’’ fossero disciplinate da regole ben precise, ma anche che i mezzi di prova meno garantiti avessero efficacia limitata (IACOVIELLO, Prova ed accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla C. cost., in Cass. pen., 1992, p. 2030).
— 127 — mente l’espressa previsione relativa alla lettura delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero; con tale previsione il legislatore del 1997 ha inteso recepire quanto la Corte Costituzionale aveva stabilito nel 1995, dichiarando l’illegittimità della norma nella versione originaria, relativamente al differente regime di utilizzazione processuale tra l’interrogatorio diretto dal pubblico ministero e l’interrogatorio delegato alla polizia giudiziaria, ai sensi dell’art. 370 c.p.p., sul presupposto che ambedue si svolgono con le stesse modalità (38). Si rende, invece, opportuno sottolineare la distinzione tra ‘‘interrogatorio’’ del pubblico ministero e ‘‘interrogatorio delegato’’ alla polizia giudiziaria, iniziando con l’attribuire una connotazione processuale alla locuzione ‘‘dichiarazioni’’, che, nel codice di procedura penale, risulta indicativa di attività sia della polizia giudiziaria sia del pubblico ministero. Lo spunto per un chiarimento è nella motivazione della citata sentenza in cui la Corte costituzionale sposta l’obiettivo delle ‘‘dichiarazioni’’ di cui all’art. 513 c.p.p. esclusivamente sull’‘‘interrogatorio’’, richiamando così quanto espresso nell’ordinanza di rimessione, come ‘‘dichiarazioni in sede di interrogatorio’’ (39). Non a torto la Corte utilizza unicamente la dizione ‘‘interrogatorio’’ perché è ormai usuale assimilare ad esso le ‘‘dichiarazioni’’ (40), in riferimento a quanto previsto in merito dall’art. 374 c.p.p., la cui attenta lettura evidenzia un distinguo, tra il primo ed il secondo comma, che va oltre l’aspetto lessicale. Infatti, l’art. 374 comma 1 c.p.p., prevedendo la ‘‘presentazione spontanea di chi intenda rilasciare dichiarazioni sulla propria posizione di indagato’’, rapporta la natura di tali ‘‘dichiarazioni’’ alla ‘‘narrazione dei fatti’’ o alla ‘‘dichiarazione di caratteristiche somatiche’’, priva del valore dell’‘‘informazione’’ assunta ex art. 351 e 362 c.p.p., rispettivamente dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero (41). Ai sensi dell’art. 374 comma 2 c.p.p., invece, alle ‘‘dichiarazioni’’ rese successivamente alla (38) La riforma dell’art. 513 c.p.p., l. 7 agosto 1997, n. 267 è volta al recupero dei principi fondamentali che hanno ispirato il c. 88: l’oralità e il contraddittorio per la prova che deve formarsi in dibattimento. Così in alcuni casi si ammette l’utilizzazione di prove formate dinanzi ad un diverso giudice, con rinuncia all’oralità purché, nel momento formativo sia assicurato il contraddittorio tra le stesse parti del processo in cui tale prova si intende impiegare. (39) Risulta del tutto priva di razionale giustificazione una disciplina che determina disparità nel regime di utilizzazione processuale tra interrogatorio diretto e delegato, in deroga al criterio della assimilazione tra atti diretti e delegati: C. cost. 24 febbraio 1995, n. 60, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 190. (40) G. SPANGHER, G. VOENA, E. ZAPPALÀ, Soggetti, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 1996, p. 45. (41) Pertanto, tali ‘‘dichiarazioni’’ si distinguono anche dalle dichiarazioni individuative in senso proprio, costituenti il risultato dell’attività prevista dall’art. 361 c.p.p.: Trib. Firenze, 3 novembre 1992, in Cass. pen., 1993, p. 957, n. 632.
— 128 — contestazione del fatto si applicano le garanzie previste espressamente ex artt. 64, 65 e 364 c.p.p., per l’‘‘interrogatorio’’, quale unico strumento di difesa, che consente alla persona indagata di contestare l’accusa del pubblico ministero. Ad una più garantita attività di indagine corrisponde una sorta di trasformazione nel significato dell’espressione ‘‘dichiarazioni’’, precedentemente conformi alle ‘‘sommarie informazioni’’ di polizia giudiziaria, successivamente assimilate all’‘‘interrogatorio’’ del pubblico ministero. Si pone in risalto il distinguo tra ‘‘sommarie informazioni’’ e ‘‘interrogatorio’’ già riportato dalla Corte costituzionale alle differenze funzionali di ciascun organo delle indagini (42), peraltro in linea con la direttiva 76 della legge delega, sul punto della ‘‘specifica, diversa disciplina’’ per gli atti assunti dal pubblico ministero (43). La stessa Corte costituzionale ha così ritenuto ‘‘ragionevole’’ limitare la possibilità di lettura alle sole dichiarazioni rese dall’imputato al pubblico ministero ‘‘in considerazione della sostanziale differenza’’, sotto l’angolo visuale delle garanzie, relativamente all’equivalente atto della polizia giudiziaria (44). Infatti, l’interrogatorio, quale ‘‘mezzo di informazione e difesa’’ (45), si proietta in una esigenza probatoria, valida per il dibattimento, di riconoscere la verità di cui il solo indagato è depositario, ‘‘al fine di raggiungere un risultato giusto (46). Diversamente, le ‘‘informazioni’’ sono utili per le investigazioni come scopo per acquisire notizie (47), lo stesso aggettivo ‘‘sommarie’’ ne indica la genericità, sufficiente ad ovviare solo ad una situazione d’urgenza. Chiarita la natura delle ‘‘dichiarazioni’’ di cui all’art. 513 comma 1 c.p.p., l’attenzione si focalizza sull’estensione apportata dalla legge n. 267 del 1997 relativamente alle ‘‘dichiarazioni-interrogatorio’’ delegate alla polizia giudiziaria. In proposito va ricordato che nel dettato dell’art. 379 comma 1 c.p.p. il pubblico ministero compie ‘‘personalmente’’ ogni attività di indagine e, solo sul presupposto di particolari necessità organizzative, delega il compimento di taluni atti alla polizia giudiziaria. Dal novero di tali attività il legislatore del 1988 aveva escluso l’interrogatorio e il confronto, data la (42) Cass., Sez. I, 9 febbraio 1990, in Cass. pen., 1990, II, p. 86, n. 36. (43) Oltre ai vincoli imposti dalla norma delegante, il legislatore si è dato carico di rispettare comunque il diritto di difesa, garantito dal solo interrogatorio dell’autorità giudiziaria: C. cost. 22 dicembre 1992, n. 476, in Giur. cost., 1992, III, p. 4335. (44) C. cost. 23 luglio 1993, n. 338, in Giust. pen., 1993, p. 2660. (45) In dottrina è sempre attuale la tesi che considera l’interrogatorio un mezzo di difesa perché serve a contestare all’imputato le accuse e a ricevere le sue eventuali discolpe: MANZINI, Trattato di dir. proc. pen., vol. IV, 1956, p. 160. (46) Così CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 3o ed. 1995, p. 646. (47) Corte cost., 12 giugno 1991, in Giur. cost., 1991, p. 259.
— 129 — particolare delicatezza di tali indagini, in rispondenza a quanto stabilito dalla legge delega al punto 2. Se il legislatore del 1988, a giusta ragione, aveva circoscritto le ipotesi di delega alla polizia giudiziaria, successivamente si è avuto un non felice ampliamento, comprensivo dell’interrogatorio e del confronto, al fine di rendere l’attività di indagine ‘‘più funzionale ed elastica’’, sia pur a scapito delle già limitate garanzie difensive (48). Così anche il generico ‘‘interrogatorio’’, assunto per delega dalla polizia giudiziaria, in quanto equiparato a quello posto in essere direttamente dal pubblico ministero (49), può formare oggetto di contestazione di cui all’art. 513 comma 1 c.p.p. Pertanto, per ristabilire un equilibrio del tutto in linea con le garanzie difensive, basterebbe prevedere, in un’ottica di ragionevolezza, che il verbale dell’interrogatorio, assunto per delega dalla polizia giudiziaria, possa essere usato per le contestazioni, ‘‘quando si affianca ad un’altra prova dichiarativa del medesimo oggetto’’ (50). L’art. 513 comma1 c.p.p., fa inoltre riferimento più specificatamente alla lettura dei verbali dell’interrogatorio reso da chi, nel corso del successivo giudizio, ha scelto di essere giudicato in contumacia o, presente, si rifiuta di sottoporsi all’esame. A maggior ragione si dovrebbe omettere il ‘‘recupero’’ delle dichiarazioni di chi ha adottato un comportamento ‘‘non collaborativo’’ o ‘‘non partecipativo’’ (51), quale libera modalità della propria difesa personale. Si tratta di superare il ‘‘vecchio atteggiamento punitivo’’, nei confronti del contumace, ritenuto in condizione ‘‘giuridicamente deteriore’’ (52). (48) In merito alle modalità di assunzione dell’interrogatorio e del confronto delegato alla polizia giudiziaria, la versione originaria del decreto-legge prevedeva una delegabilità illimitata da parte del pubblico ministero, mentre in sede di conversione si è circoscritta l’ammissibilità della delega alla sola ipotesi dell’indagato in stato di libertà (D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 1992, n. 356). (49) ‘‘Proprio la prescrizione della necessaria presenza del difensore all’interrogatorio condotto dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero è espressione di una certa sfiducia del legislatore verso la polizia giudiziaria, in quanto organo di investigazione’’: C. MASSA, L’assimilazione fra atti del p.m. e atti delegati alla polizia giudiziaria si estende alle letture dibattimentali, in Cass. pen., 1995, p. 2457, n. 1469. (50) ‘‘La meno affidabile collocazione istituzionale e funzionale della polizia giudiziaria giustifica il diverso regime di utilizzazione dell’interrogatorio ex art. 513 c.p.p., assunto dai due diversi organi: GIOSTRA, Un atto di indagine non utilizzabile come prova: le ‘‘sommarie informazioni’’ di polizia qiudiziaria nelle ipotesi dell’art. 513, comma 1 c.p.p., in Giur. cost., 1993, p. 518. (51) Tra i numerosi principi posti a fondamento della ‘‘civiltà del processo’’ si trovano anche quelli che garantiscono comportamenti di non collaborazione da parte dell’imputato e che ricevono garanzia da parte della Costituzione: FELICIONI, Brevi osservazioni sull’esame dibattimentale dell’imputato: l’operatività del diritto al silenzio, in Cass. pen., 1992, p. 6. (52) Per il contumace si ravvisa un vero e proprio diritto di non partecipare al giudi-
— 130 — Poiché l’interrogatorio attiene essenzialmente al tema delle garanzie difensive (53), l’imputato che rifiuta di sottoporsi all’esame è libero di condizionarne l’utilizzabilità, anche sottraendosi volontariamente al contraddittorio delle parti (54). La ‘‘non partecipazione a dibattimento’’ è meritevole di considerazione proprio perché la difesa deve essere libera nella ‘‘scelta degli strumenti più adatti al suo esercizio’’, quale diritto costituzionalmente garantito dall’art. 24 comma 2 Cost. (55). Così, soltanto la ‘‘volontaria rinuncia dell’imputato a presenziare al dibattimento’’ può giustificare la limitazione del cotraddittorio (56). Di guisa che non andrebbe data lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, nemmeno se la stessa, procedendo su delega dell’autorità giudiziaria abbia agito in una situazione di ‘‘particolare necessità’’. LUCIA IANDOLO PISANELLI Ricercatore confermato di Procedura penale nell’Università di Bari
zio, garantito dalle ‘‘norme che disciplinano il procedimento dichiarativo di contumacia’’: NAPPI, Contumacia, in Nss. D.I., Utet, Appendice II, 1981, p. 767. (53) Corre l’obbligo di evidenziare in proposito come si vengono a contrapporre due istituti: l’‘‘interrogatorio’’ e l’‘‘esame’’ per la loro natura ‘‘non sovrapponibili’’, essendo finalizzati a disciplinare situazioni differenti. L’interrogatorio si svolge nelle indagini preliminari, l’esame dell’imputato solo in dibattimento, alle differenti collocazioni topografiche si collegano i diversi effetti sul piano sostanziale: DIDDI, Varie forme di dichiarazioni dell’indagato o dell’imputato e natura giuridica dell’interrogatorio, come atto di indagine preliminare, in Giust. pen., 1993, III c. 10. (54) Ciò costituisce una ‘‘nota stonata’’ in un sistema che tende a ‘‘stigmatizzare’’ l’inerzia partecipativa dell’imputato: SANTACROCE, Prosegue il ridimensionamento da parte della Corte costituzionale dell’impianto accusatorio del processo penale: l’interrogatorio delegato della polizia giudiziaria e la sua utilizzabilità probatoria, in Cass. pen., 1995, p. 1752. (55) Risulta del tutto inconferente il richiamo ad un generico principio dell’esatto esercizio della giurisdizione penale, così come espresso nell’ordinanza di rimessione della Pretura di Macerata, 18 settembre 1992 (C. cost., 13 aprile 1993, n. 176, in Giust. cost., 1993, p. 1241). Concetto ribadito anche dalla dottrina che ha ritenuto compatibile con il principio della inviolabilità del diritto di difesa, il dibattimento nel quale la difesa personale viene esercitata in forma negativa: PANSINI, La contumacia nel diritto processuale penale, 1963, p. 121. (56) Si ha riconoscimento di un vero e proprio diritto di presenza al dibattimento di merito a cui può farsi eccezione nelle sole ipotesi di rinuncia ad opera dell’interessato: UBERTIS, Contumacia e assenza tra vecchio e nuovo c.p.p., in Riv. dir. proc., 1987, p. 837.
INFORMAZIONI FALSE O RETICENTI NEL CORSO DELLE INDAGINI PRELIMINARI
SOMMARIO: 1. Le informazioni assunte dalla persona informata sui fatti nel corso delle indagini preliminari: disciplina processuale. — 2. Le false o reticenti informazioni rese agli organi investigativi: profili sostanziali. — 3. Le incongruenze della tutela penale predisposta per le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria. - 3.1. Gli interventi della Corte costituzionale: la sentenza n. 416 del 1996. - 3.2. (Segue): la sentenza n. 101 del 1999. — 4. Le residue riserve sulla disciplina sostanziale. — 5. Il trattamento processuale del soggetto che rende dichiarazioni false o incomplete nel procedimento penale — 6. La necessità di un intervento normativo.
1. L’assunzione di sommarie informazioni da persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini rappresenta una tipica espressione della attività investigativa compiuta sia dal pubblico ministero, sia dalla polizia giudiziaria, la quale può attivarsi prima dell’assunzione della direzione delle indagini da parte del pubblico ministero — nell’ambito di quella attività di ricerca di ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole, che è chiamata a svolgere in piena autonomia, ai sensi dell’art. 348, 1o e 2o comma c.p.p. — oppure successivamente, su delega del pubblico ministero o di propria iniziativa. La relativa disciplina non offre indicazioni sulle modalità di assunzione, essendo tale atto investigativo a forma tendenzialmente libera e non predeterminato nel contenuto (1), e originariamente non regolamentava neppure la posizione soggettiva del dichiarante. (1) In considerazione della tendenziale assimilazione degli atti di indagine alle prove effettuata dalla svolta controriformista del 1992, la dottrina ha tuttavia operato un’integrazione in via esegetica della normativa delle sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria, estendendo al compimento di tale atto il divieto di porre alla persona interrogata domande sulla moralità dell’indagato e sulle voci correnti nel pubblico, salvo sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti. Analogamente, secondo questa dottrina, deve ritenersi applicabile, il divieto di utilizzare metodi o tecniche idonee ad influire sulla libertà di autodeterminazione del soggetto o sulla capacità di ricordare e valutare i fatti. Più problematico appare, invece, affermare l’operatività di regole dettate per l’escussione testimoniale — quali il divieto di domande suggestive e nocive per la sincerità della risposta —, che presuppongono il contraddittorio tra le parti. Per queste considerazioni, v. PAULESU, Commento all’art. 351 c.p.p., in Codice di procedura commentato, a cura di GIARDA-SPANGHER, Milano, 1997, p. 1521 s. Va peraltro sottolineato come la giurisprudenza espressamente abbia escluso l’applicabilità delle regole stabilite dall’art. 499 c.p.p. per l’esame testimoniale alle informazioni
— 132 — A seguito delle modifiche introdotte con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356, la figura del terzo che rende dichiarazioni al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari è stata assimilata a quella del testimone. In particolare, l’attuale assetto normativo, attraverso un sistema di rinvii (2), fornisce un dettagliato quadro degli obblighi e delle facoltà delle persone informate sui fatti, chiamate a rispondere davanti alla polizia giudiziaria. A differenza di quanto emergeva dall’interpretazione sistematica dell’art. 351 c.p.p. nella sua originaria formulazione (3), ora la persona informata sui fatti è tenuta a presentarsi davanti all’Autorità che l’ha convocata, ad attenersi alle prescrizioni che le sono impartite, e, quel che più rileva, a rispondere secondo verità alle domande che le saranno rivolte, ai sensi dell’art. 198 c.p.p. L’esigenza di assicurare gli elementi necessari alla ricostruzione dei fatti e le fonti di prova deve essere tuttavia contemperata con l’esigenza di tutelare altri valori che trovano riconoscimento nel nostro sistema processuale. Perciò non sempre questi obblighi gravano sulle persone informate: al contrario, in particolari e determinate situazioni individuate dall’art. 197 c.p.p., questi soggetti non possono essere sentiti come testimoni o referenti; possono sottrarsi alla deposizioni su fatti dai quali potrebbe emergere una loro responsabilità penale, venendo meno in tal caso l’obbligo a deporre, secondo il disposto dell’art. 198 2o comma c.p.p.; sono titolari della facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni, qualora siano prossimi congiunti della persona indagata (art. 199 c.p.p.); possono opporre il segreto professionale (art. 200 c.p.p.) o il segreto ‘‘poliziesco’’ (art. 203 c.p.p.); hanno l’obbligo di astenersi dal testimoniare in presenza di un segreto d’ufficio (art. 201 c.p.p.) o di Stato (art. 202 c.p.p.). Anche con riguardo alla documentazione e alla valenza probatoria delle dichiarazioni rese dalla persona non sottoposta alle indagini, la disciplina processuale delle sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria è omogenea a quella delle informazioni assunte dal pubblico ministero. In rese durante le indagini preliminari: cfr. Cass., Sez. II, 16 aprile-21 maggio 1993, Ciampà, in CED 194716. (2) In forza della modifica dell’art. 351 c.p.p. operata dall’art. 4, 4o comma lett. a) del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356, alle sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria dalla persona non sottoposta ad indagini si estende il regime previsto dall’art. 362 c.p.p. per la corrispondente attività investigativa svolta dal pubblico ministero. A sua volta l’art. 362 c.p.p., novellato dall’art. 5 della l. 7 agosto 1992, n. 356, afferma l’applicabilità in caso di assunzione di informazioni ad opera del p.m. delle norme contenute negli artt. 197, 198, 199, 200, 201, 202 e 203 c.p.p. Sulla portata della riforma dell’art. 351 c.p.p., v. BRESCIANI, sub art. 351 c.p.p., in Commento al codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, secondo aggiornamento, Torino 1993, p. 144 ss. (3) V. in proposito, CASELLI, sub art. 351 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, IV, Torino 1990, p. 132 ss.
— 133 — entrambi i casi dovrà essere redatto verbale, nelle forme e secondo le modalità previste dall’art. 373 c.p.p. (4). Le dichiarazioni, così documentate e inserite nel fascicolo del pubblico ministero, avranno rilevanza probatoria endoprocessuale all’interno della fase delle indagini preliminari e saranno pertanto utilizzabili ai fini delle decisioni sulla richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione e in materia di libertà personale (5). Uguale efficacia sarà riconosciuta a tali atti investigativi, qualora l’imputato, avanzando richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena, abbia implicitamente accettato di essere giudicato sugli atti di indagine preliminare. Anche in sede dibattimentale, in seguito alle innovazioni introdotte con il d.l. n. 306 del 1992, può essere attribuito valore di prova alle dichiarazioni assunte ai sensi degli artt. 351 e 362 c.p.p., attraverso le contestazioni effettuate nel corso dell’esame testimoniale, ai sensi dell’art. 500 c.p.p. o mediante la lettura per sopravvenuta impossibilità di ripetizione, a norma dell’art. 512 c.p.p. Proprio il recupero della valenza probatoria degli atti di indagine attuata con la svolta controriformista del 1992, giustifica la sostanziale uniformità della disciplina dettata per l’assunzione di informazioni da parte della polizia giudiziaria rispetto a quella prevista per l’omologa attività investigativa del pubblico ministero e, quindi, indirettamente, l’effettiva equiparazione tra la attuale normativa delle informazioni rese agli organi investigativi e il regime proprio della prova testimoniale (6): se, infatti, in una sempre più numerosa serie di ipotesi le dichiarazioni rese nelle indagini preliminari acquistano pieno valore probatorio, si rende necessario estendere anche alla figura del ‘‘referente’’ il sistema di garanzie predisposto per il testimone e al tempo stesso assicurare al procedimento penale il contributo apportato dalla persona a conoscenza di fatti mediante l’imposizione di obblighi, alcuni dei quali penalmente sanzionati. Sul piano processuale, assistiamo, quindi, sotto questo profilo ad una parziale assimilazione della disciplina della testimonianza da un lato e delle sommarie informazioni assunte dagli organi inquirenti, dall’altro: restano differenti le modalità di assunzione, di documentazione e, sia pure non sempre, di utilizzazione delle dichiarazioni del terzo a seconda che siano effettuate in dibattimento o nel corso delle indagini preliminari. (4) Sull’adeguamento della forma di documentazione di tali atti investigativi al mutamento del loro regime di destinazione processuale, v. BRESCIANI, op. cit., p. 148 ss. (5) In proposito, cfr., tra le altre, Cass., Sez. II, 20 febbraio-7 marzo 1991, Ascione, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 456; Id., Sez. VI, 19 dicembre 1990-5 febbraio 1991, De Rosa, in Cass. pen., 1992, p. 328; Id., Sez. VI, 22 maggio 1990, X e altro, in Giur. it., 1991, II, p. 418, con nota di PAULESU, Sui limiti di utilizzabilità delle sommarie informazioni, ivi, p. 417. (6) In questi termini v. BRESCIANI, op. cit., p. 145; MARANDOLA, False dichiarazioni al pubblico ministero e arresto in flagranza, in Cass. pen., 1995, p. 1869; PAULESU, Commento all’art. 351. c.p.p., cit., p.1521.
— 134 — Viceversa è possibile constatare una sostanziale coincidenza di disciplina processuale tra le informazioni assunte dal pubblico ministero e quelle rese alla polizia giudiziaria. Solo la finalità dell’attività investigativa dei due organi pare distinguere i due atti di indagine (7): sebbene in entrambi i casi siano dirette alla ricerca di elementi necessari alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, l’iniziativa della polizia giudiziaria è più genericamente finalizzata ad individuare ogni elemento utile alla ricostruzione dei fatti e alla individuazione del colpevole, ai sensi dell’art. 348 c.p.p., mentre quella del pubblico ministero mira anche all’accertamento su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, secondo il disposto dell’art. 358 c.p.p. Spicca nel quadro normativo concernente l’assunzione di dichiarazioni lato sensu testimoniali, la disciplina riservata alle informazioni rese ai difensori ai quali, come è noto, l’art. 38 disp. att., riconosce la facoltà di conferire con le persone che possano essere a conoscenza di dati utili alla parte: nessun obbligo è messo in capo al soggetto informato, contattato dal difensore, e correlativamente nessuna garanzia gli è assicurata, per tacere della assenza di previsioni in materia di documentazione e quindi di utilizzazione delle dichiarazioni raccolte (8). (7) Cfr. SANTACROCE, L’art. 371-bis c.p. e la tutela penale delle indagini preliminari svolte dalla polizia giudiziaria, in Giust. pen., 1994, II, p. 516; MARANDOLA, op. cit., p. 1872. (8) V., tra i numerosi contributi sul tema, BERNARDI, Le indagini del difensore nel processo penale, Milano, 1996; NOBILI, Prove a difesa e investigazioni di parte nell’attuale assetto delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1994, p. 398; ID., Diritti difensivi, poteri del pubblico ministero durante la fase preliminare e la l. 8 agosto 1995, n. 332, in Cass. pen., 1996, p. 360; TONINI, sub art. 22 l. 8 agosto 1995, n. 332, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova 1995, p. 298. In proposito, va ricordato che in data 21 aprile 1999 è stato approvato dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati il disegno di legge S 3979, recante ‘‘Disposizioni in materia di indagini difensive’’, volto a disciplinare i numerosi aspetti dell’attività di investigativa del difensore, ignorati nell’attuale normativa in materia: lo si veda in Diritto pen. e proc., 1999, n. 6, p. 669, con commento di FRIGO, Indagini difensive: un punto ‘‘di non ritorno’’ sulla strada del riequilibrio tra accusa e difesa, ivi, p. 667. In particolare tra le attività tipiche di investigazione del difensore, individuate e disciplinate nel disegno di legge, sono previste l’assunzione di informazioni attraverso il colloquio con i terzi in grado di riferire circostanze utili alle indagini (art. 391-bis), l’esame delle persone informate sui fatti e, ancora, la richiesta alle medesime di una dichiarazione scritta (art. 391-ter). I soggetti sottoposti ad esame o destinatari della richiesta devono essere avvisati della facoltà loro riconosciuta di non rispondere e di non rilasciare dichiarazioni, con l’avvertimento che in tal caso può essere disposta dal giudice l’audizione. Quanto alla documentazione, la dichiarazione scritta deve essere autenticata dal difensore o dal sostituto, il quale deve inoltre redigere una relazione sulle circostanze, le modalità e l’oggetto della dichiarazione stessa. Le altre dichiarazioni possono essere documentate mediante trascrizione, verbalizzazione, registrazioni con mezzi meccanici, fonografici o audiovisivi (art. 391-ter, comma 9o, 10o, 11o). Inserite nel fascicolo del difensore (art. 391-nonies), le dichiarazioni possono essere utilizzate per le con-
— 135 — 2. Se alle persone informate sui fatti si applica la stessa disciplina processuale, qualunque sia l’Autorità davanti alla quale sono chiamati a fare dichiarazioni e il momento del procedimento in cui la deposizione ha luogo, non altrettanto può dirsi sotto il profilo penale sostanziale. Contravvenendo agli obblighi imposti loro dalla legge processuale, il testimone e il referente possono rifiutare di rispondere alle domande o, viceversa, pur rispondendo, affermare il falso o, ancora, negare il vero o tacere in tutto o in parte ciò di cui sono a conoscenza intorno ai fatti per cui si procede. Le conseguenze sul piano penale sono differenti a seconda dell’Autorità davanti alla quale è resa la deposizione. Di fronte al giudice, nel corso di una testimonianza assunta in dibattimento o in incidente probatorio, le dichiarazioni false e reticenti integrano il reato di falsa testimonianza previsto dall’art. 372 c.p.; il rifiuto di deporre è inquadrabile nella fattispecie prevista dall’art. 366, 3o comma c.p. (9). Di fronte al pubblico ministero, il mendacio o la reticenza di chi sia chiamato a riferire circostanze utili ai fini delle indagini, configura il delitto di false informazioni al pubblico ministero di cui all’art. 371-bis c.p., introdotto dall’art. 11, 1o comma della l. 7 agosto 1992, n. 356 (10); il rifiuto di informazioni può, anche in questo caso, configurare un’ipotesi di rifiuto di atti legalmente dovuti, in quanto il cenno all’autorità giudiziaria, contenuto nell’art. 366 c.p., può riferirsi anche al pubblico ministero. Nessuna fattispecie specifica è prevista, viceversa, con riguardo all’ipotesi di false o reticenti informazioni rese alla polizia giudiziaria. Il riferimento a tale organo inizialmente contenuto nel teso originario dell’art. 11 della l. 7 agosto 1992, n. 356, è stato, infatti, soppresso in sede di convertestazioni nell’esame dibattimentale, mediante lettura in caso di sopravvenuta e imprevedibile irripetibilità dell’atto (art. 391-undecies). (9) L’elemento distintivo tra la figura della renitenza e la fattispecie della reticenza o del mendacio, tradizionalmente contrapposte, è ravvisato dalla dottrina penalistica nel fatto che solo nella seconda ipotesi il teste ha già assunto l’ufficio di testimone e la deposizione è già in corso: cfr., per tutti, DE VERO, Rifiuto di uffici legalmente dovuti, in Enc. del dir., XL, Milano, 1989, p. 839. (10) La previsione sanzionatoria introdotta dall’art. 371-bis c.p. è stata oggetto di valutazioni contrastanti: da un lato è stata vista come ‘‘una sorta « atto dovuto »’’ diretto a rendere effettivo l’obbligo di rispondere secondo verità imposto ai ‘‘referenti’’: così PADOVANI, Commento all’art. 11 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Legis. pen., 1993, p. 116; e, negli stessi termini, SANTACROCE, op. cit., c. 515; PERONI, Commento all’art. 25 della l. 8 agosto 1995, n. 332, in Legislazione pen., 1995, II, p. 801, il quale afferma che la nuova previsione incriminatrice, calata in un contesto novellistico, volto a dilatare notevolmente i risultati delle indagini, non può che leggersi ‘‘come il logico pendant della manomessa architettura codicistica originaria’’ (p. 800). Dall’altro, la nuova figura criminosa è stata ritenuta in contrasto con i principi base dell’ordinamento processuale e con diversi punti della legge-delega (sul punto v. RAMAJOLI, È costituzionalmente legittimo l’art. 371-bis c.p.?, in Giust. pen., 1993, II, c. 367 s.) e criticata al punto da affermare che fosse preferibile non introdurla: v. VOENA, Investigazioni ed indagini preliminari, in Dig. Disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 270.
— 136 — sione. La modifica mostra la chiara intenzione del legislatore di escludere l’applicabilità dell’art. 371-bis c.p. al mendacio davanti alla polizia giudiziaria che agisca di propria iniziativa; ma alla medesima conclusione si deve pervenire nel caso gli ufficiali o gli agenti di p.g. siano delegati dal pubblico ministero. L’equiparazione attuata dal legislatore sul piano processuale tra sommarie informazioni assunte dal pubblico ministero e la parallela attività effettuata dalla polizia giudiziaria non può essere estesa al diritto penale sostanziale, caratterizzato dal principio di legalità. I principi di tassatività e di tipicità, che ne sono espressione, impediscono che l’ambito di applicazione dell’art. 371-bis c.p. possa essere esteso in via analogica all’ipotesi di false dichiarazioni alla polizia giudiziaria, anche nel caso in cui questa operi su delega del pubblico ministero (11). Non necessariamente, peraltro, le dichiarazioni mendaci o parziali rese alla polizia giudiziaria cadono nel campo del penalmente irrilevante, potendo configurarsi il delitto di favoreggiamento personale, quando siano dirette a favorire il presunto autore del reato. Essendo infatti il reato previsto dall’art. 378 c.p. un reato ‘‘a forma libera’’, che può essere commesso con qualsiasi condotta idonea ad aiutare chi sia sospettato di aver commesso un illecito penale ad eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche dell’Autorità, la giurisprudenza ha rinvenuto nelle false e reticenti dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria una delle possibili modalità con cui si realizza il favoreggiamento personale (12). (11) La giurisprudenza ha costantemente escluso che possa rientrare nella fattispecie prevista dall’art. 371-bis la condotta di chi rende dichiarazioni false o reticenti alla polizia giudiziaria: v., tra le altre, Cass., Sez. VI, 8 febbraio-19 aprile 1993, Malena, in Giust. pen., 1994, II, c. 515; Id., Sez. VI, 10 marzo-24 aprile 1993, Frustaci, in CED 194143; Id., Sez. VI, 27 novembre 1992-26 gennaio 1993, Donisi, in Giur. it., 1994, II, c. 408; e, indirettamente, Cass., Sez. VI, 13 ottobre 1993-23 febbraio 1994, Santercole, in CED 197367. Unanime, sul punto, anche la dottrina: v. RAVAGNAN, L’art. 371-bis c.p. e l’arresto della persona informata sui fatti d’indagine, in Riv. pen., 1993, p. 897; SANTACROCE, op. cit., c. 516; MARANDOLA, op. cit., p. 1872; GARUTI, Utilizzabilità delle dichiarazioni integranti il reato di favoreggiamento personale rese in sede di polizia giudiziaria, in Cass. pen., 1996, p. 148. (12) La giurisprudenza è costante nel ritenere che, rispetto alle false dichiarazioni rese alla p.g., sia prospettabile l’applicazione della norma incriminatrice del favoreggiamento personale: cfr., tra le altre, Cass., Sez. VI, 14 giugno 1993, Darmanin, in CED 195997; Id., Sez. VI, 20 marzo-6 settembre 1990, Catalano, in Riv. pen., 1991, p. 538; Id., Sez. I, 24 giugno-20 settembre 1982, Ciarniello, ivi, 1983, p. 525; Id., Sez. III, 5 dicembre 1980-17 febbraio 1981, Borghi, ivi, 1981, p. 435. L’orientamento, condiviso da una parte della dottrina (cfr. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, V, Torino, 1982, p. 997; PISA, Favoreggiamento personale e reale, in Dig. Disc. pen., V, 1991, p. 167), è, al contrario, vivamente criticato da altri Autori che negano la configurabilità del favoreggiamento personale in caso di mandacio alla polizia, affermando che, diversamente, si finirebbe per applicare analogicamente la norma incriminatrice della falsa testimonianza (v. PULITANÒ, Il favoreggiamento personale tra diritto e processo penale, Milano, 1984, p. 167 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, I, Bologna, 1997, p. 396). Ancora più dibattuta in dottrina è la possibilità di realizzare la condotta del favoreggia-
— 137 — La scelta del legislatore di distinguere sul piano sostanziale le conseguenze derivanti dalla violazione degli obblighi da parte della persona chiamata a rispondere su fatti a sua conoscenza, a seconda del destinatario delle dichiarazioni (13), ha creato non pochi, né secondari problemi di ordine sistematico sotto il profilo sia sostanziale che processuale. mento personale mediante dichiarazioni reticenti fornite alla p.g. e, quindi, in ultima analisi, mediante condotta omissiva. Secondo un primo orientamento, deve escludersi l’applicabilità dell’art. 378 c.p., in considerazione del tenore letterale della norma — in cui il termine ‘‘aiutare’’ indica senza dubbio una condotta positiva — e dell’impossibilità di richiamare in tal caso l’art. 40, 2o comma c.p., mancando nel reato di favoreggiamento un evento naturalistico (v., tra gli altri, PAGLIARO, Favoreggiamento (dir. pen.), in Enc. del dir., XVII, 1968, p. 4; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 396; MANZINI, op. cit., p. 992). Al contrario tale possibilità è ammessa da altri studiosi, a condizione che la condotta omissiva costituisca violazione di un obbligo giuridico (v. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, Milano, 1997, p. 478) o realizzi ‘‘la mancanza di un’attività attesa e pretesa dall’ordinamento giuridico’’ (PANNAIN, Favoreggiamento personale e reale, in Novissimo Dig. it., VII, Torino, 1961, p. 153). Secondo una posizione intermedia, il favoreggiamento sarebbe prospettabile solo in presenza di un dovere di collaborazione che, concernendo l’impedimento dell’evento delittuoso tipizzato, configuri una ‘‘posizione di garanzia’’ nei confronti del bene tutelato: il favoreggiamento omissivo sarebbe, dunque, configurabile non in via generale, ma con riguardo ‘‘a soggetti ‘intranei’ alle istituzioni della giustizia penale, per i quali sia configurabile — e configurata nel diritto vigente — una ‘posizione di garanzia’ per la funzionalità della repressione’’ (cfr. PULITANÒ, op. cit., p. 165 e p. 160 ss.; in termini analoghi PADOVANI, Favoreggiamento, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma, 1989, p. 5 s.). La giurisprudenza, invece, ammette costantemente la configurabilità del favoreggiamento anche mediante condotta omissiva, quale la reticenza: v., tra le altre, Cass., Sez. VI, 14 giugno 1993, Darmanin, cit.; Id., Sez. VI, 8 giugno-21 novembre 1990, Savo, in Riv. pen., 1991, p. 857; Id., Sez. VI, 20 marzo 1990, Catalano, cit., p. 538; Id., 2 ottobre 1988, Castigliuolo, in Riv. pen., 1989, 854; Id., Sez. VI, 8 aprile-8 luglio 1986, Amato, ivi, 1987, p. 490; Id., Sez. VI, 24 marzo-25 agosto 1986, Di Pierro, ivi, p. 490. Per un esaustivo quadro di sintesi sul tema, cfr. PIFFER, Commento all’art. 378 c.p., in Codice penale commentato, Parte speciale, a cura di DOLCINIMARINUCCI, Milano, 1999, p. 2158 s. (13) A tal riguardo, va sottolineato come non sia stata apprestata dal legislatore alcuna forma di tutela penale in caso di false dichiarazioni rese al difensore. L’assenza di disposizioni volte a regolare l’esercizio della facoltà di svolgere indagini e assumere informazioni, riconosciuta al difensore in via di principio, senza prevedere le ripercussioni di tale attività sul sistema, spiega la mancanza di previsioni specifiche sul piano sostanziale. Viceversa, il disegno di legge recante ‘‘Disposizioni in materia di indagini difensive’’ (v. supra nota 8) introduce la nuova fattispecie criminosa delle false informazioni al difensore prevista dall’art. 371-ter c.p., il quale punisce ‘‘chi... rende dichiarazioni false o ovvero nelle medesime dichiarazioni tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito’’ (art. 17 del citato disegno-legge). La disciplina prevista per tale nuova ipotesi delittuosa è assimilabile in toto a quella dettata per il reato di cui all’art. 371-bis c.p.: sotto il profilo sostanziale, essendo identico il trattamento sanzionatorio, anche con riguardo alle circostanze, ed applicabili, anche alla nuova figura criminosa, le cause di non punibilità previste dagli artt. 376 e 384 c.p.; sotto il profilo processuale, essendo prevista la sospensione del procedimento per il reato di false dichiarazioni al difensore negli stessi termini in cui opera il meccanismo sospensivo del procedimento per il reato di false informazioni al p.m., previsto dal 2o comma dell’art. 371-bis c.p. (v. artt. 17 e 18 del citato disegno-legge).
— 138 — 3. Sul piano sostanziale, la più evidente contraddizione emergente dal raffronto tra le discipline riservate alla condotta penalmente illecita del ‘‘referente’’ è stata avvertita in tema di cause di non punibilità. L’art. 384 c.p. contempla alcuni casi in cui il mendacio o la reticenza della deposizione non sono punibili. Nessun problema sorge qualora la causa di non punibilità sia da individuarsi nell’aver agito nella necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento alla libertà o all’onore: la norma è applicabile tanto in caso di testimonianza e di false informazioni al pubblico ministero, quanto in caso di favoreggiamento. Viceversa qualche risvolto problematico presenta il 2o comma dell’art. 384 c.p. che esclude la punibilità, qualora le dichiarazioni siano state rese da soggetti che avrebbero dovuto essere avvisati della facoltà di astenersi dalla deposizione, in quanto prossimi congiunti (14). Diversamente si fonderebbe l’affermazione di responsabilità penale e la conseguente applicazione della pena, su una deposizione inficiata da nullità (15). La causa di non punibilità costituita dal mancato avvertimento della facoltà di astenersi dal rendere informazioni o testimonianza opera sicuramente con riguardo al reato di falsa testimonianza e al reato di false informazioni al pubblico ministero. Stando alla formulazione originaria dell’art. 384 2o comma c.p., anche successivamente alla modifica apportata dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, l’omesso avviso della facoltà di astenersi da parte della polizia giudiziaria non configurava, invece, una causa di non punibilità in relazione al reato di favoreggiamento personale consistito nel rendere false o reticenti dichiarazioni alla polizia giudiziaria. Palese ed irragionevole risultava essere la disparità di trattamento riservato allo stesso soggetto, a seconda della autorità ricevente le sue dichiarazioni, nonostante l’identità della disciplina processuale ed in particolare il riconoscimento della facoltà di astenersi ai prossimi congiunti, a prescindere dalla sede, dal momento e dal soggetto processuale cui vengono rese le dichiarazioni. Un’analoga diseguaglianza di trattamento si profilava con riguardo ad un’ulteriore causa speciale di non punibilità prevista per taluni reati con(14) I prossimi congiunti dell’indagato o dell’imputato sono liberi di scegliere se rendere dichiarazioni, e in tal caso assoggettarsi agli obblighi tipici del testimoni, o sottrarsi alla deposizione. La facoltà attribuita ai prossimi congiunti, sempre che non siano autori della denuncia, querela o istanza e non siano parte offesa dal reato, fa sorgere in capo all’autorità procedente l’obbligo di avvertirli della facoltà di astenersi, oltre naturalmente, all’obbligo di rispettarne l’eventuale scelta di non rendere dichiarazioni. (15) Il mancato avvertimento da parte del giudice, del pubblico ministero o della polizia giudiziaria, comporta, sul piano processuale, l’applicazione della sanzione della nullità relativa, per espressa disposizione dell’art. 199 2o comma c.p.p. V. anche Cass., Sez. V, 9 dicembre 1996, Loico, in CED 206641; Id., Sez. V, 18 giugno 1991, Garzia, in Mass. Cass. pen., 1991, fasc. 9, p. 40.
— 139 — tro l’amministrazione della giustizia: la ritrattazione. L’art. 376 c.p., al 1o comma, esclude la punibilità dei reati di false informazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza, e falsa interpretazione e perizia qualora il colpevole ritratti il falso e manifesti il vero nel procedimento penale in cui ha prestato il suo ufficio o reso le sue dichiarazioni, non oltre la chiusura del dibattimento. Il mancato riferimento al reato di favoreggiamento personale, faceva certi che la causa di non punibilità della ritrattazione non potesse valere anche per tale fattispecie criminosa. La mancata estensione di queste speciali cause di non punibilità alla fattispecie penale del favoreggiamento personale, commesso mediante false o incomplete informazioni alla polizia giudiziaria non poteva non suscitare, con riferimento all’art. 3 Cost., sospetti di illegittimità costituzionale che hanno determinato due rilevanti, sia pure non esaustivi, interventi della ‘‘Consulta’’. 3.1. La Corte costituzionale ha provveduto se non ad eliminare, quanto meno a ridurre i gravi squilibri presenti nella tutela penale apprestata dal legislatore in relazione alle dichiarazioni rese da terzi nel corso delle indagini preliminari. Con una prima pronuncia, la sentenza n. 416 del 1996 (16), condivisibile nei passaggi argomentativi e nella conclusione, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 384, 2o comma, c.p. ‘‘nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria e fornite da chi avrebbe dovuto essere avvisato della facoltà di astenersi dal renderle, a norma dell’art. 199 del codice di procedura penale’’. Il singolare dispositivo, che fa riferimento non al reato di favoreggiamento personale, ma ad un fatto che, di per sé, non è previsto come autonoma figura di reato e non configura necessariamente il delitto di cui all’art. 378 c.p., non impedisce di cogliere il chiaro significato della pronuncia e le comprensibili intenzioni della Corte. Constatato che ad una sostanziale equiparazione del trattamento riservato sotto il profilo processuale alle persone informate sui fatti non corrispondeva un trattamento omogeneo sul piano penale sostanziale, pur in presenza di un identico presupposto — la facoltà di astensione dal rendere dichiarazioni non portata a conoscenza del prossimo congiunto —, la discriminazione che colpiva il medesimo soggetto a seconda dell’autorità ricevente le dichiarazioni è apparsa alla Consulta priva di ragionevole giustificazione per diversi motivi. Innanzi tutto le condotte materiali che possono risultare rilevanti nelle diverse ipotesi sono del tutto identiche, in quanto, in ogni caso, si è in presenza di persone in grado di riferire sui fatti per cui si procede, le(16) 3705.
Cfr. sentenza Corte cost. 12-27 dicembre 1996, n. 416, in Giur. cost., 1996, p.
— 140 — gate da un vincolo di parentela, adozione o convivenza con la persona indagata, che forniscono risposte incomplete e non veritiere alle domande dell’Autorità procedente, senza essere state avvisate della possibilità di sottrarsi alla deposizione. La scelta del legislatore non si giustifica neppure in ragione dell’ ‘‘omogeneità del bene protetto... consistente nella funzionalità di ciascuna fase rispetto agli scopi propri, nei quali esigenze investigative (massime all’inizio del procedimento) e quelle della ricerca della verità (massime alla fine del processo) si sommano inestricabilmente’’ (17). Ancora la disparità di trattamento sottolineata dai giudici rimettenti non può essere ragionevolmente spiegata, in considerazione della ‘‘identica rilevanza nel processo delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero’’, circoscritta di regola alle indagini preliminari e all’udienza preliminare e solo eccezionalmente estesa al dibattimento, qualora siano oggetto di contestazione durante l’esame testimoniale o siano divenute irripetibili per fatti o circostanze non prevedibili. Né, infine, rileva, sotto il profilo della gravità dei fatti di reato, la diversa pena edittale prevista per il reato di favoreggiamento personale e per il reato di false informazioni al pubblico ministero — la reclusione fino a quattro anni — rispetto a quella comminata per la falsa testimonianza — la reclusione da due a sei anni —. Ma l’argomento decisivo è dato dalla scelta del legislatore di ‘‘attribuire rilevanza ai rapporti interpersonali’’ indicati nell’art. 199 c.p.p. ‘‘in tutte le circostanze in cui il soggetto sia chiamato a rendere informazioni, quale che sia l’autorità che deve raccoglierle e senza distinzioni di fasi processuali’’. La diversità di disciplina relativa a condotte materiali identiche non trova giustificazione, quindi, né in ordine ai presupposti processuali, né rispetto alle conseguenze, né con riguardo alla gravità dei comportamenti nella valutazione del legislatore. Né del resto è parso d’ostacolo alla declaratoria di incostituzionalità il carattere derogatorio dell’art. 384 c.p. rispetto al normale regime di punibilità. Nonostante il divieto di interpretazione analogica, ad avviso della Corte costituzionale, sarebbe irrazionale, ‘‘una volta riconosciuta l’esigenza di una eccezione rispetto ad una normativa più generale’’, non realizzarne integralmente la ratio, in mancanza di una ragione giustificatrice. L’iter argomentativo della Corte costituzionale non poteva che culminare nella declaratoria di incostituzionalità dell’art. 384, 2o comma c.p. Un differente trattamento della falsa testimonianza da un lato e delle false informazioni al p.m. dall’altro sul piano sostanziale poteva infatti spiegarsi solo in ragione dei due diversi interessi tutelati dalla norma penale: (17) Ibidem, p. 3710.
— 141 — la genuinità della prova in un caso, l’efficacia dell’attività investigativa dall’altro. Ma una volta uniformata sul piano processuale e sostanziale la disciplina della testimonianza e delle informazioni rese nelle indagini preliminari, era irragionevole discriminare lo stesso soggetto a seconda che le dichiarazioni fossero rese all’organo dell’accusa o alla polizia giudiziaria. 3.2. A distanza di meno di tre anni, la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla conformità ai principi costituzionali della previsione che non contempla il reato di favoreggiamento personale, commesso mediante dichiarazioni mendaci o incomplete alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero, tra le fattispecie criminose cui si applica la speciale causa di non punibilità della ritrattazione. Pur concludendo nel senso dell’illegittimità costituzionale del 1o comma dell’art. 376 c.p., la Corte nella sentenza n. 101 del 1999 (18) non ricalca le articolate argomentazioni prospettate nella pronuncia del 1996, ma opta per un approccio alla questione che prescinde da un raffronto tra i reati, diretto ad individuare gli elementi comuni o distintivi delle due fattispecie previste dall’art. 371-bis e dell’art. 378 c.p, in base ai quali valutare la razionalità della disciplina di dubbia costituzionalità. La Corte sembra quasi ritenere che l’irrazionalità della norma, la quale prevede la ritrattazione come causa di non punibilità nel caso di false informazioni al pubblico ministero, e non nell’ipotesi di favoreggiamento personale integrato da mendaci dichiarazioni alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero, risulti prima che dal confronto delle fattispecie penali, dalla comparazione degli atti investigativi nella formazione dei quali possono essere commessi i reati di cui agli artt. 371-bis e 378 c.p. Da tale valutazione emerge, ad avviso della Corte, che ‘‘l’assunzione diretta e personale da parte del pubblico ministero... di informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini... e l’assunzione delle medesime informazioni avvalendosi della polizia giudiziaria a ciò delegata... costituiscono esclusivamente forme diverse della medesima attività, facente sostanzialmente capo comunque al pubblico ministero’’ (19). In altri termini, siamo di fronte ad un unico tipo di atto, attuato con forme diverse, in base ad una disciplina omogenea, quanto a regole di svolgimento, documentazione e utilizzazione: in considerazione di ‘‘tale convergenza di disciplina, corrispondente a un’unitarietà di ratio che sor(18) Cfr. sentenza Corte cost. 22-30 marzo 1999, n. 101, in Gazz. Uff., 1a serie speciale, 7 aprile 1999, n. 14, p. 13 ss. Nelle more di tale giudizio di legittimità promosso dalla Corte d’appello di Torino, la medesima questione di incostituzionalità è stata sollevata dal giudice per le indagini preliminare presso il Tribunale di Milano. La questione portata all’attenzione della Corte, successivamente alla declaratoria di incostituzionalità con sentenza n. 101 del 1999, è stata dichiarata manifestamente inammissibile: v. ordinanza Corte cost. 9-17 giugno 1999, n. 247, in Gazz. Uff., 1a serie speciale, n. 25, p. 26. (19) Sentenza Corte cost. 22-30 marzo 1999, n. 101, cit., p. 16.
— 142 — regge le norme relative alle attività di indagine e alla loro valenza processuale, quale che sia l’autorità che procede ad assumere le informazioni’’ (20) non trova giustificazione la diversità di trattamento circa gli effetti della ritrattazione. La irragionevolezza della previsione impugnata, pertanto, non è ricondotta specificamente alla identità dei beni giuridici tutelati dalle due norme incriminatrici, o alla coincidenza delle condotte materiali, o alla collocazione cronologia delle dichiarazioni, in entrambi i casi rese nel corso delle indagini preliminari, ma è ricavabile a monte, dall’essere l’attività investigativa compiuta dal pubblico ministero e quella effettuata dalla polizia giudiziaria forme diverse della medesima azione. 4. Le conclusioni formulate dalla Corte in tema di cause di non punibilità indubbiamente costituiscono un passo in avanti nel cammino verso una progressiva eliminazione delle incongruenze che contraddistinguono sul piano sostanziale la disciplina delle informazioni rese da persona informata durante le indagini preliminari. Ciononostante il quadro normativo in materia non può ancora dirsi omogeneo e privo di contraddizioni. Indubbiamente la più recente pronuncia della Corte segna un’inversione di tendenza rispetto alla precedente giurisprudenza costituzionale (21) che aveva escluso l’applicabilità della causa di non punibilità della ritrattazione al reato di favoreggiamento, anche se commesso mediante false o reticenti dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, in quanto la condotta che integra il reato di favoreggiamento personale — l’aiuto ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa — comporta comunque un pregiudizio alla pretesa punitiva dello Stato, irreversibile, e non eliminabile attraverso il ravvedimento operoso del falso testimone. Tuttavia, anche con riguardo alla previsione degli effetti della ritrattazione sulla configurabilità dei reati prospettabili in caso di mendacio e reticenza della persona informata dei fatti, non può dirsi pienamente ristabilito l’equilibrio nel sistema normativo. La sentenza della Corte, infatti, prende in considerazione le sole informazioni assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero ed estende la causa di non punibilità costituita dalla ritrattazione alla ipotesi di violazione di legge penale che può verificarsi nel corso della attività investigativa disposta dal pubblico ministero ed eseguita dalla polizia giudiziaria. La pronuncia non riguarda l’analoga attività svolta dalla polizia giudiziaria, di propria iniziativa. Tenuto conto della natura derogatoria dell’art. 376 c.p. rispetto al (20) Ibidem. (21) V., sul punto, sentenza Corte cost. 13-22 dicembre 1982, n. 228, in Cass. pen. Mass. ann., 1983, p. 557 ss. In tema v. PULITANÒ, op. cit., p. 37 ss.
— 143 — normale regime di punibilità, si deve ritenere che tuttora permanga una disparità di trattamento, in relazione alle informazioni assunte autonomamente dalla polizia giudiziaria, per cui la punibilità del reato di favoreggiamento personale, integrato da incomplete o mendaci dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, in caso di avvenuta ritrattazione, dipenderebbe da un fattore casuale o, comunque, non determinato o determinabile dall’imputato, quale l’iniziativa degli organi di polizia o del pubblico ministero. Questa incongruenza residuata nella disciplina sostanziale delle informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari dalla pubblica autorità, nonostante l’intervento in materia della Corte costituzionale, non è tuttavia l’unica individuabile nella normativa in esame, che si differenzia anche in tema di circostanze e, più in generale, con riguardo alle disposizioni in punto di pena. A seguito della modifica introdotta con la l. 8 agosto 1995, n. 332 (22), il trattamento sanzionatorio stabilito per i reati di cui agli artt. 371-bis e 378 c.p. è apparentemente identico, quanto alla pena edittale, fissata in entrambi i casi nella reclusione fino a quattro anni. Va peraltro sottolineato che, mentre per il reato di false informazioni al pubblico ministero la pena edittale è stabilita in questi termini, indipendentemente dal reato per cui si procede nel procedimento principale, quella stessa pena edittale è comminata per il delitto di favoreggiamento, limitatamente all’ipotesi in cui il presupposto sia costituito dalla avvenuta commissione di un delitto punibile con l’ergastolo o con la reclusione. In altri termini, il trattamento sanzionatorio del favoreggiamento personale è strettamente correlato al tipo e alla gravità del reato presupposto: qualora il reato presupposto sia il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso previsto dall’art. 416-bis c.p., la pena della reclusione non può essere inferiore a due anni; quando invece il reato presupposto sia un delitto punito con la multa o una contravvenzione, si applica la pena della multa fino a un milione. A prescindere dalla qualificazione di tale ultima fattispecie come circostanza attenuante o autonomo titolo di reato rispetto alla fattispecie prevista nel 1o comma dell’art. 378 c.p. (23), è indubbio che ‘‘mentre nel favoreggiamento si distingue in modo assai netto la gravità edittale del delitto in relazione alla gravità del reato presupposto, nella falsa testimonianza’’ così come nel delitto di false informazioni al pubblico ministero, ‘‘il fatto resta, sul piano edittale, del tutto (22) L’art. 25 della l. 8 agosto 1995, n. 332, ha diminuito la pena edittale del reato di false informazioni al p.m., sostituendo l’originaria sanzione della reclusione ‘‘da uno a cinque anni’’ con l’attuale pena della reclusione ‘‘fino a quattro anni’’. (23) Nel primo senso v. Cass., Sez. VI, 22 marzo 1996, Vinci, in CED 204878 e in dottrina MANZINI, op. cit., p. 1005; nel secondo senso cfr. PADOVANI, Favoreggiamento, cit., p. 6.
— 144 — ‘insensibile’ a tali variazioni di gravità’’ (24). A ben guardare, il reato di false informazioni al pubblico ministero — così come quello di falsa testimonianza, di falsa perizia o interpretazione e di frode processuale — risulta aggravato qualora dal fatto derivi una condanna passata in giudicato (25), sempre che le dichiarazioni false o reticenti abbiano avuto un influenza decisiva sulle determinazioni del giudice, sia pure in concorso con altri elementi probatori, e la sentenza di condanna sia sostanzialmente ingiusta (26): gli aumenti di pena previsti sono rapportati alla diversa entità della pena irrogata con la sentenza di condanna nel processo principale. E tuttavia, da un lato, una pronuncia di condanna fondata su dichiarazioni incomplete o false rese alla polizia giudiziaria, acquisite quali prove in dibattimento mediante lettura o contestazioni, non avrebbe alcuna conseguenza sul trattamento sanzionatorio dell’imputato di favoreggiamento personale. Dall’altro, il delitto di false informazioni al pubblico ministero commesso in un procedimento per un reato bagatellare risulta comunque punito con la reclusione fino a quattro anni, mentre il favoreggiamento, nella stessa ipotesi è punito con la sola pena pecuniaria (27). Ancora una volta, sotto un diverso profilo, condotte identiche, inquadrabili nel medesimo contesto spazio-temporale costituito dalla fase delle indagini preliminari, tenute da soggetti gravati degli stessi obblighi e beneficiari delle medesime garanzie, ricevono una regolamentazione diversa a seconda del destinatario delle dichiarazioni in cui si sostanzia la condotta (28). (24) PADOVANI, Commento all’art. 11, cit., p. 118. (25) L’art. 375 c.p. dispone che ‘‘la pena è della reclusione da tre a otto anni se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non superiore a cinque anni; è della reclusione da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna superiore a cinque anni; ed è della reclusione da sei a venti anni se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo’’. (26) In questi termini, con riferimento al reato di falsa testimonianza, v. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, Milano, 1997, p. 459. (27) L’incongruenza è rilevata negli stessi termini, sia pure con riferimento al trattamento sanzionatorio riservato a favoreggiamento personale e falsa testimonianza, punita con la pena della reclusione da due a sei anni, da PADOVANI, Commento all’art. 11, cit., p. 118. (28) Occorre, inoltre, sottolineare che un’ulteriore variante è presente nel sistema di circostanze speciali previsto per le due fattispecie criminose. L’art. 7 della l. 31 maggio 1965, n. 575, in tema di disposizioni contro la mafia, prevede che la pena per il reato di cui all’art. 378 c.p. sia aumentata da un terzo alla metà, se il fatto è commesso da persona già sottoposta a misura di prevenzione con provvedimento definitivo, durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione. Tanto il provvedimento in cui è inserita questa previsione, quanto l’ambito di applicazione di tale circostanza aggravante speciale, nel quale non compaiono altri reati contro l’amministrazione della giustizia, fatta eccezione per il delitto di favoreggiamento reale, fanno ritenere che l’inasprimento delle pene sia previsto per alcuni tipici reati commessi da indiziati di appartenere a associazioni di stampo mafioso e che il legislatore, nell’includere tra tali delitti il favoreggiamento, non abbia preso in considerazione l’ipotesi in cui l’aiuto ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa sia attuato mediante false o reticenti
— 145 — La previsione di due autonome e distinte fattispecie incriminatrici della condotta di chi in sede di indagini preliminari fornisce dichiarazioni false o reticenti, a seconda dell’organo a cui sono destinate, non semplifica inoltre i rapporti tra le diverse figure di reato, la complessità dei quali è di tutta evidenza anche ad un primo e superficiale approccio al tema. Risvolti problematici presenta la relazione tra favoreggiamento personale e falsa testimonianza, tanto nel caso di falsa o reticente deposizione testimoniale resa allo scopo di aiutare un soggetto inquisito, quanto nel caso, che maggiormente interessa in questa sede, in cui le dichiarazioni false o reticenti vengano rilasciate alla polizia giudiziaria e poi reiterate davanti al giudice. Se nella prima ipotesi si prospetta l’alternativa tra concorso formale di reati e concorso apparente di norme (29), nella seconda la giurisprudenza configura un concorso di reati di favoreggiamento personale e falsa testimonianza (30). Analogamente si pongono i rapporti tra favoreggiamento e false informazioni al p.m.: con riferimento alla condotta di favoreggiamento realizzata mediante false o reticenti informazioni al p.m., la Suprema Corte ha escluso il concorso di reati, affermando l’applicabilità della sola norma speciale — l’art. 371-bis — rispetto all’art. 378 c.p., in forza del rapporto unilaterale di specificazione esistente tra le due ipotesi delittuose (31). Diversamente, qualora la persona informata sui fatti rilasci dichiarazioni non rispondenti al vero o parziali prima alla polizia giudiziaria e poi al pubblico ministero, la giurisprudenza ha affermato la configurabilità di un concorso di reati, attesa la diversità di interessi coinvolti nelle due previsioni incriminatrici, a condizione che le false dichiarazioni non siano esattamente sovrapponibili (32). dichiarazioni alla polizia giudiziaria. In ogni caso non si può escludere l’eventualità che la norma e, quindi la circostanza aggravante sia applicata al condannato per favoreggiamento e non all’imputato riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 371-bis c.p. (29) Sul punto v. PISA, op. cit., p. 172; PULITANÒ, op. cit., p. 147 ss. La giurisprudenza esclude in linea di massima il concorso di reati, affermando nel caso di specie la sussistenza del solo reato di falsa testimonianza: v. Cass., Sez. VI, 16 dicembre 1983-3 marzo 1984, Tarantino, in Giust. pen., 1984, III, c. 279; Id., Sez. III, 13 dicembre 1982-26 marzo 1983, Schirripa, in CED 158093; Id., Sez. VI, 13 novembre 1981-15 febbraio 1982, Princi, in CED 152196. Esclude, invece, il rapporto di specialità tra l’art. 382 c.p. e l’art. 378 c.p. Cass., Sez. III, 24 gennaio-5 maggio 1983, Mazzocchi, in CED 158886. (30) La giurisprudenza è costante in tal senso: v, tra le altre, Cass., Sez. VI, 15 marzo 1996, Fiumano, in Guida al diritto, 1996, n. 18, p. 77; Id., Sez. I, 7 febbraio-10 ottobre 1986, Catanoso, in Riv. pen., 1987, p. 459 ss.; Id., Sez. VI, 16 dicembre 1983, Tarantino, cit., c. 279; Id., Sez. I, 24 giugno-20 settembre 1982, Ciarniello, cit. (31) Così Cass., Sez. VI, 12 ottobre-18 dicembre 1998, Forni, in CED 212108. (32) V. Cass., Sez. VI, 18 febbraio 1997, Anastasia, in Riv. pen., 1997, p. 935, la quale ravvisava il concorso di reati limitatamente all’ipotesi in cui le dichiarazioni non fossero identiche, in quanto la ripetizione senza sostanziali modifiche di tali dichiarazioni avrebbe costituito un’attività non punibile, a causa della speciale esimente dell’art. 384, 1o
— 146 — Ancora più problematica l’ipotesi in cui le informazioni mendaci siano assunte dal pubblico ministero e poi reiterate davanti al giudice: in giurisprudenza si è affermato che ogni falsa dichiarazione, compresa quella assunta dal p.m., anche se resa sul medesimo oggetto testimoniale nell’ambito del medesimo procedimento penale, dia luogo ad autonomi e distinti reati di falsa testimonianza (33). Anche sotto questo profilo, dunque, l’assenza di una previsione ad hoc e il ricorso alla figura del favoreggiamento per il mendacio davanti alla polizia giudiziaria alimenta la confusione e l’incoerenza della disciplina posta a tutela della genuinità delle dichiarazioni di chi può portare un utile contributo all’accertamento del fatto di reato e all’individuazione del suo autore. Un’ultima considerazione scaturisce, infine, dal raffronto tra la disciplina sostanziale della testimonianza e quella delle false informazioni al pubblico ministero, a conferma del quadro normativo non sempre univoco. Le due fattispecie incriminatrici, pur sovrapponibili quanto a condotta tipica e in genere con riguardo agli altri elementi del reato, ricevono un diverso trattamento sanzionatorio, sia con riferimento alla pena edittale, sia con riferimento all’applicabilità delle sanzioni sostitutive: l’art. 60 della l. n. 689 del 1981 esclude dal regime delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi il reato di falsa testimonianza, mentre nessuna prescrizione ostativa è stabilita in ordine all’applicabilità di tali sanzioni al delitto di false informazioni al pubblico ministero. La questione di legittimità costituzionale sollevata al riguardo, in riferimento all’art. 3 Cost., è stata ritenuta manifestamente infondata (34), essendo le fattispecie assunte come termini di confronto non omogenee sul piano sanzionatorio. I dubbi sulla ragionevolezza della disciplina, che esclude l’operatività delle sanzioni sostitutive in un caso e l’ammette nell’altro, rappresentano un ulteriore significativo segnale della confusione esistente in tema di repressione delle condotte illecite che mettono in pericolo il corretto funzionamento della giustizia. comma c.p.: un mutamento nella ricostruzione dei fatti avrebbe implicato automaticamente l’ammissione del precedente favoreggiamento personale, non coperto, fino alla recente sentenza della Corte costituzionale n. 101 del 1999, dalla causa di non punibilità della ritrattazione. (33) Cass., Sez. VI, 16 febbraio-21 aprile 1994, Grandinetti, in CED 198477; anche in caso di deposizione mendace davanti a giudici diversi e in successive fasi processuali si è affermata la sussistenza di una pluralità di reati di falsa testimonianza: v. Cass., Sez. VI, 31 marzo-12 luglio 1989, Esposito, in CED 181818; Id., Sez. un., 27 aprile-14 giugno 1985, Amore, in CED 169741. (34) V. ordinanza della Corte cost. 19-23 febbraio 1996, n. 46 in Cass. pen., 1996, p. 1739 e, negli stessi termini, ordinanza della Corte cost. 24-27 marzo 1997, n. 70, in Giur. cost., 1997, p. 721.
— 147 — 5. Anche i risvolti processuali dell’applicazione delle fattispecie penali previste a tutela delle indagini preliminari suscitano qualche riserva soprattutto in relazione ai rapporti tra procedimento principale, all’interno del quale sono state rese le dichiarazioni mendaci, e procedimento per false dichiarazioni. Nell’impianto originario il regime processuale riservato al reato di false informazioni al pubblico ministero presentava qualche variante rispetto alle norme previste per i reati di favoreggiamento personale e di falsa testimonianza. Sotto il profilo della competenza per materia, la cognizione del delitto di false informazioni al pubblico ministero, come quella del reato di falsa testimonianza, era attribuita al tribunale. Successivamente alla riduzione della pena edittale, modificata dall’art. 25 della l. 8 agosto 1995, n. 332, la competenza per il reato di false informazioni al pubblico ministero è stata devoluta al pretore, come in caso di favoreggiamento. Peraltro va sottolineato come l’introduzione del giudice unico e la ridefinizione delle attribuzioni tra tribunale in composizione collegiale e tribunale in composizione monocratica abbia ulteriormente modificato il quadro delle competenze, essendo riservate alla cognizione del tribunale monocratico tutte le ipotesi di mendacio nella deposizione testimoniale, indipendentemente dal destinatario delle dichiarazioni o dalla sede in cui sono rese. Analogamente, in materia di libertà personale il peculiare regime previsto dall’art. 476 c.p.p. con riferimento alla falsa testimonianza, incentrato sul divieto di arresto del testimone in udienza per i reati concernenti il contenuto della deposizione, non risultava esteso all’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 371-bis c.p. L’arresto del terzo informato sui fatti, sospettato di falso o reticenza, era dunque consentito, essendo la pena edittale compatibile con la misura precautelare disciplinata dall’art. 381 c.p.p, e nella prassi veniva operato direttamente dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria su invito del pubblico ministero (35). I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 371-bis c.p. suscitati dal raffronto con la previsione contenuta nel 2o comma dell’art. 476 c.p. (36) e le vivaci e concordi critiche avanzate in dottrina circa la ammissibilità dell’arresto in flagranza della persona informata sui fatti per il delitto di false informazioni (35) Cfr. Cass., Sez. VI, 6 maggio-1 luglio 1994, Accavone, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 679 s.; Id., Sez. IV, 25 giugno 1993, Di Marco, in Giur. it., 1994, II, c. 646, con nota di MASIELLO, Dubbi sulla legittimità dell’arresto in flagranza ordinato dal pubblico ministero, ivi, c. 645; per la giurisprudenza di merito, v. ord. Trib. Milano 4 marzo 1993, Carra, in Giust. pen., II, c. 365. (36) La dottrina aveva evidenziato il contrasto tra l’art. 371-bis c.p. e la direttiva n. 74 della legge delega — che stabilisce il divieto di arresto in udienza del testimone sospettato di testimonianza falsa o reticente — di cui l’art. 476, 2o comma c.p. rappresenta la proiezione. Sul punto, v., RAMAJOLI, op. cit., c. 368.
— 148 — al pubblico ministero (37) hanno determinato un’inversione di tendenza nella giurisprudenza di legittimità (38) e successivamente l’intervento legislativo diretto a uniformare il trattamento processuale riservato a testimoni e dichiaranti sospettati di reticenza o falsità (39). Ora sotto questo profilo, parallelamente a quanto previsto per il reato di falsa testimonianza, è vietato l’impiego di strumenti di coercizione fisica nei confronti della persona richiesta di fornire informazioni alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle. L’arresto in flagranza è precluso, qualunque sia il destinatario delle dichiarazioni sospette, anche in caso di favoreggiamentomendacio, sebbene nelle altre ipotesi previste dal 1o e 2o comma dell’art. 378 c.p. sia consentito. Residuano invece alcune differenze con riguardo ai rapporti tra procedimento principale e procedimento per mendacio. Quanto al trattamento processuale delle condotte verificatesi nel corso del dibattimento o nell’incidente probatorio, e pertanto riconducibili alla fattispecie della falsa testimonianza o del rifiuto di atti legalmente dovuti, l’art. 207 c.p.p. distingue la condotta di chi si sottrae all’ufficio di testimone, rifiutando senza giustificato motivo di deporre, e la condotta di chi deponga il falso o taccia in tutto o in parte ciò di cui è a conoscenza. In caso di renitenza, inquadrabile nella fattispecie incriminatrice di cui al(37) Due ordini di argomentazioni inducevano a negare la configurabilità dell’arresto dell’autore di false informazioni al p.m. e, quindi, a criticare la prassi giudiziaria che si era instaurata, grazie ad una forzatura ermeneutica della normativa allora vigente: da un lato l’irragionevolezza di una disciplina che non estendeva anche alle indagini preliminari le medesime garanzie riservate dall’art. 476, 2o comma c.p.p. al testimone, pur essendo opportuno e necessario anche nella fase preprocessuale evitare pesanti condizionamenti e forzose ritrattazioni, frutto di un atto intimidatorio, quale l’arresto; dall’altro il difetto di legittimazione a disporre la misura precautelare che colpisce tanto l’organo dell’accusa, in capo al quale infatti non è configurabile il potere di arresto, quanto la polizia giudiziaria, che esercita tale potere di propria iniziativa, e non su delega o ordine del pubblico ministero, sempre che abbia la diretta percezione dello stato di flagranza. V. in proposito, LOCATELLI, Opponibilità del segreto professionale e false informazioni rese al pubblico ministero, in Il Fisco, 1993, fasc. 31, p. 8392 ss.; RAVAGNAN, L’art. 371-bis c.p. e l’arresto della persona informata sui fatti d’indagine, in Riv. pen., 1993, p. 898; ID., Illegittimo l’arresto della persona informata sui fatti, asseritamente falsa o reticente, ivi, 1995, p. 167; MARANDOLA, op. cit., p. 1868 ss.; UBERTIS, Assunzioni di informazioni, divieto di arresto e ‘‘nemo tenetur se detegere’’, in Diritto pen. proc., 1995, p. 93. (38) Cfr. Cass., Sez. VI, 25 marzo -11 giugno 1994, Palumbo, in Cass. pen., 1995, p. 1868. (39) L’art. 26 della l. 8 agosto 1995, n. 332, ha modificato l’art. 381 c.p.p., aggiungendo il comma 4-bis che così stabilisce: ‘‘non è consentito l’arresto della persona richiesta di fornire informazioni dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle’’. In merito, v. le interessanti osservazioni di PERONI, Commento all’art. 26 della l. 8 agosto 1995, n. 332, in Legislazione pen., 1995, II, p. 810 e di VOENA, sub art. 26, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, p. 373 s.
— 149 — l’art. 366 c.p., è prevista la trasmissione immediata degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge; in caso di mendacio o reticenza integranti il delitto di cui all’art. 372 c.p, la decisione sull’eventuale trasmissione degli atti alla pubblica accusa è rinviata alla conclusione della fase in cui il testimone ha prestato il suo ufficio (40). Se infatti nella prima ipotesi è evidente l’integrazione del reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti, nella seconda, solo una volta definita la fase in cui ha avuto luogo l’escussione del teste, il giudice sarà in grado di valutare l’ipotetica notitia criminis, anche alla luce dell’apprezzamento del materiale probatorio formatosi nel corso del dibattimento (41); inoltre, qualora la sospetta falsa testimonianza sia stata assunta nel corso della istruzione dibattimentale, solo a conclusione di tale fase processuale si potrà escludere l’intervento della causa di non punibilità prevista dall’art. 376 c.p., posto che, fino alla chiusura del dibattimento, è comunque consentita la ritrattazione. Tale disciplina consente di acquisire agli atti del processo e sottoporre alla valutazione del giudice le dichiarazioni del soggetto sospettato di mendacio, come dichiarazioni testimoniali. Resta, peraltro, al pubblico ministero il potere di procedere in via autonoma, senza attendere la notizia di reato del giudice, qualora ritenga di ravvisare gli estremi della falsità (42). Sulla falsariga della omologa normativa in tema di falsa testimonianza, anche con riguardo al trattamento processuale di fatti penalmente rilevanti commessi in sede di dichiarazioni rese al pubblico ministero, è previsto un regime differenziato a seconda che la persona informata rifiuti di fornire informazioni o viceversa renda dichiarazioni false o reticenti. All’immediata procedibilità in caso di rifiuto di uffici legalmente dovuti, si contrappone la previsione di un meccanismo introdotto con la novella della l. 8 agosto 1995, n. 332, diretto a regolare i rapporti tra procedimenti mediante la sospensione del procedimento per false informazioni al pubblico ministero fino a quando il procedimento nel quale sono state rese le dichiarazioni sia definito con sentenza di primo grado o, anteriormente, con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere (43). Si (40) In argomento, v. RUGGIERI, I testimoni falsi o reticenti, in GALANTINI-RUGGIERI, Scritti inediti di procedura penale, Università degli studi di Trento, 1998, p. 63 ss. (41) La norma risponde più all’esigenza di accrescere il grado di fondatezza della notizia di reato, che a quella di tutelare la posizione del teste: così VOENA, sub art. 25, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, p. 352 s. (42) Cfr. PERDUCA, sub art. 207 c.p.p., in Commento al codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, vol. II, Torino 1990, p. 485; VOENA, sub art. 25, cit., p. 353. (43) La diversa soluzione, fondata sulla configurazione del provvedimento conclusivo del processo di merito come ‘‘condizione di procedibilità’’, ritenuta preferibile da parte della dottrina (v. FRIGO, La riforma della custodia cautelare, in Il Sole-24 Ore, 8 agosto 1995, p. 26), non sarebbe stata praticabile, né idonea a conseguire lo scopo di evitare pressioni o influenze sulla persona indagata per falsità, essendo ammessa dall’art. 346 c.p.p. la
— 150 — mira così a garantire la persona indagata per il reato di false informazioni al p.m. da forme di condizionamento psicologico nel momento della formazione della prova, consentendogli altresì di avvalersi della causa di non punibilità della ritrattazione, possibile ‘‘non oltre la chiusura del dibattimento’’. Le intenzioni garantiste del legislatore risultano, tuttavia, frustrate nell’eventualità in cui, cessata la sospensione, il procedimento per il reato di cui all’art. 371-bis c.p. riprenda il suo corso e il procedimento principale ricominci o torni su se stesso a seguito della riapertura delle indagini, della revoca o dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere o, ancora, dell’impugnazione della sentenza dibattimentale che sfoci in una sentenza di annullamento (44). Dall’art. 371-bis c.p. si possono enucleare il carattere automatico della fattispecie sospensiva, non essendo richiesto un provvedimento ad hoc da parte dell’autorità giudiziaria, e il presupposto in presenza dei quali si produce l’effetto sospensivo: la contemporanea pendenza del procedimento per false o incomplete informazioni al pubblico ministero e del procedimento nel quale sono state rese le informazioni. In assenza di previsioni specifiche e di una normativa organica sulle fattispecie sospensive del processo penale, risulta problematico individuare le conseguenze dirette e indirette dell’avvenuta sospensione sul piano processuale e sostanziale. In particolare ci si chiede se la temporanea paralisi dell’attività processuale, connaturata ad ogni fenomeno di sospensione, sia assoluta o se, viceversa sia consentito compiere determinate categorie di atti processuali. Il dato normativo sembra escludere il compimento di ogni attività processuale. Il riferimento alla sospensione del ‘‘procedimento’’ induce a ritenere vietato qualunque atto successivo all’iscrizione della notizia di reato nel relativo registro e all’eventuale trasmissione degli atti alla procura competente, e quindi a considerare preclusi al pubblico ministero l’eventuale iniziativa circa l’applicazione di una misura cautelare e il compimento di qualsiasi atto investigativo, anche quelli urgenti o indifferibili (45), con la conseguenza che gli atti compiuti durante e nonostante la paralisi del procedimento devono essere considerati inutilizzabili (46). Le conseguenze negative derivanti dalla lettura restrittiva possibilità di assicurare fonti di prova e di effettuare l’incidente probatorio: v. VOENA, sub art. 25, cit., p. 355. (44) V. VOENA, sub art. 25, cit., p. 361 s. (45) Avvalorano tale tesi da un lato la circostanza che, sia in caso di sospensione del procedimento per incapacità dell’indagato a parteciparvi coscientemente, sia nell’ipotesi di sospensione per ricusazione del giudice, il legislatore abbia espressamente previsto il compimento di atti urgenti, dall’altro l’intenzione sottesa alla norma di evitare condizionamenti psicologici sulla persona indagata per il reato di cui all’art. 371-bis: in questi termini, v. VOENA, sub art. 25, cit., p. 360. Dello stesso avviso, cfr. LOCATELLI, La nuova disciplina del reato di false informazioni al pubblico ministero, in Il Fisco, 1995, fasc. n. 46, p. 10973. (46) V. VOENA, sub art. 25, cit, p. 360.
— 151 — della norma, ed in particolare il rischio che la mancata tempestiva acquisizione degli elementi probatori a carico, ma anche a favore dell’indagato, possa pregiudicare tanto l’esito delle indagini quanto le chanches dell’imputato, sarebbero scongiurate se solo si considerasse applicabile in via analogica al caso di specie la regola, dettata per altre fattispecie sospensive (47), che consente il compimento di atti urgenti anche in caso di quiescenza del processo (48). Ma, anche aderendo a tale tesi, il meccanismo sospensivo previsto dall’art. 371-bis c.p., non potrà non avere ripercussioni sul procedimento per falsità: la sostanziale inattività di carattere investigativo fino alla pronuncia della sentenza di primo grado non potrà che comportare ‘‘un appiattimento dell’istruttoria sul falso sulla piattaforma probatoria del procedimento principale’’ (49), attraverso l’acquisizione dei verbali degli atti probatori, in forza dell’art. 238 c.p.p. Il pregiudizio che ne deriva all’imputato di false informazioni al pubblico ministero è palese: il rischio di essere giudicato quasi esclusivamente sulla base di prove formate in altro processo, in sua assenza, è reale. L’art. 238 c.p.p., infatti, non pone limiti soggettivi alla utilizzabilità dei risultati di prova ottenuti nell’incidente probatorio o nel dibattimento di altro procedimento penale e i temperamenti che la disciplina presenta non sono sufficienti a fronte delle implicazioni derivanti dai principi contenuti nell’art. 24, 1o e 2o comma Cost. La regola generale subisce, infatti, una deroga per le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p.: in tal caso il comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p. subordina l’utilizzabilità di tali dichiarazioni alla condizione che il difensore dell’imputato contro cui devono essere usate abbia partecipato alla loro assunzione nel procedimento a quo e, in man(47) È ammesso il compimento di atti urgenti, in caso di (e nonostante la) sospensione del processo per la definizione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza (art. 3, 3o comma c.p.p.), per la decisione sulla richiesta di ricusazione (art. 41, 2o comma c.p.p.), per decisione sulla rimessione del processo (art. 47, 2o comma c.p.p), per l’incapacità dell’imputato (art. 70, 4o comma c.p.p.). (48) La tesi è stata avanzata dalla dottrina con riferimento all’applicabilità in via analogica del terzo comma dell’art. 3 c.p.p. all’ipotesi di sospensione prevista dall’art. 479 c.p.p. — v. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 1996, p. 665; MARZADURI, Commento all’art. 479 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di CHIAVARIO, V, Torino, 1991, p. 104; UBERTIS, La sospensione del processo penale, in Enc. del dir., aggiornamento, Milano, 1997, p. 942 — ed è stata ripresa con riferimento alla sospensione del procedimento per false informazioni al p.m. da PERONI, Commento all’art. 25, cit., p. 805. La dottrina, peraltro, già con riferimento alle fattispecie sospensive disciplinate dal codice del 1930 aveva prospettato tale soluzione: cfr. CHIAVARIO, La sospensione del processo penale, Milano, 1967, p. 342 ss. (49) PERONI, op. cit., p. 806. Negli stessi termini, cfr. VOENA, sub art. 25, cit., p. 367, il quale ritiene molto alta ‘‘la probabilità che il procedimento per falsità si caratterizzi come un procedimento cartolare e, pertanto, meno garantito’’, in cui ‘‘la partita finirà per essere giocata solo sul terreno della sussistenza dell’elemento soggettivo’’.
— 152 — canza di tale partecipazione, al consenso dell’imputato, ai sensi del 4o comma dell’art. 238 c.p.p. Tuttavia, anche in mancanza di tale consenso, le dichiarazioni rese dai soggetti contemplati dall’art. 210 c.p.p., così come le altre dichiarazioni, assunte in un contesto diverso da quello del dibattimento, dell’incidente probatorio o del giudizio civile, acquistano rilevanza ai fini delle contestazioni (50). Nel complesso non si può, dunque, negare che prove formatesi in altro procedimento vengano introdotte e poste a fondamento della decisione del processo instaurato per il reato di cui all’art. 371-bis c.p., senza che il difensore dell’imputato abbia partecipato alla loro formazione. Resta certamente la possibilità di esercitare il diritto, riconosciuto alle parti dal 5o comma dell’art. 238 c.p.p., di ottenere l’esame delle persone le cui dichiarazioni, rese in altro procedimento, siano state acquisite a norma dei commi 1o, 2o, 2o-bis, ma la portata della norma è indubbiamente affievolita dal limite posto dall’art. 190-bis c.p.p. e dalla utilizzabilità delle dichiarazioni ai fini delle contestazioni. Ma i riflessi del congegno sospensivo, che regola i rapporti tra procedimento per false informazioni al pubblico ministero e procedimento in cui tali dichiarazioni sono state assunte, sono visibili anche sul procedimento principale. Anche in questo caso, la sola iscrizione della notizia di reato nel relativo registro da parte del pubblico ministero, che abbia ritenuto depistanti le informazioni assunte dal terzo informato sui fatti, muta la posizione processuale del soggetto nell’ambito del giudizio principale, non potendo questi più assumere la veste di testimone in quella sede. Anche escludendo il vincolo della connessione tra i procedimenti in esame (51), residua, infatti, un nesso probatorio ai sensi dell’art. 371 lett. b) c.p.p. che determina appunto un’incompatibilità a testimoniare in capo alla persona imputata del reato collegato a quello per cui si procede, ai sensi dell’art. 197 lett. b). La regola, applicabile anche alla persona sottoposta ad indagini (52) non contempla eccezioni, a differenza di quanto è (50) A seguito della sentenza della Corte cost. n. 361 del 1998 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, tra l’altro, dell’art. 238, 4o comma c.p., tali dichiarazioni potranno essere utilizzate anche ai sensi dell’art. 500 comma 2-bis, c.p.p.: v. sent. Corte cost. 26 ottobre-2 novembre 1998, n. 361, con nota di GIARDA, in Appendice di aggiornamento al codice di procedura penale, Milano, 1998. (51) Cfr. ANTONELLI, False informazioni al p.m.: un caso di collegamento probatorio fra procedimenti?, in Diritto penale e processo, 1996, n. 9, p. 1146; di diverso avviso LOCATELLI, La nuova disciplina del reato di false informazioni al pubblico ministero, cit., p. 10972 s., il quale, peraltro, esclude comunque il simultaneus processus a causa della sospensione del procedimento per il reato di cui all’art 371-bis. (52) Secondo l’orientamento prevalente, l’incompatibilità con l’ufficio del testimone sarebbe estesa, in forza dell’art. 61 c.p.p., anche ai soggetti sottoposti a alle indagini preliminari, in considerazione della ratio di garanzia sottesa al divieto stabilito dall’art. 197 lett. a) e lett. y) c.p.p. Si vedano in giurisprudenza, tra le altre, Cass., Sez. VI, 10 aprile-18 luglio
— 153 — stabilito per l’imputato in un procedimento connesso, che può nuovamente prestare l’ufficio di testimone, se prosciolto con sentenza irrevocabile. Peraltro, tale eventualità non è, di regola, neppure astrattamente configurabile per la persona indagata per la violazione dell’obbligo di rispondere secondo verità, non essendo possibile, non solo definire, ma neppure dare seguito a tale procedimento, stante il congegno sospensivo previsto dall’art. 371-bis c.p. (53). I fatti a conoscenza del terzo, indagato nel collegato procedimento per falsità potranno, dunque, essere riferiti ed acquisiti al procedimento principale solo attraverso l’esame ai sensi dell’art. 210 c.p.p. o gli interrogatori ex artt. 363, 392, 422 c.p.p. (54). L’impossibilità di essere sentito come teste nel procedimento principale, peraltro, determina l’inoperatività della causa speciale di non punibilità della ritrattazione. Per essere efficace, infatti, la ritrattazione, deve intervenire nell’ambito dello stesso procedimento in cui si è verificata la falsità o la reticenza, non oltre la chiusura del dibattimento. La contraddizione apparentemente insanabile potrebbe essere superata ridefinendo la figura del soggetto chiamato a rispondere in un procedimento sospeso di false informazioni al pubblico ministero e al tempo stesso sentito ai sensi dell’art. 363 o dell’art. 210 c.p.p. nel procedimento principale e, di fatto, accentuando il carattere ibrido del ruolo processuale rivestito da tale soggetto: da un lato equiparato all’imputato e quindi tutelato dalle garanzie previste dall’art. 210 c.p.p., dall’altro accomunato al testimone, ai soli fini della ritrattazione (55). Solo estendendo l’operatività della ritrattazione all’interrogatorio e all’esame dibattimentale ‘‘si comprende la protrazione della sospensione del procedimento per falsità sino alla sentenza di primo grado’’ (56). 1995, Ascia, in Cass. pen., 1996, p. 2388; Id., Sez. VI, 11 aprile-1 giugno 1994, Curatola, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 155; Id., Sez. VI, 4 novembre-14 dicembre 1993, Grasso, ivi, 1994, p. 593; Id., Sez. VI, 4 giugno-7 settembre 1993, Mosole, ivi, 1993, p. 732 e, in dottrina, PERDUCA, sub art. 197, in Commento al codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, vol. II, Torino, 1990, p. 450 ss; GIOSTRA, Sull’incompatibilità a testimoniare anche dopo il provvedimento di archiviazione, in Giur. cost., 1992, p. 991. (53) Anche nella non frequente ipotesi in cui, cessata la sospensione, il procedimento per il delitto di cui all’art. 371-bis c.p. si avviasse e il processo principale dovesse riaprirsi o regredire al primo grado di giudizio a seguito di riapertura delle indagini o revoca della sentenza di non luogo a procedere o di annullamento della sentenza dibattimentale, sarebbe ben difficile che il giudizio per falsità si chiudesse con sentenza irrevocabile prima dell’istruzione dibattimentale del procedimento principale. (54) V. VOENA, sub art. 25, cit., p. 365. (55) Tale espediente è stato suggerito da PERONI, op. cit., p. 809, sulle orme di una dottrina formatasi con riferimento al sistema processuale previgente: v. BARGIS, Incompatibilità a testimoniare e connessione di reati, Milano, 1990, p. 204 ss. (56) VOENA, sub art. 25, cit., p. 366, il quale non ritiene vi siano ostacoli a coltivare tale prospettiva, essendo la ritrattazione ‘‘istituto sostanziale e, perciò, riferito dall’art. 376 c.p. al ‘colpevole’ ’’.
— 154 — Nessuna previsione espressamente regolamenta, invece, i rapporti intercorrenti tra il procedimento per il reato di favoreggiamento personale commesso mediante dichiarazioni non rispondenti al vero o parziali rese alla polizia giudiziaria e il procedimento nell’ambito del quale tali dichiarazioni sono state verbalizzate. Si ritiene quindi applicabile nel caso di specie la regola generale dell’immediata procedibilità per il c.d. favoreggiamento-mendacio. L’instaurazione del procedimento per il reato di favoreggiamento personale non dipende dalla sorte del procedimento principale: i due processi potranno avere vita autonoma o, viceversa, sussistendo nel caso di specie un’ipotesi di connessione di procedimenti ex art. 12 lett. c) c.p.p, essere celebrati davanti al medesimo giudice, sempre che ricorrano le condizioni richieste dall’art. 17 c.p.p. L’attività di indagine e di istruzione probatoria nell’ambito del processo per favoreggiamento potrà essere svincolata da quella compiuta nel procedimento principale, soprattutto nel caso in cui non si sia proceduto alla riunione dei processi. In tal caso la decisione sul favoreggiamento si fonderà su un quadro probatorio formatosi in via autonoma (57), di cui potrebbero, ciononostante, far parte i verbali delle prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento del procedimento principale e acquisiti ai sensi dell’art. 238 c.p.p. L’instaurazione del procedimento per favoreggiamento non è, peraltro, senza conseguenze per il procedimento principale, incidendo significativamente sulla posizione del soggetto che ha rilasciato dichiarazioni mendaci alla polizia giudiziaria. L’assunzione della qualità di imputato in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 lett. c), determina un’incompatibilità con l’ufficio di testimone, secondo il disposto dell’art. 197 lett. a) c.p.p.: il soggetto sentito nelle indagini preliminari dalla polizia giudiziaria, divenuto imputato o, anche solo persona sottoposta alle indagini (58), non può essere sentito come referente dal pubblico ministero a norma dell’art. 362 c.p.p., né come teste in dibattimento, fatta eccezione per l’ipotesi in cui il processo per favoreggiamento si sia concluso con una sentenza di proscioglimento divenuta irrevocabile. Diversamente le di(57) Quanto alla rilevanza probatoria delle informazioni integranti il delitto di favoreggiamento, la giurisprudenza ha affermato la legittimità del loro inserimento nel fascicolo per il dibattimento ai sensi dell’art. 431 lett. f) c.p.p. Poiché tali dichiarazioni costituiscono lo strumento attraverso il quale è stato commesso il reato oggetto del processo, il relativo verbale assume rilevanza non come atto processuale, ma come documento che costituisce il corpo del reato: in questa veste le dichiarazioni vengono inserite tra gli atti destinati alla cognizione del giudice e possono essere lette e utilizzate nel dibattimento. Sul punto v. Cass., Sez. I, 24 marzo-13 settembre 1994, p.m. (concl. conf.), in Cass. pen., 1996, p. 134, con nota adesiva di GARUTI, op. cit., p. 145 e, più recentemente, Cass., Sez. VI, 29 ottobre 1996, Bontempo, in CED 206509. (58) Sul punto v. supra nota n. 52.
— 155 — chiarazioni di tale soggetto verrebbero recuperate al dibattimento mediante l’esame ai sensi dell’art. 210 c.p.p. Eccettuata l’eventualità di un proscioglimento irrevocabile, che consentirebbe l’audizione del dichiarante come teste, si ripropongono le stesse problematiche evidenziate con riferimento ai rapporti tra procedimento per false informazioni al pubblico ministero e procedimento principale; in particolare, proprio in seguito alla sentenza della Corte costituzionale che ha affermato l’applicabilità della ritrattazione al reato di favoreggiamento personale commesso mediante false informazioni rese alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero, si profila anche in questo caso l’antinomia già sottolineata: l’impossibilità di conciliare in capo al dichiarante, sottoposto a procedimento per favoreggiamento, la facoltà di ritrattare riconosciuta al teste, nell’ambito del procedimento in cui è chiamato a deporre, al fine di escludere la punibilità, e l’incompatibilità a testimoniare prevista per l’imputato di reato connesso. La soluzione ipotizzabile, naturalmente calzante anche in questo caso, mette in risalto, tuttavia, una possibile ulteriore discrasia nel trattamento processuale del favoreggiamento personale, e quindi, in ultima analisi, del soggetto che rende informazioni alla polizia giudiziaria. Non si può infatti escludere in astratto, l’eventualità, sia pure, con ogni probabilità, remota, che il procedimento per favoreggiamento personale, sia celebrato e definito prima che il dichiarante, sia chiamato nel processo principale a ‘‘deporre’’. Le differenze che la disciplina processuale del favoreggiamento presenta rispetto a quella del reato di false informazioni al p.m. sono tutte riconducibili alla mancata previsione del meccanismo sospensivo del procedimento per favoreggiamento in attesa della definizione di quello principale. La disparità di trattamento riservato sul piano processuale alle due fattispecie criminose che tutelano lo stesso bene giuridico e hanno la stessa ratio, legittima il dubbio sulla conformità della normativa ai principi costituzionali (59) e in particolare al principio di ragionevolezza. (59) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 371-bis c.p. nella parte in cui sospende la procedibilità fino a quando nel procedimento nel corso del quale sono state assunte informazioni sia stata pronunciata sentenza di primo grado o il procedimento sia stato definito anteriormente con archiviazione o sentenza di non luogo a procedere, è stata sollevata dal g.i.p. presso il Tribunale di Napoli, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 112 Cost.: v. ord. G.i.p. Trib. Napoli 3 dicembre 1996, Carano, in Riv. pen., 1997, p. 143. La questione è stata una prima volta dichiarata inammissibile, in quanto priva del requisito della rilevanza (v. ord. Corte cost. 18-30 luglio 1997, n. 300, in Giur. cost., 1997, p. 2700) e, successivamente riproposta dal medesimo giudice, è stata nuovamente dichiarata inammissibile, sia pure con diverse argomentazioni, sempre per mancanza di rilevanza (ord. Corte cost. 7-17 luglio 1998, n. 288, in Giur. cost., 1998, p. 2191).
— 156 — Non sembra di poter affermare che la sospensione del procedimento limiti fortemente o addirittura impedisca l’azione repressiva, determinando la sostanziale impunità degli autori del reato, in violazione degli artt. 2 e 13 Cost., che sanciscono il compito dello Stato di garantire i diritti inviolabili dell’uomo e la inviolabilità della libertà personale, anche attraverso l’essenziale funzione statuale di tutela della collettività e di repressione dei reati; né pare ravvisabile un contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che richiederebbe l’esperimento dell’azione penale senza impedimenti di sorta (60): il meccanismo sospensivo previsto dall’art. 371-bis costituisce un ostacolo temporaneo al compimento di atti processuali e all’esercizio dell’azione penale, che, per quanto potenzialmente pregiudizievole per l’esito delle indagini, non sconfessa l’obbligatorietà dell’azione penale né impedisce la repressione del reato. Allo stesso modo non pare del tutto convincente fondare la censura di incostituzionalità sulla violazione del diritto di difesa in caso di sospensione, potendo tale diritto esplicarsi in tutta la sua ampiezza una volta verificatisi i fatti giuridici che fanno venir meno la sospensione (61). Certamente l’impossibilità di compiere atti processuali in attesa della definizione del procedimento principale può avere ripercussioni negative sia sull’epilogo del processo sia sugli interessi dell’imputato, soprattutto qualora si intendesse la norma in senso restrittivo, negando ai soggetti processuali la facoltà di compiere qualunque atto, anche quelli urgenti o indifferibili. Tuttavia, ciò giustifica le riserve già espresse, ma non i dubbi di legittimità costituzionale, tanto più se si opta, come pare preferibile, per l’interpretazione analogica della norma, che consente il compimento degli atti urgenti in caso di quiescenza del procedimento. Il dubbio circa la conformità della disciplina, persiste, quindi, non tanto in riferimento ai parametri individuati negli artt. 2, 13, 24 e 112 Cost., quanto con riguardo alla manifesta irragionevolezza di una disciplina differenziata rispetto a figure criminose aventi la stessa ratio e lo stesso bene giuridico da tutelare. Se è vero che è rimesso all’apprezzamento discrezionale del legislatore stabilire l’opportunità o meno che in casi come quello in esame l’accertamento della veridicità delle dichiarazioni avvenga prioritariamente e senza interferenze di altri procedimenti in quello principale (62), è altrettanto vero che la scelta del legislatore deve fondarsi su criteri univoci. La sospensione del procedimento per il delitto previsto dall’art. 371-bis c.p. è dettata dall’esigenza di garantire la libertà morale e di autodeterminazione della persona inda(60) Questi, tra gli altri, i parametri costituzionali indicati dal giudice che ha sollevato la questione di legittimità dell’art. 371-bis c.p.: v. ord. G.i.p. Trib. Napoli 3 dicembre 1996, Carano, cit., p. 143 s. (61) In questi termini, Cass., Sez. VI, 15 ottobre 1996, Di Trocchio, in Giust. pen., 1998, III, c. 355. (62) Ibidem.
— 157 — gata per il reato di false informazioni da forme di condizionamento psicologico esercitabili dal pubblico ministero nel momento in cui nel procedimento principale l’organo dell’accusa è ‘‘processualmente’’ interessato alla formazione della prova. La necessità di preservare l’indagato da possibili pressioni ad opera del pubblico ministero si presenta, a ben vedere, anche nel caso di reato di favoreggiamento commesso mediante mendaci dichiarazioni alla polizia giudiziaria. Il regime differenziato previsto per le due figure criminose non pare giustificato dall’unico elemento che distingue le fattispecie sul piano processuale e che conseguentemente comporta la loro sussunzione sotto norme incriminatrici diverse: l’organo cui sono rese le dichiarazioni. L’immediata procedibilità in un caso e la sospensione del procedimento nell’altro non trova giustificazione. 6. Il trattamento del soggetto invitato a riferire quanto a sua conoscenza agli organi investigativi e rivelatosi mendace o reticente non è dunque uniforme, né sul piano sostanziale — considerate le diverse fattispecie criminose configurabili a seconda del destinatario delle dichiarazioni —, né sul piano processuale. Le differenze che residuano, a volte significative, a volte pressoché ininfluenti, sono comunque indicative della necessità di porre mano alla materia, ridisegnando in maniera sistematica e organica la tutela penale della formazione della prova e dello svolgimento delle indagini preliminari, e i rapporti tra processo principale e procedimenti diretti a perseguire i fatti penalmente rilevanti commessi in vista o nel corso di una deposizione lato sensu testimoniale. Quanto mai opportuno e auspicabile appare un adeguamento legislativo, non solo in relazione ai singoli aspetti della tutela penale predisposta in caso di mendaci o parziali informazioni rese nel corso delle indagini preliminari, ma anche e soprattutto con riferimento alle fattispecie di reato configurabili in caso di dichiarazioni false rese alla polizia giudiziaria. Nel senso di un adattamento parziale della normativa prevista, spingono il carattere derogatorio delle previsioni relative alle cause di non punibilità contenute negli artt. 376 e 384, 2o comma c.p. e il differente trattamento sanzionatorio previsto con riguardo sia alla pena edittale, sia al sistema delle circostanze. A favore di un più radicale intervento legislativo che introduca una specifica fattispecie criminosa per le false dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria, che risultino essere non rispondenti al vero o reticenti, pesano le riserve suscitate dalla repressione di tali condotte illecite, attuata mediante l’applicazione dell’art. 378 c.p. La tutela, eventuale e indiretta, offerta dal favoreggiamento personale rappresenta una soluzione inade-
— 158 — guata (63), non potendosi escludere che il comportamento di chi mente alla polizia giudiziaria non sia riconducibile alla fattispecie legale prevista dall’art. 378 c.p. Per la configurazione di tale reato, infatti, è necessario che la condotta sia idonea a prestare aiuto alla persona favorita, al fine di eludere le indagini o sottrarsi alle ricerche e che il soggetto, chiamato a rendere dichiarazioni, agisca con la consapevolezza e la volontà di portare aiuto a chi sia sottoposto a investigazioni e ricerche dell’Autorità. L’eventualità che non risulti integrato il reato di favoreggiamento personale per mancanza di una condotta idonea allo scopo o per l’insussistenza del dolo non è peregrina. In mancanza di una fattispecie ad hoc il fatto non sarebbe sussumibile sotto alcuna fattispecie incriminatrice: l’irrilevanza penale del fatto non sarebbe in alcun modo giustificabile, essendo la stessa condotta sempre penalmente perseguibile, se tenuta davanti al pubblico ministero. Un intervento legislativo inteso al riordino, se non al ripensamento, della materia sarebbe peraltro auspicabile, a ben vedere, con riguardo all’intera disciplina sostanziale e processuale delle deposizioni lato sensu testimoniali. L’entrata in vigore del nuovo codice aveva da subito messo in evidenza l’esigenza di una revisione delle fattispecie previste a tutela del corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia (64). L’introduzione dell’autonoma fattispecie incriminatrice per il mendacio e la reticenza davanti al pubblico ministero durante le indagini preliminari, se anche ha rappresentato ‘‘il tardivo soddisfacimento di un onere che il legislatore si era assunto con l’approvazione del vigente codice di rito’’ (65), non ha fatto venire meno la necessità di adeguare la disciplina penale al sistema processuale attuale, ma al contrario ha creato, come si è visto, risvolti problematici non trascurabili. L’attuale assetto della materia, così come un eventuale progetto di riforma, risentono tuttavia, inevitabilmente, delle caratteristiche del modello processuale di riferimento. In un sistema di tipo accusatorio, in considerazione dei diversi obiettivi delle indagini preliminari — tese alla ricostruzione dei fatti e alla ricerca degli elementi di prova necessari per le determinazioni inerenti all’e(63) In questi termini, sia pure con riferimento all’applicabilità dell’art. 378 c.p. in caso di falsità o reticenza delle dichiarazioni rese al pubblico ministero, prima dell’introduzione del delitto di cui all’art. 371-bis c.p., v. PADOVANI, Commento all’art. 11, cit., p. 116. (64) In tal senso PADOVANI, loc. ult. cit., p. 115. L’istanza di un adeguamento dell’intera disciplina penale sostanziale in concomitanza con la riforma del processo penale era stata da più parti avanzata: v., per tutti, BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Indice penale, 1989, p. 336 ss.; PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1989, p. 922 s; FERRUA, Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, p. 13. (65) PADOVANI, Commento all’art. 11, cit., p. 115.
— 159 — sercizio dell’azione penale — e del dibattimento — volto all’accertamento della ipotesi accusatoria mediante la formazione della prova in contraddittorio —, sembrerebbe corretto e opportuno distinguere le esigenze di tutela delle indagini preliminari da quelle di tutela della prova: un conto è tutelare la formazione, davanti al giudice, della prova come strumento di giudizio; un conto è tutelare l’attività investigativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria perché non sia fuorviata o impedita. In questo contesto la diversa incidenza della falsa testimonianza — sulla prova — e delle false o reticenti informazioni — sull’attività investigativa e sulla ricerca dell’indagato — potrebbe giustificare una disciplina del reato di falsa testimonianza diversa rispetto a quella delle fattispecie poste a tutela delle indagini preliminari. Viceversa, in un sistema processuale in cui si è affermata con forza la presenza del principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente o genuinamente acquisibili con il metodo orale, la tutela penale delle indagini non può essere apprestata senza tenere nella dovuta considerazione che quelle fonti di prova raccolte nella fase preprocessuale, la cui veridicità si mira a garantire, sono suscettibili di acquisire piena rilevanza probatoria in dibattimento. La ridefinizione del settore dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, per essere efficacemente operata, richiederebbe quindi un contesto processuale di riferimento univoco e quindi, in ultima analisi, un radicale intervento del legislatore sulla struttura del processo. La prospettiva non sembra al momento profilarsi. Ben più probabile pare l’eventualità di frequenti ritocchi apportati a livello normativo e giurisprudenziale. In questa prospettiva, il trattamento omogeneo di condotte identiche tenute nello stesso contesto del procedimento, sebbene davanti a organi investigativi diversi, l’introduzione di un’analoga disciplina per l’assunzione di informazioni ad opera del difensore della persona indagata — non solo sul piano processuale, stabilendo le modalità di documentazione di tali dichiarazioni e definendo il loro valore, ma anche sul piano sostanziale, predisponendo un’adeguata tutela penale —, la semplificazione e l’uniformità dei complessi rapporti tra procedimento principale e procedimento per falsità, sia che si tratti di false informazioni al p.m., sia che si tratti di favoreggiamento-mendacio, si pongono come obbiettivi primari. PAOLA CORVI Ricercatrice di procedura penale Università Cattolica del S. Cuore di Milano
SISTEMA SANZIONATORIO E RIFORMA DELLE MISURE ALTERNATIVE
IL SISTEMA SANZIONATORIO TRA COLLASSO E PROSPETTIVE DI RlFORMA (*)
1. Il problema. — In una visione avveniristica, vale ancora la massima di Jescheck: ‘‘la pietra angolare di ogni sistema sanzionatorio moderno riposa nei surrogati della pena detentiva’’. È infatti ancora opinione comune che in futuro il compito della politica criminale non risiederà nel miglioramento della pena detentiva, bensì nella sua progressiva eliminazione: ogni privazione della libertà in qualunque stabilimento penitenziario, anche pensato con la più ampia fantasia rinnovatrice, provoca danni alla personalità così certi da rendere difficile, se non derisorio, qualunque obiettivo di risocializzazione (1). Nondimeno, si deve ripetere quanto si osservò più di vent’anni fa: per molto tempo ancora sarà la pena detentiva a fungere da pietra angolare di ogni sistema sanzionatorio. La storia del sistema sanzionatorio evolve infatti in tempi molto più lunghi delle idee sulla funzione della pena — più lunghi della stessa evoluzione, anche radicale, dell’organizzazione politico-sociale — perché è storia intrisa di momenti irrazionali suscitati da bisogni collettivi di sicurezza, reali o artificiosi, che tendono a frenare fortemente qualunque domanda di cambiamento radicale (2). Solo in una prospettiva storica di lunghissimo periodo si possono osservare le ‘‘gigantesche rivoluzioni che ha subito la fisionomia della pena nel corso dei tempi’’, di cui ha parlato una volta Jhering, traendone la notissima conclusione. ‘‘la storia della pena è una continua abolizione’’. Quanto enorme sia in effetti lo spazio temporale richiesto da questa tendenza all’aboli(*) Il testo riproduce, con poche variazioni, la relazione tenuta il 2 aprile 1998 a un convegno promosso dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dal CNR, i cui atti sono stati pubblicati nel 1999 (AA.VV., Le risposte penali all’illegalità, Atti dei Convegni Lincei, n. 150, 1999). Alla bibliografia originaria, solo esemplificativa, sono state aggiunte citazioni di mero aggiornamento. (1) Cfr. MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, ora in MARINUCCI-DOLCINI, Studi di diritto penale, 1991, p. 77; sulla limitazione degli effetti desocializzanti del carcere, come unico obiettivo realistico della ‘‘risocializzazione’’ del condannato a pene detentive, fondamentale DOLCINI, ‘‘La rieducazione del condannato’’ tra mito e realtà, in MARINUCCI-DOLCINI, Studi di diritto penale, cit., p. 135 ss. (2) MARINUCCI, Politica criminale, cit., p. 54 ss.
— 161 — zione può già mostrarlo una semplice occhiata alla storia della pena di morte: nei due secoli e più dalla pubblicazione del ‘‘libriccino’’ di Beccaria si è assistito a una restrizione lentissima del suo campo di applicazione (3), culminata nell’abolizione. ma solo negli ultimi decenni, solo in pochi fra i tanti paesi civili e non senza drammatiche inversioni di rotta: come accadde in Italia sotto il fascismo (4), e dal ’76 nella stragrande maggioranza degli Stati della Confederazione statunitense (5). Le cose non vanno diversamente con la pena detentiva. Dopo due secoli di predominio nel catalogo delle sanzioni, si è levata nel secondo dopoguerra una ventata abolizionistica, ben presto però rientrata nell’arcipelago delle utopie spensierate. Oggi, anche gli abolizionisti — i più seri, come Christie e Mathiesen (6) — non possono non registrare che l’uso del carcere non regredisce, anzi è in espansione in tutti i paesi occidentali — anche in Germania, che sembrava muoversi in controtendenza — per tacere degli USA, la cui popolazione carceraria è a tal punto in continua impressionante crescita, da creare seri problemi finanziari a molti Stati, costretti a edificare e a progettare sempre nuovi stabilimenti penitenziari (7). Breve: ogni pensabile riforma del sistema sanzionatorio deve muovere, oggi, da due presupposti ineludibili: — la pena detentiva resterà, per molto tempo ancora, la pena per eccellenza; — l’unica riforma possibile può andare solo nel senso della restrizione del campo di applicazione delle pene di breve durata destinate alla criminalità medio-piccola, introducendo sanzioni alternative e sostitutive, meno desocializzanti, ma non meno efficaci delle pene detentive brevi. Quando perciò oggi si solleva l’interrogativo: ‘‘il carcere ha alternative?’’, si sta in effetti pensando di dare risposta a un interrogativo molto meno ambizioso: ‘‘quali sanzioni possono sostituire le pene di breve durata?’’ (8). (3) Cfr. il dettagliato quadro storico-comparatistico, dal primo ottocento al secondo, tracciato da DÜSING, Die Geschichte der Abschaffung der Todesstrafe in der Bundersrepublik Deutschland, 1952. (4) Cfr. DOLCINI, Codice penale, in MARINUCCI-DOLCINI, Studi di diritto penale, cit., pp. 20 e 33 ss. (5) Cfr. ZIMRING-HAWKINS, Capital punishment and the American Agenda, 1986, BEDAU (a cura di), The Death Penality in America: Current Controversies, 1997. (6) CHRISTIE, Crime control as Industry, 1994; MATHIESEN, Perché il carcere?, tr. it. 1996, p. 203 ss. (7) ZIMRING-HAWKINS, The scale of imprisonment, 1991; ID., Prison Population and Criminal Justice Policy in California, 1992. La cruda realtà, non solo statunitense, sembra confutare gli argomentati auspici di MATHIESEN, The Arguments against Building more Prisons, in BISHOP (a cura di), Scandinavian Criminal Policy and Criminology 1980-85, p. 89 ss. (8) Cfr. il ricchissimo e dettagliato esame di DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, 1989.
— 162 — 2. Le scelte del legislatore italiano. — Molti Paesi europei — Germania, Austria, Portogallo, Francia, Spagna — hanno imperniato nel dopoguerra il lavoro di riforma dei loro codici penali proprio sulla ricerca di sostitutivi e alternative alle pene detentive brevi, pensando a sanzioni meno costose sul piano umano e sociale, da utilizzare per reati di modesta entità commessi, soprattutto. dai c.d. delinquenti occasionali, cioè da persone che non lasciano temere la commissione di nuovi reati, dopo il primo reato realizzato occasionalmente. Anche l’Italia, pur non essendo riuscita a soppiantare il codice del 1930 con una nuova codificazione, ha introdotto, con riforme parziali, una serie di pene sostitutive e alternative alle pene detentive brevi. Ed anche in Italia la logica che ha ispirato queste riforme del sistema sanzionatorio è quella consueta: ‘‘no’’ alle pene detentive brevi per gli autori occasionali di reati di piccola o medio-piccola entità; ciò che va infatti sempre e dappertutto evitato — nell’interesse della collettività — è che il carcere, proverbiale Università del crimine, trasformi quei delinquenti occasionali in delinquenti capaci di commettere ben più gravi reati, utilizzando le ‘‘tecniche’’ apprese alla scuola del carcere. 2.1. Le pene sostitutive delle pene detentive brevi previste dalla legislazione italiana sono, si sa, la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria; e il meccanismo che le governa è, all’incirca, il seguente: quando il giudice stima le pene sostituive non meno idonee delle pene detentive brevi a trattenere questo o quel condannato dal commettere in futuro nuovi reati, le applicherà, in sostituzione delle pene detentive brevi. Lo spazio occupato dalle pene sostitutive è peraltro molto ristretto, anche dopo l’allargamento operato da una recente riforma: il livello massimo di pena sostituibile è un anno di pena detentiva, e quel livello è raggiungibile solo da una pena sostitutiva — la semidetenzione — che comporta pur sempre, tra l’altro, una parziale restrizione in carcere, con tutti i relativi effetti desocializzanti e criminogeni. Nessuna meraviglia. quindi, se la prassi applicativa ha presto decretato il fallimento delle pene sostitutive — troppo costose rispetto alla tradizionale sospensione condizionale della pena —, con risultati meno scoraggianti solo per la libertà controllata (che copre solo le pene detentive fino ai sei mesi). 2.2. Più ampio, e aperto a più rosee prospettive di applicazione, lo spazio occupato dalla sanzione alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, che è afflittiva solo blandamente, e per di più è accompagnata da forme di aiuto al condannato, nonché da un ‘‘premio’’ finale molto allettante e vantaggioso. Nella sua versione originaria si trattava — ancora e sempre — di un’alternativa alle pene detentive brevi: poteva raggiungere il tetto di due anni e sei mesi di pena detentiva. A questo (più esteso) campo di applica-
— 163 — zione si aggiungeva, come si è accennato, un contenuto afflittivo molto blando: dopo un brevissimo soggiorno in carcere (tre mesi, inizialmente; un mese, dall’86), il condannato vive in libertà ‘‘affidato in prova al servizio sociale’’, dovendo rispettare solo alcuni divieti (relativi soprattutto alla dimora, al luogo di soggiorno, alla libertà di spostamento) e l’obbligo di intrattenere rapporti con gli agenti del servizio sociale. Il condannato ‘‘affidato in prova’’ riceve inoltre una duplice forma di aiuto: a) durante il periodo di ‘‘prova’’, il ‘‘servizio sociale’’ (l’istituzione cui viene ‘‘affidato’’) lo ‘‘aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale’’; b) terminato il periodo di prova con ‘‘esito positivo’’, il condannatoaffidato riceve un consistente premio, in grado di favorirne enormemente un ritorno senza ostacoli giuridici nella vita sociale: la pressoché totale eliminazione delle conseguenze del reato (‘‘si estingue la pena e ogni altro effetto penale’’). 2.2.1. Evidentissima la finalità perseguita dal legislatore con l’affidamento in prova al servizio sociale: realizzare lo scopo che la Costituzione assegna, è vero, ad ogni pena — punire e, al tempo stesso. aiutare il condannato a reinserirsi nella società —, ma che il carcere non è congenitamente in grado di raggiungere: si può solo tentare di diminuirne i più vistosi effetti desocializzanti. 2.2.2. Altrettanto evidente è la cerchia ristretta dei destinatari naturali di questo mite e costruttivo trattamento sanzionatorio: intendeva indirizzarsi non a tutti i condannati a pene detentive sino a due anni e sei mesi, ma solo ai protagonisti della ‘‘microcriminalità’’ frutto di emarginazione sociale (per i quali soltanto ha senso la direttiva legislativa: ‘‘aiutare a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale’’ (9); e all’interno di quella cerchia,ai soli condannati nei cui confronti si possa pronosticare che — messi alla ‘‘prova’’ di una vita in libertà controllata, e aiutati dal servizio sociale — la supereranno con successo, anche perché incentivati dal premio finale della estinzione del reato; per poter d’altra parte effettuare nei singoli casi quella prognosi di risocializzazione, non si poteva d’altra parte non imboccare la strada battuta dal legislatore, allorché ha subordinato l’adozione del provvedimento (di concessione o di rigetto) da parte del giudice ‘‘ai risultati dell’osservazione della personalità’’; discutibile, e discussa, la scelta del carcere come luogo dove compiere quella osservazione, ma sulla necessità di compierla non vi è mai stato spazio per (9) Per tutti cfr. FLORA, I destinatari dell’affidamento in prova, in questa Rivista, 1977, p. 689 ss.; PRESUTTI, in GREVI-GIOSTRA-DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, II ed., 2000, p. 378.
— 164 — divergenze di sorta, essendo premessa necessaria del giudizio prognostico richiesto al giudice di sorveglianza. 3. Sviluppi patologici del sistema italiano: la disapplicazione delle pene detentive di lunga durata. — La fisionomia del sistema penale italiano ha subìto, negli ultimi anni, cambiamenti radicali, il cui risultato complessivo si può così compendiare: sono stati introdotti meccanismi — sul terreno del diritto penale sostanziale e processuale — che propiziano una generalizzata fuga dalla pena detentiva. Non si è trattato del repentino trionfo degli ideali abolizionisti. Il famigerato rigore sanzionatorio, che trasuda da ogni articolo della parte speciale del codice del ’30, non è stato minimamente intaccato; semmai, in tempi diversi e in più punti, sono stati sfondati i tetti massimi di pena detentiva previsti dal legislatore fascista. Si tratta di tutt’altro. Quei vari meccanismi hanno infatti la criminogena tendenza a provocare la pressoché totale disapplicazione in concreto delle pene detentive, anche molto severe, vanamente minacciate in astratto dalle norme incriminatrici. C’è una logica in questa follia? Prima di andarne alla ricerca (infra, 4), occorre tratteggiare sommariamente i meccanismi del diritto penale sostanziale (infra, 3.1) e processuale (infra, 3.2 e 3. 3) che, innescando quella disapplicazione del sistema sanzionatorio, stanno portando il controllo penale in Italia sull’orlo del collasso (10). 3.1. In primo luogo, va sottolineata la radicale mutazione strutturale e funzionale che ha subìto negli anni l’affidamento in prova al servizio sociale (11): — è stato innalzato sino a tre anni il livello della pena detentiva sostituibile con ‘‘l’affidamento in prova’’: per ciò solo questo istituto ha oggi un campo di applicazione comprensivo di reati che la collettività e il legislatore considerano molto gravi, essendo sanzionati da pene edittali che nel massimo possono essere anche molto elevate; per di più, è venuta meno anche l’esplicita ‘‘esclusione’’, dall’area dell’affidamento, di chi si sia reso autore di reati considerati, a giusto titolo, molto allarmanti oltreché oggettivamente gravissimi (rapina e estorsione) e, se possibile, ancor (10) Sul terreno del diritto sostanziale, il collasso è aggravato anche dalle recenti riforme della semilibertà e della detenzione domiciliare: per una approfondita analisi critica dell’insieme delle riforme cfr.-anche per le citazioni essenziali-DOLCINI, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena?, in questa Rivista, 1999, p. 857 ss., il quale etichetta icasticamente le misure alternative come ‘‘sanzioni simboliche’’ anche per ‘‘reati di rilevante gravità’’ (p. 872 ss.). (11) Sulle vicende normative che hanno provocato questa mutazione strutturale e funzionale dell’affidamento in prova cfr. DI RONZA, Manuale di diritto dell’esecuzione della pena, 1998, p. 163 ss.; PRESUTTI, op. cit., p. 342, ss.; DOLCINI, Le misure alternative, cit., p. 862 s.
— 165 — più gravi (omicidio doloso, rapina aggravata, estorsione aggravata), quando l’autore non risulti collegato con la criminalità organizzata — quasi che l’assenza di quei collegamenti dimostri... che si tratta di ‘‘reati bagatellari’’ commessi da ‘‘autori bagatellari’’; — il livello di pena dei tre anni può essere in realtà assai più elevato, perché i tre anni inflitti in concreto vanno calcolati ‘‘detraendo’’ dal conto eventuali cause estintive (Tizio, condannato — non per una bagatella! — a sei anni di reclusione, tre dei quali condonati per effetto di indulti, si troverà — si è trovato — nella felice condizione di non dover scontare neppure un giorno di reclusione, potendo vivere in libertà grazie al meccanismo dell’affidamento in prova al servizio sociale); — l’affidamento in prova al servizio sociale può essere d’altro canto concesso anche a condannati a pene ancor più elevate: il condannato a otto anni di reclusione (magari per una serie continuata di rapine o estorsioni), dopo aver scontato cinque anni potrà vivere in libertà il ‘‘residuo’’ di tre anni, giovandosi — anche lui — del meccanismo dell’‘‘affidamento in prova al servizio sociale’’; — è così cambiata radicalmente la fascia dei destinatari dell’affidamento in prova al servizio sociale: agli emarginati sociali, coinvolti in fatti di piccola criminalità, si sono aggiunti gli autori di reati di rilevantissima gravità, spesso perfettamente integrati (economicamente e sul piano dei rapporti interpersonali) nei gruppi sociali da cui provengono (statistiche e cronaca parlano di corruttori e corrotti, concussori, autori e correi di falsi in bilancio, bancarottieri, ecc.) (12); nei loro confronti è perciò, spessissimo, un incredibile nonsenso vederli ricompresi tra quanti il ‘‘servizio sociale’’ dovrebbe aiutare a ‘‘superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale’’; e se molti anni fa menò scandalo l’affidamento in prova di un ministro e di un brillante finanziere condannati per corruzione nell’affare Lockheed, oggi, con l’infittirsi di analoghe vicende di affidamento, lo scandalo è sopito solo dal momentaneo clima di inquietante ‘‘normalità’’ creato dagli sviluppi patologici del nostro diritto penale sostanziale. 3.2. Passando ai meccanismi introdotti dal ‘‘nuovo processo penale’’ che concorrono, non meno potentemente, alla cennata fuga dissennata dalla pena detentiva, può bastare uno sguardo all’istituto del c.d. patteggiamento, nel giudizio di primo grado e in appello. (12)
Cfr. DOLCINI, Le misure alternative, cit., pp. 362 e 376 s.; BERNASCONI, in PRE-
SUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, 1998, p. 127 ss. Sugli analo-
ghi spostamenti dei destinatari della detenzione domiciliare — dai soggetti ‘‘deboli’’ ai ‘‘colletti bianchi’’ — cfr. MACCORA e COMUCCI, in PRESUTTI, op. ult. cit., rispettivamente a p. 115 e p. 248. Per un quadro aggiornato degli affidamenti in prova concessi a condannati ‘‘iperintegrati’’ cfr. PRESUTTI, in GREVI-GIOSTRA-DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, cit., p. 404 s.
— 166 — 3.2.1 Il c.d. patteggiamento nel giudizio di primo grado è un tipo di ‘‘rito’’ processuale la cui utilizzazione da parte dell’imputato comporta di per sé un premio: la riduzione della pena fino ad un terzo. A questo primo premio se ne aggiunge un altro, caratteristico del meccanismo del patteggiamento tra imputato e pubblico ministero: si discute — si patteggia — la pena detentiva da far infliggere dal giudice, finché non si raggiunge l’accordo. Questa transazione sulla pretesa punitiva dello Stato ha sì un limite — la pena detentiva patteggiata non può superare i due anni — ma l’esecuzione della pena può essere sospesa, e di regola viene sospesa, né si fa menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziario spedito su richiesta delle parti. Una glossa, frutto di esperienza personale: una commissione nominata da un Consiglio Comunale, solo perché si è avvalsa — con solerzia non consueta — del diritto della pubblica amministrazione di richiedere il certificato penale generale, è venuta a sapere quel che non poteva risultare dai certificati penali ‘‘richiesti dagli interessati’’ ai sensi dell’art. 689 c.p.p., dei quali soltanto parlava il bando di concorso: cioè che tra gli aspiranti al posto di amministratore di enti pubblici locali che amministrano patrimoni ingenti, ve ne erano alcuni cui era stata inflitta la pena ‘‘patteggiata’’ (di un anno e due mesi o di un anno e mezzo di reclusione) per delitti non proprio insignificanti e irrilevanti per la scelta di un buon amministratore pubblico (corruzione propria, concussione, bancarotta fraudolenta, ecc.). 3.2.2. Che il limite di due anni di pena detentiva patteggiabile in primo grado consenta un ‘‘commercio con la giustizia’’ che può abbracciare reati molto gravi, declassati a reati bagatellari, può mostrarlo, ad esempio, il ‘‘campione’’ di Milano, dove la bancarotta fraudolenta, in astratto punita con la reclusione da tre a dieci anni, viene mediamente sanzionata con la pena patteggiata di un anno e dieci mesi, con relativa sospensione condizionale della pena e non menzione della condanna nel certificato del casellario; e dove la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (I’epicentro dei processi contro ‘‘Tangentopoli’’), punita in astratto con la reclusione da due a cinque anni, viene mediamente repressa con la pena patteggiata di un anno e mezzo (ed è enorme il numero di patteggiamenti: più di duecento), accompagnata dagli ulteriori ‘‘benefici’’ della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziale. Il caso di Milano non è l’eccezione: lo ha confermato Lozzi, parlando di quel che accade a Torino. Lozzi ha, anzi, sottolineato giustamente le ulteriori distorsioni del nostro sistema reclamate dalla logica stessa del meccanismo del patteggiamento: ‘‘è evidente — ci ha detto Lozzi — che, allorquando per una concussione di miliardi o per una bancarotta fraudolenta aggravata di decine di miliardi, si giunge ad un patteggiamento, inevitabilmente, per rientrare nel limite (dei due anni), si parte, nel computo
— 167 — della pena, dal minimo edittale, in palese violazione dei parametri enunciati nelI’art. 133 c.p. e, conseguentemente, del principio di legalità in tema di applicazione della pena nonché del principio di eguaglianza posto che, nel determinare la pena base della bancarotta fraudolenta, si tratta il grande imprenditore che ha distratto decine di miliardi così come si tratta il panettiere imputato di una distrazione di pochi milioni’’ (13). La convenienza di questo rito sta anche nella sua normale segretezza. Di regola, le pene patteggiate vengono infatti inflitte nella udienza preliminare, che si svolge in camera di consiglio, e quindi, come vuole la legge, ‘‘senza la presenza del pubblico’’ (art. 127 comma 6 c.p.p.): nessuno quindi sa (la legge, per invogliare al patteggiamento, non vuole che si sappia; né i giornalisti sembrano smaniosi di esercitare il diritto di cronaca per sapere) quali e quanti siano e a chi sia stata imputata la commissione di reati, come quelli delle tante Tangentopoli e dintorni, la cui sanzione è stata commerciata ‘‘a porte chiuse’’. La legge offre poi un altro ‘‘ponte d’oro’’ all’imputato per stimolarlo a richiedere l’applicazione della pena patteggiandone l’ammontare col pubblico ministero: non gli si applicano le pene accessorie. Conseguenza: il sindaco o l’amministratore di una società di capitali, condannati per bancarotta fraudolenta patrimoniale, non si vedranno applicata la pena accessoria — che parrebbe assai appropriata — dell’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, e potranno perciò aspirare ad essere nuovamente investiti dell’ufficio di sindaco o amministratore. 3.3. Il c.d. patteggiamento in appello è un congegno molto efficace, nascosto nelle pieghe del nuovo codice: il condannato in primo grado a x anni di reclusione per un reato molto grave. che impugni la sentenza chiedendo la riduzione della pena irrogatagli, può patteggiare la nuova pena, indicandola al giudice, il quale provvede ‘‘in camera di cconsiglio’’, con i noti vantaggi in termini di ‘‘assenza di pubblicità’’ Così ad esempio, un condannato a sei anni di reclusione per concorso in uno dei più gravi fatti di bancarotta fraudolenta del dopoguerra, se ne è uscito alla chetichella in libertà, grazie alla riduzione patteggiata della pena da sei a tre anni, seguita dall’(immancabile e alquanto imbarazzante) affidamento in prova al servizio sociale, concesso in sostituzione della pena detentiva di tre anni. 4. Le cause degli sviluppi patologici del sistema italiano. — All’origine di questo tendenziale collasso del nostro sistema penale, che garantisce per varie vie l’impunità totale o una blandissima reazione statuale a fenomeni di grave o gravissima criminalità vi sono serie disfunzioni del no(13) LOZZI, La durata irragionevole della pena, in AA.VV., Le risposte penali all’illegalità, cit. p. 25.
— 168 — stro sistema penale, sostanziale e processuale, che vengono curate — dissennatamente — proprio con i rimedi giuridici sin qui schizzati. 4.1. In particolare, l’affidamento in prova al servizio sociale ha perso la sua funzione di moderno strumento di lotta alle pene detentive brevi e di umanissimo aiuto agli emarginati sociali, per trasformarsi in incontrollata forma di ‘‘grazia giudiziale’’ per reati anche molto gravi, al solo scopo di tamponare, in qualche modo, il sovraffollamento delle carceri italiane. Si tratta di un dato di fatto noto e denunciato da tempo in dottrina, dopo le prime non marginali trasformazioni strutturali e funzionali. Oggi — dopo la riforma dell’affidamento in prova proposta nel ’96 dal deputato Simeone, trasformatasi nel ’98 in una legge votata e peggiorata da tutti i gruppi politici — è diventata una verità ufficiale (‘‘tra le molteplici disfunzioni che caratterizzano la grave condizione in cui versa il sistema penitenziario, va senz’altro segnalato il fenomeno del sovraffollamento degli istituti di pena’’: relazione alla proposta di legge C 464 dell’on. Simeone; ‘‘i circa 17.000... detenuti per condanne a pene inferiori ai tre anni... contribuiscono in misura rilevante al sovraffollamento e alla ingovernabilità del carcere’’: relazione dell’on. Saraceni a nome della Commissione giustizia della Camera dei deputati — C 464-A, 9 maggio 1996; la riforma si inserisce nella ‘‘tendenza volta a realizzare una riduzione della popolazione carceraria’’ (Flick, Ministro di Grazia e Giustizia, intervento del 30 luglio 1996 alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati) (14). 4.2. Anche lo stravolgimento provocato dai citati istituti processuali ha uno scopo deflattivo: servono — dovrebbero servire — a diminuire il sovraccarico di procedimenti penali. Da sempre si tratta di una finalità dichiarata ufficialmente, anche se gli apologeti del nuovo processo ne parlano malvolentieri: si vuole seguitare ad accreditare l’idea, nonostante tutto, che nel nostro Paese il processo accusatorio è stato pensato come la regola, relegando ai margini, come eccezioni, i procedimenti speciali, a cominciare dal c.d. patteggiamento. È vero il contrario. Le reali intenzioni di chi ha progettato il nuovo codice emergono con tutta la chiarezza desiderabile, oltre che dai lavori preparatori, dalla ‘‘Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale’’: ‘‘È diffuso il convincimento che ad essi (i riti speciali) è affidata in gran parte la possibilità di funzionamento del procedimento ordinario... per evidenti ragioni di economia processuale... Si è efficacemente detto, nel corso dell’approvazione della legge delega, che il nuovo processo funzionerà se riusciremo a far (14) Cfr. DOLCINI, Le misure alternative, cit., p. 857 ss.; PRESUTTI, in GREVI-GIOSTRADELLA CASA, Ordinamento penitenziario, cit., pp. 378 e 385.
— 169 — pervenire al dibattimento soltanto una piccola parte dei processi’’ (15). Le stesse cose venivano del resto ribadite, nel primo dibattito tra processualpenalisti sul nuovo codice, da uno degli autori del progetto: ‘‘i vantaggi offerti all’imputato... dal nuovo patteggiamento sono notevoli e manifestano il disegno del legislatore...: la convinzione che il nuovo sistema processuale comporta un appesantimento del dibattimento e dunque un maggiore impegno giudiziario per questa fase, che deve essere riequilibrata con meccanismi processuali capaci di evitarla nel maggior numero possibile di casi’’ (16). Breve: quel che si auspicava era un processo accusatorio applicato solo in via d’eccezione, mentre la regola — pena la paralisi del sistema processuale — doveva essere la sistematica applicazione dei riti speciali. Si trattava del resto di un auspicio fondato sull’esperienza statunitense, presa come modello, e a tutti ben nota da tempo. Fin dal ’78, Cherif Bassiouni, chiamato in Italia a illustrare le ‘‘Linee generali del processo penale negli Usa’’, aveva infatti descritto l’essenziale ai processualpenalisti italiani, con queste parole: ‘‘Per quel che riguarda il ‘plea bargaining’, nelle grandi zone metropolitane [...] l’80 o 90% dei casi si risolve in base a trattative. Nella statistica nazionale solo il 6% dei processi penali sono giudicati da una giuria... Essendo elevatissimo il volume della criminalità, non ci sono né il personale né le strutture per processare tutti gli autori dei reati: è chiaro allora che uno degli espedienti è la transazione: il ‘plea bargaining’. Perciò quando si parla della bellissima struttura del sistema accusatorio, è chiaro che in definitiva ci si riferisce ad un numero ristretto di casi che beneficiano di tutte le garanzie offerte da questo sistema... Perciò si verifica questo paradosso: che di tutto il slstema accusatorio [...] non rimane quasi niente all’atto pratico’’ (17). In Italia, il numero dei patteggiamenti è ben lontano da quello statunitense; ed anche se in quel numero rientrano reati molto gravi che vengono bagatellizzati, sinora non si è ottenuto lo sperato effetto deflattivo. Ecco perché, volendo raggiungere finalmente una più incisiva eliminazione del sovraccarico di procedimenti penali, il ministro Flick ha presentato un disegno di legge teso a rendere il patteggiamento ancor più allettante per gli imputati: anche per gli imputati di reati gravissimi. La nuova (15) Cfr. Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, 1998, p. 231. (16) LATTANZI, Giudizio abbreviato e patteggiamento, in AA.VV., Verso una nuova giustizia penale, 1989, p. 103. (17) BASSIOUNI, Linee generali del processo penale negli USA, in STILE (a cura), Prospettive del nuovo processo penale, 1978, p. 58; con poche varianti, questo saggio è stato accolto, dieci anni dopo, nel volume: AMODIO-BASSIOUNI (a cura di), Il processo penale negli Stati Uniti d’America, 1988, p. 47 ss. (in particolare, p. 73 s.). Per un dettagliato quadro storico cfr. la magistrale panoramica di LAWRENCE M. FRIEDMANN, Crime and punishment in American history, 1993, pp. 250 ss., 390 ss.
— 170 — fisionomia che assumerebbe il patteggiamento, se passasse la proposta di Flick, è stata descritta da Lozzi con precisione inesorabile: ‘‘si potrà concordare un primo sconto di un terzo in virtù delle attenuanti generiche, un secondo sconto di un terzo per il risarcimento del danno, un terzo sconto sempre di un terzo a causa della riparazione pecuniaria allo Stato prevista dal progetto in parola ed infine un ultimo sconto di un terzo conseguente al patteggiamento. Se il residuo di pena conseguente a tutte queste riduzioni rimane nell’ambito di tre anni la pena potrà essere espiata mediante affidamento in prova al servizio sociale, vale a dire in situazione di totale libertà lievemente disturbata dall’obbligo di qualche incontro o colloquio con un addetto al servizio sociale’’ (18). 5. Quali le possibili ‘‘reazioni sociali’’ al collasso del controllo penale? — Le possibili ripercussioni di questa sistematica disapplicazione dell’apparato sanzionatorio sono facilmente prevedibili. La realtà si vendica. Per un certo tempo, la ‘‘reazione sociale’’ a un controllo penale che va disgregandosi non si manifesterà in forme clamorose: assumerà le forme di un accumulo molecolare di sentimenti di insicurezza e frustrazione. Basta però un nonnulla a cambiare lo stato delle cose. Anche sotto questo profilo gli Usa ci mostrano il lato più indesiderabile del nostro futuro. A seguito dell’esplosione di gravi fatti di rapina e omicidio, avvenuti nel quadro di un sistema penale che per tanti versi ricorda quello italiano odierno in termini di perdita di tenuta complessiva, si è registrata nei singoli Stati e a livello federale — a partire dalla fine degli anni ’60 — questa agghiacciante sequenza: dapprima il diffondersi di forme di polizia privata organizzata nei quartieri metropolitani più infestati dalla ‘‘criminalità della strada’’: successivamente, per evitare il diffondersi e il consolidarsi della giustizia privata, l’affollarsi affannato dei vari apparati dello Stato, sorretti ideologicamente dalla rinascita di visioni retributive, e politicamente dai programmi elettorali di quasi tutti gli aspiranti a cariche elettive: polizia, magistratura, Parlamenti induriscono rapidamente e progressivamente le risposte repressive, e si apre così la via che porta a un sempre più disumano, sempre più terroristico sistema repressivo, circondato dal consenso sociale (19). In Italia, abbiamo già visto — a Torino e Milano — i primi gruppi di (18) LOZZI, La durata irragionevole, cit., p. 25 s. Per un’analisi del progetto Flick cfr. VIGONI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in PISANI (a cura di), I procedimenti speciali in materia penale, 1997, p. 333 ss. e la bibliografia ivi citata. (19) Per un accurato quadro delle tendenze del diritto penale statunitense, osservate dall’osservatorio privilegiato del Canada, cfr. NORMANDEAU, Bilan criminologique de quatre politiques et pratiques pénales américaines contemporaines, in Rev. sc. crim., 1996, p. 333 ss.
— 171 — polizia privata, appoggiati clamorosamente dalla Polizia di Stato; ma è solo un’avvisaglia: è troppo agevole prevedere che, qualora la miscela della criminalità organizzata e della criminalità della strada dovesse esplodere in qualche fatto di sangue, si innescherebbe quell’incontrollabile domanda di sicurezza e punizione che, quando latita lo Stato ‘‘guardiano della pace’’, presto o tardi erompe furiosamente dalle viscere del corpo sociale, innescando immancabili sviluppi normativi regressivi, patrocinati da quasi tutti i gruppi politici. 6. Le possibili vie d’uscita. — Si prenda ora le mosse da una premessa che non sembra avere alternative: come insegnava Beccaria, e si insegna tuttora dopo decenni di conferme empiriche, l’unica funzione deterrente che può svolgere un sistema di sanzioni penali non è la severità, ma la certezza della pena — il rischio di essere scoperti e puniti —; se invece domina la certezza della disapplicazione anche delle pene più gravi, ineluttabilmente si evocano i mostri della ‘‘legge e ordine’’ ad ogni costo (20). Se si conviene con quella premessa (chi mai sosterrà, all’opposto, che le minacce di pena del legislatore non vanno prese sul serio?), diventa possibile accostarsi con la dovuta consapevolezza ai malanni strutturali che hanno generato i descritti sviluppi patologici del sistema penale italiano. 6.1. Il sovraccarico dei procedimenti penali è fenomeno di enorme gravità non solo in Italia; va però affrontato non con rimedi processuali come il c.d. patteggiamento, che non solo bagatellizzano anche la criminalità medio-alta, ma producono gravissimi effetti criminogeni, che si possono quasi toccare con mano. Si ipotizzi quanto segue: il legislatore italiano accoglie la proposta Flick, attesa da molti come salutare per l’eliminazione di quel sovraccarico degli apparati giudiziari; ne deriverà, in termini di bagatellizzazione, quel che si è già osservato citando le parole di Lozzi, mentre, quanto a risvolti criminogeni, accadrà che il medesimo legislatore con la mano destra, per così dire, minaccia (persino) quindici-vent’anni di carcere all’autore di questo o quel fatto. e contestualmente. con la mano sinistra, lo avverte (lo rassicura) che, una volta commesso il fatto, se patteggia la pena, il giudice potrà mandarlo... in libertà controllata (l’affidamento in prova) per tre anni. Stando così le cose, chi mai prenderà sul serio un simile legislatore che invita, quasi, a non prendere sul serio i suoi editti penali, an(20) Sulla patologica divaricazione tra pena edittale, pena inflitta, pena eseguita — analizzata in precedenza soprattutto da PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria, in questa Rivista, 1992, p. 419 ss. — cfr., dopo le recenti riforme, la denuncia di DOLCINI, Le misure alternative, cit., p. 874.
— 172 — che i più draconiani? e quale sarà mai, allora, la paura, il timore. il deterrente che potrà trattenere chi progetta anche i più gravi reati (rapine, estorsioni, corruzioni, concussioni, ecc.) dal tradurli nella realtà? (21). Sono domande retoriche, che sembrerebbero ammettere una sola risposta: la ‘‘riforma della riforma’’ di un sistema processuale, come l’attuale, che può funzionare come processo ‘‘accusatorio’’, solo se nella maggioranza dei casi non lo è, e che per il resto — soprattutto nel rito del patteggiamento, che dovrebbe incarnare il rito per eccellenza — si trova agli antipodi rispetto alle garanzie che contrassegnano il modello accusatorio: le prove vengono infatti formate non in contraddittorio — come vorrebbe l’immagine ‘‘ideale’’ del nuovo processo penale (oggi addirittura innalzata al rango di ‘‘ideale costituzionale’’!) — bensì in totale solitudine da parte del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (22). Può darsi che questo dato di fatto non scuota la fiducia di chi guarda al nuovo processo avendo dinanzi agli occhi solo imputati interessati a percorrere sempre e solo il rito accusatorio; tuttavia, pensare il sistema penale sostanziale e processuale come un insieme — e l’intero processo sanzionatorio come un tutto senza smagliature — è per tutti, sostanzialisti e processualisti, un dovere culturale, ancor prima che politico-criminale; mi sembra allora autoevidente che il collasso del controllo penale non può essere un prezzo che si possa ragionevolmente richiedere per risolvere — con l’aiuto del rito del patteggiamento — il sovraccarico dei procedimenti penali generato dal nuovo processo penale. 6.2. Quanto al sovraffollamento carcerario, un uso dissennato dell’affidamento in prova al servizio sociale è la peggiore risposta possibile a un problema molto serio: una pessima risposta aggravata dalla c.d. legge Simeone che, nell’ansia di eliminare disparità di trattamento, ha incluso nel nuovo modello anche i plurirecidivi (‘‘per due o più condanne a pena detentiva complessivamente superiore a tre anni’’), perdendo per strada l’originario buon senso che ne aveva suggerito l’esplicita esclusione. Fortunatamente, l’astuzia della ragion pratica, refrattaria ad ogni spensierato umanitarismo, ha mantenuto in vita l’esclusione dall’affidamento in prova dei detenuti per associazione di tipo mafioso: la deflazione carceraria — l’odierna funzione assolta dall’affidamento in prova — è un obiettivo fortunatamente impensabile per capi e gregari della criminalità organizzata. (21) Sullo svuotamento di ogni funzione generalpreventiva del sistema penale provocato dalle recenti riforme-attuate o progettate-del diritto sostanziale e processuale cfr. ancora DOLCINI, Le misure alternative, cit., p. 874 s. Per una critica demolitrice del progettato patteggiamento ‘‘allargato’’ cfr. FERRUA, La giustizia negoziata nel ‘‘pacchetto Flick’’, in Crit. dir., 1997, p. 11 ss. (22) Cfr. NOBILI, Diritto alla prova e diritto alla difesa nelle indagini preliminari, in ID., La nuova procedura penale, 1989, p. 361 ss.
— 173 — Ci è stato così risparmiato lo spettacolo di esponenti di spicco della mafia, della camorra. della ’Ndrangheta aiutati dal ‘‘servizio sociale’’. 6.3. Dopo gli sviluppi patologici di questi ultimi anni, si impone — improcrastinabile — un ripensamento del sistema delle sanzioni. L’inerzia sarebbe terribilmente dannosa: l’insicurezza collettiva — alimentata dalla crescita della criminalità della strada sommata alla criminalità organizzata, e acuita dalla sensazione del collasso del controllo penale — potrebbe senz’altro tradursi nella (rinnovata domanda di) costruzione di nuovi stabilimenti carcerari (la via maestra per evitare il sovraffollamento carcerario!), che anni fa non ebbe seguito (anche) per l’esplosione dello scandalo delle ‘‘carceri d’oro’’. Costerebbero molto nuovi penitenziari, ma quei costi verrebbero considerati sopportabili dai tantissimi che reclamano sicurezza — a qualsiasi prezzo. L’esperienza statunitense è anche in questo senso esemplare. La costruzione di nuovi penitenziari era pur cresciuta negli anni ’80 in modo impressionante, ma l’enorme costo dell’edilizia carceraria non ha impedito all’amministrazione Clinton di ottenere dal Congresso, nel 1994, la destinazione di nuove risorse per aumentare del 10% il numero delle celle (100.000!) (23): non vi è spesa meglio tollerata, anzi reclamata dal contribuente, quando si tratta di ‘‘combattere la criminalità’’. D’altra parte, come alternative alla pena detentiva sono nati in alcuni Stati della confederazione nuovi istituti, come la sorveglianza intensiva e la sorveglianza elettronica, che comportano un controllo in libertà molto penetrante, ma che per funzionare richiederebbero un ingente numero di addetti al controllo, il cui costo è elevatissimo — le prospettive di successo sembrano perciò molto dubbie. Qualche improvvisato orecchiante italiano potrebbe essere tentato di americanizzarsi lungo quest’ultima strada, ma solo sulla carta: se l’insuccesso statunitense sembra essere la conseguenza del superamento del numero massimo di persone (50) per ogni ‘‘agente’’ del controllo intensivo o elettronico, considerato come il numero-limite per un controllo efficace (24), si fa presto a calcolare gli effetti dell’enorme sproporzione tra il numero dei nostri ‘‘assistenti sociali’’ (anche dopo l’aumento programmato dalla legge Simeone) e il numero (circa 20.000) delle persone annualmente affidate al loro controllo (25): ben lungi dal poter diventare ‘‘intensivo’’, resterà come oggi evanescente, e per di più esercitato da un (23) Cfr. NORMANDEAU, Bilan criminologique, cit., p. 336 (24) Cfr., anche per la bibliografia, DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, p. 28 s.; una dettagliata analisi si può leggere in NORMANDEAU, Bilan criminologique, cit., p. 338 ss. (25) Nel secondo semestre del 1998 le misure alternative alla detenzione hanno raggiunto, complessivamente, il numero di 27.165 condannati: cfr. DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 870; nel secondo semestre del 1999 il numero dei soli affidamenti in prova ammonta a 14.608 condannati (10.571 in regime di affidamento ordinario e 4.037 in regime
— 174 — personale il cui profilo professionale è quello di un ‘‘assistente sociale’’ educato per prestare aiuto, e non già per esercitare l’asfissiante vigilanza richiesta agli agenti del controllo ‘‘intensivo’’. 6.4. Tornando sull’esigenza improcrastinabile di ripensare il nostro sistema sanzionatorio, il punto di riferimento obbligato è l’insieme delle esperienze europee più mature. Schematizzando, tre le principali linee guida di un desiderabile nuovo codice penale — l’insostituibile luogo di ogni riforma sistemica —: livelli massimi edittali di pena detentiva assai meno elevati degli attuali; l’eliminazione di ogni meccanismo di disapplicazione delle sanzioni inflitte dal giudice di cognizione (pene miti, ma certe!); la previsione di poche sanzioni — come alternative alle (sole) pene detentive brevi — sulle quali investire conoscenze e risorse, economiche ed organizzative, indispensabili per garantirne l’effettività (26). ‘‘Gestire la giustizia penale’’: è quanto si raccomanda in sede europea a tutti i paesi membri; il che significa dotarsi di personale provvisto delle necessarie capacità per rendere effettivo l’intero apparato sanzionatorio — vecchio e nuovo (27) —: e tra le novità per il nostro Paese, come alternativa per eccellenza alle pene detentive brevi, il posto di primo rango spetta alla pena pecuniaria, strutturata finalmente secondo il modello dei ‘‘’tassi giornalieri’’; e il secondo rango all’affidamento in prova, ripensato sul piano organizzativo e contenutistico, e restituito finalmente alla sua funzione originaria di strumento di aiuto, ma anche di controllo effettivo, da associare all’inflizione della condanna con sospensione condizionale della esecuzione della pena detentiva (28). L’arsenale delle alternative alle pene detentive brevi, già nel panorama europeo, è ben più ricco e variegato; torna però acconcia l’indicazione iniziale: per risalire dalla paurosa china lungo la quale è rotolato il nostro apparato sanzionatorio, sforzi progettuali, risorse ed approfondite esperienze comparatistiche vanno concentrate su quelle poche alternative che presentano il più elevato grado di praticabilità e il più vasto campo di applicazione. 7. Il diritto penale come ‘‘extrema ratio’’: in che senso? — Qualche osservazione finale sulla portata dell’idea-guida del diritto penale contemporaneo: il ricorso alla sanzione penale è legittimo come estremo rimedio, di affidamento terapeutico). Per un quadro statistico aggiornato della detenzione domiciliare cfr. COMUCCI, Problemi applicativi della detenzione domiciliare, in questa Rivista, 2000, p. 203 ss. (26) PALIERO, Metodologie, de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1990, p. 510 ss. (27) La gestion de la justice penale, 1996, contenente il testo della Raccomandazione n. (95) 12 adottata dal Comitato dei ministri degli Stati membri del Consiglio d’Europa e il relativo ‘‘rapporto’’ illustrativo. (28) MARINUCCI, Politica criminale, cit., p. 89.
— 175 — solo cioè quando altri strumenti di controllo sono inesistenti o meno efficaci. Si direbbe che quella idea-guida sia la medicina capace di curare le descritte patologie del nostro sistema: restringendo allo stretto necessario l’area dei fatti penalmente rilevanti, non vi sarà sovraccarico dei procedimenti penali, e tantomeno vi sarà il rischio di un sovraffollamento carcerario. Questo corollario, che viene tratto da moltissimi, profani e non, è semplicemente sbagliato. Minima non curat praetor: è questo l’ambito per eccellenza dell’auspicato processo di riduzione dei fatti penalmente rilevanti entro i confini dell’‘‘extrema ratio’’ — si tratta della depenalizzazione dei fatti bagatellari, come controtendenza rispetto alla ipertrofia di norme penali, iniziata da quasi mezzo secolo, che reprimono illeciti di scarsa rilevanza (29) —. Così però delimitata la portata dell’‘‘extrema ratio’’, se ne coglie agevolmente la modestissima efficacia deflattiva sul carico giudiziario: ebbe qualche peso in Pretura la depenalizzazione degli illeciti in materia di circolazione stradale; potrà avere qualche peso, oggi, la depenalizzazione degli illeciti in materia di assegno bancario, dopo il fallimento della riforma del ’90, e degli illeciti tributari meramente ‘‘formali’’; un peso pressoché insignificante avranno invece le altre recenti depenalizzazioni in campi di materia che generano pochissimi procedimenti penali. È invece ovviamente impensabile la depenalizzazione di fatti, come la truffa o il furto (nelle sue più diverse manifestazioni), che senz’altro formano parte rilevantissima dei procedimenti penali pendenti. Altrettanto impensabile — anche se è stata pensata e proposta — la depenalizzazione del falso in bilancio: un reato grave, commesso con sistematicità non minore di quella che agl’inizi della grande crisi degli anni ’30 spinse il legislatore a innalzare la pena massima fino al tetto di dieci anni di reclusione ‘‘per porre un argine al crescente dilagare di simili reati’’ (30), ma che oggi, proprio per la sua sistematicità (‘‘così fan tutti’’!), avanza la pretesa, spesso per bocca degli stessi (potenziali) autori, di essere (almeno in parte) declassato a bagatella. Destano, d’altra parte, solo sconcerto e imbarazzo le proposte di depenalizzazione avanzate dai più impegnati sostenitori del c.d.diritto penale minimo: andrebbero estromesse dal diritto penale nientemeno che le più gravi e temibili forme della criminalità contemporanea-come la corruzione, la criminalità contro l’economia e l’ambiente, la criminalità organizzata, gli attentati alle istituzioni democratiche (31). (29) Cfr. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, 1985. (30) DELITALA, I reati concernenti le società di commercio e la legge Rocco del 1930, in Riv. dir. comm., I, 1931, p. 176, ora in Diritto penale, Raccolta degli scritti, II, 1976, p. 802 ss. (31) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale ‘‘minimo’’ e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 802 ss.
— 176 — 7.1. L’idea che il diritto penale deve entrare in scena solo come estremo rimedio possiede peraltro un secondo significato, rilevante anche sul terreno della deflazione giudiziaria. Quel che si insegna dai tempi di Beccaria (meglio prevenire che reprimere) deve tradursi in mutamenti normativi e organizzativi — in una efficace rete di controlli preventivi — la cui presenza può neutralizzare all’origine (almeno in parte) la commissione dei fatti delittuosi, relegando così il diritto penale al suo ruolo naturale di estremo rimedio. Controlli, innanzitutto della ‘‘criminalità della strada’’. Per prevenirla, si deve prendere atto che non è più un’utopia da ‘anime belle’ la risalente indicazione racchiusa nella formula ‘‘il diritto penale è l’extrema ratio della politica sociale’’: la prevenzione sociale — una sistematica opera di aiuto sociale dei potenziali autori — conosce già forme sperimentate in molti Paesi europei, e viene raccomandata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (32). Di pari passo è indispensabile un’efficace strategia di prevenzione di polizia, rispettosa dei diritti del cittadino, lungo la linea già tracciata da Beccaria per le città del fine settecento: ‘‘la notte illuminata..., le guardie distribuite ne’ differenti quartieri’’ da parte di quel ‘‘ramo principale della vigilanza... che i francesi chiamano police ’’la cui attività, raccomandava Beccaria, esige leggi non ‘‘arbitrarie’’, per non aprire ‘‘una porta alla tirannia’’ (33). Oggi ovviamente, i controlli di polizia nelle grandi aree urbane richiedono interventi ulteriori, ben più sofisticati, diversi da città a città e da quartiere a quartiere, nonché ben più complessi bilanciamenti fra l’interesse alla sicurezza collettiva e i diritti di libertà del cittadino; ma oggi, come e più di ieri, l’assenza di controlli efficaci, lasciando libero campo alle aggressioni diffuse ai beni individuali, spinge ineluttabilmente il legislatore a rifugiarsi nell’unico rimedio dell’innalzamento delle pene edittali; rimedio inefficace anche sul piano simbolico: l’insicurezza collettiva cercherà di essere placata prestando credito a chi promette ‘‘legge e ordine’’ e ‘‘tolleranza zero’’ e — nell’attesa — percorrerà la strada (gia imboccata) dell’autodifesa privata organizzata (nei singoli quartieri, nelle metropolitane, su tram e autobus, etc.) (34). Con i debiti adattamenti, le cose non cambiano di fronte alla ‘‘criminalità delle suites’’: proprio l’assenza di efficaci controlli nella vita della pubblica amministrazione e nella gestione societaria ha infatti provocato (32) Cfr. HEBBERECHT, La nuova politica federale belga di prevenzione della criminalità, in Dei delitti e delle pene, 1998, p. 102 ss.; VAN SWANNINGEN, Quale politica per una città sicura?, ivi, p. 143 ss.; Politique criminelle et droit pénal dans une Europe en transformation, 1999, pp. 9 e 63 ss. (33) BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1776 (edizione a cura di F. Venturi), p. 29 s. (34) Sulle diverse tecniche di prevenzione adottate nei paesi anglosassoni cfr. TONRY-FARRINGTON (a cura di), Building a Safer Society. Strategic Approaches to Crime prevention, 1995.
— 177 — la commissione, indisturbata, del numero enorme di reati contro la pubblica amministrazione e contro l’economia affiorati (solo in minima parte) negli ultimi anni, costringendo il diritto penale a giocare l’indesiderato e indesiderabile ruolo di unico rimedio. 7.2. Anche la strumentazione del diritto penale può svolgere un ruolo preventivo, se si percorrono strade diverse dal consueto ricorso al deterrente di pene molto elevate. Si pensi ai reati commessi nella gestione delle società (reati fiscali, ambientali, finanziari, contro la libera concorrenza, ecc.). L’esperienza statunitense mostra che il tentativo di molte grandi imprese, negli anni ’70 e ’80, di dotarsi di ‘‘codici etici’’ solo cosmetici, per ‘‘dimostrare’’ che i reati eventualmente scoperti non erano espressione di una politica d’impresa, è naufragato alla prova dei fatti: l’intervento repressivo, dopo lo scoppio di gravi scandali finanziari, si è reso inevitabile. Ma per evitare o diminuire il ripetersi di tali fenomeni si è fatto ricorso a una nuova disciplina della responsabilità delle persone giuridiche — una responsabilità che bussa alle porte anche del nostro Paese —: si è varata una legge federale, che sta mutando il volto e l’organizzazione interna delle società: il ‘‘se’’ e il ‘‘quanto’’ punire dipende infatti dall’effettiva attuazione di ‘‘programmi di adeguamento’’ (vere e proprie rivoluzioni organizzative) in grado di prevenire, scoprire e denunciare tempestivamente all’autorità giudiziaria i reati commessi da ‘‘agenti’’ della società (35). Può darsi che le resistenze del nostro sistema delle imprese ritardino un vero riassetto del corporate governance, e che il sistema dei controlli preventivi non subirà mutamenti reali, neppure a seguito dell’auspicabile introduzione della responsabilità penale delle persone giuridiche; se così fosse, si può solo prevedere che, tirata per i capelli, la giustizia penale sarà ancora l’unico distruttivo sistema di controllo delle patologie societarie. GIORGIO MARINUCCI
(35) Cfr. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi e innovazioni nel diritto penale statunitense, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss., ID., Societas delinquere potest. Un’indagine di diritto italiano e comparato, pp. 37-205.
UNA ALTERNATIVA IN CRISI DI IDENTITÀ OVVERO L’AFFIDAMENTO IN PROVA DOPO LA LEGGE 27 MAGGIO 1998 N. 165
SOMMARIO: 1. Legge 27 maggio 1998 n. 165 e sistema della esecuzione penale: una riforma nella linea della continuità. — 2. Affidamento in prova in funzione sostitutiva (art. 47 comma 3 ord. penit): dubbi esegetici ed incertezze applicative. — 3. Affidamento in prova in funzione trattamentale (art. 47 comma 2 ord. penit.): verso la configurazione di una forma anomala della misura. — 4. Affidamento in prova in funzione terapeutica (art. 47-bis ord. penit./art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309): incoerenze sistematiche e letture correttive.
1. Legge 27 maggio 1998 n. 165 e sistema della esecuzione penale: una riforma nella linea della continuità. — Presentate come semplici variazioni dei relativi meccanismi applicativi (1), le modifiche apportate dalla l. 27 maggio 1998 n. 165 alla disciplina delle alternative penitenziarie sono apparse da subito in grado di provocare un’ulteriore e consistente alterazione dei tratti distintivi delle singole misure. Soprattutto non è sfuggito come ad uscirne compromessa fosse, ancora una volta, la loro connotazione di strumenti di attuazione del finalismo rieducativo della pena conformemente al progetto delineato dall’art. 27 Cost. (2). Ed infatti, la via imboccata dalla novella del 1998 non si discosta da quella tracciata dal legislatore dei primi anni novanta: al di là del dichiarato proposito di incrementare le opportunità applicative delle alternative al carcere in tal modo rafforzando il sistema della pena costituzionale, ne ha, anzi, segnato in senso irreversibile la scelta compiuta. Non diversamente dagli interventi normativi di contrasto della criminalità organizzata (3) che l’hanno preceduta, anche la più recente legge ha (1) In questi termini, espressamente, la Relazione della II Commissione permanente (on. Saraceni) presentata alla Presidenza l’11 settembre 1996. Cfr. Atti Parlamentari Camera dei Deputati, Disegni di leggi e relazioni, XIII Legislatura, stampato 464/A, p. 2. (2) In proposito, sia consentito rinviare ad A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie: la pena rinnegata, in AA.VV., Esecuzione penale e alternative penitenziarie, a cura della medesima, Padova, 1999, p. 27 s. (3) Si tratta del d.l. 13 maggio 1991, n. 152 convertito dalla legge 12 luglio 1991 n. 203 e del d.l. 8 giugno 1992 n. 306 convertito dalla legge 7 agosto 1992 n. 356. In relazione alle innovazioni rispettivamente derivatene alla normativa dell’ordinamento penitenziario, v. V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di di-
— 179 — operato una evidente rifunzionalizzazione dell’ordinamento penitenziario a fini diversi da quelli ricavabili dai principi costituzionali (art. 27 Cost.) sancendo in via definitiva la sua funzione servente all’interno del sistema punitivo. Come è noto, le misure alternative furono allora piegate a scopi di investigazione della criminalità organizzata; come risulta oramai evidente, le stesse sono ora asservite alla realizzazione dell’obiettivo improprio di riduzione a posteriori dell’ambito della pena detentiva. Il risultato è, in entrambi i casi, una perdita di identità degli istituti riformati, di inevitabile incidenza sul corrispondente piano operativo. Una significativa conferma al riguardo si ricava dalla misura dell’affidamento in prova, ritoccata ex professo nella configurazione ordinaria (art. 47 ord. penit.) e, obliquamente, in quella terapeutica, riservata a condannati tossicodipendenti e alcooldipendenti (art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Muovendo da quella disciplinata in sede penitenziaria, si può notare come la sua articolazione secondo un duplice modulo, risalente alla riforma del 1986, risulti definitivamente cristallizzata. Alla ipotesi, tradizionale, di affidamento in prova mediato dai risultati della osservazione in istituto (art. 47 comma 2 ord. penit.) si affianca quella di misura concedibile sulla base di una valutazione del comportamento assunto dal condannato dopo la commissione del reato, ma antecedentemente alla esecuzione della pena (art. 47 comma 3 ord. penit.). La prima è stata conservata nella sua natura trattamentale; la seconda è stata rimodellata in chiave marcatamente sostitutiva. Ma già con riguardo a questo assetto di sostanziale conferma di un’evoluzione oramai compiuta, è dato registrare una non irrilevante alterazione: per la fattispecie della misura in funzione sostitutiva, cui in precedenza era riservato un ruolo di eccezione alla regola, è attualmente ritagliata una collocazione centrale e prioritaria che modifica i rapporti e, quindi gli equilibri, interni all’affidamento in prova. Si deve aggiungere che la problematica operatività del meccanismo di automatica sospensione, previsto dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p. implica il rischio di trasformare la forma in esame della misura in strumento dilatorio (4) dell’efesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in AA.VV., L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, a cura del medesimo, Padova, 1994, p. 3 s.; F. DELLA CASA, Le recenti modificazioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della ‘‘scommessa’’ anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del ‘‘doppio binario’’, ivi, p. 73 s. nonché i contributi raccolti nel volume AA.VV., Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, a cura di A. Presutti, Milano, 1994. (4) Sul punto cfr., A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie, cit., pp. 67, 68 e, per un’approfondita analisi della nuova previsione dell’art. 656 c.p.p., F. DELLA CASA, Commento all’art. 1 della legge 27 maggio 1998, n. 165, in Legisl. pen., 1998, p. 764 s.
— 180 — secuzione della pena legalmente irrogata sfigurandone la stessa funzione sostitutiva. Innegabili anche le distorsioni subite dall’affidamento in prova di natura trattamentale: laddove, in virtù del nuovo congegno applicativo (art. 47 comma 4 ord. penit.), si consente la sua concessione differita ad un periodo di libertà al di fuori di prescrizioni comportamentali e in assenza di interventi del servizio sociale, si sovverte la naturale conformazione strutturale della misura deformandone anche in questo caso la originaria funzione trattamentale. Della sopravvivenza di tale coessenziale attitudine, nella disciplina rinnovata, è, invero, lecito dubitare ove si consideri che questa forma di affidamento in prova risultava, nella configurazione previgente, essa stessa propedeutica al recupero della libertà piena del condannato proprio in quanto inserita a pieno titolo nella logica della pena costituzionalmente orientata. 2. Affidamento in prova in funzione sostitutiva (art. 47 comma 3 ord. penit): dubbi esegetici ed incertezze applicative. — Fatta questa premessa circa le tensioni riscontrabili sul piano dei profili sostanziali dell’affidamento in prova, resta da mettere in luce i nodi problematici registrabili con riguardo al momento applicativo. In relazione ad esso va detto che, tentare un bilancio a poco più di un anno dalla entrata in vigore della nuova disciplina della misura, si rivela prematuro in presenza di una elaborazione giurisprudenzale di ancora esigua consistenza quantitativa: è sufficiente, allora, segnalare le numerose questioni interpretative affiorate principalmente nella riflessione della dottrina e prospettare, insieme con la loro possibile soluzione, le necessarie valutazioni critiche. Non senza aver precisato che esigenze di chiarezza consigliano di trattare separatamente quelle riferibili all’affidamento in prova in funzione sostitutiva della pena detentiva (art. 47 comma 3 ord. penit.) da quelle attinenti all’affidamento in prova trattamentale (art. 47 comma 2 ord. penit.) dedicando da ultimo, alcuni rilievi alla procedura applicativa stabilita dalla norma dell’art. 47 comma 4 ord. penit. Relativamente alla ipotesi di affidamento in prova che prescinde dalla osservazione della personalità in istituto il primo problema ha tratto origine proprio dalla norma che ne definisce i presupposti allineandosi all’insegnamento costituzionale. È noto che, con la sentenza n. 569 del 1989, la Corte rimosse la condizione della previa custodia cautelare sofferta in corso di processo, in tal modo generalizzando l’accesso alla misura direttamente dalla libertà (5): nel nuovo comma 3 dell’art. 47 ord. penit. (5) Per una valutazione della sentenza costituzionale (in Cass. pen., 1990, p. 1442) e circa i riflessi che ne sono scaturiti, v. F. DELLA CASA, Corte costituzionale e affidamento ‘‘anticipato’’: perfezionamento e rilancio del più recente modello di probation, ivi, p. 1448;
— 181 — scompare, pertanto e correttamente, il richiamo a questo requisito; viene meno, ma impropriamente, anche il riferimento al periodo di libertà goduto dal condannato, presente invece nel testo previgente. È, tuttavia, indubbio che tale requisito vada recuperato in via interpreativa (6), dovendosi escludere che si sia inteso legittimare una applicazione della misura sulla sola base del comportamento carcerario — e quindi del dato disciplinare (7) — quando sia mancato un periodo di libertà antecedente alla esecuzione. Per questa situazione — che rifluisce nella ipotesi tradizionale di cui al comma 2 dell’art. 47 ord. penit. — la concessione dell’affidamento resta tuttora ancorata alla previa osservazione istutizionale. Sempre a proposito della fattispecie in esame, va dato atto della dilatazione operata con riguardo all’arco temporale utile per l’osservazione extracarceraria, ora testualmente riferito al comportamento serbato dal condannato ‘‘dopo la commissione del reato’’. Si tratta di una variazione di rilievo, in quanto idonea a superare parzialmente gli inconvenienti favoriti dalla precedente versione della norma che, secondo l’interpretazione accreditatasi, lo collegava alla irrevocabilità della condanna. Si era osservato, infatti, come con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale ed, in particolare, per effetto della accelerazione impressa ai ritmi processuali dai riti alternativi ivi contemplati, si fosse notevolmente ridotto il tempo intercorrente tra quel momento e l’esecuzione della condanna; ovvio che ne venisse compromessa la possibilità di una rilevazione dei dati comportamentali significativi ai fini della concessione della misura (8) al punto che la giurisprudenza si era risolta ad ammettere una valutazione estesa alla condotta serbata dal condannato addirittura antecedentemente alla commissione del reato (9). La nuova norma toglie credito a tali forzature interpretative, ma tralasciando la predeterminazione legale di criteri valutativi utilizzabili ove la richiesta di affidamento sostitutivo A. BERNASCONI, La divaricazione funzionale dell’affidamento in prova e l’obsolescenza del modello correzionale, in questa Rivista, 1991, p. 1315. (6) In questo senso, A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, in AA.VV., Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 142; A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie, cit., p. 43. (7) Esprime questa convinzione, alla luce della difficile praticabilità dell’osservazione istituzionale nei confronti di condannati a pene di breve e di brevissima durata, M. VAUDANO, Con un intervento approssimativo si amplia il ricorso alla detenzione domiciliare, in Guida dir., 1998, n. 23, p. 30. (8) Così P. FORNACE-M.T. GANDINI-P. VELLUDO, Riflessioni sul fenomeno della decarcerazione conseguente all’applicazione della c.d. ‘‘Legge Gozzini’’ con particolare riguardo all’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale senza osservazione e della liberazione anticipata prevista per il periodo trascorso agli arresti domiciliari, in La magistratura di sorveglianza, Quaderni del C.S.M., n. 80, 1995, p. 419. (9) Cass. 14 ottobre 1991, Siciliano, in Cass. pen., 1993, p. 175.
— 182 — sia presentata a breve distanza dal reato, ha omesso di predisporre il vero rimedio alle difficoltà operative segnalate. A talune considerazioni si presta anche la ridefinizione delle vie d’accesso stabilite per la concessione dalle misura, la cui disciplina è stata frazionata in due distinti sedi normative. Per il caso di istanza presentata da condannato in libertà, dispone,infatti,la previsione dell’art. 656 comma 5 c.p.p. nella quale è confluita la precedente statuizione del comma 3 dell’art. 47 ord. penit. Coerentemente con gli intenti, perseguiti dalla legge del 1998 — di agevolazione alla applicazione delle alternative penitenziarie e di tutela dei soggetti deboli — al condannato si consente di sfruttare il nuovo congegno della sospensione automatica dell’esecuzione, attivata dal pubblico ministero, e l’informativa obbligatoriamente e contestualmente comunicatagli circa una eventuale richiesta di applicazione della misura: ciò vale, come è evidente, a preservare lo stato di libertà di chi presenti istanza, fino alla decisione di merito del tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo che sia sede dell’ufficio del pubblico ministero dell’esecuzione. Si deve osservare, tuttavia, che in proposito operano le preclusioni fissate dal comma 9 dell’art. 656 c.p.p. con riguardo agli autori dei reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. e relativamente alla situazione di custodia cautelare in atto — per il medesimo fatto oggetto della condanna da eseguire — al momento della sentenza. La soluzione appare condivisibile in quanto mirata al soddisfacimento delle esigenze di salvaguardia della collettività, fine cui giova impedire che sia conservata o restituita la libertà a soggetti di cui si presume la pericolosità in ragione del titolo del reato commesso o in relazione alla situazione detentiva in cui gli stessi si trovano. Non è un caso che entrambi gli sbarramenti vangano a cadere con riguardo a istanze presentate a detenzione istaurata e sottoposte al filtro di merito del magistrato di sorveglianza (art. 47 comma 4 ord. penit.), vale a dire ad una valutazione non meramente formale di un organo giurisdizionale. Quella appena indicata costituisce la seconda via d’accesso alla forma in esame della misura, riferita appunto a condannato già raggiunto dall’ordine di esecuzione e, pertanto, in stato detentivo.La relativa procedura — applicabile,come si vedrà, anche all’affidamento in prova trattamentale — è descritta dall’art. 47 comma 4 ord. penit. ove si stabilisce che sull’istanza si pronunci in via provvisoria il magistrato di sorveglianza, autorizzato a disporre la sospensione della esecuzione e la conseguente scarcerazione del condannato. Si tratta di un meccanismo per certi versi omologo e speculare rispetto a quello definito dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p. e previsto in funzione di rimedio per i casi di mancata applicazione preventiva delle alternative. Si spiega in tal modo perché il suo effetto sia quello di provocare proprio la scarcerazione del condannato, in sostanza il recu-
— 183 — pero della libertà prima della applicazione della misura, questione rimessa al giudice collegiale di sorveglianza. Si può aggiungere che la scelta legislativa si profila coerente con la connotazione sostituiva della fattispecie in esame, riflettendo appunto quella trasfusa nella parallela disposizione del comma 5 dell’art. 656 c.p.p. Resta da rimarcare un’inspiegabile disarmonia (10) nella disciplina della misura, messa in risalto dal segnalato parallelismo con la norma codicistica: mentre questa (comma 6 dell’art. 656 c.p.p.) àncora la competenza alla sede dell’ufficio del pubblico ministero, la norma penitenziaria la fissa con riguardo al luogo ove eseguita la pena (11) con ciò venendo a sciogliere quel legame tra autorità giudicante e condannato, costruito dalla disciplina previgente allo scopo di facilitare il reperimento dei dati probatori utili alla decisione. In sostanza, pur essendo in gioco la medesima fattispecie di affidamento in prova, la competenza al riguardo muta in relazione allo stato — di libertà o di detenzione — in cui versi il condannato, dato questo del tutto casuale e irrilevante a fronte della identità del presupposto a base della misura. Non si può negare che la questione più significativa prospettasi con riguardo alla sua nuova regolamentazione sia quella relativa alla portata della preclusione prevista dal comma 7 dell’art. 656 c.p.p. che, come è noto, vieta di disporre più di una sospensione anche in presenza di successive istanze diversamente motivate. Il problema si pone per il caso in cui il condannato abbia già ‘‘fatto uso’’, ma senza successo, della sospensione della esecuzione attivata d’ufficio dal pubblico ministero, giacché ci si è chiesti se, una volta sottoposto alla pena e avanzata istanza a norma dell’art. 47 comma 4 ord. penit., lo stesso possa ottenere altra sospensione, questa volta di iniziativa del magistrato di sorveglianza. Per la sua più appropriata soluzione va tenuto presente che il problema solo in apparenza si configura in termini lineari: fattori di complicazione derivano dal rilievo che lo sbarramento stabilito dal comma 7 del(10) Analogamente, A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, cit., p. 146; A. PRESUTTI, Condannato in vinculis e sospensione dell’esecuzione ex art. 47 comma 4 ord. penit. (a proposito di una discutibile scelta normativa in tema di competenza territoriale) (in corso di pubblicazione). Valutano invece positivamente la scelta legislativa, F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, in Legisl. pen., 1998, p. 799 (per gli effetti di semplificazione che ne conseguono circa la competenza a decidere su qualunque istanza di affidamento in prova avanzata da sogetto detenuto) e P. COMUCCI, La competenza territoriale in ordine alla sospensione dell’esecuzione di una pena in corso, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 877 (per la sua funzionalità all’adozione della decisione sulla sospensione dell’esecuzione in tempi più rapidi). (11) In questo senso si è orientata la giurisprudenza dalla Cassazione intervenuta a dirimere un conflitto di competenza favorito dall’ambiguità del testo della norma dell’art. 47 comma 4 ord. penit.: Cass. 15 gennaio 1999, Litrico, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 873; Cass. 5 gennaio 1999, Giovannoni, in CED 212465.
— 184 — l’art. 656 c.p.p. allude — e mira ad evitare — il fenomeno delle istanze reiterate strumentalmente dal condannato allo scopo di paralizzare l’inizio dell’esecuzione, fenomeno tipico del sistema previgente, ma non più ipotizzabile nel nuovo contesto normativo ove la sospensione della esecuzione è, per così dire, subìta anziché provocata dal condannato. Da questa scelta anacronistica sono originate incertezze e disorientamenti interpretativi. Per taluni la preclusione conserva comunque la funzione attribuitale (12) e, pertanto, i suoi effetti vanno contenuti nell’ambito esclusivo della norma dell’art. 656 c.p.p. (13): in altre parole, essa impedisce al pubblico ministero di disporre altra sospensione ove il condannato presenti nuova istanza nelle more tra la decisione negativa del tribunale di sorveglianza e la revoca del provvedimento di sospensione automatica adottato ex art. 656 comma 5 c.p.p. Altri (14) le riconoscono una portata generale e quindi affermano la sua operatività a tutto campo, vale a dire in relazione sia al potere sospensivo del pubblico ministero ex art. 656 comma 5 c.p.p. sia a quello spettante al magistrato di sorveglianza a norma dell’art. 47 comma 7 ord. penit. All’una e all’altra soluzione è consentito replicare avvalendosi di una argomentazione d’ordine sistematico: dal nuovo assetto normativo non è dato estrarre alcuna previsione che, in via di regola (15), autorizzi il pubblico ministero a disporre la sospensione della esecuzione su istanza del condannato. In presenza di una decisione negativa sulla richiesta avanzata dal condannato sfruttando la sospensione automatica disposta a norma dell’art. 656 comma 5 c.p.p., al pubblico ministero non residua altra competenza che quella di dare corso al decreto di esecuzione provvisoriamente sospeso. Da qui la possibilità di ritenere che la preclusione del comma 7 dell’art. 656 c.p.p. valga con esclusivo riferimento al potere so(12) V. MACCORA, La disciplina dell’art. 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza alla luce della riforma operata dalla legge 27 maggio 1998 n. 165, in AA.VV., Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 85. (13) F. DELLA CASA, Commento all’art. 1 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 772. (14) N. MAZZAMUTO, Carceri e sistema penitenziario, in Gazz. giur., 1998, n. 25, pp. 4 e 6. (15) Va tenuto presente che, poiché la nuova previsione dell’art. 656 comma 5 c.p.p. richiama espressamente anche le ipotesi regolate dagli artt. 90 (sospensione dell’esecuzione della pena) e 94 (affidamento terapeutico), si ritiene che da essa sia stata assorbita la procedura contemplata dal comma 3 dell’art. 90 d.P.R. n. 309 del 1990 che riconosce al pubblico ministero un potere sospensivo su istanza del condannato in libertà (F. DELLA CASA, Commento all’art. 1 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 773): pertanto, l’unica situazione in cui sopravvive in capo al pubblico ministero la possibilità di un intervento sospensivo (scarcerazione) è quella disciplinata dal comma 4 dell’art. 90 d.P.R. n. 309 del 1990 (richiamato dal comma 2 dell’art. 94 d.P.R. n. 309 del 1990) attinente tuttavia a richiesta avanzata da condannto in vinculis e da considerarsi eccezionale in quanto connessa alle peculiari finalità della normativa relativa a soggetti tossicodipendenti.
— 185 — spensivo attribuito al magistrato di sorveglianza dall’art. 47 comma 4 ord. penit., questo certo sollecitato dal condannato. Ove si consideri, tuttavia, che la norma da ultimo citata, rappresenta, nell’intentio legis, un rimedio approntato per chi non abbia ottenuto l’applicazione preventiva delle misure alternative e tenendo presente che quella demandata al magistrato di sorveglianza è una sospensione non automatica, ma sottoposta a vaglio critico, pare proponibile una soluzione che riservi allo stesso organo giurisdizionale il compito di verificare in concreto se la successiva istanza possa qualificarsi come meramente strumentale e, quindi, preclusiva di una ulteriore sospensione. 3. Affidamento in prova in funzione trattamentale (art. 47 comma 2 ord. penit.): verso la configurazione di una forma anomala della misura. — A proposito all’affidamento in prova di natura trattamentale, che fa perno sui risultati della osservazione condotta in carcere, vale la pena di richiamare quanto osservato in esordio ed, in particolare, che le variazioni apportate alla relativa disciplina inducono a mettere in dubbio la sua fisionomia originaria di misura deputata alla risocializzazione del condannato (16). È quanto si ricava dalla nuova procedura applicativa stabilita dall’art. 47 comma 4 ord. penit. che inequivocabilmente impone al condannato in esecuzione della pena di presentare richiesta al magistrato di sorveglianza (17), abilitato, come già detto, a disporne la scarcerazione ove ritenga integrati i presupposti dell’affidamento in prova, sussistente il grave pregiudizio connesso al protrarsi della esecuzione e assente il rischio di fuga. Come si può notare, pur dovendo accertare i requisiti necessari per la misura, il magistrato di sorveglianza non è autorizzato a disporne l’applicazione, rimessa alla competenza esclusiva del giudice collegiale di sorveglianza. Va rilevato, inoltre, che per la decisione di merito è fissato un termine di quarantacinque giorni di cui sono certe la natura ordinatoria e (16) V., al riguardo, i dubbi formulati a proposito della norma dell’art. 47 comma 4 ord. penit. ai quali la Corte costituzionale (ord. n. 375 del 1999) ha obiettato che la nuova disciplina ivi prevista non coinvolge la legittimità della misura, ma è frutto di scelte di politica penitenziaria rimesse, come tali, alla discrezionalità del legislatore. (17) In tal senso A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca postrieducativa, cit., p. 139; (implicitamente) M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 1999, p. 218; F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 801; A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie, cit., p. 47. Contra V. MACCORA, La disciplina dell’art. 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza, cit., p. 109 che esclude l’operatività del meccanismo sospensivo ex comma 4 dell’art. 47 ord. penit. e afferma che la richiesta di affidamento in prova di tipo trattamentale va presentata direttamente al tribunale di sorveglianza a norma dell’art. 47 comma 1 e 2 ord. penit. Analogamente Trib. sorv. Milano, ord. 26 aprile 1999, in Foro ambrosiano, 1999, p. 217.
— 186 — le difficoltà di farvi fronte anche per il sovraccarico di lavoro proprio derivato dalla recente riforma. Naturale dedurne che, tra il provvedimento interinale e quello di merito, possa intercorre un intervallo di tempo anche di notevole consistenza nell’arco del quale il condannato viene a trovarsi in una situazione di libertà piena. Scontato osservare che questi, pur essendo stato riconosciuto idoneo — o per meglio dire, bisognoso — all’affidamento in prova, è privato della possibilità di avvalersi del contenuto trattamentale della misura,vale a dire di quegli interventi (prescrizioni comportamentali e sostegno del servizio sociale) finalizzati al reinserimento dei soggetti disadatti e, per ciò, più esposti al rischio di ricaduta nel reato. È inevitabile ritenere che il comportamento assunto dal condannato sarà oggetto di valutazione da parte del tribunale di sorveglianza nel momento in cui dovrà decidere sulla concessione della misura (18). Muovendo da questo dato non sembra fuori luogo affermare che, per effetto delle accennate innovazioni processuali, viene a profilarsi una forma inedita (19) e per certi versi anomala di affidamento in prova che fa leva contemporaneamente (20) sui risultati della osservazione della personalità in carcere e sulla valutazione del comportamento in libertà del condannato (21). Duplice è il riscontro che si può offrire di tale anomalia. Da un lato, in presenza di un comportamento negativo che inibisce l’applicazione della misura, il ritorno in carcere del condannato verrà a sancire un epilogo irrazionale sul piano delle esigenze di prontezza e di effettività della pena e altamente penalizzante per un soggetto considerato già pronto per la misura, ma nel frattempo abbandonato a se stesso. D’altro canto, in presenza di una valutazione favorevole, la concessione dell’affidamento in prova verrà a prospettarsi quale conclusione a dir poco vessatoria (22) comportando — a distanza di tempo a nei confronti di un sog(18) A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, cit., p. 158; F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 807 e, in termini problematici, A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie, cit., p. 49. (19) La considera un vero e proprio tertium genus di affidamento in prova A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, cit., p. 166. (20) Circa l’incidenza che ne deriva sulla natura della delibazione a base della concessione della misura, trasformata da valutazione prognostica (appunto di comportamento futuro) in accertamento di risultato (attinente ad una condotta già assunta e manifestata dal condannato), cfr. A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie, cit., p. 49. (21) Osserva che eventuali défaillances comportamentali del condannato possono rilevare in quanto in grado di meritare una ‘‘presa in carico’’ da parte degli organi di polizia, F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 808. (22) A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, cit., p. 166.
— 187 — getto che ha dimostrato di saper fare buon uso della libertà — la soggezione alla serie delle limitazioni che danno spessore punitivo alla misura. Qualche riflessione si impone, da ultimo, anche circa la preclusione prevista nel secondo periodo dello stesso comma 4 dell’art. 47 ord. penit., a norma del quale è inibito al magistrato di sorveglianza disporre altra sospensione in relazione al medesimo titolo esecutivo ove l’istanza non sia stata accolta e ‘‘quale che sia l’istanza succesisvamente proposta’’, pur non essendo impedita, come è ovvio, al tribunale di sorveglianza l’applicazione dell’alternativa richiesta ove sussistano i relativi presupposti. Se può condividersi l’intenzione a base della norma in esame trattandosi di divieto che evita la presentazione ripetuta di istanze strumentali (23), in sostanza responsabilizzando il condannato, non ci si può nascondere che la sua rigidità appare eccessiva: ne sono pregiudicate, infatti, situazioni in cui si riscontri la reale necessità di pervenire ad una decisione liberatoria in tempi rapidi (24). Perplessità possono essere avanzate anche sotto il profilo della ragionevolezza: lo sbarramento opera limitatamente al caso in cui, successivamente alla sospensione disposta dal magistrato di sorveglianza, l’istanza non sia accolta e, pertanto, l’effetto preclusivo non si verifica ove, concesso l’affidamento in prova da parte del tribunale di sorveglianza, la misura sia stata in seguito revocata (25). Da rilevare, inoltre, come la preclusione in esame, non incidendo sulla applicazione della detenzione domiciliare tanto in via provvisoria ex art. 47-ter comma 1-quater ord. penit. quanto a norma dei corrispondenti commi 1 e 1-bis (26), non valga comunque ad evitare l’uscita dal carcere del condannato. Esaminata la procedura applicativa dell’affidamento in prova quale risulta dal comma 4 dell’art. 47 ord. penit. resta ancora spazio per talune considerazioni più propriamente riferite all’accertamento che la norma devolve al magistrato di sorveglianza. La sua valutazione attiene, come è noto, a tre diversi elementi il primo dei quali si risolve nella sussistenza dei presupposti della misura. A venire in gioco sono, pertanto, la prognosi (23) Rimarcano, pertanto, l’analogia della preclusione in esame con quella stabilita dal comma 7 dall’art. 656 c.p.p. relativamente a istanze presentate dallo stato di libertà, A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, cit., p. 162 e A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie, cit., p. 46. (24) Così F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 802. (25) V., ancora, F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 802. (26) Nel senso che tale conclusione vale ad escludere l’incostituzionalità di un divieto da intendersi necessariamente riferito anche alla fattispecie sospensiva di cui all’art. 684 comma 2 c.p.p., F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 803; contra, A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, cit., p. 163 che ritiene la sospensione ex art. 684 comma 2 c.p.p. non coinvolta dal divieto stabilito dall’art. 47 comma 4 ord. penit. e ciò al fine di evitare un evidente contrasto con i principi di eguaglianza e di umanità della pena.
— 188 — di rieducabilità con il trattamento alternativo, di cui alla norma dell’art. 47 comma 2 ord. penit. e, si deve aggiungere, relativamente ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit., l’accertamento in ordine alla collaborazione processuale o all’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Il secondo oggetto di verifica è rappresentato dal grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato detentivo: rispetto a questo pare corretto escludere un’interpretazione tautologica che intenda il pregiudizio integrato dalla stessa sottoposizione all’esecuzione della pena. Non manca, tuttavia, chi fa salvo il caso di condanna a pena breve, destinata come tale ad esaurirsi in relazione ai tempi occorrenti per la decisione sul merito della misura (27). Il terzo elemento si sostanzia nella assenza del pericolo di fuga, da intendersi come pericolo di volontaria sottrazione alla esecuzione della pena: è certo che debba connotarsi in termini di attualità con conseguente impossibilità di ricondurlo a comportamenti lontani nel tempo (28). È altrettanto certo che tale valutazione risulta particolarmente impegnativa potendo, da un lato, essere riferita a soggetto magari ristretto da tempo in ambiente penitenziario e implicando, d’altro canto, per l’organo decidente, un giudizio che prescinde dalla piattaforma probatoria ordinariamente disponibile nel procedimento di sorveglianza. A conclusione della sommaria ricognizione dei nodi esegetici ricavabili dalla nuova disciplina dell’affidamento in prova, non ci si può sottrarre dallo svolgere talune valutazioni d’ordine più generale. E, da questo punto di vista, è sufficiente osservare come la più recente regolamentazione della misura si riveli inutilmente complessa e frutto di evidente approssimazione: non solo incide sulla identità (costituzionale) dell’alternativa in esame e intacca ulteriormente l’effettività della pena, ma anche, e a ben vedere, nemmeno avvantaggia il condannato, sottoposto al fuoco di fila di innumerevoli rigidi sbarramenti. Sconcerta, soprattutto, constatare come la nuova disciplina apra numerosi fronti problematici senza fornire gli indici necessari alla loro soluzione, rimessa alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza inevitabilmente fonte di non giustificabili disparità applicative. Una situazione, questa appena delineata, destinata a complicarsi a fronte della configurazione della ulteriore ipotesi di affidamento in prova (art. 47-quater ord. penit.), introdotta dalla recentissima legge 12 luglio 1999 n. 231. Pensata per i soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, l’alternativa di nuovo conio pare, in realtà, prendere a prestito dell’affidamento in prova (e della detenzione (27) A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, cit., p. 159; V. MACCORA, La disciplina dell’art. 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza, cit., p. 105. (28) F. DELLA CASA, Commento all’art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 805.
— 189 — domiciliare) la sola sua conformazione strutturale di trattamento che evita e prescinde dalla segregazione carceraria, per il resto, rettificando presupposti, contenuti e finalità così da adattarli alle peculiarità dei suoi naturali destinatari. 4. Affidamento in prova in funzione terapeutica (art. 47-bis ord. penit./art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309): incoerenze sistematiche e letture correttive. — Non meno evidente — e degna di censura — è l’approssimazione riscontrabile in relazione alla modifica che coinvolge l’affidamento terapeutico, riservato a condannati tossicodipendenti e alcooldipendenti. Su di esso la legge in esame incide disponendo l’abrogazione espressa dell’art. 47-bis ord. penit., norma che segna la genesi penitenziaria della misura la quale, pertanto, deve ritenersi attualmente disciplinata dall’art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309. È noto che, già prima di questo intervento, si reputava che la norma dell’art. 47-bis ord. penit. fosse stata oggetto di abrogazione implicita (29), conseguente al trasferimento della regolamentazione della misura nella sede del testo unico sugli stupefacenti (art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309), in attuazione della delega disposta con l’art. 37 della l. n. 26 del 1990. E, per effetto di tale diversa collocazione sistematica, ci si era orientati ad affermare che l’affidamento terapeutico non subisse le restrizioni stabilite dall’art. 4-bis ord. penit. (30), testualmente riferito alle ‘‘misure alternative alla detenzione previste dal capo VI’’ del titolo I della legge penitenziaria. L’abrogazione espressa dell’art. 47-bis ord. penit. pareva in grado risolvere definitivamente il problema, avallando una interpretazione sulla quale si erano attestate la prevalente dottrina, la giurisprudenza nonché la stessa Corte costituzionale (sent. n. 377 del 1997). Ad una simile conclusione si oppone, tuttavia, la nuova norma dell’art. 656 comma 9 c.p.p. che vieta la sospensione automatica della esecuzione (ex comma 5 dell’art. 656 c.p.p.) relativamente a condanne per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. Poiché tale preclusione opera senza eccezione alcuna, se ne dovrebbe ricavare che, anche ove in possesso dei presupposti (limite della pena, stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza e programma terapeutico) contemplati per l’affidamento particolare, il condannato per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. non potrebbe giovarsi del nuovo congegno di cui all’art. 656 comma 5 c.p.p. per ottenere la concessione della misura in via anticipata, vale a dire a prima della (29) G. DI GENNARO-G. LA GRECA, La droga, Milano, 1992, p. 324; M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 1996, p. 410. (30) M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario (Milano, 1996), p. 411; Cass. 23 marzo 1998, Bruzzone, in Gazz. giur., 1998, n. 26, IV, p. 58. Contra G. CATELANI, Manuale dell’esecuzione penale, Milano, 1988, p. 394; Cass. 14 febbraio 1997, Longo, in Riv. pen., 1997, p. 767.
— 190 — esecuzione dell’ordine di carcerazione ed al fine di evitare la sottoposizione alla detenzione. Si deve osservare come la preclusione in esame (comma 9 dell’art. 656 c.p.p.) non tocchi la procedura di applicazione dell’affidamento terapeutico attivabile dal condannato in vinculis (art. 91 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309) né possa coinvolgerla in via di una improponibile estensione analogica (31). Resta fermo, pertanto, che, una volta sottoposto alla esecuzione della pena in carcere, il medesimo condannato per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. può presentare istanza di affidamento terapeutico al pubblico ministero, obbligato a disporne la scarcerazione immediata in attesa della decisione di merito del tribunale di sorveglianza. In sostanza, ciò che è impedito dall’art. 656 comma 9 c.p.p. è invece permesso dalla previsione dell’art. 91 comma 4 d.P.R 9 ottobre 1990 n. 309 con la conseguenza che, relativamente alla categoria dei condannati per i delitti di sui all’art. 4-bis ord. penit., l’affidamento particolare risulta necessariamente preceduto da un ‘‘assaggio’’ di carcere, in aperto contrasto con le finalità incentivanti alla scelta terapeutica perseguite dalla normativa del testo unico sugli stupefacenti. È così che, per superare una tale stridente contraddizione, si rende necessario compiere una scelta di campo: privilegiare le finalità della legislazione speciale per i tossicodipendenti o, al contrario, fare salve le esigenze di contrasto della criminalità organizzata al fine, ripettivamente, di ammettere (32) e di escludere (33) la sospensione automatica della esecuzione quando la pena inflitta al soggetto tossicodipendente(/alcooldipendente) consegua alla condanna per i delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit. Ma, come è evidente, ancora una volta una maldestra operazione di riforma rimette all’interprete, più propriamente e come si è visto alle sue preferenze ideologiche, l’individuazione della soluzione più appropriata. ADONELLA PRESUTTI Associato di Procedura penale nell’Università di Verona
(31) Analogamente F. DELLA CASA, Commento all’art. 3 della legge 27 maggio 1998, n. 165, in Legisl. pen., 1998, p. 810. (32) F. DELLA CASA, Commento all’art. 3 della legge 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 810; V. MACCORA, La disciplina dell’art. 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza, cit., p. 94; Cass. 15 dicembre 1998, Pontillo, in CED 212263. (33) R. NORMANDO, I limiti alla sospensione dell’esecuzione, in AA.VV., Sospensione della pena ed esecuzione extra moenia, Milano, 1998, p. 121.
LA SEMILIBERTÀ NEL QUADRO DELLA LEGGE 27 MAGGIO 1998 N. 165: APORIE E DISFUNZIONI
SOMMARIO: 1. Le linee-guida della novella del 1998: cenni introduttivi. — 2. La semilibertà per le pene non superiori a sei mesi (art. 50 commi 1 e 6 ord. penit.). — 3. (Segue): concedibilità della misura ad esecuzione iniziata e sospensione provvisoria dell’esecuzione connessa alla presentazione dell’istanza. — 4. La semilibertà ‘‘surrogatoria’’ dell’affidamento in prova: una misura (ormai) priva di presupposti. — 5. (Segue): può il condannato non detenuto fruire della semilibertà surrogatoria dell’affidamento in prova?
1. Le linee-guida della novella del 1998: cenni introduttivi. — Chiamate in causa dalla legge 27 maggio 1998 n. 165 al fine di risolvere i problemi connessi all’eccessivo ricorso alla pena detentiva, le misure alternative alla detenzione hanno subìto profonde trasformazioni morfologiche. Affidamento in prova e semilibertà, in particolare, sono state polverizzate in una molteplicità di fattispecie, con e senza osservazione intramuraria, e fortemente diversificate sono risultate le rispettive cadenze applicative: tutto ciò nella speranza che, in qualche maniera, esse si prestassero ad alleggerire le presenze negli istituti penitenziari o ad impedirvi l’ingresso del condannato. È sembrato così delinearsi un nuovo assetto dell’esecuzione penale, teso a privilegiare la via di fuga dalla sanzione detentiva di media durata e alla ricerca, dunque, di una legittimazione fondata su esigenze di decarcerizzazione. In prima battuta, è stato perseguito il riequilibrio del sistema verso una maggiore tutela delle fasce di condannati più deboli e sfavorite; il mezzo individuato è consistito nella sospensione automatica dell’ordine di esecuzione (art. 656 comma 5 c.p.p.) che, in via mediata, punta a facilitare l’accesso dalla libertà all’affidamento in prova e alla semilibertà (nonché alla detenzione domiciliare). In seconda istanza, l’urgenza di una decongestione degli istituti penitenziari è stata affrontata, in via diretta, con la predisposizione di una corsia preferenziale di recupero della libertà (art. 47 comma 4 ord. penit.), gestita dal magistrato di sorveglianza, abilitato a sospendere l’esecuzione della pena e a scarcerare il condannato in vista di una futura e possibile applicazione dei citati « benefici » da parte del tribunale. Ma, quasi a confermare i giudizi negativi espressi all’epoca della en-
— 192 — trata in vigore della legge n. 165 del 1998 (1), un anno e mezzo di sperimentazione rivela la delusione delle aspettative, a quel tempo formulate, di una razionalizzazione delle vie di accesso alle alternative e, soprattutto, di una apprezzabile contrazione quantitativa della popolazione detenuta. Addirittura, rinvigoriti focolai di allarme sociale spingono oggi verso un ridimensionamento dell’orbita operativa di una normativa non ancora uscita dalla fase di rodaggio. Con particolare riferimento alla misura della semilibertà, l’intervento legislativo del 1998 ha presentato una minore incidenza ricostruttiva rispetto alle altre figure oggetto di attenzione. Tuttavia, ad un disamina più approfondita, non poco alterate appaiono le fisionomie della semilibertà per le pene brevi e della fattispecie ‘‘surrogatoria’’ dell’affidamento in prova; significativi mutamenti sono riscontrabili altresì sul piano dei rapporti interni tra le varie tipologie annoverate nell’ambito dell’art. 50 ord. penit.; infine, il problema della concedibilità in via anticipata della semilibertà per le pene di media durata risulta, nella nuova disciplina, ancora lontano dall’essere risolto. 2. La semilibertà per le pene non superiori a sei mesi (art. 50 commi 1 e 6 ord. penit.). — Le linee direttrici della riforma della semilibertà riservata ai condannati a pene non superiori ai sei mesi hanno previsto un ampliamento delle opportunità applicative e un allineamento dei requisiti soggettivi. La modifica legislativa sul primo versante avviene su due piani, tra loro speculari: alla sospensione dell’esecuzione (comma 5 dell’art. 656 c.p.p.) che permette al condannato in stato di libertà di proporre istanza esclusivamente per la concessione della figura di semilibertà prevista dal comma 1 dell’art. 50 ord. penit., fa da contrappunto un mutamento (del comma 6 della medesima norma) finalizzato a permettere che la misura venga « altresì disposta successivamente » all’inizio della detenzione; anche in tale caso il magistrato di sorveglianza potrà disporre, per il periodo di tempo necessario alla pronuncia di merito del tribunale, la sospensione della pena seguendo i dettami — « in quanto compatibil[i] » — del comma 4 dell’art. 47 ord. penit. In tale contesto la legge promuove un ulteriore cambiamento: il presupposto comportamentale della « volontà di reinserimento nella vita sociale », originariamente contemplato solo per la concessione anticipata della misura, è ora espressamente esteso alla situazione di chi fa richiesta della semilibertà a esecuzione iniziata (‘‘nuovo’’ comma 6 dell’art. 50 ord. penit.). (1) Cfr. i contributi apparsi nel volume Esecuzione penale e alternative penitenziarie, a cura di A. Presutti, Padova, 1999, passim, nonché M. VAUDANO, Con un intervento frettoloso e approssimativo si amplia il ricorso alla detenzione domiciliare, in Guida dir., 1998, n. 23, p. 24 ss.
— 193 — Occorre verificare allora la portata di questa manovra, vuoi sui rapporti che si vengono a ridefinire tra le varie forme di semilibertà, vuoi sul livello di razionalità intrinseca a questa particolare misura « semialternativa » (2). Già alle origini la disciplina della fattispecie presentava significative incongruenze. Pensata per soddisfare finalità antidesocializzanti, la semilibertà per le pene non superiori a sei mesi si offre da subito con sembianze anomale, incardinata nella struttura della figura principale destinata ai condannati a pene medio-lunghe (3): trascurando che le peculiarità della natura e delle funzioni la apparentavano alle sanzioni sostitutive, il legislatore penitenziario del 1975 aveva omesso di differenziarne in maniera adeguata la regolamentazione, realizzando così una evidente forzatura; mentre la semilibertà ‘‘ordinaria’’ costituiva un beneficio preparatorio al ritorno in libertà del condannato, la tipologia qui in esame si affrancava dalle finalità risocializzanti finendo, a causa della sua portata sostitutiva, per sovrapporsi all’area applicativa della figura gemella della semidetenzione, introdotta qualche anno dopo dalla legge 24 novembre 1981 n. 689 e applicabile in sede di cognizione in luogo di una pena rientrante nei limiti dei sei mesi di reclusione. Successivamente, la legge 10 ottobre 1986 n. 663 cercava di risolvere una palese incoerenza prospettatasi nell’esperienza applicativa. La giurisprudenza infatti esigeva, ai fini dell’applicazione della misura, che il condannato avesse iniziato l’esecuzione della pena al momento dell’istanza (4); la necessità di non interrompere un percorso rieducativo già avviato in sede extramuraria condusse all’introduzione di una modalità di accesso alla semilibertà che prescindeva dalla instaurazione della detenzione. Ispirato all’analoga soluzione adottata in tema di affidamento in prova, il dettato del comma 6 dell’art. 50 ord. penit. prevedeva che la semilibertà per le pene non superiori a sei mesi potesse essere « altresì disposta » prima dell’inizio dell’esecuzione qualora il condannato avesse dimostrato « la propria volontà di reinserimento nella vita sociale ». Infine, il legislatore, incrementando fino ad un anno il tetto di pena utile a consentire la sostituzione della pena detentiva con la semideten(2)
F. DELLA CASA, Commento all’art. 5 L. 27/5/1998, n. 165, in Leg. pen., 1998, p.
824. (3) Al riguardo, G. CASAROLI, La semilibertà, in Le nuove norme sull’ordinamento penitenziario, a cura di G. Flora, Milano, 1987, p. 274; L. DAGA, Semilibertà, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, p. 1125; F. PALAZZO, La disciplina della semilibertà: evoluzione normativa e ampiezza funzionale di un « buon » istituto, in L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, 1994, p. 405. (4) Per alcuni dati in proposito, A. PRESUTTI, sub Art. 50, in Ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, a cura di V. Grevi-G. Giostra-F. Della Casa, Padova, 1997, p. 407.
— 194 — zione (5), ha ulteriormente accentuato le interferenze con la semilibertà; l’ambito applicativo di quest’ultima coincide ora parzialmente (fino a sei mesi di reclusione) con l’area di pertinenza della semidetenzione. In tale quadro, le interpolazioni operate dalla legge n. 165 del 1998 producono conseguenze di non poco conto, sovente contraddittorie. L’inclusione della semilibertà per le pene di breve durata nel complesso delle misure alternative alle quali il condannato può accedere presentando istanza durante il periodo di sospensione dell’ordine di esecuzione (comma 5 dell’art. 656 c.p.p.) appare, ad una prima lettura, un intervento scontato e necessitato: non certo casuale, il richiamo specifico alla figura di cui al comma 1 dell’art. 50 ord. penit. recepisce, irrobustendola, la regola (comma 6) che ne consentiva la somministrazione in un momento anticipato. È, innanzi tutto, rilevabile un filone di continuità rispetto al passato contrassegnato dalla valenza antidesocializzante della misura. Avere previsto nell’art. 656 comma 5 c.p.p., quale unica forma di semilibertà concedibile prima dell’inizio dell’esecuzione, quella relativa alle pene di breve durata comporta, per un verso, l’accentuazione della suddetta propensione e, per l’altro, una più spiccata autonomia della fattispecie. Altri fattori confortano questa conclusione. In primo luogo, la vaghezza del presupposto inerente alla « volontà di reinserimento nella vita sociale » (comma 6 dell’art. 50 ord. penit.) che, com’è noto, indirizzava l’applicazione della misura alternativa verso una dimensione indulgenziale quando non, addirittura, ad un suo impiego indiscriminato e generalizzato (6); dall’assetto dell’art. 50 ord. penit. si ricava, dunque, una contrapposizione tra la semilibertà prevista per le pene detentive non superiori a sei mesi e la semilibertà applicabile a pene medio-lunghe (art. 50 comma 2 primo periodo ord. penit.) già rafforzata dalla legge n. 663 del 1986 attraverso un irrigidimento dei presupposti stabiliti per quest’ultima dal comma 4 della disposizione medesima. Inoltre, le possibilità applicative della semilibertà per pene brevi sono state incrementate proprio dal legislatore del 1998: il condannato in stato di detenzione può vedere l’esecuzione della pena sospesa (ed essere scarcerato) in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza. Innegabile che per tale strada la valenza propriamente sostitutiva della misura risulti accresciuta. 3. (Segue): concedibilità della misura ad esecuzione iniziata e sospensione provvisoria dell’esecuzione connessa alla presentazione dell’i(5) Ciò è avvenuto con l’art. 5 della legge 12 agosto 1993 n. 296 dedicata a « Nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri »: in merito, B. GIORDANO, Commento all’art. 5 L. 12 agosto 1993 n. 296, in Leg. pen., 1993, p. 697. (6) F. PALAZZO, La disciplina della semilibertà, cit., p. 407.
— 195 — stanza. — Alla riformulazione del comma 6 dell’art. 50 ord. penit. consegue, come già ricordato, l’allineamento di due diverse situazioni sotto il profilo dei requisiti soggettivi (7): non solo per la semilibertà concedibile dallo status libertatis ma, ora, anche per quella applicabile al condannato detenuto (comma 1) viene richiesta la dimostrazione della volontà di reinserimento sociale (8). È comunque evidente che la semplice pretesa di una ‘‘dimostrazione di volontà’’ positiva induce a ritenere inapplicabile qualunque osservazione intramuraria della personalità prolungata nel tempo. Lo confermano, del resto, sia la proiezione sostitutiva e antidesocializzante della misura, sia la configurata possibilità di una sospensione dell’esecuzione rimessa alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza. La sospensione interinale dell’esecuzione in vista dell’ammissione alla semilibertà (art. 50 comma 6 ord. penit.) è frutto di istanze perequative analoghe a quelle fatte proprie dalla disciplina di cui al comma 4 dell’art. 47 ord. penit.: per un verso, attenua la rigidità delle preclusioni stabilite dall’art. 656 c.p.p., prospettando al condannato in stato di detenzione un ritorno provvisorio alla libertà a seguito della presentazione della domanda di ammissione alla misura e, per l’altro, abbatte i rischi connessi ad un (inutile) prolungamento della carcerazione nell’attesa della decisione del tribunale di sorveglianza. Il congegno in oggetto non realizza affatto una applicazione provvisoria della semilibertà: una simile illazione è smentita dal dato testuale della norma (nulla è stabilito al riguardo) e dalla volontà del legislatore che, solo nell’ambito della detenzione domiciliare, ha esplicitamente configurato (comma 1-quater dell’art. 47-ter ord. penit.) un tale potere in capo al magistrato di sorveglianza. Il condannato potrà quindi attendere in libertà la decisione del tribunale (9). Il terreno su cui il giudice monocratico sarà chiamato ad esprimere una valutazione è alquanto scivoloso: il comma 6 dell’art. 50 ord. penit. rinvia infatti all’art. 47 comma 4 ord. penit. « in quanto compatibile » (10) che, come è noto, devolve al magistrato di sorveglianza l’accertamento dei presupposti per l’ammissione alla misura alternativa (in que(7) Per una diversa lettura cfr. F. DELLA CASA, Commento all’art. 5 L. 27/5/1998 n. 165, cit., pp. 827-828, il quale ritiene che la ‘‘nuova’’ previsione di cui al comma 6 dell’art. 50 ord. penit. sia male coordinata con quelle risultanti dai precedenti commi della stessa disposizione. (8) Sempre F. DELLA CASA, Commento all’art. 5 L. 27/5/1998 n. 165, cit., p. 827 parla, in proposito, di « troppo meccanica riconversione » a cui è andato soggetto il comma 6 dell’art. 50 ord. penit. (9) Le controindicazioni e gli effetti perversi connessi a tale metodo dilatorio sono messi in luce, con particolare riguardo al meccanismo previsto per l’affidamento in prova (comma 4 dell’art. 47 ord. penit.), da A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie: la pena rinnegata, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., pp. 37-38. (10) Sull’assenza di parametri idonei ad orientare la decisione dell’organo monocra-
— 196 — sto caso, l’affidamento in prova), la verifica di un attuale « grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione » e il controllo sull’assenza di un pericolo di fuga. Spetta all’applicazione concreta individuare i canoni su cui fondare quella prognosi di concedibilità della misura che apre la strada ad una provvisoria sospensione della pena. Poiché la posta in gioco è il futuro accesso alla semilibertà per una pena non superiore a sei mesi, è ipotizzabile che il magistrato di sorveglianza debba in qualche modo apprezzare, nel comportamento del condannato, la sussistenza della volontà di reinserimento nella vita sociale; il grave pregiudizio derivante dalla protrazione della carcerazione deve essere considerato implicito in una pena di così breve durata mentre, per lo stesso motivo, risulta difficile motivare la presenza di un fondato pericolo di fuga. 4. La semilibertà ‘‘surrogatoria’’ dell’affidamento in prova: una misura (ormai) priva di presupposti. — La semilibertà per le pene di media durata — introdotta dalla legge n. 663 del 1986 — intendeva correggere una stortura che la prassi registrava con frequenza: ove al condannato a pena detentiva non superiore a tre anni non risultasse applicabile l’affidamento in prova, la concessione del più restrittivo regime della semilibertà restava impedita, pure in presenza dei necessari requisiti soggettivi, qualora non fosse stata espiata almeno metà della pena, presupposto oggettivo stabilito per la misura; a tale inadeguatezza della normativa si pose in parte rimedio statuendo che « nei casi previsti dall’art. 47, se i risultati dell’osservazione di cui al comma 2 dello stesso articolo non legittimano l’affidamento in prova al servizio sociale ma possono essere valutati favorevolmente in base ai criteri indicati dal comma 4 del presente articolo, il condannato » — per un reato diverso da quelli indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit. — « può essere ammesso al regime di semilibertà anche prima dell’espiazione di metà della pena » (art. 50 comma 2 terzo periodo ord. penit.). Con ciò restava, tuttavia, senza risposta la questione relativa alla eventuale concedibilità in via anticipata della misura: modalità, invece, prevista per l’affidamento in prova. Una carenza destinata ad accentuarsi dopo che la Corte costituzionale era intervenuta ad eliminare, dal testo originario del comma 3 dell’art. 47 ord. penit., il requisito del periodo di custodia cautelare presofferta (11); in questo modo, osservazione intramuraria ed osservazione sul comportamento tenuto in libertà venivano ad assumere pari valore (12) e l’applicazione dell’affidamento tico v., ancora, A. PRESUTTI, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie, cit., pp. 48-50. (11) V. Corte cost., sent. 13 dicembre 1989 n. 569, in Cass. pen., 1990, p. 1442 ss., con nota di F. DELLA CASA, Corte costituzionale e affidamento « anticipato »: perfezionamento e rilancio del più recente modello di probation. (12) Sulle conseguenze derivanti dalla sentenza della Corte costituzionale cfr. A.
— 197 — dallo status libertatis risultava facilitata: viceversa, la concessione della semilibertà surrogatoria rimaneva ancorata all’espiazione di un quantum di pena (13). Sempre con la riforma del 1986 venne a profilarsi un ulteriore aspetto problematico. Il richiamo, operato dal comma 2 dell’art. 50 ord. penit., ai presupposti soggettivi enucleati nel comma 4 della norma medesima (presenza di progressi compiuti nel corso del trattamento e delle condizioni per un graduale reinserimento nella società) si rivelò, negli schemi della prassi, del tutto inconcludente: l’inutilizzabilità del criterio relativo ai « progressi » dimostrati durante il trattamento era data per scontata a causa del breve lasso di tempo accordato all’attività di osservazione e, pertanto, in una logica compensativa, si insisteva sulla necessità di verificare sia l’esistenza di condizioni ambientali esterne favorevoli, sia la disponibilità del condannato a trarne profitto (14). A queste disfunzioni dà una (ben singolare) risposta l’interpolazione operata sul comma 2 dell’art. 50 ord. penit. da parte del legislatore del 1998; l’intervento elimina ogni questione: identificando le condizioni di accesso alla semilibertà con la semplice mancanza dei presupposti per l’affidamento in prova, il rapporto che lega la semilibertà all’affidamento viene ridefinito in termini di pura residualità. Cade il riferimento esplicito agli esiti dell’osservazione compiuta ai fini del beneficio più favorevole e, conseguentemente, viene rimossa la necessità di una valutazione dei medesimi elementi nell’ottica dei criteri individuati dal comma 4 dell’art. 50 ord. penit. (15); alla riscrittura delle condizioni per l’affidamento in prova (perdita di centralità dell’osservazione intramuraria) corrisponde la semplificazione delle modalità di accesso alla semilibertà. Solo in apparenza la manovra può essere identificata come attività di puro coordinamento (16) tra due misure alternative i cui reciproci nessi ed interazioni risultano sensibilmente modificati. Ci si può limitare, in questa sede, ad osservare come il raccordo tra affidamento e semilibertà ‘‘surrogatoria’’ non sia più imperniato sul principio del gradualismo; se i risultati della osservazione scientifica della personalità permettevano, in passato, di calibrare l’applicazione delle due misure, oggi la semilibertà assume la valenza di una sanzione sostitutiva, BERNASCONI, La divaricazione funzionale dell’affidamento in prova e l’obsolescenza del modello correzionale, in questa Rivista, 1991, p. 1315 ss. (13) Per questa problematica, v. infra § 5. (14) Per tutti, v. E. FASSONE-T. BASILE-G. TUCCILLO, La riforma penitenziaria, Napoli, 1987, pp. 71-72. (15) Non postulabile, in quest’ottica, l’accertamento del graduale reinserimento del soggetto nella società (è questa, invece, la posizione — peraltro non motivata — di M. CANEPA-S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 1999, p. 269). (16) F. DELLA CASA, Commento all’art. 5 L. 27/5/1998, n. 165, cit., p. 824 liquida come « minimalista » un’interpretazione di questo tenore.
— 198 — non correlata però ad un apprezzabile requisito soggettivo (17). Resta, in ogni caso, ancora valida una constatazione: la semilibertà ‘‘surrogatoria’’ si rivolge ad una clientela che esprime un indice di pericolosità molto simile a quello richiesto per l’accesso al beneficio ‘‘maggiore’’. Per tali condannati l’ordinamento postula, tuttavia, la necessità di una misura alternativa dotata di una componente afflittiva predominante (rispetto a quella trattamentale insita nell’affidamento); la semilibertà per le pene di media durata sembra, infatti, rivolgersi a soggetti che, forniti di un più elevato grado di adattamento sociale, necessitano di avvertire il timbro ammonitivo tipico di tale modalità di esecuzione della pena detentiva (18). Sul piano dei rapporti tra le due misure alternative è questa l’unica ed ultima impronta gradualistica ancora distinguibile. A conservare parzialmente gli originari connotati rimane, in conclusione, la semilibertà per le pene di lunga durata (art. 50 comma 2 primo periodo ord. penit.); il periodo di osservazione in istituto è suscettibile di prolungarsi fino a metà della pena (due terzi per i condannati per un delitto ricompreso nel comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit.); la sussistenza di due requisiti (soggettivi ed oggettivi) distinti e cumulativi si riflette positivamente sull’autonomia della misura; liberazione anticipata e permessi premio vi si rapportano secondo una logica di progressività trattamentale crescente; la medesima si offre, infine, quale passaggio intermedio per la fruizione del beneficio ‘‘finale’’ della liberazione condizionale. 5. (Segue): può il condannato non detenuto fruire della semilibertà surrogatoria dell’affidamento in prova? — Se la semilibertà per le pene di media durata possa essere applicata in un momento anticipato rispetto all’inizio dell’esecuzione è interrogativo che — come in precedenza accennato (19) — già si era affacciato con la riforma del 1986; nemmeno la legge n. 165 del 1998 offre tuttavia risposte appaganti. La soluzione positiva trovava parziale conforto e nel fattore analogico (pure l’affidamento in prova era concedibile dalla libertà), e nell’apparente omnicomprensività del dato testuale (nell’art. 50 comma 2 ord. penit. il riferimento ai « casi previsti dall’art. 47 » non tralasciava alcuna situazione) (20). D’altro canto, la giurisprudenza di merito esibiva interpretazioni contrastanti: le pronunce a favore dell’applicazione anticipata della misura non rappresentavano certo l’orientamento prevalente della giurisdizione di sorveglianza (21). Questa lettura ‘‘permissivista’’ era avversata dalla predominante dot(17) Ibidem, p. 826. (18) E. FASSONE-T. BASILE-G. TUCCILLO, La riforma penitenziaria, cit., p. 72. (19) V. il precedente paragrafo. (20) Diffusi ragguagli in A. PRESUTTI, sub Art. 50, cit., p. 418. (21) Trattasi di dati risalenti al 1994, riferiti da P. MANGONI, La rilevazione della si-
— 199 — trina e dalla Corte costituzionale. Il riferimento dell’art. 50 comma 2 ord. penit. ai risultati dell’osservazione compiuta ai fini dell’affidamento in prova postulava, tra le condizioni per la semilibertà, proprio quella dell’esame intramurario del comportamento « per almeno un mese »: non conciliabile, in questa prospettiva, una cadenza applicativa del beneficio antecedente all’esecuzione della pena (22). La Corte costituzionale venne ad avallare tale conclusione negativa quando ebbe occasione di pronunciarsi sulla questione di legittimità del comma 2 dell’art. 50 ord. penit. — sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. — nella parte in cui, a differenza di quanto stabilito per l’affidamento in prova, prevedeva che, per le pene detentive da sei mesi a tre anni, la semilibertà non potesse essere concessa direttamente dallo status libertatis, ma solo all’esito dell’osservazione collegiale in istituto e, quindi, dopo la necessaria espiazione di un periodo di pena in carcere. Nel ritenere il dubbio di costituzionalità infondato, la Consulta argomentava che, se la legge n. 663 del 1986 aveva introdotto, per le pene di media durata, una sorta di graduazione tra le due misure considerando la semilibertà come un’alternativa di rango inferiore all’affidamento, ciò non metteva in dubbio che la fisionomia di entrambe fosse rimasta ancorata ai presupposti e ai connotati propri di ciascuna. La deroga contemplata dal terzo periodo del comma 2 dell’art. 50 ord. penit. riguardava solo l’entità della pena già scontata: necessariamente, la possibilità di concedere la semilibertà « anche prima dell’espiazione di metà della pena » non equivaleva — secondo il giudice delle leggi — a quella di concederla prima dell’inizio dell’espiazione della stessa (come invece è espressamente consentito dal comma 6 dell’art. 50 per i casi di pene non superiori a sei mesi). Nessun vizio di irragionevolezza era, dunque, ravvisabile nella diversa regolamentazione di affidamento e semilibertà e nemmeno raffrontabili erano i presupposti delle due misure alternative: in assenza dei requisiti per l’accesso all’affidamento, la possibilità di applicare la semilibertà era, non irrazionalmente, sottoposta alle differenti condizioni di legge per questa stabilite (23). Ma, con la legge n. 165 del 1998 il quadro normativo delle misure alternative alla detenzione risulta profondamente modificato; il drastico ridimensionamento del requisito dell’osservazione intramuraria nella disciplina dell’affidamento in prova e la genericità del riferimento alla mancanza dei presupposti di quest’ultimo, contenuto nel terzo periodo del tuazione: le prassi interpretative ed applicative dei tribunali di sorveglianza, in Quad. CSM, 1995, n. 80, p. 178. (22) Unanimi sul punto L. DAGA, Semilibertà, cit., p. 1128; F. DELLA CASA, Corte costituzionale e affidamento « anticipato », cit., p. 1452; E. FASSONE-T. BASILE-G. TUCCILLO, La riforma penitenziaria, cit., p. 164; F. PALAZZO, La disciplina della semilibertà, cit., p. 418; A. PRESUTTI, sub Art. 50, cit., p. 418. (23) Corte cost., sent. 18 aprile 1997 n. 100, in Giur. cost., 1997, p. 984 ss.
— 200 — comma 2 dell’art. 50 ord. penit., sono elementi che fanno propendere per la possibilità di una applicazione anticipata della semilibertà ‘‘surrogatoria’’ (24). E, non per caso, a poco più di un anno dall’entrata in vigore della nuova legge, la giurisprudenza di legittimità sembra intenzionata a percorrere sentieri ben diversi da quelli tracciati dalla Corte costituzionale con la citata sentenza del 1997. Seppure con una isolata pronuncia, la cassazione ha affermato che, in presenza di una istanza per l’ammissione al regime di semilibertà previsto dal comma 2 dell’art. 50 ord. penit., la sospensione dell’esecuzione già disposta — ex art. 656 comma 5 c.p.p. — nei confronti di condannato in libertà, in relazione alla contestuale domanda per l’affidamento in prova al servizio sociale, non viene meno: ciò, nonostante la formulazione del comma 5 dell’art. 656 c.p.p. faccia letterale riferimento solo all’ipotesi di ammissione alla figura di semilibertà contemplata nell’art. 50 comma 1 ord. penit. Infatti — prosegue la cassazione — « il riduttivo richiamo a quest’ultima ipotesi non può significare che, per le condanne a pene comprese tra i sei mesi e i tre anni, il tribunale di sorveglianza possa concedere la semilibertà in deroga al termine di espiazione di almeno metà della pena solo dopo l’inizio dell’esecuzione, giacché una simile interpretazione sarebbe in contrasto, oltre che con la logica, anche con la contestualità della valutazione che il tribunale di sorveglianza deve compiere con riferimento all’insufficienza dei presupposti per l’affidamento in prova, da un lato, e, dall’altro, alla sufficienza dei medesimi elementi per l’ammissione alla semilibertà » (25). Ma la dottrina più attenta ha costantemente evidenziato — prima e dopo l’entrata in vigore della legge n. 165 del 1998 — l’esistenza di una preclusione, per l’accesso alla semilibertà surrogatoria dell’affidamento in (24) Da non sottovalutare, inoltre, che la sospensione dell’esecuzione (comma 5 dell’art. 656 c.p.p.), finalizzata a permettere la presentazione dell’istanza per la concessione del beneficio ‘‘maggiore’’, non potrebbe — una volta rilevata l’insussistenza delle condizioni per l’affidamento — non aprire le porte alla opportunità di accedere alla semilibertà, evitando contestualmente al condannato un periodo di carcerazione. La praticabilità di questa via parrebbe ulteriormente rafforzata dall’eliminazione del rinvio agli esiti dell’osservazione di cui al comma 2 dell’art. 47 ord. penit. (che, in precedenza, potevano essere valutati favorevolmente sulla base dei criteri enunciati dal comma 4 dell’art. 50 ord. penit.): la formulazione che oggi rimanda genericamente alla ‘‘mancanza dei presupposti per l’affidamento’’ sembra sottintendere una funzione sostitutiva della semilibertà la quale, per coerenza, dovrebbe trovare, a questo punto, applicazione dallo stato di libertà. Che in queste argomentazioni potesse trovare linfa quella corrente giurisprudenziale propensa ad estendere l’operatività della norma in oggetto ai condannati sottoposti alla verifica del tribunale di sorveglianza, dopo che la loro pena è stata preventivamente sospesa ai sensi del comma 5 dell’art. 656 c.p.p., lo prevedeva, dopo l’entrata in vigore della legge n. 165 del 1998, F. DELLA CASA, Commento all’art. 5 L. 27/5/1998, n. 165, cit., p. 826. (25) Cass., Sez. I, 27 gennaio 1999, Panarisi, in Gazz. giur., 1999, n. 19, pp. 12-13.
— 201 — prova, nei riguardi del condannato non detenuto (26). La struttura della fattispecie e taluni profili sistematici della nuova legge smentiscono in termini netti la recentissima presa di posizione della Suprema Corte e riportano il piatto della bilancia verso posizioni negativamente orientate. In primo luogo, non è possibile ignorare il riferimento testuale dell’art. 50 comma 2 terzo periodo ord. penit. all’ammissione alla semilibertà « anche prima dell’espiazione di metà della pena » — espressione che tuttora postula un’esecuzione penitenziaria già iniziata. C’è da aggiungere, inoltre, che alla sospensione dell’esecuzione, l’art. 656 comma 5 c.p.p. connette esplicitamente la possibilità di presentare un’istanza volta ad accedere ad alcune misure alternative; tra queste viene menzionata esclusivamente la tipologia di semilibertà riservata alle pene non superiori a sei mesi: viene dunque tracciato un preciso limite — anche in questo caso, di carattere testuale — alla fruizione delle ‘‘altre’’ forme di cui all’art. 50 ord. penit. Ammettere, come fa la Corte di cassazione, che una richiesta di affidamento possa, in mancanza delle relative condizioni, condurre alla applicazione anticipata della semilibertà ‘‘surrogatoria’’ equivale ad aggirare il numero chiuso imposto dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p. e, ancora una volta, l’espresso dettato della legge. Un approccio sistematico alla nuova normativa conforta le conclusioni cui si è approdati. In tutti gli ambiti in cui la legge n. 165 del 1998 ha perseguito disegni perequativi è possibile reperire strumenti concepiti per non escludere i condannati in stato di detenzione dalla opportunità di un ritorno in libertà, nell’attesa della decisione sulla richiesta delle misure alternative. La peculiare disciplina prevista per l’affidamento in prova (art. 47 comma 4 ord. penit.) e per la semilibertà (art. 50 comma 6 ord. penit.) lo dimostra. Ma, come più volte ripetuto, il riferimento a quest’ultima misura alternativa è circoscritto ai « casi previsti dal comma 1 », e cioè alla figura riservata alle pene (dell’arresto e della reclusione) non superiori a sei mesi. La semilibertà per le pene di media durata è conseguentemente esclusa e ciò conforta la tesi negativa sulla sua concessione dalla libertà poiché il legislatore, anche con questa scelta, conferma di aver predisposto una sorta di corsia preferenziale per la libertà — in anticipo sull’esecuzione oppure in seconda battuta (ad espiazione iniziata) — solo per la fattispecie contemplata dal comma 1 dell’art. 50 ord. penit.: per le restanti figure di semilibertà continua ad applicarsi il regime antecedente alla legge del 1998. In conclusione, la contraddittorietà del quadro tracciato dal legislatore penitenziario e l’insipienza delle direttive di fondo della nuova nor(26) V. gli AA. citati alla nota 22, ai quali adde F. DELLA CASA, Commento all’art. 5 L. 27/5/1998, n. 165, cit., pp. 824-825. Contra I. MASSARO, Il regime di semilibertà, in Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Milano, 1998, pp. 350-351.
— 202 — mativa portano alla luce l’irrazionalità di un sistema che, generalizzata la sospensione dell’esecuzione delle pene fino a tre anni, concepisce una cadenza applicativa anticipata per il beneficio (più favorevole) dell’affidamento escludendola per quello (meno favorevole) della semilibertà. Non solo. Dalla mancata regolamentazione dei rapporti tra affidamento in prova e semilibertà traspare anche l’avventatezza di un metodo del legiferare che trascura il principio gradualistico di cui il complesso delle misure alternative alla detenzione (era), storicamente, permeato (27). ALESSANDRO BERNASCONI Associato di Procedura penale nell’Università di Pisa
(27) Osservazioni di analogo tenore sono formulate da F. DELLA CASA, Commento all’art. 5 L. 27/5/1998, n. 165, cit., pp. 826 e 827 (« Non tanto per rimpiangere l’avvenuto accantonamento di una guideline, giustamente criticata dalla dottrina per via della sua scarsa utilizzabilità (...) quanto per lamentare che nell’occasione non siano stati forniti parametri sostitutivi »). Per diffusi rilievi sui nuovo assetti dell’affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà v., volendo, A. BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 119 ss.
PROBLEMI APPLICATIVI DELLA DETENZIONE DOMICILIARE
SOMMARIO: 1.Gli effetti sul piano applicativo della normativa introdotta dalla legge n. 165 del 1998 — 2. Problemi particolari posti dalla disciplina processuale — 3. I problemi derivanti dalle difficoltà di inquadramento sistematico della detenzione domiciliare preordinata al contenimento della recidiva — 4. Le novità introdotte dalla legge n. 231 del 1999 — 5. I problemi applicativi della detenzione domiciliare destinata ai malati di AIDS— 6. I problemi di coordinamento tra la detenzione domiciliare sostitutiva del rinvio dell’esecuzione e la nuova ipotesi di rinvio obbligatorio prevista dall’art. 146 comma 1 n. 3 c.p.
1. La detenzione domiciliare, introdotta nell’ordinamento penitenziario nel 1986 per assolvere finalità precipuamente assistenziali e umanitarie nel circoscritto ambito di pene detentive non superiori a due anni (1), è stata oggetto, negli ultimi due anni, di modifiche legislative che ne hanno dilatato oltre misura gli originari confini applicativi. Il primo e significativo ampliamento si deve alla legge n. 165 del 1998 (cd. legge SIMEONE). Con quel provvedimento alla misura è stata assegnata, infatti, oltre alla ribadita finalità di natura umanitaria, riconosciuta nel più esteso ambito di pene fino a quattro anni e con riferimento a più numerose situazioni soggettive (art. 47-ter comma 1 ord. penit.), anche una funzione di contenimento della recidiva nei riguardi di soggetti che debbono espiare pene non superiori a due anni (art. 47-ter comma 1-bis), nonché quella di beneficio sostitutivo del rinvio dell’esecuzione nei casi in cui, piuttosto che una soluzione di così ampia portata liberatoria, può essere ritenuta sufficiente, per la tutela delle esigenze di cui si fanno carico gli artt. 146 e 147 c.p., anche una modalità esecutiva attenuata rispetto alla detenzione intramuraria (art. 47-ter comma 1-ter). Perplessità e critiche per questo innesto legislativo si riscontrano da parte dei primi commentatori che hanno messo in luce le carenze e le incongruenze del nuovo impianto, i problemi di inserimento sistematico della misura e anche qualche macroscopica svista del legislatore (2). Per queste ragioni le difficoltà incontrate (1) Nel testo originario dell’art. 47-ter ord. penit. introdotto dalla l. n. 663 del 1986 le categorie soggettive ritenute meritevoli di tutela legislativa sono quelle della donna incinta o con prole di età non superiore a tre anni con la stessa convivente, i malati con particolari problemi di terapia, gli ultrasessantacinquenni inabili e i minori degli anni ventuno. (2) Cfr. VAUDANO, Con un intervento frettoloso ed approssimativo si amplia il ri-
— 204 — dagli operatori nel primo impatto applicativo sono state considerevoli, come testimoniano le iniziative con cui si sono cercate soluzioni ai vari problemi interpretativi nascenti da una normativa tanto imprecisa e indeterminata nel fissare i presupposti, i contenuti della misura e i criteri valutativi da adottare per la sua concessione (3). Né vanno sottovalutati gli effetti negativi derivati sul piano dell’ uniformità di indirizzo della giurisprudenza di merito e, conseguentemente, del trattamento, a fronte di tanta carenza di tassatività e determinatezza. Il bilancio, a poco più di un anno di distanza dall’emanazione delle nuove disposizioni, è senza dubbio pieno di ombre. Anche se i numeri confermano che nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge il ricorso alla misura è stato di rilevante entità (4) cosicché la finalità di alleggerimento del carico della popolazione presente negli istituti di pena, perseguita dal legislatore — si può dire, a qualunque prezzo (5) — si può ritenere in parte realizzata, va detto che tali cifre non tengono conto di due elementi di estremo rilievo che inficiano i risultati ottenuti attraverso il ricorso a questo istituto. Il primo è costituito dal ‘‘numero oscuro’’ dei detenuti domiciliarmente che continuano imperturbati la loro carriera criminale. Sono infatti note le difficoltà che l’apparato statale incontra nell’attuare sull’andamento delle detenzioni domiciliari in corso serie forme di controllo, uniche garanti dell’effettiva capacità della misura a porsi, sul piano pratico, come deterrente alla commissione di ulteriori reati e, sul piano sistematico, come seria alternativa alla detencorso alla detenzione domiciliare, in Guida. dir., 1998, n. 23, p. 25 ss.; MAZZAMUTO, Carceri e sistema penitenziario, in Gazz. Giur., 1998, n. 25, p. 1; DELLA CASA, Commento all’art. 1 l. 27 maggio 1998, n. 165, in LP., 1998, p. 789 ss.; PALIERO, Commento all’art. 4 l. 27 maggio 1998, n. 165, in LP, p. 821 ss; PIERRO, La nuova disciplina della detenzione domiciliare nel quadro della trasformazione del sistema della esecuzione penale, in AA.VV., Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Milano, 1998, p. 287 ss.; CANEVELLI, Le novità della legge Simeone in tema di condanna a pena detentiva e misure alternative. B) L’analisi delle singole norme, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 819 ss.; COMUCCI, La nuova fisionomia della detenzione domiciliare in esecuzione penale e alternative penitenziarie (a cura di PRESUTTI), Padova, 1999, p. 183 ss. (3) Cfr. CSM, La legge 27 maggio 1998 n. 165 in materia di esecuzione penale (in corso di stampa) che raccoglie gli atti dell’Incontro di studio tenutosi a Frascati nei giorni 16 e 17 novembre 1998.V. inoltre il Documento di sintesi del 18 novembre 1998 redatto dalla Direzione generale degli affari penali del Ministero di grazia e giustizia riguardante L’incontro di lavoro del 21 luglio 1998 sulla legge ‘‘Simeone’’, in Cass. pen. 1998, p. 2813 ss. ed inviato alle procure generali presso le corti d’appello nonché La Relazione degli Uffici del Pubblico Ministero di Milano al CSM sulla prima applicazione della legge Simeone, in Foro ambr., 1999, p. 243 ss. (4) Nel secondo semestre del 1998 i provvedimenti adottati ammontano a 3151 e portano il numero dei soggetti detenuti domiciliarmente a 4225 (v. i dati riportati da DOLCINI, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena, in questa Rivista, 1999, p. 868). (5) Tende invece a ridimensionare i contenuti negativi della normativa in questione CORSO, Vero e falso sulla legge Simeone-Saraceni, in Corr. Giur., 1998, p. 873 ss.
— 205 — zione (6) . Il secondo dato è rappresentato dal numero delle revoche del beneficio intervenute successivamente e di cui si è avuto recentemente notizia (7). 2. Tra le disposizioni più discusse introdotte dalla cd. legge Simeone v’è certamente il nuovo quinto comma dell’art. 656 c.p.p. che stabilisce la procedura per portare a conoscenza del condannato l’ordine di esecuzione ed il relativo decreto di sospensione ai fini della fruizione preventiva delle misure alternative. Le critiche riguardano innanzi tutto la scelta di ricollegare alle forme della ‘‘consegna al condannato’’ le modalità attuative di tale conoscenza. Ne derivano, infatti, notevoli incertezze circa il momento d’inizio dell’esecuzione della pena poiché l’interessato può strumentalmente ostacolare quell’evenienza per procrastinare indefinitamente questo evento (8). Per tali motivi il legislatore sta già correndo ai ripari con alcune modifiche della normativa in questione (9). Conseguenze pratiche particolarmente negative derivano anche dall’omesso inserimento dell’art. 47-ter comma 1 ord. penit. tra le disposizioni che, nella medesima norma, individuano i casi in cui il pubblico ministero deve sospendere d’ufficio l’esecuzione della condanna fino quattro anni di pena da espiare (10). A causa di tale lacuna, infatti, la procedura di sospensione ai fini della concessione della detenzione domiciliare dalla libertà opera solo se la pena da eseguire non supera il tetto dei tre anni (art. 656 comma 5 seconda parte c.p.p.). Per pene comprese fra i tre e i quattro anni invece l’ordine di carcerazione deve essere sempre eseguito, anche in presenza di uno dei casi che, ai sensi dell’art. 47-ter comma 1 ord. penit., renderebbe ammissibile, sotto il profilo soggettivo, la conces(6) V. le perplessità manifestate a tal proposito da DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, p. 28 ss. (7) Dal rilevamento effettuato a cura del Ministero della giustizia sulle misure alternative e sull’attività dei Centri di servizio sociale nel primo semestre del 1999 il numero delle detenzioni domiciliari revocate risulta di 301 unità. (8) Particolarmente critico su questa scelta VAUDANO, Con un intervento frettoloso e approssimativo si amplia il ricorso alla detenzione domiciliare, cit., p. 28, che richiama « sensazioni istintive di impunità per chi ‘‘sfugge’’ e si rende irreperibile ». (9) V. il disegno di legge n. 4053 d’iniziativa del sen. Caruso e altri. Per un approfondimento sui contenuti delle modifiche in corso si rinvia a MACCORA, Le incongruenze della risposta penale all’illegalità: le possibili nuove modifiche all’art. 656 c.p.p., in questa Rivista, infra, p. 203 e ss. (10) La sospensione risulta infatti limitata alle ipotesi di cui agli artt. 90 e 94 d.P.R. n. 309⁄1990 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti). Detto per inciso, la formulazione della disposizione è davvero infelice dato che per altre incongruenze presenti anche la sospensione nelle ipotesi richiamate risulta di difficile attuazione. A tal proposito cfr. MACCORA, La disciplina dell’art. 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza alla luce della riforma operata dalla l. 27 maggio 1998, n. 165, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 81.
— 206 — sione del beneficio. In tali circostanze solo l’instaurazione della procedura d’urgenza per l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter comma 1-quater ord. penit., consente di minimizzare gli effetti negativi derivanti dall’ ingiustificata ma inevitabile incarcerazione (11). Problemi applicativi sono sorti in tema di competenza territoriale a decidere alcune questioni particolari. Dall’ambigua formula legislativa usata per indicare il magistrato di sorveglianza a cui spetta applicare in via provvisoria la detenzione domiciliare ai sensi del combinato disposto degli artt. 47-ter comma 1-quater e 47 comma 4 ord. penit. (12), è sorto il conflitto che la Suprema Corte ha risolto individuando tale giudice nel magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull’istituto in cui si trova il condannato (13). Altro conflitto negativo è stato sollevato per il magistrato di sorveglianza che deve provvedere sulle richieste dei condannati in detenzione domiciliare provvisoria ( art. 47-ter comma 1-quater ord. penit.) che la Corte ha indicato nel magistrato che ha provvisoriamente applicato la misura e non in quello del luogo ove l’interessato deve permanere (14). Vari i problemi posti, ancora sotto il profilo della competenza territoriale, dalla disposizione di cui all’art. 656 comma 10 c.p.p. La norma prevede che qualora l’ordine di esecuzione intervenga nei confronti di un condannato già agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, il pubblico ministero sospenda l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmetta gli atti al tribunale di sorveglianza perché provveda, senza formalità, all’eventuale applicazione della detenzione domiciliare. Proprio per quanto riguarda questo giudice l’assenza di riferimenti al dato territoriale ha suscitato la prima incertezza interpretativa (15). Il dubbio (11) Tali effetti non sono di poco conto se si pensa che, seppure possano non rimanerne coinvolte le categorie comunque tutelate dalla procedura di sospensione provvisoria di cui all’art. 684 c.p.p., perché rientranti nelle ipotesi di rinvio dell’esecuzione ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p., sono inderogabilmente destinati a tale sorte madri (o, nei casi consentiti, padri) con figli di età superiore a un anno, i minori degli anni ventuno e soggetti malati che necessitino di costanti contatti con i presidi sanitari ovvero ultrasessantenni inabili. (12) Poiché l’art. 47 comma 4 ord. penit. indica il ‘‘magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo dell’esecuzione’’ è sorto il dubbio che ci si volesse riferire al magistrato di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che cura l’esecuzione della condanna. (13) Cass., sez. I, 15 gennaio 1999, Litrico, in Dir. pen. e proc. 1999, p. 873 ss. con commento di COMUCCI, La competenza territoriale in ordine alla sospensione dell’esecuzione di una pena in corso, al quale si rinvia per le argomentazioni svolte a favore della scelta operata. (14) Cass. sez. I, 8 gennaio 1999, Rosin, inedita ; cass. sez. I, 17 marzo 1999, Franceschi, in Riv. pen., 1999, p. 912. (15) Cfr. DELLA CASA, Commento all’art. 1 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 792, che definisce ‘‘deplorevole la laconicità del legislatore’’ a tale proposito.
— 207 — — giustificato dal fatto che, in passato, la mancanza di una disciplina specifica per il caso di specie aveva indotto la giurisprudenza ad individuare tale giudice nel tribunale di sorveglianza del locus custodiae, in considerazione dell’automatica trasformazione degli arresti domiciliari in pena detentiva — è stato risolto richiamando il disposto di cui all’art. 656 comma 6 c.p.p., norma che fissa, per le istanze proposte dalla libertà, il principio generale della trasmissione degli atti da parte dell’organo dell’esecuzione al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede il suo ufficio. Si è ritenuto che questo criterio, non precluso sotto il profilo formale, sia invece particolarmente indicato dal punto di vista sostanziale poiché ‘‘ va incontro all’esigenza di assicurare un agevole coordinamento dei due organi’’ (16). Altre incertezze sono derivate dalla disposizione inserita nell’ultimo periodo di questo decimo comma che attribuisce al magistrato di sorveglianza il compito di provvedere agli adempimenti previsti dall’art. 47-ter ord. penit. nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di condanna e la decisione del tribunale di sorveglianza sulla detenzione domiciliare. Ancora una volta in primo piano il criterio di competenza territoriale da applicare in questi casi. Preliminarmente, vanno peraltro segnalati i dubbi a cui ha dato origine la disposizione processuale nel fare riferimento agli ‘‘adempimenti’’ di cui alla norma penitenziaria. Se è, infatti, pacifico che debba essere il magistrato di sorveglianza ad intervenire per modificare le prescrizioni impartite con gli arresti domiciliari, risulta meno chiaro se lo stesso possa emettere anche altri provvedimenti non espressamente richiamati dall’ art. 47-ter ord. penit. come, ad esempio, l’autorizzazione a comparire per ragioni di giustizia davanti ad altra autorità giudiziaria ovvero a proseguire la misura in località situata in altra giurisdizione. Sul punto, al di là del dato letterale, sembra da condividere l’idea che vada riconosciuta a questo giudice una sorta di competenza funzionale per tutte le questioni prospettabili in questo lasso temporale (17). Sotto il profilo della competenza territoriale si rileva un orientamento oscillante nel riconoscere il compito di modificare le prescrizioni dettate per gli arresti domiciliari ora al magistrato di sorveglianza del luogo ove ha sede l’organo dell’esecuzione ora a quello avente giurisdizione sul luogo ove il reo si trova. La soluzione più corretta sembra però la prima, sulla base dell’equiparazione di tale situazione a quella generale stabilita (16) Cfr. PIERRO, La nuova disciplina della detenzione domiciliare, cit., p. 332 nonché DELLA CASA, op. loc. ult. cit., il quale non manca di sottolineare che proprio in ragione della difforme soluzione adottata in precedenza sarebbe stata auspicabile una maggiore precisione nella formulazione della norma in questione. (17) In questi termini DELLA CASA, Commento all’art. 1 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 790.
— 208 — dall’art. 656 comma 6 c.p.p. (18). La stessa regola vale per l’autorizzazione a proseguire la misura in località situata in altra giurisdizione; pertanto il magistrato di sorveglianza del luogo ove ha sede l’organo dell’esecuzione, dopo aver provveduto, dovrà informare della circostanza il tribunale di sorveglianza; quest’ultimo, tenuto conto della mutata situazione logistica, nell’ordinanza di concessione della detenzione domiciliare indicherà il diverso ufficio di sorveglianza nella cui giurisdizione la misura dovrà essere eseguita ed al quale il provvedimento, una volta divenuto esecutivo, dovrà essere trasmesso (art. 91-ter commi 2 e 4 reg. esec. ord. penit.). Senz’altro da non condividere è invece la prassi di investire della decisione l’organo collegiale ai sensi del combinato disposto degli artt. 91ter comma 5 e 91 comma 5 reg. esec. ord. penit. giacché questa disciplina opera solo a seguito della concessione della detenzione domiciliare. Risultano lungi dall’aver trovato univoca soluzione anche le questioni riguardanti i provvedimenti da assumere nel caso in cui avvengano, nel periodo predetto, violazioni delle prescrizioni, in particolare, quella dell’allontanamento ingiustificato dell’interessato dal luogo di detenzione. È prassi invalsa presso alcuni uffici di sorveglianza intervenire con un provvedimento di sospensione cautelativa ai sensi dell’art. 51-ter ord. penit. (19). Tuttavia la mancanza di un provvedimento di concessione della misura alternativa, del quale non potrà essere mai disposta la revoca, appare ostacolo insuperabile all’estensione di quella disciplina all’ipotesi de qua. Più corretta è invece la soluzione di una immediata segnalazione delle violazioni intervenute al tribunale di sorveglianza sollecitandone la decisone ai sensi dell’art. 656 comma 10 c.p.p. (20) Non sono mancati dubbi sulla legittimità costituzionale di alcune disposizioni che tuttavia sono finora passate indenni al vaglio della Corte costituzionale. Tanto si è verificato per l’art. 47-ter comma 1-quater ord. penit. con riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che il magistrato di sorveglianza, a cui è rivolta istanza di affidamento e conseguente sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 47 comma 1-quater ord. penit., possa disporre l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare — sussistendo i requisiti di cui al comma 1-bis dello stesso articolo — anche quando la pena sia superiore a due anni ma nei limiti previsti dall’art. 47 comma 1 ord. penit. La Corte ha ritenuto, infatti, che la diversità di trattamento riservata ai condannati istanti per l’affidamento in prova rispetto agli istanti per la concessione della detenzione domiciliare (18) Cfr. MACCORA, La disciplina dell’art. 656 c.p.p., cit., p. 100. (19) In questo senso, ad es., l’orientamento degli uffici di sorveglianza con sede nel distretto della Corte d’appello di Milano. (20) Cfr. DELLA CASA, Commento all’art. 1 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit, p. 791. L’A. precisa come nella circostanza si sia in presenza di una ‘‘custodia domestica corredata da prescrizioni, la quale non è qualificabile come detenzione domiciliare’’.
— 209 — sia giustificata dalla diversa configurazione normativa delle due differenti misure che il legislatore ha disciplinato nell’esercizio della discrezionalità riservatagli (21). Neppure nella previsione della procedura de plano per l’applicazione della detenzione domiciliare nei confronti di chi si trovi agli arresti domiciliari per il fatto di cui alla sentenza di condanna (art. 656 comma 10 c.p.p.) il giudice delle leggi ha riscontrato profili di incostituzionalità (22). Dando della disposizione una lettura secondo cui il provvedimento ivi previsto ha ‘‘connotazioni eminentemente interinali, in vista dell’ordinario procedimento di sorveglianza ove il condannato non ritenga di accettare la misura applicatagli’’ nonché la finalità ‘‘di impedire che il condannato agli arresti domiciliari possa fare ingresso in carcere all’atto dell’esecuzione della condanna prima di poter accedere alla misura alternativa più simile a quella cautelare’’, la Corte salva la legittimità della norma e avvalora, facendovi anche espresso riferimento, la soluzione di compromesso già da tempo adottata sul punto dalla giurisprudenza di legittimità. La discutibile scelta legislativa di soprassedere al rispetto della garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa, nella errata prospettazione (23) di un intervento di mera ratifica da parte della magistratura di sorveglianza nei riguardi della situazione di arresti domiciliari (24), è infatti interpretata dalla corte di cassazione nel senso che si debba fare ricorso alla procedura de plano soltanto se il tribunale di sorveglianza ritiene di applicare la detenzione domiciliare mentre, in caso contrario, sussiste l’obbligo di ricorrere alle forme del procedimento di sorveglianza, a pena di nullità insanabile, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (25). 3. La legge n.165 del 1998, nel riscrivere l’art. 47-ter ord. penit., pur riproponendo nel primo comma della disposizione il ricorso alla detenzione domiciliare in presenza di tassative situazioni soggettive particolari, ha introdotto un’ipotesi di detenzione domiciliare svincolata da presupposti rivolti a soddisfare esigenze di carattere umanitario, ma allo stesso tempo priva dei contenuti risocializzativi assegnati alle altre misure (21) Cfr. Corte cost., ord. 28 luglio 1999, n. 375, in Gazz. Uff. 4 agosto 1999, I Serie speciale, n. 31, p. 37 ss. che ha dichiarato la questione manifestamente infondata. (22) Cfr. Corte cost., sent. 4 novembre 1999, n. 422, in Gazz. Uff. 10 novembre 1999, I Serie speciale, n. 45, p. 40 ss. (23) V. a tal proposito le critiche mosse alla normativa in questione da COMUCCI, La nuova fisionomia della detenzione domiciliare, cit, p. 224 ss. in quanto il legislatore sembra ignorare l’ipotesi di un provvedimento di rigetto da parte del tribunale di sorveglianza. (24) Ben sottolinea DELLA CASA, Commento all’art. 1 l. 27 maggio 1998, n. 165, cit., p. 787, che la detenzione domiciliare viene considerata dal legislatore del 1998 una semplice ‘‘fotocopia degli arresti domiciliari’’. (25) Cass. sez. I, 15 aprile 1999, Chiovitti, in Riv. pen., 1999, pp. 1017-1018.
— 210 — alternative (art. 47-ter comma1-bis ord. penit.) (26). La previsione del beneficio, fruibile in questo caso in via generalizzata da qualunque condannato — ad eccezione, nella logica ormai invalsa del c.d. doppio binario, degli autori dei delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit. (27) — al quale sia stata irrogata o resti da espiare una pena detentiva non superiore a due anni e nei confronti del quale sia formulabile una prognosi favorevole sotto il profilo del contenimento della recidiva, è soprattutto ispirata a ragioni deflative della popolazione carceraria (28). La scelta non ha mancato di sollevare critiche per le difficoltà di un inquadramento sistematico della misura (29). L’assenza di indicazioni in merito ai presupposti soggettivi che ne consentono la concessione, la mancanza di riferimenti a componenti risocializzative da verificare nel momento della concessione della misura o da imporre in quello della sua esecuzione, hanno pertanto indotto la magistratura di sorveglianza ad operare discrezionalmente nella ricerca di contenuti che in qualche modo possano qualificare l’istituto allineandolo ai principi dell’ordinamento penitenziario. Così l’obbligo di svolgere un lavoro è stato imposto — laddove ve ne sia la possibilità — non solo nei casi in cui sia necessario per ragioni di sopravvivenza, alle quali unicamente riconosce rilevanza la disposizione di cui all’art. 284 c.p.p. che definisce le modalità esecutive della misura (art. 47-ter comma 4 ord. penit.) (30). Il tentativo è particolarmente apprezzabile se si tiene conto del fatto che oggi l’istituto della detenzione domiciliare trova applicazione non solo nell’ambito delle brevi pene detentive o, comunque, dei reati di lieve entità. Infatti, come si è già avuto modo di sottolineare (31), (26) Nella motivazione della recente pronuncia della Corte costituzionale n. 422 del 1999, cit., p. 43, si afferma, peraltro, che proprio a seguito dell’introduzione della fattispecie di cui all’art. 47-ter comma 1-bis, la detenzione domiciliare ‘‘ha assunto aspetti sicuramente più vicini alla ordinaria finalità rieducativa e di reinserimento sociale’’ in quanto ‘‘istituto che sviluppa la ripresa dei rapporti familiari ed intersoggettivi , senza incidere negativamente sulle eventuali opportunità di lavoro’’. (27) Dopo l’emanazione, all’inizio degli anni novanta, dei provvedimenti di contrasto alla criminalità organizzata con i quali sono state introdotte diverse limitazioni nella fruizione dei benefici penitenziari da parte degli autori dei delitti individuati nell’art. 4-bis ord. penit., si è instaurata una diversificazione trattamentale nei riguardi di questi soggetti ritenuti ad alta pericolosità sociale da cui il legislatore non si è più distaccato. (28) Cfr. PIERRO, La nuova disciplina della detenzione domiciliare, cit., p. 313; COMUCCI, La nuova fisionomia della detenzione domiciliare, cit. p. 249-250; DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 868. Ancor prima della sua approvazione definitiva la disposizione di cui all’art. 47-ter comma 1-bis veniva definita da DEL NEVO, Considerazioni critiche sulla riforma delle misure alternative alla detenzione in Doc. giust. 1998, p. 1255, l’espressione di una opzione non rieducativa e meramente decarcerizzante. (29) Cfr. PIERRO, La nuova disciplina della detenzione domiciliare, cit., p. 313; COMUCCI, La nuova fisionomia della detenzione domiciliare, cit., p. 243 ss.; DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 868 ss. (30) Questo è l’orientamento dei tribunali di sorveglianza di Firenze e Milano. (31) Cfr. COMUCCI, La nuova fisionomia della detenzione domiciliare, cit., p. 205.
— 211 — i riti alternativi a carattere premiale previsti dal codice di procedura penale — si pensi in particolare al giudizio abbreviato e all’applicazione della pena su richiesta delle parti — finiscono per estenderne la fruibilità a categorie di condannati e a tipologie di reato di particolare spessore. L’imposizione della prescrizione di lavorare nel corso della detenzione domiciliare è particolarmente importante perché consente di verificare la capacità del condannato di adeguarsi alle regole del vivere sociale e dagli esiti si possono trarre elementi utili per decidere l’eventuale passaggio alla misura dell’affidamento in prova (32). Tuttavia nella totale indeterminatezza di riferimenti legislativi è ancora una volta il ‘‘diritto giurisprudenziale’’ (33) a guidare la fase dell’esecuzione penale con conseguenze negative di non poco rilievo se si tiene conto del rischio che ogni tribunale di sorveglianza segua criteri valutativi propri a scapito di quella uniformità di giudizio dalla quale soltanto può essere garantita un’esecuzione penale improntata al rispetto del principio di uguaglianza. 4. La disciplina della detenzione domiciliare è stata ulteriormente modificata dalla l. 12 luglio 1999, n. 231. Con tale provvedimento il legislatore ha affrontato ancora una volta il problema dell’applicazione di misure privative della libertà personale — sia in fase di cognizione che in fase di esecuzione — nei confronti di soggetti colpiti da infezione da HIV che versino in condizioni di salute particolarmente gravi. Il primo tentativo di regolamentazione della materia risale al 1993. In quell’occasione si introdusse, per quello che qui interessa, la previsione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione in presenza di infezioni da HIV da ritenersi incompatibili con lo stato detentivo sulla base di parametri predeterminati (34). La discussa normativa, dopo alcune resistenze (35), fu dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale nei casi in cui l’espiazione può avvenire senza pregiudizio per la salute del malato e per quella degli altri detenuti (36). (32) Cfr. Trib sorv. Milano, 1 aprile 1999, in Foro ambr., 1999, p. 348, n. 202, che ha rigettato l’affidamento in prova nei riguardi di soggetto già detenuto domiciliarmente che ha dimostrato di non saper svolgere con regolarità la propria attività lavorativa. (33) L’espressione è di SARTARELLI, Considerazioni sulla legge (di riforma?) del 27 maggio 1998 n. 165, in I P 1999, p. 747 (34) Con il d.l. n. 139 del 1993, convertito, con modificazioni , dalla l. n. 222 del 1993 si prevedeva il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per i soggetti affetti da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato detentivo accertata — attraverso il rinvio alla norma di cui all’art. 286-bis c.p.p., regolante il divieto di custodia cautelare in fase di cognizione — sulla base di parametri clinici definiti con decreto ministeriale. (35) Cfr. Corte cost., sent. 3 marzo 1994 n. 70 e 15 luglio 1994 n. 210 in Giur. cost. 1994, rispettivamente p. 749 ss. e p. 1777 ss. (36) Corte cost., sent. 18 ottobre 1995, n. 438, in Giur. cost. 1995, p. 3445 ss., con note di DE SIERVO, La Corte cambia opinione in tema di malati di AIDS e regime carcerario, e PUGIOTTO, Due casi di controllo della Corte costituzionale sui presupposti empirici di scelte legislative ‘‘penali’’.
— 212 — La soluzione oggi riproposta — attuata con la stessa tecnica legislativa che dispone sul duplice fronte della fase di cognizione e di esecuzione — risulta maggiormente articolata e contiene alcune varianti che tengono conto dei rilievi formulati dalla Corte costituzionale nell’intervento del 1995. Nel segno di una graduazione che sembra intesa a contemperare le esigenze di tutela della salute con quelle di difesa sociale, si fa ricorso oltre che all’istituto del rinvio obbligatorio dell’esecuzione (art. 146 comma 1 n. 3 c.p.) anche all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare (art. 47-quater ord. penit.). La fruizione dei tre benefici viene estesa alle persone internate (art. 211-bis c.p. e art. 47-quater comma 10 ord. penit.) (37). Inoltre le due misure penitenziarie risultano ammissibili al di là dei limiti di pena da eseguire, fissati rispettivamente negli artt. 47 e 47-ter ord. penit., e qualunque sia il reato per il quale è stata pronunciata condanna (38). Infine, la reintrodotta obbligatorietà del differimento o della sospensione della pena viene sancita anche nei riguardi di soggetti affetti da altre gravi patologie che si trovino ormai in fase terminale. Le novità in tema di detenzione domiciliare riguardano in particolare l’innesto operato nell’ordinamento penitenziario con l’art. 47-quater. Anche la modifica dell’art. 146 c.p. nel senso sopradetto è, peraltro, destinata ad incidere sulla disciplina preesistente dell’istituto in forza della sostituibilità del beneficio penitenziario al rinvio, non solo facoltativo ma anche obbligatorio, dell’esecuzione (art. 47-ter comma 1-ter ord. penit.). Entrambe le disposizioni prospettano problemi interpretativi e di coordinamento con la normativa preesistente, in particolare con le disposizioni introdotte con la l. n. 165 del 1998 (39). 5. L’art. 47-quater ord. penit. prevede il ricorso alla detenzione domiciliare, in alternativa all’affidamento in prova, esclusivamente nei riguardi di soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, che abbiano in corso o intendono intraprendere un programma di cura e assistenza. L’attualità dei due requisiti, che rende ammissibile l’istanza per entrambi i benefici (40), deve essere certificata dal servizio sa(37) Sull’estensione delle misure penitenziarie a questa categoria di soggetti v. i rilievi di DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 864 ss., che parla di novità dirompente sul piano sistematico. (38) Non sussistendo alcuna preclusione oggettiva o soggettiva di questo tipo per il rinvio dell’esecuzione, i tre benefici in questione, in presenza delle patologie richiamate negli artt. 146 comma 1 n. 3 c.p. e 47-quater ord. penit, sono ora applicabili anche agli ergastolani e agli autori dei reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. (39) Per un primo commento della normativa cfr. VAUDANO, La terapia per le persone colpite da HIV è incompatibile con la pena detentiva, in Guida dir., 1999, n. 30, p. 29 ss; CANEVELLI, Tutela dei soggetti affetti da AIDS o da altre malattie gravi e misure alternative al carcere, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 1226 ss. (40) Poiché è espressamente prevista la proposizione di un’istanza da parte dell’inte-
— 213 — nitario pubblico competente o dal servizio sanitario penitenziario. Il particolare stato patologico deve essere accertato in base a parametri di provenienza ministeriale (41), mentre il programma di cura e assistenza, già in corso o da intraprendere, deve svolgersi presso le unità operative di malattie infettive, ospedaliere o universitarie, ovvero presso altre unità operative prevalentemente impegnate, secondo i piani regionali, nell’assistenza ai casi di AIDS. Le due misure sono dunque strutturate secondo il modulo, già positivamente sperimentato sul piano dell’incentivazione alla cura e al recupero sociale, dell’affidamento terapeutico per soggetti tossicodipendenti o alcooldipendenti previsto dall’art. 94 d.p.r. n. 309/90 (42). Gli altri presupposti sia oggettivi che soggettivi sono invece del tutto peculiari e consistono, come già si è detto, nella fruibilità di questi benefici nell’ambito di qualsiasi entità di pena da espiare e nella loro applicabilità anche a soggetti sottoposti ad una misura di sicurezza detentiva. Non sussistono inoltre preclusioni nei confronti degli autori dei reati di cui all’art. 4 bis ord. penit., se non nei casi di comprovata pericolosità soggettiva derivante dal riscontro di collegamenti con la criminalità organizzata (art. 47-quater comma 9 ord. penit.). Nulla specifica, invece, la normativa in ordine ai criteri valutativi che la magistratura di sorveglianza deve seguire nel decidere se e quale delle ressato o del suo difensore, in deroga alle disposizioni generali che regolano la materia (art. 678 c.p.p.), in questi casi, non è consentita l’instaurazione d’ufficio del procedimento di sorveglianza. La legittimazione riservata al primo dei due soggetti facilmente si giustifica con l’esigenza di accertare la volontarietà di sottoporsi al programma di cure. Più difficile cogliere il senso dell’estensione operata nei riguardi del difensore che appare ingiustificata se la ratio della disposizione è quella appena detta; diversamente, perché legittimare il difensore e non anche i soggetti indicati dall’art. 57 ord. penit.? (41) V. il Decreto ministeriale del 21 ottobre 1999, in Gazz. Uff. 22 dicembre 1999, Serie generale n. 299, p. 9 ss., che per la definizione dei casi di AIDS conclamata rinvia alle situazioni indicate nella circolare del Ministero della sanità 29 aprile 1994, n. 9, pubblicata nella Gazz. Uff. n. 110 del 13 maggio 1994 (art. 1) e stabilisce invece che la grave deficienza immunitaria ricorre quando, anche in assenza di identificazione e segnalazione ai sensi della circolare di cui all’art. 1, ‘‘la persona presenti anche uno solo dei seguenti parametri: a) numero di linfociti TCD4+ pari o inferiore a 100/mmc, come valore ottenuto in almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro; b) indice di Karnofsky pari al valore di 50’’ (art.2). Il decreto prevede inoltre che la diagnosi di AIDS conclamata o l’accertamento della grave deficienza immunitaria debbano essere effettuate da specifiche unità operative pubbliche ovvero che la certificazione da altri effettuata debba, in ogni caso, essere convalidata da queste stesse unità (art.3). (42) Se si considera però che le suddette patologie spesso sono presenti in soggetti tossicodipendenti, ove ricorrano anche i presupposti per l’affidamento terapeutico di cui all’art. 94 d.p.r. n. 309/90, sono da valutare gli effetti negativi che, sul piano dell’incentivazione a scegliere la misura finalizzata alla disintossicazione dagli stupefacenti, può produrre la presenza nell’ordinamento di una normativa che consente, in ogni caso, un’espiazione meno afflittiva della detenzione intramuraria senza che l’interessato debba assumere l’impegno ben più gravoso del rispetto di un programma terapeutico formulato in funzione della riabilitazione dalla tossicodipendenza.
— 214 — due misure concedere. Oltretutto il ricorso ai criteri indicati nell’art.47 ord. penit. per la concessione dell’affidamento sembra essere precluso dal comma 8 della disposizione in esame che, per quanto non diversamente stabilito rinvia esclusivamente — ed inspiegabilmente, è il caso di aggiungere — solo all’art. 47-ter ord. penit. Si tratta allora di individuare quali parametri di riferimento e quali criteri valutativi quest’ultima previsione offra all’organo decidente. Le uniche indicazioni utilizzabili sono contenute nel disposto di cui al comma 1-bis ove, riproposto il binomio tra le due misure in questione, viene individuata la funzione surrogatoria della detenzione domiciliare rispetto all’affidamento e viene inoltre precisato, ai fini della concessione di quest’ultima, il criterio della sua idoneità ad evitare il pericolo di recidiva. Ne consegue che, in presenza dei requisiti di ammissibilità, l’apertura verso forme espiative extramurarie non potrà che dipendere dal giudizio prognostico che l’organo giudicante sarà in grado di formulare, sulla base degli elementi a sua disposizione, sulle prospettive di contenimento della recidiva (43). Resta da stabilire a quale delle due misure debba essere data preferenza qualora dall’interessato vengano proposte entrambe le istanze (44). È prevedibile che l’alternatività fra i due benefici si giocherà soprattutto sulla maggiore o minore capacità di ciascuno di rispondere alle esigenze del caso concreto, tenuto conto del fatto che le funzioni che con gli stessi si intendono assolvere sono sostanzialmente due: favorire l’espletamento del programma terapeutico con meno disagi possibili per il malato e prevenire il pericolo di recidiva. Volendo prospettare, in via interpretativa, un criterio applicativo rispondente a questa duplice esigenza va detto che andrà data preferenza all’affidamento in prova laddove non sussista pericolosità ovvero questa sia presente solo in minima parte. Si dovrà dare invece la preferenza alla detenzione domiciliare nei casi in cui la pericolosità del soggetto risulti meglio contenibile attraverso l’unica prescrizione di non allontanarsi dal luogo prestabilito se non per le cure necessarie. La sensazione è comunque quella che la possibilità di ricorrere in questi casi alla misura dell’affidamento in prova sia stata inserita soprattutto con l’intento di facilitare il soddisfacimento di esigenze ricollegate al programma di cure, in particolar modo quelle riguardanti le variazioni che possono in(43) In ogni caso, nell’ambito di pene da eseguire non superiori a quattro anni, in presenza dei requisiti richiesti dall’art. 47-ter comma 1 l.c) ord. penit., la detenzione domiciliare potrà essere concessa, ai condannati colpiti da infezione da HIV anche se le loro condizioni sono meno gravi di quelle che devono sussistere per il godimento del beneficio ai sensi dell’art. 47-quater e senza che debba essere presentato un programma di cure approvato dalle unità sanitarie ivi indicate. (44) L’ipotesi di presentazione contestuale di più istanze di misure alternative è molto frequente nella prassi ed è quindi facilmente prevedibile che si verifichi anche in questo caso.
— 215 — tervenire, nel corso dell’espiazione, con riferimento all’entità ed al tipo di contatti con i presidi coinvolti nell’apprestare le terapie. Vanno infatti tenuti presenti i disagi che, sotto questo profilo, neppure la detenzione domiciliare è in grado talvolta di eliminare. La misura implica, infatti, il divieto di assentarsi dal luogo prestabilito se non su autorizzazione del magistrato di sorveglianza e per il tempo strettamente necessario a provvedere alle esigenze del caso (art. 284 comma 3 c.p.p.). Poiché nella fattispecie si prevede espressamente l’apposizione di prescrizioni riguardanti le modalità di esecuzione del programma terapeutico nel momento iniziale della misura (art. 47-quater comma 3 ord. penit.), se la necessità di allontanarsi dal luogo ove è stato fissato il domicilio si prospetta in un momento successivo sarà necessario di volta in volta richiederne, in via preventiva, l’autorizzazione ovvero domandare una modifica delle prescrizioni impartite inizialmente. Proprio perché l’obbligo di attenersi a questa procedura rende particolarmente complicate le modalità di svolgimento della detenzione domiciliare è talvolta preferibile concedere la più ampia misura dell’affidamento in prova. Non va tuttavia escluso che la preferenza per quest’ultimo beneficio, anche nei casi di cui all’art. 47-quater, possa essere dettata da ragioni che tengono conto della valenza risocializzativa che ad esso dovrebbe essere connaturata (45). La presenza di quadri clinici molto diversi, anche nella fase di AIDS conclamata, alcuni dei quali, se ben trattati, possono regredire anche per lungo tempo, l’estrema dinamicità e variabilità di situazioni che caratterizzano il quadro clinico delle infezioni da HIV, non consentono di scartare a priori l’ipotesi di un possibile recupero sociale anche delle persone che si trovino in stadi così avanzati della patologia in questione. Certo è, peraltro, che un ricorso all’affidamento che esalti il profilo risocializzativo della misura appare in queste ipotesi del tutto residuale perché dalla nuova normativa emerge una connotazione dell’istituto più in chiave di modalità esecutiva dai contenuti meno afflittivi della detenzione domiciliare. In questa prospettiva può forse spiegarsi anche il richiamo alla sola disposizione di cui all’art. 47-ter ord. penit. per quanto non diversamente previsto dall’art. 47-quater ord. penit. Anche sotto il profilo processuale il testo legislativo pecca per gravi lacune; in particolare è chiaro che non si è provveduto al coordinamento della norma in questione con le disposizioni introdotte dalla l. n.165 del 1998 (46). (45) Ben mette in luce l’affievolirsi nel tempo di questa funzione dell’affidamento a vantaggio del soddisfacimento di mere esigenze di prevenzione del pericolo di recidiva BERNASCONI, Affidamento in prova e semilibertà nell’epoca post-rieducativa, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., p. 126 ss. (46) V. a tal proposito le considerazioni di VAUDANO, La terapia per le persone colpite da HIV, cit., p. 30 e di DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 869.
— 216 — Poiché la fattispecie in questione non è stata inserita tra i casi in cui gravano sul pubblico ministero gli obblighi di sospensione dell’esecuzione e della relativa comunicazione all’interessato ai sensi dell’art. 656 comma 5 c.p.p., per la proposizione dell’istanza di detenzione domiciliare dallo stato di libertà si dovrà prescindere, qualora la pena da espiare superi il tetto di tre anni, dall’avvenuta conoscenza in via formale del titolo esecutivo, Per chi sia interessato ad ottenere il beneficio ab initio diventa essenziale venire a conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza attraverso altri canali, in modo da poter contestualmente chiedere la sospensione dell’ordine di esecuzione e l’applicazione della misura. Pertanto, nonostante le opportunità che sembra voler offrire un legislatore animato da così buone intenzioni ma quantomeno distratto, le difficoltà di fruizione della misura fin da questo momento, per la maggior parte dei suoi possibili destinatari, non saranno poche e si possono fin d’ora mettere in conto le sperequazioni a danno dei soggetti economicamente più deboli. Per la proposizione dell’istanza ad espiazione già iniziata non sussiste altra via che investire direttamente il tribunale di sorveglianza secondo la procedura ordinaria. Non sembra, infatti, consentito all’interessato richiedere, in via d’urgenza, l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare al magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 47-ter comma 1-quater ord. penit. poichè la procedura d’urgenza risulta prevista solo in presenza dei requisiti di cui ai commi 1 e 1-bis dello stesso art. 47-ter. Certo è che un’esclusione del genere urta contro ogni logica, soprattutto perché proprio con riferimento al beneficio della detenzione domiciliare il magistrato di sorveglianza potrebbe già predisporre anche le prescrizioni attinenti al programma terapeutico (47). Ancora una volta non si può che lamentare la mancata opera di coordinamento tra la normativa in questione. Coerenti con la ratio ispiratrice della l. n. 231 del 1999, volta a contemperare le esigenze di opposti interessi, sono sia la preclusione apposta alla fruizione di entrambe le misure alternative qualora ad una precedente concessione sia seguita la revoca risalente a meno di un anno dalla nuova richiesta (art. 47-quater comma 5 ord. penit.), sia l’ipotesi di revoca del beneficio — concesso in ragione delle patologie in questione — collegata alla presunta commissione, nel corso della misura, di taluno dei reati sintomatici di maggiore pericolosità dall’ ordinamento, per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 47-quater comma 6 ord. penit.). Entrambe le previsioni, infatti, attribuendo alla magistratura di sorveglianza la facoltà di neutralizzare la fruizione dei benefici accordati di fronte a comportamenti che smentiscono la capacità di contenimento (47) Diverso è il caso dell’affidamento perché il ricorso alla procedura d’urgenza comporta la sospensione dell’ordine di esecuzione con conseguente rimessione in libertà dell’interessato fino a quando interviene la decisione del tribunale di sorveglianza (art. 47 comma 1-quater ord. penit.).
— 217 — della recidiva di queste forme espiative extramurarie e che mettono, allo stesso tempo, in pericolo la tutela delle esigenze di difesa sociale, testimoniano l’impegno del legislatore nella ricerca di una soluzione bilanciata tra le istanze di tutela della salute del singolo e quelle di salvaguardia della sicurezza collettiva (48). Le prime di tali istanze, ricollegate all’espletamento delle terapie necessarie per la cura della patologia, infatti, potranno essere soddisfatte con il ricorso alle misure alternative fino a quando il soggetto non metta seriamente in pericolo la sicurezza della collettività. Verificandosi tale circostanza, il tribunale di sorveglianza potrà anche ricorrere alla soluzione intramuraria ove il diritto alla salute, in ogni caso, potrà essere tutelato con l’assegnazione ad un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie (art. 47-quater comma 7 ord. penit.). Resta da stabilire se l’ ipotesi di revoca contemplata nell’art. 47-quater comma 6 ord. penit. sia l’unica consentita in questi casi ovvero se la previsione costituisca soltanto una specificazione della più generale facoltà di revoca riconosciuta al tribunale di sorveglianza quando il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, possa essere ritenuto incompatibile con la prosecuzione della misura (artt. 47 comma 11 e 47-ter comma 6 ord. penit.). Sembra preferibile la seconda soluzione — in questo caso consentita dalla disposizione di rinvio presente nell’ottavo comma — perché più coerente con i principi generali che regolano la materia e perchè la struttura delle misure alternative, nella quale le prescrizioni rivestono una funzione essenziale, verrebbe vanificata nel caso in cui alla loro violazione non fosse ricollegata la sanzione, seppure in via eventuale, della revoca. La normativa pone due ulteriori problemi. Il primo riguarda gli effetti derivanti dalla revoca dell’affidamento ovvero dall’esito positivo del periodo di prova disciplinati nell’art. 47 comma 11 e 12 ord. penit. a cui l’art. 47-quater non fa rinvio. Il dato letterale non sembra dunque consentire che il periodo trascorso in affidamento, in caso di revoca, possa essere valutato discrezionalmente dal tribunale di sorveglianza ai fini del computo della pena ancora da espiare. Ancora una volta il richiamo della sola disciplina di cui all’art. 47-ter porta a ritenere che anche gli effetti della revoca dell’affidamento siano gli stessi previsti in tema di detenzione domiciliare. Tali effetti decorreranno quindi ex nunc; né, per le stesse ragioni, dovrà farsi luogo alla declaratoria di estinzione della pena nel caso in cui l’esecuzione della misura si sia svolta positivamente. Se questo ha effettivamente voluto il legislatore, le novità sono dirompenti. (48) Diversa lettura della disposizione di cui all’art. 47-quater comma 5 ord. penit. dà CANEVELLI, Tutela dei soggetti affetti da AIDS, cit., p. 1228, per il quale il legislatore ha in tal modo inteso impedire che ‘‘una precedente revoca di analoga misura possa costituire un automatico ostacolo alla concessione di una nuova misura terapeutica’’.
— 218 — Il secondo problema nasce dalla mancanza di una previsione che consenta di revocare le misure qualora nello stato patologico del soggetto si rinvengano dei miglioramenti che comprovano il superamento dei valori clinici fissati come parametri di riferimento per stabilire la presenza del grave deficit immunitario collegato alla infezione da HIV (49). L’ipotesi non è da escludere a priori e la mancata regolamentazione di una tale evenienza è criticabile sotto un duplice aspetto: da un lato perché, nell’ambito di pene di lunga durata, consente il regime di detenzione domiciliare non giustificato da condizioni di salute più gravi rispetto a quelle per le quali se ne consente la fruizione solo se il tetto di pena da espiare non è superiore a quattro anni (50); dall’altro lato perché il permanere dell’affidamento in prova, a meno che non ricorrano, in ogni caso, le condizioni soggettive ed oggettive di cui all’art. 47 ord. penit. o all’art. 94 d.p.r. 309⁄90, non trova nella legge alcun fondamento. Invece per queste misure terapeutiche neppure si è pensato di stabilire un termine di durata, seppure sottoposto a proroga, che consenta di effettuare un periodico controllo sulla permanenza dei requisiti richiesti dalla legge, come previsto in ipotesi analoghe. Si pensi ai benefici del rinvio dell’esecuzione e della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit., concedibili solo per un periodo determinato, eventualmente prorogabile. 6. L’art. 146 comma 1 n. 3 c.p. introduce un’ ulteriore ipotesi di rinvio obbligatorio dell’esecuzione nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria ovvero da altra malattia particolarmente grave incompatibile con lo stato detentivo, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non risponder più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o di quello esterno, ai trattamenti disponibili ed alle terapie curative. La disposizione contiene quindi, rispetto alla precedente normativa del 1993, dichiarata costituzionalmente illegittima, un’ estensione della tutela apprestata ad altre patologie particolarmente gravi, non meglio precisate. Inoltre anche gli internati, in precedenza esclusi dal beneficio — circostanza alla quale neppure la Corte costituzionale era stata in grado di ovviare — (51) possono ora usufruirne. (49) In questo caso la disciplina di cui all’art. 47- ter ord. penit., pur prevedendo al settimo comma la revoca della misura per il venir meno delle condizioni che ne hanno giustificato la concessione, espressamente la limita alle situazioni di cui ai commi 1 e 1-bis. (50) Una volta venuta meno la patologia di AIDS conclamata, a meno che non sia comprovato uno stato di incompatibilità assoluta con il regime intramurario, la situazione soggettiva non si differenzia da quella di altri soggetti per i quali, se condannati — per gli internati niente è invece previsto in questi casi —, l’accesso alla detenzione domiciliare o all’affidamento terapeutico è previsto solo quando il tetto di pena non sia superiore a quattro anni. (51) Cfr. Corte cost., sent. 15 luglio 1994 n. 308, in Giur. cost. 1994, p. 2639 ss.,
— 219 — Sussistono problemi di raccordo con la normativa penitenziaria, in particolare con l’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. e, limitatamente alle ipotesi di AIDS conclamata e casi analoghi, anche con l’art. 47-quater ord. penit. Occorre infatti individuare i rispettivi ambiti di applicazione degli istituti in questione. Poiché la formulazione della nuova previsione, non particolarmente felice, si può prestare a più interpretazioni, una soluzione razionale è prospettabile ove la condizione apposta nell’ultima parte del testo — ‘‘quando la persona si trova in una fase della malattia, così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative’’ — venga riferita ad entrambe le categorie di patologie individuate nella previsione de qua (52)e intesa con riferimento esclusivo a situazioni in cui la prognosi quoad vitam viene ritenuta infausta. Tale interpretazione, consentita dal dato letterale, ci sembra particolarmente calzante sul piano sistematico poiché permette di circoscrivere l’ambito di operatività di ciascuna delle tre disposizioni senza che debbano risentirne i principi tutelati dagli artt. 3 e 27 comma 3 Cost. Ed invero, con riferimento all’ipotesi di AIDS conclamata e simili, la valutazione delle aspettative di vita del reo rappresenta il criterio da adottare per risolvere eventuali interferenze fra gli istituti sopra richiamati. Infatti, se sussiste ancora la possibilità di un recupero del soggetto e la volontà dello stesso di sottoporsi ad un programma terapeutico, l’applicazione di una delle due misure terapeutiche di cui all’ art. 47-quater, ord. penit., sarà in grado di tutelare la salute del reo unitamente all’esecuzione della pena in forma attenuta; l’incompatibilità della patologia con il regime detentivo, anche in assenza di un programma terapeutico, potrà in ogni caso essere superata con la detenzione domiciliare sostitutiva del rinvio dell’esecuzione; verificandosi la condizione di cui all’ultima parte del disposto dell’art. 146 comma 1 n. 3 c.p, l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione impedirà che possa essere disposta la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. perchè ormai la pena, anche eseguita in forma attenuata, sarebbe solo una inutile sofferenza, contraria al senso di umanità (53). Per le ipotesi di altre malattie gravi, fino ad oggi tutelate con il rinvio facoltativo dell’esecuzione dall’art. 147 comma 1 n. 2 c.p. e, a seguito che ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità, in quanto un’eventuale pronuncia di omologazione della disciplina in tema di misure di sicurezza a quella dettata per l’esecuzione della pena avrebbe creato ‘‘un novum con effetti invasivi rispetto alle scelte che soltanto il legislatore è abilitato a compiere’’. (52) Questa è anche la lettura che del testo dà CANEVELLI, Tutela dei soggetti affetti da AIDS, cit., p. 1230. (53) Cfr. Cass. sez. I, 30 gennaio 1995, De Vincenzo, in Cass. pen. 1996, p. 308, m. 177, che in presenza di queste circostanze ha ritenuto ‘‘frustrato lo scopo del reinserimento sociale, impossibile per motivi estranei al trattamento o al comportamento del soggetto’’.
— 220 — della legge Simeone, anche con la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit, vale ora lo stesso criterio che impone il rinvio dell’esecuzione quando il soggetto non risponde più ai trattamenti terapeutici in quanto la malattia è ormai in fase terminale. Va detto, peraltro, che già la precedente regolamentazione della materia orientava l’interprete nel senso di ritenere consentita la sostituibilità tra rinvio dell’esecuzione e detenzione domiciliare, di fronte a ipotesi di grave infermità fisica incompatibili con la detenzione intramuraria, solo finché lo stato patologico è tale da dare un senso all’espiazione sotto il profilo rieducativo (54). In sostanza la nuova norma, enucleando dalle ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione per ragioni di grave infermità fisica i casi in cui tali infermità si prospettino in forme ormai così gravi da non lasciare dubbi circa la loro irreversibilità e la prognosi infausta a breve termine, rende esplicito il criterio valutativo che deve sovrintendere alla scelta tra detenzione domiciliare e rinvio dell’esecuzione. Per questo motivo le perplessità suscitate da questa nuova normativa non sono ingiustificate (55). L’innesto legislativo, infatti, al di là di rendere accessibile anche agli internati gli istituti in questione poco innova, nella sostanza, rispetto al passato. Anche il richiamo specifico alla patologia dell’AIDS assume un carattere meramente esemplificativo della molteplicità delle patologie a cui viene riconosciuta la medesima ampia tutela legislativa (56). Si può tuttavia concludere che, sul piano della discrezionalità concessa all’organo giudicante nel disporre la detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di rinvio obbligatorio dell’esecuzione (art. 47-ter comma 1ter ord. penit.), la condizione oggi espressamente apposta dalla nuova previsione di diritto sostanziale mette al sicuro dal rischio di disomogenee applicazioni giurisprudenziali. PAOLA COMUCCI docente di Diritto penitenziario nell’Università di Milano-Bicocca
(54) A tal proposito cfr., volendo, COMUCCI, La detenzione domiciliare sostitutiva del rinvio dell’esecuzione:il recupero dell’indefettibilità della sanzione penale, in Foro ambr. 1999, 222. (55) Cfr. VAUDANO, La terapia per le persone colpite da HIV è incompatibile con la pena detentiva, cit., p. 20; DOLCINI, Le misure alternative oggi, cit., p. 869. (56) Sono tuttavia condivisibili anche le considerazioni di MAGLIONA, Tutela dei soggetti affetti da AIDS o da altre malattie gravi e misure alternative al carcere B) Aspetti medico-legali, in Dir. pen e proc., 1999, p. 1232, che giustifica la particolare attenzione del legislatore nei confronti dei soggetti affetti HIV con la molteplicità delle problematiche emergenti nello specifico rapporto tra condizioni di salute del detenuto e detenzione intramuraria e nel quale rilevano l’entità del fenomeno e le difficoltà di conciliare ‘‘le esigenze di tutela della salute individuale con le istanze di tutela della salute e di sicurezza della collettività carceraria e di quella extracarceraria’’.
LE INCONGRUENZE DELLA RISPOSTA PENALE ALL’ILLEGALITÀ: LE POSSIBILI NUOVE MODIFICHE ALL’ARTICOLO 656 C.P.P. SOMMARIO: 1. Sicurezza ed effettività della sanzione. — 2. L’evoluzione del processo riformatore. — 3. Legge Simeone - pena medio breve. — 4. Progetti di riforma e proposte di modifica dell’articolo 656 c.p.p. — 5. Conclusioni.
1. Il tema dell’esecuzione penale richiama ormai sempre più spesso il concetto di « effettività della sanzione » (1). La questione securitaria che ha occupato le prime pagine dei quotidiani dell’ultimo anno ne è la spia più immediata e costituisce l’occasione per un’analisi più approfondita del collasso che sta vivendo il settore dell’esecuzione penale. Fermo restando che è del tutto illusorio e in ogni caso non corretto proporre quale soluzione possibile al problema della sicurezza la via giudiziaria (2). Oggi nel nostro paese, per molteplici ragioni, si ritiene che una delle cause per cui la sicurezza nelle città costituisce un problema di non più rinviabile soluzione sia anche e soprattutto il venire meno della « effettività » delle pene inflitte (3). Tale affermazione, se non assume valore assoluto, poiché l’afflusso ed i tempi delle notizie che caratterizzano il mondo mediatico, rispondendo a specifiche necessità del settore, non sono indicative delle reali richieste ed esigenze della collettività in tema di giustizia, individua sicuramente una disfunzione del sistema penale. Se, infatti, la pacifica e civile convivenza tra i cittadini è fondata sulla funzione di prevenzione generale che devono avere le sanzioni penali, tale (1) Per un’analisi più approfondita si veda AA.VV., « L’effettività della sanzione penale », Kluwer, Ipsoa, 1998 e MACCORA-MONTELEONE, Esecuzione e Sorveglianza, Convegno Nazionale ANM, Dialettica e contraddittorio nel processo penale, Sorrento 22-23-24 ottobre 1999. (2) Si rimanda per una impostazione generale a PEPINO, La città insicura e l’impossibile supplenza giudiziaria, in Quest. Giust., n. 5, 1999, pag. 791 ss. (3) Eugenio Scalfari al riguardo scrive: « una democrazia non può vivere senza fiducia nella giurisdizione, ma la maggior parte dei cittadini non ha fiducia nell’efficacia della giurisdizione italiana », in La Repubblica, 14 novembre 1999. I dubbi sul giusto processo e la fiducia che non c’è.
— 222 — finalità può raggiungersi solo se vi è certezza e tempestività nell’applicazione della sanzione e se la stessa opera nei confronti di tutti i soggetti condannati rispondendo così al principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione. Nell’attuale sistema giudiziario la pena non risponde al requisito di certezza. Basta considerare l’elevatissimo numero di reati commessi da ignoti, e quanti, pur individuati, per una serie di ragioni restano impuniti. Le disfunzioni del sistema processuale contribuiscono ad aumentare le situazioni d’impunità. È eclatante l’analisi dell’applicazione concreta dell’istituto della sospensione condizionale della pena (4). Istituto che comporta la non eseguibilità del 49.63% delle condanne inflitte (5). La pena non è tempestiva. È infatti, noto che i tempi per arrivare ad una sentenza definitiva sono eccessivamente lunghi. Tralasciando l’analisi sulla esecutività della sentenza di condanna dopo il giudizio di appello, è bene ricordare che l’art. 27 della Costituzione non afferma che le pene devono rieducare i condannati, ma che « devono tendere alla loro rieducazione », e affinché ciò avvenga è necessario che la sanzione sia applicata in termini temporali più ravvicinati possibile alla data di commissione del reato. (4) A parte ogni considerazione sulla necessità di un’applicazione dell’istituto solo nei casi di rigoroso accertamento degli elementi che consentono una prognosi favorevole, occorre rilevare che i ritardi dei casellari giudiziali nell’iscrizione delle condanne definitive, portano il giudice di cognizione a concedere il beneficio ben oltre le due previste dalla legge. A tale situazione non corrispondono adeguati rimedi in fase esecutiva. Secondo una giurisprudenza ormai consolidata della Cassazione, in ossequio al rispetto del principio della intangibilità del giudicato, se non ricorrono le condizioni di cui ai numeri 1 e 2 del 1o comma dell’art. 168 c.p., la revoca del beneficio illegittimamente concesso, non è consentita. Analoga incongruenza si registra nell’ipotesi in cui, concessa la sospensione condizionale della pena, sopraggiunge una condanna con pena patteggiata. La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla natura delle sentenze di patteggiamento, afferma che alla presenza di una sentenza di tal specie non si può procedere alla revoca del beneficio della pena sospesa — pur ricorrendo le condizioni di cui all’art. 168 c.p. — Argomenta la Corte che la sentenza di patteggiamento non ha natura di vera e propria sentenza di condanna, mancando l’accertamento giudiziale sulla responsabilità penale, e pertanto non può costituire il presupposto al quale l’art. 168 c.p. riconnette la revoca della sospensione condizionale della pena. Le affermazioni della Cassazione, in vero, mal si conciliano con quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990 con la conseguenza che l’esposta interpretazione presenta profili di illegittimità costituzionale, non manifestamente infondati, con riferimento all’art. 27 comma 2 e 3 comma ed all’art. 25 della Cost. comma 2. Le conseguenze sono particolarmente gravi, basti considerare che si sono verificati casi di condannati con più sentenze tutte a pena patteggiata e tutte a pena sospesa, con la determinazione di una pena complessiva di circa sei anni! (5) I risultati, che riguardano il quinquennio 1993/1997, sono stati resi noti dal Direttore del Casellario Giudiziario Canevelli, La riforma del sistema sanzionatorio penale e penitenziario, nell’incontro di studio del C.S.M. svoltosi a Frascati 31 maggio-2 giugno 1999.
— 223 — Il rischio in caso contrario è l’inefficacia della sanzione, o perché il condannato è già reinserito nella società e la pena diviene superflua o quantomeno inopportuna, o perché, durante il periodo di libertà, il condannato ha continuato a delinquere e quindi non si ottiene prevenzione né generale né speciale. La pena è infine tutt’altro che « inderogabile », e a ciò ha contribuito certamente la disciplina introdotta con la legge n. 165/98. Senza eccessive enfatizzazioni, non possiamo quindi che prendere atto del diffuso e generalizzato senso d’insicurezza (6), che per l’assenza di soluzioni valide da parte del potere legislativo ed esecutivo non solo sul terreno della giustizia, innalzano il rischio che parte della collettività possa essere indotta a ritenere ineluttabile l’insicurezza urbana con il conseguente diffondersi di sfiducia nella possibilità che gli organi competenti, le forze dell’ordine e la magistratura, vi pongano rimedio, compromettendo in tal modo la fiducia che i cittadini devono riporre nelle istituzioni e nel principio di legalità. Anche per il diffondersi di notizie scorrette ed incontrollabili, si riscontra nell’opinione pubblica la certezza della disapplicazione delle pene, la convinzione che le grandi organizzazioni criminali sono incontrastabili, che comunque la corruzione è sempre più diffusa e che il sistema è incapace di fronteggiare la « microcriminalità ». Ne consegue la richiesta della legge e dell’ordine ad ogni costo. Si collega a tale sfiducia il ricorso a forme « private » di tutela e controllo del territorio periodicamente riproposte in diverse realtà locali; l’idea di un sindaco-sceriffo; la richiesta dei lavori forzati per i delinquenti; di maggiori poteri alla polizia! Ai gravi episodi di criminalità si risponde richiedendo sanzioni più elevate, se non addirittura la pena di morte, dimenticando l’esperienza degli altri paesi dove l’aver contrapposto alla criminalità la mera detenzione non ha diminuito il tasso di devianza, non ha risolto l’emarginazione ed i conflitti sociali! Nè è risolutiva la sorveglianza intensiva e la sorveglianza elettronica (7), che per funzionare richiedono un ingente numero di addetti al controllo dei relativi sistemi, il cui costo è elevatissimo e le cui prospettive di successo, anche in tema di rieducazione, appaiono molto dubbie! La confusione imperversa! Non è un caso, ad esempio, che la società se da un lato richiede più (6) Il 18 ottobre il quotidiano La Repubblica (Il 58 per cento degli italiani ha paura di uscire in città) ha riportato un sondaggio della Cirm secondo cui la paura dei cittadini è collegata alle leggi considerate troppo permissive, al fenomeno della immigrazione clandestina ed alla scarsa presenza delle forze dell’ordine sul territorio. (7) Istituti nati in alcuni stati della confederazione statunitense come alternative alla pena detentiva, e riproposti in Italia come soluzione al sovraffollamento carcerario: braccialetti elettronici.
— 224 — punizione, dall’altro è pronta ad assolvere con giudizi sommari gli autori di gravi comportamenti di corruzioni e concussione (che da parte di alcuni vengono intenzionalmente prospettati, e conseguentemente « confusi », come fatti attinenti al mero finanziamento illecito dei partiti), ed a considerare con maggiore permissività coloro che si sono resi responsabili dei reati contro la pubblica amministrazione o contro l’economia, richiedendo anche alla giurisdizione di attuare una « impossibile pacificazione generale » che di fatto mette a dura prova la sopravvivenza delle regole irrinunciabili per uno stato di diritto. Sicuramente strumentale è la considerazione avanzata da alcuni che la magistratura è indifferente di fronte al dilagare della microcriminalità, poichè occupata a perseguire la criminalità economica e dei c.d. « colletti bianchi », così come non è veritiera la notizia, più volte data all’opinione pubblica, che i fatti di corruzione, di mala gestione nei diversi settori della sanità, del governo del territorio, delle pubbliche forniture, appartengono ormai al passato. I dati statistici allegati alla relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2000 del Procuratore Generale di Milano dimostrano il contrario (8). Ed allora, proprio per evitare facili ed inutili allarmismi e farsi coinvolgere in strumentalizzazioni di altro genere, occorre orientare la società attraverso dati ed elementi corretti, fornendo la giusta chiave di lettura degli accadimenti, evitando da un lato suggestioni e drammatizzazioni, dall’altro atteggiamenti superficiali e di sottovalutazione dei fenomeni, comportamenti diseguali ma che a null’altro portano se non a sviare l’attenzione dalle proposte effettivamente risolutive del problema. Si deve ribadire che l’attuazione della legalità non può essere affidata solo alla magistratura ed all’intervento penale, sia perchè in tal modo è illusoria qualsiasi soluzione sia perchè tale scelta sarebbe in contrasto con le iniziative internazionali che richiamano tutti i settori di controllo e di garanzia delle democrazie più avanzate a adoperarsi sul piano amministrativo e della prevenzione generale per costruire ogni più utile barriera al dilagante fenomeno della corruttela e della criminalità organizzata, che coinvolge tutti i paesi. Sul versante più specifico della giurisdizione, la confusione ingenerata richiede di analizzare con obiettività e serenità le ragioni che hanno portato a questo stato di cose, certamente non attribuibile ad una sola causa o ad una sola legge, per adottare rimedi non occasionali che diano razionalità ad un sistema penale e processuale ormai gravemente compro(8) La relazione evidenzia anche quale causa dell’inadeguatezza del servizio giustizia nel suo complesso l’insufficienza delle risorse su cui il sistema giudiziario può contare e la farraginosità della normativa processuale e sostanziale.
— 225 — messo da riforme succedutesi in maniera convulsa ed irrazionale, delle quali non si è stati sempre in grado di valutare gli effetti, nonchè da interpretazioni giurisprudenziali discutibili. 2. Il sistema normativo dell’esecuzione penale ha avuto uno sviluppo disarmonico. I principi di intangibilità del giudicato e di certezza della pena sono stati progressivamente derogati e accantonate le loro ragioni ispiratrici, con la conseguenza che il sistema processuale ha perso in razionalità ed è stato compromesso il già precario « equilibrio » tra la fase di cognizione, quella di esecuzione, e quella successiva che possiamo definire della c.d. « rieducazione », originariamente riservata alla competenza della magistratura di sorveglianza. Questa trasformazione della fase esecutiva è avvenuta in modo caotico, irrazionale e del tutto avulsa da un imprescindibile coordinamento con la fase di cognizione (9). A ciò si aggiunga che il numero degli « utenti appartenenti alla c.d. area penale esterna », cioè coloro che accedono all’esecuzione penale senza passare dal carcere è aumentato vertiginosamente, facendo sì che oggi l’attenzione prevalente dei Tribunali di Sorveglianza e delle reti di sostegno alla esecuzione delle misure alternative è prevalente su tale settore, con la conseguenza che il giudizio prognostico demandato a tale organo giurisdizionale e fondato prevalentemente sull’accertamento dei progressi nel trattamento di soggetto detenuto, è compiuto sulla base di elementi che già erano conosciuti dal giudice della cognizione e che vengono valutati, da un giudice diverso, a distanza di anni dalla irrevocabilità della sentenza di condanna. Gli effetti sono evidenti, e dimostrano l’incapacità di prevedere un sistema razionale e coerente di esecuzione penale, aderente alle esigenze di una società complessa, ed in continuo divenire (10). (9) Si pensi alla contraddizione riscontrabile nei diversi orientamenti della giurisprudenza che da un lato annullano, dall’altro mantengono un forte rapporto tra cognizione ed esecuzione. Ed infatti se da un lato si stigmatizza (da parte della Cassazione) la valutazione di quei Tribunali che negano i benefici penitenziari riportandosi sia alla gravità del fatto reato sia al comportamento processuale tenuto nel giudizio di cognizione, d’altro lato si consente, per l’accertamento della collaborazione nei confronti di condannati per reati inseriti nell’articolo 4-bis O.P. che il Tribunale di Sorveglianza entri a pieno nel giudicato. (10) Un sistema penale e penitenziario non astratto ma aderente alla realtà, deve tenere in considerazione due elementi: l’espansione di condanne collegate all’uso di sostanza stupefacente che non trova rimedio nella previsione delle alternative stabilite dal Testo Unico n. 309/’90 sugli stupefacenti e l’aumento vertiginoso della criminalità straniera. La complessità della criminalità legata alla tossicodipendenza ed alla immigrazione clandestina è tale che sarebbe vano ogni tentativo di componimento che volesse riproporre
— 226 — Il dato su cui sia la dottrina che la giurisprudenza concordano è che l’odierno sistema è caratterizzato per lo più dalla logica dell’emergenza, con un sistema penitenziario che fornisce risposte all’esigenza di lotta alla criminalità organizzata (consentendo sia l’inasprimento dell’accesso ai benefici che la realizzazione di una logica premiale per i collaboratori di giustizia) e all’esigenza di sfollare gli istituti penitenziari, per essere comunque ed in ogni caso tacciato di insufficienza in quelle occasioni in cui il sistema sanzionatorio dimostra tutta la sua inadeguatezza di fronte al bisogno di legalità della società. Non è un caso che la legge 165 del 1998, voluta proprio per assolvere le esigenze di sfollamento del penitenziario, ha consentito la campagna stampa dell’agosto 1999, ed oggi, a meno di un anno di distanza, da più parti si concorda sulla necessità di una sua modifica. la centralità del giudiziario, occorrono interventi più ampi, ed in particolare una forte ripresa della politica sociale, della tolleranza e della integrazione. Permane comunque un settore, non privo di rilevanza, che riguarda la giurisdizione e che deve trovare soluzione. Le problematiche in relazione ai detenuti stranieri sono molteplici. Sussistono problemi di identificazione personale degli autori di reato; vi è l’emergere sempre più prepotente di organizzazioni criminali (Kosovaro-Albanese) difficilmente contrastabili perchè rispondenti a modelli culturali ed a modalità operative nella commissione dei reati diverse da quelle fino ad oggi conosciute, ma altrettanto pericolose sia per la pluralità di interessi illeciti posti in essere che per le collaborazioni che vanno stringendo con le organizzazioni criminali e mafiose storiche; si registra la presenza in carcere di soggetti portatori di particolari problematiche psicologiche, sociologiche, culturali, rispetto alle quali il trattamento deve prescindere in un primo momento dal reato per occuparsi soprattutto della diversità etnica; soggetti rispetto ai quali le misure alternative esistenti rappresentano una meta di difficile attuazione, in assenza di adeguate strutture di sostegno, dato che anche nei casi in cui sarebbe auspicabile la loro concessione, di fatto l’assenza di mezzi e strutture adeguate le rende inapplicabili. Anche in relazione alla criminalità connessa alla tossicodipendenza — notoriamente criminogena — il nostro sistema sanzionatorio, ed in particolare quello esecutivo, sono del tutto inefficienti. Infatti, a fronte di una diffusa disinformazione sul fenomeno, si registra, in sede di cognizione e di esecuzione, l’assenza di immediati interventi terapeutici idonei a fronteggiare il pericolo di recidive ed a garantire l’effettivo svolgimento di un programma terapeutico, tendente anche solo alla riduzione del danno. In assenza di politiche sociali e sanitarie adeguate, con la supplenza del giudiziario, il fenomeno in sede di cognizione è affrontato negli stessi termini o con gli stessi tempi con cui si affronta la criminalità comune. Ed è paradossale che la riforma apportata con la legge 165/98 non abbia previsto la competenza provvisoria del magistrato di sorveglianza ad applicare la misura alternativa, garantendo così all’esecuzione penale quel minimo di efficienza per cui il programma terapeutico è tempestivamente posto in esecuzione e rigorosamente alternativo al carcere. Ciò non toglie che di fronte al dilagare del commercio delle droghe e dell’aumento dei composti chimici di sintesi, la nostra società non può non affrontare, con spirito laico, e con la necessaria ponderazione, il problema del proibizionismo e della distribuzione controllata di talune sostanze. Vedi per una ricostruzione più generale della questione P.A. O’HARE ed altri (a cura di), La riduzione del danno, Ega, Torino, 1994; CAMPEDELLI-PEPINO, Droga: le alternative possibili, Ega, Torino, 1997.
— 227 — Basta questo a dimostrare il disorientamento che coinvolge il sistema penale. Non abbiamo quindi (o quantomeno non lo si riesce garantire nella maggior parte dei casi) un’esecuzione penitenziaria costituzionalmente orientata, secondo i principi espressi dagli articoli 3 e 27 della Costituzione, ma abbiamo un sistema che rappresenta la conseguenza diretta della incertezza e diseguaglianza nella concreta applicazione degli istituti, un sistema che non può rispondere alle richieste di prevenzione generale, sicurezza e rieducazione, perchè è frutto di compromesso politico e di spinte ideologiche diverse e non conciliabili, se non a scapito della coerenza del sistema processuale e penale del nostro paese. 3. L’esempio più immediato è rappresentato dalla legge 165/98 (11). Approvata con larghissima maggioranza, pur nobile in alcuni principi che l’hanno ispirata, ha determinato anche conseguenze non condivisibili alle quali occorre porre rimedio. Una prima conseguenza negativa riguarda le esecuzioni delle pene curate dalle procure dei distretti più ampi (pensiamo a Milano, Roma e Napoli) che registrano nel primo anno di applicazione della legge la sospensione di circa metà degli ordini di esecuzione delle pene per condanne definitive, determinata dalla impossibilità di procedere alla notifica dell’ordine di esecuzione. Inoltre la legge non risulta soddisfacente come risposta alle pene medio-brevi. Non aver operato sul catalogo delle sanzioni ha fatto sì che il magistrato ed il tribunale di sorveglianza non decidono più l’esecuzione delle misure alternative guardando al percorso rieducativo effettuato dal condannato, ma applicano in sede di esecuzione una diversa sanzione penale (12). Ma vi è di più, la riforma ha evidenziato l’insufficienza dell’unica sanzione esistente: la reclusione. L’attuale sistema sanzionatorio presenta infatti una strozzatura, in quanto proprio nell’ipotesi delle sanzioni medio-brevi, l’accesso alla misura alternativa più significativa (affidamento in prova al servizio sociale) (11) Per un commento più articolato della disciplina nel suo complesso vedi PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, (L. 27 maggio 1998, n. 165), 1998, Cedam; ed ancora PALIERO, Commento all’articolo 4 l. 27 maggio 1998, n. 165, in Legisl. pen., 1998; DELLA CASA, « Democratizzazione » dell’accesso alle misure alternative e contenimento della popolazione carceraria: le due linee guida della nuova legge sull’esecuzione della pena detentiva, in Legisl. pen., 1998. (12) Vedi sul punto Maccora, in PRESUTTI (a cura di), Esecuzione penale e alternative penitenziarie, cit., pag. 117, ed ancora MACCORA, Irrazionalità ed insufficienza delle attuali risposte dell’esecuzione penale alla illegalità, in Quest. Giust., n. 6, 1999, pag. 111; e per una impostazione critica del problema MONTEVERDE, Dal tribunale di sorveglianza al tribunale della pena, in Quest. Giust., n. 1, 2000, pag. 7 ss.
— 228 — è chiesto da soggetti condannati per reati diversissimi, che presentano caratteristiche personologiche, criminali, sociali ed economiche tra loro molto differenti (13). A ciò si aggiunga che si riscontrano fattispecie di reati che racchiudono già in se una tipologia variegata di autori che in tema di sanzione e trattamento richiedono risposte diverse e differenti, con una prevalenza in certi casi della finalità retributiva della pena rispetto al momento trattamentale, assolvendo solo così al principio di prevenzione generale (14). Reati che evidenziano l’inadeguatezza dell’attuale risposta penale, richiedendo di contro una politica criminale più ampia, e non solo quella incentrata sulla politica della pena, ed una coralità di interventi, in cui la sanzione penale può anche atteggiarsi a modalità diverse dal mero trattamento rieducativo (15). Medesima inadeguatezza il sistema sanzionatorio dimostra rispetto ai reati posti in essere dai c.d. colletti bianchi, dove l’applicabilità della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, in presenza di una pena residua inferiore ai tre anni, discende dall’impossibilità di discriminare coloro che presentano elevate condizioni economiche, sociali e culturali (16). (13) Ed infatti per quanto si possa personalizzare la medesima misura alternativa attraverso l’imposizione di prescrizioni dettagliate, il contenuto proprio della misura stride con l’esigenza di applicazione differenziata, con la conseguenza che si affida al centro di servizio sociale la gestione di condannati autori di reati bagatellari, di violenze sessuali, di corruzione e concussione, di bancarotte fraudolente ecc. L’incongruenza discende soprattutto dall’inquadramento che la dottrina e la giurisprudenza hanno dato dell’istituto, che non ha più retto quando la giurisprudenza inizialmente ed il legislatore successivamente (articolo 14-bis D.L. 8 giugno 1992 n. 306) hanno ritenuto opportuno che la misura alternativa si applicasse a tutti coloro che erano in esecuzione di una pena residua inferiore a tre anni. Da tale momento si è creata una sorta di accesso privilegiato all’affidamento che rappresenta la valvola di sfogo dalla detenzione e dal sovraffollamento carcerario. La richiesta della misura può provenire da parte di autori di reati di grande allarme sociale, dato che l’entità della pena può essere contenuta dall’aver l’autore del reato goduto di concessione delle attenuanti generiche, dell’aver utilizzato riti alternativi, dall’aver usufruito del patteggiamento nel giudizio di primo grado ed in quello di appello, peraltro per reati commessi antecedentemente all’anno 1990, vi è anche la possibilità di un’ulteriore diminuzione della pena originariamente irrogata, attraverso l’applicazione del condono. (14) Costituiscono esempio di tale categoria i reati sessuali dove maggiormente si intravede la correlazione tra sanzioni « positive » con funzioni incentivanti e sanzioni « negative » con funzioni disincentivanti di determinati comportamenti. (15) Nei casi in cui dietro al reato sessuale non si riscontra una patologia psichiatrica o una situazione di degrado culturale ed ambientale ed il reato è commesso in un contesto criminale più ampio (prostituzione o pornografia minorile) l’azione dello Stato dovrà attaccare e sconfiggere il profitto, conseguentemente la sanzione non potrà essere la reclusione sostituita dalla misura alternativa ma ad esempio quella più specifica e pregnante della confisca, con maggiore attenzione al settore commerciale e bancario (si pensi al controllo del bilancio delle società come modalità di controllo degli affari trattati). (16) La Cassazione, intervenuta in sede di annullamento delle ordinanze dei Tribu-
— 229 — 4. Il quadro generale sopra tracciato, sicuramente non esaustivo, è sufficientemente indicativo delle incongruenze del sistema. Ulteriori preoccupazioni destano alcuni disegni e proposte di legge all’esame del Parlamento (17). L’ottica che ispira tali ulteriori riforme è quella, da un lato di ampliare ulteriormente i limiti di pena stabiliti per la concessione dei benefici, dall’altro di creare nuove forme di misure alternative, che già ad una prima analisi si presentano di dubbia efficacia. Interessante, nella confusione segnalata, appare la relazione conclusiva della commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. 1 ottobre 1998 (commissione Grosso), che ha unanimemente riconosciuto la necessità di una profonda revisione del nostro sistema sanzionatorio. Fra gli obiettivi primari che la Commissione ha individuato vi sono: la razionalizzazione del sistema vigente; la riduzione del margine di discrezionalità nell’applicazione di istituti quali il concorso di circostanze nali di Sorveglianza che hanno negato il beneficio, ha affermato che la rieducazione deve essere concettualmente identica per tutti i condannati. L’esame del reato commesso serve solo esclusivamente a valutare la personalità del condannato ed individuare gli elementi necessari al trattamento rieducativo. La funzione rieducativa della pena, proprio per la laicità che orienta il nostro ordinamento, consiste nella necessità di rispettare le leggi penali, che assicurano la soglia minima dei comportamenti leciti dovuti e di conformare in genere il proprio agire ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale sanciti dall’ordinamento. Ogni reato, in quanto violazione della legge penale, dimostra un’insofferenza alle regole poste dallo Stato a tutela dell’ordinata e civile convivenza e, quindi, l’esistenza di un disadattamento sociale del suo autore con la conseguente necessità della sua sottoposizione ad un trattamento rieducativo eventualmente con misure alternative. Per una ampia rassegna vedi LA GRECA, Colletti bianchi e benefici penitenziari, in Foro it., 1998, II 34-38, ed ancora DEL NEVO, Misure alternative alla detenzione e colletti bianchi, in Quest. Giust., n. 2, 1998. L’elemento di novità apportato dalla giurisprudenza di merito, a seguito degli annullamenti citati, è da intravedere nel tentativo di valutare l’idoneità dell’affidamento ad attuare la rieducazione, indipendentemente dal tipo di reato, sul piano delle prescrizioni che il Tribunale può imporre e che sono individuate come elemento caratterizzante quel trattamento personale che consente di esprimere il giudizio prognostico richiesto dall’articolo 47 O.P. Al momento della concessione pertanto il Tribunale dovrà acquisire il progetto formulato dal condannato che costituisce una prima dichiarata serietà di intenti, che verrà valutato concretamente in occasione della declaratoria di estinzione della pena, perchè l’attuazione e la realizzazione del piano di intenti costituirà la riprova dell’esito positivo della prova, che non sarà consequenziale soltanto al mero decorso del tempo senza che sia intervenuta una causa di revoca della misura, ma richiederà un giudizio più pregnante sull’avvenuta inequivocabile rieducazione del reo, che dovrà consistere sia nell’orientare i propri comportamenti e la propria personalità verso modelli di vita socialmente accettabili, sia verso il compimento di attività che « latu sensu » assumano valore compensativo dei danni provocati alla società con la commissione del reato. In tal senso l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano del 6 ottobre 1999, che concede l’affidamento in prova al servizio sociale all’on. Forlani, con commento di Tirelli, in Quest. Giust., n. 1, 2000, pag. 187 ss. (17) Vedi la proposta di legge d’iniziativa del deputato Corleone presentata il 9/5/96 n. 158 e quella n. 155; il disegno di legge giacente al Senato n. 1529, 1210, 472, 205, 3776.
— 230 — eterogenee, il concorso formale, la continuazione; l’abbandono di pene detentive astrattamente molto pesanti ma concretamente non eseguibili; un nuovo sistema sanzionatorio che prevede la centralità della pena detentiva per i reati di maggiore rilievo, affiancata da un articolato complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, intese come pene principali e non alternative, applicate direttamente dal giudice della cognizione in sede di giudizio (18). Tale elaborato costituisce un utile terreno di discussione per le riforme future e si pone in linea con l’orientamento della dottrina in tema di sistema sanzionatorio (19). Unitamente alla modifica del sistema sanzionatorio deve essere posta con fermezza la necessità di costituire utili ed efficaci sistemi preventivi (prevenire è sempre meglio che reprimere) di controllo dell’operato ad esempio della vita della pubblica amministrazione e del mondo dell’economia e delle società, rimedi che impediscano al diritto penale di giuocare l’indesiderato ruolo di unico rimedio (20). L’adesione alle proposte già presenti in dottrina e da ultimo formulate dalla commissione Grosso, porta ad esprimere forti perplessità sugli emendamenti presentati al disegno di legge n. 4053 d’iniziativa dei senatori Caruso Antonino ed altri (21) che modificherebbe la disposizione dell’articolo 656 c.p.p., e che non favoriscono una coerente ricostruzione del sistema penale. Si tratta in particolare dell’emendamento proposto dal relatore Russo e di quello proposto dal Governo (22). Mentre infatti deve apprezzarsi la modifica della disciplina che riguarda la « consegna » dell’ordine di esecuzione, che nel prevedere la sostituzione del termine « consegnati » con quello « notificati » consentirà nel prossimo futuro di non avvantaggiare il latitante, problematica appare la modifica che riguarda il procedimento. (18) Il testo della relazione può leggersi in Quest. Giust., n. 5, 1999, pag. 882 ss. (19) Per tutti cfr. NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, ivi, 1995, pag. 324 e da ultimo anche INSOLERA, La macchina « ingolfata » della giustizia penale, il processo e la pena, in Quest. Giust., n. 5, 1999, pag. 867 ss. (20) Vedi sul punto MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma, in AA.VV., Le risposte legali all’illegalità, Atti dei Convegni Lincei, Tavola rotonda nell’ambito della conferenza annuale sulla ricerca (Roma 2 aprile 1998), 1999, pag. 60. (21) Il disegno di legge 4053 si caratterizza per due fondamentali novità. Collegare la decorrenza del termine di trenta giorni concesso al condannato non detenuto per la presentazione di una domanda di misura alternativa, non più alla effettiva consegna del decreto di sospensione emesso dal pubblico ministero, ma alla mera notifica dell’atto con conseguente applicazione della normativa prevista dall’articolo 157 e ss. c.p.p. Introdurre una nuova preclusione aggiungendo all’articolo 656 c.p.p. comma 9 la lettera C) che individua le persone che hanno subito distinte condanne per più condotte criminose: cioè i recidivi. (22) Nelle more della pubblicazione del testo l’orientamento politico sembra propendere per una maggiore adesione all’emendamento proposto dal relatore on. Russo.
— 231 — I due emendamenti formulati sono entrambi poco condivisibili sia per le incongruenze che comportano sia per le ricadute organizzative di non poco conto. L’emendamento proposto dal relatore Russo mira ad evitare le incongruenze create dall’automatismo della sospensione, attribuendo una competenza incidentale al magistrato di sorveglianza. Innanzitutto cerca di tutelare ulteriormente quelle situazione di minorata difesa (casi di irreperibili anche per inidoneità o insufficienza della dichiarazione di domicilio) attribuendo al magistrato di sorveglianza il potere di svolgere nuove ricerche, assumere nuove informazioni, sottoponendo all’esito gli atti al Tribunale di Sorveglianza che valuterà anche d’ufficio la possibilità di concedere talune misure alternative. Tale proposta appare di difficile attuazione creando incombenze agli uffici di sorveglianza (notifiche e ricerche) che costituiscono delle mere duplicazioni di attività già svolte dal pubblico ministero, inidonee in concreto a fornire una tutela effettiva alle parti più deboli. Peraltro non si comprende il motivo per cui la fase delle nuove ricerche debba essere affidata al magistrato di sorveglianza e non invece permanere in capo allo stesso organo (p.m.) che ha emesso i provvedimenti da notificare. L’ulteriore modifica rilevante della disciplina in esame attribuisce al magistrato di sorveglianza un potere di revoca del decreto di sospensione in casi particolari (cioè quando il condannato si è già dato alla fuga, ovvero sussiste un concreto pericolo di fuga, ovvero se, sulla base di fatti e comportamenti specifici, sussista il concreto ed attuale pericolo che egli commetta ulteriori reati). Anche in questo caso si verrebbe a creare una commistione di competenze non rispondente al criterio sistematico scelto dall’attuale codice di procedura penale, con conseguenze sul piano organizzativo derivanti dal superfluo passaggio degli atti tra autorità diverse. Nulla peraltro può obiettarsi ad una competenza di revoca del decreto da parte del medesimo organo che lo ha emesso, che conosce nel suo complesso la posizione processuale del condannato, gli ulteriori elementi che destano allarme e richiedono la modifica della situazione conseguente alla sospensione dell’esecuzione della pena, e che quindi può provvedere tempestivamente in tal senso. Ulteriore confusione nella distinzione delle competenze si riscontra al comma 6 dell’emendamento che stabilisce l’obbligo per il pubblico ministero che riceve l’istanza di trasmetterla, senza ritardo, al tribunale di sorveglianza per la decisione in merito alle misure alternative, unitamente alla documentazione ed al proprio parere. Previsione in contrasto con la ripartizione di competenze che affida le funzioni di pubblico ministero davanti al Tribunale di Sorveglianza al procuratore generale presso la Corte d’Appello, che non necessariamente si
— 232 — identificherà con lo stesso organo chiamato ad esprimere il suddetto parere ai sensi dell’articolo 655 e 656 c.p.p. Nè può attribuirsi a tale parere una valenza diversa da quella connessa alla applicabilità delle misure alternative richieste, essendosi il pubblico ministero già espresso in relazione alla sospensione dell’esecuzione della pena. L’emendamento proposto dal governo, che pone rilievi sistematici maggiori e per questo risulta maggiormente criticabile, vuole evitare tutte le incongruenze che un anno di applicazione della legge hanno dimostrato. Affida pertanto la valutazione prognostica sulla « affidabilità » del condannato a non commettere ulteriori reati al magistrato di sorveglianza, che con un’istruttoria estremamente agile dovrà de plano valutare se riscontra spazi di concedibilità di misure alternative al carcere. In tal caso provvederà alla sospensione dell’ordine di esecuzione ed ad attivare la procedura oggi affidata al pubblico ministero (notifica della sospensione ed avviso della possibilità di presentare entro trenta giorni l’istanza per ottenere le misure alternative), decidendo successivamente in ordine alla applicazione della misura, provvedimento quest’ultimo immediatamente esecutivo e che contiene le prescrizioni e le modalità di controllo del condannato. Provvedimento reclamabile al Tribunale di Sorveglianza, che decide dopo aver fissato apposita udienza, senza la previsione di un termine entro cui deve intervenire la decisione, ed il magistrato che ha emesso il provvedimento non fa parte del collegio. Sono previste preclusioni più rigorose al potere del magistrato di disporre il provvedimento di sospensione (23). Non è più prevista la disposizione del comma 10 dell’articolo 656 c.p.p. che attualmente regola la situazione di chi si trova agli arresti domiciliari al momento della irrevocabilità della sentenza di condanna, disposizione che ha resistito anche a giudizi di incostituzionalità (24). L’emendamento in esame non prevede nè un divieto di sospensione nè una regolamentazione specifica per i condannati che al momento della irrevocabilità della sentenza si trovano agli arresti domiciliari, probabil(23) Vi è una preclusione specifica nei casi di condannati per reati di cui all’articolo 4-bis o.p.; condannati che al momento del passaggio in giudicato della sentenza si trovino detenuti in custodia cautelare in carcere per reato oggetto della condanna; chi abbia riportato, anche con più condanne, una pena detentiva complessiva superiore a tre anni per delitti non colposi commessi nei dieci anni antecedenti alla condanna da eseguire; chi abbia riportato, nei dieci anni antecedenti alla condanna, una o più condanne a pena detentiva non sospesa per delitti commessi con violenza o minaccia alla persona o comunque con armi; chi abbia in corso di applicazione una misura di sicurezza detentiva o la libertà vigilata, ovvero la misura di prevenzione della sorveglianza semplice o con divieto od obbligo di soggiorno. (24) Vedi Corte Costituzionale sentenza 27 ottobre-4 novembre 1999 e Cass., sez. I, 15 aprile 1999, n. 3005.
— 233 — mente ritenendo che anche tale fattispecie trovi sufficiente regolamentazione nel nuovo ampio potere attribuito al magistrato di sorveglianza. La nuova procedura rinuncia, e non se ne comprendono le ragioni, a quel patrimonio di conoscenza affidato al pubblico ministero che inizia dalla fase delle indagini preliminari fino al termine delle fase della cognizione, e che in generale è il dominus di tutta la fase esecutiva della condanna. Patrimonio che non può essere paragonato a quello che il magistrato di sorveglianza potrà eventualmente acquisire sulla base del procedimento prospettato nell’emendamento. Si affida tale nuova competenza al magistrato (negli spazi che residuano dalle forti preclusioni poste dal disposto dell’articolo citato al comma 9, rilevabili dallo stesso pubblico ministero) per garantire in tempi rapidi una decisione sulla richiesta della misura alternativa ed ovviare alle incongruenze del passato, dove il condannato rimaneva per molto tempo (in alcuni distretti sicuramente ben oltre i 45 giorni previsti dalla legge) libero, senza vincoli di sorta, perchè non soggetto a prescrizioni o forme di controllo idonee a contenere l’eventuale pericolosità sociale. Se la celerità nella decisione può essere utile ed auspicabile, nel caso in esame gli inconvenienti sono maggiori dei pregi. Il magistrato di sorveglianza, peraltro, non è titolare di una competenza specifica, quasi istituzionale, nell’esprimere valutazioni prognostiche, dato che tali valutazioni per non sfociare in mera discrezionalità devono ritenersi comuni ad altre funzioni e competenze riscontrabili in specifiche fasi del processo penale. Si pensi ad esempio alla competenza affidata al giudice della cognizione ai sensi dell’articolo 133 c.p., a quella in materia di sospensione condizionale della pena, alla richiesta ed alla applicazione delle misure cautelari. Di difficile attuazione appare inoltre l’indicazione che l’emendamento vuole fornire di una valutazione basata su un’informale e rapida istruttoria, in quanto già la competenza introdotta dalla legge 165/98 e relativa alla valutazione provvisoria affidata al magistrato per la scarcerazione di soggetti detenuti si basa in realtà su una istruttoria articolata, non solo per rendere credibili e sufficientemente motivati i provvedimenti di sospensione dell’esecuzione della pena, ed in alcuni casi di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, ma anche per evitare duplicazioni inutili nell’istruttoria che il Tribunale dovrà acquisire in sede di giudizio definitivo. La disposizione in esame appare maggiormente criticabile perchè si pone in antitesi con l’orientamento maturato in autorevoli sedi ministeriali, di nomina governativa, cioè nei lavori della commissione Grosso per la riforma del codice penale. Non appare pertanto opportuno un intervento modificativo dell’articolo 656 c.p.p. che, ampliando l’ambito di intervento della magistratura
— 234 — di sorveglianza anche alla area che precede l’esecuzione penale in senso stretto, si pone in netto contrasto con la volontà di riportare le misure alternative, almeno in parte, nel catalogo delle pene principali applicate direttamente dal giudice della cognizione. Con il rischio oggi non sopportabile, di ovviare al deficit conoscitivo del giudice a cui è demandata la valutazione solo attraverso un’acquisizione di dati che richiede tempi notevolmente lunghi, e che può determinare nei fatti l’effetto diametralmente opposto alla esigenza di effettività della pena che il legislatore ha posto a base del progetto riformatore. Ma ancora deve sottolinearsi che se la ratio della legge è di favorire le fasce più deboli, in realtà queste continue modifiche evidenziano sempre più la volontà di indirizzare le misure alternative nei confronti di soggetti ben integrati nella società (25). Il giudizio di affidabilità che il magistrato con i pochi mezzi di cui dispone è chiamato ad esprimere sarà più facilmente accordabile alla persona c.d. « perbene », che solo in un’occasione ha derogato (almeno apparentemente) al rispetto delle regole. Le misure alternative prive di contenuti reali (26), affidate ad una valutazione provvisoria ed immediata, priva della conoscenza e dell’apporto di competenze specifiche, sono votate a rimanere privilegio delle classi più forti. Con la conseguenza allarmante per cui la pena detentiva tenderà ad indirizzarsi quasi esclusivamente agli strati sociali più deboli ed alle classi più emarginate. Confermando quella linea di tendenza già oggi riscontrabile che vede nel carcere la pesenza quasi esclusiva di tossicodipendenti ed extracomunitari (27). Non è di minore rilievo l’impatto che tale modifica avrà sulla organizzazione degli uffici giudiziari, impatto ancor più grave di quello che si è verificato nell’immediatezza del giugno 1998, quando è entrata in vigore la legge n. 165. Deve ricordarsi quanto accennato in premessa: l’ulteriore carico di lavoro demandato al magistrato quale giudice monocratico, impedirà di provvedere con tempi accettabili a tutte le ulteriori competenze ed in particolare a quelle in materia di tutela di diritti ed interessi dei detenuti, cioè a quelle che si rivolgono alla area detentiva in senso stretto, sia per garantire che si svolgano nel rispetto del principio di legalità, sia per assicurare, (25) Si veda sul punto DOLCINI, Le misure alternative oggi: Alternative alla detenzione o alternative alla pena?, in questa Rivista, 1999, pag. 875. (26) In tal senso DOLCINI-PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, 1989, pag. 170 ss. (27) Vedi CASELLI, Per una sicurezza senza emergenza, in La Repubblica, 18 gennaio 2000 pag. 14.
— 235 — a coloro che abbiano raggiunto un congruo grado di rieducazione e risocializzazione, una tempestiva trasformazione della sanzione originariamente irrogata nella adeguata misura alternativa. In sintesi la modifica rischia di spostare ancora di più la competenza della magistratura di sorveglianza in un’area che originariamente non le apparteneva, annullando di contro la sua vera funzione: presiedere alla legalità della pena detentiva, senza che questa si risolva in mera svolta repressiva. Il magistrato oberato di competenze e con una funzione alquanto confusa e snaturata rispetto a quella originaria non sarà più in grado di assicurare la rieducazione e garantire la presenza nel carcere del lavoro, delle attività trattamentali e culturali, del rapporto con la società esterna, assicurando la modulazione o flessibilità della pena per quel condannato che deve espiare la pena più grave della reclusione. La scelta operata dal governo nell’emendamento proposto si pone peraltro in contrasto con le linee espresse con la riforma del giudice unico di primo grado e con la previsione del riformato articolo 111 Costituzione. Se queste ultime operano per una maggiore attribuzione di competenze alla magistratura onoraria e per una più forte ed incisiva previsione di garanzie per il condannato, l’emendamento in esame sceglie una via diversa. Ed infatti la tendenziale monocraticità nella decisione rischia di annullare l’intervento del tribunale di sorveglianza, o quantomeno ne consente una presenza residuale, con perdita dell’apporto di professionalità degli esperti, che proprio per le loro competenze specifiche consentono quelle integrazioni multidisciplinari, fondamentali per le valutazioni di prognosi che attengono non all’accertamento della responsabilità penale ma alla persona ed alla sua evoluzione. A fronte di tale decisione monocratica si prevede una procedura senza contraddittorio, dovendo il magistrato decidere de plano e quindi senza udienza. Il contraddittorio eventuale, consentito con il ricorso al tribunale di sorveglianza, non appare sufficiente, anche per l’assenza di un termine di efficacia del provvedimento provvisorio, che potrebbe consentire una sorte di definitività della decisione del magistrato qualora si verifichino prevedibili ritardi del Tribunale, nel sedere in composizione collegiale, per la trattazione dei procedimenti incardinati con il reclamo. È evidente il contrasto con l’orientamento generale già citato ed anche con le previsioni particolari che attengono al sistema processuale dell’esecuzione penale, da sempre volte ad una maggiore giurisdizionalizzazione anche del procedimento di sorveglianza (si pensi ai reclami avverso il provvedimento di permesso-premio ex articolo 30-bis ord. pen.). 5. Le osservazioni fin qui esposte evidenziano l’assoluta casualità con cui si muove il legislatore.
— 236 — Un cambiamento di rotta sarebbe auspicabile sia per l’ampio campo di applicazione delle misure alternative che richiede quantomeno maggiore chiarezza, sia per ridare maggiore coerenza al complessivo sistema sanzionatorio, consentendo un’eguaglianza sostanziale dei condannati di fronte alla sanzione, evitando il permanere della grande illusione della soluzione giudiziaria alla sicurezza delle città ed ai conflitti sociali, ristabilendo la verità di fronte alla disinformazione voluta ed utilitaristica, per far si che nel prossimo futuro il complessivo equilibrio dei poteri di uno stato democratico consenta alla collettività di mantenere quella fiducia nelle istituzioni e nelle regole di uno stato di diritto che oggi sembra vacillare. Una democrazia in cui non si riflette abbastanza sulle conseguenze cui può portare l’attacco generalizzato alla magistratura a fronte della confusione legislativa e della schizofrenia delle scelte attuate fino ad oggi, rischia l’involuzione complessiva del sistema e l’approdo ad un punto di non ritorno! VINCENZA MACCORA Magistrato di sorveglianza Milano
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
LE CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ PENALE NELLO STATUTO DELLA CORTE INTERNAZIONALE PENALE
SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari e princìpi generali in tema di esimenti nello Statuto della Corte Internazionale Penale (ICC Statute). — 2. (Segue): le differenze con le cause di esenzione dalla giurisdizione della Corte. — 3. (Segue): il canone del « tempus regit actum » con riguardo alle cause di esclusione della responsabilità penale e la rilevanza della c.d. « actio libera in causa ». — 4. (Segue): l’accertamento preliminare sull’esistenza delle esimenti. — 5. Il principio Nullum crimen sine lege e l’analogia « in bonam partem ». — 6. Le cause « tassative » di esclusione della responsabilità penale. — 7. (Segue): il principio di bilanciamento degli interessi in conflitto e le cause di esclusione della responsabilità penale. — 8. Cause di esclusione della responsabilità penale erroneamente supposte. — 9. L’ignoranza (e l’errore) circa la legittimità dell’ordine del superiore. — 10. La mancanza di coscienza dell’illecito nei crimini internazionali. — 11. Gli specifici requisiti delle cause « tassative » di esclusione della responsabilità ai sensi dell’art. 31 St. - 11.1. (Segue): in particolare: malattia o deficienza psichica. Vizio di mente. - 11.2. (Segue): intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti. - 11.3. (Segue): difesa legittima e soccorso difensivo. - 11.4. (Segue): lo stato di necessità (« necessity by circumstances ») e la coercizione derivante dall’altrui minaccia (« duress by a threat »). — 12. L’ordine del superiore. — 13. Conclusioni.
1. La parte relativa alle « Grounds for excluding criminal responsibility » (cause di esclusione della responsabilità penale (1) ) nel citato Statuto di Roma consta di tre disposizioni (artt. 31-33), di cui una tuttavia (art. 32), concernente il « Mistake of fact or mistake of law » (errore di fatto o di diritto), trattando di ipotesi escludenti la responsabilità penale che coinvolgono l’elemento psicologico del reato, rientra nella più ampia problematica del « Mental element » (elemento soggettivo) (2).
(1) Occorre sottolineare subito in premessa che sovente in questo contributo verranno utilizzati termini in lingua inglese, dal momento che la versione ufficiale del testo dello Statuto è stata divulgata in tale lingua che, unitamente alle versioni in arabo, cinese, francese, russo e spagnolo, si è stabilito costituiscano i testi in originale del documento. Tale scelta metodologica si rende necessaria — in assenza di una traduzione ufficiale in italiano — per informare il lettore sugli specifici termini tecnici che esprimono l’esatto significato dei singoli istituti delineati dai compilatori dello Statuto. Non si mancherà, ovviamente, di tradurre in italiano tutti i sintagmi usati e di individuare una traduzione il più possibile corrispondente alla volontà storica del legislatore dello Statuto chiarendo — ove e nei limiti in cui ve ne sarà bisogno — le differenze, anche le più sottili, e le linee di continuità con la tradizione giuridica italiana, nonché la portata dogmatica dei singoli istituti. Molti dei termini utilizzati nello Statuto — è bene chiarirlo già da ora — risentono di un’impostazione palesemente condizionata dal modello della sistematica anglosassone (inteso in senso lato, comprensivo in larga misura anche degli Stati Uniti e dei Paesi appartenenti al Commonwealth). (2) Per un commento di questa specifica causa di esclusione della responsabilità pe-
— 238 — Tali disposizioni pongono problemi sia di carattere generale, riguardo alle regole applicative delle esimenti (defences and exonerations nella terminologia della letteratura internazionale penale) (3), sia di carattere specifico connesso a ciascuna causa. Prima di tutto, alcune considerazioni preliminari che servono per spiegare l’impianto complessivo dello Statuto ICC sulle « Grounds for excluding criminal responsibility ». L’art. 31 si apre con la locuzione « In addition to other grounds [...] » (4), ma ciò non significa che esso contenga cause ‘‘addizionali’’ rispetto ad altre — altrove elencate —, bensì solo che la disposizione convenzionalmente rinvia ad altre norme, prime fra tutte proprio gli artt. 32 e 33, che allo stesso modo prevedono cause di esclusione della responsabilità penale. Si vuol dire, in sostanza, che la previsione delle « enumerated or exhaustive exculpatory grounds » (« cause tassative di esclusione della responsabilità ») non si esaurisce nel solo art. 31, ma è contenuta anche in altre disposizioni dello Statuto che compongono la materia. Lo sforzo di coordinamento non toglie però che la norma-cardine in materia di esimenti rimanga la disposizione dell’art. 31, mentre le altre ne completano solo la disciplina. Del resto essa ricalca nelle sue linee essenziali, quale disposizione principale in tema di defences, l’art. 31 dell’ICC Draft Statute (Progetto di Statuto per la Corte internazionale penale) (5). 2. Le « Grounds for excluding criminal responsibility » si differenziano peraltro dalle cause di esclusione della giurisdizione della Corte (« exclusion of jurisdiction of the Court »). Caratteristica di queste ultime ipotesi è che la causa di esclusione conduce ad una pronuncia di non punibilità di natura processuale, che non impegna il giudice nella valutazione sulla sussistenza degli elementi del crimine internazionale, né preclude d’altronde la possibilità che, venuta meno la causa di esclusione della giurisdizione, la Corte possa tornare a pronunciarsi sul caso. In sostanza si tratta di fattispecie che impediscono l’esercizio attuale dell’azione penale, ma che non lo precludono in assoluto, visto che esso potrà essere riproposto, al venir meno di quella causa di esclusione, e quindi non formano il giudicato (6). Si può parlare semmai di giudicato sul rito o procedurale (7), che come tale non può essere consinale si rinvia al contributo sul « Mental element » (in particolare art. 30) di N. PISANI nel volume The International Criminal Court. Comments on the Rome Statute, edited by F. LATTANZI, in corso di pubblicazione. (3) Cfr., per tutti, M. CHERIF BASSIOUNI, Crimes Against Humanity in International Criminal Law, Dordrecht-Boston-London, 1992, 397 ss. (4) La stessa formula, un po’ fuorviante a dire il vero, compare anche all’inizio dell’art. 28, concernente la « responsabilità dei comandanti e dei superiori gerarchici » (« responsibility of commanders and other superiors »), anche se in tale fattispecie si riferisce, in senso inverso rispetto all’art. 31, alle « grounds » che costituiscono fonti della responsabilità penale, previste dallo Statuto ICC. Per un commento dell’art. 28 St., v. il lavoro di A. SERENI, Individual criminal responsibility, nel citato volume The international Criminal Court. (5) Su cui cfr. E. MEZZETTI, Grounds for excluding criminal responsibility, in The International Criminal Court. Comments on the Draft Statute, edited by F. LATTANZI, Napoli, 1998, 147 e ss. (6) Tale autorità del giudicato viene resa nel sistema inglese col termine di « total res judicata », in quanto gli effetti del giudicato si hanno esclusivamente sul merito della causa, e non si estendono alle decisioni in materia di giurisdizione e di competenza, sulle quali è consentito alle parti di rinunciare agli effetti della cosa giudicata. Per alcune considerazioni generali su tali princìpi con riferimento al processo penale cfr. F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, 1981, 604. (7) In questo caso nella tradizione anglosassone viene impiegata la locuzione « judicial estoppel », che risulta pressoché intraducibile in italiano, dato che essa assume una considerevole diversità di significati da appurare di volta in volta. Al proposito ha notato ancora F. CORDERO, Riti, cit., 562 che « ‘estopped’, da estoupie, dipinge un’immobilità afasica ». Il termine esprime una delle nozioni più caratteristiche della common law. Per una più ampia considerazione dell’istituto, ed anche in raffronto con la tradizione giuridica di civil law, essendo esso comune alle due esperienze, si vedano W. FRIEDMANN, Legal Theory, (1944), ma
— 239 — derato quindi un proscioglimento vero e proprio ai sensi dell’art. 20 dello Statuto. Se la pronuncia su queste specifiche cause di esenzione dalla giurisdizione non equivale al giudicato sostanziale, per esse non può valere il principio del Ne bis in idem consacrato nel suddetto art. 20 St. La regolamentazione di tali ipotesi di inammissibilità (« Issues of inadmissibility ») di un caso o di contestazione della giurisdizione della Corte (« Challenges to the jurisdiction of the Court ») è del resto prevista in modo specifico dagli artt. 17, 18 e 19 dello Statuto. Ed in particolare è richiamabile il principio contenuto nella regola fissata — se pur anche per altre situazioni — dall’art. 19, comma 2 St. secondo cui « [...] challenges to the jurisdiction of the Court may be made by: (a) an accused or a person for whom a warrant of arrest or a summons to appear has been issued under article 58; » (« contestazioni della giurisdizione della Corte possono essere presentate da: (a) un accusato o una persona per la quale sia stato emesso un ordine di arresto o un mandato di comparizione in base all’art. 58 ») (8). Ipotesi di dette cause di esclusione della giurisdizione sono menzionate nell’art. 26 con riferimento alla minore età. Se, infatti, dovesse risultare un errore sulla determinazione dell’età della persona da sottoporre a procedimento penale dopo la pronuncia sull’esclusione della giurisdizione, rimosso l’ostacolo all’esercizio dell’azione penale, nulla impedirebbe un nuovo accertamento sulla responsabilità penale del soggetto incriminato (9). Potrebbe anche verificarsi che un successivo esame delle condotte da incriminare stabilisca, ad esempio, che in una certa data, diversa da quella originariamente individuata, e che lo Statuto determina nel « time of the alleged commission of a crime », l’accusato avesse già compiuto la maggiore età, sicché potrà essere assoggettato alla giurisdizione della Corte. All’inverso, le disposizioni dello Statuto dedicate, da una parte, — art. 27 — alle qualifiche ufficiali (« official capacity »), nonché alle immunità e, dall’altra, al regime della prescrizione (« statute of limitations of actions ») — art. 29 — escludono espressamente che dette figure giuridiche possano essere annoverate tra le cause di esenzione dalla giurisdizione. Il tema delle immunità è molto delicato, così come quello delle qualifiche ufficiali, e stabilisce la piena responsabilità dei Capi di Governo che si potrebbero nascondere dietro la loro carica politica o immunità diplomatiche (10). Tuttavia di grande significato politico-criminale per la giustizia internazionale penale è l’irrilevanza del regime della prescrizione. Evidenti ragioni inerenti alla funzione di prevenzione generale della pena, nonché l’eccezionale gravità dei crimini di competenza immediata della Corte — principalmente genocidio e crimini contro l’umanità — hanno consigliato un’espressa esclusione assoluta della prescrizione dalle cause di esenzione dalla giurisdizione. Com’è noto, infatti, la competenza immediata della Corte non si estende al crimine di aggressione (11), in mancanza di un accordo sulla sua definizione, per cui se ne è rinviata la decisione ad un’apposita conferenza futura (art. 5, par. 2 St. in relazione alla disciplina degli emendamenti e revisioni dello Statuto di cui agli 5a ed., New York-London, 1967, 552; H.C. GUTTERIDGE, Comparative Law. An Introduction to the Comparative Method of Legal Study and Research, (1946), ma 2a ed., Cambridge, 1949, rist., London, 1971, 66. (8) Per un breve commento di queste disposizioni, se pur riferito al Draft Statute, cfr. L. SADAT WEXLER, Commentary on Parts 1 and 2 of the Zutphen Intersessional Draft: Establishment of the Court, Complementarity, Jurisdiction and Admissibility, in Observations on the Consolidated ICC Text before the Final Session of the Preparatory Committee, L. SADAT WEXLER sp. ed., AIDP, érès, 1998, 23 ss. (9) Il compimento della maggiore età nel corso della procedura di accertamento non può peraltro avere, ovviamente, alcun riflesso sull’esercizio dell’azione penale. (10) È il caso, in un certo senso, del generale Augusto Pinochet. (11) Incriminazione meno generica dei « crimini contro la pace » giudicati a Norimberga e Tokio, oggetto di notevoli controversie e dibattiti nelle discussioni internazionali. Sul punto G. VASSALLI, Statuto di Roma. Note sull’istituzione di una Corte penale internazionale, in Riv. studi pol. intern., 1999, 14.
— 240 — artt. 121 e 123 St.). Né si estende ai crimini di guerra (12), in base alla disposizione transitoria dell’art. 124, che concede agli Stati-costituenti-Parte (« States Party ») il potere di dichiarare di non accettare la competenza della Corte per fatti compiuti da propri cittadini o sul proprio territorio per un periodo prefissato (« opting-out » per la durata di sette anni) (13), di modo che la punizione di queste due categorie di crimini subisce un notevole ritardo nella concreta applicazione (14). Ma l’assoluto regime di imprescrittibilità dei crimini rientranti nella giurisdizione della Corte ha anche un significato simbolico di principio. Nella tradizione giurisprudenziale degli Statuti istitutivi dei Tribunali ad-hoc di Norimberga e Tokio (« The Charter of the Nuremberg Tribunal » e « The Charter of the International Military Tribunal for the Far East, issued at Tokyo »), o, più recentemente, dell’ex Jugoslavia [« former Yugoslavia (ICTY) »] e del Ruanda [« Rwanda (ICTR) »] non compaiono riferimenti normativi al regime della prescrizione. Tale vuoto legislativo aveva prodotto una vasta controversia dottrinale che vedeva protagonisti sia i Paesi a tradizione romano-germanica che la riconoscono, sia i Paesi a tradizione di common law che non la contemplano in termini generali (15). Per iniziativa di alcuni Stati del blocco sovietico e di altri del mondo orientale si pervenne alla Convezione adottata dalle Nazioni Unite con risoluzione 2391 (XXIII) del 26 novembre 1968 (16), che sanciva l’imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l’umanità (17) (« Convention on the Non-Applicability of Statutory Limitations to War Crimes and Crimes against Humanity »). Tuttavia la Convezione è stata ratificata solo da cinquantaquattro Stati (18), mentre la Convenzione europea adottata nel 1974 dal Consiglio d’Europa per i crimini contro l’umanità ed i crimini di guerra [« European Convention on the Non-Applicability of Statutory Limitations to Crimes against Humanity and War Crimes (Inter-European) »] (19), è stata ratificata da un solo Stato e non è ancora entrata in vigore (20), ma l’imprescrittibilità dei crimini internazionali appartiene ai princìpi generali del (12) Minuziosamente definiti dall’art. 8 dello Statuto, v. G. VASSALLI, Statuto, cit., 14 ss. (13) Vi è però da dire che solo la Francia sembrerebbe aver, in sede di dichiarazioni ufficiali, espressamente annunciato di volersi avvalere della procedura di opting-out. (14) G. VASSALLI, Statuto, cit., 14. (15) Non è un caso che in un volume di un penalista nordamericano molto noto anche in Italia — mi riferisco al libro di H.L. PACKER, I limiti della sanzione penale, Milano, 1978, — che ha ad oggetto prevalentemente il tema della punibilità, analizzato nel suo significato e nei suoi presupposti, nonché nelle alternative all’applicazione della sanzione criminale, non vi sia alcun cenno alla questione della prescrizione. La natura eminentemente processuale dell’istituto, ancor più accentuata con riguardo all’ordinamento inglese, del resto suggerita dalla stessa espressione usata (« statute of limitation of actions »), nel senso di diritto-potere di proporre l’azione in giudizio, spiega solo in parte la marginalità dell’istituto. Alcuni interessanti spunti in materia di prescrizione sono peraltro offerti, nel diritto penale statunitense, nel delitto di abbandono di persone minori (« Desertion and nonsupport »), sul punto cfr. R.M. PERKINS-R.N. BOYCE, Criminal Law, 3a ed., Mineola-New York, 1982, 678. (16) G.A. Res. 2391, U.N. GAOR, 23d Sess., Supp. No. 18, at 40, U.N. Doc. A/RES/2391 (1968), 754 U.N.T.S. 73, 8 I.L.M. 68. (17) Si v. M. CHERIF BASSIOUNI, Searching for Peace and Achieving Justice: The Need for Accountability, in Reining in Impunity for International Crimes and Serious Violations of Fundamental Human Rights: Proceedings of the Siracusa Conference 17-21 September 1998, AIDP, Ch. C. JOYNER-M. CHERIF BASSIOUNI ed., érès, 1998, 54 ss. (18) M. CHERIF BASSIOUNI, International Criminal Law Convention and Their Penal Provisions, 451-454 (1997). (19) European Convention on the Non-Applicability of Statutory Limitations to Crimes against Humanity and War Crimes (Inter-European), signed at Strasbourg, Jan. 25, 1974. Europ. T.S. No. 82, 13 I.L.M. 540. (20) Cfr. European Inter-State Co-operation in Criminal Matters, E. MÜLLER RAPPARD-M. CHERIF BASSIOUNI eds., 1993.
— 241 — diritto internazionale consuetudinario (21). Meno che mai può d’altronde venire in considerazione il profilo della prescrizione per motivi processuali legati all’impossibilità di raccogliere prove genuine a distanza notevole di tempo (22). Ciò perché prevale sempre l’interesse al perseguimento di crimini di eccezionale gravità e perché la difficoltà di raccolta delle prove è spesso più apparente che reale, trattandosi di fatti che avvengono sotto gli occhi di tutti e che specialmente possono essere colti tempestivamente dagli osservatori dell’Osce. All’attuale previsione dell’art. 29 St. si è pervenuti non senza contrasti. Infatti essa è — se pur attraverso alcuni ritocchi puramente formali — la risultante del Proposal 2 [« there is no statute of limitations for those crimes within the (inherent) jurisdiction of the Court »] del c.d. Zutphen Intersessional Draft, Consolidated Text ICC (23). Al contrario il Proposal 1 prevedeva dei limiti al tempo della prescrizione, mentre il Proposal 3 conteneva un’ambigua e (forse) troppo elastica eccezione consistente nel fatto che « [(for those crimes not within the Court’s inherent jurisdiction) the Court may decline to exercise jurisdiction if, owing to the lapse of time, a person would be denied a fair trial] ». Dizione che evidentemente tradiva la preoccupazione per i Paesi di common law di non poter garantire all’accusato un due process of law a distanza di troppo tempo dai fatti contestati, ancorché non riferita specificamente ai c.d. « core crimes » (crimini « fondamentali » come il genocidio, i crimini contro l’umanità e di guerra). Sulla non decisività di tale profilo processuale si è già detto in precedenza. Altre specificazioni ed eccezioni erano contenute anche nei Proposals 4 e 5. Due fondamentalmente i punti in discussione. Per i c.d. « core crimes » si affermava che essi non possono essere soggetti ad alcun limite di prescrizione, esclusi quindi altri crimini eventualmente identificabili e diversi da questi (24). Tuttavia riguardo anche ai crimini di guerra l’esclusione del regime della prescrizione era molto più controversa (25), sicché la scelta definitiva dello Statuto con l’art. 29 ha tolto ogni dubbio. La preferenza di tale opzione più radicale ha peraltro posto fine anche al dibattito sorto intorno all’altra tesi, secondo la quale una previsione esplicita da parte della legge era ritenuta non necessaria in quanto l’imprescrittibilità di tali crimini apparterrebbe ai princìpi fondamentali del diritto internazionale consuetudinario (26). La controversia sorta a proposito della prescrittibilità dei crimini di guerra smentiva nei fatti questa interpretazione sulla « superfluità » (27) della previsione espressa, persino con riguardo ad alcuni dei c.d. « core crimes » (crimini « fondamentali » — come detto — previsti espressamente dallo Statuto). 3. Altro principio di carattere generale è quello fissato nel comma 1 dell’art. 31, che stabilisce sostanzialmente il canone del « tempus regit actum » anche riguardo alle cause di (21) Per alcune considerazioni di carattere generale sul problema della prescrizione dei crimini di guerra cfr. V. JANKÉLÉVITCH, L’imprescriptible. Pardonner? Dans l’honneur et la dignité, Paris, 1986, 59-60, 62, 79. (22) È questa la prospettiva — prevalentemente, se non esclusivamente, di natura processuale — in cui si muove il movimento di pensiero riconducibile ai Paesi di common law. (23) Consolidated Text prepared by the Intersessional Meeting of Zutphen, 19 to 30 January 1998, in Observations on the Consolidated ICC Text, cit., 153-154. (24) E.M. WISE, Commentary, Article 34-bis, Statute of limitations, in Model Draft Statute for the International Criminal Court based on the Preparatory Committee’s Text to the Diplomatic Conference, Rome, June 15-July 17 1998, AIDP, érès, 1998, 60-61. (25) E.M. WISE, Commentary, Article 34-bis, Statute of limitations, cit., 61. (26) M.P. SCHARF, Reining in Impunity for International Crimes. Report of the Rapporteur, in Reining in Impunity for International Crimes, cit., 129. (27) E.M. WISE, Commentary on Parts 2 and 3 of the Zutphen Intersessional Draft: General Principles of Criminal Law, in Observations on the Consolidated ICC Text, cit., 49, in quanto tali crimini « si suppone che siano da considerare imprescrittibili ».
— 242 — esclusione della responsabilità penale. Infatti l’art. 31 dispone che la sussistenza della causa deve riferirsi al preciso momento della condotta (« [...] at the time of that person’s conduct [...] », tanto che sembrerebbero non essere prese in considerazione situazioni « anticipate », o « posticipate », rispetto all’attualità del pericolo o all’imminenza dell’aggressione (28), come appunto nelle ipotesi di legittima difesa o di soccorso difensivo, ovvero di stato di necessità, anche nella forma di necessità determinata dall’altrui minaccia (29) o duress. In altri termini, si escluderebbe la rilevanza della causa in quelle situazioni che la dogmatica tedesca definisce di « Dauergefahr » (30), che possono — ad esempio — presentarsi nell’imminenza di un conflitto bellico o di annunciate violenze etniche che non siano ancora sfociate in atti esteriori. Sulla mancata considerazione di quest’ultimo aspetto negli artt. 31 e 33 St., pur così specifici nel richiamo ad altri elementi, si possono sollevare alcuni dubbi, nel senso che si tratta di circostanze che possono facilmente verificarsi nella concretezza degli avvenimenti. La regola sembrerebbe, inoltre, escludere qualsiasi rilevanza della c.d. « actio libera in causa », nelle ipotesi di preordinata, volontaria o colposa causazione dell’intossicazione o altra causa di esclusione dell’imputabilità, in un tempo anteriore al fatto, al fine di prepararsi la scusa o di porsi in stato di incapacità di intendere e di volere (31). Tuttavia la pratica applicazione del principio è, da una parte, resa inutile dalle specifiche previsioni dell’art. 31 [comma 1, lett. (a), (c) e (d)], che richiedono l’imminenza del pericolo e, dall’altra, smentita dal comma 1, lett. (b) che — come si vedrà in seguito amplius — disciplina funditus il tema della c.d. « actio libera in causa ». Il riferimento si limita quindi alla descrizione di un generico meccanismo di operatività delle esimenti che può tuttavia trovare deroghe e specificazioni nelle singole previsioni delle cause di esclusione contemplate negli artt. 31 e 33. È assolutamente escluso invece che la formula si colleghi ad un divieto di irretroattività nell’applicazione delle cause di esclusione della responsabilità penale (32), perché un siffatto dirompente principio entrerebbe in indissolubile contrasto non solo con il principio fissato dal comma 3 dell’art. 31, che consente il rinvio a tutto il sistema delle norme del diritto consuetudinario internazionale, ma anche con lo spirito stesso dello Statuto. 4.
Appare una superfetazione, infine, l’enunciazione del comma 2 dell’art. 31, in base
(28) Nella dogmatica inglese tale particolare situazione viene resa con l’espressione « pre-emptive strike, when an unlawful attack is imminent ». Sul punto si v. la pronuncia Beckford v. R, [1988], The Law Reports, Appeal Cases 130, 144. (29) In questo caso, mutuando la terminologia propria della dogmatica anglo-americana, lo Statuto impiega — come si vedrà meglio in seguito — le nozioni di « necessity by circumstances » e « duress », su cui cfr. A. ASHWORTH, Principles of Criminal Law, 2nd ed., Oxford, 1995, 144 ss., 217 ss.; nonché il recente contributo di un autore tedesco, J. WATZEK, Rechtfertigung und Entschuldigung im englischen Strafrecht. Eine Strukturanalyse der allgemeinen Strafbarkeitsvoraussetzungen aus deutscher Perspektive, Freiburg i. Br., 1997, 132 ss., 330 ss. (30) W. BEULKE, Die fehlgeschlagene Notwehr zur Sachwertverteidigung, in Jura, 1988, 641 ss.; C. KÜHL, Angriff und Verteidigung bei der Notwehr, ivi, 1993, 133 ss.; T. LENCKNER, Das Merkmal der ‘‘Nicht-anders-Abwendbarkeit’’ der Gefahr in den §§ 34, 35 StGB, in Lackner FS, Berlin-New York, 1987, 95 ss.; J. RENZIKOWSKI, Notstand und Notwehr, Berlin, 1994, 279; C. ROXIN, Strafrecht, AT, Bd. I, 3 Aufl., München, 1997, 617, 833; inoltre, in tema di stato di necessità, in giurisprudenza si v. il noto « Spanner-Fall » (BGH, in NJW, 1979, 2053). (31) Sul punto v., per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale, P. g., 3a ed., Padova, 1992, 647 ss.; M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, 2a ed., Milano, 1996, 23 ss. (32) Ha notato al riguardo G. VASSALLI, voce Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig. disc. pen., 4a ed., vol. VIII, Torino, 1994, 19 dell’estr. che « nella materia della punizione dei delitti contro l’umanità domina per ora, fatalmente, il ricorso alla legge penale retroattiva (anche se su un piano puramente formale), tanto per quel che concerne la formulazione della fattispecie quanto per quel che concerne le cause di giustificazione ».
— 243 — alla quale « the Court shall determine the applicability of the grounds for excluding criminal responsibility provided for in this Statute to the case before it ». Tale giudizio di ammissibilità preliminare sulla sussistenza delle « grounds » sembra il portato della tradizione giudiziale di common law, mentre è ritenuto connaturato al giudizio vero e proprio nei Paesi continentali (33). 5. Il comma 3 dell’art. 31 considera che, accanto alle cause di esclusione « tassative » (« exhaustive exculpatory grounds »), di cui al comma 1 della stessa disposizione normativa, possano essere applicate in giudizio dalla Corte anche le c.d. « unenumerated grounds » (« cause innominate ») (34) ricavabili dall’« applicable law as set forth in article 21 ». Quest’ultima disposizione stabilisce che l’« applicable law » è — oltre quello dello Statuto (« statutory law »), di cui al comma 1, lett. (a), che si potrebbe definire « diritto internazionale penale primario » (« primary international criminal law ») — anche il diritto che deriva dagli « applicable treaties and principles of international law » [art. 21, comma 1, lett. (b)], definibile anche « customary sources of general principles of international law » o « secondary customary international law », e dai princìpi ricavabili dai vari diritti nazionali [art. 21, comma 1, lett. (c)] (« general principles derived from national laws »). Questi ultimi costituiscono nell’insieme una « integrative or subsidiary source of statutory law ». Si pensi in tal senso alla possibilità di applicare la giustificante dell’« uso legittimo delle armi » di cui all’art. 53 c.p. it., non presente nello Statuto e comune solo alla legislazione speciale tedesca [« Schußwaffengebrauch » (§ 10 UZwG, § 54 PolG Bad-Württ. i. d. F. v. 13 gennaio 1992 (GBl. 1)] (35). In pratica il rinvio all’art. 21, operato dal comma 3 dell’art. 31, discende direttamente dall’idea che il diritto internazionale penale non debba scaturire solo e semplicemente dallo Statuto, ma possa risultare anche dalle tradizioni, dalle sedimentazioni normative o consuetudinarie e da tutte le regole socio-normative che appartengono all’humus culturale della comunità internazionale (36). In questo modo le disposizioni « extravagantes » del diritto internazionale penale vanno a comporre il complesso sistema per la punizione dei crimini internazionali (37). In tal senso va interpretata anche la regola generale fissata nell’art. 10 dello Statuto in base alla quale « nessuna disposizione di tale parte dello Statuto deve essere interpretata nel senso di limitare le regole del diritto internazionale esistente o in formazione, o di pregiudicarle in qualsiasi modo per fini diversi da quelli del presente Statuto » (38). Dato che emendamenti futuri dello Statuto sono di assai difficile attuazione, a causa (33) Nella letteratura italiana si v. il contributo di D. SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, Milano, 1959. (34) Per alcune considerazioni sulla previsione di tali grounds nel draft statute E. MEZZETTI, Grounds, cit., 148 ss. (35) Sul punto, da ultimo, E. MEZZETTI, voce Uso legittimo delle armi, in Dig. disc. pen., 4a ed., vol. XV, Torino, 1998, 126 ss. (36) Ha evidenziato analiticamente l’aspetto delle deroghe, apparenti o reali, al principio di « stretta legalità dei delitti e delle pene », nella repressione dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra e contro l’umanità G. VASSALLI, voce Nullum crimen, nulla poena sine lege, cit., 18-21 dell’estr. (37) Una regola similare è contenuta anche nel codice penale italiano all’art. 16 che rinvia a tutto il sistema penale complementare extracodice che integra le disposizioni codicistiche. Sull’operatività del principio v. M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, 248; T. PADOVANI, Diritto penale del lavoro. Profili generali, 2a ed., Milano, 1983, 18; F.C. PALAZZO, La recente legislazione penale, 3a ed., Padova, 1985, 11; G. VASSALLI, La riforma penale del 1974, Milano, 1975, 25. (38) Nella versione in originale l’art. 10 recita: « Nothing in this Part shall be interpreted as limiting or prejudicing in any way existing or developing rules of international law for purposes other than this Statute ».
— 244 — delle complesse procedure previste dagli artt. 121, 122 e 123 St. per la revisione statutaria, e assodato che notevoli ostacoli di carattere politico (v. la mancata definizione dell’actus reus o del crimine di aggressione (39), che pongono problemi di imputazione della responsabilità) si frappongono ad un adeguamento progressivo e costante del diritto vivente alle nuove emergenze giuridico-penali, tali « open-clauses » o « residual norms » svolgono un preciso compito di rendere ‘elastico’ il sistema. Ciò significa — per quel che qui interessa — che per la tutela degli interessi delle comunità internazionali possano continuare a svolgere il loro tradizionale ruolo scriminante le fattispecie ad hoc previste dal diritto internazionale dei trattati e della consuetudine (« customary source »): consenso dell’offeso (40), necessità militare (« military necessity ») (41), rappresaglie (« reprisals ») (42) e Tu Quoque (43), quantunque tali ultime due ipotesi siano generalmente — e giustamente — rifiutate dalla classe delle defences, almeno con riguardo ai crimini contro l’umanità (44). In realtà l’argomento dell’integrazione delle disposizioni che prevedono defences o cause di giustificazione — ampiamente sviscerato nell’evoluzione dei lavori e della Conferenza Diplomatica — mediante la prescrizione fissata dall’art. 31, comma 3, dovrebbe risultare di modesta, se non nulla, incidenza per l’esaustività delle previsioni in tema di cause di esclusione della responsabilità penale. Inoltre, il principio stabilito dal comma 3 risulta una regola del « precedente » — per così dire — ‘attenuata’, posto che lo Statuto usa il termine « may », anziché « shall », che non impegna affatto l’interprete nell’effettiva considerazione di tale « norma aperta ». Tali osservazioni consentono anche di prendere posizione sul delicato problema dell’« analogia in bonam partem » (45). Questa sembrerebbe non essere esclusa in via di (39) Per la risalente questione fondamentale della definizione del crimine di aggressione cfr. D. OEHLER, Internationales Strafrecht, 2 Aufl., Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, 618. Sul concetto di « guerra d’aggressione » F.C. SCHROEDER, Der Schutz des äußeren Friedens, in JZ, 1969, 47 ss. In generale su questi temi cfr. H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, AT, 5 Aufl., Berlin, 1996, 124, ed ulteriore letteratura ivi citata. (40) H.H. JESCHECK, Die Verantwortlichkeit der Staatsorgane nach Völkerstrafrecht. Eine Studie zu den Nürnberger Prozessen, Bonn, 1952, 335-336, con riferimento ai processi di Norimberga e specificamente al Milch-Urteil, in Die amerikanischen Militärgerichtsprozesse nach dem KRG 10, Fall II, vom 16.4.1947, Sonderdruck, 19; e all’IG-Farben-Urteil, vom 29. u. 30.7.1948, Fall VI, abgedruckt in der vollständigen Ausgabe des Bollwerk-Verlages Offenbach a. M. 1948, 84-85. (41) Per un riferimento alla « military necessity » come causa di esclusione della responsabilità penale già tipizzata in una norma incriminatrice v., ad esempio, l’art. 8, comma 2, lett. (a) (iv) St. sugli « War crimes ». Si v., inoltre, l’Hostages Case, citato in United Nations War Crimes Commmission, XI Law Reports of Trials of War Criminals, n. 305, 1272, che ha negato l’esimente della « military necessity » per i crimini di guerra, escluso un numero limitato di situazioni nelle quali tale « defence » era espressamente riconosciuta secondo il diritto umanitario. Sulla « military necessity » si v. anche la pronuncia dello « United States Military Tribunal » nel c.d. High Command Case, citato in Amnesty International, The international criminal court: Making the right choices - Part I, London, 1997, 83. (42) H.H. JESCHECK, Die Verantwortlichkeit, cit., 333-335. (43) Vale a dire quella « causa » che rende possibile applicare ad un soggetto, in tema di responsabilità, lo stesso trattamento già riservato ad altri individui e quindi esentarlo eventualmente dall’applicazione della pena. Una sorta, pertanto, di parità di trattamento per la risoluzione di situazioni similari, cfr., sul punto, M. CHERIF BASSIOUNI, Crimes Against Humanity, cit., 447 ss., 460 ss. Sulla teoria generale delle giustificanti nel processo di Norimberga v. ancora H.H. JESCHECK, Die Verantwortlichkeit, cit., 328 ss. (44) M. CHERIF BASSIOUNI, Crimes Against Humanity, cit., 462 ss. Giustamente per l’esclusione del Tu Quoque dal novero delle giustificanti (defences or justifications) nel diritto internazionale penale v. T. LENCKNER, Vorbemerkungen zu den §§ 32 ff., SchönkeSchröder Strafgesetzbuch Kommentar, 25 Aufl., München, 1997, 509-510. (45) Sul problema, con riferimento alle norme del draft statute, M. CATENACCI, Nullum crimen sine lege, in The International Criminal Court, cit., 165 ss.
— 245 — principio dall’impianto complessivo dello Statuto in quanto l’art. 22, comma 2 circoscrive espressamente il divieto del nullum crimen alle sole norme incriminatrici (46), allorché afferma che « the definition of a crime [...] shall not be extended by analogy » (corsivo dello scrivente). Tuttavia l’estrema descrittività delle ipotesi scriminanti, la loro articolata previsione in un numero risultante dal compromesso di tutte le esperienze dei sistemi legali penali dei principali Stati-costituenti-Parte, nonché il possibile ricorso ad altre ipotesi del diritto consuetudinario internazionale, come dei sistemi penali nazionali, rendono difficile pensare ad ulteriori lacune, che implichino necessariamente il ricorso al ragionamento analogico. Le stesse norme dello Statuto escludono quindi — per l’argumentum a contrario — l’estensione analogica, mentre è ammesso il riferimento al diritto consuetudinario internazionale. In tema di stretta legalità, del resto, lo Statuto sembra ispirato a direttive molto precise e pregevoli che sanciscono il riconoscimento non solo dei princìpi di « determinatezza »: (« The definition of a crime shall be strictly construed » — art. 22, comma 2 St.) e di « tassatività », ma anche di chiarezza delle norme (47), che vanno dunque interpretate « in dubio pro reo » (48) (« In case of ambiguity, the definition shall be interpreted in favour of the person being investigated [...] » — art. 22, comma 2 St.). Rispetto a quest’ultimo corollario del canone del « nullum crimen » si tratta di una novità in materia di pieno riconoscimento del principio di stretta legalità che va sottolineata. La ricerca della massima precisione nelle definizioni legali dei crimini ha d’altronde condotto alla posticipazione della stessa definizione del crimine di aggressione. L’ulteriore estensione dell’area di ‘non punibilità’, attraverso l’interpretazione analogica delle esimenti, sembrerebbe inoltre entrare in un qualche contrasto con le direttive di politica criminale tese ad un’efficace prevenzione dei reati in un settore del sistema penale così delicato e denso di significati politici. 6. Iniziando dal primo profilo dell’analisi strutturale delle norme sulle grounds si nota che nell’art. 31, comma 1 sono previste una serie di cause di esonero « tassative » (« enumerated or exhaustive exculpatory grounds ») che costituiscono una miscellanea delle ipotesi previste nei codici nazionali o che possono essere riconosciute secondo il diritto delle nazioni civilizzate (49). In secondo luogo l’art. 31 prevede tutte le esimenti che nei vari Paesi civili sono generalmente e storicamente date (malattia mentale, intossicazione, difesa legittima, coercizione, stato di necessità, stato di necessità determinato dall’altrui minaccia, ordine del superiore). Esse si basano tanto sul canone generalissimo del bilanciamento degli interessi che comporta un giudizio di non punibilità di fatti che offendono interessi equivalenti o inferiori a quelli (46)
Sulla questione, nella tradizione del diritto internazionale penale, cfr. S. GLA-
SER, Le principe de légalité des delits et des peines et le procès aux criminels de guerre, in
Rev. de droit pénal et de criminol., XXVIII, Bruxelles, 1947, 230 ss. (47) Sulla « chiarezza » della norma penale come corollario ulteriore, oltre alla determinatezza e tassatività, del principio di legalità, cfr. A. FIORELLA, Emissione di assegno a vuoto e responsabilità per colpa. (Contributo alla determinazione del concetto di « previsione espressa » della responsabilità colposa), in questa Rivista, 1977, 1008 ss. (48) Rispetto a tale principio ermeneutico va peraltro notato che « la regola in dubio pro reo [...] opera solo dopo che sia stata raggiunta, attraverso l’uso di ogni mezzo interpretativo ammesso, la conclusione dell’esistenza di un vero e proprio dubbio normativo. La regola agisce, cioè, in un momento in cui il risultato della ricerca ermeneutica, per essere oramai perfettamente delineato, più non può, per definizione, venire alterato attraverso quella illecita modificazione del significato della legge che si produrrebbe secondo i menzionati, infondati timori, operando una scelta arbitraria a favore del reo », così A. FIORELLA, Emissione di assegno, cit., 1009-1010. In sostanza l’in dubio pro reo è canone interpretativo che deve essere valutato nel senso di ‘‘risultato di dubbio’’. (49) Sul punto v. E. MEZZETTI, Grounds, cit., 148.
— 246 — salvaguardati (50), quanto sul principio — pure generalissimo — del condizionamento della volontà (anormalità della motivazione) della persona che si è trovata ad agire in situazioni eccezionali tali che la punibilità deve essere esclusa o comunque diminuita proporzionalmente al grado di responsabilità (51). Quindi non si vede come possano essere sfuggite altre ipotesi, posto che la legge già fa riferimento, in via di espansione massima consentita, a tutte le possibili circostanze. Le uniche situazioni non considerate sembrano peraltro solo quelle — come visto — che non consentono in via assoluta un esonero dalla responsabilità. Un discorso a parte meritano invece — come si valuterà meglio in seguito — quelle particolari ipotesi che vanno ricondotte più propriamente alle questioni inerenti alla mancanza di coscienza dell’illecito, alle scriminanti putative e all’errore sulle cause di non punibilità. 7. Ma è proprio partendo dalla constatazione di base appena esposta che si può desumere il punto di maggior crisi della teoria delle esimenti nel diritto internazionale penale. Se, infatti, le giustificanti in particolare si fondano in larga misura sul principio di bilanciamento degli interessi, il riferimento a questo fondamentale canone difetta invece molto spesso nelle situazioni in cui si realizzano i crimini considerati, perché i fatti contestati (genocidio, sterminio, sistematica eliminazione di intere comunità per ragioni razziali) non trovano, e non hanno storicamente trovato, alcun controbilanciamento nell’interesse salvaguardato, che al contrario è spesso assente o in ogni caso non paragonabile. Inoltre, le ipotesi considerate non sono quasi mai generate da un pericolo imminente di un danno altrettanto grave di quello che si infligge e spesso la situazione di pericolo è volontariamente prodotta dagli autori degli ipotetici crimini che si pretenderebbe di considerare giustificati ed è comunque in altro modo evitabile. In sostanza manca la tradizionale « situazione necessitante » che può giustificare una reazione coartata o una difesa indispensabile al salvataggio proprio o altrui. Anzi tali situazioni — paradigmatiche nella struttura della difesa legittima e dello stato di necessità — si riscontrano tutt’al più nei crimini di guerra, che possono richiedere azioni necessitate per respingere un’ingiusta aggressione, mentre l’esigenza di evitare quest’ultima è assente nello stesso crimine di aggressione. Tale ultimo reato in tanto può definirsi « di aggressione », in quanto l’azione sia assolutamente illegittima (si pensi ad atti di terrorismo finalizzati a scatenare una guerra) e, quindi, in quanto illegittima costituisce un’offesa ingiusta, che, all’inverso, legittima — da parte di chi la subisce — una reazione difensiva giustificata (52). In tale crimine pertanto la difesa legittima è ragionevolmente ipotizzabile — com’è ovvio — per chi subisce il crimine, non per chi lo compie, a meno di tollerare reciproche condotte di aggressione, che innescherebbero inarrestabili spirali di atti violenti (53). Peraltro anche in molte delle ipotesi che contemplano crimini di guerra ai sensi dell’art. 8 St. sono descritte azioni strutturalmente inverse rispetto a quelle che legittimerebbero una difesa giustificata o la necessità, in quanto trattasi sovente di attacchi deliberati contro civili o attrezzature (« in(50) Sul principio generale di bilanciamento degli interessi in conflitto come ratio di alcune cause di non punibilità intese in senso lato cfr., tra gli altri, T. LENCKNER, Der Grundsatz der Güterabwägung als Grundlage der Rechtfertigung, GA, 1985, 285 ss.; P. NOLL, Tatbestand und Rechtswidrigkeit: die Wertabwägung als Prinzip der Rechtfertigung, in ZStW 77 (1965), 1 ss.; C. ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, 2 Aufl., Berlin-New York, 1973, 15; G. STRATENWERTH, Prinzipien der Rechtfertigung, in ZStW 68 (1956), 41 ss. (51) Per un inquadramento complessivo di queste problematiche nell’ambito della categoria della « responsabilità » come concetto ampio v., per tutti, C. ROXIN, ‘‘Schuld’’ und ‘‘Verantwortlichkeit’’ als strafrechtliche Systemkategorien, in Henkel-FS, Berlin-New York, 1974, 171. (52) Analoghe perplessità le esprime anche F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 968. (53) Peraltro, nella differente, ma per certi aspetti analoga, prospettiva della negazione in ogni caso dello stato di necessità come defence per l’aggressore, si era già espressa la sentenza Krupp (« Krupp-Case ») del 31 luglio 1948 nell’ambito dei processi di Norimberga, v. KRUPP-URTEIL, Fall X, Sonderdruck, in Die amerikanischen, cit., 25.
— 247 — tentionally directing attacks against the civilian population or installations ») che possono solo in casi estremi riguardare, in ultima analisi, la necessità militare. Un’altra area — se così si può dire — ‘privilegiata’, in cui potrà trovare meno esigua applicazione, in particolare, l’esimente dello stato di necessità, è quella relativa ai reati contro l’amministrazione della giustizia di cui all’art. 70 St. (54). In tale disposizione infatti la falsa testimonianza, forme di frode processuale o di false dichiarazioni destinate all’autorità giudiziaria, subornazione e atti di corruzione nei confronti di funzionari della Corte potrebbero rinvenire una qualche giustificazione sia nella necessità di salvare se stessi, o un prossimo congiunto da un nocumento alla libertà o altri interessi eminentemente « personali », sia nella situazione di evitare un’autoincriminazione (55). In tal caso l’espressione del principio del « nemo tenetur se detegere » (56) potrebbe essere riconosciuta come ragione per l’applicabilità dell’esimente anche in presenza di un obbligo di veridicità, che però entrerebbe in conflitto (morale) insolubile coll’istinto di autoconservazione (« nemo tenetur »). Inoltre alcune ipotesi di falsa testimonianza o false attestazioni all’autorità giudiziaria potrebbero essere il frutto di pressioni (psicologiche e fisiche, minacce) che provengano da altre persone, tanto da richiamare la possibile applicabilità della « duress by threat » (stato di necessità da minaccia di altro soggetto) contemplata nell’art. 31, comma 1, lett. (d) (i) St. È ovvio, tuttavia, che tale sfera d’incidenza dell’esimente, non investendo i c.d. « core crimes », non ha che un’importanza del tutto residuale nel contesto dei crimini internazionali previsti nello Statuto ed anzi concerne incriminazioni che potrei definire ‘‘strumentali’’ rispetto alla necessità dell’accertamento dei crimini internazionali veri e propri. In conclusione, i crimini internazionali previsti negli artt. 6 e ss. dello Statuto descrivono quasi sempre un contesto in cui si avvera l’azione criminosa che è già ‘‘logicamente incompatibile’’ con le situazioni che consentirebbero il ricorso a defences quali la difesa legittima o lo stato di necessità (sia nella forma della « necessity by circumstances », che in quella della « duress by threat », indicate nello Statuto). Poiché la classe delle giustificanti che si basano su una « situazione necessitante », proprio perché muovono dalla valutazione della condizione in cui versa il soggetto, non possono prescindere dal considerare detto contesto nel suo complesso, accedendo la situazione scriminante al nucleo del fatto di reato in senso stretto (57), se quest’ultimo — per le sue modalità di esecuzione e caratteristiche — non può essere coerentemente ‘abbinato’ alla circostanza scriminante che vi dovrebbe accedere, non può essere giustificato già in linea di principio. Se quindi manca la situazione tipica — il respingere un pericolo imminente che determina l’azione necessitata — la quale giustifichi i fatti per difesa legittima o stato di necessità, la pratica operatività di queste scriminanti risulterà molto limitata, mentre lo spazio applicativo delle defences dovrà essere più propriamente individuato da una parte nell’ordine del (54) Il successivo disposto dell’art. 71 St. configura, invece, meri illeciti amministrativi per « comportamenti scorretti, disturbo dei lavori ed inosservanza di ordini » che non attingono evidentemente la soglia penale e che possono meritare semplicemente « provvedimenti amministrativi diversi dalla detenzione » (es. l’« allontanamento temporaneo o definitivo dall’aula » o « ammende ») e che pertanto esulano dalla prospettiva considerata in questa sede. (55) Situazione prevista nel nostro ordinamento — com’è noto — nella causa di non punibilità per i reati contro l’amministrazione della giustizia contenuta nell’art. 384 c.p. Sul punto cfr. G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, 353 ss.; A. MAZZONE, Lineamenti della non punibilità ai sensi dell’art. 384 c.p., Napoli, 1992, passim; E. MEZZETTI, voce Stato di necessità, in Dig. disc. pen., 4a ed., vol. XIII, Torino, 1997, 680 ss.; G. VASSALLI, voce Cause di non punibilità, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960, 609 ss. (56) M. ZANOTTI, Nemo tenetur se detegere: profili sostanziali, in questa Rivista, 1989, 174 ss. (57) A. FIORELLA, voce Reato in generale, a) Diritto penale, in Enc. dir., vol. XXXVIII, Milano, 1987, 802-803.
— 248 — superiore, dall’altra nell’alterazione dello stato emotivo o di capacità di orientare la propria condotta o la propria capacità di discernimento: nelle « grounds » di esclusione — più specificamente — della capacità penale (« criminal capacity »), nel difetto mentale (« mental disease ») o intossicazione (« intoxication »), ovvero nell’erronea supposizione della presenza di cause di esclusione della responsabilità. Tale ultima ipotesi potrebbe sussistere anche in assenza di uno stato d’incapacità mentale, non dipendere cioè da un « errore condizionato » da vizio di mente o intossicazione. Storicamente, ed almeno a far data dal processo di Norimberga (58), le due più rilevanti eccezioni sollevate dalla difesa riguardo alla responsabilità penale degli accusati si basavano su questi due filoni argomentativi: ordine del superiore da una parte (59), alterazione della capacità di controllare la propria condotta o i processi di rappresentazione della realtà dall’altra (60). Ed è normale che sia stato così, se si riflette sul fatto che queste ipotesi sono svincolate da una « situazione necessitante » o dalla proporzione degli interessi in conflitto e si basano piuttosto sulla condizione personale del soggetto. L’ordine (vincolante) è, in fondo, basato su un giudizio di ‘discarico delle responsabilità’ con traslazione dell’imputazione (61) su un soggetto sovraordinato che risponde per il subordinato. In un sistema fortemente gerarchizzato e a struttura piramidale rigida come quello delle forze armate e degli apparati paramilitari, tale schema di ripartizione della imputazione penale può facilmente condurre ad una ‘fuga verso l’alto’ delle responsabilità, se non si controlla con rigore un duplice presupposto: l’insindacabilità dell’ordine (in termini di stringente vincolatività) (62) e (58) Per la negazione di un « diritto di autodifesa » (« self-defence ») nel processoIMT (IMT-Case), e della necessità militare internazionale (« international necessity by circumstances ») nel processo-Ohlendorf (Ohlendorf-Case), o dello stato di necessità come scusante (« necessity as excuse ») anche sotto il profilo del conflitto di doveri (« conflict of duties »): si pensi al caso di Freiherrn v. Weizsäcker, cui fu negata tale difesa nella sentenza Wilhelmstraßen (Wilhelmstraßen-verdict), v. H.H. JESCHECK, Die Verantwortlichkeit, cit., 328 ss. (59) Y. DINSTEIN, The Defence of ‘‘Obedience to Superior Orders’’ in International Law, Leyden, 1965, 125; 18 IMT 362, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Doenitz (by Kranzbühler); 18 IMT 362, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Funk (by Santer); 18 IMT 248, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Jodl (by Exner); 18 IMT 67, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Kaltenbrunner (by Kauffmann); 18 IMT 426, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Raeder (by Siemers); 17 IMT 597-599, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Ribbentrop (by Horn); 18 IMT 505, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Sauckel (by Servatius); 19 IMT 72, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Seyss-Inquart (by Steinbauer), 19 IMT 210, Nuremberg Trial, Final Plea for Defendant Speer (by Flachsner). (60) M. CHERIF BASSIOUNI, Crimes Against Humanity, cit., 350 ss., 359 ss. (61) F. RAMACCI, Corso di diritto penale, II, Reato e conseguenze giuridiche, Torino, 1993, 74. Cui, adde, G. BETTIOL, L’ordine dell’Autorità nel diritto penale, in Scritti giuridici, t. I, Padova, 1966, 175 ss. (62) Durante i processi di Norimberga una delle chiavi interpretative su cui si era soffermata maggiormente l’attenzione concerneva la peculiare forza persuasiva — rectius (quasi) intimidativa — che coinvolgeva la questione del « Führerprinzip » o « leadership principle », la capacità cioè di una struttura rigida, basata sul timore, di orientare l’atteggiamento dei subordinati, convincendoli della piena legittimità del loro operato. In sostanza in un processo di identificazione tra il leader e la classe dirigente al potere diminuiscono non solo i motivi di contestazione circa la liceità degli ordini, ma anche sfuma lo stesso convincimento che essi possano essere criminosi. Su tali aspetti v. gli studi di A. BULLOCK, Hitler. Eine Studie über Tyrannei, Düsseldorf, 1971 (trad. it. Hitler. Studio sulla tirannide, Milano, 1975) e R.G.L. WAITE, The Psychopathic God: Adolf Hitler, New York, 1977. Più in generale sui meccanismi (anche mentali) che governano l’esecuzione di ordini del superiore cfr. S. MILGRAM, Obedience to Authority: an Experimental View, New York, 1969 (trad. it. Obbedienza all’autorità. Il celebre esperimento di Yale sul conflitto tra disciplina e coscienza,
— 249 — la sua non manifesta criminosità (63). Proprio su quest’ultimo aspetto prende posizione lo Statuto riducendo — come si vedrà — l’area d’incidenza della defence, tanto da rendere così praticamente molto esiguo il suo spazio applicativo. Allo scopo di evitare forme di ‘palleggiamento’ delle responsabilità è stata dettata — come pendant della disposizione dell’art. 33 St. — la regola dell’art. 28 St., che obbliga i superiori al controllo dell’operato dei subordinati. Una normativa ‘a tenaglia’ (« pincer-shaped legislation » direbbero gli inglesi) che obbliga chiunque a controllare chiunque. La tesi qui sostenuta conduce, pertanto, prima di tutto ad una pratica svalutazione dell’incidenza delle scriminanti ‘classiche’ (difesa legittima, stato di necessità « comune » — « necessity per circumstances » — e determinato dal fattore umano — « duress ») che dovrebbero avere un’applicabilità fortemente limitata dall’assenza del loro nucleo più caratteristico: la « situazione necessitante » con tutti i suoi requisiti (attualità del pericolo, assoluta inevitabilità del pericolo, non volontaria produzione del pericolo per il bene tutelato, proporzione tra i valori in conflitto). Ciò si desume chiaramente dalla descrizione che le disposizioni degli artt. 6-7-8 dedicano ai crimini e dalle stesse norme definitorie che forniscono una spiegazione sul significato di essi. Si tratta di fatti quasi sempre puniti a titolo di dolo intenzionale [si consideri, solo per fare un esempio, la definizione di « sterminio » (« extermination »)], meticolosamente e crudelmente preparati, che si attuano con modalità esecutive del delitto efferate e frutto di una visione apocalittica del mondo (es. le ipotesi di genocidio). Azioni commesse con un disprezzo calcolato dell’altrui essere umano, premeditate ben prima dell’inizio delle operazioni (64) (violenza carnale, stupri etnici, schiavitù sessuale), ed infine perpetrate con interventi su vasta scala e non in seguito a singoli episodi eccezionali. Tutto ciò non può conciliarsi in alcun modo con la ratio di normali azioni difensive o necessitate (65). Solo in riferimento a specifiche azioni che si concretino in crimini di guerra — la cui immediata applicabilità è però (come visto) rinviata — può astrattamente pensarsi ad una situazione necessitante: la « necessità militare ». Tale eventualità è del resto già immaginata dai compilatori dello Statuto che all’art. 8, comma 1, lett. (a), (iv) contempla espressamente l’ipotesi di reato della distruzione o appropriazione di beni (« extensive destruction and appropriation of property ») (ipotesi non a caso tra le meno gravi), qualora essa non sia giustificata da impellenti esigenze militari (« not justified by military necessity »). La necessità militare consente in ogni caso un certo potere discrezionale del giudice sia riguardo all’accertamento circa la sua esistenza, che rispetto ai suoi limiti di rilevanza. Il concetto stesso di necessità militare è infatti suscettibile di varia interpretazione proporzionalmente allo svolgimento delle azioni militari. Milano, 1974) e H.C. KELMAN-V.L. HAMILTON, Crimes of Obedience: Toward a Social Psychology of Authority and Responsibility, New Haven, 1989. (63) Un pubblico ministero alleato, Lord Hartley Shawcross, commentò al processo di Norimberga sull’ovvia criminosità degli ordini, indipendentemente dal soggetto preciso che avesse impartito l’ordine, con queste osservazioni: « In base a qualsiasi parametro della coscienza internazionale, o comune, o di elementare umanità, quegli ordini [...] erano criminosi » (19 IMT, 466). Sul punto cfr. M. CHERIF BASSIOUNI, Crimes Against Humanity, cit., 425. (64) Disse il capo-accusatore americano Robert Jackson — un po’ parafrasando il noto assioma di G.W.F. HEGEL, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Berlin, 1821, § 130 « fiat justitia ne pereat mundus » — durante il processo di Norimberga: « Le colpe che noi siamo chiamati a condannare e a punire sono state così freddamente premeditate, e nella loro diabolicità hanno causato tali devastazioni, che la civiltà non può tollerare che vengano ignorate, poiché la civiltà medesima non potrebbe sopravvivere qualora esse fossero ripetute », citato da G. VASSALLI, I delitti contro l’umanità e il problema giuridico della loro punizione, in La giustizia internazionale penale. Studi, Milano, 1995, 34. (65) Neanche con le necessità belliche, v., al proposito, G. VASSALLI, I delitti contro l’umanità, cit., 32.
— 250 — Altre ipotesi di crimini escludono poi logicamente in modo espresso la presenza delle scriminanti ‘classiche’ (es. difesa legittima), come nel caso del crimine di cui all’art. 8, comma 2, lett. (b) (vi), che concerne l’uccisione o il ferimento di un combattente che si sia arreso e che non costituisce più una minaccia o non porta alcuna aggressione ingiusta contro l’autore del crimine (« killing or wounding a combatant who, having laid down his arms or having no longer means of defence, has surrendered at discretion »). 8. In secondo luogo sarà facile immaginare che la difesa degli imputati di questi crimini punterà, semmai, sulla sussistenza di scriminanti putative. Esse assumeranno però l’inverosimile dato di partenza che i crimini siano stati scatenati da macropericoli (66) (appunto per questo immaginari) per l’intera popolazione di appartenenza degli accusati, ovvero dalla minaccia che altra intera popolazione costituisce per gli aggressori (presunti aggrediti), oppure rappresentino il risultato di colossali deliri paranoici che possono investire un’intera nazione in virtù di una ben calibrata attività di propaganda di odio etnico (67). Si rifletta, in tal senso, sulla vicenda legata all’Olocausto che fu originata anche dalla visione farneticante che riteneva il popolo ebreo (in collegamento col bolscevismo) una seria fonte di pericolo per la stessa sopravvivenza della Germania (68). A tal punto era giunta la degenerazione della dottrina distruttiva dei vertici della dittatura nazista (concezione ‘demonologica’ dell’ebraismo comune alla società tedesca tanto che si è parlato addirittura di « colpa collettiva » (69) ). Si pensi ancora a recenti, analoghi tragici eventi accaduti nello scontro multietnico nella Ex-Jugoslavia (« former Yugoslavia ») (70). Il tentativo di argomentare la presenza di tale supposto stato mentale, che condurrebbe a figurarsi una situazione riconducibile ad ipotetiche defences, fu d’altro canto brillantemente svolto da Reinhard Maurach nel suo memoriale difensivo per i criminali nazisti (comandanti delle Einsatzgruppen) durante il processo di Norimberga (71) e può fondatamente ritenersi che possa venir riproposto. Stupisce pertanto l’assenza di un’espressa previsione della disciplina della erronea supposizione della presenza di giustificanti o scusanti. Tale disciplina è a buon diritto entrata nelle codificazioni penali di diversi Paesi ed appartiene alla cultura giuridico-penale di alcune (66) Sul problema della « reale » situazione di pericolo rispetto alla rilevanza del ‘‘putativo’’ G. DE VERO, Le scriminanti putative. Profili problematici e fondamento della disciplina, in questa Rivista, 1998, 791-809. (67) V. la lettera di Otto Ohlendorf, ex comandante dell’Einsatzgruppe D, del 7 agosto 1947, inviata per vie clandestine alla moglie dalla prigione, citata da D.J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, 1997, 409, 593, dove si affermava che l’ebraismo « continua a seminare odio; e ancora una volta raccoglie odio. In che altro modo si può vederlo se non come l’opera di demoni votati a combatterci? ». Con riferimento al particolare fenomeno dell’« antisemitismo eliminazionista » in Germania cfr. K. FELDEN, Die Übernahme des antisemitischen Stereotyps als soziale Norm durch die bürgerliche Gesellschaft Deutschlands (1875-1900), Heidelberg, 1963; J. KATZ, From Prejudice to Destruction: Anti-Semitism, 1700-1933, Cambridge Mass., 1980, 148149; P.L. ROSE, Revolutionary Antisemitism in Germany from Kant to Wagner, Princeton, 1990. (68) Cfr. G. VASSALLI, Bilancio di Norimberga, in Scritti giuridici, vol. II, La parte speciale del diritto penale, il diritto penale del tempo di guerra, Milano, 1997, 681. (69) Ha riproposto di recente il tema della « colpa collettiva » D.J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici di Hitler, cit., 88-141, 389-472. (70) G. VASSALLI, Il Tribunale internazionale per i crimini commessi nei territori dell’ex-Jugoslavia, in La giustizia internazionale penale, cit., 156 ss. (71) R. MAURACH, « Expert Legal Opinion Presented on Behalf of the Defense », in « U.S. vs. Ohlendorf et al. », in Trials of War Criminals before the Nürnberg Military Tribunals under Control Law No. 10, Nürnberg, October 1946-April 1949, vol. VI, 339-55; v. D.J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici di Hitler, cit., 408, 593.
— 251 — legislazioni di influenti Stati-costituenti-Parte. Sul punto lo Statuto poteva benissimo essere tributario delle risultanze dei sistemi penali nazionali e, diversamente che altrove, se ne è inopinatamente distaccato. Il semplice riferimento alla normativa generalissima dell’errore di fatto (« mistake of fact ») o di diritto (« mistake of law ») (art. 32 St.) non può pertanto lasciare soddisfatti gli interpreti (72). Sul punto occorre però svolgere alcune considerazioni, perché le opzioni dello Statuto appaiono come espressione di un forte orientamento di deroga dai princìpi generali. Innanzitutto un sistema di disciplina delle scriminanti putative delineato sullo schema dell’art. 59, comma 4, c.p. it., che equipara oltretutto il putativo al reale, non sarebbe di fatto applicabile perché in caso di supposizione erronea determinata da colpa, non residuerebbe alcuna responsabilità di tipo colposo, posto che lo Statuto è un codice di crimini internazionali che non conosce imputazioni colpose (73), quindi difetterebbe la previsione espressa della punibilità per colpa. Essa non è peraltro ricavabile neanche ‘‘per implicito’’ dalle descrizioni degli artt. 6, 7 e 8 St., che anzi incriminano spesso i fatti per dolo intenzionale, talvolta per dolo diretto (74) e comunque mai per colpa. In conclusione l’erronea supposizione dell’esistenza di una scriminante dovuta ad errore che cade sulla realtà naturalistica o elementi di fatto non è regolata e occorre rifarsi alla disciplina generale dell’art. 32 St. 9. Tuttavia lo Statuto — contraddittoriamente — ammette la scusabilità dell’ignoranza sull’illegittimità dell’ordine del superiore. In tal caso l’ignoranza, che in assenza di indicazioni contrarie dovrebbe estendersi anche all’errore (lo Statuto impiega l’ambigua espressione « the person did not know »), su un elemento normativo della fattispecie scriminante come quello che ricade sull’« illegittimità » dell’ordine stesso, anziché rientrare nella disciplina dell’errore di diritto che non scusa, rende invece l’esecuzione dell’ordine scusabile, (72) È stato peraltro notato (da E.M. WISE, Commentary on Parts 2 and 3 of the Zutphen Intersessional Draft, cit., 51-52), illustrando la disposizione dell’art. 24 del draft Statute che è rifluita nell’attuale art. 32 St., che poiché la norma subordina la rilevanza dell’errore sia di fatto che di diritto alla circostanza che esso elimini esclusivamente il « mental element », se ne deduce che la disciplina riguardante requisiti di tipo oggettivo quali quelli che sono a fondamento della sussistenza delle cause di esclusione della responsabilità non possa riguardare la materia dell’errore. Tuttavia questa tesi sembra provare troppo, in mancanza dell’argumentum a contrario che orienti verso una chiara esclusione della normativa generale in tema di errore sugli elementi del fatto da una sua estensione anche agli elementi che compongono le singole cause di esclusione della responsabilità, senza contare l’esplicita eccezione rappresentata dalla disposizione sull’ordine del superiore per il rinvio operato nell’ultima parte dell’art. 32, comma 2 St. Va peraltro ribadita l’estrema povertà del dato normativo in materia di errore (specifico) sulle cause di esclusione della responsabilità criminale, normativa che deve essere fatta risalire alla regolamentazione generale dell’errore sul fatto. (73) Ad eccezione, forse, del caso isolato indicato dall’art. 28, comma 1, lett. (a), in tema di responsabilità dei comandanti e dei superiori gerarchici, che prevede come ipotesi « aggiuntiva » di responsabilità criminale, oltre a quelle altrove delineate (specialmente gli artt. 6 e ss. St.), il fatto del « comandante militare o superiore gerarchico, che in dipendenza delle circostanze al momento del fatto, avrebbe dovuto sapere che le forze armate stavano commettendo o erano in procinto di commettere un crimine tra quelli rientranti nella giurisdizione della Corte » (« That military commander or person [...], owing to the circumstances at the time, should have known that the forces were committing or about to commit such crimes ») (corsivo mio). Anche se occorre ammettere che la previsione è più ‘implicita’ che altro. (74) Con specifico riferimento all’elemento psicologico nei delitti contro l’umanità, già previsti nel draft Statute, cfr. D. DONAT-CATTIN, Crimes against Humanity, in The International Criminal Court, cit., 55 ss.
— 252 — con una deroga non facilmente spiegabile. Anche il codice penale italiano ammette la non punibilità di chi ha eseguito l’ordine, avendo ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo, ma la subordina giustamente al solo errore di fatto (art. 51, comma 3, c.p. it.) (75). Ciò anche nel caso in cui detto errore abbia ad oggetto una legge diversa dalla legge penale purché si sia risolto però, ancora una volta, in un errore di fatto su circostanze materiali (76). All’inverso, lo Statuto tratta detto errore come un’eccezione alla disciplina riservata all’errore di diritto, come si evince chiaramente dal disposto dell’art. 32, comma 2, ultima parte (« a mistake of law, however, be a ground for excluding criminal responsibility if it negates the mental element required by such a crime, or as provided for in article 33 » (corsivo dello scrivente). Non viene neanche valutato il fatto che la mancata conoscenza dell’illegittimità dell’ordine (77) viola il dovere solidaristico (78) di ciascun civile, e dei militari in particolare, di non assumere un atteggiamento di negligenza rispetto alla conoscenza dei limiti dell’ordine ricevuto attraverso un controllo di legittimità formale e sostanziale (79). La sindacabilità dell’ordine, se pur molto ridotta negli ordinamenti militari, non esenta tuttavia il potenziale destinatario dell’ordine stesso dall’attivarsi per conoscere l’esatta portata normativa, o semplicemente l’illegittimità, del precetto da eseguire. La disposizione, invece, sembra quasi porre al riparo da qualsiasi rilievo il soggetto che non si attivi per informarsi sui requisiti minimi di legittimità dell’ordine. Vi è poi da aggiungere che « non sapere dell’illegittimità dell’ordine » (« did not know that the order was unlawful ») è affermazione che in sé non esclude un erroneo apprezzamento di tipo esclusivamente normativo sulla presunta legittimità dell’ordine. Ora, è vero che la quasi totalità delle incriminazioni previste dallo Statuto costituiscono mala in se, crimini naturalisticamente riconoscibili, la cui esecuzione per un ordine del superiore dovrebbe essere facilmente identificabile come atto intrinsecamente illegittimo, tuttavia tale affermazione non sempre è pacifica. Due le possibili obiezioni a tale conclusione che svuoterebbe di significato l’eccezione indicata dall’art. 33, comma 1, lett. (b). Prima di tutto, esistono alcuni crimini di guerra (80) che non possono essere annoverati (75) G. DELITALA, voce Adempimento di un dovere, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, 572; C.F. GROSSO, L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, 203 ss.; B. PELLEGRINO, Nuovi profili in tema di obbedienza gerarchica, in questa Rivista, 1978, 168 ss.; F. SGUBBI, Rilevanza, fondatezza ed implicazioni della questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, ultimo comma, c.p., ivi, 1971, 485. (76) G. DELITALA, voce Adempimento, cit., 572; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, P. g., 3a ed., Bologna, 1995, 242; C.F. GROSSO, L’errore, cit., 203 ss.; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, P. g., 6a ed., Milano, 1998, 430-431; D. PULITANÒ, voce Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Dig. disc. pen., 4a ed., vol. IV, Torino, 1990, 330; M. ROMANO, Commentario, cit., I, 517 (« il compiuto parallelismo tra il dovere derivante dall’ordine dell’autorità e quello derivante da una norma giuridica fa propendere per la rilevanza (anche) penale dell’errore su legge diversa dalla legge penale »); contra D. SANTAMARIA, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, Napoli, 1961, 95 ss.; T. PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973, 182. (77) G. ROSIN, voce Ignoranza dei doveri militari, in Dig. disc. pen., 4a ed., vol. VI, Torino, 1992, 120. (78) Sui « doveri strumentali di conoscenza delle leggi » cfr. M. ROMANO, Commentario, cit., I, 99. (79) D. BRUNELLI-G. MAZZI, Diritto penale militare, Milano, 1994, 97 ss.; B. PELLEGRINO, Sindacato di legittimità sostanziale dell’ordine e disobbedienza, nel sistema penale militare, in Giust. pen., 1974, II, c. 193 s.; G. ROSIN, Il militare fra dovere di obbedienza e dovere di disobbedienza. L’esecuzione dell’ordine criminoso, in Rass. giust. mil., 1982, 227. (80) Sul problema dei crimini di guerra nel diritto interno ed internazionale in rapporto al grave problema dell’ordine del superiore G. VASSALLI, I crimini di guerra, in La giustizia internazionale penale, cit., 90-96. Cfr. inoltre, F. BAUER, Die Kriegsverbrecher vor Ge-
— 253 — sic et simpliciter tra le infrazioni material-naturalistiche, quanto tra i mala quia prohibita, posto che implicano la violazione delle regole del diritto bellico e delle convenzioni e dei trattati internazionali, prima tra tutte quella di Ginevra del 12 agosto 1949 (81). Si pensi, solo per fare qualche esempio, alle incriminazioni di cui all’art. 8, comma 2, lett. (a), (iv), sulla « distruzione estesa o appropriazione di proprietà, non giustificata dalle necessità militari e condotta illegalmente ed arbitrariamente » (« extensive destruction and appropriation of property, not justified by military necessity and carried out unlawfully and wantonly »), in cui il riferimento ai termini « unlawfully and wantonly » riguardo a specifiche necessità belliche implicano una doppia valutazione discrezionale e normativa sulle esigenze belliche e sull’arbitrarietà ed illegittimità dell’atto. Perplessità su una loro nitida riconoscibilità come crimini scopertamente illegittimi, si possono nutrire anche con riguardo alle figure di reato dell’art. 8, comma 2, lett. (b), (vii), sull’« uso improprio della bandiera bianca, della bandiera o delle insegne ed uniformi militari del nemico » (« making improper use of a flag of truce, of flag or of the military insignia and uniform of the enemy »), o comma 2, lett. (b), (xiii) sulla « distruzione o confisca dei beni del nemico, salvo nei casi in cui tali distruzioni o confische sono imperativamente comandate da esigenze di guerra » (« destroying or seizing the enemy’s property unless such destruction or seizure be imperatively demanded by the necessities of war »). In esse, la deroga alla regola generale, che comporta la liceità dell’atto (82), deve essere valutata alla stregua di specifiche disposizioni che impongono, anziché vietare, l’atto stesso, sicché il subordinato potrebbe trovarsi in una non facilmente risolvibile situazione di conflitto di doveri. E così via. È vero che le incriminazioni di cui all’art. 8 sui crimini di guerra non sono di competenza immediata della Corte, ma ciò non toglie forza all’osservazione, considerato che essi rappresentano pur sempre una parte considerevole dei crimini internazionali. La seconda possibile obiezione si riferisce alla questione dell’individuazione del parametro di riferimento normativo in base al quale perequare l’illegittimità dell’atto e, quindi, dell’ordine. Una cosa è infatti affermare che l’illegittimità concerne una violazione dei princìpi giusnaturalistici del diritto internazionale e delle consuetudini comuni al diritto delle genti, altro dichiarare che l’illegittimità va misurata secondo criteri riferiti al diritto nazionale interno del soggetto che dà l’ordine e di quello che, nel riceverlo, sarebbe chiamato ad una valutazione circa la sua illegittimità. Occorre ricordare che il sistema di norme nazionali — quantunque provengano da un c.d. « Stato-corrotto » e « tiranno » e pertanto invalide secondo il diritto internazionale — per l’appartenente a quella nazione costituisce pur sempre diritto vigente (83) che, come tale, dovrebbe essere applicato, senza che con ciò si debba varicht, Zürich, 1945; H. LAUTERPACHT, Punishment of War crimes, Cambridge, 1942; D. MARTUCCI, La punizione dei criminali di guerra, in Nuova Antol., giugno 1945; A. SOTTILE, Les criminels de guerre et le nouveau droit pénal international, 3me ed., Geneve, 1946; G. STRATENWERTH, Verantwortung und Gehorsam. Zur strafrechtlichen Wertung hoheitlich gebotenen Handelns, Tübingen, 1958, 40 ss.; G. VASSALLI, Intorno al fondamento giuridico della punizione dei crimini di guerra, in Giust. pen., 1947, II, 648 ss. (81) Sul punto v. M. CHERIF BASSIOUNI, Repression of breaches of the Geneva Conventions under the Draft Additional Protocol, in Rutgers Camden Law Jour., 8 (1977), 185. (82) Spesso nell’esame dei profili della responsabilità nel diritto internazionale penale « la norma fondamentale e decisiva diventa così non quella incriminatrice — come di solito accade — ma quella discriminante, il cui contenuto è dato appunto dal diritto internazionale, nel senso che il diritto penale applicato al caso deve desumere dal diritto internazionale i limiti della immunità, delle consuetudini e delle altre norme di liceità che esso è internazionalmente tenuto a rispettare nel giudizio penale in questione », così G. VASSALLI, I crimini contro l’umanità, cit., 54. (83) Sulla valutazione della vincolatività di un sistema normativo che sia il frutto di un regime totalitario e violento che richiama il concetto di « gesetzliches Unrecht », con particolare riferimento alla legislazione nazista (si pensi ai decreti sull’eutanasia del 1o settembre 1939, su cui v. E. KLEE, « Euthanasie » im NS-Staat: Die « Vernichtung lebensunwertes
— 254 — lutarne l’illegittimità con riferimento ai dogmi immutabili del diritto internazionale comune alle genti (84). Nell’angoscioso dilemma di disubbidire all’ordine che proviene da un diritto « ingiusto » vigente e l’ottemperare ad obblighi sovralegali, rispetto al diritto interno, il conflitto non è sempre facilmente risolvibile a favore della fonte internazionale. Certo, l’illegalità dell’ordine è sovente talmente palese da dover richiedere una chiara valutazione negativa da parte del destinatario (85), che dovrebbe far valere il diniego ad eseguirlo (86), come nel caso, ad esempio, del noto ordine del grand’ammiraglio Doenitz agli equipaggi dei sottomarini di non raccogliere i superstiti delle navi affondate. La criminosità di esso era insita nelle stesse sue motivazioni: « Non abbiate preoccupazioni — esso dice — dobbiamo essere spietati in questa guerra che il nemico ha dichiarato col fine di distruggerci [...] Voi dovete condurre una guerra totale, senza risparmiare né navi né equipaggi. Ciò vuol dire che nei limiti del possibile, nessun marinaio di una nave affondata deve far ritorno a casa » (87). Neanche l’ambiguo e suadente richiamo ad un supposto, abnorme stato di necessità (88) può infatti far sfuggire al destinatario la criminosità di tali ordini (89). È stato al proposito affermato che « la teoria del diritto interno manifestamente non regge per i delitti contro la pace e per i delitti di oppressione o persecuzione politica, religiosa o razziale, tipicamente comandati dallo Stato o comunque conformi alle sue direttive » (90). Tuttavia tale Lebens », Frankfurt a. M., 1983, 294-345) v. le riflessioni di G. RADBRUCH, Anmerkung zu OLG Frankfurt Urt. v. 12.8.1947, Ss 92/47, in SJZ, 1947, 634; ID., Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, in SJZ, 1946, 105 ss.; e, con particolare riferimento ai problemi dell’ubbidienza ad ordini provenienti da sistemi normativi tirannici che pongono problemi di irriconoscibilità dell’antigiuridicità della norma, O.A. GERMANN, Imperative und autonome Rechtsauffassung in methodische Grundfragen, Basel, 1946, 23 ss. Sulla questione della responsabilità per la stessa creazione di norme « illecite » in un sistema legislativo derivante da regimi totalitari — v. il caso di Schlegelberger durante la sua permanenza al Ministero della giustizia durante il periodo nazista — cfr. G. RADBRUCH, Des Reichsjustizministeriums Ruhm und Ende. Zum Nürnberger Juristen-Prozess, in SJZ, 1948, 57 ss. (84) Un’obiezione di questo tenore era già stata in parte sollevata da JESCHECK nel suo studio sui processi di Norimberga, Die Verantwortlichkeit, cit., 384-385, allorché aveva osservato che non proprio automatico è il riconoscere l’antigiuridicità di certi atti di guerra come errore sull’ammissibilità di essi secondo il diritto internazionale, se si muove dal presupposto dell’osservazione puramente oggettiva, e non meramente putativa, di conferire a determinate operazioni il crisma di « guerra d’aggressione » da cui dipende il giudizio di illiceità (ad esempio rispetto al significato da dare al concetto di annessione della Cecoslovacchia prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale come guerra d’aggressione). (85) Si pensi ai recenti casi « Herak e Damjanovich », condannati alla pena capitale dal Tribunale militare di Sarajevo con sentenza del marzo 1993 che affermavano — il primo degli imputati reo confesso — di aver compiuto lo sgozzamento di molte decine di prigionieri musulmani e stupri seguiti da assassinio delle donne violentate, ma eseguiti in ottemperanza di precisi ordini superiori ricevuti, o al caso del « boia cetnico di Omarska » Dusko Tadic, giudicato in Germania, sul punto v. G. VASSALLI, Il Tribunale internazionale, cit., 176. (86) È chiaro che occorre anche valutare la possibilità (morale e fisica) di non conformarsi a tale ordine I. CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, Padova, 1998, 80. (87) G. VASSALLI, I delitti contro l’umanità, cit., 49. Alcune delle incriminazioni che rientrano nei crimini di guerra — art. 8, comma 2, lett. (b) (xii) e lett. (e) (x) — considerano già in sé, non a caso, come violazioni gravi di leggi ed usi applicabili ai conflitti armati internazionali e di carattere non internazionale « il fatto che si dichiari che nessuno avrà salva la vita » (« declaring that no quarter will be given »). (88) Ha osservato G. VASSALLI, I delitti contro l’umanità, cit., 48-49 che « la necessità di guerra ha una sua forza discriminante propria, di latitudine indefinibile, ogniqualvolta la sua interpretazione possa ritenersi conforme a quella dello Stato, portatore supremo degli interessi della collettività in esso organizzata ». (89) G. VASSALLI, Verso una giustizia internazionale penale?, in Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova, 1996, 40. (90) G. VASSALLI, I delitti contro l’umanità, cit., 48.
— 255 — riconoscibilità del carattere di criminosità dell’ordine non sempre è di così agevole constatazione. Specialmente rispetto ad alcuni crimini che si sostanziano nella violazione di regole tecniche sugli usi di guerra o delle convenzioni internazionali che non si risolvono in fatti di sangue o aggressioni proditorie ad intere comunità indifese. Riguardo ai fatti incontestabilmente criminosi, viceversa, « il diritto internazionale li assorbe pertanto nalla propria sfera, definisce le norme incriminatrici secondo criteri universalmente validi e prescindendo dalle previsioni dei diritti interni, toglie valore di giustificazione a circostanze per avventura valide secondo il diritto interno (per esempio all’ordine del superiore quando vi sia stata la possibilità di sottrarsi alla sua esecuzione) » (91). Occorre, poi, osservare che la valenza dell’ordine come scusante è molto ristretta e negata in via di principio dalla prima parte del comma 1 dell’art. 33, e tale inapplicabilità viene paralizzata con una circonlocuzione costruita in negativo « shall not relieve [...] unless » proprio nell’ipotesi di ignoranza di un elemento normativo. Ammesso che si possa proporre una differenza tra errore ed ignoranza, vi è allora da chiedersi quale sia il trattamento dell’« errore » in senso stretto sull’illegittimità dell’ordine. Se cioè esso, diversamente dalla mera ignoranza, rientri nell’ipotesi di errore sul precetto che, in base all’art. 32, comma 2 non scusa il soggetto. Se così fosse, quali gli esili confini, in definitiva, tra « ignoranza » ed « errore » rispetto alla « illegittimità » di un elemento normativo così sfuggente e soggetto a varie interpretazioni? E se il soggetto erra invece sui presupposti « di fatto » che gli fanno supporre esistente un ordine nella realtà inesistente? Rientra tale ipotesi nella disciplina dell’errore di fatto, che, escludendo il « mental element » (il dolo), esclude la punibilità? E se tale errore di fatto è dovuto a colpa? La mancata previsione espressa dovrebbe escludere la punibilità. Sul punto si può notare che la mancata conoscenza dell’illegittimità dell’ordine, scaturente da negligenza rispetto agli obblighi d’informazione e quindi riportabile al piano della responsabilità per colpa, se pur in linea teorica generale si situa ‘al limite’ della zona di non punibilità, rappresenta però una condizione soggettiva scusabile coincidente, in particolare, con l’orientamento dello Statuto, ed in generale, con l’intero diritto dei crimini internazionali. L’opzione (pressoché esclusiva) di politica criminale è infatti nel senso di sottoporre a pena comportamenti intenzionali, e comunque riferibili ad atteggiamenti di dolo diretto, pertanto la possibile disciplina applicabile ai casi di « dubbio » sull’illegittimità dell’ordine dovrebbe restarvi estranea. Tuttavia il quadro di riferimento si complica non appena si dedichi maggiore attenzione al problema. Si supponga che, in virtù di un esame di tipo naturalistico ma anche normativo, il soggetto versi in uno stato di dubbio (92) circa la legittimità dell’ordine, e ciononostante agisca allo stesso modo, incurante della possibile illegittimità di esso ed assumendosi tutti i rischi relativi (93) all’esecuzione materiale dell’ordine, tra i quali rientrino anche fatti costituenti crimini internazionali. Ci si deve chiedere se lo stato mentale di dubbio è, o non è, sovrapponibile alla situazione d’ignoranza così genericamente descritta dall’art. 33 St., perché in caso di risposta positiva al quesito si dovrebbe pervenire alla logica conclusione che anche detta eventualità rientri in un concetto ampio di ignoranza che ingloberebbe anche atteggiamenti di mancata conoscenza (ed atti conseguenti) dovuti a dolo eventuale (94). È indubbio che si realizzerebbe in tal modo un diverso livello di inescusabilità dell’ignoranza rispetto a quelli (91) G. VASSALLI, Verso una giustizia internazionale penale?, in La giustizia internazionale penale, cit., 188. (92) Sul problema del dubbio sull’illiceità « (generale e ‘‘speciale’’) » v., per tutti, nella letteratura italiana D. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 516 ss. (93) G. FLORA, La difficile penetrazione del principio di colpevolezza: riflessioni per l’anniversario della sentenza costituzionale sull’art. 5 c.p., in Giur. it., 1989, IV, 340. (94) Similmente, in termini generali, M. ROMANO, Commentario, cit., I, 97.
— 256 — tradizionalmente conosciuti. Tuttavia la risposta negativa a tale interrogativo, desumibile da una mancata corrispondenza tra dubbio ed ignoranza e spiegabile come « soggettiva invincibilità del dubbio » dovrebbe condurre il soggetto, di regola, ad astenersi dall’agire (95), ammesso che lo possa materialmente fare, non essendo sul punto il dubbio « bivalente » (o « bidirezionale »), riguardante cioè contestualmente la liceità sia della condotta che dell’astensione (96). 10. Altra eccezione che sarà verosimilmente sollevata dai collegi difensivi può essere quella — già sperimentata nei processi di Norimberga (v. il noto « Closing Speech for the Defense of Dr. Jahrreiß ») (97) — di appellarsi alla mancanza di coscienza dell’illecito (« awareness of unlawfulness ») per aver ubbidito alle norme o agli ordini del regime. Tale ultimo aspetto è effettivamente preso in considerazione espressamente dallo Statuto dall’art. 33, comma 1, lett. (b). L’eccezione fu, malgrado ciò, rigettata trattandosi di errore sul precetto che non esclude la responsabilità penale perché inescusabile: la legittimità o illiceità di un comportamento — si affermò — va misurata alla stregua del diritto internazionale, non dei singoli Stati nazionali. A maggior ragione tale regola costituisce un precedente dopo le fosche vicende evocate nei processi di Norimberga. Tuttavia tale errore, che investe la coscienza dell’illiceità delle condotte, deve essere trattato sotto il capitolo che concerne il « mistake of law » (98). Il difetto di valutazione può inoltre essere dettato da una rappresentazione della realtà che non necessariamente è il risultato di un « errore condizionato » dal difetto mentale (99) o da uno stato di intossicazione. Ipotesi queste che in effetti lo Statuto prevede come cause che escludono la responsabilità nell’art. 31, comma 1, lett. (a) e (b), ma nella sola forma estrema del vizio totale di mente o dell’intossicazione che annulla le capacità di discernimento. D’altra parte, detta distorsione delle capacità rappresentative potrebbe essere l’esito di una valutazione erronea svincolata da un’alterazione dei processi formativi della mente e riferirsi semplicemente ad una visione travisata, maturata in un ambiente dominato dalla ragion di Stato e dall’indottrinamento tipico dei fenomeni degli « Stati-illecito » (100). In tali frangenti la coscienza dell’illiceità del contegno è inevitabilmente orientata dall’interpretazione ufficiale che di certi fatti dà l’ordine costituito (si rifletta sulla capa(95) Conclusione raggiunta, nello specifico, dalla sentenza della Corte Costituzionale italiana n. 364 del 1988, § 28, in Foro it., 1988, I, 1411; ritiene comunque « non felice » la denominazione, sul punto, della Corte M. ROMANO, Commentario, cit., I, 97. (96) Sul punto cfr. M. ROMANO, op. e loc. ult. cit. (97) TWC, Nürnberg Trial, Bd. XVII, 501, v. H.H. JESCHECK, Die Verantwortlichkeit, cit., 385, il quale anzi rileva come la mancata considerazione dell’assenza di coscienza dell’illecito (« awareness of unlawfulness ») sia comunque uno dei più rilevanti difetti dei Processi di Norimberga. (98) N. PISANI, Mental element, nel volume The International Criminal Court, in corso di pubblicazione. (99) A.R. CASTALDO, Der durch Geisteskrankheit bedingte Irrtum: ein ungelöstes Problem, in A. ESER-W. PERRON, Rechtfertigung und Entschuldigung, III, Freiburg i. B., 1991, 343 ss. (100) A questo proposito ha posto sul tappeto i seguenti quesiti D.J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici, cit., 498 nt. 45: « non è facile suddividere per categorie gli eccidi e gli assassini. Una domanda da porsi è: in quale modo, e per quale motivo, un ordine come ‘‘fa ciò che puoi per uccidere gli ebrei’’, che non prevedeva sanzioni né ricompense, poteva spingere il singolo tedesco ad agire? questi sarebbe rimasto immobile? o si sarebbe dedicato al compito senza troppo impegno? si sarebbe dimostrato efficiente nell’uccidere? o, infine, si sarebbe votato anima e corpo allo sterminio del maggior numero possibile di ebrei? ». La ricerca di Goldhagen tende a dimostrare che, comunque, non vi erano sanzioni, neanche le più blande, che potessero coartare la volontà degli esecutori tanto da spingerli a tali atti criminosi.
— 257 — cità drogante di convincimento che oggi è affidata ai mass-media) (101). Una valutazione giusnaturalistica della illegittimità di certi comportamenti — se misurati alla stregua dei princìpi comuni a tutte la nazioni civilizzate — entra in conflitto sovente con la dura situazione di vivere in contesti fortemente condizionati da regimi dittatoriali, che non consentono valutazioni estranee al senso comune proprio dello Stato-(« illecito ») di appartenenza e conformi al diritto umano delle genti. Emergono, inoltre, in tali circostanze storiche, anche atteggiamenti di conformismo nei comportamenti dettati da semplice spirito di convenienza o autoconservazione. La recente vicenda dei fatti del « Muro di Berlino », nella quale i soldati di confine uccidevano sistematicamente i fuggiaschi in ottemperanza ad ordini avvertiti come « giusti » secondo l’ordinamento giuridico e socio-politico interno, sta a testimoniare della (quasi) insolubilità del problema (102). L’errore sulla criminosità dell’ordine (« mistake under unlawfulness of the orders »), l’erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione o la mancanza di coscienza dell’illecito potrebbero peraltro essere indotte dal fatto che i c.d. « criminali internazionali » rivestono spesso la qualifica di Capi di Governo, oppure sono politici che poggiano il loro potere sul consenso popolare, in quanto democraticamente eletti, quindi difficilmente etichettabili come soggetti che hanno agito in un clima di completa illegalità (103). Sicché gli ordini da loro impartiti o le leggi promulgate sotto la loro responsabilità di governo non appaiono prima facie di per sé criminosi. Tale non apparve neanche — così sembrerebbe — al popolo tedesco la « soluzione finale » della Judenfrage (104), perché direttamente posta sotto l’egida del Führerprinzip (105). In ciò sta tutta l’ambiguità della c.d. « criminalità da regime »: « Regierungskriminalität » nell’esperienza storico-giuridica della Germania (106). 11. Gli specifici requisiti delle cause di esonero dalla responsabilità per i crimini internazionali sono contenuti nell’art. 31 St. 11.1. La lettera (a) del comma 1 concerne i difetti e le malattie mentali. La disposizione distingue in maniera capillare tra situazione che ha annientato (« destroyed ») (quindi solo il vizio totale vi è menzionato) la capacità di valutazione sull’illiceità o la natura della condotta (« unlawfulness or nature of his or her conduct »), e malattia mentale che ha influito sul potere di controllo (« capacity to control ») del soggetto di poter conformare la propria condotta ai dettami della legge (« his or her conduct to conform to the requirements of law »). Lo Statuto appare in questa parte poco chiaro, perché non si comprende a quale situazione si pensi nel caso di duplicazione tra valutazione sull’illiceità della condotta e valutazione sulla natura della condotta. Forse — in quest’ultimo caso — ci si riferisce a valuta(101) Non a caso le operazioni militari e gli attacchi aerei più massicci condotti dalle forze della Nato nel recentissimo conflitto nei Balcani a causa della gravissima crisi del Kosovo hanno avuto come obiettivo privilegiato ripetitori della televisione e delle radio governative in Serbia al fine di « far tacere » la propaganda del regime totalitario. (102) H.J. HIRSCH, Rechtsstaatliches Strafrecht und staatlich gesteuertes Unrecht, Opladen, 1996, 9 ss.; K. LÜDERSSEN, Der Staat geht unter - das Unrecht bleibt? Regierungskriminalität in der ehemaligen DDR, Frankfurt a. M., 1992, 59, 115, 146. (103) V. V. PELLA, La criminalité collective des étates et le Droit pénal de l’avenir, 2me ed., Paris, 1926. (104) Cfr. H. FRIEDLANDER, The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia to the Final Solution, Chapel Hill, 1995, 111 ss. (105) N. TRAININ, Hitler’s responsibility under criminal law, London, 1945; ed, analizzato dalla parte dei realizzatori, K. HINRICHSEN, Befehlsnotstand, in NS-Prozesse, citato da D.J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici, cit., 569 nt. 34, sotto il profilo delle effettive possibilità di rifiutarsi di uccidere o di eseguire l’ordine impartito. (106) E.-J. LAMPE (Hrsg.), Deutsche Wiedervereinigung, Band II: Die Verfolgung von Regierungskriminalität der DDR nach der Wiedervereinigung, 1993, 67, 72.
— 258 — zioni travisate di tipo sociale o naturalistico. La norma non considera, invece, se l’errore in cui è incorso il soggetto è il risultato della malattia di mente (« errore condizionato » appunto dalla malattia di mente), perché vi possono essere casi in cui il soggetto, pur essendo affetto da malattie mentali, tuttavia ha agito senza che questo suo stato influisse sulla valutazione da dare al fatto. L’ultima parte della disposizione riguarda i casi di mancato controllo della condotta (« lack of capacity to control his or her conduct »). Ma tali ipotesi di indominabilità del contegno possono derivare anche da forza maggiore (« circumstances beyond one’s control ») o da situazioni di inesigibilità del contegno conforme al precetto (« Unzumutbarkeit » nel lessico della dogmatica tedesca (107) ), che non sempre dipendono necessariamente da malattia mentale. Si tratta anzi di due contesti che di solito vengono normativamente regolati in modo molto diverso. 11.2. La lettera (b) del comma 1 dell’art. 31 St. prende in esame l’intossicazione. Lo Statuto dispone come principio generale che l’intossicazione involontaria (« involuntary intoxication ») da alcool o da sostanze stupefacenti costituisce causa di esonero dalla responsabilità per il crimine. Tale conclusione vale sia per gli effetti che si hanno sulla capacità di valutare l’illiceità o la natura del comportamento (« to appreciate the unlawfulness or nature of conduct »), sia nel senso del mancato controllo della condotta (« capacity to control the conduct »). Sul punto il comma 1, lett. (b) riproduce la contorta espressione di cui alla precedente lettera (a), anche se il riferimento al mancato controllo della condotta sembra in questo caso più pertinente. L’art. 31, comma 1, lett. (b) pone però l’eccezione delle actiones liberae in causa. In caso di intossicazione volontaria (« voluntary intoxication ») si esclude la possibilità di valutare la causa di esclusione della responsabilità. Non è previsto un aumento di pena — come forse era auspicabile (108) — in caso di intossicazione preordinata a prepararsi una scusa o a commettere il crimine (intoxication with the specific pre-existing intent to commit the crime or to prepare for an excuse or « dutch courage rule » (109) ). Tuttavia mediante l’utilizzo della formula « disregarded the risk » (110), lo Statuto stabilisce che anche un atteggiamento di dolo eventuale (dolus eventualis, nelle forme del diritto anglosassone sia dell’« oblique intention » (111), che della « recklessness » (112) ), esclusa quindi solo l’intossicazione colposa (« intoxication for negligence ») (113), non possa costituire una causa di esclusione della responsabilità secondo il comma 1, lett. (b) dell’art. 31 St. 11.3. L’art. 31, comma 1, lett. (c) prevede la causa di giustificazione della difesa legittima (« self-defence ») e del soccorso difensivo (« defence of another person »). La giustificante si applica in caso di salvataggio di beni personali come la vita o l’incolumità individuale e, in caso di crimini di guerra, anche contro la proprietà (« property which is essential for the survival of the person or another person »), ed in quest’accezione la proprietà stessa (107) Con specifico riferimento al tema dell’inesigibilità del comportamento nell’ordine vincolante del superiore — « Befehlsnotstand » — nella letteratura tedesca H.H. JÄGER, Verbrechen unter totalitärer Herrschaft. Studien zur nationalsozialistischen Gewaltkriminalität, Olten-Freiburg i. Br., 1967; H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, cit., 483; M. KÖHLER, Strafrecht, AT, Berlin-Heidelberg, 1997, 336-337. (108) Cfr. E. MEZZETTI, Grounds for excluding criminal responsibility, cit., 150. (109) Attorney-General for Northern Ireland v. Gallagher, [1961] 3 All E.R. 299. (110) Sulla valutazione della c.d. Caldwell-direction in tema di assunzione del rischio rispetto alla defence of insanity F. CURI, L’istituto della recklessness nel sistema penale inglese, in questa Rivista, 1998, 995. (111) A. NORRIE, ‘Oblique Intention and Legal Politics’, [1989] Crim. LR, 793. (112) J. BUZZARD, ‘Intent’, [1978] Crim. LR, 5. (113) A. ASHWORTH, ‘Intoxication and the General Defences’, [1980] Crim. LR, 556; ID., Principles of Criminal Law, cit., 214-217.
— 259 — viene valutata alla stregua di qualunque bene personale, in quanto ‘vitale’ per il soggetto che si difende o per quello destinatario del soccorso, oppure nel senso di (« property which is essential for accomplishing a military mission »), e qui la proprietà viene inserita in un più globale contesto di necessità belliche. Dal riferimento esplicito ai crimini di guerra, nel caso di estensione del novero dei beni da difendere fino a considerare anche la proprietà, e da altri impliciti richiami a « military mission » o « use of force » si può evincere che gli estensori dello Statuto hanno ‘pensato’ ragionevolmente ai crimini di guerra come (quasi esclusivo) terreno per l’applicabilità della scriminante della difesa legittima. Le stesse considerazioni valgono, anche ‘in negativo’, nel caso contemplato nell’ultima parte della lettera (c), dove si esclude — come si vedrà — la defence. Requisiti dell’azione difensiva espressamente richiesti sono l’assoluta inevitabilità, richiamata dal termine « essential », riferito alle caratteristiche dell’atto difensivo o, in caso di crimini di guerra, alle esigenze della missione militare (« for accomplishing a military mission »); la proporzione dei disvalori (« in a manner proportionate to the degree of danger »), ma anche dei mezzi, che colui che si difende deve ragionevolmente usare (« the person acts reasonably »), escluso quindi l’eccesso dovuto ad errore, anche colposo, sulla rappresentazione della situazione; ed infine il fatto che l’offesa contro cui si reagisce sia imminente ed ingiusta (« against an imminent and unlawful use of force »), sicché è inammissibile un eccesso « estensivo », cioè dovuto al superamento dei limiti cronologici dell’attualità dell’offesa. Nel Tessman Case del 1947 deciso dalla Corte militare britannica fu peraltro affermato che, riguardo ai crimini di guerra o contro l’umanità, la giustificante della legittima difesa può essere ammessa solo se essa costituisce l’ultima risorsa a disposizione dell’ingiustamente aggredito (« must be the last resort ») (114), in particolare nei casi in cui in conflitto entrino beni della vita. D’altro canto le aggressioni al bene della vita non costituiscono nel diritto internazionale penale una vera eccezione. Perciò la regola non sembra solo un’ipotesi da ultima ratio. L’ultima parte della disposizione esclude che la giustificante possa essere applicata per il solo fatto che il soggetto sia coinvolto in operazioni difensive delle forze armate (« the person was involved in a defensive operation conducted by forces »): si vuol evitare che singoli approfittino di operazioni di reparti militari per compiere crimini. In altre parole l’azione difensiva generale e collettiva non ‘copre’ qualsiasi atto individuale. 11.4. La disposizione dell’art. 31, comma 1, lett. (d) contiene un’ipotesi articolata di necessità causata dalla coercizione risultante da una minaccia di morte imminente o della permanenza di una grave offesa all’incolumità della persona che agisce o di altro soggetto (« caused by duress resulting from a threat of imminent death or of contuining or imminent serious bodily harm against that person or another person »). Detta minaccia per la vita o l’incolumità individuale dell’autore necessitato o di altro soggetto (« soccorso di necessità ») può essere determinata dalla minaccia portata da altro soggetto (la « duress » del diritto angloamericano) (115), ovvero scaturire da circostanze naturali, incontrollabili per un uomo-medio (for « a person of ordinary firmness ») (« necessity by circumstances ») (116). Lo Statuto considera entrambe queste eventualità allorché dispone [art. 32, comma 1, lett. (d), (i) e (ii)] che « a threat may either be: (i) Made by other person, (ii) Constituted by other circumstances beyond that person’s conduct ». (114) Tessman-Case, 1947, in Amnesty international, The International Criminal Court, cit., 83. (115) P. ALLDRIDGE, Developing the Defence of Duress, [1986] Crim. LR, 433; D.W. ELLIOTT, Necessity, Duress and Self-Defence, [1989] ivi, 611; K.J.M. SMITH, Must Heroes Behave Heroically?, [1989] ivi, 22. (116) C.K. HALL, The jurisdiction of the permanent International Criminal Court over violations of humanitarian law, in The International Criminal Court, cit., 46.
— 260 — L’opzione dello Statuto è nel senso, quindi, di considerare la « duress » e la « necessity » quali cause di esclusione della responsabilità criminale. A condizione che l’autore abbia agito per evitare un pericolo imminente per la vita e l’incolumità propria o di altri, che l’azione necessitata sia stata ragionevolmente (« reasonably ») condotta per eludere quello specifico pericolo [anche qui il riferimento alla scelta del male minore (« choice of lesser evil ») (117) per sfuggire alla minaccia] e che detta minaccia non poteva essere in altro modo evitata (« the person acts necessarily to avoid that threat »). Per nulla condivisibile è invece la scelta di sottoporre l’operatività della giustificante ad un elemento soggettivo come l’intenzione specifica di causare un fatto proporzionato al pericolo. Ciò per diverse ragioni. La proporzione nello stato di necessità è elemento di tipo oggettivo che va verificato empiricamente con un giudizio prognostico. Detto esame non può essere pertanto rimesso alla valutazione soggettiva dell’autore necessitato, valutazione che può prestarsi a scelte arbitrarie. Inoltre un siffatto elemento soggettivo (« the person does not intend to cause a greater harm than the one sought to be avoided ») è difficilmente provabile in assenza di riscontri oggettivi certi e l’accertamento del requisito potrebbe lasciare un margine veramente eccessivo di discrezionalità al giudice in tema di prova (« Rules of evidence »). Infine su quale soggetto processuale grava l’onere di provare una tale intenzione di causare un danno proporzionato al pericolo? Potrebbe trattarsi di una probatio diabolica sia per l’accusa, che per la difesa. Ma ancora maggiori perplessità suscita la ‘scelta di fondo’ dello Statuto di considerare la « necessity », ma anche la « duress », quali cause di esclusione della responsabilità, e non mere ipotesi di mitigazione (« mitigation ») della responsabilità criminale. Tale perplessità affiora in modo evidente in particolare rispetto all’astratta giustificabilità di un crimine di massima gravità come il genocidio. Ben fondate dogmaticamente (118) e consolidate tradizionalmente (119), nel dibattito intorno ai crimini internazionali, risultano le ragioni che militano a favore di una riduzione della rilevanza di tali giustificanti in rapporto a crimini così efferati. Il criterio della proporzione così soggettivizzato non può peraltro far da guida sicura per escludere tale eventualità. Si tratta di elemento sfuggente fondato su parametri puramente intenzionali e, come tali, appartenenti agli interna corporis del soggetto. L’ammissibilità di siffatte giustificanti è stata comunque sottoposta a limiti molto rigidi (anche nelle esperienze giurisprudenziali dei singoli Stati-costituenti-Parti), primo fra tutti l’impossibilità di farle valere per i crimini più gravi, specialmente l’omicidio [English leading Case Howe (1987)]. Date le ipotesi di reato contenute nel presente Statuto, e la loro riconosciuta gravità per tutta la comunità internazionale, sembrerebbe che la loro valenza nel contesto del diritto internazionale penale debba essere esclusa in via di principio, ad eccezione forse dei soli crimini di guerra. Nell’Holzer Case del 1946 la Corte militare canadese affermò infatti che, date le circostanze in cui si svolge l’azione necessitata (anche la duress), non può comunque essere consentito uccidere: « the killing of an innocent person can never be justified » (120). Più di recente nell’Erdemovic Case la Trial Chamber of the Yugoslavia Tribunal ha ulteriormente precisato che: « with regard to a crime against humanity, the Trial Chamber considers that the life of the accused and that of the victim are not fully equivalent. As opposed to ordinary law, the violation here is no longer directed at the physical welfare of the victim alone but at humanity as a whole ». (117) Model Penal Code, S. 3.02; cfr. G. FLETCHER, Rethinking Criminal Law, Boston-Toronto, 1978, 788-798. (118) Si veda la c.d. « Dinstein’s rule »: « the correct approach is that no degree of duress or necessity may justify murder, let alone genocide » [Y. DINSTEIN, International Criminal Law, 20 Israel L. Rev., 206, 235, (1985)]. (119) Durante i processi di Norimberga lo stato di necessità (anche putativo) fu negato in toto rispetto agli aggressori v. Ohlendorf-Case, Krupp-Case in H.H. JESCHECK, Die Verantwortlichkeit, cit., 328-331. (120) Le stesse conclusioni si possono rinvenire nel « Fuerstein-Case ».
— 261 — Date tali considerazioni, i presupposti per la loro applicabilità devono essere rigorosi e l’esimente andrebbe esclusa oggettivamente per il crimine di genocidio. Mentre una possibile ampia riferibilità dello stato di necessità poteva riguardare i crimini di collaborazionismo (121), che peraltro sembrerebbero essere contemplati tra i crimini che rientrano nella giurisdizione della Corte solo nell’ipotesi di costrizione del prigioniero a servire nelle forze armate delle potenze nemiche (« compelling a prisoner of war or other protected person to serve in the forces of a hostile Power ») o i cittadini della parte nemica a partecipare ad operazioni belliche (« compelling the nationals of the hostile party to take part in the operations of war directed against their own country »), una notevole coartazione che conduce a forme di collaborazionismo (122) di cui, rispettivamente, all’art. 8, comma 2, lett. (a), (v) e lett. (b) (xv) St. 12. Quello dell’ordine del superiore risulta uno dei nodi gordiani di tutta la teoria delle cause di esclusione dei crimini internazionali (123). Sin dai tempi dei processi di Lipsia (124), nell’immediato primo dopoguerra (125), e successivamente dopo il 1945 nei pro(121) G. VASSALLI, La collaborazione col tedesco invasore nella giurisprudenza della Cassazione, in G. VASSALLI-G. SABATINI, Il collaborazionismo e l’amnistia politica, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Roma, 1947, 371-382. Si vedano, inoltre, i Trials Pétain e Laval, in Le procès du Maréchal Pétain. Textes officiels du réquisitoire et des plaidoiries, Montreal, 1946; Le procès Laval. Comte rendu stenographique, Paris, 1946. (122) Per un’analisi delle cause di esclusione dei delitti di collaborazionismo, con particolare riferimento allo stato di necessità e alle altre forme di costrizione, all’errore di fatto, all’erroneo convincimento di versare in stato di liceità P. NUVOLONE, Il collaborazionismo punibile, in Crit. pen., 1946, 72 ss.; ID., Tribunali straordinari di guerra e collaborazionismo presunto, in Giur. it., 1946, II, 27 ss.; ID., Omicidi e collaborazionismo, in Giur. compl. Cass., 1945, 121 ss.; ID., Il rapporto di dipendenza gerarchica nei reati di collaborazionismo, in Giust. pen., 1946, II, 213 ss.; G. VASSALLI, Collaborazionismo, in Scritti giuridici, vol. II, cit., 740-742. (123) G.A. FINCH, Superior Orders and War crimes, in Amer. Jour. of Int. Law, 1921, 440 ss.; P. NUVOLONE, La punizione dei crimini di guerra e le nuove esigenze giuridiche, Roma, 1945, in Trent’anni di diritto e procedura penale. Studi, vol. I, Padova, 1969, 112117. (124) J. DUMAS, Les sanctions pénales des crimes allemands, Paris, 1916; A. MÉRIGNHAC, De la responsabilité pénale des actes criminels ennemis au cours de la guerre 191418, in Rev. de dr. int. et de lég. comp., trois. sér., vol. I, 1920, 34 ss. Com’è noto il Trattato di pace di Versailles tra gli Alleati, nonché le Potenze associate e la Germania del 28 giugno 1919 prevedeva all’art. 227 l’atto d’accusa contro il Kaiser Guglielmo II per « offese supreme contro la moralità internazionale e la santità dei trattati », tuttavia ad esso non venne mai data esecuzione in quanto nessun Tribunale internazionalead hoc venne istituito ed anche perché l’Olanda, Paese in cui il Kaiser si era rifugiato, non concesse l’estradizione, mentre i processi di cui si fa cenno in questa sede si riferiscono a procedimenti nazionali che ebbero luogo in Germania con il consenso degli Alleati in base ad alcune disposizioni contenute nel Trattato stesso, sulla questione v. J. COUSIÑO, Un tema de Derecho penal internacional. El enjuiciamiento del Kaiser, in Rev. gen. de Leg. y Jur., v. CXXXV; E. DE BENITO, El proceso de Guillermo II ante el Derecho penal, Madrid, 1919; R. FRANK-F. RACHFAHL, Kann Kaiser Wilhelm II, aufgeliefert werden? Zwei Gutachten, 1919; D. LOPEZ MOYA, El Kaiser, según los criminalistas, Madrid, 1915; per una ricostruzione di quella fase storica di evoluzione per l’istituzione di una Corte internazionale penale cfr., da ultimo, M. CHERIF BASSIOUNI, Historical Survey: 1919-1998, in The Statute of the International Criminal Court. A Documentary History, New York, 1998, 6-7, che parla di « compromesso » tra le maggiori potenze mondiali. (125) D. MATAS, ‘Prosecuting Crimes Against Humanity: The Lessons of World War I’, (1990) Fordham International Law Journal, 104.
— 262 — cessi di Norimberga (126) e Tokio (127), in cui in linea di principio fu sancito il noto assioma del « respondeat superior », furono fissati i limiti della responsabilità dei subordinati, che ha sempre costituito la più significativa difesa opposta agli atti di accusa (128). Esso è stato oggetto di ampio dibattito sia nel corso delle sessioni di lavoro del Comitato preparatorio, che durante la Conferenza Diplomatica (129). Il principio generale, che è divenuto quasi un dogma, è che l’ordine del superiore non costituisce in termini generali di per sé una causa di esclusione della responsabilità penale (art. 8 of the Nuremberg Charter; art. 6 of the Tokyo Charter; Allied Control Council Law No. 10 and The Yugoslavia and Rwanda Statutes). Anche nel caso di duress che derivi da un ordine del superiore, lo stesso Erdemovic Case (130) di recente ha chiarito che il soldato che si trovi in tali situazioni ha l’obbligo di disubbidire all’ordine impartitogli, a meno che ciò non lo esponga a sua volta a pericolo per la vita (« a soldier had a duty to disobey a manifestly illegal order and that duty to disobey could only recede in the face of the most extreme distress »). La coercizione derivante dall’ordine deve essere, in altri termini, « absolutely strict ». I princìpi-cardine che si erano affermati all’inizio (dalla giurisprudenza di Lipsia (131) ) erano: a) come regola generale, un subordinato che commette un atto criminale in esecuzione di un ordine non è esente da responsabilità penale se conosceva la criminosità dell’atto e la giudicò trascurabile; b) per determinare se il subordinato fosse consapevole del fatto di aver ubbidito alla esecuzione di un crimine, il giudice deve effettuare il « controllo ausiliare » dell’« illegittimità manifesta » dell’ordine (132). Riguardo alla responsabilità del superiore essa è stata riconosciuta in termini generali dalla Convenzione di Ginevra e ribadita di recente dai former Yugoslavia e Rwanda Statutes (133). I motivi principali di tale principio sono: a) un obbligo per il superiore di esercitare la sua autorità sul subordinato, che può spingersi fino a prevedere forme di responsabilità per omesso controllo delle condotte dei subordinati da parte del superiore (posizione di (126) I princìpi sulla responsabilità penale individuale che vennero formulati nell’ambito dei c.d. « Nuremberg Principles », preparati dalla International Law Commission, sottoposti al giudizio ed affermati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1950 sono: [...] Principle IV: « The fact that a person acted to order of his Government or of a superior does not relieve him from responsibility under international law, provided a moral choice was in fact possible to him ». H. DONNEDIEU DE VABRES, Le procés de Nuremberg, in Rev. de Dr. pen. et Crim., 1947, 480-490; G. VASSALLI, Quale giustizia nei confronti dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità e la pace?, in Relazioni internazionali, Scritti in onore di Giuseppe Vedovato, vol. I: Testimonianze, Firenze, 1997, 4 dell’estr. (127) L. JIMÉNEZ DE ASÙA, Tratado de Derecho Penal, t. II, Filosofìa y ley penal, Buenos Aires, 1950, 996-999. (128) Afferma E.R. ZAFFARONI, Alla ricerca delle pene perdute. Delegittimazione e dommatica giuridico-penale, Napoli, 1994, 57 nt. 40, che « un buon esempio di [...] ‘‘delirio legislativo’’ è l’affermazione che i subordinati non realizzano ‘‘azioni’’ in caso di ordine vincolante ». (129) Cfr. Un Doc.A/CONF.183/C.1/WG.GP/L.9/Rev.1, 25.6.1998; Proposal submitted by United States of America Doc.A/CONF.183/C.1/WG.GP/L.2, 16 giugno 1998 (article 32). (130) IT-96-22t-T on 29 November 1996 by Trial Chamber I of Former Yugoslavia Tribunal, in J.R.W.D. JONES, The Practice of the International Criminal Tribunals for the former Yugoslavia and for Rwanda, Irvington-on-Hudson, NY, 1997, 51. (131) I Leading-cases ai processi di Leipzig erano Dover Castle and Llandovery Castle; cfr. C. MULLINS, The Leipzig Trials, (1921), 99-107, 107-133, 198, 221-222. (132) Y. DINSTEIN, The Defence of ‘‘Obedience to Superior Orders’’ in International Law, cit., 19. (133) First Geneva Convention, art. 49; Second Geneva Convention, art. 50; Third Geneva Convention, art. 129; Fourth Geneva Convention, art. 146; Former Yugoslavia Statute, art. 7 (1) e (3); Rwanda Statute, art. 6 (1) e (3).
— 263 — controllo sull’operato dei subordinati, come dovere funzionale); b) attuale conoscenza o consapevolezza della criminosità, o comunque della illegittimità dell’ordine (Yamashita Case (134) e Medina Case (135)); c) obbligo di prevenzione e repressione del crimine. Tutto ciò può essere espresso con una clausola generale di responsabilità penale del superiore e di una disposizione speciale sull’omesso impedimento da parte del superiore di reati commessi dai subordinati. Il « Charter of the Nuremberg Tribunal » del 1945 (136) stabilì all’art. 8 che « the fact that the Defendant acted pursuant to orders of his Government or of a superior shall not free him from responsibility, but may be considered in mitigation of punishment, if the Tribunal determines that Justice so desires » (137). Più di recente nei processi per i crimini nella ex-Jugoslavia e nel Ruanda, l’ordine è stato qualificato ancora come mera causa di mitigazione della responsabilità penale (« mitigation of punishment ») (Art. 7 (4) Statute of former Yugoslavia, art. 6 (4) Statute of Rwanda). Stretti tra la scelta di considerare l’ordine del superiore un’ipotesi che non esclude la responsabilità penale (pur sottoposta a significative eccezioni) ovvero una mera causa di mitigazione della responsabilità penale, i compilatori dello Statuto hanno optato per la prima strada. Tuttavia la scelta della possibile apertura a significative eccezioni si è rivelata una pura enunciazione di principio: una ‘regola vuota’ priva di reale efficacia. In definitiva lo Statuto ha assunto una posizione apparentemente di disponibilità alla possibile esistenza di ordini che scusano, ma ha invece sostanzialmente privato le regole speciali di un risvolto pratico. Vediamone le ragioni. Il principio di base è che l’ordine del superiore, sia militare che del privato (« whether military or civilian »), non scusa. Tre le eccezioni: a) vincolatività dell’ordine (« legal obligation to obey orders »); b) ignoranza sull’illegalità dell’ordine (« the person did not know that the order was unlawful »); c) non manifesta criminosità dell’ordine (« the order was not manifestly unlawful »). Tale ultima deroga è decisiva perché al comma 2 dell’art. 33 lo Statuto precisa che l’ordine è sempre — per presunzione assoluta che non soffre della prova contraria (juris et de jure) — manifestamente criminoso in caso di genocidio e crimini contro l’umanità. Pertanto, assodato che l’ordine non scusa mai rispetto a tali crimini, gli unici per cui la Corte abbia — come visto — una giurisdizione immediata, in attesa della ratifica per i crimini di guerra e di una risoluzione sulla definizione del crimine di aggressione, l’ordine non costituisce in pratica causa di giustificazione o scusa per i crimini attualmente riconducibili alla giurisdizione della Corte, salvo ulteriori integrazioni. Rimane da chiedersi se è dato un potere discrezionale al giudice di dichiarare l’ordine come ipotesi di mitigazione della responsabilità, ancorché in assenza di una previsione espressa in tal senso, ferma restando la possibilità di considerare tale ipotesi come un fattore per la commisurazione della pena in concreto ai sensi dell’art. 78, comma 1 St. Lo Statuto fa inoltre riferimento all’ordine che promani dal Governo sicché può riguardare anche le più alte sfere dei comandi gerarchici militari o politici che però dipendano dalla superiore volontà governativa. La responsabilità dei vertici militari dovrebbe essere in ogni caso fatta derivare direttamente dall’art. 28 St. Qualche profilo problematico potrebbe infine provenire dall’utilizzazione nell’art. 33 dello Statuto del termine « unlawful » (illegittimo), rispetto alle caratteristiche dell’ordine, in luogo di « criminal » (criminoso). Non è dato di sapere se il primo termine sia più o meno esteso del secondo, onde restringerne o, all’inverso, allargarne l’ambito di rilevanza, quanto (134) In re Yamashita, 327 U. S. 1 (1945); L. JIMÉNEZ DE ASÙA, Criminales de guerra, in El Criminalista, t. VII (1948), 256-267; B. LANDRUM, The Yamashita War Crime Trial: Command Responsibility Then and Now, 149 Mil. L. Rev., 293, (1995). (135) U. S. v. Medina, 20 USCMA 403, 43 CMR (1971). (136) L. JIMÉNEZ DE ASÙA, Tratado de Derecho Penal, t. II, cit., 1013. (137) F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 256.
— 264 — piuttosto che l’illegittimità è un vizio dell’atto molto meno riconoscibile e perciò più suscettibile di errate valutazioni. L’erroneo apprezzamento sul requisito dell’illegittimità dovrebbe essere ricondotto ad un errore di diritto che — come tale — non scusa. Certo il riferimento al carattere « criminoso » dell’ordine, agganciando i termini della valutazione a parametri di tipo naturalistico, avrebbe evitato facili fraintendimenti. 13. Il disegno complessivo dello Statuto in tema di cause di esclusione della responsabilità penale risente di un difetto di equilibrato sviluppo sistematico complessivo che risale anche ad una poco ponderata analisi delle tipologie di reato cui le situazioni escludenti la responsabilità devono accedere. Infatti la ‘dipendenza’ delle previsioni dai sistemi penali nazionali — con particolare riferimento alla teoria inglese (v., ad esempio, la distinzione tra necessity by circumstances e duress) — ha comportato, da un lato, la capillare previsione di esimenti — come la difesa legittima o lo stato di necessità — che hanno invece una scarsa incidenza sulla possibilità di scriminare fatti di reato come il genocidio o i crimini contro l’umanità, dall’altro, la mancata tematizzazione di ipotesi molto più consone al tipo di circostanze che concernono i crimini internazionali. I princìpi generali che governano le giustificanti ‘classiche’ non sono infatti trasferibili pedissequamente nel contesto dei crimini internazionali. Così è impensabile che un bene come quello di tutto il genere umano o di intere comunità possa essere posto in bilanciamento con qualsiasi altro interesse giuridicamente apprezzabile che presenti un valore comparabile. Né si può affermare che il divieto di compiere stragi, eliminazioni di intere popolazioni o etnìe possa entrare in conflitto — secondo lo spirito di non contraddizione che permea l’ordinamento giuridico — con qualche altro divieto penalmente sanzionato, che invece imponga il compimento di qualunque atto punito in base agli artt. 6 o 7 St. Della ‘incoerenza logica’ tra le situazioni, astrattamente legittimanti il ricorso alle scriminanti che si basano sulla necessità di respingere un pericolo imminente, e quelle ricollegate alle fattispecie di cui agli artt. 6 e ss. St., si è già detto in precedenza. Dall’altro lato, il difetto di elaborazione di una completa classe di ipotesi giustificanti e scusanti che si fondano su una particolare condizione del soggetto ha condotto a non vagliare ipotesi che invece in questa particolare materia meritavano più ampia riconsiderazione. Ci si riferisce al difetto di previsione di una disciplina compiuta in tema di coscienza dell’illecito, senza cioè far ricorso alle regole generali dettate sull’errore; ad una specifica regolamentazione dell’errore « condizionato » o meno, che abbia cioè influito più o meno direttamente sullo specifico fatto commesso, così come al delicato problema delle scriminanti putative, completamente trascurato nell’organigramma delle defences dello Statuto. Infine per ciò che concerne la (quasi) secolare questione dell’ordine del superiore, lo Statuto, innovando rispetto alla tradizione, nel negare in via di principio che l’ipotesi costituisca causa di esclusione della responsabilità, non la tratta espressamente neanche come mera causa di mitigazione della responsabilità. Nondimeno lo Statuto prevede tre eccezioni all’inescusabilità del comportamento ordinato [art. 33, comma 1, lett. (a), (b) e (c)]. L’apparente ‘apertura’ dello Statuto svanisce però ad una più attenta analisi dell’istituto. Si è infatti già appurato come la previsione dell’ordine come defence nelle ipotesi di deroga al regime d’inescusabilità si riveli in realtà un’enunciazione di principio e nulla più, perché la scusa non è concessa, attraverso il sillogismo logico della manifesta criminosità dell’ordine desunta per presunzione assoluta, per i crimini di genocidio e contro l’umanità. Rimane pertanto confinato alle sole fattispecie dei crimini di guerra e d’aggressione, per il momento estranei alla giurisdizione della Corte in attesa di successivi adeguamenti legislativi. Al proposito forse valeva la pena — anche per una questione propriamente simbolica di asserzione di principio — escludere espressamente la scusabilità dell’ordine in ogni caso nei confronti del genocidio e dei crimini contro l’umanità. Il forte richiamo sarebbe servito in modo più palese da deterrente. Questa lettura della sfera d’incidenza delle esimenti in materia di crimini internazionali è comunque, in definitiva, dettata da una valutazione calibrata in rapporto alla specificità
— 265 — dello stesso soggetto da considerare — i reati più spregevoli ed efferati mai compiuti dal genere umano — che proprio per questo, per la loro stessa natura, non possono intrinsecamente richiamare alcuna giustificazione o scusa, se non in casi del tutto marginali. Le cause di esclusione della responsabilità nel diritto internazionale penale come quantité négligeable? A tale quesito si spera possa dare presto un’adeguata risposta una Corte internazionale penale permanente finalmente operativa (138). ENRICO MEZZETTI Ricercatore di Diritto penale nella Terza Università di Roma
(138) A. CASSESE, Reflections on International Criminal Justice, in The Modern Law Rev., 61 (1998), 1 ss. Anche per evitare quella ‘caduta di legittimità’ dei Tribunali-ad hoc, specialmente nazionali, che come ha affermato — a proposito del processo ad Eichmann svoltosi a Gerusalemme — nel suo atto di denuncia H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem: a Report on the Banality of Evil, Harmondsworth, 1994, 270, determinano che « the very monstrousness of the events (i.e. the extermination of Jews organised by Eichmann) (was) ‘‘minimized’’ before a tribunal that represent(ed) one nation only »; timori condivisi da B. BETTELHEIM, Surviving the Holocaust, London, 1986, 142-143 e da H. KELSEN, Peace through Law, Chapel Hill, 1944, 115, che sottolinea, in particolare, il netto vantaggio della giustizia internazionale penale permanente nel suo essere « uniforme ».
I MEZZI AUDIOVISIVI NEL PROCESSO PENALE TEDESCO
SOMMARIO: 1. Lo Zeugenschutzgesetz del 30 aprile 1998. — 2. I casi di trasmissione audiovisiva simultanea: a) l’esame testimoniale a distanza nel dibattimento. - 2.1. L’esame a distanza a tutela del testimone. - 2.2. L’esame a distanza come alternativa preferibile alla lettura del verbale (e come fattore di incremento delle potenzialità probatorie della fase dibattimentale). - 2.3. L’estensione dell’esame a distanza alla kommissarische Vernehmung. — 3. (Segue): b) l’esame testimoniale ‘‘separato’’ nel corso delle indagini preliminari. — 4. La registrazione audiovisiva delle deposizioni testimoniali. — 5. L’utilizzabilità in giudizio della registrazione audiovisiva delle deposizioni testimoniali. — 6. (Segue): l’esigenza di effettività delle garanzie difensive. — 7. Considerazioni conclusive.
1. Lo Zeugenschutzgesetz del 30 aprile 1998. — La progressiva riduzione dei costi e il rapido miglioramento delle performance moltiplicano le potenzialità e i campi di applicazione delle tecnologie audiovisive e telematiche (1). Il fascino che esse esercitano non è quindi per nulla ozioso; prova ne sia che lo stesso processo penale — affare serio, come si sa — trova ormai un po’ dovunque buone ragioni per subirlo e, dove più dove meno, per cedervi (2). Non fa eccezione, come si vedrà nel corso di queste note, il processo penale tede(1) Per una lucida sintesi panoramica v. CHIAVARIO, L’impatto delle nuove tecnologie tra diritti umani e interessi sociali, in Dir. pen. proc., 1996, p. 139 s. (2) Nell’ordinamento italiano v., per ciò che in questa sede soprattutto interessa, gli artt. 45-bis (sulla partecipazione a distanza dell’imputato o condannato al procedimento in camera di consiglio), 146-bis (sulla partecipazione a distanza dell’imputato al dibattimento) e 147-bis n. att. c.p.p. (sull’esame a distanza delle persone che collaborano con la giustizia e degli imputati di reato connesso). La genesi di queste disposizioni è legata alla l. 7 gennaio 1998 n. 11, che ha introdotto l’art. 45-bis (art. 1) e l’art. 146-bis (art. 2) mentre ha integralmente riformulato l’art. 147-bis (art. 3). Quest’ultimo era stato introdotto dall’art. 7, comma 2, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, modificato e integrato in sede di conversione nella l. 7 agosto 1992 n. 356. A commento, totale o parziale, e comunque in tema v., almeno, BARGIS, Udienze in teleconferenza con nuove cautele per i sottoposti all’art. 41-bis ord. penit., in Dir. pen. proc., 1998, p. 158 s.; CASSANO, Problemi e prospettive della nuova disciplina sull’assunzione della prova a distanza, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, p. 334 s.; FRIGO, Videoconferenze giudiziarie: forti limiti all’oralità e al contraddittorio, ivi, p. 381 s.; AA.VV., Nuove strategie processuali per imputati pericolosi e imputati collaboranti. Commento alla l. 7 gennaio 1998 n. 11, con sintesi dei lavori parlamentari a cura di A.A. Dalia, Milano, 1998 (in particolare i saggi consecutivi di KALB, SACCONE, DELLA MONICA, GALLI, p. 17 s.); MELCHIONDA, sub artt. 45-bis, 146-bis, 147-bis, in Commento al codice di procedura penale, coord. da Chiavario, IV Aggiorn., Torino, 1998, pp. 147-206; VOENA, L’esame a distanza, in Dir. pen. proc., 1998, p. 116 s., anche per suggestive riflessioni e riferimenti culturali sul fenomeno della ‘‘virtualità’’ nel processo. Cfr. altresì, rispetto alla previgente formulazione dell’art. 147-bis n. att. c.p.p., ALESSANDRONI, Videotestimonianza, esigenze del contraddittorio e diritto di difesa, in Cass. pen., 1997, p. 2890; MAZZA, Pubblicità e collaboratori della giustizia, in questa Rivista, 1994, p. 1521 s.
— 267 — sco. Esso si è aperto al mondo audiovisivo e telematico molto recentemente, con l’importante legge di modifica della Strafprozessordnung del 30 aprile 1998 (in vigore dal 1o dicembre successivo), intitolata alla protezione dei testimoni esaminati nel processo penale e al miglioramento della tutela della vittima del reato (3), e nota come ‘‘legge sulla tutela dei testimoni’’ (Zeugenschutzgesetz, abbr. ZschG). L’intestazione della legge indica chiaramente il terreno, battuto adesso anche in sede internazionale (4), sul quale è maturata la prospettiva del ricorso alle videotecnologie. In Germania invero si discute non da ora dei problemi relativi alla tutela dei testimoni, nell’ambito di un più ampio dibattito in cui il testimone — pur nella consapevolezza del necessario distinguo tra testimone-vittima e mero testimone — tende sempre di più a essere considerato non l’astratto destinatario di doveri pubblici ma un soggetto vivo del processo, cui riconoscere appropriate posizioni di garanzia (5). Tuttavia, se si guarda ai contenuti della legge, ci (3) Il titolo tedesco è Gesetz zum Schutz von Zeugen bei Vernehmungen im Strafverfahren und zur Verbesserung des Opferschutzes. Il testo della legge può essere consultato direttamente al seguente sito Internet: http://www.datenschutz-berlin.de/recht/de/ggebung/zeugen.htm. (4) Si veda la Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 23 novembre 1995, n. 95/C 327/04, relativa alla protezione dei testimoni nella lotta contro la criminalità organizzata, che invita gli Stati membri a predisporre diversi strumenti idonei a garantire tale protezione, anche ricorrendo, se necessario, all’uso di mezzi audiovisivi, pur nel rispetto del principio del contraddittorio quale interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Si veda altresì la successiva Raccomandazione n. (97) 13, adottata il 10 settembre 1997 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, sulla possibilità e i limiti dell’anonimato del testimone da proteggere (Il testo, con i motivi predisposti dall’apposito Comitato di esperti, è consultabile, fra l’altro, in Intimidation des témoins et droits de la défense, Strasbourg, 1998, pubblicazione ad hoc dello stesso Consiglio d’Europa). (5) Il dibattito si è evoluto gradualmente in questa direzione. Dal tema generale della tutela della vittima del reato (che ha avuto un primo riscontro legislativo nella legge sul ‘‘miglioramento della posizione dell’offeso nel procedimento penale’’ (Erste Gesetz zur Verbesserung der Stellung des Verletzen im Strafverfahren del 18 dicembre 1986, nota come Opferschutzgesetz) l’attenzione si è via via estesa anche al tema della posizione del testimone (anche vittima ma non necessariamente tale) nel processo, e in particolare a quello, sempre più avvertito, della sua protezione tanto nella sfera dei diritti della personalità quanto contro il pericolo di minacce, intimidazioni, etc. Sul piano legislativo questo punto di vista è ben evidente già nella ‘‘Legge sul contrasto del traffico illegale di stupefacenti e di altre forme di criminalità organizzata’’ (Gesetz zur Bekämpfung des illegalen Rauschgifthandels und anderer Erscheinungsformen der Organisierten Kriminalität - OrgKG) del 15 luglio 1992, che, sebbene in una prospettiva particolare, ha inteso rafforzare la protezione dei testimoni attraverso diversi accorgimenti, tra cui spicca il provvedimento (previsto nel riformulato § 68 StPO) con il quale si può disporre, a date condizioni, che il teste taccia il proprio indirizzo o anche altri dati personali. La più recente attenzione verso una visione globale del problema risulta peraltro accentuata dal sopravvenire dello Zeugenschutzgesetz del 30 aprile 1998. In particolare, lo Zeugenschutz è stato scelto quale tema della sessione penalistica del 62o Deutsche Juristentag (Brema, 22-25 settembre 1998), il che ha sollecitato un fiorire di interventi, propedeutici o susseguenti all’incontro, per i quali ha fornito una base il contributo di WEIGEND, Gutachten C für das 62. Deutschen Juristentag. In tale contesto v. GRIESBAUM, Der gefährdete Zeuge, in Neue Zeitschrift fuer Strafrecht (NStZ), 1998, p. 433 s.; JUNG, Zeugenschutz, in Goltdammer’s Archiv für Strafrecht (GA), 1998, p. 313 s. (anche per un utile inquadramento del tema nella cornice internazionale); RIESS, Zeugenschutz bei Vernehmungen im Strafverfahren, in Neue Juristische Wochenschrift (NJW), 1998, p. 3240 s.; SCHÜNEMANN, Der deutsche Strafprozess im Spannungsfeld von Zeugenschutz und materieller Wahrheit, in Strafverteidiger (StV), 1998, p. 391 s. Tra i contributi, precedenti alla legge del 1998, specificamente dedicati all’uso delle videotecnologie nell’esame testimoniale v., in chiave essenzialmente comparatistica, BOHLANDER, Der Einsatz von Videotechnologie bei der Vernehmung kindlicher Zeugen im Strafverfahren, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft (ZStW), 1995, p. 82 s.
— 268 — si accorge presto che la tematica della tutela del testimone (vittima o no), se fa da leit-Motiv e spiana la strada all’esame a distanza (Fernvernehmung), nonché ad altre rilevanti novità (6), è solo una di quelle che, direttamente o per derivazione, vi sono coinvolte. Si cercherà di porre adeguatamente in luce quanto sia vasto il raggio d’azione della ‘‘novella’’ del 30 aprile 1998 e come ne scaturiscano delicati interrogativi circa le tendenze evolutive e la fisionomia stessa del sistema nel suo complesso (7). 2. I casi di trasmissione audiovisiva simultanea: a) l’esame testimoniale a distanza nel dibattimento. — Per dare qualche ordine all’esposizione del contenuto della legge, conviene distinguere fra trasmissione audiovisiva simultanea (audio-visuelle Übertragung), di cui si dirà subito, e registrazione audiovisiva (audio-visuelle Aufzeichnung), di cui si dirà dopo. La trasmissione audiovisiva simultanea è espressamente prevista, da un lato, per l’esame testimoniale in dibattimento e, dall’altro, per l’esame testimoniale dinanzi al giudice nella fase delle indagini preliminari (Ermittlungsverfahren). Alla prima situazione ha riguardo il ‘‘nuovo’’ § 247a StPO (introdotto dall’art. 1, comma 4, ZschG), stabilendo che, a date condizioni indicate nello stesso articolo (e che da qui a poco saranno illustrate), il giudice del dibattimento possa ordinare, con provvedimento non impugnabile, che durante l’esame il testimone si trovi in un altro luogo. In tal caso — dispone la legge — la deposizione viene simultaneamente trasmessa in forma audiovisiva nell’aula d’udienza. Questa disciplina, fin troppo scarna, indica comunque in modo sufficientemente chiaro che il legislatore tedesco non ha inteso seguire in materia il c.d. Mainzer Modell. Secondo tale modello, creato dalla prassi (8), il teste è esaminato in un luogo separato (anche una stanza attigua all’aula), nel quale è lo stesso presidente del collegio a trasferirsi per condurre l’esame, affidando momentaneamente le sue funzioni in aula a un sostituto. Il presidente esaminante resta in contatto telefonico con l’aula, e precisamente con il suo sostituto, il quale gli comunica le domande che le parti intendono rivolgere al teste, mentre l’esame è simultaneamente trasmesso nell’aula stessa in forma audiovisiva. Le principali critiche rivolte al soddisfacimento in questa forma dell’esigenza di evitare al teste una (6) Tra queste spicca l’assegnazione al testimone (anche non vittima del reato) di un legale che lo assista durante l’esame, prevista dal § 68b StPO (introdotto dall’art. 1, comma 2, ZschG). Si distinguono un’assegnazione ‘‘facoltativa’’ e una ‘‘dovuta’’. Nella prima ipotesi (§ 68b, prima parte) l’assegnazione del legale può disporsi, per iniziativa del giudice e con il consenso del pubblico ministero, quando sia evidente che il testimone non è in grado di apprezzare da sé le proprie facoltà nel corso dell’esame e i suoi interessi meritevoli di tutela non possono essere garantiti altrimenti. Nella seconda ipotesi (§ 68b, seconda parte) l’assegnazione è disposta, su richiesta dello stesso testimone o del pubblico ministero, allorché, ricorrendo i presupposti già richiesti nel primo caso, l’esame abbia ad oggetto un delitto (Verbrechen) o particolari figure di reato (Vergehen) — quelle previste dai §§ 174-174c, 176, 179 commi 1-3, o dai §§ 180, 180b, 182, 225, commi 1 o 2, StGB — o un altro reato commesso professionalmente o abitualmente o da un appartenente a una banda o in altro modo organizzato. (7) Sul sistema processuale penale tedesco, a livello manualistico, v. soprattutto ROXIN, Strafverfahrensrecht, 24. Auflage, München, 1995, e (sebbene non aggiornato) PETERS, Strafprozess, 4. Auflage, Heidelberg, 1985. In lingua italiana, recentemente v. JUY-BIRMANN, Il processo penale in Germania, in AA.VV., Procedure penali d’Europa (sintesi ragionate e analisi comparatistiche, coordinate sotto la direzione di DELMAS-MARTY, edizione italiana a cura di CHIAVARIO, Padova, 1998, p. 157 s.; RUGGIERI, Introduzione al sistema processuale penale tedesco, in GALANTINI e RUGGIERI, Scritti inediti di procedura penale, Trento, 1998, p. 87 s.; SCHLÜCHTER, Compendio di procedura penale tedesca (trad. di Giuliani), 2a ed., Padova, 1998. (8) Si veda la pronuncia del Landgericht di Mainz del 26 giugno 1995, pubblicata in Neue Juristische Wochenschrift (NJW), 1996, pp. 208-209. Il Mainzer Modell è stato elaborato in relazione all’esame di testimoni minorenni vittime di reati sessuali.
— 269 — pregiudizievole comparizione nell’aula d’udienza attengono alla violazione del principio di immediatezza in senso formale (formelle Unmittelbarkeit) (9), nonché della regola secondo cui il dibattimento deve essere costantemente guidato dal presidente del collegio (10). Il § 247a, stabilendo soltanto che durante l’esame il testimone stia in un altro luogo, da dove la deposizione viene trasmessa simultaneamente in aula in forma audiovisiva, indica implicitamente che il presidente, cui spetta di interrogare il teste, resta in aula (11). Questo modulo, che nel dibattito tedesco viene denominato, per le sue ascendenze di fondo, come Englisches Modell (12), dà luogo a un vero esame a distanza (Fernvernehmung) o in videoconferenza (Video-Konferenz), il quale consente di evitare gli inconvenienti del Mainzer Modell, anche se, per altro verso, provoca una lesione del principio di immediatezza in senso materiale (materielle Unmittelbarkeit: v. § 250 StPO) (13), ponendo un filtro mediatico tra il giudice del giudizio e la prova. È tuttavia degno di nota che tra i primi commentatori della ZschG v’è chi ritiene, anche sulla scorta del tenore non del tutto inequivoco del § 247a in proposito, che il ricorso all’Englisches Modell non sia tassativamente obbligato, potendo le circostanze del singolo caso suggerire al giudice l’adozione dell’altro modulo (14). Colpisce, comunque, che la legge non fornisca alcuna esplicita indicazione circa le modalità di contesto e le garanzie dell’esame a distanza. Al riguardo quel che manca non è infatti una disciplina di dettaglio ma una disciplina senz’altro. Si ritiene tuttavia necessario quanto meno fare in modo che la trasmissione audiovisiva in aula assicuri la totale e agevole visibilità del teste (e non solo del suo volto), nonché del luogo dove egli si trova (e delle persone che vi si trovano con lui) (15). D’altra parte, quanto alla trasmissione in senso inverso — dall’aula al (luogo dove si trova il) teste — si richiede almeno il collegamento acustico (è il minimo indispensabile affinché il teste percepisca le domande rivoltegli) mentre non è affatto scontato quello visivo (16). E a quest’ultimo riguardo può ricordarsi che l’opzione del legislatore italiano è implicitamente negativa. Invero, « la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi » nonché « la possibilità di udire quanto vi viene detto » sono stabilite — e ben si comprende — per la partecipazione dell’imputato al dibattimento a distanza (art. 146-bis, comma 3, n. att. c.p.p.) ma non anche per l’esame a distanza, in ordine al quale è normativamente richiesta soltanto « la contestuale visibilità (9) In base al quale la prova deve essere assunta al cospetto dei medesimi giudici, che devono decidere secondo il proprio libero convincimento: cfr. §§ 226 e 261 StPO. (10) Cfr. § 238, comma 1, StPO. Per questi rilievi, nonché per gli sviluppi riportati nel testo v. SCHLÜCHTER-GREFF, Zeugenschutz durch das Zeugenschutzgesetz?, in Kriminalistik, 1998, p. 530. (11) A questa interpretazione induce anche il confronto con il nuovo § 168e (su cui v. infra nel testo) che, per la testimonianza davanti al giudice nel corso delle indagini preliminari, prevede espressamente un esame separato (getrennte Vernehmung); un esame, cioè, in cui l’esaminante e il testimone stanno in uno spazio diverso da quello in cui si trovano il pubblico ministero, l’indagato e il difensore legittimati ad assistere all’atto. (12) Cfr. BOHLANDER, Der Einsatz von Videotechnologie, cit., p. 88 s. (13) Sul principio di immediatezza, visto nei suoi due profili, formale e materiale, v., anche per ampi riferimenti bibliografici, ROXIN, Strafverfahrensrecht, cit., p. 369 s.; PETERS, Strafprozess, cit., p. 317 s. Si noti che negli assetti dell’ordinamento processuale penale tedesco lo stesso principio di immediatezza va coordinato con il dovere del giudice del giudizio di assumere dinanzi a sé anche d’ufficio ogni prova ritenuta utile per la decisione (richterliche Aufklärungspflicht: § 244, comma 2, StPO); dovere, questo, che è espressione, nel dibattimento, del più generale principio processuale della ricerca della verità materiale (Ermittlungsgrundsatz). (14) V. SCHÜNEMANN, Der deutsche Strafprozess, cit., p. 399. (15) V., fra gli altri, RIESS, Zeugenschutz, cit., p. 3242; SCHLOTHAUER, Video-Vernehmung und Zeugenschutz, in Strafverteidiger (StV), 1999, p. 50. (16) In tema cfr. EISENBERG, Beweisrecht der StPO. Spezialkommentar, 3. Auflage, München, 1999, p. 464.
— 270 — delle persone presenti nel luogo dove la persona sottoposta ad esame si trova » (cfr. art. 147bis, comma 2, n. att. c.p.p.). 2.1. L’esame a distanza a tutela del testimone. — La possibilità dell’esame a distanza è prevista dal § 247a, comma 1, StPO in primo luogo per l’ipotesi in cui rischi di essere gravemente pregiudicato l’interesse (das Wohl) del testimone, se egli venga esaminato in presenza dei partecipanti al dibattimento, e che il pericolo non possa essere altrimenti evitato, segnatamente attraverso l’allontanamento dell’imputato o l’esclusione della pubblicità. Se si astrae da quest’ultima condizione (non evitabilità altrimenti del pericolo), almeno in via di principio rigorosa, per il resto i presupposti soggettivi e oggettivi normativamente stabiliti sono i più ampi. Infatti, l’esame a distanza non è circoscritto a processi per specifiche fattispecie delittuose, né a particolari categorie di testimoni. In prima fila certo si pongono i testimoni minorenni e, in generale, vittime del reato nonché, sotto altro aspetto, i testimoni a carico, particolarmente esposti a intimidazioni o minacce nei processi di criminalità organizzata, tanto più se collaboranti o coimputati o imputati in un procedimento ‘‘connesso’’ (17); ma la protezione riguarda anche le persone anziane, di salute precaria o malate, ove vi sia ragione di temere che la comparizione e la deposizione in dibattimento possa seriamente nuocere loro. Quel che importa è appunto che ricorra il serio pericolo di un grave pregiudizio per l’interesse del testimone, inteso tanto sotto l’aspetto fisico quanto sotto quello psichico e spirituale, mentre non vengono in considerazione, almeno come oggetto di tutela immediata, altri profili, come quello relativo al rischio di non genuinità della deposizione (che pure può giustificare, a norma del § 247, comma 1, StPO, l’allontanamento dell’imputato dall’aula durante l’esame del testimone) (18). L’ottica, quindi, resta sempre quella, pur variegata, della tutela del testimone. E in quest’ambito, prima di riconoscere che il rischio di un suo pregiudizio legato alla deposizione in dibattimento richiede di essere fronteggiato attraverso l’esame a distanza, occorre accertare, come si è già accennato, che esso non possa essere evitato altrimenti: in particolare — ma non solo, essendo l’indicazione chiaramente esemplificativa (19) — attraverso l’allontanamento dell’imputato o l’esclusione della pubblicità dibattimentale. Il secondo dei due accorgimenti (possibilità di escludere la pubblicità) ha base normativa in distinte disposizioni dell’Ordinamento giudiziario (Gerichtsverfassungsgesetz), rispettivamente poste a tutela (peraltro apprestata non soltanto a favore dei testimoni) della sfera dei diritti della persona (§ 171b (20) ); a protezione (anche in questo caso non limitata ai te(17) Nel processo penale tedesco nessuna di queste figure — a differenza che nel processo penale italiano — resta di per sé fuori dell’orbita dei fondamentali doveri testimoniali. Come accuratamente illustrato da ORLANDI, Coimputato e imputato di reato connesso nel processo germanico, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, p. 299 s., nell’ordinamento tedesco il fenomeno della connessione processuale è assai limitato (riducendosi ai casi di concorso nel reato, di favoreggiamento personale o reale e di ricettazione) e coincide del tutto con quello della coimputazione. Per di più, al coimputato (così strettamente inteso) che sia giudicato separatamente (dunque all’imputato in un procedimento connesso e separato) è riservata, nel processo a carico del coimputato, la posizione di testimone (sebbene con alcune peculiarità: per es. è escluso il giuramento). Egli ha l’obbligo di rispondere e di rispondere secondo verità, fin dove ciò non esponga lui o i prossimi congiunti a conseguenze sanzionatorie, non solo penali. Tale è l’orientamento prevalente della giurisprudenza, il quale peraltro — illustra ancora ORLANDI — trova ormai nella dottrina una molteplicità di voci dissenzienti, propense ad estendere anche a tale soggetto l’incompatibilità a testimoniare al fine di meglio garantire il ‘‘diritto a non autoaccusarsi’’. (18) Per queste affermazioni v. DIEMER, sub § 247a, in Karlsruher Kommentar zur Strafprozessordnung und zum Gerichtsverfassungsgesetz mit Einführungsgesetz, 4. Auflage, Muenchen, 1999, p. 1267 s. (19) V., per altre forme di tutela del testimone, DIEMER, sub § 247a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1269. (20) Introdotto dalla Opferschutsgesetz del 1986.
— 271 — sti) contro le minacce alla vita, integrità personale e libertà (§ 172, n. 1a (21) ); nonché in vista dell’esame dei minori dei sedici anni (§ 172, n. 4) (22). Ma è invero il primo accorgimento — l’allontanamento dell’imputato — ad attrarre di più l’attenzione. La sua base normativa si trova nel § 247, comma 2, StPO, il quale prevede (23) due distinte ipotesi in cui, a tutela del testimone, il giudice può disporre l’allontanamento dell’imputato. La prima riguarda il testimone minore dei sedici anni e si verifica quando vi sia motivo di temere che dall’esame di fronte all’imputato possa derivargli un rilevante pregiudizio. La seconda riguarda, invece, ogni testimone (vittima o no) e si verifica se ricorre il pericolo attuale che, dall’esame di fronte all’imputato, possa derivargli un grave pregiudizio alla salute (Gesundheit) (24). L’allontanamento, togliendo all’imputato la possibilità di assistere all’esame del testimone e di confrontarsi con lui (25), realizza una notevole compressione del diritto di difesa, difficilmente compatibile con l’art. 6, lett. d) C.e.d.u. Nondimeno, poiché secondo il § 247a esso deve essere preferito, fin dove possibile, all’esame a distanza (concepito, quindi, come extrema ratio), resta fissato un ordine di priorità che, a volerlo esprimere in termini di valori processuali messi in gioco dall’esigenza di tutela del testimone, può essere così rappresentato: 1) chiara preferenza per l’immediatezza dell’esame — intesa come garanzia di migliore accertamento della verità — anche a fronte di un netto sacrificio dei diritti dell’imputato, conseguente al suo all’allontanamento dall’aula, se tanto basti a garantire il testimone; 2) sacrificio dell’immediatezza processuale, compromessa dall’esame a distanza, con recupero, tuttavia, della presenza dell’imputato in aula, soltanto se ciò sia indispensabile per la tutela del testimone (26). Pur senza qui discutere l’opzione su cui si fonda, quest’ordine di priorità appare tuttavia fissato in modo troppo rigido, con la conseguenza che, in termini di effettività, è lo stesso rapporto tra i §§ 247 e 247a a uscirne meno ‘‘limpido’’ di quanto il puro dato testuale lascerebbe credere. Si prospetta, infatti, la possibilità di una interazione variabile tra le due norme, foriera di soluzioni ‘‘eclettiche’’. Così, se per la priorità che spetta all’immediatezza dell’esame, l’allontanamento dell’imputato deve essere preferito all’esame in videoconferenza, il sacrificio per l’imputato potrebbe essere temperato (almeno in una parte considerevole dei casi (27) ) ammettendo che l’esame gli sia trasmesso fuori dell’aula audiovisivamente mediante uno schermo. D’altra parte, quando sia disposto l’esame a distanza e vi siano forti esigenze di protezione del testimone (a causa di intimidazioni, minacce, etc.), l’imputato — si sostiene — potrebbe essere comunque allontanato dall’aula, applicando così il § 247, comma 2 ad integrazione del § 247a (28). (21) Introdotto dall’art. 4 della già citata legge di contrasto della criminalità organizzata del 1992 (OrgKG). (22) Cfr. nel nostro ordinamento i commi 2, 3, 3-bis e 4 dell’art. 472 c.p.p. (23) Si tratta della versione risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1, n. 3 della Opferschutzgesetz del 1986. (24) Anche questo termine (Gesundheit) è da intendere in senso comprensivo della sfera non solo fisica ma anche psichica e spirituale; il che contribuisce ad accenture il margine di apprezzamento della decisione del giudice. È da notare che l’intero § 247 è dedicato all’allontanamento dell’imputato dall’aula. Gli altri due casi riguardano, l’uno, come si è già accennato nel testo, l’interesse alla genuinità della deposizione del testimone (comma 1); l’altro, la tutela della persona dell’imputato stesso, rappresentata ancora con il termine Gesundheit (comma 3). (25) A norma del § 247, comma 4 residua soltanto il dovere del presidente, una volta riammesso l’imputato in aula, di renderlo edotto in termini sostanziali di ciò che è stato detto e fatto in sua assenza. (26) V. SCHLÜCHTER-GREFF, Zeugenschutz, cit., p. 532. (27) Ci si vuol riferire all’eventualità che il pregiudizio per il testimone derivi — come può ben essere per la vittima del reato — dalla presenza fisica dell’imputato o comunque dalla visione anche per immagine di lui. (28) Cfr. SCHLÜCHTER-GREFF, cit., loc. ult. cit.; DIEMER, sub § 247a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1269.
— 272 — La stessa prospettazione di queste soluzioni praeter legem è indice di una certa ambiguità della disciplina normativa, inidonea in se stessa a realizzare un equilibrio soddisfacente degli interessi coinvolti, nel quadro di un’accettazione che possa dirsi magari comprensibilmente prudente ma anche non ‘‘impacciata’’ del mezzo audiovisivo-telematico. Si giunge così a cogliere anche qualche paradosso nei rapporti tra i §§ 247 e 247a. Come quello, evidenziato dalla seconda posizione ‘‘eclettica’’, per il quale un mezzo di tutela considerato estremo, cioè l’esame a distanza, non sempre è anche il più efficace (come farebbe pensare questa sua posizione), potendo essere utilmente integrato dal meno estremo mezzo dell’allontanamento dell’imputato. Il che revoca quanto meno in dubbio la plausibilità dell’ordine legislativo delle priorità, dato che l’allontanamento dell’imputato — se si è disposti a tollerare il sacrificio che ne deriva per quest’ultimo — protegge il teste intimidito o minacciato meglio che l’esame a distanza ma in presenza dell’imputato in aula. Al di là delle incongruenze che denuncia, l’ipotesi di un’applicazione del § 247, comma 2 sovrapposta a quella del § 247a (cioè l’ipotesi di un esame a distanza mentre l’imputato è allontanato dall’aula e privo di collegamento audiovisivo) costituisce comunque un tentativo di risposta, per quanto la più discutibile, a un problema generale, vale a dire non esclusivo del contesto germanico, anche se vi è molto avvertito. Si osserva infatti che l’esame a distanza, se appresta una tutela più adeguata dell’innanzi soprattutto ai testimoni minorenni o vittime del reato (risparmiando loro l’esperienza traumatica della deposizione in dibattimento), non ne fornisce una altrettanto efficace, tanto più nei processi di criminalità organizzata, al testimone che corra il serio rischio di intimidazione o minaccia. L’esame a distanza in questi casi non rafforza significativamente la tutela del testimone, il quale, pure se in forma mediata, rimane visibile all’imputato e ben legittimamente, dato che la Suprema Corte federale tedesca (Bundesgerichtshof), nonostante il diverso avviso di una parte della giurisprudenza di merito, a tutt’oggi non ammette durante l’esame ‘‘schermaggi’’ dell’immagine o alterazioni della voce (29). Si ritiene pertanto che, almeno in questa direzione, la legge del 30 aprile 1998 abbia tradito la promessa espressa nel suo titolo. Il problema si pone, del resto, in termini non molto diversi nel ‘‘modello’’ italiano di esame a distanza, desumibile dall’art. 147-bis, n. att. c.p.p., secondo il quale il soggetto esaminato a distanza, se si esclude l’ipotesi in cui nei suoi confronti sia stato emesso decreto di cambiamento delle generalità (comma 3, lett. b) ), è sempre compiutamente visibile dall’aula d’udienza. Il che — viene puntualmente osservato (30) — mal si concilia con il comma 1 dello stesso articolo, laddove, quanto all’esame in aula delle persone ‘‘protette’’ (31), si prevede la possibilità di (29) Cfr. Bundesgerichtshof, in Entscheidungen des Bundesgerichtshofs in Strafsachen, 32, p. 115 s. Per l’orientamento che ammette il ricorso a questi accorgimenti v. DIEMER, sub § 247a, in Karlsruher Kommentar, cit., pp. 1270-1271. Si può qui ricordare come la posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo circa la compatibilità dei testimoni ‘‘anonimi’’ (cioè, in tutto o in parte ‘‘celati’’ alle parti) con le garanzie del ‘‘giusto processo’’ (sotto il profilo del contraddittorio ex art. 6, lett. d) C.e.d.u.), sia tutt’altro che aprioristicamente negativa. Cfr., nella dottrina italiana, i ragguagli di SELVAGGI, Il difficile bilanciamento tra esigenze di difesa della società e diritti della difesa. Il teste anonimo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1996, p. 2419 s.; UBERTIS, Diritto alla prova nel processo penale e Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. proc., 1994, p. 499 s.; VOENA, L’esame a distanza, cit., p. 123; VOGLIOTTI, La logica floute della Corte europea dei diritti dell’uomo tra tutela del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle ‘‘testimonianze anonime’’, in Giur. it., 1998, p. 851 s. Fra le più significative decisioni della Corte europea aperte alla possibilità che, a protezione di suoi beni essenziali (vita, libertà, sicurezza), il teste rimanga anonimo si segnala la sentenza Doorson c. Paesi Bassi del 26 marzo 1996 (v. in Legisl. pen., 1997, p. 220). (30) BARGIS, Udienze in teleconferenza, cit., p. 174. (31) Più precisamente, si tratta delle « persone ammesse, in base alla legge, a programmi o misure di protezione anche di tipo urgente o provvisorio » (art. 147-bis, comma 1, n. att. c.p.p.).
— 273 — adottare « le cautele necessarie alla tutela della persona sottoposta all’esame », che possono implicare l’uso di paratie o di coperture ad opera degli stessi agenti di scorta, tali che la figura del dichiarante, benché visibile al giudice, rimanga celata alle parti. 2.2. L’esame a distanza come alternativa preferibile alla lettura del verbale (e come fattore di incremento delle potenzialità probatorie della fase dibattimentale). — L’esame a distanza è poi legislativamente consentito, dallo stesso § 247a, comma 1, sec. prop., in ipotesi che si raccolgono attorno a una diversa finalità, in sé indifferente rispetto a quella della tutela del testimone. Il comma 1, sec. prop. del § 247a dispone infatti che l’ordinanza la quale autorizza il testimone a rimanere in un altro luogo durante l’esame può essere emanata dal giudice anche quando ricorrono i presupposti del § 251, comma 1, nn. 2, 3 o 4, se ciò è necessario per l’accertamento della verità. Le disposizioni richiamate si riferiscono ad alcune situazioni di difficoltà ad ottenere la comparizione in dibattimento del testimone, perito o coimputato (nonché ad una situazione in cui è l’accordo tra le parti a costituire la premessa per evitare la comparizione: § 251, comma 1, n. 4) che lo stesso § 251, comma 1 fronteggia prevedendo, in deroga al principio di immediatezza (§ 250), che l’esame possa essere sostituito dalla lettura del verbale di un esame anteriormente reso dinanzi al giudice (32). Si tratta, più precisamente, dell’eventualità che alla comparizione del testimone si oppongano, per un tempo lungo o indeterminato, malattia, salute precaria o altri ostacoli non eliminabili (§ 251, comma 1, n. 2); che dal teste non si possa pretendere la comparizione in dibattimento, a causa della sua notevole lontananza, avuto riguardo all’importanza delle sue dichiarazioni (§ 251, comma 1, n. 3); che il pubblico ministero, il difensore e l’imputato siano d’accordo (§ 251, comma 1, n. 4). Il richiamo contenuto nel § 247a, comma 1, sec. prop. viene allora a significare che, nelle predette situazioni, nelle quali sarebbe già consentita la lettura, si possa disporre l’esame a distanza del testimone (33), quando ciò sia richiesto per l’accertamento della verità. In questo contesto funzionale l’esame a distanza tende a soddisfare il canone della miglior prova possibile (bestmöglicher Beweis): per un verso, si offre all’uso processuale come esperienza probatoria preferibile alla mera lettura di un verbale, quando di questo si disponga, tanto nell’ottica del convincimento giudiziale quanto in quella dell’interesse della difesa alla percezione ‘‘viva’’ della deposizione e all’effettività del diritto di ‘‘confrontarsi’’ con il testimone (34); per altro verso, amplia di per sé le potenzialità probatorie della fase dibattimentale consentendo, anche quando non si disponga di un verbale da leggere, di fronteggiare le difficoltà di comparizione del teste offrendo un accettabile ‘‘surrogato’’ dell’esame in aula. Complessivamente, l’esame a distanza si presenta quindi, in questa veste, come una soluzione di compromesso al conflitto tra esigenze di speditezza processuale, dovere di accertamento e interessi della difesa. E a questo riguardo va notato che una figura teleologicamente analoga si riscontra anche nel ‘‘modello’’ italiano (sebbene vi occupi una posizione non certo eminente e anzi, almeno in apparenza, residuale). Ci si riferisce alla possibilità di ordinare, peraltro a richiesta di parte, l’assunzione a distanza (non solo « per l’esame della persona di cui sia stata disposta la nuova assunzione a norma dell’art. 495, comma 1, del codice » ma anche) « quando vi siano gravi difficoltà ad assicurare la comparizione della persona da sottoporre ad esame » (art. 147-bis, comma 5, n. att. c.p.p.). (32) Anteriormente al dibattimento la testimonianza dinanzi al giudice è essenzialmente ammessa nel corso delle indagini preliminari (Ermittlungsverfahren), a norma del § 168c, nonché nella fase preparatoria del dibattimento (Vorbereitung der Hauptverhandlung), ex § 223 (Kommissarische Vernehmung). (33) Non anche del perito o coimputato (richiamati dal § 251, comma 1 ma non dal § 247a); a meno che, limitatamente al coimputato, quest’ultimo (essendo in realtà imputato in un procedimento connesso) non debba assumere, nel processo di cui si tratta, la qualità di testimone. (34) Sono in gioco, per l’imputato, la garanzia costituzionale del rechtliches Gehör (art. 103, comma 1, GG) nonché il Konfrontationsrecht, inteso in senso comprensivo del diritto di porre domande (Fragerecht), sancito dall’art. 6, lett. d) C.e.d.u.
— 274 — Ritornando al contesto tedesco, in concreto sarà frequente che, essendo stata acquisita dal testimone una deposizione giudiziale nella fase processuale anteriore, agli atti si trovi il relativo verbale. In tal caso nella scelta tra la mera lettura del verbale e il ricorso all’esame a distanza del testimone il giudice non trova guida diversa dalla clausola che indica la via dell’esame a distanza se ciò sia richiesto dalle esigenze dell’accertamento (35); esigenze che, infatti, soltanto in questa cifra si antepongono a quelle di speditezza, certo meglio soddisfatte dalla lettura. Può però anche verificarsi che non si disponga, agli atti, del verbale di una precedente deposizione giudiziale. In tal caso l’esame a distanza costituisce uno strumento idoneo a fronteggiare le difficoltà di assunzione della prova senza ripiegare su soluzioni ancor meno appaganti (come, per es., l’assunzione di un teste indiretto (36) ). In questa funzione di recupero di una sorta di ‘‘immediatezza mediata’’ (l’ossimoro rende bene l’idea) e comunque di incremento delle potenzialità probatorie della fase dibattimentale, il mezzo audiovisivo-telematico mostra un altro suo volto e, in definitiva, la sua versatilità. Non è dubbio che esso istituisce pur sempre una mediazione tra i ‘‘poli’’ che mette in contestuale contatto audiovisivo — e non a caso in Germania, con lodevole chiarezza, ogni esame condotto in videoconferenza viene dogmaticamente definito quale un surrogato (Ersatz), al pari della lettura dei verbali, dell’esame condotto nell’immediatezza processuale. Ma il giudizio dipende dai punti di partenza. Se la deroga all’immediatezza, derivante dall’esame a distanza (con i relativi disagi per una tutela ideale delle prerogative della difesa), avviene, a garanzia del testimone, quando altrimenti quel bene sarebbe a portata di mano, si può rimanere cauti e, sotto certi aspetti, persino dubbiosi. Se invece la stessa deroga serve a evitarne un’altra più grave (conseguente alla mera lettura di un verbale (37), in casi in cui sarebbe quanto mai opportuno sentire direttamente il teste), possono residuare poche perplessità. Che semmai — ove l’esame a distanza finisse via via per perdere il suo nesso con l’esigenza di prevenire la lettura o il ricorso ad altri ‘‘surrogati’’ (38) — rimarrebbero eventualmente legate alla prospettiva che esso, tecnologicamente sempre più perfezionato, diventi una forma di assunzione della prova testimoniale di fatto alternativa a quella in praesentia, adottabile non appena se ne ravvisi, con valutazione elastica, la sua maggiore ‘‘comodità’’ per il teste e per l’andamento del giudizio. Questa prospettiva non è affatto irrealistica ma si connette più da vicino con la distinta tendenza alla dilatazione del fenomeno, che indurrebbe a riflettere più propriamente sulle tematiche del ‘‘teleprocesso’’. Occorre qui aggiungere che — come dispone, nella sua ultima parte, il § 247a — la deposizione mediante esame audiovisivo a distanza deve essere registrata ove vi sia da temere che il testimone non potrà essere esaminato in un successivo dibattimento e la registrazione sia necessaria per l’accertamento della verità. La prescrizione — che ribadisce il deciso favor legislativo nei confronti di questa forma di documentazione attestato in generale dal ‘‘nuovo’’ § 58a, di cui si dirà più avanti (39) — prelude all’utilizzazione dell’esame a distanza registrato non solo nel giudizio d’appello (Berufung) o di rinvio a seguito di annullamento da (35) In questo contesto non dovrebbe ritenersi estranea a tali esigenze la considerazione dell’interesse della difesa al contraddittorio. (36) Cfr. DIEMER, sub § 247a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1270. (37) Ma, come si vedrà oltre, si può trattare, più suggestivamente, anche della riproduzione in dibattimento di un precedente esame testimoniale videoregistrato. Questa possibilità è data dal § 255a StPO, introdotto proprio dalla legge in commento. (38) In questa direzione andrebbe, per es., una prassi che promuovesse il ricorso diffuso al § 247a, comma 1, sec. prop., attraverso una interpretazione largheggiante dei presupposti del § 251, comma 1, nn. 2 e 3, nel caso in cui non si disponesse di un verbale da leggere né di altri ‘‘surrogati’’ (talché si tratterebbe o di ottenere comunque l’esame in aula o di rinunciarvi). (39) Va qui segnalato che il § 247a richiama, alla fine, il comma 2 del § 58a, dichiarandolo espressamente applicabile. Su tale disposizione v. infra nel testo.
— 275 — parte del giudice di legittimità (Zurückverweisung der Sache durch das Revisionsgericht), ma anche in un distinto dibattimento a carico di un concorrente nel reato (40). 2.3. L’estensione dell’esame a distanza alla kommissarische Vernehmung. — È opinione diffusa che l’esame a distanza possa aver luogo, benché ciò non sia stato espressamente previsto, anche nella fase preparatoria del dibattimento, in occasione della c.d. kommissarische Vernehmung, regolata dai §§ 223 e 224 StPO. Si tratta dell’esame del testimone (o del perito) che si svolge in ‘‘camera di consiglio’’ dinanzi a un giudice delegato o appositamente richiesto dal giudice collegiale (41), nel contraddittorio delle parti, a fini di anticipazione in via di urgenza e di conservazione in verbale di deposizioni di cui appaia difficoltosa l’assunzione in dibattimento. I presupposti della kommissarische Vernehmung coincidono quasi alla lettera con quelli, già visti, di cui ai nn. 2 e 3 del § 251, comma 1 (essendo costituiti dal frapporsi alla comparizione in dibattimento per un tempo lungo o indeterminato, di malattia, salute precaria o altro ostacolo non eliminabile (§ 223, comma 1), o dalla non esigibilità dal teste della comparizione in dibattimento a causa della sua notevole lontananza (§ 223, comma 2) ). E ben si capisce, dato che la kommissarische Vernehmung, sul presupposto che l’ostacolo perduri, mira e prelude a una lettura del relativo verbale in dibattimento resa possibile, appunto, dal § 251, comma 1, StPO (42). L’estensione alla kommissarische Vernehmung della possibilità di assumere la deposizione nella forma dell’esame a distanza ha senso in quanto, allorché ricorra un ostacolo alla comparizione del teste che è prevedibile sia destinato a persistere nel dibattimento, essa consente di assumere la prova ‘‘urgente’’, o comunque da anticipare, in un modo meno difficoltoso (43). D’altra parte lo Zeugenschutzgesetz apporta, nel tradizionale nesso (precostituzione della prova — successiva lettura del verbale) tra questo istituto e il dibattimento, un aggiornamento ‘‘tecnologico’’ — la videoregistrazione idonea anche all’uso dibattimentale — che si realizza, forse con ancor maggiore naturalezza, quando la kommissarische Vernehmung si sia svolta a distanza. Pure in questo caso infatti (oltre che in quello in cui l’esame ex § 223 avvenga in praesentia) le previsioni del ‘‘nuovo’’ § 58a StPO, di cui si dirà oltre, autorizzano, quando non impongono, una registrazione audiovisiva che sarà acquisibile in giudizio, mediante riproduzione, in base all’altrettanto ‘‘nuovo’’ § 255a StPO (del quale parimenti si dirà oltre). Così in dibattimento, pur non potendo in linea di principio escludersi l’ipotesi di un esame diretto del teste (se l’impedimento alla comparizione fosse venuto meno), o di un esame a distanza (se esso sia possibile e appaia necessario per le esigenze dell’accerta(40) Cfr. DIEMER, sub § 247a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1272. (41) La rubrica del § 223 si intitola appunto Zeugenvernehmung durch beauftragten oder ersuchten Richter. Il rapporto di delega (conferita a un membro dello stesso ufficio giudicante) come pure l’incarico per l’assunzione della prova, evidenziano la risalenza del potere istruttorio al giudice del giudizio (al quale peraltro non sarebbe consentito assumere la prova nella sua composizione completa). (42) Di cui saranno peraltro applicabili, anche alla lettura di un verbale ‘‘commissariale’’, tutte le previsioni del § 251, comma 1, e non solo quelle dei nn. 2 e 3. (43) È controversa la possibilità di disporre la kommissarische Vernehmung direttamente a fini di tutela del teste minacciato o vittima del reato — onde evitargli la comparizione in dibattimento. Al riguardo per diversi orientamenti v. EISENBERG, Beweisrecht, cit., p. 840; nonché TOLKSDORF, sub § 223, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1097, anche per una sintesi del dibattito circa il ricorso a questo istituto per la deposizione degli ‘‘informatori anonimi’’ (c.d. Verdeckte-Leute, V-L, o Verdeckte Personen, V-P — le denominazioni variano — nei processi di criminalità organizzata). Va notato inoltre che anche nella kommissarische Vernehmung è consentito disporre l’allontanamento dell’imputato in base al § 247. Un ostacolo non evitabile ex § 223, comma 1 è poi concordemente ravvisato nel prevedibile diniego da parte dei genitori del consenso alla comparizione in dibattimento del testimone minorenne.
— 276 — mento (44) ), la scelta più naturale e frequente sarà quella di acquisire la videoregistrazione relativa all’‘‘esame commissariale’’. 3. (Segue): b) l’esame testimoniale ‘‘separato’’ nel corso delle indagini preliminari. — La seconda occasione processuale per la quale si prevede il ricorso alla trasmissione audiovisiva simultanea è data, come si diceva poc’anzi, dall’esame del testimone durante le indagini preliminari (Ermittlungsverfahren) dinanzi al giudice che interviene in questa fase (Ermittlungsrichter), a norma del § 168c, comma 2 s., StPO. Si tratta di un atto che si svolge normalmente in presenza del pubblico ministero, dell’indagato e del difensore, i quali sono legittimati ad assistervi (§ 168c, comma 2). Il § 168e StPO (introdotto dall’art. 1, comma 3, ZschG) è quindi in grado di far calare un diaframma mediatico su questa scena. Il presupposto — analogamente a quanto stabilito per l’esame a distanza nel dibattimento — è che ricorra il pericolo attuale di un grave pregiudizio per il testimone, ove egli sia esaminato al cospetto delle persone legittimate ad assistere all’atto, e che esso non sia altrimenti evitabile. Vale pertanto anche a questo proposito il rilievo che, se l’oggetto della tutela è costituito dalla persona del testimone (45), d’altra parte la gamma dei testimoni suscettibili di protezione è la più ampia. Ricorrendo tale presupposto, il giudice deve (46) assumere l’esame separatamente, vale a dire, in uno spazio che sia separato da quello che ospita le persone legittimate ad assistere all’atto. In altri termini, il giudice e l’esaminando rimarranno insieme nel luogo dell’esame (verosimilmente la ‘‘camera di consiglio’’) mentre gli altri soggetti coinvolti (pubblico ministero, indagato e difensore) staranno altrove (magari in una stanza attigua o vicina (47) ), nella quale — come prosegue il § 168e, sec. prop. — l’esame sarà simultaneamente trasmesso in forma audiovisiva (48). Nulla si dispone espressamente circa il collegamento inverso, circa cioè la possibilità che l’‘‘l’altro luogo’’ sia audiovisivamente percepibile dal luogo dell’esame. Il § 168e terza prop. aggiunge tuttavia che rimangono per il resto impregiudicate le facoltà di partecipazione delle persone legittimate ad assistere all’atto. E poiché tra queste facoltà si ritiene che rientri, perché intimamente connessa con il diritto di assistere, quella di porre domande al teste (Fragerecht) (49), è plausibile la conclusione che an(44) Cfr. §§ 247a, sec. prop. e 251, comma 1, nn. 2, 3 e 4. (45) La genuinità delle dichiarazioni e l’interesse delle indagini sono considerati, invece, nel § 168 c, comma 3, che prevede la possibilità, appunto in vista di queste esigenze, di escludere la presenza dell’indagato all’esame. (46) Per quanto il dovere del giudice scatti a seguito di un apprezzamento dei presupposti largamente affidato alla sua discrezionalità, esso costituisce una situazione giuridica soggettiva comunque diversa da quella del § 247a, laddove il ricorrere delle condizioni per l’esame a distanza legittima ma non vincola il giudice del dibattimento a disporlo. (47) V., per tutti, SCHLÜCHTER-GREFF, Zeugenschutz, cit., pp. 533-534. (48) Nell’ordinamento italiano, la possibilità di seguire una procedura analoga si profila secondo una certa esegesi dell’art. 398, comma 5-bis, c.p.p., per la quale v. VIGNA, sub art. 398, in Commento al codice di procedura penale, coord. da Chiavario, cit., III Aggiorn., Torino, 1998, pp. 495-496. Si ritiene cioè che, ove occorra assumere con incidente probatorio le dichiarazioni di un minore di sedici anni nel corso di indagini per uno dei delitti sessuali indicati in esordio dello stesso comma 5-bis dell’art. 398 c.p.p., tra le « modalità particolari » che la norma consente al giudice di disporre « quando le esigenze del minore lo rendono necessario od opportuno », potrebbe anche annoverarsi, oltre all’utilizzazione di schermi, anche l’impiego di sistemi di collegamento audiovisivo tra il luogo in cui si troverebbe il minore con il giudice e quello in cui sarebbero le altre persone che partecipano all’atto. La norma, fra l’altro, prevede espressamente che, se del caso, l’udienza possa svolgersi anche in luogo diverso dal tribunale o presso l’abitazione dello stesso minore. (49) Cfr. WACHE, sub § 168c, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 997.
— 277 — che dall’‘‘altro luogo’’ a quello dell’esame un collegamento diretto, quantomeno acustico, dovrebbe essere istituito (50). Anche l’esame assunto in forma separata è suscettibile di registrazione audiovisiva (51), ed è ben possibile che quest’ultima venga acquisita, mediante riproduzione, in dibattimento, in base al comma 1 del ‘‘nuovo’’ § 255a StPO (52). 4. La registrazione audiovisiva delle deposizioni testimoniali. — Anche se nella vetrina delle novità il primo piano le è conteso, se non sottratto, dall’esame a distanza (e in parte dall’esame ‘‘separato’’ ex § 168e), la videoregistrazione delle dichiarazioni testimoniali, prevista dal già più volte richiamato § 58a StPO (53) è, da un certo, delicato punto di vista, innovazione ardita e di notevole senso. Essa, a differenza del mezzo telematico, non crea né spazi né contesti virtuali: non espone a quel particolare pericolo di estraneamento (Verfremdungsgefahr) che si teme a proposito dell’esame a distanza e di un futuribile processo telematico. È scontato che la videoregistrazione non fa che documentare qualcosa che è già avvenuto: l’unità di spazio e tempo è mantenuta. Ma proprio in ciò si annidano le insidie del mezzo. Pur svolgendo di per sé nel processo una funzione che vi è tradizionale, esso l’assolve in un modo così attraente e appetibile (grazie alle potenzialità audiovisive che il verbale scritto ovviamente non possiede) da indurre a far apparire come riduttivo, troppo stretto, il ruolo sempre ‘‘di riserva’’ che nel processo spetta, pur quando ad essa occorra fare ricorso, alla memoria di atti probatori compiuti prima e altrove (54) (finora affidata al verbale) rispetto al costituirsi di un’esperienza probatoria attuale. La ‘‘fedeltà’’ del mezzo di riproduzione audiovisiva stimola la tracimazione della memoria di un’esperienza nel campo dell’esperienza in corso; il che rappresenta un pericolo tanto più forte, per le garanzie dell’accertamento e della difesa, quanto più — com’è naturale in ogni processo che distingua fase preparatoria e fase destinata all’assunzione delle prove dinanzi al giudice che deve adottare la decisione finale — il luogo in cui si predispone la memoria audiovisiva di riserva sia proprio quello della fase preliminare, in cui quelle garanzie — ma con esse, soprattutto, lo ‘‘stato’’ complessivo della conoscenza del fatto — sono imperfetti e parziali (55). Venendo al dato normativo, la prima notazione riguarda l’amplissima portata della disposizione che apre il § 58a StPO. Vi è stabilito, infatti, che l’esame di un testimone può essere registrato su supporto audiovisivo. La possibilità della registrazione non è legata, almeno normativamente, ad alcuna particolare condizione di legittimità (56), né essa può dirsi (50) V. EISENBERG, Beweisrecht, cit., p. 464. (51) Il § 168e richiama — per vero ad abundantiam — il § 58a, norma generale sulla registrazione audiovisiva dei verbali di deposizioni testimoniali. V. infra nel testo. (52) Trattandosi di testimonianza assunta dal giudice, non è escluso, cioè, che al ricorrere di uno dei casi previsti dal comma 1 del § 251, la registrazione sia acquisita al dibattimento, mediante riproduzione, al pari di un verbale leggibile ai sensi di tale norma: lo consente — v. infra nel testo — appunto il comma 1 del § 255a, istituendo tale equivalenza. (53) Questo paragrafo è stato introdotto dall’art. 1, comma 1, ZschG. (54) Si può trattare di una fase precedente dello stesso processo, oppure di un altro processo. (55) Non contraddice queste affermazioni il fatto che la registrazione audiovisiva possa ben svolgere, sotto altro aspetto, un’incisiva funzione di garanzia quando essa sia innanzitutto volta a meglio documentare la ritualità dei modi di svolgimento di un atto processuale, prima ancora che il suo contenuto. Nell’ordinamento italiano esigenze di questa natura sono poste, palesemente, a fondamento dell’art. 141-bis c.p.p. (introdotto dall’art. 2, l. 8 agosto 1995 n. 332), che prescrive di documentare integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva, a pena di inutilizzabilità, ogni interrogatorio fuori udienza di persona che si trovi a qualsiasi titolo in stato di detenzione. (56) Si noti che, nell’ordinamento italiano, il ricorso alla documentazione audiovisiva è legato — salvo che sia altrimenti disposto: cfr. gli artt. 141-bis, 398, comma 5-bis c.p.p. — alla duplice condizione che la documentazione mediante verbale (eventualmente accompa-
— 278 — limitata solo ad alcune figure di deposizione testimoniale. Si riconosce invero che il § 58a prima prop. consente la registrazione di ogni deposizione testimoniale assunta nel processo e, con specifico riguardo all’Ermittlungsverfahren, non solo di quella resa dinanzi al giudice (§§ 168c e 168e), ma anche di quella resa dinanzi al pubblico ministero (§ 161a) e, secondo un’opinione, alla polizia (57). Difficilmente avverrà, anche per ragioni pratiche, che la generalizzazione della possibilità del ricorso alla videoregistrazione si traduca in un generalizzato ricorso ad essa. Sta di fatto tuttavia che, per l’incondizionata latitudine del suo campo applicativo, la norma esprime un deciso apprezzamento per questo mezzo di documentazione in quanto tale, a prescindere cioè dall’applicazione delle sue utilità specificamente all’ambito della tutela degli interessi di particolari categorie di testimoni. La prospettiva del legislatore tedesco è dunque, anche in tema di videoregistrazione, non unilaterale, per non dire ancipite. E se ciò si arguisce già riflettendo sull’astratta latitudine di campo della norma appena commentata, altrettanto viene poi confermato dalla chiara considerazione di finalità distinte e non omogenee a fondamento delle fattispecie per le quali il § 58a, sec. prop. stabilisce che la deposizione testimoniale non tanto può quanto deve essere registrata su supporto audiovisivo. Il primo caso è che si tratti della deposizione di una persona minore dei sedici anni vittima del reato. Ed è evidente come si miri a evitare ulteriori esami del teste. La videoregistrazione costituisce in quest’ottica una forma di documentazione che, per le sue caratteristiche, consente di meglio assorbire il costo processuale della rinuncia a ripetuti esami del testimone-vittima che costituirebbero fattore di una sua ‘‘vittimizzazione di secondo grado’’ (sekundäre Viktimisierung o sekundäre Traumatisierung) (58). Il secondo caso si verifica, invece, se si abbia motivo di temere che il testimone non potrà essere esaminato nel dibattimento e che la videoregistrazione si presenti necessaria per l’accertamento della verità. Vengono qui in considerazione esigenze di conservazione della prova (sotto il profilo della sua ‘‘migliore’’ documentazione) che restano indipendenti rispetto alla tutela di particolari categorie di testimoni. La generica fiducia nella videoregistrazione, manifestata dal § 58a prima prop. attribuendo la facoltà di ricorrervi in ogni occasione in cui sia chiamato in causa un testimone, si specifica in questo caso nell’obbligo di ricorrervi dietro una duplice valutazione. L’una attiene alla prognosi di un ostacolo alla comparizione del teste nel dibattimento: gli esempi più ricorrenti (ma pur sempre soltanto esempi) sono al riguardo quelli di una grave malattia, della salute cagionevole e o vecchiaia del teste, o della previsione che i genitori non daranno l’assenso alla comparizione del teste minore dei sedici anni in dibattimento. L’altra attiene alla necessità di disporre di una videoregistrazione per il migliore accertamento della verità: si ritiene in proposito che questa valutazione dovrebbe consentire di escludere l’obbligo della videoregistrazione nel caso di testimonianze di scarso significato, anche se si aggiunge che non sempre è facile stabilire il gnato da riproduzione fonografica, se redatto in forma solo riassuntiva) sia ritenuta insufficiente, e che, d’altra parte, la documentazione mediante riproduzione audiovisiva (che comunque non sostituisce quella del verbale ma vi si aggiunge) si presenti assolutamente indispensabile (v. art. 134 c.p.p.). Pur in questi limiti, la documentazione audiovisiva è tuttavia prevista per gli atti del procedimento in generale e non solo per quelli a contenuto dichiarativo. (57) In questo senso v. SCHLOTHAUER, Video-Vernehmung, cit., p. 47. Tendenzialmente contra v. però EISENBERG, Beweisrecht, cit., p. 466. (58) Cfr. SCHLÜCHTER-GREFF, Zeugenschutz, cit., p. 534; SENGE, sub § 58a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 302. A una ratio analoga risponde, nell’ordinamento italiano, il dovere, previsto dall’art. 398, comma 5-bis, di documentare integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva le dichiarazioni testimoniali rese nell’incidente probatorio svolto in procedimenti per uno dei reati sessuali indicati in esordio della stessa norma cui sia interessato un minore di sedici anni.
— 279 — ‘‘peso’’ delle dichiarazioni in una fase del processo in cui la ricostruzione del fatto è ancora fluida e precaria (59). Il § 58a contiene anche un secondo comma il quale, da un lato, prevede che l’utilizzazione della registrazione audiovisiva è consentita soltanto per le finalità della giustizia penale e solo fin dove ciò sia necessario per la ricerca della verità (60); dall’altro, rimanda all’applicazione del § 100b, comma 6 nonché dei §§ 147 e 406e, espressamente richiamati. Tramite il richiamo al § 100b vige anche rispetto alla registrazione audiovisiva il dovere di tempestiva distruzione, a cura del pubblico ministero, stabilito per le intercettazioni telefoniche quando non giovino più a fini di giustizia penale. Quanto invece ai §§ 147 e 406e, il rinvio si riferisce ai diritti di consultazione degli atti spettanti rispettivamente alla difesa e all’offeso dal reato. Va infine ancora qui ricordato, per un apprezzamento di sintesi della portata attribuita alla registrazione audiovisiva, che essa è consentita o imposta anche rispetto all’esame a distanza o all’esame ‘‘separato’’ (61), secondo quanto già accennato a proposito dell’uno e dell’altro strumento telematico. 5. L’utilizzabilità in giudizio della registrazione audiovisiva delle deposizioni testimoniali. — L’uso che può farsi di una registrazione audiovisiva consiste naturalmente nel riprodurla. La proiezione nel dibattimento di una registrazione audiovisiva riferita a precedenti dichiarazioni testimoniali apre quindi il processo all’acquisizione di una ‘‘prova ispettiva del contenuto di una deposizione’’ (Augenscheinbeweis über den Inhalt einer Zeugenaussage) (62). Il carattere inedito di questo mezzo di conoscenza degli atti processuali impone naturalmente di stabilire i casi, le condizioni e i modi del ricorso ad esso. Più precisamente, trattandosi di un mezzo che istituisce una nuova forma di deroga al principio di immediatezza, occorre stabilire in che rapporto esso stia con la tradizionale lettura dei verbali, anche al fine di chiarire se, in forza delle sue caratteristiche, la registrazione audiovisiva possa ‘surrogare’ la prova diretta in udienza laddove ciò non sarebbe consentito alla lettura del verbale scritto (63). La risposta è fornita dal § 255a StPO (introdotto dall’art. 1, comma 5, ZschG), ed è articolata in termini che indicano ancora l’intento legislativo di provvedere non soltanto a tutela di particolari categorie di testimoni meritevoli di protezione ma anche al di là di questa esigenza. a) Ciò appare subito dal comma 1 del § 255a, dove si stabilisce che per la riproduzione dell’esame testimoniale videoregistrato valgono le disposizioni per la lettura di un verbale d’esame dettate dai §§ 251, 252, 253 e 255. Il § 255a, comma 1, richiamando le disposizioni che definiscono il regime della lettura dei verbali, equipara sostanzialmente a que(59) Si osserva al riguardo — v. SENGE, sub § 58a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 303 — che l’Ermittlungsverfahren è ein empirischer Prozess. (60) È opinione che la norma comunque consenta l’uso della videoregistrazione anche in altri processi, purché iniziati successivamente (compreso quello in cui il teste assume la veste di imputato!); e che il divieto di usi diversi da quello di giustizia penale non sia assoluto ma solo subordinato al consenso del testimone: SENGE, sub § 58a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 304. (61) Nonché alla kommissarische Vernehmung. (62) Il termine Augenscheinbeweis è qui usato in opposizione a quello di Urkundbeweis, che, nel medesimo contesto, andrebbe riferito invece al verbale scritto acquisibile mediante lettura (la notazione è tratta da DIEMER, sub § 255a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1315). Tuttavia si deve osservare che l’inquadramento della coppia videoregistrazione/verbale scritto secondo la distinzione generale tra ‘‘prova ispettiva’’ e ‘‘documento’’ non può ritenersi pacifica. Infatti, proprio i nastri audio e/o videoregistrati, sebbene prevalga l’avviso che siano da considerare quali ‘‘prove ispettive’’, vengono in dottrina anche ricondotti nell’ambito dei documenti. Sul punto v., per es., GRÜNWALD, Das Beweisrecht der Strafprozessordnung, Baden-Baden, 1993, pp. 81-82. (63) È, come si dirà meglio, il caso previsto dal § 255, comma 2, StPO.
— 280 — st’ultima la proiezione della registrazione audiovisiva: ne deriva una legittimazione di ‘principio’ all’uso di questo mezzo di acquisizione probatoria e, nel contempo, una disciplina disegnata sul parametro del regime della lettura dei verbali. Delle disposizioni richiamate importa soprattutto il § 251 (64). In virtù del richiamo a questa norma, in tutti i casi ivi previsti invece della lettura del verbale si potrà disporre la riproduzione audiovisiva. È da notare che, almeno dal punto di vista normativo, l’equiparazione è piena: l’un mezzo vale l’altro, non essendo stabilito tra essi alcun rapporto di sussidiarietà. Il che si traduce in una nota di favore rispetto alla registrazione, dato che non si richiede al giudice, prima di preferirla alla lettura, di valutare che essa sia resa opportuna o necessaria ai fini dell’accertamento della verità (65). Applicando i §§ 255a, comma 1 e 251 potrà quindi disporsi la riproduzione della registrazione audiovisiva di un esame anteriormente reso dinanzi al giudice (66) — sono i casi indicati nel § 251, comma 1 — ma altresì quella di un esame svoltosi dinanzi ad altra autorità, ove le parti siano d’accordo, oppure il testimone sia morto o sia irreperibile (§ 251, comma 2). Si è visto in precedenza che, al verificarsi di una delle fattispecie previste dai nn. 2, 3 o 4 del § 251, comma 1, il § 247a, sec. prop. consente il ricorso all’esame del teste a distanza. Può quindi accadere che il giudice, disponendo (oltre che del verbale scritto) della registrazione audiovisiva di un precedente esame giudiziale del teste, si trovi nell’alternativa (67) tra disporre la proiezione della registrazione o l’esame a distanza. Ma in questo caso esiste un’indicazione normativa (assente come si è visto nel rapporto tra verbale scritto e registrazione audiovisiva) rivolta a guidare in qualche modo la scelta, dato che il § 247a, sec. prop. consente di ricorrere all’esame a distanza in quanto ciò risulti necessario per l’accertamento della verità (68). b) Esclusivamente alla tutela di testimoni ‘‘fragili’’, cui sia opportuno evitare un secondo o ulteriore esame (tanto più perché in dibattimento), si rivolge invece il comma 2 del § 255a. Vi si prevede che nei procedimenti per reati contro la libertà sessuale (§§ 174-184c StGB) o contro la vita (§§ 211-222 StGB) o per maltrattamento di ‘‘persone protette’’ (§ 225 StGB), l’esame di una persona minore dei sedici anni possa essere sostituito dalla riproduzione audiovisiva del suo precedente esame dinanzi al giudice, se l’imputato e il suo difensore hanno avuto la possibilità di parteciparvi effettivamente (mitwirken). È evidente il nesso fra questa disposizione e quella del § 58a, comma 1, sec. prop., laddove si prescrive — come si è visto — la videoregistrazione delle deposizioni delle persone minori dei sedici anni che siano vittime del reato. Già per questo nesso, ma anche in vista di un’interpretazione equilibrata del § 255a, comma 2 nel suo insieme, si ritiene preferibile limitare la possibilità di disporre la proiezione della videoregistrazione in luogo dell’esame solo al testimone minore dei sedici anni che sia insieme vittima di uno dei reati richiamati (69). D’altra parte è proprio chi si trovi in queste condizioni che deve essere meglio salvaguardato dai rischi di una ‘‘vittimizzazione di secondo grado’’ connessi all’esame in dibattimento. La sottrazione al contesto dell’immediatezza e del contraddittorio dibattimentale di un (64) Il § 252 riguarda il divieto di lettura del verbale delle dichiarazioni anteriormente rese dal teste che solo in dibattimento si avvale del diritto di non deporre (e tale divieto — attraverso il richiamo fatto nel § 255a — viene esteso alla proiezione della videoregistrazione). Il § 253 riguarda le contestazioni al testimone per sollecitarne la memoria o per far rilevare contraddizioni (e anche la proiezione, almeno in via di principio, potrebbe così giovare allo scopo). Il § 255 riguarda infine la verbalizzazione della richiesta e delle ragioni della lettura a norma dei §§ 253 e 254. (65) In questo senso v. DIEMER, sub § 255a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1316. (66) V. § 168c o 223 StPO. (67) Dando per scontato che non sia possibile l’audizione in dibattimento e che si tralasci di utilizzare il verbale scritto. (68) Ed è osservazione quasi ovvia che anche in questo rapporto, in quanto via di mezzo non bisognosa di particolari motivazioni, la videoregistrazione risulti ‘‘favorita’’. (69) V. DIEMER, sub § 255a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1317.
— 281 — testimone così importante come la vittima del reato (sia pure minorenne e vittima di alcuni specifici reati) non è incondizionata. Come si è accennato, l’esame videoregistrato che si tratta di riprodurre nel dibattimento è un esame svolto dal giudice e si esige che tanto il difensore quanto l’imputato vi abbiano avuto la possibilità di una partecipazione effettiva, di cui è espressione, fra l’altro, il diritto di rivolgere domande al teste. Al ricorrere di tutti questi presupposti sta al giudice del giudizio risolvere il conflitto fra l’interesse alla protezione del testimone-vittima e quello al migliore accertamento e alla migliore tutela dei diritti delle parti. La sostituzione dell’esame con la riproduzione videoregistrata di un esame anteriore è possibile ma non è imposta. Vi si dovrà ricorrere secondo le esigenze del caso concreto e può anche darsi che una soddisfacente soluzione intermedia, quando già essa sia ritenuta adeguata a soddisfare le esigenze di tutela del teste-vittima, vada trovata nell’esame a distanza a norma del § 247a prima parte, che comporta un minor sacrificio tanto dell’immediatezza quanto delle opportunità di partecipazione della difesa. Non sembra esservi spazio, invece, per un esame in aula ‘‘protetto’’, quale quello ora possibile in Italia in base all’art. 498-ter c.p.p. (aggiunto dall’art. 13 comma 6 l. 3 agosto 1998 n. 269) il quale prevede che l’esame del minorenne vittima di reati sessuali venga effettuato « su richiesta sua o del suo difensore, mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico ». Inoltre, quando pure si sia optato per la proiezione della registrazione audiovisiva, rimane consentito — come dispone nella sua ultima parte il § 255a, comma 2 — sottoporre il testimone a un esame integrativo (ad opera del presidente: § 241, comma 1). È un ultimo compromesso tra tutela del teste-vittima ed esigenze di accertamento e di difesa, di cui resta pur sempre garante il giudice (70). D’altronde l’esame integrativo ha dei limiti funzionali che non dovrebbero essere superati; pertanto ove la riproduzione audiovisiva abbia fatto emergere l’esigenza di più ampi approfondimenti, non dovrebbe essere esperibile l’esame integrativo e si dovrebbe disporre, semmai, l’esame a distanza ex § 247a prima parte (71). 6. (Segue): l’esigenza di effettività delle garanzie difensive. — Fornito un quadro illustrativo essenziale tanto delle disposizioni sulla videoregistrazione (§ 58a) quanto di quelle sulla sua utilizzazione nel dibattimento (§ 255a), occorre ancora soffermarsi sulla materia per qualche opportuna notazione. In primo luogo, non sarà sfuggito che il legislatore non ha previsto — né nel § 58a né altrove — alcuna regolamentazione dei modi e delle forme della videoregistrazione (72), che invece andrebbe approntata con urgenza. È in gioco, infatti (quando la registrazione venga utilizzata), il giudizio sull’attendibilità del teste. Si tratterebbe di fornire indicazioni sul setting della registrazione. La posizione della macchina, la sua distanza dal teste, l’angolatura delle riprese possono influire sull’apprezzamento della deposizione. Occorrerebbe anche assicurare una ripresa globale, in modo che si possa cogliere non soltanto il contegno del teste ma anche dell’esaminante e delle altre persone che siano presenti (73). (70) Cfr. SCHLÜCHTER-GREFF, Zeugenschutz, cit., 534, dove si osserva che non sussiste un diritto di richiesta delle parti e tantomeno un loro diritto di ottenere l’esame integrativo, che finirebbe per eludere le finalità del § 255a, comma 2. Pertanto le esigenze della difesa rilevano solo indirettamente, essendo filtrate dalla valutazione del giudice improntata al primario interesse per l’accertamento della verità. Per maggiori aperture alle istanze della difesa v., peraltro, RIESS, Zeugenschutz, cit., p. 3241; SCHLOTHAUER, Video-Vernehmung, cit., p. 49. (71) V. DIEMER, sub § 255a, in Karlsruher Kommentar, cit., p. 1319. (72) È la stessa avarizia di specificazioni già registrata con riguardo ai §§ 247a e 168e, a proposito, rispettivamente, dell’esame a distanza nel dibattimento e dell’esame separato nella fase delle indagini preliminari. (73) Si può trattare del legale che assiste il testimone, a norma del § 68b, di altre persone di fiducia del teste o funzionari della fase delle indagini. La videoregistrazione do-
— 282 — Inoltre, con particolare riguardo al § 255a, comma 2 — cioè per il caso in cui la proiezione dell’esame giudiziale videoregistrato può sostituirsi all’esame in aula del teste-vittima — è da condividere una interpretazione rigorosa, nel senso dell’effettività, della condizione che l’imputato e il suo difensore abbiano avuto la possibilità di partecipare all’esame registrato. In quest’ottica, l’esame videoregistrato da riprodurre in dibattimento dovrebbe non aver subìto nessuno di quei limiti che sono (o possono essere) apposti anche ove si tratti di esame testimoniale dinanzi al giudice (tale è quello che interessa ex § 255a, comma 2), e che attengono essenzialmente alla partecipazione dell’imputato o del difensore all’esame (74) nonché al diritto di consultazione degli atti da parte del difensore (75). Alla base di queste affermazioni c’è chiaramente l’idea che l’esame videoregistrato, se va a prendere il posto di quello dibattimentale, costituisce una parte del dibattimento e deve quindi riprodurre, fin dove possibile, le situazioni giuridiche che all’imputato e al difensore spettano in questa fase. È da notare che analogo rigore di garanzie viene suggerito anche per la legittimità della proiezione di un esame videoregistrato secondo i §§ 251, comma 1 e 255a, comma 1. È vero che a questo proposito il legislatore non subordina espressamente l’uso dibattimentale della videoregistrazione alla condizione che l’imputato e il difensore abbiano avuto la possibilità di partecipare effettivamente all’esame. Tuttavia l’obiezione si ritiene superabile argomentando che alla maggiore incisività del mezzo audiovisivo dovrebbe corrispondere un’altrettanto maggiore inderogabilità delle garanzie difensive (76). Condividendo questa opinione l’equivalenza tra lettura del verbale e videoregistrazione subirebbe un temperamento. La videoregistrazione non sarebbe legittima, o almeno non sarebbe opportuna — e residuerebbe il ricorso alla lettura — ogniqualvolta le garanzie normalmente spettanti nell’esame dinanzi al giudice anteriore al dibattimento siano state, com’è possibile, compresse. 7. Considerazioni conclusive. — Lo Zeugenschutzgesetz del 30 aprile 1998 segna certamente un punto critico nell’evoluzione del sistema processuale penale tedesco. Le modifiche che esso ha introdotto nella Strafprozessordnung hanno la forza di mettere in discussione l’intangibilità degli assetti tradizionali del ‘‘conoscere’’ processuale ma non anche, da sole, quella di disegnarne di nuovi. In tal senso la legge in questione è intesa da più parti come la tappa intermedia di un itinerario più lungo — non si saprebbe dire quanto piano o accidentato — che richiederà comunque ulteriori interventi del legislatore. In una prospettiva più immediata (e minimale) si tratterebbe soprattutto di rifinire il quadro delle novità già ora introdotte. Andrebbe, per esempio, completata la disciplina dell’esame a distanza e andrebbe altresì meglio chiarita la posizione che ad esso si vuol attribuire nell’ambito dei mezzi di tutela del testimone, prevedendo magari un regime di presupvrebbe anche avvenire in modo che siano evitate manipolazioni di sorta e risultino eventuali interruzioni in cui potrebbero essere intercorsi colloqui informali con il testimone. Per queste notazioni v. SCHLOTHAUER, Video-Vernehmung, cit., p. 48. (74) Si vedano, quanto all’imputato, il § 168c, comma 4, nonché, per la kommissarische Vernehmung, il § 224, comma 2. In queste disposizioni si prevede, in modo analogo, che, se l’imputato si trova in carcere ed è assistito dal difensore, egli non ha diritto a partecipare agli esami che si svolgono in luogo diverso da quello della custodia. Quanto al difensore (ma ciò in verità vale anche per l’imputato e per il pubblico ministero) si veda il comma 5 del § 168c, che nella sua ultima parte esclude il diritto a un rinvio dell’esame per legittimo impedimento. (75) Si è visto in precedenza che il § 58a, comma 2 richiama il § 147, il quale prevede appunto la facoltà del difensore di avere accesso alla consultazione degli atti. Ma il richiamo è onnicomprensivo e non esclude il potere del pubblico ministero di limitare in tutto o in parte tale facoltà, a tutela delle indagini, in base al comma 2 del § 147. In una logica di garanzia dovrebbe poi riconoscersi il diritto del difensore a ricevere, dopo la registrazione, una copia di essa (§ 147, comma 4, che pure farebbe salvi, nella sua prima parte, motivi per escludere questa possibilità). Al riguardo v. SCHLOTHAUER, Video-Vernehmung, cit., pp. 49-50. (76) V. ancora SCHLOTHAUER, Video-Vernehmung, cit., p. 50.
— 283 — posti e modalità applicative non di tipo ‘‘generalista’’, come l’attuale, ma differenziato a seconda dell’origine e natura del rischio subìto (innanzitutto nei processi per fatti di criminalità organizzata). Ma le scelte più importanti si collocano in una prospettiva forse meno immediata e tuttavia senz’altro destinata a venire prima o poi a maturazione, anche sulla scorta dell’esperienza che si sarà acquisita nella pratica degli istituti introdotti dallo Zeugenschutzgesetz. In quest’ottica di più ampio respiro gli interrogativi vertono davvero sul futuro profilo del sistema. Per un verso, sarà inevitabile stabilire fin dove promuovere e da quale punto in poi invece frenare l’ulteriore ricorso a mezzi tecnologicamente avanzati che ben si prestano alla realizzazione a distanza di una molteplicità di esperienze processuali. Da questo punto di vista sarà innanzitutto da porsi il problema della partecipazione dell’imputato al dibattimento a distanza. Ma per altro verso — e da qui proviene l’interrogativo forse più pregnante — occorrerà cogliere le implicazioni del ricorso, già da ora ampiamente consentito, alla registrazione audiovisiva delle deposizioni rese (in praesentia o a distanza) nella fase preliminare del processo, a fini di utilizzazione in giudizio (77). La preoccupazione di fondo è che per questa via l’asse del processo, la parte essenziale di esso (das Kernstück des Verfahrens), si sposti indietro, arretri verso la fase preliminare (78). D’altronde, la stessa pretesa — in parte della stessa legge (§ 255a, comma 2, StPO), in parte, come si è visto, della dottrina — di assicurare compiute garanzie difensive rispetto alla deposizione che si registra, in vista della sua possibile utilizzazione in giudizio, rende maggiormente avvertita tale preoccupazione, per la chiara consapevolezza che, quanto più la fase preliminare sarà intessuta di garanzie, tanto più essa sarà ingombrante nel giudizio, a scapito degli spazi di elaborazione dibattimentale della prova. TOMMASO RAFARACI Associato di Diritto processuale penale comparato nell’Università di Catanzaro ‘‘Magna Graecia’’
(77) Tra queste implicazioni sono anche da comprendere quelle che attengono ai rapporti tra uso della registrazione e assunzione della prova a distanza. (78) Cfr. JUNG, Zeugenschutz, cit., p. 325.
RASSEGNE
a) LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
CODICE PENALE PARTE GENERALE Art. 29 comma 2 L’interdizione dai pubblici uffici come conseguenza della condanna (Sent. 5 luglio 1999 n. 286, in G.U., 9 settembre 1999, n. 36 — Inammissibilità; infondatezza). La Corte costituzionale decide due questioni di costituzionalità, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., ed aventi ad oggetto l’art. 29, comma 1, c.p. (« nella parte in cui statuisce che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni importa l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici »); e « per quanto occorra » (ove la norma si ritenga vigente) l’art. 85, lett. b), D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) (« nella parte in cui prescrive che l’impiegato incorre nella destituzione, escluso il procedimento disciplinare, per condanna passata in giudicato che importi l’interdizione dai pubblici uffici »). La Corte costituzionale ritiene inammissibile la questione di costituzionalità concernente l’art. 85 cit., non solo perché posta in modo ipotetico, ma anche perché sarebbe perplessa la motivazione dell’ordinanza di rimessione, non risultando chiaro se la questione stessa si ponga rispetto all’altra in linea subordinata, alternativa o successiva. In effetti, nell’ordinanza di rimessione il giudice a quo non chiariva affatto se, a suo avviso, l’art. 85 cit. dovesse ritenersi ancora in vigore (essendo stato abrogato dall’art. 9 della legge n. 19 del 1990, emanata a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 971 del 1988, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della lettera a) del citato art. 85 del D.P.R. n. 3 del 1957: tale norma, ricorda la Corte, non veniva però ritenuta applicabile ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, come quello oggetto del giudizio a quo: sul punto, si veda anche la sent. n. 363 del 1996 della Corte costituzionale). Adottando una decisione di inammissibilità, la Corte lascia, dunque, aperto il problema della eventuale vigenza dell’art. 85 cit. Il giudice costituzionale ritiene invece infondata la questione di costituzionalità sull’art. 29 c.p. Secondo la Corte, tale norma conterrebbe una disciplina generale dal seguente tenore: »la condanna all’ergastolo o la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni importano l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici ». Questa disposizione non sarebbe censurata nei suoi presupposti, bensì nelle sue conseguenze giuridiche, e cioè con esclusivo ri-
— 285 — guardo al rapporto di pubblico impiego, implicando l’automatica risoluzione di esso, in ragione del carattere perpetuo della misura. La Corte, in parole più semplici, non condivide la pretesa del giudice a quo, che dalla pena accessoria non scaturisca l’automatismo della rimozione, ma si affermi sempre e comunque l’interposizione del giudizio disciplinare (pretesa condivisa da larga parte della giurisprudenza amministrativa: v. Cons. Stato, sez. IV, 13 maggio 1992, n. 509, in Cons. Stato, 1992, p. 704 ss.; Cons. Stato, sez. IV, 4 luglio 1994, n. 1106, in Cons. Stato, 1994, p. 1105 ss.): la Corte ritiene, infatti, che impropriamente il giudice a quo abbia fatto riferimento alle decisioni costituzionali nelle quali si era affermato il principio della necessità del procedimento disciplinare, in luogo della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti (cfr. sentt. nn. 363 e 239 del 1996; 197 del 1993; ordd. nn. 201 e 137 del 1994). Nel merito, la Corte afferma, infine, che la risoluzione del rapporto d’impiego « costituisce, in questo caso, soltanto un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo ». Sembra però che la Corte costituzionale abbia voluto correggere un « diritto vivente » contrario alla propria interpretazione, e condiviso invece dal giudice a quo: si veda in particolare Cons. Stato, sez. VI, 16 maggio 1996, n. 681. Significativo risulta comunque il richiamo fatto in chiusura alla discrezionalità del legislatore, nel « determinare i presupposti, i contenuti e la durata della misura, assolvendo la pena accessoria finalità di difesa sociale e di prevenzione speciale ». Art. 72 comma 2 Delitto punito con l’ergastolo in concorso con più delitti puniti con pene detentive temporanee (Ord. 11 giugno 1999 n. 237, in G.U., 16 giugno 1999, n. 24 — Manifesta inammissibilità) Tale decisione ha per oggetto la questione di costituzionalità dell’art. 72, comma 2, c.p. per contrasto con l’art. 27, comma 3, Cost. « nella parte in cui prevede che, in caso di concorso di un delitto che importa la pena dell’ergastolo con uno o più delitti puniti con pene detentive temporanee, la pena dell’ergastolo con isolamento diurno da 2 a 18 mesi si applica ope legis anche al condannato ammesso al regime di semilibertà ». Il ragionamento del giudice a quo è tutto incentrato a dimostrare che, in una situazione come quella oggetto del giudizio a quo (nella specie, si trattava di una Corte di assise), la possibilità, consentita dalla legge, di passare da un regime di semilibertà all’isolamento diurno, si sarebbe posta in profondo contrasto con il principio di rieducazione del condannato, oltre che con quello che vieta che la pena sia contraria al senso di umanità (sulla finalità rieducativa della pena come elemento inerente « alla legittimazione ed alla funzione stessa della pena », cfr. Corte cost., sent. n. 313 del 1990; sull’affermazione secondo la quale « l’isolamento diurno del condannato all’ergastolo, per la funzione cui adempie secondo il diritto vigente e le modalità attuali della sua applicazione, non può ritenersi misura contraria al senso di umanità », cfr. Corte cost., sent. n. 115 del 1964). La Corte costituzionale, però, non entra nel merito della questione, ritenendo, con un’analisi molto approfondita dei fatti oggetto del giudizio a quo, che la stessa sia manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.
— 286 — Secondo la Corte, innanzitutto, vi sarebbe una difettosa valutazione della rilevanza da parte del giudice a quo, dal momento che esso ha tralasciato di verificare se, nel caso di specie, potesse trovare applicazione il principio di fungibilità tra il periodo in cui il condannato era stato sottoposto a regime di massima sicurezza o di sorveglianza particolare (ex artt. 90 e 14-ter o.p.) e l’isolamento diurno, limitandosi invece a constatare come difettasse la prova dell’assoggettamento a tale regime, prova che il remittente avrebbe dovuto acquisire chiedendo eventualmente l’esibizione della cartella personale del condannato (v. invece, per la giurisprudenza di marito, Corte d’appello Perugia, 23 febbraio 1990 (Piras) in Giur. merito, 1990, 369, dove si afferma che « l’isolamento diurno sofferto dal condannato durante il periodo di custodia preventiva è computabile nel periodo per il quale vi è stata condanna con la sentenza definitiva, come misura dell’aggravamento della pena dell’ergastolo »). Inoltre, la Corte costituzionale ritiene che il giudice a quo, volendo prevenire una eventuale perdita del beneficio della semilibertà, avrebbe posto una questione solamente ipotetica e prematura (e, quindi, anche sotto questo profilo, irrilevante), dal momento che tale perdita dovrebbe comunque essere sancita dal magistrato o dal tribunale di sorveglianza (la Corte sembra suggerire che la questione possa essere correttamente sollevata solo dinanzi al magistrato o al Tribunale di sorveglianza, competenti a decidere circa l’eventuale sospensione o cessazione della semilibertà, a norma dell’art. 51-bis dell’ordinamento penitenziario). Art. 147 comma 2 Differimento dell’esecuzione della pena in pendenza di domanda di grazia (Ord. 20 luglio 1999, n. 336, in G.U., 28 luglio 1999, n. 30 — Manifesta infondatezza) Nel corso di un giudizio avente ad oggetto la richiesta di differimento dell’esecuzione della pena (ex artt. 147, comma 1, n. 1, c.p. e 684, comma 1, c.p.p.), giacchè il condannato aveva presentato domanda di grazia, viene sollevata, con riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, comma 2, c.p. « nella parte in cui prevede che il periodo di differimento dell’esecuzione della pena non superiore a sei mesi decorre — anche nei casi in cui l’esecuzione sia già iniziata — dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile ». Infatti, nel caso in cui venga presentata domanda di grazia, la possibilità di chiedere un differimento dell’esecuzione della pena è possibile solo se la sentenza di condanna non sia passata in giudicato da oltre sei mesi (nel caso di specie il magistrato di sorveglianza, adito ex art. 684, comma 2, c.p.p., aveva rigettato l’istanza in quanto la condanna in esecuzione era divenuta irrevocabile da oltre sei mesi). La Corte costituzionale deve quindi decidere se tale regime normativo crea un’irragionevole disparità di trattamento tra il detenuto che maturi il proposito di avanzare domanda di grazia prima del decorso del semestre dal passaggio in giudicato (e che riesca ad adire la magistratura di sorveglianza in tempo utile per ottenere il differimento) ed il detenuto che decida di avanzare tale domanda solo successivamente: ad avviso del giudice a quo, inoltre, non si può in ogni caso sottovalutare la possibilità che le ragioni poste a base della domanda maturino o si pre-
— 287 — sentino solo successivamente al decorso del semestre dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna (es. perdono della persona offesa; uscita da una fase « storica » di lotta armata, ecc.), condizionando però, irreversibilmente, l’ammissibilità dell’istanza. La Corte costituzionale ritiene la questione manifestamente infondata, dal momento che l’istituto del differimento della pena in pendenza della domanda di grazia avrebbe il suo « fondamento nella giusta preoccupazione del legislatore che, nelle more dell’istruttoria della pratica di grazia, il condannato possa essere sottoposto alla esecuzione della pena prima che la sua istanza venga esaminata e decisa (inconveniente che risulta particolarmente grave nelle ipotesi di pene detentive brevi) »; aggiunge la Corte che la previsione in base alla quale il differimento non potrebbe superare complessivamente sei mesi è stata dettata « dallo scopo di impedire un differimento dell’esecuzione a tempo indeterminato, mentre la previsione relativa alla decorrenza di un termine massimo di differimento dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, si spiega con il fatto che si tratterebbe dell’unica decorrenza correttamente evocabile, coincidendo essa con la trasformazione della condanna in titolo esecutivo e, quindi, con l’inizio della fase della esecuzione »; la Corte conclude affermando che la circostanza prospettata dal giudice a quo, in base alla quale il sistema delineato non terrebbe conto del diverso trattamento riservato ai condannati che maturino in tempi diversi il proposito di avanzare domanda di grazia, atterrebbe ad un piano meramente fattuale, privo di qualsiasi rilievo costituzionale, configurandosi come una « naturale ed ineludibile conseguenza di qualsiasi istituto che configuri l’esercizio di determinate facoltà entro un dato termine » (in argomento, si veda Corte cost., sent. 274/90, in Giust. pen., I, 1990, 242 in tema di titolarità del potere di concedere il differimento dell’esecuzione della pena ex art. 147, comma 1, n. 1, c.p. e, per un commento della decisione, RIVELLO, Domanda di grazia e differimento dell’esecuzione della pena dopo un recente intervento della Corte costituzionale, in Legis. pen., 1990, 455). Art. 150 Morte del reo prima della condanna (Ord. 3 giugno 1999, n. 210, in G.U., 9 giugno 1999, n. 23 — Manifesta inammissibilità) Il giudizio costituzionale ha per oggetto la questione di costituzionalità dell’art. 150 c.p., in relazione agli artt. 2, 3, 27, comma 2, Cost. « nella parte in cui qualifica come ‘‘reo’’ l’imputato deceduto prima della condanna »: secondo il giudice a quo, nel codice penale risulterebbe una discrasia fra gli artt. 150 e 171, che qualificano come « reo » anche chi non è stato condannato o chi è morto dopo la condanna, e l’art. 133, che definisce « reo » colui nei cui confronti è stato formulato un giudizio di colpevolezza. La Corte riconosce che la riproposizione della questione, già dichiarata infondata nella sent. n. 35 del 1965, acquista significato alla luce dell’art. 133 c.p., che nell’ordinanza di rimessione è assunto a tertium comparationis: tuttavia, la Corte ritiene di doverne dichiarare la manifesta inammissibilità, in quanto nella stessa ordinanza manca del tutto la motivazione sulla rilevanza. Occorre ricordare che, in occasione della decisione su identica questione
— 288 — (sent. n. 35/65), giudicata manifestamente infondata, i giudici costituzionali ritennero opportuno riferirsi alla Relazione al progetto definitivo del libro I — nella quale è scritto che con il termine reosi è inteso « richiamare la relazione giuridica di natura sostanziale, che corre tra il reato e il suo autore; e non già il rapporto processuale d’imputazione, attraverso cui la qualità del condannato viene ad imprimersi al colpevole » —, affermando che « nell’uso delle parole, l’importante è che ognuno sappia intenderle nel significato loro attribuito », con la conseguenza che « il giudice non è affatto vincolato a ripetere nella decisione le stesse parole del codice, nulla vietando che egli si avvalga di altro termine, o tecnico, quale imputato, oppure privo di qualsiasi qualificazione giuridica » (più in generale, sul problema delle « improprietà lessicali », cfr. anche Corte cost., sent. n. 80 del 1970, secondo la quale non è fondata una questione di costituzionalità che investa « una terminologia che si può ritenere senz’altro discordante con quella della Costituzione, ma che, non concretando alcun contenuto normativo lesivo di quest’ultima, non può dar luogo a pronunce di incostituzionalità »). Art. 157 comma 2 Prescrizione — Determinazione del termine e concessione delle attenuanti, ex art. 62-bis c.p. (Ord. 14 luglio 1999, n. 337, in G.U., 28 luglio 1999, n. 30 — Manifesta inammissibilità) Il giudizio costituzionale ha per oggetto l’art. 157, comma 2, c.p. « nella parte in cui consente che il termine di prescrizione del reato non sia definibile nella stessa misura in tutte le fasi del procedimento », ed, in particolare, nella parte in cui consente che sulla determinazione del termine della prescrizione abbia effetto, anche mediante il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee di cui all’art. 69 c.p. « la concessione dell’attenuante di cui all’art. 62-bis c.p., ovvero di ogni altra circostanza del reato non specificamente identificabile nei suoi contenuti, facoltativa e non preventivamente individuabile all’atto del rinvio a giudizio », in relazione all’art. 112 Cost. e all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Corte costituzionale osserva che il giudice a quo, constatato che a seguito del tempo trascorso fra la pronuncia di primo grado e il giudizio di appello i termini prescrizionali risultavano ormai decorsi per effetto del già intervenuto riconoscimento delle attenuanti generiche nel giudizio di primo grado, in un caso, o della asserita possibilità di ritenere d’ufficio in grado d’appello tali attenuanti prevalenti sulla aggravanti, in un altro caso, vorrebbe che i termini prescrizionali di cui all’art. 157 c.p. fossero determinati con esclusivo riferimento al reato contestato nel momento del rinvio a giudizio, escludendo la possibilità di tenere conto, nelle diverse e successive fasi del giudizio, ai fini del computo del tempo necessario per la prescrizione del reato, sia delle circostanze attenuanti, sia della prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti. La Corte risponde con una pronuncia di manifesta inammissibilità della questione, in quanto il suo eventuale accoglimento si tradurrebbe in un trattamento deteriore nei confronti dell’imputato, contrario all’art. 25, comma 2, Cost., che preclude appunto interventi additivi in malam partem: nella decisione viene ricor-
— 289 — dato che nella giurisprudenza costituzionale è stato costantemente affermato che il principio di legalità preclude pronunce additive volte ad integrare la serie di atti che producono effetti interruttivi (o sospensivi) del corso della prescrizione (la Corte cita anche, significativamente, i suoi precedenti in tema di introduzione di nuove ipotesi di sospensione: cfr. sent. n. 114 del 1994 e di nuove ipotesi di interruzione: cfr. ordd. nn. 412 del 1998; 178 del 1997; 315 del 1996; 144 del 1994; 193 e 188 del 1993; 7 del 1990; 114 del 1983). Si tratta di una scelta molto discutibile, dal momento che essa amplia il contenuto e la funzione dell’art. 25, comma 2, Cost., precludendo di fatto l’intervento del giudice costituzionale in una gamma molto ampia di questioni in cui è coinvolto, spesso a ragione, il principio di eguaglianza. Da ricordare che l’art. 157 c.p. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo « nella parte in cui non prevede che la prescrizione del reato possa essere rinunziata dall’imputato » (sent. n. 275 del 1990). Art. 160 comma 2 Interruzione del corso della prescrizione — Interrogatorio reso davanti alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero (Ord. 17 giugno 1999, n. 245, in G.U., 23 giugno 1999, n. 25 — Manifesta inammissibilità) Alla Corte costituzionale è chiesto di pronunciarsi sulla illegittimità dell’art. 160, comma 2, c.p. « nella parte in cui non prevede, fra gli atti che producono l’effetto di interrompere il corso della prescrizione del reato, l’interrogatorio reso davanti alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero », per contrasto con gli artt. 3 e 24, comma 2, Cost.: ad avviso del giudice a quo, sarebbe irragionevole non includere nella dizione « interrogatorio reso davanti al pubblico ministero » anche l’interrogatorio reso davanti alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, data l’identità dei due atti, promananti dallo stesso organo. La Corte, seguendo una giurisprudenza consolidata, ma, a nostro avviso, molto discutibile, ritiene manifestamente inammissibile la questione, in quanto preclusa dal divieto di pronunce additive in malam partem « ostandovi il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost. » (cfr. in questo senso anche le ordd. nn. 178 del 1997 e 412 del 1998). Interruzione del corso della prescrizione — Emissione del decreto di citazione a giudizio (Ord. 17 dicembre 1999, n. 452, in G.U., 27 dicembre 1999, n. 50 — Manifesta infondatezza) La Corte costituzionale è chiamata a decidere sulla illegittimità costituzionale dell’art. 160 c.p., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. « nella parte in cui — secondo l’interpretazione della giurisprudenza pressochè consolidata della Corte di Cassazione — prevede che il corso della prescrizione è interrotto dall’emissione del decreto di citazione a giudizio anziché dalla notificazione del decreto stesso » (la questione presentava rilevanza nel giudizio a quo, ove, se si avesse avuto riguardo alla data di emissione dell’atto introduttivo del giudizio — secondo la pre-
— 290 — valente giurisprudenza — il reato non sarebbe risultato prescritto, mentre, se si fosse presa in considerazione la data di ciascuna delle notificazioni, entrambe eseguite oltre i 5 anni dal tempus commissi delicti, il reato sarebbe risultato prescritto). Trattandosi di questione volta ad ottenere un risultato favorevole per il reo (contrastante con il cd. « diritto vivente »), la Corte costituzionale entra nel merito, ritenendola però manifestamente infondata. Sotto il primo profilo sollevato, la Corte ritiene che non possa parlarsi correttamente di violazione dell’art. 3 Cost., dal momento che, nel procedimento pretorile, il decreto di citazione a giudizio, emesso dal pubblico ministero, rappresentando uno degli strumenti di esercizio dell’azione penale, costituisce punto di riferimento idoneo ai fini dell’interruzione della prescrizione « una volta che l’atto risulti perfezionato nei suoi requisiti di sostanza e di forma e si configuri, quindi, come una vera e propria vocatio in iudicium (cfr. ord. n. 155 del 1997) »: la Corte non ritiene dunque corretti gli argomenti utilizzati dal giudice a quo su un presunto squilibrio nel contraddittorio fra imputato e pubblico ministero, affermando che in questo caso « l’addotta diseguaglianza è coessenziale alla tipologia dell’atto cui la legge riconosce l’effetto interruttivo della prescrizione ». Escludendo la violazione dell’art. 24 Cost., la Corte costituzionale compie importanti affermazioni sulla natura stessa della prescrizione, rilevando che « non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorta di « aspettativa » dell’imputato al maturarsi del termine della prescrizione, ma anche perché la conoscenza effettiva dell’atto interruttivo (ovvero, più precisamente, la conoscibilità di esso) non rappresenta condizione per il dispiegarsi delle possibilità difensive attenendo la causa estintiva del reato alle conseguenze derivanti dal decorso del tempo e il diritto di difesa alla possibilità — certo non preclusa all’imputato, dal decorrere l’effetto interruttivo di tale causa dall’emissione anziché dalla notificazione — di contestare il contenuto dell’accusa ». Art. 206 Applicazione provvisoria delle misure di sicurezza — ospedale psichiatrico giudiziario Art. 222 comma 1 Ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (Sent. 11 giugno 1999, n. 228, in G.U., 16 giugno 1999, n. 14 — Non fondatezza) Il giudizio costituzionale ha per oggetto gli artt. 206 e 222, comma 1, c.p., 312 e 313 c.p.p., in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nella parte in cui riservano « alle insindacabili richieste del pubblico ministero se applicare all’infermo di mente socialmente pericoloso la misura di sicurezza provvisoria del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario oppure la misura cautelare della custodia in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero ». La duplice premessa interpretativa da cui muove il giudice a quo è l’infungibilità tra misura di sicurezza e misura cautelare, la quale determinerebbe anche l’impossibilità di fare ricorso alla disposizione di cui all’art. 73 del codice di procedura penale, nonché l’obbligo per lo stesso giudice di attenersi alla richiesta del pubblico ministero, avendo il perito
— 291 — accertato la pericolosità sociale della persona sottoposta alle indagini; tali norme, inoltre, non comporterebbero alcun dovere di motivazione circa la scelta effettuata in concreto, nonostante i presupposti dell’una e dell’altra misura siano identici, e cioè fondati sul comune requisito della pericolosità sociale dell’indagato (la premessa da cui muove il giudice a quo, tuttavia, è sicuramente condivisa dalla giurisprudenza di merito e parrebbe anche implicitamente accettata dalla Corte costituzionale nelle sentenze nelle quali esclude, da un lato, che il periodo trascorso in carcerazione preventiva possa essere tenuto in conto ai fini del computo della durata minima della misura di sicurezza (sent. n. 96 del 1970) e, dall’altro lato, che il tempo della esecuzione provvisoria delle misure di sicurezza possa essere computato nei termini di custodia cautelare (sent. n. 148 del 1987). La Corte costituzionale ritiene infondata la questione di costituzionalità, in quanto sarebbero errati i presupposti interpretativi da cui muove il giudice a quo, sia per ciò che attiene all’ambito dei poteri e dei doveri del giudice in presenza di una richiesta di applicazione provvisoria di misure di sicurezza, sia per quanto riguarda i presupposti della specifica disciplina di cui all’art. 73 c.p.p., che il giudice assume di non essere abilitato ad applicare nel caso di specie. Nella decisione, la Corte costituzionale ammette che l’intera disciplina meriterebbe un’attenta revisione da parte del legislatore, ritenendo tuttavia che, fino a quando tale revisione non avvenga, compito della Corte costituzionale sia quello di orientare l’interprete nella corretta interpretazione delle norme vigenti. La Corte afferma allora che, nel caso di specie, il giudice a quonon abbia correttamente interpretato le disposizioni della legge vigente: egli infatti non era vincolato, né ai risultati delle perizie, né alla richiesta del pubblico ministero, la quale è un presupposto inderogabile sul piano processuale per abilitare il giudice a disporre l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza (art. 312 c.p.p.), ma non obbliga affatto il giudice ad esimersi dal giudizio che a lui solo spetta, ai sensi dell’art. 313 c.p.p. Ciò sarebbe confermato da due considerazioni: in primo luogo l’abrogazione dell’art. 204 c.p. (pericolosità sociale presunta) « ha significato un rafforzamento dell’autonomia e della responsabilità del giudice nella valutazione della pericolosità sociale dell’imputato » ed, in secondo luogo, l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza esige un’ordinanza munita di tutti i requisiti di cui all’art. 292 c.p.p., tra i quali l’esposizione delle specifiche esigenze e degli indici che giustificano in concreto la misura. L’errore del giudice remittente consisterebbe, ad avviso della Corte, anche nel denunciare « la palese identità dei presupposti » degli istituti in esame, consistente nel fondarsi entrambi sulla pericolosità sociale del soggetto: in realtà — sottolinea la Consulta — l’art. 73, commi 1 e 2, c.p.p. non esige affatto tale presupposto, dovendosi valutare solo lo stato mentale (oltre che, nel caso di ricovero, il pericolo nel ritardo) mentre il comma 3 del medesimo articolo richiama un tipo di pericolosità, quella di cui all’art. 274 c.p.p., ben diversa da quella di cui agli artt. 206 e 222 c.p. Infatti, la pericolosità dell’imputato che giustifica il ricorso a misure cautelari exart. 274, comma 1, lett. c) c.p.p. è una pericolosità specifica, che coincide con la probabilità di commissione di un reato di una determinata specie, con specifiche modalità, mentre la pericolosità sociale rilevante ex art. 313 c.p.p. è quella dell’art. 203 c.p., che ha carattere generico, e che consiste nella probabilità che il soggetto commetta in futuro un qualsivoglia reato. Secondo la Corte costituzionale, dunque, alla luce dell’ordinamento vigente,
— 292 — il giudice a quo avrebbe potuto decidere nel senso della non applicazione, nei casi sottoposti al suo esame, dell’internamento provvisorio in ospedale psichiatrico giudiziario e avrebbe potuto anche ricorrere, ove avesse ritenuto sussistenti i requisiti, ad una delle iniziative alternativamente previste nei commi 1 e 2 dell’art. 73 c.p.p. (sull’art. 222 c.p., v. Corte cost., sent. n. 139 del 1982, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 c.p. « nella parte in cui l’internamento dell’incapace non veniva subordinato all’accertamento, da parte del giudice di cognizione o di esecuzione, della persistenza della pericolosità sociale, derivante dalla causa di infermità, verificata al momento di applicazione della misura di sicurezza » — decisione molto importante, perché sancisce la irragionevolezza della presunzione di persistenza della pericolosità sociale, implicita nel disposto dell’art. 222, nonostante la conferma della astratta compatibilità tra Costituzione e presunzione di pericolosità —; si veda, inoltre, di recente, Corte cost., sent. n. 324 del 1998, che dichiara l’incostituzionalità degli artt. 206 e 222 c.p. « nella parte in cui consentono che sia disposto nei confronti dei minori il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario ») MARILISA D’AMICO Professore associato di diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza dell’Università dell’Insubria
b) PROGETTI DI RIFORMA
DISEGNO DI LEGGE: RATIFICA ED ESECUZIONE DEI SEGUENTI ATTI INTERNAZIONALI ELABORATI IN BASE ALL’ARTICOLO K.3 DEL TRATTATO SULL’UNIONE EUROPEA: CONVENZIONE SULLA TUTELA FINANZIARIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE, FATTA A BRUXELLES IL 26 LUGLIO 1995, DEL SUO PRIMO PROTOCOLLO FATTO A DUBLINO IL 27 SETTEMBRE 1996, DEL PROTOCOLLO CONCERNENTE L’INTERPRETAZIONE IN VIA PREGIUDIZIALE, DA PARTE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE, DI DETTA CONVENZIONE, CON ANNESSA DICHIARAZIONE, FATTO A BRUXELLES IL 29 NOVEMBRE 1996, NONCHÉ DELLA CONVENZIONE RELATIVA ALLA LOTTA CONTRO LA CORRUZIONE NELLA QUALE SONO COINVOLTI FUNZIONARI DELLE COMUNITÀ EUROPEE O DEGLI STATI MEMBRI DELL’UNIONE EUROPEA, FATTA A BRUXELLES IL 26 MAGGIO 1997 E DELLA CONVENZIONE OCSE SULLA LOTTA ALLA CORRUZIONE DI PUBBLICI UFFICIALI STRANIERI NELLE OPERAZIONI ECONOMICHE INTERNAZIONALI, CON ANNESSO, FATTA A PARIGI IL 17 SETTEMBRE 1997 Il 4 dicembre 1998 il Governo ha presentato in Parlamento il disegno di legge in epigrafe (n. 5491/C), approvato con modifiche dalla Camera dei Deputati il 24 marzo 1999 e, con ulteriori modifiche dal Senato (dove il disegno di legge ha preso il n. 3915/S) il 10 maggio 2000 (1). a) L’obbiettivo del primo degli atti internazionali oggetto di ratifica (la Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità europee, nota come Convenzione P.I.F.) è quello di assicurare la repressione negli Stati membri dell’Unione europea — di regola con sanzioni di natura penale — delle frodi lesive degli interessi finanziari delle Comunità europee, sia in materia di spese che di entrate, così come definite dall’art. 1 della Convenzione. Su questo versante, la legislazione italiana non abbisogna di un incisivo intervento di attuazione, vista l’esistenza di norme penali già rivolte ad assicurare la tutela: si pensi, per quanto concerne le frodi in materia di spese, alle fattispecie di cui agli artt. 316-bis e 640-bis del codice penale che soddisfano gli obblighi derivanti dagli artt. 1 e 2 della Convenzione. Peraltro, proprio il citato art. 2 stabilisce, con riguardo all’apparato sanzionatorio, distinte soglie quantitative aventi ad oggetto l’« importo della frode »: da un lato, viene fissato l’importo di 50 mila ECU, oltrepassato il quale gli Stati sono tenuti a prevedere sanzioni privative della libertà personale suscettibili di compor(1) Il testo del disegno di legge e delle successive modifiche è pubblicato a p. 401 ss.
— 294 — tare l’estradizione; dall’altro lato, questa volta verso il basso, si staglia una soglia pari a 4 mila ECU, al di sotto della quale è possibile comminare sanzioni di natura diversa da quella penale. Il problema dell’allineamento del nostro sistema si pone solo con riguardo alla seconda soglia e coinvolge la materia della illecita percezione di contributi o altre erogazioni a carico del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (cfr. la violazione di cui all’art. 2, comma 1, l. 23 dicembre 1986, n. 898, come sostituito dall’art. 73 della l. 19 febbraio 1992, n. 142). Qui si prevede l’irrogazione di una sanzione amministrativa quando la somma indebitamente percepita risulta pari o inferiore a lire 20 milioni: la disciplina si pone, così, in contrasto con il citato art. 2 della Convenzione. Di conseguenza, l’art. 5 del disegno di legge allinea la soglia di criminalizzazione a quella comunitaria, portando da 20 a 7 milioni di lire il limite al di sopra del quale intervengono le sanzioni penali. Sul versante delle frodi in tema di entrate, vengono in rilievo le disposizioni relative al contrabbando doganale, previste dal testo unico approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43. Qui l’intervento di adeguamento è stato effettuato (v. art. 4 del d.d.l.) affiancando una nuova aggravante a quelle già previste dall’art. 295 del citato testo unico: in buona sostanza, si prevede l’applicazione della sanzione detentiva quando i diritti di confine evasi superano i 50 milioni di ECU. In questa evenienza, tuttavia, l’aggravamento sanzionatorio è sensibilmente meno severo (reclusione fino a tre anni oltre la multa) di quello riservato alle altre aggravanti (reclusione da tre a cinque anni oltre la multa). Si impone, peraltro, un’ulteriore importante precisazione. La delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori, approvata con l. 25 giugno 1999, n. 205, prevede (all’art. 6) la trasformazione in illeciti amministrativi delle violazioni in materia di contrabbando di cui agli artt. 282, 283, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 294, 295, comma 1, e 296 del testo unico citato. Per evitare il contrasto con i descritti obblighi posti dalla Convenzione PIF, si è stabilito che la depenalizzazione non operi (con il conseguente mantenimento della natura penale delle relative violazioni) quando l’ammontare dei diritti di confine superi i sette milioni di lire, il valore soglia, cioè, corrispondente ai 4 mila ECU fissati nella Convenzione. b) Il primo Protocollo della Convenzione PIF e la Convenzione dell’Unione europea sulla corruzione si presentano strettamente collegati. L’obbligo fondamentale va individuato nell’esigenza di criminalizzare le condotte di corruzione che coinvolgono funzionari comunitari o degli Stati membri. Mentre il primo Protocollo restringe l’orbita delle incriminazioni, conferendo rilievo alle condotte idonee a ledere gli interessi finanziari delle Comunità europee, tale delimitazione non compare nella Convenzione che, pertanto, finisce con l’assorbire i contenuti del Protocollo. Poiché le norme previste dal codice penale in tema di concussione e corruzione soddisfano, sul piano materiale, l’obbligo di criminalizzazione testé descritto, l’unico problema concerne l’estensione della tipologia dei soggetti attivi del reato. In questo senso, quanto alla tecnica dell’intervento seguita nel disegno di legge, si chiarisce nella relazione esplicativa che ‘‘impraticabile è apparsa la soluzione di operare singulatim sulle formule descrittive delle diverse ipotesi di reato, stante il rilevante numero di norme incriminatrici nelle quali, nel nostro ordina-
— 295 — mento, si frantuma la repressione penale del fenomeno ‘corruzione’ latamente inteso; dovendosi optare, piuttosto, per una norma estensiva unitaria riferita all’intero corpus considerato’’. In coerenza con questo intendimento, l’art. 3 del disegno di legge prevede l’inserimento di un nuovo art. 322-bis nel codice penale, destinato a sancire l’estensione dell’applicazione degli artt. da 317 a 320 c.p. e dell’art. 322, commi 3 e 4, c.p. nei confronti dei soggetti elencati negli artt. 1 e 4 del primo Protocollo e della Convenzione (membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee; funzionari delle Comunità europee e agenti assunti per contratto; persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi Ente pubblico o privato presso le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle Comunità europee; membri o addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati istitutivi delle Comunità europee; tutti coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione, svolgono funzioni corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio). L’ultimo comma dell’art. 322-bis stabilisce inoltre che tali soggetti sono assimilati ai pubblici ufficiali qualora esercitino funzioni corrispondenti e agli incaricati di pubblico servizio negli altri casi. Questa disposizione tende ad evitare un generale livellamento verso l’alto della responsabilità dei funzionari europei, a fronte del differente regime che nel nostro ordinamento è riservato alla figura del pubblico ufficiale e all’incaricato di un pubblico servizio. c) La Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici funzionari stranieri ha come obbiettivo l’introduzione, nei paesi firmatari, di norme incriminatrici della corruzione attiva dei pubblici funzionari stranieri rivolta ad ottenere o a conservare un affare o un altro indebito vantaggio nell’ambito del commercio internazionale. È evidente che, anche in questo caso, si determina una interferenza con gli strumenti dell’Unione europea. Sul piano oggettivo, questa Convenzione ha uno spazio applicativo più ridotto, visto che si occupa soltanto di ipotesi di corruzione attiva finalisticamente orientate; sul piano soggettivo, per contro, il suo raggio di operatività è più vasto, atteso che la corruzione si estende ai pubblici funzionari di qualunque Stato estero o organizzazione pubblica internazionale. Pertanto, l’intervento di adeguamento viene realizzato con esclusivo riferimento a questo secondo aspetto: il nuovo art. 322-bis, comma 2, n. 2), c.p., prevede che le disposizioni degli artt. 321 e 322, comma 1 e 2, si applicano anche quando il denaro o altra utilità è dato, offerto o promesso ai pubblici funzionari (rispettivamente pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio) di altri Stati esteri o di altre organizzazioni pubbliche internazionali, quando i fatti sono stati commessi per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali. La Convenzione OCSE contiene inoltre due importanti previsioni che necessitano di adeguamento nell’ordinamento nazionale. La prima concerne l’obbligatorietà della confisca dei proventi dei fatti di corruzione e la possibilità di introdurre quella forma ‘‘moderna’’ di confisca, nota come ‘‘confisca di valore o per equivalente’’, destinata ad operare quando non risulti apprensibile ‘‘direttamente’’ la tangente o il provento della corruzione. A questo scopo, l’art. 3 del disegno di legge introduce un nuovo art. 322-ter nel c.p., in cui si stabilisce, nel caso di condanna (anche a pena ‘‘patteggiata’’) per taluno
— 296 — dei reati previsti dagli artt. da 317 a 322-bis c.p., l’obbligatorietà della confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, ovvero, se essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente al profitto o al prezzo. Come si vede, la nuova configurazione della confisca, che in parte replica il contenuto della previsione di cui all’art. 644, comma 5, c.p., in materia di usura, è stata estesa anche a reati contro la pubblica amministrazione, diversi dalla corruzione attiva: tale estensione corrisponde ad intuibili esigenze di omogeneità di trattamento. La seconda disposizione della Convenzione che necessita di adeguamento è forse quella destinata ad avere maggiori ripercussioni sistematiche e politico-criminali sul piano interno. L’art. 2 della Convenzione stabilisce, infatti, che gli Stati firmatari debbono impegnarsi ad adottare le misure necessarie, secondo i propri principi, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche per la corruzione dei pubblici funzionari stranieri. La norma, dunque, fissa il principio della responsabilità sanzionatoria delle persone giuridiche, senza tuttavia imporre il ricorso alla sanzione penale, in previsione delle difficoltà che una simile scelta avrebbe potuto indurre nei diversi ordinamenti. Il Governo italiano, nella consapevolezza che l’allineamento alla Convenzione avrebbe comportato un intervento di ampio respiro e di rilevante impatto sull’ordinamento, ha fatto ricorso ad una norma ‘‘programmatica’’, contenutisticamente vuota: l’art. 6 del disegno di legge afferma lapidariamente che spetta alla legge indicare i casi nei quali le persone giuridiche sono autonomamente responsabili dei reati previsti dalla Convenzione. Appariva quindi chiaro l’intento del Governo di ‘‘dilazionare’’ la riforma su un terreno così impegnativo e denso di implicazioni. A questo proposito, pare opportuno precisare che presso il Ministero di Grazia e Giustizia era stato istituito, nel giugno 1998, un Gruppo di lavoro, composto da docenti universitari e magistrati, incaricato di studiare la configurabilità di un sistema di responsabilità sanzionatoria penale o amministrativa della persona giuridica; il Gruppo aveva terminato la prima parte dei lavori nel settembre 1998, depositando una relazione dalla quale emergeva come ipotesi prevalente quella di prefigurare un sistema di responsabilità penale degli enti collettivi. Sta di fatto che proprio la scelta (o per meglio dire la ‘‘non scelta’’) contenuta nell’art. 6 del disegno di legge ha animato e assorbito il dibattito presso la Commissione Giustizia ed Affari esteri della Camera. Nella seduta del 4 febbraio 1999, il Relatore (On. Cesetti, del gruppo dei D.S.) denunciava il carattere di norma ‘‘manifesto’’ rivestito dall’art. 6, tale da far dubitare che potesse integrare una attuazione degli obblighi della Convenzione OCSE. Nelle successive sedute, i rappresentanti dei partiti di opposizione paventavano il rischio che la norma potesse favorire l’adozione di un sistema di responsabilità penale, verso il quale manifestavano una netta contrarietà (v. gli interventi degli Onn. Gazzilli e Marotta, del gruppo di F.I.). Il Governo, da parte sua, chiariva che lo scopo dell’art. 6 era in sostanza quello di favorire la successiva presentazione di un organico disegno di legge-delega (v. intervento del Sottosegretario di Stato, On. Li Calzi). Lo stato di impasse che si veniva profilando è stato superato con la presentazione di un emendamento da parte del Relatore, interamente sostitutivo dell’art. 6.
— 297 — L’emendamento, approvato dalla Camera, delegava il Governo a delineare un sistema di responsabilità amministrativa della persona giuridica limitatamente ai reati menzionati nel disegno di legge. Il criterio di imputazione della responsabilità all’ente collettivo era conformato dal ‘‘tipo’’ di sanzione irrogata. Così, l’applicazione della sanzione pecuniaria presupponeva soltanto che il reato fosse stato commesso ‘‘a vantaggio’’ della persona giuridica, mentre per l’irrogazione delle più gravi sanzioni interdittive (chiusura temporanea dello stabilimento, revoca della concessione, sospensione dell’attività produttiva) e della confisca, si richiedeva che l’illecito risultasse ‘‘strumentale’’ all’attività della persona giuridica. Quanto al procedimento di applicazione della sanzione amministrativa, la norma di delega affidava all’autorità amministrativa ‘‘territorialmente competente’’ il potere di individuare e applicare la sanzione, senza peraltro fornire alcun parametro, sufficientemente determinato, idoneo a conformare un siffatto potere discrezionale. Si prevedeva poi la trasmissione all’autorità amministrativa della sentenza penale che accerta la responsabilità penale e la sussistenza dei presupposti di cui alle lett. b) e c) della norma (vale a dire che il reato sia stato commesso dai responsabili o dai sottoposti della persona giuridica a vantaggio di questa e che l’illecito risulti strumentale all’attività della persona giuridica). I presupposti per l’irrogazione della sanzione amministrativa venivano dunque ricavati dall’accertamento del giudice penale, senza che, tuttavia, la persona giuridica assumesse alcuna veste nel procedimento penale. Vi è da segnalare un’evenienza che sembra sfuggita nel corso dei lavori parlamentari, relativa alla circostanza che il procedimento penale non abbia alcuno sviluppo a causa della morte del reo o per il sopraggiungere di una vicenda estintiva. In questi casi, il provvedimento che rileva la causa estintiva non ‘‘cristallizza’’ alcun accertamento, così che l’autorità amministrativa risulterà sprovvista dell’aggancio sostanziale sul quale incardinare la procedura per l’irrogazione della sanzione. Come si è detto, l’emendamento del Relatore è stato approvato dalla Camera ed ha pertanto soppiantato la disposizione dell’art. 6. Le altre parti del disegno di legge sono state invece sostanzialmente approvate nella versione del testo governativo. Il provvedimento è stato trasmesso alla Presidenza del Senato il 25 marzo 1999. Il 24 novembre 1999 è iniziato presso le Commissioni riunite Giustizia e Affari esteri del Senato l’esame generale del testo licenziato dalla Camera. I Relatori (Senn. Pettinato e Maggiore) hanno subito evidenziato l’inadeguatezza del sistema di responsabilità sanzionatoria delle persone giuridiche prefigurato nell’art. 6 del testo approvato dalla Camera, oltre alla necessità di apportare modifiche su altri aspetti qualificanti del disegno di legge. Si è proceduto pertanto a nominare un Comitato ristretto che ha elaborato un nuovo testo successivamente emendato in Commissione e consegnato per l’esame dell’Aula il 28 marzo 2000. Queste le principali novità apportate dalle Commissioni riunite del Senato rispetto alla versione approvata dalla Camera. 1) Nell’art. 3 è stata interamente riscritta — ferma restando la sua obbliga-
— 298 — torietà applicativa — la norma in tema di confisca, da un lato prevedendo che la stessa debba trovare applicazione anche nel caso di condanna per il reato di cui all’art. 316-bis c.p. (malversazione a danno dello Stato), dall’altro lato stabilendo che la confisca per equivalente operi, quando vi sia stata condanna per taluno dei reati previsti dagli artt. da 316-bis a 320 c.p., sui beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo del reato; nel caso in cui, invece, la condanna intervenga per il reato di cui all’art. 321 c.p., la confisca per equivalente è destinata a colpire i beni corrispondenti al profitto ricavato dal reato. La disciplina della confisca presenta in tal modo una diversa latitudine operativa, condizionata dalla tipologia del reato commesso. Va inoltre segnalato che, quando la confisca interviene in seguito alla condanna per uno dei delitti da 316bis a 320 c.p., essa ha ad oggetto i beni che ne costituiscono il prezzo e il profitto, mentre la confisca ‘‘per equivalente’’ (destinata a subentrare quando non sia possibile l’apprensione del corpus delicti) si proietta sui beni di valore corrispondente al solo prezzo del reato e non anche al profitto. Si è prevista, infine, l’estensione delle norme sulla confisca anche ai reati di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, 640-bis e 640-ter, comma 2, del c.p. 2) Sono stati aggiunti due commi all’art. 640-bis c.p., diretti a fornire una definizione della condotta di frode penalmente rilevante e a ritagliare un valoresoglia quale discriminante della natura dell’illecito; così sul primo versante, si stabilisce che la condotta illecita descritta nel comma 1 dell’art. 640-bis coincide con l’utilizzazione o la presentazione di documenti falsi ovvero — e questo è l’aspetto maggiormente significativo — nella omissione di informazioni dovute, cui faccia seguito l’indebito percepimento dei benefici provenienti dagli enti. Quanto al valore soglia, assume rilievo penale solo il conseguimento di benefici per un importo superiore a venti milioni di lire: al di sotto di questo limite l’illecito degrada a violazione amministrativa. 3) Nell’art. 7 è stato completamente ridisegnato il sistema di responsabilità sanzionatoria delle persone giuridiche, con una drastica inversione di rotta rispetto alla scelta operata dalla Camera. La nuova disciplina — comunque imperniata sull’istituto della delega al Governo — è derivata dall’approvazione da parte delle Commissioni riunite di un emendamento presentato dal Governo (le cui finalità sono state illustrate dal Sottosegretario di Stato Sen G. Ayala) sul quale si sono innestati alcuni emendamenti integrativi dei Relatori. Il sistema configura una responsabilità sanzionatoria di natura amministrativa (in ciò replicando la scelta della Camera), la cui gestione (accertamento e decisione) viene tuttavia interamente affidata alla competenza del giudice penale, quale che sia la decisione sulla responsabilità penale delle persone fisiche (v. art. 7, comma 1, lett. m)). Quanto ai soggetti collettivi destinatari della disciplina, si prevede che la stessa operi con riguardo alle persone giuridiche private e alle società, associazioni o enti sprovvisti di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale (quest’ultima delimitazione ha evidentemente la funzione di escludere il coinvolgimento dei sindacati e dei partiti politici). È stato inoltre esteso il novero dei reati che possono incardinare la responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi (art. 7, comma 1): vi sono ricompresi non soltanto quelli previsti dagli strumenti da ratificare, ma anche fattispecie che disegnano una analoga finalità di tutela (316-bis, 640, comma 2, n. 1, 640-bis e 640-
— 299 — ter, comma 2, c.p.) ovvero i reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio o conseguenti alla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro (quest’ultima estensione è da ricondurre a un emendamento integrativo presentato dai Relatori). In ordine ai meccanismi di imputazione dell’illecito ai soggetti collettivi, la lett. b) del citato comma 1 dell’art. 7 stabilisce che detti soggetti siano responsabili dei reati commessi, a loro vantaggio o nel loro interesse, da chi svolge funzioni di rappresentanza o di amministrazione o di direzione, ovvero, da chi esercita, anche in via di fatto, poteri di gestione o di controllo; quando il reato è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza delle persone fisiche collocate in una posizione apicale nell’ente, quest’ultimo risponde se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi alle funzioni. La responsabilità degli enti collettivi è comunque esclusa quando l’autore ha commesso il reato nell’esclusivo interesse proprio o di terzi. Quanto all’arsenale sanzionatorio, il ruolo principale è assegnato alla sanzione pecuniaria (non inferiore a lire cinquanta milioni e non superiore a lire tre miliardi). Nei casi di particolare gravità o quando l’ente è stato costituito o viene stabilmente impiegato per commettere reati, si prevedono sanzioni interdittive, quali la chiusura dello stabilimento, la sospensione o la revoca delle licenze, l’interdizione temporanea dall’esercizio dell’attività, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione da agevolazioni o finanziamenti o la revoca di quelli già concessi. A ciò si aggiunge la confisca del profitto o del prezzo del reato, anche nella forma per equivalente. La sanzione pecuniaria potrà subire una significativa attenuazione (da un terzo alla metà) e non si farà luogo all’applicazione delle sanzioni interdittive, quando gli enti collettivi abbiano adottato comportamenti idonei ad assicurare la riparazione o la reintegrazione dell’offesa arrecata dal reato. Viene poi previsto che l’ampio ventaglio di sanzioni amministrative interdittive possa trovare applicazione, ad opera del giudice penale, anche in sede cautelare durante il procedimento penale. Stante la competenza del giudice penale ad irrogare le sanzioni, si delega il governo a prevedere adeguate forme di partecipazione e di difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale. 4) Una ulteriore novità introdotta dalle Commissioni riunite rispetto al testo licenziato dalla Camera è contenuta nell’art. 8 che delega il Governo ad emanare un decreto legislativo per disciplinare le modalità con cui gli organi giurisdizionali nazionali possono richiedere che la Corte di giustizia delle Comunità europee si pronunci in via pregiudiziale sull’interpretazione della Convenzione PIF e del suo primo protocollo. Il 10 maggio 2000 l’Aula del Senato ha approvato, con talune modifiche, il testo predisposto dalle Commissioni riunite. Rispetto a quest’ultimo, la versione licenziata dal Senato contiene le seguenti novità. 1) È stato aggiunto un nuovo comma all’art. 7 del codice penale (v. art. 3 del testo del Senato), in forza del quale si prevede la punibilità secondo la legge italiana del cittadino che commette in territorio estero taluno dei delitti previsti dall’introducendo art. 322-bis c.p. o dall’art. 640-bis se il fatto ha ad oggetto
— 300 — somme erogate o concesse dalle Comunità europee, nonché la punibilità dello straniero che commette in territorio estero taluno di detti delitti quando il prezzo o il profitto è stato conseguito da cittadino italiano o da cittadino comunitario avente residenza o dimora in Italia a condizione, in questo caso, che vi sia il consenso dello Stato di appartenenza. 2) Nell’art. 322-bis il novero dei reati riferibili ai membri delle Comunità europee e ai funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri viene esteso al peculato (v. art. 4). 3) Rispetto al testo predisposto dalle Commissioni riunite, viene eliminata la norma relativa alla definizione della condotta di frode: al suo posto, l’art. 5 introduce la nuova fattispecie incriminatrice dell’art. 316-bis c.p. che sanziona l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. La norma prevede la reclusione da sei mesi a tre anni, salvo che il fatto costituisca il reato di cui all’art. 640bis c.p., per chiunque, mediante l’utilizzazione o la presentazione di documenti falsi ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute consegue indebitamente contributi, finanziamenti o altre erogazioni da parte dello Stato, di altri enti pubblici o dalle Comunità europee. Se l’importo conseguito è inferiore a lire settemilionisettecentoquarantacinquemila la violazione assume natura di illecito amministrativo (l’abbassamento del valore soglia rispetto a quello di venti milioni di lire che figurava nel testo delle Commissioni si è reso evidentemente necessario per non violare il contenuto dell’art. 2 della Convenzione PIF). 4) L’art. 6 del testo approvato dal Senato interviene sul comma 3 dell’art. 9 e sul comma 2 dell’art. 10 del c.p., includendo le Comunità europee tra i soggetti a danno dei quali è stato commesso il delitto comune del cittadino o dello straniero all’estero. 5) Il criterio di delega relativo alla responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi è stato arricchito di sei nuove lettere che tuttavia, non alterano l’impianto della disciplina predisposta dalle Commissioni riunite. Tre nuove disposizioni sono frutto dell’approvazione di altrettanti emendamenti presentati dai Relatori. A tal proposito, la lett. m) dell’art. 12 (già art. 7 nel testo delle Commissioni) prevede una sanzione penale per le persone fisiche e per gli enti in presenza della violazione degli obblighi connessi alle sanzioni interdittive irrogate nei confronti dell’ente. La lett. p) disciplina la prescrizione delle sanzioni amministrative applicabili agli enti, stabilendo che esse si prescrivono nel termine di cinque anni dalla consumazione del reato e che l’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile. La lett. q) prevede, infine, l’istituzione di un’Anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative irrogate nei confronti degli enti collettivi. Le lett. r), s) e t) dell’art. 12 derivano invece dall’approvazione di emendamenti presentati dai Senn. Caruso e Bucciero e intendono accrescere, con disposizioni di dettaglio, la tutela dei soci estranei alla consumazione dell’illecito. In proposito, si prevede (nella lett. r)), il diritto dell’azionista, del socio o dell’associato di recedere dalla società o dall’associazione o dall’ente e che la liquidazione della quota possa avvenire anche in danno dei soggetti che hanno determinato la responsabilità dell’ente collettivo. La lett. s) prevede che l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’ente collettivo di cui sia stata accertata la responsabilità amministrativa venga deliberata dall’assemblea con il voto favorevole di
— 301 — almeno un ventesimo del capitale sociale, quando quest’ultimo è inferiore a cinquecento milioni, e di almeno un quarantesimo in tutti gli altri casi. Il disegno di legge, viste le profonde modifiche apportate dal Senato al testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati, è stato trasmesso al Presidente della Camera per il prosieguo dell’esame parlamentare. CARLO PIERGALLINI Magistrato f.r. addetto all’Ufficio I della Direzione generale degli Affari penali del Ministero della Giustizia
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
AA.VV., Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, a cura di A. Acerbi e L. Eusebi, Vita e Pensiero, Milano, 1998, pp. 1-272. ‘‘Stiamo combattendo il crimine in un quadro culturale adeguato ?’’. È una delle domande difficili e incalzanti poste dal cardinale Carlo Maria Martini nel contributo su Cultura della pena e coscienza ecclesiale che, insieme alla Conclusione di uno dei curatori, Antonio Acerbi, compendia, ma anche completa i contenuti di un’opera a più voci, scandita dalla rivelazione delle corrispondenze, sovrapposizioni e interazioni tra il pensiero teologico e molti nervi scoperti della odierna ‘‘questione criminale’’. Alla — scontata e dolente — inadeguatezza delle risorse intellettuali, prima ancora che materiali, ‘‘investite’’ oggi da società e istituzioni nella materia penale, il libro oppone un’analisi in profondità, sostenuta da una costante attenzione alle radici storico-culturali di idee alte (si pensi, per tutte, a ‘‘giustizia’’, ‘‘perdono’’ o ‘‘pentimento’’), al cui cospetto sembra sgretolarsi l’armamentario degli stereotipi su cui quotidianamente insiste la vetrina massmediologica e politica: a cominciare dall’ossessiva antinomia garantismo-giustizialismo, per finire con i distratti ‘‘perdonismi’’ i quali, come si ricorda nel contributo di Pietro Bovati (v. infra), ben poco hanno da spartire con il ‘‘perdono’’ della tradizione teologica, che è sempre e solo un primo passo, non uno sbrigativo atto finale dell’iter di giustizia. In questo libro per la prima volta, non solo in Italia, la teologia viene dunque chiamata a prendere posizione sulla questione criminale. Ed è di per sé motivo di riflessione constatare quanto sia proprio l’argomento teologico, con la sua apparente quanto scandalosa ‘‘inattualità’’, a propiziare un salutare distacco dal ‘‘mercato’’ che oggi si fa della questione criminale (nel duplice senso di mercimonio e di confusione chiassosa) e ‘‘dalla sottile violenza dell’evidenza immediata delle cose’’ di cui parla Gianni Colzani (v. infra); quanto esso aiuti ad assottigliare la pericolosa ‘‘discrepanza’’ tra atteggiamento cognitivo ed emotivo al cospetto della pena, da tempo censito e lamentato in ambito penalistico e criminologico e non solo prerogativa delle ‘‘rozze menti volgari’’ prese di mira da Cesare Beccaria. Sarebbe quindi un errore vedere nel libro, o anche soltanto in alcuni suoi passaggi, all’apparenza più iniziatici, il terreno di una discussione esclusivamente interna a tale disciplina o al mondo cattolico. Si pensi al serrato confronto critico condotto con gli aspetti penali del Catechismo della Chiesa cattolica, negli scritti di Lattuada ed Eusebi. E si pensi anche alle sottili riflessioni annodate attorno al testo paolino (Romani 13, 1-7), ridimensionato quanto alle sue valenze retributive nel contributo di Alessandro Sacchi (v. infra), ma, certo, significativo, come notava recentemente Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, 18 ottobre 1998, p. 28), purché sorretto da ‘‘un’operazione ermeneutica puntuale’’ capace di superare il letteralismo biblico e scoprire le potenzialità di attualizzarne il testo al cospetto delle concretezze della nostra società e del nostro tempo; e dunque da leggersi, con quel suo invito per il cristiano a sottomettersi alle autorità costituite, come critica a ogni spiritualismo di comodo, a favore dell’impegno nella società civile, e come rifiuto della concezione di un potere irrimediabilmente demoniaco, retaggio di una superata visione apocalittica popolare. Anche alla visione più disincantata riesce difficile avvertire simili temi come retaggio esclusivo degli ‘‘addetti’’ al ‘‘lavoro’’ teologico, non foss’altro perché la loro discussione rivela modelli di penetrazione storico-culturale del testo biblico molto interessanti anche per il giurista, uso ad un analogo sforzo di concretizzazione dei testi normativi e dottrinali. È poi di per sé l’alleggerimento del pensiero teologico dai cascami dell’idea retributiva, propiziato
— 303 — da questo stesso lavoro ermeneutico, che ne comporta una reale apertura alla comunicazione con il pensiero laico: un pensiero votato all’accettazione del pluralismo e della complessità, e tuttavia costretto continuamente a fare i conti con la potente attrazione esercitata sulle società moderne dal miraggio regressivo della uniformazione e semplificazione, anche sotto forma di un’‘‘idea’’, come quella retributiva, che necessariamente sospinge verso la confortante ‘‘ovvietà del nesso tra colpa e pena’’. O cui si annette la visione troppo trionfale di una pena che in realtà, come sottolinea Antonio Acerbi, suggella sempre un fallimento individuale e sociale, è ‘‘il segno della resa a una condizione di impotenza, nella quale per la debolezza di tutti la giustizia non riesce a raggiungere il suo vero scopo’’. L’obiettivo espresso nell’Introduzione dello stesso Acerbi è del resto di mostrare come ‘‘la cultura teologica possa oggi contribuire alla riflessione della società civile sulla riforma dei modelli sanzionatori penali e, più in generale, sulla definizione di strategie di politica penale razionali e rispettose della dignità umana’’. ‘‘In altri termini, il fine non è quello di trovare la migliore giustificazione teorica della pena, così come questa si è tradizionalmente configurata nella prassi statuale, né di fondare una teoria cristiana della pena, bensì quello di chiarire quali esigenze la teologia sia in grado di porre in evidenza per una rinnovata progettazione dell’intervento sociale circa il problema della criminalità’’. Ben prima del coronamento di tali suoi propositi e contenuti, il libro si segnala già per la sua compatta cifra dialogica, tutto attraversato com’è dalla ricerca della chiarificazione e delimitazione di mondi e concetti, indi dal confronto tra identità così distinte, e infine da percorsi che disvelano, di queste, i molteplici e impensati piani di rispecchiamento. Un tale gioco di rifrazioni definisce innanzi tutto l’orizzonte interdisciplinare della ricerca e dunque la distinzione, ma anche l’interazione tra sapere teologico e diritto penale. Il punto di partenza è allora una riflessione che coinvolge il mondo teologico in sé, di cui non si esita a censire le manques, visto che, come ricorda Alberto Bondolfi, il tema della pena vi appare relegato alla marginalità: un dato tanto più sorprendente alla luce di una storia del pensiero penale europeo che trova negli scritti biblici ‘‘una delle sue radici più importanti’’. Latita nella teologia contemporanea una ricerca esegetica sul problema della pena in chiave sistematica e non settoriale. Si ribadisce così un bisogno di approfondimento in questo campo, nei suoi fondamenti e nelle implicazioni metodologiche, cui proprio il libro qui presentato, lungo la via tracciata dal noto lavoro monografico di Eugen Wiesnet e dalla sua revisione della categoria biblica dell’espiazione, intende contribuire. Parrebbe quasi che lo svolgersi soprattutto in seno al dibattito secolare di una questione così cruciale abbia comportato, per la teologia, uno spogliarsi di quel fardello e anche, assai più insidiosamente, una sua identificazione a volte troppo distratta negli esiti che la sua presa in carico in altra sede veniva producendo nel corso degli anni. Esiti seducenti quanto proditori, da cui origina l’esigenza non più eludibile di un confronto interdisciplinare tra i due mondi e, prima ancora, quella di una ridefinizione delle rispettive identità con riferimento a tale centrale questione. Si ha cura quindi di mostrare e dimostrare più volte come le credenziali teologiche esibite dal pensiero secolare, segnatamente sul terreno retributivo, siano sostanzialmente prive di fondamento; e come, per converso, la teologia sia esposta al rischio di fare proprio l’uso e l’abuso di quest’idea invalsi in sede giuridica. La distinzione viene tracciata anche tra ricerca criminologica e fondazione morale: si esclude quindi che il concetto di colpa possa essere oggetto diretto di analisi empirico-criminologica, in quanto idea-guida cui non corrisponde necessariamente un fatto empiricamente osservabile o una realtà facilmente oggettivabile. E possiamo certamente concordare sul punto, ancorché potente, pervasiva e a tutt’oggi sottostimata ci appaia la chiarificazione che lo studio delle fenomenologie della colpa e dell’uso storico di questa categoria può recare sullo stesso terreno della sua fondazione morale. Lo stesso registro di una revisione in primis interna al sapere teologico assume il contributo di Pietro Bovati (Pena e perdono nelle procedure giuridiche dell’Antico Testamento). Vi si prendono le distanze dalle concezioni penali dell’Antico Testamento, così lontane dalla prassi giuridica, ma soprattutto dalla sensibilità moderna. La rilettura del testo biblico serve
— 304 — soprattutto per attingere spunti e suggerimenti utili a un esercizio ‘‘sapiente’’ della pena, condotto attraverso due ‘‘vie di giustizia’’: la procedura penale del giudizio e quella della lite. In quest’ultima la punizione sta all’inizio del procedimento, non come strumento espiatorio, ma come mezzo per parlare al colpevole, per suscitare una risposta giusta da parte sua, per fare il suo bene; l’intenzionalità ultima del promotore di questa procedura è il perdonare, come illustrato dalla storia biblica di Giuseppe. La procedura della lite ha la sua collocazione tipica nell’ambito familiare, ma è punto di riferimento per individui o gruppi che, anche al di fuori di una famiglia di sangue, ‘‘intendono comportarsi reciprocamente come fossero membri della stessa famiglia’’. Bovati mette in luce l’equivoco, in parte linguistico, che ha indotto a ritenere che nell’Antico Testamento la reazione al male si esplichi mediante la vendetta: il significato è piuttosto che la Scrittura afferma la necessità di una risposta all’atto criminoso, di ‘‘ristabilimento del diritto’’, restando peraltro ‘‘variegata e mobile’’ sulle modalità concrete di applicazione della sanzione. Da vari brani, in cui sembra ricorrere la regola della retribuzione, emerge piuttosto la necessità della pena giusta, proporzionata ed efficace e le stesse equivalenze fissate dalla regola della retribuzione vengono interpretate, non prese alla lettera. L’analisi condotta da Alessandro Sacchi (Colpa e pena in Rm 13, 1-7 nel contesto del messaggio evangelico) sul Nuovo Testamento mette in luce come il tema della pena irrogata dai tribunali vi sia affrontato solo in modo indiretto. I brani in cui, sia pure vagamente, si parla di una pena retributiva (in Rm 13, 1-7 e 1Pt 2, 13-17) sono testi tardivi, di rilievo marginale rispetto ai contenuti centrali del messaggio cristiano e dove prevale, sul tema della pena, quello del rapporto con lo Stato in una pacifica convivenza; si accentuano piuttosto l’attenzione alla prevenzione, in vista di una serena convivenza, la riparazione e reintegrazione del reo, le istanze di mediazione tra colpevole e parti lese, nonché l’esigenza che la punizione, laddove necessaria, debba favorire il pentimento del condannato. L’ampio e articolato contributo di Enrico Mazza (Il rito della riconciliazione dei penitenti, tra espiazione penale e reintegrazione sociale), esperto liturgista, snoda una serrata ricostruzione della storia della penitenza, che mette in luce le differenze nel suo rito a seconda delle epoche; un rito che solo in uno stadio più recente perviene alla forma auricolare, facendo delle motivazioni interiori e dell’intenzione la pietra angolare di valutazione dell’uomo e del suo comportamento. Grazie anche a questi chiarimenti ‘‘interni’’ al sapere teologico, ma non privi, come visto, di acuminati spunti autocritici e di stimoli alla riflessione secolare, l’opera si protende quindi verso una riappropriazione della zona mediana (ma sarebbe meglio dire, verso la contesa ‘‘terra di nessuno’’) in qualche modo usurpata o lasciata usurpare dal diritto penale sulla base di un’equivoca delega in bianco di cui la stessa teologia ha scontato gli effetti nel corso dei secoli. Gianni Colzani (La giustizia di Dio. Dalla custodia di un ordine al dono della riconciliazione) insiste allora sulla diversità della teologia: scienza costruita attorno alla rivelazione, non al dato culturale; una diversità disattesa dalle pericolose frequentazioni e contaminazioni del passato con il diritto. È accaduto così che la teologia abbia fatto spesso ricorso a categorie giuridiche (ad es. la nozione di alleanza) e che il diritto si sia ripetutamente avvalso di motivi religiosi per la sua fondazione. Centrale, peraltro, il rilievo di come l’uso teologico di categorie giuridiche sia solo analogico e la fede, in quanto scelta personale, non sia universalizzabile nella forma propria della costruzione sociale che il diritto si propone; anche dalla consapevolezza delle molte indebite trasposizioni pregresse, si trae dunque ulteriore motivo e impulso per un accresciuto impegno di ricerca ermeneutica. Si inizia a cogliere, in questo snodo dell’opera, il graduale rispecchiarsi, nelle sue idee portanti, della stessa chiave dialogica che ne scandisce il taglio e il metodo: senso dell’identità, consapevolezza del proprio limite, riconoscimento e confronto con l’altro senza annullamento del sé, approdo a una nuova e riscoperta comunanza tra distinti; oltre che nel rapporto tra teologia e diritto, questi passaggi trovano corrispondenza nel suo proiettarsi verso
— 305 — un progetto di composizione e conciliazione — con e, soprattutto, oltre la pena — dell’iniziale conflitto tra reo e società spalancato dal crimine. È allora lo stesso contributo di Colzani a chiarire come il senso del ‘‘Giudizio’’ stia nel disvelare e non nel condannare, nel mostrare, nel togliere il velo, appunto, su quanto è già avvenuto nella storia umana, senza aggiungervi un’ulteriore, vendicativa azione di Dio: ‘‘il giudizio toglierà di mezzo la sottile violenza dell’evidenza immediata delle cose’’. Si afferma così che un ripensamento della giustizia terrena secondo il modello della giustizia di Dio, significa mettere la persona al centro di ogni determinazione sociale e giuridica: ‘‘a immagine di quella divina, anche la giustizia umana può e deve proporsi come strumento di pacificazione e di risocializzazione; in questo modo, al di là di un’imposizione coercitiva verso chi ha sbagliato, la pena ritroverà una sua obiettiva struttura dialogica, volta alla piena reintegrazione della persona’’. ‘‘La struttura dialogica mette bene in luce la fatica o, addirittura, l’impossibilità di liberarsi da soli da un’esperienza di colpa che ha ormai qualificato in profondità le forme e gli orizzonti della propria libertà: solo l’offerta gratuita di una riconciliazione che raggiunga la persona in profondità — ed è tale solo un gesto animato dall’amore — può generare la capacità di un reale cambiamento’’. Ne emerge l’ulteriore inadeguatezza della logica retributiva e invece la centralità del coinvolgimento della libertà di chi ha sbagliato, propria della nozione di riconciliazione: ‘‘è questo il senso autentico, per nulla passivo, del perdono’’. A Paolo Ricca (Colpa e pena nella teologia evangelica: un punto di vista), docente nella Facoltà valdese di teologia, il compito di illustrare il significato dei concetti di colpa e pena nella teologia evangelica. La ‘‘giustizia di Dio’’ sembra esprimere un dualismo irresolubile: l’inscindibile rigore del binomio trasgressione-sanzione, ma anche il perdono dei peccatori. Quest’ultimo, però, viene interpretato non nel senso di una rinuncia a fare giustizia o di una sua trasformazione in una giustizia a buon mercato, che ‘‘chiude un occhio’’: ‘‘al contrario, perdonare significa per Dio manifestare appieno la colpa dell’uomo e la condanna divina, e prendere su di sé l’una e l’altra, facendosene carico nella morte di Gesù’’. ‘‘Giustizia di Dio’’ ha dunque due significati: Dio giudica e Dio giustifica. Giudica il peccatore giustificandolo, perché non lo giudica in sé ma in Cristo che, per pura grazia, immeritata e incondizionata, lo riveste della sua giustizia. Ci si chiede allora se l’annuncio di questa grazia, immeritata e incondizionata appunto, abbia qualche rilievo in merito alla legislazione penale o rivesta un mero valore solo religioso e spirituale. Il richiamo eloquente è alla parabola evangelica dei lavoratori delle diverse ore (Mt. 20, 1-16): tutti ricevono lo stesso salario, tanto chi ha lavorato undici ore quanto chi ha lavorato una soltanto. Anche nella teologia evangelica si ripropone dunque la problematica dualità della questione penale: la difesa dell’ordine giuridico e la difesa della persona del criminale; con esse, il groviglio della colpa, della ineluttabilità della pena, della impotenza della pena, nella ricerca di un difficile equilibrio tra difesa della vittima e della società, e difesa del malfattore. Il contributo si sofferma in conclusione su una terza prospettiva, quella cara al teologo Karl Barth: l’idea dello Stato e della sua giustizia come parabola, analogia; della corrispondenza di questa col regno di Dio e della necessità, perché lo Stato possa attuare questa vocazione, che la Chiesa sia testimone vivente di quel regno. Nel contributo di Sergio Bastianel (Pena, moralità, bene comune: una prospettiva filosofico-teologica), la costruzione della giustizia dal punto di vista teologico viene identificata nell’esigenza ‘‘che la propria libertà diventi possibilità di vita di altri’’ il che, sul terreno criminale, sollecita al superamento di una pena che ‘‘non risolve i danni arrecati, non cancella la colpa, non fa superare la condizione di colpevole, non riconosce la corresponsabilità sociale, non orienta al fine del bene comune (condivisione dell’esistenza) da costruire’’. Antonio Lattuada (La giusta reazione giuridico-sociale al fenomeno del crimine) si confronta con due documenti teologici fondamentali nella materia penale: il Catechismo della Chiesa Cattolica e l’Enciclica di Giovanni Paolo II Evangelium Vitae. Vi si sottolinea come le prese di posizione sulla pena di morte (successivamente corrette nel Catechismo per adeguarle al giudizio più restrittivo espresso nell’ Enciclica) abbiano messo in secondo piano il
— 306 — mutamento che i due documenti hanno registrato sulla più generale questione della pena. L’Enciclica, in particolare, esprime un’univoca concentrazione sul carattere espiativo della pena, non necessariamente libero e volontario, ma anche oggetto di imposizione. Se ne ricava una concezione retributiva e vendicativa e, più in generale, anche in base al confronto tra i due documenti, un’‘‘incertezza’’ dell’insegnamento del magistero, destinata a riflettere ‘‘la conclamata latitanza della riflessione teologica circa la questione del diritto penale’’, che ha trovato la sua singolare eccezione in un Convegno del 1977 promosso in Università Cattolica da Giuseppe Lazzati, su Laicità: problemi e prospettive. La questione del carattere retributivo della pena resta comunque un nodo centrale e il suo scioglimento ineludibile in ogni discussione politico-criminale dal punto di vista teologico. Il contributo vi si confronta in modo intenso e dolente, sottolineando per un verso come ogni eventuale ‘‘premessa teologica’’ sul tema non predetermini in modo immediato ‘‘quale debba essere il comportamento della società nei confronti dei criminali’’, visto che ‘‘tale determinazione esigerebbe anche un chiarimento teorico a proposito dell’ordinamento giuridico, dell’istituzione politica e dei rispettivi compiti’’; e, per altro verso, prendendo atto delle ragioni dell’idea di pena retributiva e vendicativa ‘‘nel fatto che con essa si intende contestare la pretesa di rappresentare la prassi o lo scambio sociale esclusivamente secondo il paradigma strumentale o tecnico e, quindi, materiale’’. Questo, sottolinea Lattuada, minaccia la nostra epoca sotto forma di ‘‘un assoluto dominio, a livello di comunicazione pubblica, del modello della razionalità scientifica, tecnologica ed economico-mercantile’’, mentre ‘‘l’ordinamento giuridico... non può ridursi a struttura meramente tecnico-strumentale’’. Se, da non-teologi, ne abbiamo ben colto il senso, non ci sembra tuttavia di ravvisare come ‘‘parte di verità’’ della retribuzione il suo invocare una reazione simbolica al reato come comportamento simbolico, almeno nei limiti in cui essa si atteggi come retribuzione penale. L’ordinamento giuridico penale, in quanto tale, è definito proprio in relazione allo strumento, a quella particolare tecnica della reazione sociale, che è la pena. Il conferire al diritto penale una portata simbolica si iscriverebbe di per sé in un’ulteriore affermazione del predominio di quella ‘‘struttura meramente tecnico-strumentale’’ da cui si vuole mettere in guardia: se la stessa nozione di reato risulta definita da quella di pena e dunque dallo strumento scelto per rispondere all’offesa, non può certo ritenersi ‘‘simbolica’’ l’azione che lo produce, o almeno l’azione in quanto definita come reato. Simbolica potrà — e anzi dovrà certamente — essere la risposta all’offesa e l’offesa stessa, ma semmai in quanto definita nei termini di un’ingiustizia che non cade insieme a una qualificazione del fatto in termini penalistici. La dissociazione tra il reato e l’offesa mi pare il punto di passaggio obbligato di quel cammino di conciliazione del difficile binomio perdono-giustizia che segna il travaglio della giustizia secolare non meno che della riflessione teologica. E che riesce difficile percorrere ove ci si muova alla ricerca del ‘‘giusto modo della reazione simbolica al crimine’’ come fatto in sé simbolico, sia pure con la consapevolezza che la reazione afflittiva debba essere tale ‘‘da non contraddire nei fatti l’apertura al futuro della riconciliazione fra il colpevole, la vittima e la società’’: la riconciliazione diviene ardua, sia in teoria sia soprattutto nella prassi, laddove il binomio reato-pena non sia reciso proprio nella sua pericolosa comunanza simbolica. Semmai i termini del discorso dovrebbero essere invertiti: è la risposta penale al reato, necessariamente strumentale e preventiva, che non dovrebbe arrivare al punto di contraddire del tutto la reazione simbolica, extrapenale, all’offesa come comportamento simbolico. Mi pare di interpretare secondo questo stesso registro anche la prospettiva della pena espressa dal Papa durante la recente visita negli Stati Uniti. Essa suona soprattutto come presa di distanza, come forte relativizzazione del ‘‘mezzo’’ pena capitale (ma, in fondo, del mezzo-pena tout court), ‘‘crudele e inutile’’ specie al cospetto degli ‘‘altri mezzi per proteggersi, senza negare per sempre ai criminali la possibilità di redimersi’’ di cui le società moderne dispongono. E sembra altresì calzante il dubbio sollevato da Adolphe Gesché, e ripreso nel successivo saggio di Luciano Eusebi, di come la ricerca prioritaria del colpevole, caratteristica del nostro sistema giudiziario, ‘‘sia ancora un modo per razionalizzare, per comprendere il male legandolo (troppo presto) ad una spiegazione’’. ‘‘Accusare è liberato-
— 307 — rio’’, si dice, proprio perché tecnicamente semplificatorio aggiungiamo noi. Anche in questo senso ‘‘la logica retributiva costituisce l’espressione più palese del grande sforzo di razionalizzazione del male che da sempre impegna l’umanità’’ (Eusebi). E, aggiungerei, l’iscriversi della retribuzione a pieno titolo nella logica del dominio tecnico e della razionalizzazione omologante si connette alla indecente sopravvalutazione del potere statuale e della sovranità che vi è inerente e alla sua stretta logica ‘‘quantitativa’’, con la insistita ricerca della corrispondenza tra crimine e pena, così supremamente tecnica e antiumanistica, e da cui la parabola evangelica ‘‘dei lavoratori’’ evocata da Paolo Ricca (v. supra) basterebbe di per sé a mettere in guardia. Se è vero che ‘‘il male resta quello che è, e mancano strumenti umani per poterlo cancellare’’ (Eusebi), esistono però strumenti umani che simbolicamente possono negarlo od opporlo, purché si sappia tenere distinto il male dal reato e la risposta ‘‘simbolica’’ di riaffermazione del bene. È soprattutto passando per questo snodo, che mi pare ci si possa avvicinare alla quadratura del cerchio che la teologia, non meno del diritto penale, cerca di condurre, secondo le parole di Acerbi, ossia ‘‘di accompagnare in modo intelligente e critico il cammino del diritto verso un approccio al problema criminale che non si basi sull’idea di una (impossibile) fecondità dell’inflizione del male, ma tenda a realizzare nelle leggi e nelle istituzioni l’ideale dell’affermazione del bene, sia nella persona del reo che in quello della vittima e nella totalità del corpo sociale’’, proprio in quanto ‘‘finalmente affrancata dal ruolo giustificativo dei tradizionali modelli sanzionatori retributivi’’. L’ampia analisi di Luciano Eusebi (Le istanze del pensiero cristiano e il dibattito sulla riforma del sistema penale nello Stato laico), ha cura di documentare e sviluppare, sulla linea di altri scritti di questo giurista, ‘‘la non appartenenza della mentalità retributiva al retaggio della fede cristiana’’. Vi si mette in guardia dai due possibili riduzionismi cui rischia di esporsi il concetto di laicità: quello di considerare interi settori di attività dell’uomo estranei alla sfera di rilevanza del messaggio cristiano e quello, di segno opposto, che immagina di applicare gli insegnamenti evangelici alle realtà terrene senza tenere conto delle esigenze e dei principi propri di queste: ‘‘la fede’’, si afferma, ‘‘non offre progetti precostituiti di intervento nel mondo, che esonerino dal mettere in gioco, per agire, le competenze attinenti alle scienze suddette’’. Un banco di prova della necessità di guardarsi da entrambi questi rischi è proprio la cruciale categoria del perdono. Escluso che essa possa venire interpretata come invito alla passività, essa esprime piuttosto il monito a non ripetere verso l’aggressore la logica della sua stessa azione. In questo senso si ricostruisce una duplice dinamica del perdono: il rifiuto della logica retributiva e la successiva non considerazione del ‘‘colpevole’’ come estraneo o nemico. Al centro del contributo si pone quindi il chiarimento di come la questione criminale non si risolva muovendo semplicisticamente da una giustificazione retributiva a una giustificazione preventiva del punire, sul rilievo che non esista una separazione netta tra i due modelli, visto che, non di rado, richiamandosi a logiche retributive, si sono perseguiti obiettivi di prevenzione e che le applicazioni preventive della pena non sono andate esenti da schemi di ritorsione del male arrecato. E il rilievo è condivisibile, specie laddove esso prende atto di una corrente confusione di piani, che tuttavia, riteniamo, la riflessione scientifica e il confronto interdisciplinare dovrebbero impegnarsi a ridurre, anche attraverso una demistificazione della portata simbolica della pena e un approdo alla sua reale relativizzazione, nel senso prospettato sopra. Si sottolinea peraltro come le riserve del pensiero cristiano nei confronti dell’idea di prevenzione siano state condizionate dalla lotta contro il determinismo filosofico e si ribatte in proposito la compatibilità del libero arbitrio anche con un sistema che valorizzi la capacità dell’agente di reato, il suo modo di comportarsi, e, in particolare, ‘‘l’approfondimento della complessità dei fattori che incidono sul fenomeno criminale o l’individuazione nello scopo preventivo dell’unico compito sostenibile da parte della giustizia terrena’’. Resta il problema di progettare le modalità di ‘‘sbarramento degli accessi al crimine’’: un saldo punto di partenza in questa direzione è la consapevolezza dell’improduttività di un ricorso ancora così ampio al carcere e, correlativamente, la necessità di ‘‘ripensare in radice la visione stessa
— 308 — della risposta sanzionatoria come frattura da contrapporre, quale ne sia la giustificazione addotta, alla frattura del reato, in favore di modalità idonee a consentire, piuttosto, un’effettiva composizione del conflitto che il reato certamente apre, e talora in forme assai gravi, fra agente e vittima, o comunque fra agente e società’’. Quanto alle esigenze desumibili da una riflessione cristiana sul problema criminale, si pone in luce la fondamentale ‘‘istanza sintetica’’, semplice sul piano concettuale quanto complessa in termini operativi: ‘‘si tratta di garantire che la risposta al reato non sia in sé un male, cioè che nella sua concretezza applicativa non costituisca una negazione, bensì una promozione della dignità umana dei suoi destinatari’’: giustizia non come luogo della separazione e della lite, dunque, ma come riunione di ciò che è separato, come disponibilità della società, sostenuta dalla consapevolezza circa la corresponsabilità nella genesi dei fattori che incidono sulle scelte criminali; sorretta dunque dalla intensa consapevolezza ‘‘che la prevenzione dei reati si gioca soprattutto sul piano di interventi educativi, politico-sociali e giuridici... anteriori all’ambito classico dell’applicazione di una pena e impegnativi per tutti’’ (Gabrio Forti).
AA.VV., Le garanzie della giurisdizione e del processo nel progetto della commissione bicamerale, Milano, Giuffrè, 1999. Sul palcoscenico del dibattito politico costituzionale, che è nel nostro Paese assai ricco, spicca l’assenza di programmi di riforma della giustizia. Non mancano proposte di modifica, oggi come in passato; ma quasi sempre affrontano, e hanno affrontato, patologie relativamente circoscritte, senza porsi in visuali di ampio respiro (a prescindere, forse, dalle attuate revisioni dei codici di rito). È mancata insomma una riflessione organica su quale deve essere il ruolo della magistratura e della giurisdizione in una moderna democrazia pluralista, quale quella prefigurata dalla nostra Costituzione. A ben vedere il dibattito italiano sconta un vizio d’origine, dato dall’opinione — retaggio di ideali illuministici, o meglio della loro rivisitazione napoleonica — che l’indipendenza del giudice e l’imparzialità della sua funzione comportino la ‘‘neutralità’’ nell’impianto costituzionale e che siffatta neutralità debba essere compensata da una guida politica esterna, di volta in volta individuata nel Governo o nel Parlamento (a seconda che il proponente sia parte della maggioranza ovvero dell’opposizione). Di qui il disinteresse per un approfondimento dei temi della giustizia, al di là delle polemiche d’occasione. Vero è che in Italia non è cresciuta una ‘‘cultura’’ della giustizia proprio perché non ha messo fondamento una delle colonne dell’evoluzione democratica dello Stato di diritto: la creazione di un potere giudiziario autonomo ed indipendente. In questo panorama non poco desolante, nel quale la giustizia è rappresentata come un problema politico di parte (e spesso come tale è percepita dall’opinione pubblica), s’è inserita a pieno titolo la vicenda del progetto di riforma costituzionale della Commissione bicamerale, naufragato — non a caso — sugli scogli dei veti insuperabili in tema di giustizia. Tornare a riflettere a mente fredda sulle proposte avanzate in quella sede è allora assai utile almeno per due ragioni. Anzitutto perché il confronto critico non può che aiutare a sollevare la discussione dall’asservimento a strumentalizzazioni di parte. In secondo luogo perché alcune delle ipotesi ivi formulate hanno trovato di recente attuazione: la modifica dell’art. 111 della Costituzione in tema di giusto processo, anzitutto (per una prima ricostruzione v. M. Chiavario, Un ‘‘giusto processo’’ dal futuro ancora incerto, in Corr. giuridico, 2000, 5 ss.); ma anche il referendum sulla ‘‘separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti’’, dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale con la sentenza 37/2000, s’inserisce nel più ampio dibattito sul ruolo del pubblico ministero, che ha costituito uno dei problemi più spinosi affrontati nei progetti di revisione. In questa prospettiva, un utile strumento di riflessione ed approfondimento è il volume curato dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, dove sono raccolti gli atti del XV Convegno di studio sui problemi attuali di diritto e procedura civile, dedicato a ‘‘Le garanzie
— 309 — della giurisdizione e del processo nel progetto della commissione bicamerale’’. I saggi pubblicati costituiscono un’efficace ricostruzione dei diversi profili del ‘‘sistema giustizia’’, non limitata agli aspetti messi in gioco dalle proposte della Bicamerale. Non è possibile — ovviamente — dare conto in modo dettagliato dei diversi interventi pubblicati negli atti del Convegno, sicché s’è preferito metterne in luce le connessioni con le problematiche cui si è fatto cenno. Innanzitutto si possono richiamare almeno tre contributi che affrontano il tema del ‘‘giusto processo’’. Il saggio di Giuseppe Tarzia — dedicato a ‘‘Le garanzie generali del processo nel progetto di revisione costituzionale’’ — prende spunto dall’art. 130 dell’articolato trasmesso al Parlamento il 4 novembre 1997 per soffermarsi, da un lato, sulle ‘‘origini’’ internazionali delle regole che sostanziano la tutela del giusto processo, ma dall’altro per verificare lo ‘‘stato’’ della prassi giurisprudenziale italiana al riguardo. È innegabile infatti che — almeno negli ultimi anni —, grazie soprattutto all’opera della Corte costituzionale, nell’ordinamento interno si fossero già ricavate alcune regole essenziali al corretto svolgimento dei procedimenti giurisdizionali. La correlazione tra il livello nazionale e internazionale di tutela (in particolare con riferimento al sistema instaurato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 6 costituisce lo spunto principale della riforma costituzionale) è dunque irrinunciabile per interpretare disposizioni spesso accusate di eccessiva vaghezza. In questo senso l’Autore riconosce l’aprirsi di una nuova prospettiva « che, ‘‘nella circolarità’’ degli enunciati tra la Corte europea, le Corti costituzionali nazionali ed i Parlamenti dei singoli Paesi, dovrebbe contribuire potentemente alla effettività dei principi sanciti dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo » (ivi, p. 92). L’esigenza di una maggiore attenzione alla giurisprudenza europea in materia di ‘‘procès équitable’’ è richiamata anche da Mario Chiavario, che nello scritto su ‘‘Le garanzie della giurisdizione e il processo penale’’ affronta le medesime tematiche con riferimento all’ambito penale. L’Autore ricorda, inoltre, il livello solamente primario attribuito nel nostro ordinamento alle norme di origine internazionale pattizia, anche se relative ai diritti fondamentali (v. da ultimo i cenni di M. Luciani, I trattati non sono la Costituzione, in Italia Oggi, 25-10-1999). Di qui l’importanza di procedere alla costituzionalizzazione della garanzia del giusto processo, anche se appare condivisibile l’ulteriore ipotesi prospettata « dell’inserzione, nell’art. 2 o nell’art. 10 della Costituzione, di una clausola di conformità dell’ordinamento [...] anche a quelle concretizzazioni dei diritti fondamentali che abbiano trovato espressione in convenzioni riconosciute dalla comunità mondiale o [...] nell’ambito europeo » (ivi, 125). Va ricordato però che già l’art. 130 del progetto della Commissione bicamerale, e — in termini molto simili — anche il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, procedono ad un ‘‘trapianto parziale’’ della norma internazionale, che non pare pienamente rispondente alle esigenze di certezza e coerenza del diritto irrinunciabili in ambiti così delicati (si vedano gli interventi richiamati, ma anche le considerazioni critiche svolte da V. Grevi, Quelle rigidità del « giusto processo » che portano a risultati paradossali, in Guida al diritto, 1999, n. 42, 11 ss.). Entrambi i saggi, poi, anticipano i problemi di diritto transitorio che una riforma costituzionale di questo tipo necessariamente pone, anche con riferimento ai processi in corso: le discussioni sollevate dal d.l. 2/2000, non solo quanto allo strumento prescelto, ma anche rispetto alla disciplina sostanziale adottata, ne costituiscono una immediata conferma (v. sul punto A. Giarda, Il ‘‘giusto processo’’ parte con un decreto legge, in Corr. giuridico, 2000, 145 ss.). Un cenno va fatto anche al terzo degli interventi che si ricollegano alla disciplina del giusto processo, quello cioè di Luigi Paolo Comoglio, che — pur relativo a ‘‘La garanzia della motivazione e del ricorso in cassazione’’ — offre importanti spunti quanto alla ricostruzione dei tratti ‘‘nazionali’’ del modello di processo ‘‘equo’’ e ‘‘giusto’’. Le proposte della Commissione bicamerale — com’è noto — mettevano in discussione il ruolo assegnato nel nostro sistema costituzionale alla Corte di cassazione, assegnando al legislatore ordinario il compito di determinare i casi di ricorso al giudice di legittimità. L’ipotizzata costituzionalizzazione del doppio grado di giudizio (anch’essa per altro rinviata, nella sua concreta attuazione, alle scelte del legislatore ordinario) non pare sufficiente a compensare la limitazione della ricorribilità in cassa-
— 310 — zione delle sentenze. È proprio con riferimento alla tutela del singolo — cui l’idea di giusto processo è funzionale — che l’Autore riconosce nel principio « che assicura ‘‘sempre’’ la possibilità di impugnare ‘‘per violazione di legge’’ qualsiasi ‘‘sentenza’’ dinanzi al giudice supremo di legittimità » un elemento essenziale (ivi, p. 114). Passando agli altri temi discussi nel Convegno di Courmayeur, di particolare attualità è anche la relazione di Vittorio Grevi che esamina il ruolo del pubblico ministero nel processo penale (‘‘Pubblico ministero e processo penale’’). Il taglio, come emerge dallo stesso titolo, è prevalentemente processuale, ma non mancano gli spunti di ricostruzione sistematica che aiutano a riflettere sulla collocazione istituzionale della pubblica accusa. Il mantenimento, nell’art. 132 del progetto di riforma, del principio di obbligatorietà dell’azione penale va necessariamente collegato ad un’opzione di fondo che esclude la riconducibilità della funzione d’accusa nell’ambito della politica criminale di competenza del Governo (è del resto la stessa Corte costituzionale a riconoscere nell’attuale art. 112 il fondamento dell’indipendenza del pubblico ministero: v. la sent. 420/1995, ma anche l’ord. 96/1997, con nota di G. Silvestri, Il p.m. quale era, qual è, quale dovrebbe essere, in Giur. cost., 1997, 957 ss.). Alla luce di tale scelta, dunque, vanno interpretate le disposizioni del testo elaborato dalla bicamerale che disciplinavano i rapporti tra gli uffici e quelle che introducevano l’obbligo per il Ministro della giustizia di riferire annualmente al Parlamento. Nello scritto si procede all’analisi delle diverse previsioni, tenendo conto delle modifiche introdotte nel corso dei lavori di riforma, senza tacere le possibili contraddizioni: se da un lato, ad esempio, nel progetto di ottobre veniva meno il riferimento all’esigenza d’unità di azione degli uffici del pubblico ministero, dall’altro era eliminata anche la disposizione secondo cui i pubblici ministeri sono soggetti solo alla legge. Del resto anche altre norme, come quella secondo cui la relazione del Ministro avrebbe dovuto riguardare anche l’esercizio dell’azione penale e l’uso dei mezzi d’indagine, potevano essere viste come un implicito riconoscimento del controllo politico sull’operato della magistratura requirente. La connessione, messa in luce dall’Autore, tra i profili processuali ed organizzativi e la definizione più generale del ruolo della pubblica accusa può costituire una chiave di lettura anche delle più recenti vicende istituzionali, non ultima quella del referendum sulla separazione delle carriere. Vero è che la stessa Corte costituzionale ha contestato la correttezza di questa denominazione del quesito, che ha il più limitato effetto di vietare i passaggi su richiesta dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa; tuttavia non si può negare che questo intervento si collochi in un disegno più ampio di ripensamento del ruolo della pubblica accusa. In ogni caso va rimarcato che l’alternativa all’attuale impostazione è quella che si fonda sul principio dell’opportunità dell’azione penale, cui necessariamente si collega un controllo politico sugli uffici del pubblico ministero. Nel volume trovano poi spazio altri temi classici dell’organizzazione della giustizia, cui si può solo accennare. Un taglio particolare ha il saggio su ‘‘Il giudice ordinario’’, ove Nicola Picardi — da sempre attento alla prospettiva storico-comparativa — offre una puntuale ricostruzione dei diversi sistemi di reclutamento dei giudici, a partire dalla venalità delle cariche dell’Ancien Régime sino al concorso adottato oggi in quasi tutti gli ordinamenti dell’Europa continentale. L’analisi del sistema italiano è invece svolta da Francesco Antonio Genovese che si fa carico — nella relazione dedicata a ‘‘I giudici ordinari e i giudici onorari’’ — sia di tracciare il quadro della disciplina attualmente in vigore, sia di ricondurre a sistema le innovazioni proposte dalla Commissione bicamerale. Anche in questo caso non mancano i collegamenti con l’attualità: ad esempio l’ipotesi, prospettata in sede di riforma, di costituzionalizzare il divieto degli incarichi extragiudiziali dei magistrati (cfr. l’art. 125, co. 6 del progetto) francamente eccessiva, poiché davvero tale materia pare mancare di ‘‘tono’’ costituzionale, tradisce l’esistenza di un problema particolarmente sentito dai cittadini e che ha trovato uno sfogo nella richiesta referendaria. Vanno ricordati infine i contributi di Vincenzo Caianiello e Riccardo Villata in materia di giustizia amministrativa. Il primo, nel saggio ‘‘Il giudice amministrativo ed i nuovi criteri di riparo della giurisdizione’’, ripercorre la nascita e l’evoluzione storica del criterio ‘‘sostanzialistico’’ di riparto della giurisdizione, il quale — pur essendo stato originariamente un im-
— 311 — portante strumento di garanzia nei confronti della pubblica amministrazione - sembra oramai inadeguato alle esigenze di una tutela effettiva degli interessi del singolo. Diverso è il taglio della relazione di Riccardo Villata (‘‘La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione’’), che prende in esame diversi profili problematici della giurisdizione amministrativa, dal cumulo di funzioni consultive e giurisdizionali ai criteri di ripartizione della giurisdizione. Quanto a quest’ultimo profilo, l’Autore evidenzia le difficoltà connesse all’applicazione di criteri che non tengano conto dei rapporti tra funzione e materia, con il rischio di attribuire alla decisione del giudice amministrativo questioni estranee alla funzione pubblica. Come s’è cercato di mettere in luce, tutti i saggi prendono spunto dalle riforme prospettate dalla Bicamerale per approfondire i temi del processo e dell’organizzazione giudiziaria con ricchezza di profili e con varietà di metodo, sia con respiro teorico generale, sia con attenzione alla prospettiva storica e comparatistica. Per questo aspetto il volume è una rassegna di materiali idonea a favorire la conoscenza dei problemi attuali della giustizia: l’auspicio è che ne facciano buona lettura anche i non addetti ai lavori, se è vero che l’informazione critica è un elemento imprescindibile - come insegna Dahl - per la partecipazione consapevole dei cittadini alla vita politica delle moderne democrazie pluralistiche. (Laura Montanari)
M.L. FERRANTE, La circonvenzione di persone incapaci, G. Giappichelli, Torino 1999, 1-287. La monografia di Massimo Luigi Ferrante affronta il tema della circonvenzione di persone incapaci. L’opera è suddivisa in tre capitoli. Nel primo capitolo l’A. analizza lo sviluppo storico del delitto di circonvenzione di incapaci: dalla ‘‘circumscriptio adulescentium’’ nel diritto romano alla circonvenzione di persone incapaci nei lavori preparatori del codice penale del 1930. Nel secondo capitolo, senza prendere posizione e in ordine rigorosamente cronologico, vengono analizzate le varie impostazioni dommatiche elaborate in relazione a tutti gli aspetti del delitto di circonvenzione di persone incapaci. Nel terzo capitolo, che è suddiviso in due sezioni, l’A. propone una nuova prospettiva interpretativa della fattispecie: dopo aver individuato il bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 643 c.p., si procede ad una operazione ricostruttiva della struttura della fattispecie. Per quanto riguarda il bene giuridico protetto, l’A. respinge: tanto l’indirizzo patrimoniale, quanto quello personale e quello della plurioffensività. Secondo Ferrante, infatti, il bene giuridico protetto dal delitto di cui all’art. 643 c.p. è da individuare nella ‘‘dignità dell’incapace’’: innanzitutto si tratta di un bene che trova nell’art. 3 della Costituzione un sicuro riconoscimento; in secondo luogo è possibile riscontrare nel nostro ordinamento la presenza di norme penali a tutela della dignità umana (si pensi, ad esempio, al combinato disposto degli artt. 38/6, 2o comma, della L. 20 maggio 1970, n. 300, e all’art. 572 c.p.); in terzo luogo la condotta tipica del delitto di cui all’art. 643 c.p. è idonea ad offendere in modo significativo il bene giuridico della dignità della persona incapace. Per quanto riguarda la struttura della fattispecie, innanzitutto, Ferrante riconduce al novero dei soggetti passivi del reato anche le persone totalmente incapaci; in secondo luogo, ascrive all’evento l’elemento dell’induzione; in terzo luogo, ricomprende nel novero degli effetti giuridici dannosi tipici anche quelli non patrimoniali; in quarto luogo, configura il delitto in esame come reato di danno; in quinto luogo e per quanto riguarda l’elemento soggettivo, ritiene sussistente il dolo specifico, sia quando il circonventore abbia di mira un profitto ingiusto sia quando abbia di mira un profitto giusto. Non manca, poi, una parte della monografia che testimonia l’intento dell’Autore di raccordare la figura criminosa de qua con gli istituti di parte generale, affrontando, da un lato, il problema dell’applicabilità delle circostanze aggravanti comuni di cui all’ art. 61 n. 7 e n. 5 e di quelle attenuanti di cui all’art. 62 n. 4 del c.p. e, dall’altro, quello dei rapporti tra il delitto di circonvenzione di incapace e il delitto di truffa. Quanto alla prima questione, da una
— 312 — parte, partendo dal presupposto secondo cui ‘‘l’effetto giuridico dannoso’’ va ascritto all’evento come requisito necessario per la perfezione del reato, l’A. ritiene applicabili al delitto in esame, la circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 n. 7 c.p. e quella attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p.; dall’altra, considerando che la fattispecie di cui all’art. 643 c.p. si incentra sull’elemento dell’‘‘abuso’’, ossia sullo sfruttamento delle condizioni di inferiorità dell’incapace, ritiene non applicabile la circostanza aggravante comune di cui al n.5 dell’art. 61 c.p. Quanto alla seconda questione, Ferrante, in considerazione delle differenze che intercorrono tra i due reati, sia sotto il profilo dell’elemento oggettivo che dell’elemento soggettivo, non ritiene le fattispecie di cui agli artt. 643 e 640 del c.p. in rapporto di specialità reciproca per coincidenza di sottofattispecie così da escludere la configurabilità del concorso apparente di norme. Infine, nelle considerazioni conclusive viene manifestata l’esigenza di una rivisitazione della fattispecie. Innanzitutto sarebbe opportuno, nell’ottica di un nuovo codice penale, collocare il delitto di circonvenzione di persone incapaci nell’ambito dei delitti contro la dignità umana; in secondo luogo, sarebbe necessario, anche al fine di eliminare i sospetti di anticostituzionalità della norma, superare il generico concetto di ‘‘deficienza’’, tipizzando la forma di incapacità che si intende tutelare accanto alla minore età e alla infermità di mente; in terzo luogo sarebbe opportuno che il legislatore sostituisse all’elemento della effettiva dannosità dell’atto compiuto dal circonvenuto quello della potenzialità dannosa dell’atto stesso. (Francesco Cingari)
R. GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, Giuffrè, Milano, 1997, pp. XIII-250. 1. Ricorda l’Autore, in premessa, come l’attenuante prevista dall’art. 114 c.p., sebbene esprima una innegabile esigenza di temperamento della rigida equiparazione sanzionatoria stabilita in linea di principio dall’art. 110 c.p., e costituisca perciò — per taluni Autori — addirittura la ‘‘chiave di volta’’ del sistema concorsuale (Pedrazzi), sia tuttavia sostanzialmente disapplicata nella quotidiana prassi giurisprudenziale. Lo studio muove dunque dall’esigenza di individuare le basi concettuali per una rivitalizzazione applicativa della diminuente, anzitutto mediante una maggior concretizzazione del requisito di ‘‘minima importanza’’ del contributo. Il monolitico ‘‘modello unitario’’ di disciplina del concorso, a parere dell’A. — che ne ripercorre sinteticamente genesi storica e ‘fortuna’ — può dirsi ragionevole solo nella misura in cui risultino concretamente efficaci i correttivi normativi costituiti dallo speciale sistema di circostanze di cui agli articoli 112 e 114. E tuttavia, da una parte, già il dato positivo estrinseco denota lo squilibrio unilaterale del sistema verso il disfavore per il fenomeno concorsuale, di tal che in forza di quelle circostanze le sanzioni tendono ad aggravarsi piuttosto che ad individualizzarsi; dall’altra parte, poi, proprio l’art. 114, solitario strumento di attenuazione della pena, appare all’A. connotato da taluni ‘‘vizi originari di costituzione’’ — in parte derivanti da molteplici mutamenti di indirizzo sulla sua ratio politico-criminale in sede di lavori preparatori — che ne hanno compromesso le sorti. 2. Tra simili difetti di nascita, emerge anzitutto la sostanziale estraneità della previsione, nella sua definitiva enunciazione oggettivistica, « rispetto all’impianto generale della disciplina concorsuale, intenzionalmente riposante su di una concezione causale » (p. 24). Un vizio che la dottrina non ha mancato di evidenziare e tentato di superare con diverse soluzioni intepretative — esaminate nel capitolo II — alla cui validità, tuttavia, spesso si opporrebbe il dato positivo. Così è a dirsi, ad esempio, per la tesi che propone una lettura dell’art. 114 in chiave volontaristica e sulla scorta della categoria della complicità, asseritamente sopravvissuta al mu-
— 313 — tamento di codice (Latagliata): e ciò perché nella norma non vi sarebbe alcuno spazio per l’apprezzamento del profilo volitivo. Ed egualmente, non potrebbe condividersi il criterio della ‘sostituibilità’ del contributo, proposto dall’Antolisei (e che pure ha conosciuto una certa fortuna), per essere del tutto sganciato dal dato normativo. All’accoglimento, poi, degli indirizzi che in varia guisa leggono la diminuente in chiave di ‘valutazione comparativa’ tra i vari contributi (p. 42), osterebbe nuovamente la lettera della norma, che tratta (in senso assoluto) di minima e non (in senso relativo) di minore importanza della partecipazione. Deve rigettarsi, per l’A., anche la tesi che combina alla valutazione comparativa dei contributi l’apprezzamento — in sede di esercizio del potere discrezionale espressamente conferito al giudice — della capacità a delinquere dei singoli concorrenti (Contieri); perché essa sarebbe smentita dal sicuro impianto oggettivo della disposizione, a dispetto della sua origine positivistica e delle significative oscillazioni dei compilatori sul punto. Neppure la ricostruzione del criterio di rilevanza delle condotte di partecipazione in termini di organizzazione, recentemente proposto (Insolera), riuscirebbe infine a dar soluzione alla ineliminabile aporia della ‘‘causa minima’’. In definitiva, proprio il criterio causale appare all’A. la fonte prima della sfortuna applicativa della norma. E di ciò vi sarebbe implicita conferma anche nell’opera interpretativa della giurisprudenza (di cui si offre un ampio resoconto nel capitolo IV: p. 113), nella cui pur vasta produzione — dominata non a caso dalla parola ‘non’ — si registrano infatti soltanto descrizioni ‘in negativo’ della fattispecie astrattamente rilevante ai sensi della disposizione; del pari è certamente significativo che negli ultimi venti anni, a fronte di una serie ininterrotta di decisioni di rigetto dell’attenuante, si registrino solamente due casi èditi di concessione della stessa (che peraltro neppure mancano di suscitare perplessità: p. 130). Ciò induce l’A. a parlare di autentico ‘blocco disapplicativo’ della previsione, così condividendo un’opinione oramai diffusa in dottrina (p. 113). In simile situazione, desta certamente una qualche meraviglia che il legislatore, apparentemente sordo alle unanimi critiche portate all’attuale formulazione della diminuente, abbia inteso riproporre una previsione del tutto simile nel corpo del nuovo art. 609-octies, in tema di violenza sessuale di gruppo, alla cui disamina è dedicato il cap. III (p. 91). Trattasi di norma che non solo presenta — a parere dell’A. — vari profili di irragionevolezza, ma che ripropone intatti, in parte qua, tutti i difetti dell’art. 114. 3. Per rivitalizzare la concreta portata applicativa della diminuente, de iure condito, il Guerrini muove dalla considerazione secondo cui proprio l’art. 114 sarebbe la più pregnante conferma testuale della non esaustività del principio causale come criterio di tipizzazione del contributo concorsuale, rispetto al quale svolgerebbe una funzione sistematica disgregatrice (p. 53). Posto che le condotte causali non esaurirebbero il novero delle condotte punibili a titolo di concorso, in positivo l’A. aderisce alla tesi secondo cui detta differenza debba essere colmata mediante l’impiego del criterio di agevolazione, inteso come ‘‘nesso materiale agevolante-agevolato ontologicamente distinto dal nesso causale’’. Proprio il minimo comun denominatore della non causalità legherebbe dunque il concetto di agevolazione alla previsione normativa dell’art. 114 (p. 64), di tal che anche nel vigente modello unitario di disciplina concorsuale sarebbe possibile far corrispondere — di regola — una diversa pena alla duplice tipologia ontologica delle condotte di concorso (Mantovani). L’A. si preoccupa tuttavia di precisare che dal concetto di agevolazione occorre espungere le condotte che, su un piano ipotetico, abbiano reso solo ex ante più probabile la condotta criminosa, in ciò aderendo alle osservazioni già di Pedrazzi, secondo cui l’impiego di criteri prognostici ha senso solo quando si debba necessariamente prescindere — come in materia di tentativo — da un risultato effettivamente verificatosi (p. 69). L’agevolazione è dunque definita (con l’Albeggiani) come favorevole influenza sulla condotta illecita di un terzo, in difetto della quale si sarebbe però egualmente realizzato un risultato giuridicamente analogo (p. 78). In correlazione con l’art. 114, detta nozione consentirebbe la concessione dell’attenuante per i contributi non indispensabili e non immediatamente correlati all’evento offensivo (p. 80).
— 314 — Quanto al contributo morale, nel cui ambito il criterio di agevolazione materiale non troverebbe evidentemente spazio, l’A. ritiene poi che l’art. 114 debba essere applicato alle ipotesi di mero sostegno-rafforzamento dell’altrui proposito criminoso (p. 86). In sintesi, la ricostruzione offerta, a parere del Guerrini, consentirebbe di restituire all’art. 114 già de iure condito quel ruolo centrale nel sistema concorsuale che molti autori vi hanno ravvisato. 4. De iure condendo, al fine di individuare il limite inferiore della partecipazione punibile, cui è collegata la nozione di minima partecipazione dell’art. 114, l’A. svolge anzitutto un’ampia disamina delle principali teorie sul contributo del complice nell’espenenza giuridica tedesca, per determinare quale criterio di imputazione del fatto sottenda in sé il concetto di Hilfeleistung di cui al § 27 StGB, ampiamente dibattuto in dottrina come in giurisprudenza. Segue un resoconto delle posizioni della dottrina in materia, con particolare attenzione, da una parte, a quelle teorie che rinunciando al requisito causale, fondano la punibilità del complice sull’aumento del rischio di verificazione dell’evento delittuoso cui il suo contributo avrebbe dato luogo — vuoi in termini meramente astratti (Schaffstein-Salamon: p. 162), vuoi in termini concreti (Herzberg: p. 168), vuoi in termini astratto-concreti (Vogler: p. 171) — nonché, dall’altra parte, alla teoria del Roxin (p. 173), che senza rinunciare al criterio causale (sebbene da intendersi in concreto), vi combina quello della imputazione obiettiva dell’evento, dando conclusivamente rilievo in termini di Beihilfe alle condotte che in concreto abbiano reso più facile, intensa o sicura la realizzazione del reato. Dall’esame dell’esperienza tedesca sul concetto di Hilfeleistung, l’A. trae il convincimento (p. 183) che in definitiva il sistema differenziato « non conduca necessariamente ad un guadagno garantistico in termini di determinatezza », e che anche in termini di pena, sia ben possibile stabilire una attenuazione per le condotte di agevolazione mediante una disposizione diminuente del tipo di quella prevista dallo Schema di legge delega per la riforma del codice del 1992. All’esame delle prospettive di riforma nel nostro ordinamento è dedicato l’ultimo capitolo (VI) della monografia. Dopo una sintesi dei progetti del 1949, del 1956 e del 1971 (che appaiono all’A. tutti sostanzialmente confermativi dell’impianto del codice Rocco), e dopo aver ricordato il risveglio critico della dottrina riguardo al concorso a partire dagli anni ’70, viene esaminato il ‘‘Progetto Pagliaro’’ del 1992, del quale Guerrini condivide la scelta per un modello differenziato in concreto, con attenuazione di pena prevista in linea generale per le condotte di mera agevolazione (p. 211). Egli tuttavia critica l’inclusione nella definizione di agevolazione del criterio di probabilità (nel quale vede un coerente sviluppo della teoria del Pagliaro in tema di fondamento di punibilità del concorso: p. 223), poiché a suo parere determinerebbe una inammissibile espansione della punibilità anche a condotte che ex post si siano rivelate materialmente non influenti sulla realizzazione del fatto concorsuale, per le quali ripropone, invece, la punibilità soltanto in termini di eventuale conversione in contributo morale di effettivo rafforzamento. Critiche sono invece rivolte al progetto Riz del 1995, per l’assoluta ed intenzionale continuità con il regime attuale che lo caratterizzerebbe, rispetto anche ad indirizzi giurisprudenziali che appaiono all’A. del tutto criticabili. (Luca Bisori)
M. NOBILI, Scenari e trasformazioni del processo penale, Cedam, 1998. Dieci anni di concreta applicazione delle nuove forme processuali, analizzati in quattordici saggi, che a loro volta costituiscono la rielaborazione di conferenze dense di notazioni critiche: Massimo Nobili, in questa raccolta di ‘scritti minori’’, offre una panoramica dettagliata degli ‘‘scenari’’ in cui si è mosso il nuovo processo penale, e delle massicce ‘‘trasfor-
— 315 — mazioni’’ che questi ‘‘scenari’’ hanno alcune volte suggerito ed altre volte imposto. La raccolta diventa, così, un lucido resoconto della difficile metabolizzazione di una scelta di fondo per un modello, basato su una nuova filosofia del conoscere giudiziario. Nobili ricorda come il codice del 1988, nella sua originaria stesura, aveva introdotto robuste innovazioni, soprattutto nella materia delle ‘‘patologie probatorie’’. Attraverso l’istituto dell’inutilizzabilità era stata, infatti, introdotta quella che lo studioso definisce ‘‘concezione relativistica’’ della conoscenza giudiziale: una conoscenza valida solo in un determinato ambito, solo in certi processi e solo in certe fasi, ed ancorata alla logica del doppio fascicolo. Sappiamo, però, che queste previsioni normative, frutto di un ‘‘compromesso’’ e di una difficile ricerca di equilibri nell’aleatorio rapporto tra fase preliminare e dibattimento, sono apparse subito di incerta applicazione; condizionate come erano dalla volontà di non troncare ‘‘l’antico cordone ombelicale fra dibattimento e fase preparatoria’’. In tale sistema i casi di acquisizione nel fascicolo del dibattimento costituivano per Nobili delle vere e proprie ‘‘mine vaganti’’, lasciate alle tante variabili della prassi applicativa. Il persistente legame tra le due fasi finiva, in realtà, per irridere alla concezione secondo cui la fase preliminare sarebbe servita solo alle determinazioni del pubblico ministero, mentre le acquisizioni dell’accusa sarebbero rimaste ‘‘fuori dal processo’’. ‘‘Gli effetti interni delle indagini preliminari sul processo e sul procedimento si sono sposati agli effetti immediati che all’esterno il potere giudiziario tende a produrre sulla collettività, attraverso le battute iniziali della procedura’’. È proprio vero. L’idea di una ‘‘fase che non pesa e non conta’’ non era realistica e la triste stagione delle stragi di stampo mafioso, con le capillari indagini delle nostre Procure, ne costituiva una conferma. Gli ‘‘scenari’’, intesi come opzioni di politica criminale tout court, avrebbero prima o poi finito per spostare il centro di gravità del processo dalla fase del giudizio alla fase delle indagini preliminari, in una fatale inversione dei rapporti indicati dallo schema originale del 1988, fondato come è noto sulla ‘‘ininfluenza’’ delle indagini preliminari. ‘‘Il dono dell’accusatorio era vissuto, da alcuni, piuttosto come occasione, se non come pretesto per disegnare nuovi domini del pubblico ministero’’. L’impostazione codicistica franava: il ‘‘riscoperto’’ interesse verso la fase delle indagini portava a rinvigorirla, senza un simmetrico aumento di garanzie. La dilatazione dei poteri del pubblico ministero non era infatti bilanciata né da una crescita delle prerogative della difesa, né da un potenziamento della giurisdizione, saldata all’attività del G.I.P. Mentre investigazione difensiva e più incisivo esercizio della giurisdizione costituivano (e costituiscono) l’ideale humus di quella ‘‘terza posizione’’, considerata da Nobili come vera alternativa ad ogni sclerotico arroccamento: sia di coloro che continuavano a difendere con intransigenza il nuovo codice, sia di coloro che, ritenendolo ‘‘eccessivamente lassista’’, non perdevano occasione per criticarne la complessiva impalcatura. Eppure era questo un modo apprezzabile per orientare verso ‘‘una rilettura attenta alle esigenze della difesa, spesso sacrificate dal dettato normativo, o da troppo compiaciute divulgazioni e proposte applicative’’. In questo scenario, denso di contrasti, si è inserita la svolta del 1992: un anno fondamentale per le sorti del nuovo processo penale. Le innovazioni impresse dalle ‘‘leggine’’ e dai dicta della Corte costituzionale rappresentano per Nobili un vero a proprio ‘‘tradimento della riforma’’, con il conseguente, definitivo, ‘‘tonfo dell’accusatorio’’. Lo spostamento verso un primato della prova formata prima del dibattimento esaltava, in realtà, la funzione di un pubblico ministero, non più deputato alle sole determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, ma impegnato a reperire vere e proprie prove nell’ambito di una fase ‘‘che invece conta’’. In questo contesto la difesa non poteva che ‘‘preparasi’’ per il dibattimento, a differenza del pubblico ministero, legittimato a fornire ‘‘atti dell’accusa utilizzabili subito e con buona dose di spendibilità anche nel processo’’. Quasi profetiche le parole pronunciate, ben vent’anni prima, da Pietro Nuvolone. I timori paventati dall’illustre giurista (‘‘troppo è il rischio ... di una possibile degenerazione
— 316 — dell’inchiesta preliminare in istruttoria ... squisitamente inquisitoria, condotta dal pubblico ministero’’) si dimostravano, ormai, veramente fondati. Quali i rimedi? Come reagire alle poderose spallate inferte dalla Corte costituzionale e dalla legislazione dell’emergenza? Il pendolarismo legislativo ha contrassegnato una stagione di riforme in cui si sono alternati corposi interventi restrittivi a timide aperture a favore della difesa. La spinta verso un garantismo ‘‘doloso ed interessato’’ ha accompagnato, nelle vicende giudiziarie di ‘‘tangentopoli’’, la critica alla pratica delle misure cautelari, basate sul nesso perverso ‘‘carcere - confessione - delazione’’, e le tante proposte volte all’introduzione della separazione delle carriere del pubblico ministero e del giudice. Fuori, però, da queste contingenti esperienze si è sempre piu consolidata l’idea di un necessario riequilibrio delle forze in campo: nella convinzione che la fase preliminare non è priva di risvolti processuali, e che il riequilibrio in questa fase dei ruoli fra accusa e difesa deve passare attraverso la modifica dei poteri di quest’ultima e non viceversa. Siamo ai centro del problema: ampliati i poteri del difensore, per una sorta di ‘‘garantismo reattivo’’, sono però rimaste ancora insolute le questioni circa i limiti di affidabilità del materiale probatorio introdotto dalla difesa. Le previsioni della legge n. 332 del 1995 sono risultate, insomma, ‘‘congrue, lineari, coerenti’’, ma nello schema dell’inchiesta di parte, coordinata ad una effettiva par condicio dei soggetti chiamati ad accusare e a difendersi. E non nel sistema attuale, con le ‘‘aperture’’ consentite dall’art. 358 c.p.p. (in ordine all’attività del pubblico ministero ‘‘a favore’’ dell’indagato). Un’altra, quindi, la strada da seguire. Se è vero che la linea delle investigazioni del difensore è sagomata dal diritto alla prova, è anche vero che la relativa regolamentazione è complementare ad una attenta revisione dell’intera fase preliminare e delle attribuzioni del G.I.P. Nell’impossibilità di creare una fase preliminare che realmente ‘‘non conti e non pesi’’, Nobili ritiene indispensabile che l’investigazione difensiva venga meglio coordinata al procedimento nel suo insieme, adattando le garanzie ‘‘alle pur peculiari situazioni che si susseguono dalla notizia di reato in poi’’, magari attraverso l’intervento anticipato delle tre funzioni fondamentali dell’accusatore, del giudice e della ‘‘difesa’’ (secondo l’ipotesi avanzata nel saggio relativo ad ‘‘un progetto diverso’’). Ovvia l’illazione: la scelta del 1995 è stata assolutamente inadeguata. Nell’intento di circoscrivere le patologie del sistema, il legislatore non ha fatto altro che consacrarle definitivamente. Dalle delusioni del ‘‘nuovo garantismo’’, ad una aggiornata riflessione su tre principi. Pubblico ministero, motivazione e principio di legalità, rappresentano per l’autore ‘‘altrettante opportunità per registrare ulteriormente dati, patologie, novità, tendenze del periodo’’. Gli argomenti si combinano tra loro. Quando si denuncia lo strapotere dei pubblici ministeri, implicitamente si afferma la necessità di maggiori controlli sull’operato degli stessi. II rilancio della professionalità e della qualità è alla base di tale esigenza. Quali gli strumenti? ‘‘Il tema della motivazione — secondo Nobili — crea prospettive privilegiate ... porta allo scoperto il nodo nevralgico dei controlli, sia quelli interni (al processo), sia quelli esterni (alla collettività)’’. Occorre ritornare alla motivazione, intesa quale veicolo attraverso il quale ‘‘il giudice comunica’’ e attraverso il quale si verifica ‘‘il prodotto giudiziario’’. La motivazione è lo strumento di controllo sulla società, la quale a sua volta utilizza tale mezzo come forma di controllo sull’esercizio del potere. In questo processo circolare il ruolo assegnato alla motivazione ed alla sentenza dovrebbe consentire al sistema di affrancarsi da quelle ‘‘motivazioni anticipate’’, da quei canali intercorrenti tra indagini e società, che Nobili efficacemente denomina ‘‘consorelle atipiche’’ della motivazione. E dovrebbe valere, soprattutto, a fermare l’inarrestabile slittamento da una struttura imperniata sulla supremazia della legge a nuove forme, collaudate dalla pretesa superiorità della magistratura, chiamata a supplire agli altri poteri statuali nei momenti di défaillance di questi ultimi, con una brusca inversione degli abituali rapporti esistenti tra processo e legalità sostanziale. Ha ragione Padovani: il processo penale da ‘‘servo muto’’ del
— 317 — diritto sostantivo si è da prima trasformato in ‘‘socio paritario’’ sino a divenirne un ‘‘socio tiranno’’. Amara la considerazione di Nobili: sono stati proprio questi slittamenti, operati in nome di una ‘‘trasformazione degli atti processuali in mezzi di controllo sociale’’ ad imporre una nuova ‘‘collocazione’’ delle fattispecie incriminatrici ed a ‘‘ridefinire’’ i trattamenti sanzionatori e la disciplina dell’esecuzione. Insomma: nelle maglie allargate di una cultura garantista, che nella sua portata genuina si è ormai assopita, è andato insinuandosi quel meccanismo perverso che assegna agli istituti della procedura funzioni che dovrebbero essere esclusive della pena, e che prima erano dominio assoluto della sanzione, inflitta con la sentenza all’esito del processo. E il processo? E il giudice? ‘‘Oggi il processo penale, come luogo giurisdizionale deputato all’accertamento, non esiste’’. E il giudice vede sempre più circoscritto il suo ruolo, a causa delle tante prerogative rivendicate dal pubblico ministero: un protagonista in grado di fornire, nelle indagini preliminari, risposte ‘‘immediate’’ ad una collettività ormai persuasa di ‘‘non aver più bisogno ... di un giudice’’. (Fabrizio Siracusano)
GIURISPRUDENZA
a) Giurisprudenza costituzionale
CORTE COSTITUZIONALE — 10 dicembre 1998 (dep. 16 dicembre 1998), n. 410 Rel. Contri — Pres. Granata Pres. Cons. Min. c. Proc. Rep. Bologna Segreto di Stato — Opposizione da parte del Presidente del Consiglio dei ministri — Effetti — Limitazioni in via assoluta al compimento di attività d’indagine ed all’esercizio dell’azione penale — Esclusione. Nozione di atti e documenti coperti da segreto di Stato — Divieto di acquisizione ed utilizzazione — Ambito di operatività — Inutilizzabilità indiretta — Sussistenza. Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato — Violazione dei doveri di lealtà e correttezza — Illegittima acquisizione di atti e documenti coperti da segreto di Stato — Inosservanza — Effetti — Nullità — Sussistenza. L’opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei ministri ha non già l’effetto di impedire in via assoluta al pubblico ministero di compiere atti di indagine e di esercitare l’azione penale rispetto a fatti oggetto di una notitia criminis, bensì l’effetto di inibire all’Autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto (1). Tale divieto riguarda l’utilizzazione degli atti e documenti coperti da segreto di Stato sia in via diretta, per fondare su di essi l’esercizio dell’azione penale, sia in via indiretta, per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine, in quanto le eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dalla illegittimità della loro origine (2). I doveri di correttezza e lealtà ai quali i rapporti tra Governo ed Autorità giudiziaria devono ispirarsi, nel senso dell’effettivo rispetto delle attribuzioni a ciascuno spettanti, escludono che l’Autorità giudiziaria possa aggirare surrettiziamente il segreto opposto dal Presidente del Consiglio, inoltrando ad altri organi richieste di esibizioni di documenti dei quali sia nota la segretezza. Pertanto, una richiesta di rinvio a giudizio inficiata dall’utilizzazione di documenti precedentemente ritenuti dalla Consulta come illegittimamente acquisiti, risulta lesiva delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute al Presidente del Consiglio dei ministri in tema di tutela del segreto di Stato e quindi deve essere annullata (3). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. Con ricorso del 10 luglio 1998, depositato il 14 luglio 1998, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, pre-
— 319 — via la necessaria deliberazione del Consiglio dei ministri assunta in data 26 giugno 1998, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del pubblico ministero, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio formulata in data 5 maggio 1998 nei confronti di funzionari del S.I.S.De. e di funzionari di polizia che con i primi avevano collaborato, e che si assume basata su fonti di prova incise dal segreto di Stato opposto dal Presidente del Consiglio dei ministri ex art. 12 della l. 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato). Il ricorrente premette di aver già sollevato, con ricorso del 25 novembre 1997, depositato il 26 novembre 1997, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del pubblico ministero, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, in relazione ad attività istruttoria svolta nei confronti di funzionari del S.I.S.De. e di polizia, e diretta ad acquisire elementi di conoscenza su circostanze incise dal segreto di Stato ritualmente opposto dal Presidente del Consiglio dei ministri, ex art. 12 della l. n. 801 del 1977. La Corte, con ordinanza n. 426 del 1997, dichiarava ammissibile il conflitto proposto e, successivamente, con sentenza n. 110 del 1998, dichiarava non spettare al pubblico ministero in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, né acquisire, né utilizzare sotto alcun profilo, direttamente o indirettamente, atti o documenti sui quali era stato legalmente opposto e confermato dal Presidente del Consiglio dei ministri il segreto di Stato, né trarne comunque occasione di indagine ai fini del promovimento dell’azione penale, annullando conseguentemente gli atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di Stato, nonché la sopravvenuta richiesta di rinvio a giudizio. Il ricorrente sostiene che, a séguito di tale sentenza, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, al quale gli atti erano stati restituiti dal giudice per le indagini preliminari, nel reiterare la richiesta di rinvio a giudizio si è limitato ad eliminare da questa i riferimenti ai documenti trasmessi dalla Questura di Bologna. Ad avviso del ricorrente, tale nuova richiesta di rinvio a giudizio non ottemperando alla sentenza della Corte ed anzi eludendone il disposto, riproporrebbe l’esorbitanza dai poteri propri del Procuratore della Repubblica già in precedenza censurata, e pertanto il Presidente del Consiglio dei ministri, previa la prescritta deliberazione assunta il 26 giugno 1998 dal Consiglio dei ministri, ha sollevato un nuovo conflitto di attribuzione, deducendo la violazione degli artt. 1, 5, 52, 87, 94, 95 e 126 della Costituzione, con riguardo agli artt. 12 e 16 della l. 24 ottobre 1977, n. 801, nonché agli artt. 202, 256 e 362 del codice di procedura penale, per sentire dichiarare che non spetta al pubblico ministero di avvalersi per una richiesta di rinvio a giudizio di atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di Stato e comunque già annullati dalla Corte, e per chiedere il conseguente annullamento della richiesta di rinvio a giudizio del 5 maggio 1998. 2. Con provvedimento in data 14 luglio 1998, il Presidente della Corte ha accolto la formale istanza del ricorrente volta ad ottenere la segretazione dei documenti indicati nel ricorso, che il ricorrente medesimo si riservava di produrre. 3.
Con l’ordinanza n. 266 del 1998, la Corte costituzionale ha dichiarato
— 320 — l’ammissibilità del conflitto sollevato dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna. 4. Quest’ultimo si è costituito nel presente giudizio con atto depositato il 5 agosto 1998, nel quale ha chiesto che questa Corte dichiari il ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei mlnistri inammissibile — in quanto gli atti compiuti dalla Procura, rientrando nelle attribuzioni dell’Autorità giudiziaria, non sarebbero « idonei a ledere in alcun modo la sfera di attribuzioni costituzionalmente determinata per il Governo dello Stato » — ovvero infondato, avendo la Procura di Bologna agito « nell’ambito delle attribuzioni appartenenti all’Autorità giudiziaria ». A sostegno di tali richieste il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna sottolinea, innanzi tutto, in relazione alla prosecuzione del processo, come la Corte, nella sentenza n. 110, abbia affermato i seguenti princìpi: a) che l’improcedibilità dell’azione penale sussiste solo quando l’opposizione del segreto preclude la conoscenza di elementi essenziali per la decisione; b) che non sussiste alcuna ipotesi di immunità sostanziale collegata all’attività dei servizi informativi; c) che l’opposizione del segreto di Stato non ha l’effetto di impedire che il pubblico ministero indaghi sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso ed eserciti se del caso l’azione penale. Ad avviso del resistente, l’unica attività del pubblico ministero che la Corte ha ritenuto non spettare al medesimo consiste nell’ordine di esibizione di atti al Questore di Bologna, onde l’inutilizzabilità degli atti trasmessi dallo stesso Questore e di quelli, eventuali, acquisiti in base alle conoscenze tratte da essi. Sostiene il resistente che la nuova richiesta di rinvio a giudizio, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, si basa su elementi probatori del tutto sufficienti a giustificare la richiesta stessa ed inoltre del tutto autonomi rispetto alle fonti di prova coperte dal segreto di Stato. Tali elementi consisterebbero, in definitiva: a) nella nota del dirigente della Direzione centrale di polizia di prevenzione del 13 dicembre 1996; b) nel materiale sequestrato (due scatoloni contenenti fascicoli e documentazione varia, relativi ad indagini effettuate nel 1991 su attentati commessi in Italia, e bobine di intercettazioni di conversazioni con traduzione); c) nell’esame, quali persone informate dei fatti, del vice direttore e del primo portiere dell’albergo ove si erano svolte le investigazioni illegali, come risultava dagli atti costituenti la notizia di reato; d) nella copia dei registri del detto albergo, dai quali è risultata la presenza dei due funzionari del S.I.S.De., poi imputati. In conclusione, il resistente afferma che i documenti sequestrati senza opposizione di segreto — costituenti la notizia di reato — sono di per sé elementi di prova sufficienti per richiedere il rinvio a giudizio dei primi tre imputati e che le autonome indagini della Procura, fondate su tale notizia di reato costituiscono elementi sufficienti per il rinvio a giudizio del quarto imputato. 5. In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria per il Presidente del Consiglio dei ministri nella quale vengono reiterati rilievi già contenuti nel ricorso e presentate ulteriori deduzioni. In particolare, la difesa del ricorrente rileva che l’individuazione, con successiva escussione come persone informate dei fatti, di due dipendenti dell’albergo nel quale l’operazione oggetto di indagine da parte della Procura bolognese era
— 321 — stata eseguita, « è avvenuta attraverso la lettura dei documenti segreti ». A questo riguardo, il ricorrente contesta l’asserzione del Procuratore della Repubblica secondo la quale i due nominativi sarebbero stati individuati attraverso parallele indagini, ritenendo tali indagini successive e indicando, a conforto di tale convinzione, una successione di date. Precisamente, l’Avvocatura osserva che « la lettura delle carte della Questura di Bologna, pervenute in Procura il 16 luglio 1997 è stata la prima e fondamentale attività di indagine: anteriore addirittura alla lettura della documentazione contenuta negli « scatoloni ministeriali » trasmessi dalla Procura di Roma » e aperti solo il 2 agosto 1997. Le ulteriori indagini, lamenta il ricorrente, non sono pertanto autonome, « ma conseguenziali e di approfondimento rispetto alle notizie apprese attraverso la lettura dei documenti segreti ». L’impiego delle notizie in essi contenute, contestate ed utilizzate negli interrogatori successivi alla loro acquisizione, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri vizierebbe irrimediabilmente gli interrogatori medesimi, che rientrerebbero tra gli atti di indagine già annullati da questa Corte con la sentenza n. 110 del 1998, e che pertanto non possono giustificare una nuova richiesta di rinvio a giudizio. La difesa del ricorrente esclude poi che si possa « sic et simpliciter, salvare tutta la parte di indagine anteriore all’illegittima acquisizione di documenti dalla Questura », argomentando che l’opposizione del segreto in relazione alla documentazione relativa alle operazioni svolte a Bologna dal S.I.S.De. con la collaborazione della polizia sin dall’inizio risultava preordinata al fine di assicurare riserbo alle modalità operative ed ai nominativi degli agenti del S.I.S.De., cosicché anche la documentazione romana dovrebbe ritenersi coperta da segreto « perché violativa di detto riserbo ». Secondo l’Avvocatura ciò risulterebbe confermato dalla circostanza che il segreto di Stato era stato inizialmente opposto, e successivamente confermato, anche dal primo agente del S.I.S.De. « imputato proprio in relazione a documenti ministeriali romani diversi da quelli della Questura bolognese ». La memoria depositata dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri contiene l’elenco dei documenti trasmessi alla Procura resistente nel presente giudizio dalla Questura di Bologna e l’elenco dei documenti precedentemente acquisiti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma (documentazione UCIGOS poi trasmessa alla Procura bolognese), con evidenziazione delle relative coincidenze. Il Presidente del Consiglio dei ministri conclude che se il p.m. bolognese avesse voluto attenersi al disposto della sentenza n. 110 del 1998, « invece di limitarsi ad una burocratica, formale ed incompleta eliminazione del mero richiamo ai documenti della Questura di Bologna dalla nuova richiesta di rinvio a giudizio, avrebbe dovuto riesaminare tutti gli atti per conservare solo quelli del tutto autonomi rispetto alle fonti segretate e sulla base di quelli — se esistenti e se sufficienti a fondare ulteriori indagini — procedere oltre ». 6. Nell’imminenza della data fissata per l’udienza, anche il Procuratore della Repubblica di Bologna ha depositato un’ulteriore memoria per argomentare più diffusamente l’inammissibilità e, subordinatamente, l’infondatezza del ricorso, già dedotte con l’atto di costituzione nel presente giudizio. Nella memoria viene premesso innanzi tutto che dal confronto tra le fonti di prova elencate nella richiesta di rinvio a giudizio del 5 maggio 1998 e la sentenza
— 322 — n. 110 del 1998 risulta che « le prove in questione o sono del tutto indipendenti o estranee alla materia del segreto di Stato, ovvero sono state offerte spontaneamente, e di proria iniziativa, alla valutazione dell’autorità giudiziaria dagli stessi organi investigativi della Polizia di Stato senza riserve, limiti o condizioni ». Alle deduzioni già svolte con l’atto di costituzione, la Procura aggiunge poi alcune precisazioni. In particolare, precisa che « tre dei quattro imputati sono stati iscritti nel registro degli indagati a cura della Procura di Roma, prima che venisse opposto il segreto, mentre il quarto è stato individuato e inquisito in base all’esame dei registri dell’albergo, condotto da questo ufficio, in modo del tutto autonomo e indipendente dai documenti ottenuti con l’ordine di esibizione ». Nella memoria si ribadisce che « le prove a carico di tutti gli imputati... sono state invece acquisite... soprattutto attraverso l’ispezione del corpo del reato... trasmesso spontaneamente al p.m. di Roma... dalla Direzione Generale della Polizia di Prevenzione (prima e indipendentemente dall’opposizione del segreto) ». Il Procuratore resistente dopo aver premesso che l’eventuale annullamento della richiesta del 5 maggio 1998 da parte di questa Corte « verosimilmente » non esimerebbe l’ufficio dal concludere l’indagine preliminare con una nuova richiesta di rinvio a giudizio — osserva che « lo stesso ricorso non pone affatto una questione di illegittimo sconfinamento del p.m. dai limiti delle sue attribuzioni... bensì censura le modalità e il merito di tale esercizio ». Senonché, deduce l’organo resistente nel presente conflitto richiamando l’art. 202, comma 3, c.p.p., « il codice di rito... rimette al giudice, e solo al giudice, nel quadro del processo penale (e quindi non alla Corte, o non anche alla Corte, in sede di risoluzione di un conflitto) il potere-dovere di dichiarare l’improcedibilità ». CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, previa la necessaria deliberazione del Consiglio dei ministri assunta in data 26 giugno 1998, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del pubblico ministero, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio formulata in data 5 maggio 1998 nei confronti di funzionari del S.I.S.De. e di funzionari di polizia che con i primi avevano collaborato, e che si assume basata su fonti di prova incise dal segreto di Stato opposto dal Presidente del Consiglio dei ministri ex art. 12 della l. 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato). Il ricorrente lamenta — in séguito alla reiterazione della predetta richiesta di rinvio a giudizio — la lesione della propria sfera di attribuzioni, come delimitata dagli artt. 1, 5, 52, 87, 94, 95 e 126 della Costituzione, dagli artt. 12 e 16 della l. 24 ottobre 1977, n. 801, e dagli artt. 202, 256 e 362 c.p.p., e chiede che questa Corte dichiari che non spetta al pubblico ministero avvalersi, per formulare la richiesta di rinvio a giudizio, di atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di Stato e comunque già annullati dalla Corte. Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri chiede altresì l’annullamento della richiesta di rinvio a giudizio del 5 maggio 1998. 2.
Occorre, innanzitutto, confermare l’ammissibilità del conflitto di attribu-
— 323 — zione in questione, che questa Corte ha già dichiarato; in linea di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 266 del 1998. Sotto il profilo soggettivo, il Presidente del Consiglio dei ministri è legittimato a sollevare il conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato, non solo in base alla l. n. 801 del 1977, ma, come questa Corte ha già avuto occasione di chiarire, anche alla stregua delle disposizioni costituzionali — invocate nel ricorso — che ne delimitano le attribuzioni (sentenze n. 110 del 1998, e n. 86 del 1977; ord. n. 426 del 1997). Sotto il medesimo profilo, anche la legittimazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna a resistere nel conflitto deve essere affermata in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, che riconosce al pubblico ministero la legittimazione ad essere parte di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto, ai sensi dell’art. 112 della Costituzione, è il titolare diretto ed esclusivo dell’azione penale obbligatoria e dell’attività di indagine a questa finalizzata (sentenze n. 110 del 1998, n. 420 del 1995, e nn. 464, 463 e 462 del 1993; ordinanze nn. 426 del 1997 e 269 del 1996). Quanto al profilo oggettivo, il conflitto riguarda attribuzioni costituzionalmente garantite inerenti all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero ed alla salvaguardia della sicurezza dello Stato anche attraverso lo strumento del segreto, la cui opposizione è attribuita alla responsabilità del Presidente del Consiglio ed al controllo del Parlamento. 3.
Nel merito, il ricorso deve essere accolto.
4. Con la sentenza n. 110 del 1998 questa Corte ha chiarito che l’opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei ministri ha non già l’effetto di impedire in via assoluta al pubblico ministero di compiere atti di indagine e di esercitare l’azione penale rispetto a fatti oggetto di una notitia criminis, bensì l’effetto di inibire all’autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto. La Corte, nella medesima pronuncia, ha precisato che tale divieto riguarda l’utilizzazione degli atti e documenti coperti da segreto di Stato sia in via diretta, per fondare su di essi l’esercizio dell’azione penale, sia in via indiretta, per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine, in quanto le eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dall’illegittimità della loro origine. Questa Corte ha altresì specificato che i doveri di correttezza e lealtà ai quali i rapporti tra Governo ed Autorità giudiziaria devono ispirarsi, nel senso dell’effettivo rispetto delle attribuzioni a ciascuno spettanti, escludono, in particolare, che l’Autorità giudiziaria possa aggirare surrettiziamente il segreto opposto dal Presidente del Consiglio, inoltrando ad altri organi richieste di esibizione di documenti dei quali sia nota la segretezza. Sulla base delle richiamate premesse, la Corte accolse il primo ricorso del Presidente del Consiglio ed annullò gli atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di Stato, unitamente alla prima richiesta di rinvio a giudizio presentata dalla Procura di Bologna, in data 19 novembre 1997. Dall’esame della seconda richiesta di rinvio a giudizio, in data 5 maggio 1998, impugnata dal ricorrente, risulta che la Procura di Bologna ha nuovamente
— 324 — esercitato l’azione penale senza indicare differenti elementi indizianti, indipendenti dagli atti e documenti coperti da segreto già in suo possesso, e senza che essa si basi su altri ed autonomi atti di indagine, legittimamente diretti ad acquisire tali nuovi elementi. L’unica differenza che è possibile riscontrare attraverso un raffronto tra le due richieste di rinvio a giudizio (la prima delle quali annullata da questa Corte) consiste nell’omessa menzione, nella seconda, dei documenti acquisiti dalla Questura di Bologna. Senonché, con la sentenza n. 110 del 1998, questa Corte ha riconosciuto l’illegittimità non solo della richiesta di esibizione rivolta al Questore di Bologna — in quanto diretta ad acquisire documentazione, riguardante le indagini svolte a suo tempo dalla polizia e dai servizi, della quale era nota la segretezza formalmente opposta già agli inquirenti della Procura di Roma — ma anche dell’attività di indagine susseguentemente svolta avvalendosi di quelle conoscenze, già poste a base della prima richiesta di rinvio a giudizio. Da quanto precede — al di là della parziale, ma indubbiamente significativa, coincidenza riscontrata tra i documenti acquisiti dalla Questura di Bologna e quelli trasmessi dal Procuratore della Repubblica di Roma — consegue che l’utilizzo, da parte del pubblico ministero resistente, della documentazione già in possesso della Procura romana, al fine di motivare la nuova, quasi identica, richiesta di rinvio a giudizio, si appalesa illegittimo. La rinnovata richiesta del pubblico ministero risulta infatti inficiata dall’utilizzazione dei documenti — provenienti dalla Questura di Bologna — che questa Corte ha ritenuto illegittimamente acquisiti. Tale illegittima utilizzazione documentale rende la nuova richiesta di rinvio a giudizio lesiva delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute al Presidente del Consiglio dei ministri in tema di tutela del segreto di Stato. Il ricorso deve pertanto essere accolto. PER QUESTI MOTIVI. — La Corte costituzionale dichiara che non spetta al pubblico ministero, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, rinnovare la richiesta di rinvio a giudizio utilizzando fonti di prova acquisite in violazione del segreto di Stato già accertata con sentenza della Corte costituzionale e conseguentemente annulla la richiesta di rinvio a giudizio in data 5 maggio 1998. (Omissis).
——————— (1-3)
Nuovi confini processuali nella tutela penale del segreto di Stato.
SOMMARIO: 1. Il fatto. — 2. Segreto di Stato: strumento lecito? — 3. Il segreto di Stato nel processo penale. — 4. La decisione.
1. Il fatto. — Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale, a distanza di pochi mesi, è tornata ad occuparsi della tutela penale del segreto di Stato. L’occasione è stata offerta, come nell’aprile dello scorso anno (1), da un con(1)
Cfr. Corte cost. 10 aprile 1998, n. 110, in Giur. cost., 1998, p. 929; in Foro it., 1998, I, c.
— 325 — flitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna. Nel gennaio del 1997 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, a seguito del rinvenimento di documenti riservati negli archivi del Viminale, aveva iniziato un procedimento penale nei confronti di agenti della Polizia di Stato in forza presso l’Ufficio centrale investigazioni generali operazioni speciali (U.C.I.G.O.S.) e di funzionari del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (S.I.S.De.), in relazione alle attività dagli stessi svolte, nel settembre del 1991, in sede di azione informativa effettuata sul conto di un cittadino straniero segnalato dai servizi collegati quale appartenente ad organizzazione terroristica. Nel corso delle indagini preliminari veniva opposto il segreto di Stato in relazione ad alcuni interrogatori ed ordini di esibizione documentali da parte della Procura della Repubblica di Roma. Detto segreto, su rituale interpello dell’Autorità giudiziaria, veniva confermato dal Presidente del Consiglio dei ministri; e detta conferma era poi ritenuta fondata dal Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato (Co.Pa.S.I.S.). Nella primavera del 1997, la Procura di Roma, riconosciuta la propria incompetenza territoriale, trasmetteva gli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, il quale avviava le indagini notificando, a sua volta, alla Divisione investigazioni generali operazioni speciali (D.I.G.O.S.) della locale Questura, un ordine di esibizione di documenti relativi alle suddette attività investigative. Ebbene, pur avendo precisato la Questura di Bologna, nel trasmettere alcuni degli atti richiesti, che gli stessi risultavano coperti da segreto di Stato, gli organi della Procura proseguivano nelle indagini, formulando, a conclusione delle stesse, la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei suddetti funzionari (2). A questo punto, nel novembre del 1997, il Presidente del Consiglio dei ministri sollevava conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, ritenendo che le indagini svolte da quest’ultimo sarebbero state dirette ad acquisire elementi di conoscenza su circostanze incise dal segreto di Stato ritualmente opposto e confermato (3). Decidendo sul conflitto in parola, con la sentenza n.110 del 1998, la Consulta dichiarava « che non spetta al pubblico ministero [...] né acquisire, né utilizzare, sotto alcun profilo, direttamente o indirettamente, atti o documenti sui quali è stato legalmente opposto e confermato [...] il segreto di Stato, né trarne occasione di indagine ai fini del promovimento dell’azione penale »; di conseguenza la Corte annullava « gli atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di Stato, nonché la sopravvenuta richiesta di rinvio a giudizio », sconfessando la tesi prospettata nell’atto di costituzione in giudizio dinanzi alla Corte dalla Procura di Bologna (4). 2357; in Giust. pen., 1998, I, p. 229; in Cons. St., 1998, II, p. 532; in Corr. giur., 1998, p. 838; in Dir. pen. e processo, 1998, p. 831; in Studium iuris, 1998, p. 701; ed in Guida dir., 1998, XXI, p. 63. (2) Nella richiesta di rinvio a giudizio sono stati contestati i reati previsti dagli artt. 615, 617, commi 1 e 3, ed ancora, 617-bis, commi 1 e 2, c.p. (3) In particolare, con il ricorso del 25 novembre 1997, depositato il 27 novembre previa delibera del Consiglio dei ministri in data 14 novembre, il Presidente del Consiglio dei ministri rilevava come l’attività svolta dalla Procura di Bologna avesse eluso la conferma del segreto di Stato, ricercando ed ottenendo « proprio quelle notizie che si erano volute segretare » (nomi e modus operandi). Lo stesso osservava inoltre che la divulgazione dei dettagli tecnico-operativi dell’operazione anti-terrorismo de qua avrebbe potuto esporre i servizi segreti italiani al rischio di « ostracismo informativo » da parte degli omologhi servizi stranieri interessati a problematiche comuni, con evidenti conseguenze fortemente negative. (4) Secondo l’interpretazione fornita dalla resistente Procura, infatti, la ratio delle norme sul segreto non sarebbe quella di impedire che si indaghi su un argomento coperto dal segreto di Stato, bensì quella « di evitare che i pubblici ufficiali e le altre persone previste dagli artt. 202 e 256 c.p.p. possano es-
— 326 — Quest’ultima, basandosi probabilmente su un’erronea interpretazione di alcune considerazioni elaborate dalla Consulta, il 5 maggio 1998 avanzava una nuova richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei medesimi indagati, limitandosi ad omettere di menzionare, tra gli atti sui quali la richiesta stessa era fondata, i documenti acquisiti dalla locale Questura, in quanto coperti da segreto di Stato. In conseguenza della scelta operata dalla Procura emiliana, veniva promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri un nuovo giudizio innanzi alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione. Il Giudice delle leggi, con la sentenza in commento, annullava la nuova richiesta formulata ai sensi dell’art. 416 c.p.p., ribadendo che l’effetto inibitorio derivante dall’opposizione del segreto di Stato riguarderebbe l’utilizzazione sia in via diretta degli atti segretati — per fondare su di essi l’esercizio dell’azione penale — sia in via indiretta — per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine — in quanto le eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dall’illegittimità della loro origine. 2. Segreto di Stato: strumento lecito? — Procedendo con ordine, appare inevitabile, in via preliminare, rintracciare i fondamenti ed i limiti costituzionali del segreto di Stato al fine di enuclearne una nozione rispondente al dettato costituzionale e verificarne l’ambito di estensione e la sua efficacia limitante rispetto all’esercizio della funzione giudiziaria; d’altra parte la tesi prospettata dalla Procura di Bologna si fonda proprio sulla rivendicazione della primarietà della funzione giudiziaria che si assume indebitamente limitata, per effetto di un’erronea applicazione delle disposizioni in materia di segreto di Stato. Innanzitutto, dunque, è opportuno chiarire se e fin dove sia costituzionalmente legittimo coprire determinati atti o fatti con lo schermo protettivo del segreto di Stato, e soprattutto quali siano i costi, in termini giuridico-sociali, di un’eventuale segretazione. Fin dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, infatti, sono stati mossi radicali attacchi alla disciplina del segreto di Stato, in quanto si è sottolineato con particolare insistenza come detta disciplina violerebbe in sé, o almeno per il modo in cui è concepita, diversi princìpi costituzionali (5). sere obbligate a rendere testimonianza e a consegnare atti e documenti riguardanti fatti coperti dal segreto di Stato, ovvero che essi possano essere puniti per il rifiuto di compiere tali atti altrimenti obbligatori ». Le suddette norme, inoltre, non avrebbero l’effetto di impedire l’accertamento aliunde dei fatti coperti dal segreto e pertanto, ad avviso della resistente Procura, l’interpretazione prospettata dal ricorrente Presidente del Consiglio, volta a configurare un divieto assoluto di indagine sui fatti e le notizie in relazione alle quali sia opposto il segreto di Stato, non potrebbe essere condivisa, anche in considerazione del tenore letterale e della collocazione sistematica degli artt. 202 e 256 c.p.p. In tal senso, in dottrina si veda per tutti F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1998, p. 659. (5) Basti pensare che negli anni Settanta è stata avanzata una proposta di referendum abrogativo che, nell’eterogeneo elenco di novantasette articoli del vigente codice penale, riguardanti i più disparati reati, coinvolgeva anche l’intera normativa sostanziale in materia di segreto di Stato, facendo salvi i soli reati di spionaggio in senso stretto. Per un quadro completo delle eccezioni di costituzionalità relative alla normativa sul segreto di Stato, in dottrina si veda A. ANZON, Segreto di Stato e Costituzione, in Giur. cost., 1976, p. 1955; V. CRISAFULLI, In tema di limiti alla cronaca giudiziaria, ivi, 1965, p. 246; S. FOIS, Princìpi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957; F. MANTOVANI, I limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, in questa Rivista, 1966, p. 634; ID., Diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero con riguardo alla pubblicità dei fatti criminosi, in Arch. giur., 1968, p. 40; G. MUSIO, Il segreto politico-militare di fronte alla Corte costituzionale, in Giur. cost., 1976, p. 588; ID., Segreto politico e limiti alla prova nel processo penale, in Giust. pen., 1976, II, p. 180; S. NASTI, Limiti costituzionali del diritto all’informazione, in Foro nap., 1978, III, p. 117; M. PAGANETTO, Rilievi critici sulla giurisprudenza in tema di limiti derivanti dal segreto di Stato, in Giur. cost., 1972, p. 1959; P. PISA, Segreto di Stato e libertà di stampa. Che cosa insegna il caso Panorama, in Pol. dir., 1988, p. 515; ID., Il segreto di Stato di fronte alla Corte costituzionale: luci ed ombre in attesa della riforma, in Giur. cost., 1977, p. 1206; G.D.
— 327 — Per contro, si è osservato che la Costituzione non è affatto insensibile alla necessità di difesa dello Stato: se « la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino » ( art. 52 Cost.), nessun soggetto, pubblico o privato che sia, può, con la sua attività, pregiudicarla (6). Pertanto, « se in linea di principio la democrazia impone che lo Stato sia una casa di vetro senza arbitrari nascondigli per gli affari pubblici, sono le esigenze dello Stato-istituzione a sottrarre al regime della pubblicità alcuni settori fondamentali, come la difesa nazionale (e dunque in particolare i segreti militari) e gli affari esteri (donde i segreti politico-diplomatici) » (7). Prendendo le mosse da tali considerazioni, appare evidente come l’art. 52 Cost. legittimi senz’altro gran parte dei segreti di Stato (ed in particolare quelli militari e diplomatici), in quanto il dovere di difesa della Patria non può restringersi al solo obbligo di prestare il servizio militare o civile, ma comprende altresì l’obbligo di astenersi dal compiere atti che pregiudichino la difesa del Paese, fra i quali rientrano senz’altro le violazioni (intese come procacciamenti e rivelazioni) dei detti segreti (8). Il dovere di difesa si riferisce, inoltre, non soltanto alla sicurezza esterna, intesa come « interesse dello Stato-comunità alla sua integrità territoriale, ed — al limite — alla sua sopravvivenza » (9), ma anche alla sicurezza interna (10) intesa come interesse dello Stato alla sua integrità costituzionale ed alla sua sopravvivenza come Stato democratico (11). D’altra parte, anche se si dovesse prescindere dall’art. 52 Cost., la stessa Costituzione offrirebbe pur sempre un fondamento ai segreti posti a tutela della sicuPISAPIA, Questioni di legittimità costituzionale. Questioni sul diritto di difesa in relazione alla tutela del segreto, in Arch. pen., 1969, II, p. 168; ID., Prova penale e segreto politico-militare, in Arch. giur., 1968, p. 422; ID., Sulla validità dell’attuale disciplna legislativa del segreto di Stato, in Rass. parl., 1968, p. 619; G. PITRUZZELLA, Segreto. Profili costituzionali, in Enc. giur. Treccani, XXVIII, 1992, p. 1; F. PIZZETTI, Princìpi costituzionali e segreto di Stato, in Segreto di Stato e giustizia penale, a cura di M. CHIAVARIO, Bologna, 1978, p. 91; nonché D. SPIRITO, Segreto di Stato e funzione giurisdizionale: bilanciamento o prevalenza di interessi?, in questa Rivista, 1979, p. 581. Sulla legittimità costituzionale del segreto di Stato in giurisprudenza si veda anche Corte cost. 14 aprile 1976, n. 82, in Giur. cost., 1976, I, pp. 469 e 588, con nota di G. MUSIO; in Giur. it., 1976, I, 1, p. 1440; in Foro it., 1976, I, c. 1157; in Giust. pen., 1976, I, p. 180; in Giust. civ., 1976, III, p. 223; in Cons. St., 1976, II, p. 372; ed in Riv. pol., 1976, p. 469; nonché Corte cost. 24 maggio 1977, n. 86, in Giur. cost., 1977, I, pp. 696, 864, con nota di R. NANIA; ivi, p. 866, con nota di A. ANZON; ivi, p. 1200, con nota di A.M. SANDULLI; ed ivi, p. 1206, con nota di P. PISA; in Foro it., 1977, I, c. 1333; in Giust. pen., 1977, I, p. 161; in Riv. pen., 1977, p. 451; in Cons. St., 1977, II, p. 502; in Riv. pol., 1977, p. 400; in Mass. pen., 1977, p. 779; in Giust. civ., 1977, III, p. 216; ed in Foro pad., 1977, III, p. 46; ed ancora, Trib. Supr. Milit. 17 marzo 1971, in Giust. pen., 1972, I, p. 265; come pure, Trib. Roma, 1 marzo 1968, in Giur. it., 1969, II, p. 29; ed infine, Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 1970, in Foro it., 1971, c. 187. (6) A tal proposito, è bene rilevare che « il termine Patria, usato nel testo costituzionale soltanto, e non a caso, nell’art. 52, comma 1, Cost., è più ricco del termine Stato, includendo anche le tradizioni storiche e giuridiche, le ansie di sviluppo, le esigenze etiche dell’intera comunità nazionale, emergenti dalla Costituzione stessa » (F. PIZZETTI, op. cit., p. 91). (7) Così, M. PISANI, Testimonianza e segreti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, p. 65. (8) Non manca chi sostiene addirittura una costituzionalità globale della normativa posta a tutela del segreto di Stato. In tal senso, in giurisprudenza, si veda ad esempio: Trib. Roma, 1o marzo 1968, in Arch. pen., 1969, II, p. 157; Cass. pen. 22 febbraio 1974, in questa Rivista, 1975, p. 1027 ; Cass. pen. 24 febbraio 1970, in Foro it., 1971, c. 187; Trib. Supr. Milit. 17 marzo 1972, in Giur. cost., 1972, p. 1967. (9) Così si legge in Corte cost. 14 aprile 1976, n. 82, cit. (10) In senso contrario si veda per tutti A. ANZON, Segreto di Stato e Costituzione, cit., p. 1795. (11) L’aspetto interno e quello internazionale, infatti, sono intimamente connessi tra loro: il termine Patria non dev’essere inteso con riferimento alla sola nazionalità, indipendentemente dalle forme sociali e giuridico-politiche da essa assunte nello Stato quale è organizzato dalla Costituzione repubblicana, in quanto vi è fra indipendenza nazionale e sovranità popolare un’evidente connessione ed equipollenza di valori. Peraltro la tesi opposta, portata alle estreme conseguenze, renderebbe fungibile la forma democratica dello Stato con qualsiasi altra: il dovere di difesa, sul piano internazionale, sancito dall’art. 52 Cost., sopravviverebbe anche alla sovversione dei fondamentali princìpi costituzionali ed il cittadino resterebbe comunque obbligato a difendere uno Stato che fosse il risultato di tale sovversione.
— 328 — rezza dello Stato, posto che vi sono molteplici disposizioni costituzionali nelle quali è ravvisabile tale fondamento: artt. 17, 18 e 126 Cost. L’art. 1 Cost. poi, nell’affermare la democraticità dello Stato repubblicano e la sovranità popolare, rivela un principio immanente che trova espressione anche nell’art. 139 e nella XII disp. fin.: la Repubblica e le sue istituzioni non sono liberamente esponibili alle aggressioni di chi intendesse sconvolgerle (12). Inoltre, l’art. 54 Cost. il cui comma 1 sancisce per « tutti i cittadini... il dovere di essere fedeli alla Repubblica », sottolinea che la fedeltà è dovuta non genericamente allo Stato, ma alla Repubblica intesa come complesso di valori di cui la Costituzione è espressione e traduzione concreta (13). Rintracciati sin qui i fondamenti di una tutela del segreto di Stato, si pone adesso il problema di individuare i limiti entro cui la stessa possa essere esercitata. È stato più volte osservato, infatti, che la normativa volta a tutelare i segreti di Stato risulti assolutamente incompatibile con alcuni fondamentali princìpi di rilievo costituzionale, quali il principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.), il principio di libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), il principio del diritto alla difesa (art. 24, comma 2, Cost.) ed il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) (14). Soffermando, per ragioni di economia espositiva, l’attenzione su quest’ultimo principio che inerisce in maniera più diretta ai fatti relativi alla sentenza in commento, appaiono indispensabili alcune brevi considerazioni volte a confutare l’assunto in base al quale la copertura di dati reati con il segreto di Stato ostacolerebbe l’esercizio dell’azione penale. A tale tesi si può replicare che in realtà l’obbligo sancito dall’art. 112 Cost. non è operante fin quando la notitia criminis non venga portata a conoscenza del pubblico ministero: altro è l’obbligatorietà dell’azione penale, altro l’obbligatorietà della denuncia (15). Qualora, invece, le indagini siano già in corso, l’opposizione del segreto non inibirebbe affatto in modo assoluto all’Autorità giudiziaria la conoscenza dei fatti (12) Secondo il Pisa, appare significativo anche che « la Costituzione deroghi al principio dell’irresponsabilità [...] del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni nelle ipotesi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione (art. 90, comma 1, Cost.): le esigenze di garanzia di un determinato assetto istituzionale giungono, quindi, al punto di superare il diaframma dell’irresponsabilità che circonda di un’atmosfera quasi sacrale il litorale della massima carica dello Stato italiano » (P. PISA, Segreto di Stato. Profili penali, Milano, 1977, p. 218). (13) Ciò conferma quanto prima si è detto a proposito del dovere di difesa che dev’essere riferito non solo ai potenziali nemici esterni della Repubblica, ma anche a quelli interni, che ne tentino l’eversione dei valori, aggredendone le istituzioni. (14) In argomento si vedano a mero titolo esemplificativo: A. ANZON, Aspetti controversi della normativa sul segreto di Stato, in Dir. soc., 1979, p. 401; P. BARILE, Democrazia e segreto, in Quad. cost., 1987, p. 29; A. BONACCI, Un istituto penalistico da riesaminare: il segreto di Stato, in Dem. dir., 1968, p. 309; P. CASADEI-MONTI, Giustizia, informazione e segreti di Stato, in Giustizia e informazione, a cura di N. LIPARI, Bari, 1975, p. 199; G. COLLI, Sulla validità dell’attuale disciplina legislativa del segreto di Stato nelle accezioni politico-militare e di ufficio, in Rass. parl., 1968, p. 258; L. FERRAJOLI, Segreto e informazione nello Stato contemporaneo, in Dem. dir., 1974, p. 721; S. NASTI, op. cit., p. 117; P. PISA, Segreto di Stato e libertà di stampa. Che cosa insegna il caso Panorama, cit., p. 515; G. RICCIARDI, Appunti su segreto di Stato e principio di trasparenza, in Pol. dir., 1993, p. 35; M. RODRIQUEZ, Sicurezza dello Stato e pubblici segreti nella prospettiva dei rapporti fra poteri, in Riv. dir. proc., 1977, p. 57. (15) Quest’ultima, peraltro, è prevista in alcuni casi dalla legge ordinaria o per la qualità del soggetto (cfr., p.e., artt. 361, 362, 365 c.p.) o per la gravità del reato (art. 364 c.p.). « Il citato art. 364 c.p., che obbliga ogni cittadino a denunciare i delitti contro la personalità dello Stato per i quali la legge preveda la pena dell’ergastolo, pur avendo i caratteri di una legge ordinaria, risponde ad esigenze costituzionalmente rilevanti (artt. 52, 54 Cost.). È da ritenere pertanto che l’obbligo della denuncia in questo caso prevalga sul dovere di servare il segreto di Stato o di ufficio. Sarebbe invero contraddittorio che il segreto circondasse situazioni di pericolo per lo Stato, quando esso è dalla legge preveduto a sua difesa ». (F. MASTROPAOLO, Nozione e disciplina del segreto di Stato, in Segreto di Stato e servizi per le informazioni e la sicurezza, Roma, 1978, p. 95). In argomento si veda anche G. MUSIO, op. ult. cit., p. 180.
— 329 — cui il segreto si riferisce, sicché al pubblico ministero non sarebbe precluso il compimento di qualsiasi indagine purché fondata su elementi di conoscenza acquisiti aliunde (16). In altri termini, l’opposizione del segreto di Stato non ha l’effetto di impedire che il pubblico ministero indaghi sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso, ed eserciti se del caso l’azione penale, ma ha l’effetto di inibire all’Autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto. Se, dunque, non vi è incompatibilità tra la tutela del segreto di Stato ed i princìpi costituzionali poc’anzi richiamati, rimane da stabilire quali siano i limiti entro cui tale tutela possa essere lecitamente esercitata. La questione non è di immediata soluzione; tuttavia appare chiaro che l’ambito dei segreti di Stato giuridicamente tutelabili incontri, come è ovvio e giusto che sia, un ordine di limiti realmente invalicabili in taluni princìpi e norme costituzionali « in grado di prevalere, per la loro importanza e specificità sulla generale ragione giustificativa di una sfera di segreto di Stato costituzionalmente rilevante » (17). Dal perentorio rifiuto della guerra offensiva, sancito dall’art. 11 Cost., ad esempio, è lecito desumere che debba negarsi la legittimità di quei segreti che ineriscano alla preparazione, all’organizzazione o all’attuazione di operazioni militari di carattere aggressivo (18). In questa prospettiva, è evidente che il suddetto divieto costituzionale investe anche la materia dei trattati internazionali, cosicché risultano costituzionalmente illegittimi i segreti di Stato inerenti alla fase delle trattative o all’esistenza di accordi internazionali che consentano o addirittura obblighino le parti contraenti ad intraprendere guerre offensive. D’altra parte, la copertura del segreto non potrà legittimamente operare neppure in riferimento ad atti preparatori ed organizzativi di mutamenti delle istituzioni dello Stato italiano perseguiti attraverso strumenti extra-legali (si pensi, ad esempio, all’organizzazione di un colpo di Stato). Pertanto, le stesse motivazioni sulla base delle quali si riconosce la fondatezza costituzionale di un’esigenza di segretezza a tutela del quadro istituzionale nel suo complesso inducono ad affermare l’inutilizzabilità del segreto di Stato da parte di chi intenda muoversi proprio contro quegli interessi. Se l’interesse alla sicurezza, infatti, è di rango tale da giustificare il sacrificio (16) In tal senso si è recentemente espressa anche la Consulta precisando che « tale impostazione altererebbe in questa materia l’equilibrio dei rapporti tra potere Esecutivo e Autorità giudiziaria, che debbono essere improntati al principio di legalità; né potrebbe questa Corte sostituirsi al Legislatore, operando in concreto di volta in volta, senza alcuna base legislativa, valutazioni di merito attinenti al bilanciamento tra beni costituzionali sottostanti rispettivamente alle esigenze di tutela del segreto e di salvaguardia dei valori protetti dalle singole fattispecie incriminatrici » (Corte cost. 10 aprile 1998, n. 110, cit.). (17) L’espressione è del Pisa, il quale ha opportunamente operato una tripartizione nell’ambito della categoria dei segreti illegittimi distinguendo, a seconda del tipo e della gravità dell’illegittimità da cui è affetto il segreto di cui si discute, segreti illegittimi sul piano extra-penale, segreti penalmente illegittimi e segreti costituzionalmente illegittimi (P. PISA, Segreto di Stato. Profili penali, cit., p. 235 ss.). Sul punto si veda anche H. JESCHECK, La protezione dei segreti di Stato illegali nella Repubblica federale tedesca, in Rass. giust. milit., 1982, p. 365. (18) In argomento, attenta dottrina ha precisato che « naturalmente la concretizzazione in termini chiaramente scolpiti dei limiti al segreto estrapolabili dall’art. 11 Cost. è condizionata dalle possibili zone d’ombra esistenti nei concetti adottati dalla norma costituzionale. Una recente indagine ha peraltro puntualizzato in maniera assai convincente la portata del divieto contenuto nell’art. 11 Cost. È stato così precisato che il divieto in parola va inteso nel senso di un ripudio non solo delle guerre di aggressione in senso tecnico, ma anche di quelle forme di violenza armata — di consistenza equiparabile alla guerra vera e propria — non qualificata come tale dalle parti in conflitto. Inoltre si è sottolineato che dal concetto di guerra di legittima difesa, ammissibile a norma della Costituzione italiana, vada esclusa la c.d. legittima difesa preventiva: esclusione estremamente importante e chiarificatrice, in quanto l’esperienza storica insegna quante volte, dietro l’etichetta della difesa preventiva, si siano celati piani di vera e propria aggressione » (P. PISA, op. ult. cit., p. 238).
— 330 — di forme esplicative di libertà costituzionalmente garantite, il medesimo interesse non può tollerare di vedersi ritorcere contro quegli strumenti (la segretezza appunto) coordinati alla sua tutela. Ciò non tanto per la considerazione che i comportamenti in parola integrerebbero gli estremi di fattispecie penali previste dai codici penali vigenti (comune e militari) (19), quanto piuttosto per diverse e più valide ragioni. Nei casi prospettati, infatti, non ci si trova di fronte a semplici reati, bensì ad illeciti costituzionali della massima gravità almeno in parte riconducibili alla figura di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, cui la stessa fa riferimento in tema di responsabilità del Capo dello Stato (art. 90 Cost.). In sintesi, appare chiaro che « in presenza di segreti costituzionalmente illegittimi, viene meno la ragione giustificativa, pur costituzionalmente radicata in chiave generale, di una tutela sul piano della segretezza di Stato. Può dirsi anzi che sussiste un preciso dovere, da parte degli organi pubblici depositari o a contatto con simili segreti, di denunciarne nelle sedi e con le modalità più opportune l’esistenza » (20). Dalle considerazioni fin qui svolte sembra corretta, seppur preferibile, la formulazione dell’art. 12 della l. n. 801 del 1977 (21) in base al quale « sono coperti da segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato ». Detta norma, come pure gli artt. 204, comma 1, e 256, ult. comma, c.p.p., precisa inoltre che « in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordine costituzionale ». Sembra così che, procedendo ad una più rigorosa definizione della materia secretabile ed imponendo il limite dei segreti costituzionalmente illegittimi, il Legislatore abbia provveduto ad eliminare quel parametro impalpabile dell’interesse politico interno o internazionale dello Stato, la cui legittimità era stata messa aspramente in discussione da attenta dottrina (22). Del resto sarebbe difficile fornire indicazioni troppo specifiche senza correre il rischio di piegare il segreto a finalità di tutela non proprio consone alla sua funzione (23). 3. Il segreto di Stato nel processo penale. — Individuati i fondamenti ed i limiti costituzionali del segreto di Stato, è bene chiarire in che modo quest’ultimo possa influenzare il naturale svolgimento dell’iter processuale. Dalla lettura della sentenza in commento emergono, infatti, numerosi riferimenti alle norme processuali in materia di segreto di Stato (artt. 202, 204 e 256 (19) Come giustamente rilevato dal Pisa, infatti, « la mera necessità di perseguire comportamenti delittuosi non giustifica di per sé il superamento dei limiti imposti dal segreto dettato da esigenze di sicurezza del Paese » (P. PISA, op. ult. cit., p. 241). (20) Testualmente P. PISA, op. ult. cit., p. 242. (21) Si tratta della l. 24 ottobre 1977, n. 801 in materia di Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato, su cui, tra gli altri, si veda AA.VV., Segreto di Stato e servizi per le informazioni e la sicurezza, Roma, 1978; AA.VV., Segreto di Stato e giustizia penale, a cura di M. CHIAVARIO, Bologna, 1978; AA.VV., Il segreto nella realtà giuridica italiana, Padova, 1983. (22) In argomento si veda S. LABRIOLA, Informazioni per la sicurezza e segreto di Stato, in Dir. soc., 1981, p. 833; nonché P. PISA, Le premesse sostanziali della normativa sul segreto di Stato, in Segreto di Stato e giustizia penale, cit., p. 25. (23) È quello che è successo con il r.d. n. 1161 del 1941: si pensi che, a norma dello stesso, dovrebbero tuttora essere coperti da segreto militare gli incidenti avvenuti durante manovre militari o ascensioni di truppe alpine nonché tutti i dati riguardanti strade e ferrovie.
— 331 — c.p.p.), che richiedono un’approfondita analisi al fine di comprendere se le stesse siano state correttamente applicate. In particolare, si fa più volte riferimento ad alcune opposizioni del segreto di Stato sia in sede di interrogatori, sia a fronte di ordini di esibizioni documentali. A tal proposito, è innanzitutto opportuno chiarire come siano legittimati all’opposizione medesima solamente i testimoni o i destinatari di detti ordini di esibizione e sempre che ricoprano la qualifica di pubblico ufficiale, di pubblico impiegato ovvero di incaricato di un pubblico servizio (24). Al contrario, dunque, detta facoltà non può assolutamente essere riconosciuta all’imputato (25). Come osservato anche dalla resistente Procura di Bologna, la ratio delle norme sul segreto risiede nel contemperamento tra tutela del segreto stesso ed obbligo del teste di rendere la deposizione: nel vigente codice di rito, infatti, è venuta meno l’espressione « e non debbono essere interrogati » di cui all’art. 352, comma 2, c.p.p. abr. che imponeva al giudice un limite probatorio assoluto (26). La questione si è dunque ridotta ad un problema di utilizzabilità: i soggetti (24) Nel redigere il vigente codice di procedura penale, il Legislatore non ha provveduto ad eliminare la discrasia già esistente sotto il codice abrogato tra disciplina sostanziale e normativa processuale in materia di segreto di Stato: il codice penale, infatti, prevede le fattispecie violative dei segreti stessi come reati comuni (cfr. artt. 255-262 c.p.), mentre il codice di rito obbliga ad astenersi dal deporre i soli soggetti previsti dall’art. 202 c.p.p. D’altronde va detto che nella normalità dei casi sono proprio questi soggetti ad essere depositari dei segreti che il Legislatore intende sottrarre alla pubblicità del processo, pur non potendosi escludere che ne siano a conoscenza anche persone prive delle richieste qualifiche. In tal caso la garanzia processuale sarebbe inoperante. È da chiedersi d’altronde se potrebbe dedursi dall’art. 261 c.p. un dovere del teste di astenersi dalla deposizione, o se piuttosto non debba essere proprio tale norma a rimanere paralizzata, in virtù del disposto dell’art. 51 c.p., dal generale dovere di testimonianza che incombe sul comune cittadino. Peraltro, secondo parte della dottrina, l’obbligo di astensione graverebbe su chiunque, poiché l’esclusione della testimonianza non sarebbe prevista in funzione delle qualità personali del teste, bensì in funzione della presunta pericolosità derivante dalla diffusione della notizia. In tal senso si veda F.M. GRIFANTINI, Segreto di Stato e divieto probatorio nel codice di procedura penale 1988, in Giust. pen., 1989, III, p. 513; E. PENNACCHINI, Segreto di Stato e servizi di sicurezza in uno Stato di diritto liberale e democratico, Catania, 1984, p. 83; nonché F. MASTROPAOLO, op. cit., p. 76. Per una più ampia disamina del problema si vedano fra gli altri G. AZZALI, Prove penali e segreti, Milano, 1977; V. CAVALLARI, Dal segreto politico-militare al segreto di Stato, in Giust. pen., 1979, III, p. 158; V. GREVI, Segreto di Stato e processo penale: evoluzione normativa e questioni ancora aperte, in Segreto di Stato e giustizia penale, cit., p. 342; R. GUERRIERO, Presidente del Consiglio dei Ministri e giudice ordinario: potestà e limiti di segretazione, in Rass. Arma Carabinieri, 1985, p. 51; G. PAOLOZZI, Opposizione del segreto di Stato, in questa Rivista, 1981, p. 122; ID., La tutela processuale del segreto di Stato, Milano, 1983, p. 215; P. PISA, Segreto di Stato. Profili penali, cit., p. 239; G. SCANDONE, Riflessioni in tema di tutela processuale del segreto di Stato, in Riv. pol., 1988, p. 95. (25) In tal senso si è espressa anche la Suprema Corte precisando che l’imputato, al contrario del teste, « ha ampia libertà di articolare la propria difesa, anche rifiutandosi di rispondere, senza incorrere nel rischio di alcuna incriminazione, essendogli solo inibite dichiarazioni integranti il delitto di calunnia. Ugualmente, ove ritenga utile rendere dichiarazioni su fatti coperti da segreto di Stato, non incorre in responsabilità penale, non potendosi comprimere l’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente protetto. La violazione del segreto di Stato, infatti, è in tal caso scriminata dall’art. 51 c.p. » (Cass. pen., Sez VI, 10 marzo 1987, in Cass. pen., 1988, p. 1989, con nota di F.M. GRIFANTINI). È dello stesso avviso anche il Cordero che, a titolo esemplificativo, considera « l’ipotesi dell’imputato che affermi di aver adempiuto un dovere, senza spiegare in quale contesto, né da chi venisse l’ordine e come fosse concepito, sostenendo di non poter rivelare i relativi dati perché coperti da segreto. Difesa vacua indichi i termini dell’ipotetica situazione, nominando i testimoni (sarebbe tale, par excellence, l’autore dell’asserito ordine); qualora poi questi ultimi si trincerino dietro il segreto, e questo venga confermato, scatterà il non liquet. Già in questi limiti è una soluzione costosa: forse l’imputato specula sulla scriminante immaginaria confidando nel soccorso dell’Esecutivo, o spera che nessuno venga a smentirlo, perché sarebbe pericoloso toccare l’argomento » (F. CORDERO, op. cit., p. 661). Non si dimentichi, infine, che l’art. 209 c.p.p., nell’estendere all’esame dell’imputato di cui all’art. 208 c.p.p. talune disposizioni proprie dell’esame testimoniale, non presenta alcun richiamo all’art. 202 c.p.p. (26) « Era una formula a due battute: una mirava alla prospettiva penalistica; l’altra imponeva un limite alla prova, escludendo i relativi materiali dalla decisione. Caduta la regola d’esclusione, costituisce
— 332 — indicati dagli artt. 202 (e 256) c.p.p., infatti, violando l’obbligo di astenersi dal deporre (e, rispettivamente l’ordine di esibizione), commetterebbero un reato ponendo in essere un’illecita rivelazione, ma la testimonianza risulterebbe inutilizzabile soltanto qualora l’obbligato al segreto avesse parlato essendovi stato abusivamente indotto; solo in tal caso, infatti, sarebbe violato lo specifico divieto probatorio che rende l’atto inutilizzabile (27). Come quasi unanimemente riconosciuto da dottrina e giurisprudenza, infatti, nel nostro sistema processuale non può trovare applicazione la c.d. teoria dei frutti dell’albero avvelenato. In altri termini, non rileva in che modo la prova sia stata scoperta o scovata (28): può darsi che gli inquirenti l’abbiano rintracciata mediante argute intuizioni, ovvero a seguito di deliri onirici, di sedute spiritiche, o ancora dietro le indicazioni di un’abile cartomante. Non si capisce, dunque, sulla base di quali norme le prove stesse non possano essere il frutto (purissimo) di un illecito penale. Si consideri, infatti, che il termine acquisite, usato dai codificatori nell’incipit dell’art. 191 c.p.p., presuppone un’attività regolata da sole norme processuali (sono questi i divieti stabiliti dalla legge cui si riferisce la norma in esame), non consentendo alcun riferimento a norme sostanziali (29). Ciò detto, va chiarito che l’opposizione del segreto non è sufficiente a risolvere la questione, in quanto è necessario che il segreto venga confermato dal Presidente del Consiglio dei ministri dietro rituale interpello del giudice procedente (30). Qualora nei sessanta giorni dalla notificazione della richiesta non arrivi la valida testimonianza quel che l’obbligato al segreto riveli, non essendovi coatto » (F. CORDERO, op. cit., p. 659). In argomento si veda anche G. AZZALI, op. cit., p. 109; V. CAVALLARI, op. cit., p. 158; E. DOSI, La tutela penale del segreto nella prova testimoniale del processo penale, in Sc. pos., 1968, p. 444; L. FIORAVANTI, Il segreto di Stato nel nuovo codice di procedura penale, in Pol. dir., 1989, p. 273; F.M. GRIFANTINI, op. cit., p. 513; G. MUSIO, op. ult. cit., p. 180; G. PAOLOZZI, op. ult. cit., p. 216; ID., Opposizione ed apposizione del segreto di Stato, cit., p. 122; P. PISA, op. ult. cit., p. 240; M. PISANI, op. cit., p. 37; G.D. PISAPIA, Questioni di legittimità costituzionale. Questioni sul diritto di difesa in relazione alla tutela del segreto, cit., p. 168; ID., Prova penale e segreto politico-militare, cit., 422; G. SCANDONE, op. cit., p. 95; G. TRANFO, Illegittimità costituzionale degli artt. 342 e 352 c.p.p., in Giust. pen., 1972, I, p. 220. (27) A sostegno della tesi opposta, volta a riconoscere l’operatività in senso oggettivo del divieto probatorio, si veda G. RICCIO e G. DE STEFANO, La tutela processuale del segreto di Stato tra interventi giurisprudenziali e proposte di riforma, in Pol. dir., 1998, III, p. 390; nonché F.M. GRIFANTINI, op. cit., p. 513. (28) In tal senso si veda F. CORDERO, op. cit., p. 595; ID., Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, pp. 63 e 149; ID., Guida alla procedura penale, Torino, 1986, p. 339. Contra si veda per tutti G. AZZALI, op. cit., pp. 11 e 36. (29) Secondo il Cordero, « l’art. 191 non vieta niente: spiega cos’avverrebbe se risultasse violato qualche divieto d’acquisire la prova [...]. Né possiamo postulare che ogni obbligo negativo imposto da norme sostanziali evochi nella sfera processuale dei limiti taciti al potere istruttorio: va dimostrato [...] e, sugli attuali dati positivi, non appare dimostrabile. Anzi, consta l’opposto [...]. Forse i compilatori avevano in mente i fruits of the poisoned tree, e simili metafore spacciate con incongrui riferimenti alla Costituzione, ma i testi legali valgono nella misura delle cose dette: e l’art. 191 non dice niente sui frutti dell’albero avvelenato; escludendo prove male acquisite, perché qualche norma vietava d’acquisirle (erano dunque inammissibili), formula una tautologia [...]. Sarebbe diverso se l’art. 191, anziché usare il verbo tecnico acquisire, contemplasse le prove scoperte o raccolte grazie ad atti illeciti [...]. La selezione istruttoria dipende da norme processuali; le quali ammettono o escludono la prova indipendentemente dalla liceità dell’atto che l’ha scovata o costituita; resta da stabilire se rispondano ai modelli costituzionali. Sinora hanno resistito al vaglio » (F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 594 ss.). Sulle origini della contrapposizione tra illiceità ed inutilizzabilità della prova si veda F. CORDERO, Prove illecite, in Tre studi sulle prove penali, cit., p. 152; R. MAGGIORE, A proposito del segreto militare: appunti sui divieti probatori e l’inammissibilità nel processo penale, in Riv. pen., 1969, p. 479. (30) Attualmente è questo l’unico elemento che nel codice di rito distingue la disciplina processuale del segreto di Stato da quella del segreto professionale e d’ufficio. Secondo il disposto degli artt. 200 e 201 c.p.p., infatti, l’Autorità procedente, che abbia motivo di dubitare che la dichiarazione resa per esismersi dalla deposizione (o dalla esibizione) sia infondata, ha il potere di provvedere in via autonoma agli accertamenti necessari: qualora questi ultimi conducano ad esiti negativi sarà ordinata la deposizione (o disposto il sequestro).
— 333 — conferma, l’Autorità procedente ordina che il testimone deponga (ovvero dispone il sequestro dei documenti). Nel caso in cui, invece, il Presidente del Consiglio dei ministri confermi il segreto, il teste, come detto, non è coercibile, ma niente impedisce che deponga affrontando così i rischi penali a cui tale scelta sovversiva inevitabilmente lo espone. Terza ed ultima ipotesi: il testimone, dopo aver opposto il segreto, poi confermato dall’Esecutivo, permane nel divisamento di non deporre sui fatti de quibus. In tal caso — che è quello relativo al procedimento in esame — sfuma una possibile prova e dove quest’ultima risulti essenziale ai fini della decisione sull’alternativa condanna-proscioglimento anziché decidere secundum probata, la sentenza « dichiara non doversi procedere per l’esistenza di un segreto di Stato » (art. 202, comma 3, c.p.p.) (31). In tal caso, si applica l’art. 345, comma 2, c.p.p. e dunque nulla impedisce un bis in idem quando cada l’ostacolo posto dal segreto (32). Infatti, non occorre un apposito enunciato ricognitivo sulla deroga al ne bis in idem essendo sufficiente quanto disposto dallo stesso art. 345, comma 2, c.p.p. Nell’ipotesi in cui, invece, constino comunque fatti penalmente qualificabili, ma l’opposizione e la conferma del segreto escludano una prova relativa a possibili circostanze ovvero influente sul titolo del reato, il giudice applicherà comunque l’ipotesi legale adeguata al fatto. Ancora alcune precisazioni: come accennato in precedenza, non ogni fatto può essere segretato, in quanto la segretabilità incontra un limite invalicabile nella qualificazione dei fatti cui si riferisce come eversivi dell’ordine costituzionale (33). Peraltro, è stato giustamente osservato come, a fronte di un’opposizione di un segreto di Stato, il giudice potrebbe impedire l’incidente previsto dall’art. 202 c.p.p., revocando il provvedimento ammissivo della testimonianza, ritenendola evidentemente superflua (cfr. D. SIRACUSANO, Diritto processuale penale, Milano, 1994, I, p. 399). Il provvedimento di ammissione, infatti, precede sistematicamente e cronologicamente quello di acquisizione ed è fondato su delle prognosi circa la rilevanza della prova che ben possono rivelarsi fallaci a seguito degli sviluppi processuali. Appare invece in contrasto con una corretta lettura delle norme processuali la tesi che riconosce al giudice, a seguito di un’eccezione di segretezza, il potere di valutarne la fondatezza, dovendosi dar vita all’interpello solo quando la si ritenga infondata (cfr. V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 217). Una prognosi positiva dell’Autorità procedente, infatti, precluderebbe la possibilità di un’eventuale declassificazione da parte dell’Esecutivo e dunque condurrebbe ad un non doversi procedere per l’esistenza di un segreto di Stato anche quando sarebbe stata possibile una sentenza di condanna o di proscioglimento basata anche sugli atti declassificati. (31) Secondo il Cordero, « riappare l’antico non liquet: l’imputato non viene assolto; esce non giudicato perché [vengono meno] i presupposti di una decisione sul merito, come quando mancano la querela o analoghe condizioni » (F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 660). (32) A titolo esemplificativo, si pensi all’ipotesi in cui, reiterata l’interpellanza dal pubblico ministero indagante (a cui la persona chiamata a fornire sommarie informazioni abbia nuovamente opposto il segreto) o dal giudice per le indagini preliminari (investito di un incidente probatorio relativo a quel teste), il Presidente del Consiglio non risponda nei sessanta giorni dalla notificazione della richiesta. (33) Secondo quanto disposto dagli artt. 12 l. n. 801 del 1977 e 204, comma 1, c.p.p., infatti, non è possibile nascondere dietro lo schermo protettivo del segreto fatti, notizie e documenti riguardanti reati eversivi dell’ordinamento costituzionale, in quanto, in tali ipotesi, la diffusione delle notizie diventa la maggiore garanzia di sicurezza delle istituzioni democratiche normalmente protette dal segreto di Stato. Sull’ampiezza del divieto assoluto di segretazione come limite intrinseco del sistema e come condizione implicita di legittimità della tutela del segreto, si veda S. LABRIOLA, Le informazioni per la sicurezza dello Stato, Milano, 1978, p. 99; E. PENNACCHINI, Il segreto professionale dei giornalisti in relazione al segreto di Stato, in Segreti e prova penale, Atti del XII convegno « E. De Nicola », Milano, 1979, p. 224. L’esclusione di cui all’art. 204 c.p.p. vale anche per il segreto d’ufficio e per quello poliziesco, mentre non trova applicazione in materia di segreto professionale e giornalistico, che soggiacevano, però anch’essi a detto limite nella versione dell’art. 204 del progetto, poi riformulato nel testo definitivo per maggiore aderenza alla direttiva n. 70 della legge delega. In sostanza, « nessun tipo di segreto [avrebbe potuto] coprire fatti, notizie o documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale », cosicché « nel merito la manovra riduttiva appare ragionevole: [quella dettata dai deleganti] era una massima estremistica; a tale stregua, nemmeno difensori e consulenti sfuggirebbero all’obbligo testimoniale » (F. CORDERO, op. ult. cit., p. 663).
— 334 — Opposto il segreto, dunque, spetta al giudice che procede definire la natura del reato inquadrandolo o meno nella fenomenologia dell’eversione (art. 204, comma 1, c.p.p.) (34), e dando eventualmente al Presidente del Consiglio dei ministri comunicazione del rigetto dell’eccezione di segretezza (art. 204, ult. comma, c.p.p.) (35). Sin qui le previsioni dell’art. 204 c.p.p.; ma detta norma va letta unitamente al disposto dell’art. 66 att. c.p.p. il cui comma 2 ha introdotto anche in quest’ambito il meccanismo congegnato dall’art. 202, comma 2 e 3, c.p.p. Dunque il provvedimento negativo del giudice apre una nuova questione: spetta cioè al Presidente del Consiglio confermare il segreto se « il fatto, la notizia o il documento coperto da segreto di Stato non concerne il reato per cui si procede » (36). Tale formula è senz’altro ambigua essendole attribuibili due possibili significati: che la prova sia irrilevante; ovvero che l’ipotetico reato non mirasse all’eversione dell’ordinamento costituzionale. « Due risposte stravaganti: è affare giurisdizionale stabilire se una prova venga utile e quale nomen delicti convenga al fatto. Sotto questo specioso tour de mots l’art. 66, comma 2, [att.] dissimula una reimposizione del segreto in una materia su cui l’art. 204, comma 1 lo esclude: la pseudo-decisione negativa scade a interpellanza; e davanti alla conferma del segreto, nei sessanta giorni dalla notificazione, il giudice è disarmato » (37). Il c.d. procedimento di esclusione del segreto non si ferma qui: l’art. 66, comma 3, att. c.p.p., rinvia, infatti, a quanto disposto dall’art. 16 l. n. 801 del 1977. Dunque, qualora confermi il segreto, il Presidente del Consiglio « è tenuto a darne comunicazione, indicandone con sintetica motivazione le ragioni essenziali », al Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato (Co.Pa.S.I.S.) (38). Quest’organo, infine, ritenendo infondata, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, l’opposizione del segreto ne riferisce a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni politiche. Fatte tali precisazioni, poiché dalle considerazioni del Giudice delle leggi emerge che il segreto di Stato sia stato più volte ritualmente opposto e confermato, appare chiaro che il fulcro della questione vada rintracciato nella necessità di comprendere se ed in che modo i documenti oggetto del contendere fossero utilizzabili ed eventualmente se costituissero o meno una prova essenziale ai fini della richiesta di rinvio a giudizio (39). 4.
La decisione. — L’importanza delle considerazioni fin qui svolte emerge
(34) Nella fase precedente l’esercizio dell’azione penale il provvedimento spetta al giudice per le indagini preliminari su richiesta di parte (art. 204, comma 1, c.p.p.). (35) In tal caso, qualora la sentenza qualifichi poi diversamente il fatto di reato, escludendo che si tratti di uno dei casi relativi a disegni o atti eversivi dell’ordinamento costituzionale, la prova sui fatti de quibus non sarebbe più valutabile. (36) Qualora la conferma non arrivi entro sessanta giorni dalla notificazione, il giudice disporrà l’esame dei testi ovvero il sequestro dei documenti (art. 66, comma 2, att. c.p.p.). (37) In tal senso è orientato il Cordero secondo il quale « a questo punto, vale anche l’art. 202, comma 3, (o almeno sembra la conclusione meno irragionevole, date le premesse): quando dalla prova negata dipendono condanna o proscioglimento, la sentenza dichiara non doversi procedere, salvo un secondo processo qualora cada l’impedimento alla decisione sul merito » (F. CORDERO, op. ult. cit., p. 664). (38) Come noto, si tratta di un Comitato — costituito da quattro deputati ed altrettanti senatori nominati dai Presidenti dei due rami del Parlamento sulla base del criterio di proporzionalità — che ha quale funzione primaria quella di esercitare il controllo sulla corretta applicazione dei princìpi espressi dalla l. n. 801 del 1977, e che è stato chiamato a svolgere, sino all’istituzione di un apposito Garante, anche le funzioni di controllo sulla sezione nazionale del sistema di informazione Schengen (v. art. 9 l. 30 settembre 1993, n. 388; ed ora l. 31 dicembre 1996, n. 675). (39) Appare del tutto superflua un’indagine volta ad accertare la possibilità di considerare i documenti de quibus in qualche relazione con reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale: alla stregua delle imputazioni elevate, infatti, tale eventualità può essere senz’altro considerata priva di ogni fondamento.
— 335 — chiaramente da quanto asserito dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna nel proprio atto di costituzione in giudizio, depositato il 5 agosto 1998. La Procura emiliana, infatti, ha giustamente rilevato che l’improcedibilità dell’azione penale sussiste solo quando l’opposizione del segreto preclude la conoscenza di elementi essenziali per la decisione, e dunque — non sussistendo alcuna ipotesi di immunità sostanziale collegata all’attività dei servizi informativi — la stessa opposizione non è sufficiente ad impedire al pubblico ministero di indagare sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso e di esercitare, ove ne ricorrano i presupposti, l’azione penale. Ebbene, tali considerazioni appaiono senza dubbio immuni da qualsiasi censura, purché siano accompagnate da scelte conseguentemente coerenti e soprattutto rispettose dei doveri di lealtà e correttezza cui devono ispirarsi i rapporti tra i poteri dello Stato. Per la verità, suscita qualche perplessità il fatto che l’Autorità giudiziaria, dinanzi al segreto opposto e confermato, inoltri ad altri organi richieste di esibizione di documenti notoriamente segreti. Inoltre, è bene tener presente che se da un lato l’opposizione del segreto di Stato non ha effetti preclusivi assoluti, dall’altro ha sicuramente l’effetto di inibire all’Autorità procedente l’acquisizione e dunque l’utilizzabilità degli elementi coperti dal segreto. Rimane comunque da risolvere un problema fondamentale: quale sia l’effettiva portata del divieto in parola; si tratta, cioè, di stabilire se tale divieto riguardi la sola utilizzabilità in via diretta ovvero anche quella in via indiretta degli atti segreti. Secondo la Procura emiliana, infatti, posto che i documenti esibiti dalla Questura di Bologna fossero sicuramente inutilizzabili per fondarvi la richiesta di rinvio a giudizio, non sussisterebbe alcun divieto di utilizzo degli stessi documenti ai fini di ulteriori atti di indagine. È per questo che il procuratore di Bologna nella seconda richiesta formulata a norma dell’art. 416 c.p.p. ha provveduto ad eliminare tutte le documentazioni pervenute dalla locale Questura, facendovi figurare, invece, elementi probatori raccolti nel corso delle successive indagini, considerati « del tutto sufficienti a giustificare la richiesta stessa ed inoltre del tutto autonomi rispetto alle fonti di prova coperte dal segreto di Stato ». La Corte costituzionale, d’altra parte, precisato che « la Procura di Bologna ha nuovamente esercitato l’azione penale senza indicare differenti elementi indizianti, indipendenti dagli atti e documenti coperti da segreto già in suo possesso, e senza che essa si basi su altri ed autonomi atti di indagine, legittimamente diretti ad acquisire tali nuovi elementi », ha annullato la riformulata richiesta di rinvio a giudizio, rielaborando così il principio del vitiatur sed non vitiat sancito dall’art. 191 c.p.p. La Consulta, infatti, ha osservato che il divieto derivante dall’opposizione del segreto riguarda l’utilizzazione degli atti e documenti coperti dallo stesso sia in via diretta — per fondarvi cioè l’esercizio dell’azione penale —, sia in via indiretta — e dunque per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine —, in quanto le eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dalla illegittimità della loro origine (40). Peraltro, secondo la giurisprudenza di legittimità, il principio fissato dall’art. 185, comma 1, c.p.p., in base al quale la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo, non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente (40) 110, cit.).
La Consulta si era già espressa in tal senso lo scorso anno (Cfr. Corte cost. 10 aprile 1998, n.
— 336 — acquisite e non le altre ancorché collegate a quelle inutilizzabili, la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (41): le categorie della nullità e della inutilizzabilità, pur operando nell’area della patologia della prova, restano distinte ed autonome, in quanto correlate a diversi presupposti (42). Da tale orientamento giurisprudenziale, largamente condiviso anche in dottrina, emerge, dunque, l’impossibilità di enucleare dal sistema giuridico vigente un principio di inutilizzabilità indiretta della prova, cosicché la soluzione prospettata dai giudici costituzionali, almeno de visu, sembrerebbe contrastare con i princìpi dell’ordinamento. Tuttavia le conclusioni cui è pervenuta la Consulta devono comunque ritenersi valide, pur se sotto profili diversi da quello della c.d. inutilizzabilità indiretta. In primo luogo nella pronuncia in commento si legge che la Procura di Bologna era pienamente consapevole della segretezza dei documenti di cui ha ordinato l’esibizione, ragion per cui sarebbero stati violati, in tal modo, i doveri di lealtà e correttezza cui devono ispirarsi i rapporti tra i poteri dello Stato. In questo caso, dunque, si può, in un certo senso, parlare di una ricerca degli arcana che va oltre il limite di ragionevolezza imposto dalla ratio sostanziale di tutela del segreto di Stato. Inoltre, ed è questo il secondo rilievo, se è vero che la Procura di Bologna, nell’atto di costituzione in giudizio, non ha affatto contestato la rilevata inutilizzabilità degli atti de quibus che anzi sono stati espunti dall’elenco dei documenti sui quali è stata fondata la seconda richiesta di rinvio a giudizio, sicché si potrebbe pensare che nessuna regola probatoria sia stata formalmente violata, è pur vero che non possono essere omesse altre considerazioni di particolare rilievo. Ed infatti, dai fatti di causa emerge che l’acquisizione degli ulteriori elementi di prova su cui si è basata la richiesta di rinvio a giudizio non è avvenuta in modo autonomo rispetto alle prove illegittimamente acquisite, come prescritto dalla giurisprudenza della Suprema Corte e come, per converso, sostenuto dalla resistente Procura bolognese. Ciò detto, appare con evidenza che più che di una utilizzabilità indiretta, si possa qui parlare di una utilizzabilità diretta degli atti segretati, in quanto i medesimi sono usciti sì, ma solo formalmente dal panorama cognitivo degli inquirenti, (41) In senso conforme si veda Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 1994, n. 7759, in Cass. pen., 1995, p. 2627; Cass. pen., Sez. un., 16 maggio 1996, n. 5021, ivi, 1996, p. 3268; Cass. pen., Sez. II, 25 giugno 1996, n. 6360, ivi, 1998, p. 900; Cass. pen., Sez. VI, 4 settembre 1996, n. 2502, in Arch. nuo. proc. pen., 1996, p. 739; Cass. pen., Sez. II, 9 dicembre 1997, n. 6316, ivi, 1998, p. 471; Cass. pen., Sez. I, 21 gennaio 1998, n. 949, in Cass. pen., 1999, p. 629, ed in Arch. nuo. proc. pen., 1998, p. 471. Sembra, peraltro, far leva sul principio opposto a quello enunciato nelle citate decisioni, Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 1992, in Foro it., 1993, II, c. 85, con nota di A. FERRARO; Cass. pen., Sez. I, 19 ottobre 1993, in Mass. cass. pen., 1993. (42) Sulla differente operatività dell’inutilizzabilità rispetto alle nullità si veda Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 1992, in Giust. pen., 1993, III, p. 397; Cass. pen., Sez. I, 16 novembre 1993, ivi, 1995, III, p. 372; Cass. pen., Sez. I, 29 dicembre 1993, ivi, 1995, III, p. 76; Cass. pen., Sez. VI, 19 gennaio 1994, ivi, 1994, III, p. 372; Cas. pen., Sez. II, 27 aprile 1995, in Cass. pen., 1996, p. 1565, ed in Giust. pen., 1996, III, p. 312; Cass. pen. 10 agosto 1995, in Cass. pen., 1996, p. 2702, ed in Giust. pen., 1996, III, p. 541; Cass. pen., Sez. II, 11 settembre 1995, in Cass. pen., 1997, p. 2176, con nota di F. FALATO; Cass. pen., Sez. I, 19 marzo 1997, n. 2690, ivi, 1998, p. 2419, ed in Giust. pen., 1998, III, p. 62. Sullo stesso argomento in dottrina si veda G.G. DE GREGORIO, Alcune note intorno alla inutilizzabilità degli atti nel processo penale, in Cass. pen., 1992, p. 584; N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Milano, 1992; F. MENCARELLI, L’inutilizzabilità e l’acquisizione delle prove nel nuovo sistema processuale, in Giust. pen., 1989, III, p. 84; M. NOBILI, Commentario al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990, p. 408 ss.; G. PIERRO, Una nuova specie di invalidità: l’inutilizzabilità degli atti processuali penali, Milano, 1992; ID., L’inutilizzabilità, Milano, 1993; A. SCELLA, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in questa Rivista, 1992, p. 203.
— 337 — mentre nella sostanza hanno rappresentato la condicio sine qua non di ogni attività investigativa successiva. Infine, appare necessario un riferimento allo straordinario rilievo degli interessi in gioco che non sono certo gli stessi di un qualunque procedimento penale. Come precisato in precedenza, infatti, la tutela del segreto di Stato trova ancor oggi, anche e soprattutto in un assetto democratico costituzionalmente garantito, le proprie legittimazioni nella imprescindibile esigenza di proteggere la sicurezza interna ed esterna della Nazione da qualunque possibile minaccia. Se dunque l’espressione « il segreto di un delitto non può essere un segreto dello Stato » riscuote senz’altro una profonda adesione emotiva e può sembrare in linea con il quadro legalitario emergente dalla Carta costituzionale, tuttavia essa va letta alla luce dei parametri di bilanciamento degli interessi in gioco adottati nell’impostare l’analisi della problematica del segreto di Stato sul terreno della Costituzione (43). Ne consegue che se, da un lato, di fronte ai c.d. segreti costituzionalmente illegittimi, è necessario affermare la prevalenza delle esigenze di pubblicità su quelle di segretezza — disconoscendo così l’appartenenza di determinate categorie di segreti ad una corretta nozione di segreto di Stato emergente da un’attenta ricognizione complessiva dell’ordinamento italiano — dall’altro, in relazione ai c.d. segreti penalmente illegittimi, occorrono delle più caute considerazioni (44). Come sostenuto da autorevole dottrina, infatti, la mera necessità di perseguire degli illeciti penali, seppur di straordinario rilievo, non è sufficiente da sola a giustificare la diffusione di un segreto volto a garantire la sicurezza dello Stato (45). Dunque può senz’altro ammettersi un fondamento costituzionale dell’interesse al perseguimento dei reati, in particolare se commessi da pubblici funzionari, ma non appare corretto affermare in via pregiudiziale una prevalenza di detto interesse sulle ragioni di sicurezza esterna ed interna della Nazione, alla cui protezione è finalizzata la predisposizione dello strumento del segreto di Stato (46). CARLO BONZANO Borsista nella Scuola di Specializzazione in Diritto e Procedura Penale nell’Università degli Studi di Roma ‘‘La Sapienza’’
(43) Giansenio ricordava che « non sola sclerun indulgentia sed etiam importuna coercendi pervicacia salus rei publicae periclitari potest ». (44) È opportuno precisare che « ai profili illegittimi e non meritevoli di tutela possono intrecciarsi, nella multiforme realtà dei fatti, circostanze effettivamente costitutive di segreti di Stato degni di protezione; è chiaro che lo smascheramento di eventuali pseudo-segreti di Stato dovrà avvenire in maniera da non svelare i veri segreti di Stato, salvo che ciò sia reso assolutamente impossibile dalla stretta connessione dei segreti in questione » (P. PISA, op. ult. cit., p. 242). (45) In tal senso si veda P. PISA, op. ult. cit., p. 241. Contra M. BARBA, Segreto politico-militare e diritti di libertà, in Giust. pen., 1971, p. 105; ID., Spunti sulla discipina processuale dell’eccezione di segretezza (in tema di segreto di Stato), ivi, 1976, p. 125; A. DE MARSICO, La nozione di segreto nei delitti contro la personalità dello Stato, in Arch. pen., 1949, I, p. 223; S. LABRIOLA, op. ult. cit., p. 91; G.D. PISAPIA, Sulla validità dell’attuale disciplina legislativa del segreto di Stato, cit., p. 620; G. TRANFO, op. cit., p. 222. (46) Appare fuor di luogo ironizzare sui segreti, che si ritiene siano stati troppe volte invocati per insabbiare le indagini su fatti gravi di eversione dell’ordine democratico: senza entrare nel merito di un’accusa che purtroppo non appare destituita di ogni fondamento, è facile obiettare che non la disciplina del segreto di Stato, ma solo abusi hanno provocato ciò che si deplora.
b) Giudizi di cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. Un. — 28 ottobre 1998 Pres. La Torre — Est. Gemelli — P.M. (parz. diff.) Fiore Ric. Barbagallo e altri Dibattimento penale — Modifica dell’imputazione — Possibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione dopo l’apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale — Sussistenza (C.p.p., artt. 516, 517). Le nuove contestazioni ai sensi degli artt. 516 e 517 c.p.p. possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, cioè sulla base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (1). (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Nell’ordine logico merita priorità di esame la questione di diritto, oggetto della rimessione alle Sezioni Unite (e dei motivi di ricorso di Capodivento, Freddi, Lazzaro e Maiolo), e cioè se le modifiche ed integrazioni delle contestazioni, di cui si occupano gli artt. 516 (« Modifica della imputazione ») e 517 c.p.p. (« Reato concorrente e circostanze aggravanti »), possano o meno essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale e quindi sulla base di atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Secondo l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, di segno positivo (per tutte: Sez. III, 11 gennaio 1996, Castiglia), il pubblico ministero, potendo provvedere alle contestazioni c.d. suppletive nel corso dell’istruzione dibattimentale, a maggior ragione potrebbe esercitare tale potere prima che essa abbia inizio, non sacrificandosi in alcun modo il diritto di difesa dell’imputato (art. 24, comma 2, Cost.). Tanto è vero che a seguito della contestazione suppletiva l’imputato può chiedere ed ottenere un termine a difesa (art. 519). Tutt’al più la contestazione suppletiva, anteriore all’istruzione dibattimentale, potrebbe considerarsi « anomala » (alla luce del testo normativo degli artt. 516 e 517 che collocano detta contestazione « ... nel corso dell’istruzione dibattimentale... »), ma mai potrebbe configurare una nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 522 c.p.p. (Sez. III, 16 novembre 1993, Pederzini). E ciò anche quando il pubblico ministero provveda ad integrazioni significative dell’imputazione (Sez. II, 17 marzo 1993, Viciani), ed ancorché l’imputato fosse contumace o assente (art. 520 c.p.p.). In conclusione, secondo l’orientamento giurisprudenziale in esame, la contestazione effettuata nella fase iniziale del dibattimento, a seguito di nuova o diversa valutazione da parte del pubblico ministero dei dati acquisiti nelle indagini preliminari, rende più completo ed adeguato l’oggetto del rapporto processuale; senza con ciò violare il diritto di difesa dell’imputato (Sez. V, 17 maggio 1993, Maiorano; Sez. II, 26 settembre 1994, Nobile).
— 339 — L’orientamento giurisprudenziale di segno opposto si basa, invece, sul dato letterale delle norme in esame, cioè, come si è detto, sulla collocazione della contestazione suppletiva « nel corso dell’istruzione dibattimentale ». Ciò vorrebbe significare — secondo detta tesi — che la contestazione non possa aver luogo se non in forza di ulteriori elementi (ulteriori rispetto a quanto acquisito nella fase delle indagini preliminari) acquisiti cioè nel corso dell’istruzione dibattimentale stessa. La ragione di tale linea interpretativa starebbe nel rispetto del principio del contraddittorio tra le parti (su base paritaria) che caratterizza, appunto, il rito accusatorio. Altrimenti, — si dice ancora — si consentirebbe al pubblico ministero di eludere l’obbligo della « discovery », al momento dell’instaurazione del dibattimento. Cioè, da una parte, si andrebbe a sottrarre materiale investigativo alla conoscenza dell’imputato in sede di udienza preliminare e, dall’altra, riversando detti elementi nella fase dibattimentale, mediante la contestazione suppletiva, si verrebbe ad incidere sull’esercizio del diritto di difesa (Sez. III, 22 marzo 1996, Iaccarino). In conclusione, — secondo tale orientamento — è necessario che la contestazione suppletiva o la modifica dell’imputazione traggano esclusiva ragione dall’istruzione dibattimentale (Sez. III, 17 marzo 1998, Picchioni). 2. Le Sezioni Unite ritengono maggiormente corretto, sotto il profilo ermeneutico, l’orientamento giurisprudenziale che dà una soluzione positiva alla questione in esame. Come è stato già sottolineato dalle Sezioni Unite (sent. 29 ottobre 1997, Schillaci), « canone ermeneutico fondamentale è che, nell’applicare la legge, non si possa ad essa attribuire altro senso se non quello fatto palese: a) ‘‘dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse’’; b) ‘‘e dalla intenzione del legislatore’’ (art. 12 disp. prel.). Laddove la congiunzione ‘‘e’’ sta ad indicare che l’operazione ermeneutica coinvolge in modo concorrente e paritario entrambi i criteri sopra indicati ». Ora, proprio applicando detto canone ermeneutico, non è possibile, per le ragioni che si esporranno, riconoscere al dato letterale della locuzione, che compare in entrambi gli artt. 516 e 517 (« ... nel corso dell’istruzione dibattimentale... »), la portata di criterio guida nella interpretazione delle due norme. Va al riguardo rilevato che la direttiva n. 78, di cui all’art. 2 della legge delega per il vigente codice di rito (l. 16 febbraio 1987, n. 81), prevedendo appunto il potere del pubblico ministero di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione non pone specifici limiti temporali all’esercizio di detto potere nell’ambito di tale fase processuale, né consente di fare distinzioni quanto alla fonte degli elementi dai quali la contestazione « suppletiva » trae causa. E ciò è stato previsto dalla direttiva in esame, e poi introdotto nel codice di rito, perché la modifica dell’imputazione o la contestazione di una circostanza aggravante, come pure di un reato concorrente, non possono che considerarsi come eventualità fisiologiche in un sistema processuale che si ispira al rito accusatorio incentrato nel dibattimento, ma che non consente, come più volte ricordato dalla Corte costituzionale, dispersione degli elementi utili per un « giusto processo ». Ora, è vero che la tendenziale parità delle parti, cui si ispira la logica del sistema accusatorio — nell’esaltare il principio del contraddittorio — richiede che il
— 340 — pubblico ministero formuli l’imputazione in base agli elementi d’accusa già acquisiti nelle indagini preliminari (artt. 405-407 c.p.p.) e che, a sua volta, l’imputato, posto a conoscenza degli elementi di accusa, possa sin dall’inizio del dibattimento contrastarli efficacemente. Ma ciò non può comportare, come ineluttabile conseguenza, che, se il pubblico ministero, per inerzia o errore, abbia omesso in parte la contestazione di elementi di accusa già acquisiti, non possa provvedervi poi nel dibattimento, e sin dal suo inizio, apportando le necessarie modifiche all’imputazione. L’orientamento che si basa sul mero dato letterale delle norme in esame — contraddetto, come si è visto, dalla direttiva di delega, nei termini sopra esposti — sanzionando con la nullità ai sensi dell’art. 522 la sentenza emessa sulla base di detta contestazione suppletiva, comporterebbe, poi, l’assurdo risultato che il giudice — in presenza di una richiesta di modifica dell’imputazione — sarebbe tenuto a disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 521, comma 2, c.p.p., perché si proceda ad un nuovo dibattimento. Il che darebbe luogo a un formalismo esasperato ed ingiustificato in assenza di violazione del diritto di difesa dell’imputato. 3. Senza contare, infine, che l’orientamento condiviso da questo Collegio consente, mediante la contestazione suppletiva all’inizio del dibattimento e sulla base di elementi non considerati nella formulazione dell’originaria imputazione, di scongiurare, nell’ipotesi di reato concorrente, l’inizio di un nuovo dibattimento, con un allungamento dei tempi di definizione del processo; ed in caso di circostanza aggravante o di modifica dell’imputazione evita di precludere al pubblico ministero la possibilità di richiedere un accertamento completo del fatto-reato, in sede di giudizio. E ciò perché gli elementi modificativi od integrativi del fatto (quali le circostanze aggravanti) non potrebbero mai formare oggetto di autonomo giudizio penale. Mentre l’opposta tesi comporterebbe nella prima ipotesi, con l’instaurazione di un nuovo dibattimento, la violazione dei principi di immediatezza e di concentrazione del dibattimento (direttiva n. 66 dell’art. 2 della legge di delega), posti a base del « giusto processo » (per tutte: Corte Cost. 31 maggio 1996, n. 177). Nella seconda, si darebbe luogo ad una contrazione dell’ambito di esercizio dell’azione penale, con ciò contravvenendosi al disposto dell’art. 112 Cost. 4. E ciò, nonostante che la tesi interpretativa favorevole alla contestazione suppletiva nell’ipotesi in esame non comporti compromissione alcuna del diritto di difesa dell’imputato; tanto è vero che degli elementi a base di detta contestazione è comunque garantita la tempestiva conoscenza alla difesa, ai sensi degli artt. 430, comma 2, 431, 433, comma 2, 466 c.p.p. Ed ancora, proprio a garanzia del diritto di difesa, l’art. 519 c.p.p. dà facoltà all’imputato, nei cui confronti il pubblico ministero abbia proceduto a contestazione suppletiva (« salvo che la contestazione abbia per oggetto la recidiva »), di chiedere al giudice un termine per poter contrastare l’accusa perché in parte integrata o modificata. La norma in esame, peraltro, aggiunge che il tempo concesso dal giudice non può essere « inferiore al termine per comparire » previsto dall’art. 429 (art. 519, comma 2), cioè non inferiore a venti giorni, pari a quello stabilito per il decreto che dispone il giudizio e può essere addirittura superiore fino a giun-
— 341 — gere a quaranta giorni (art. 519, comma 2), durante i quali il dibattimento rimane sospeso. Le garanzie previste per l’imputato in caso di contestazione suppletiva sono state, poi, ampliate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Così, con sentenza n. 241 del 1992, è stata dichiarata illegittima l’ultima parte del comma 2 dell’art. 519 che limitava il diritto dell’imputato « a chiedere l’ammissione di nuove prove » solo quando risultasse « assolutamente necessario » (art. 507 c.p.p.), riconoscendo così, anche in siffatta ipotesi, al diritto di difesa quella pienezza prevista dall’art. 190 c.p.p. Ed ancora, viene riconosciuta all’imputato la facoltà di chiedere il c.d. patteggiamento anche con riguardo al reato concorrente contestato in dibattimento od al reato modificato ai sensi dell’art. 516 (sent. n. 265 del 1994: illegittimità degli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedevano la facoltà di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p., quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni). Né la contestazione suppletiva avvenuta in dibattimento impedisce all’imputato di fare richiesta di oblazione a norma degli artt. 162 e 162-bis c.p. in ordine al fatto-reato modificato o al reato concorrente (Corte Cost. sent. n. 530 del 1995). Con riguardo, poi, al rilievo critico, pur avanzato, che la contestazione ex artt. 516 e 517, per fatti già conoscibili da parte del pubblico ministero a chiusura delle indagini preliminari, sarebbe di ostacolo alla richiesta di giudizio abbreviato, la Corte costituzionale (sent. n. 265 del 1994) ha rimesso alla discrezionalità del legislatore di trovare un adeguato rimedio tecnico-processuale in generale, in tutte le ipotesi cioè di contestazione suppletiva; dal momento che l’art. 439 c.p.p. pone un preciso limite temporale, di carattere preclusivo, per esercitare tale facoltà. Ma, sul punto — per quanto concerne la soluzione della questione in esame —, non si comprende, neppure sotto il profilo logico, come si possa seriamente agitare tale rilievo, quando l’imputato, pur avendone la facoltà, non abbia optato per il rito abbreviato già prima della data fissata per il dibattimento con riguardo all’imputazione originaria ovvero « principale ». 5. Conclusivamente, se è fuori discussione che gli elementi nuovi emersi per la prima volta nell’istruzione dibattimentale debbano sollecitare il pubblico ministero a provvedere direttamente (vedi artt. 516 e 517, e non previa autorizzazione del presidente, come previsto dal comma 2 dell’art. 518 in caso di « fatto nuovo ») alla modifica od all’integrazione dell’imputazione originaria, oppure a nuove contestazioni, è azzardato sotto l’aspetto giuridico, ma soprattutto logico in considerazione della ratio normativa, escludere tale eventualità quando gli elementi siano già emersi prima dell’istruzione dibattimentale, ma siano stati « trascurati » nella contestazione originaria. E ciò tutte le volte che essi s’impongano all’attenzione del pubblico ministero nel dibattimento; specie considerando che tale ufficio nel dibattimento potrebbe essere rappresentato, come accade sovente, da magistrato diverso da quello che ha « formalizzato » inizialmente l’accusa. Pertanto, le Sezioni Unite ritengono di affermare che le contestazioni ai sensi
— 342 — degli artt. 516 e 517 possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, cioè sulla base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. (Omissis).
—————— (1)
Modalità cronologiche della contestazione suppletiva e diritto di difesa (*).
1. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza in esame risolvono un contrasto insorto tra decisioni delle sezioni singole sul problema se la contestazione suppletiva di un fatto diverso da quello descritto nel decreto di rinvio a giudizio (art. 516 c.p.p.) oppure la contestazione suppletiva di un reato connesso a’ sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p. o di una circostanza aggravante di cui non sussista menzione nel decreto di rinvio a giudizio (art. 517 c.p.p.), possano effettuarsi in sede dibattimentale soltanto nel corso dell’istruzione dibattimentale, dalla quale emerga la possibilità di siffatta contestazione, oppure possano anche essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento ma prima dell’inizio dell’istruzione dibattimentale sulla base, pertanto, degli atti acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Infatti, un orientamento giurisprudenziale (così, ad esempio, Cass., Sez. III, 11 gennaio 1996, Castiglia) ha ritenuto consentita la contestazione antecedente l’istruzione dibattimentale posto che non sarebbe ravvisabile, in conseguenza di tale contestazione suppletiva, alcuna violazione del diritto di difesa dal momento che l’imputato può chiedere ed ottenere un termine a difesa ex art. 519 c.p.p. Un altro orientamento giurisprudenziale di segno contrario ritiene, invece, vietata una contestazione suppletiva basata soltanto sugli atti di indagine preliminare, il che risulterebbe dalla lettera sia dell’art. 516 c.p.p. sia dell’art. 517 c.p.p., i quali richiedono entrambi che i fatti su cui si basa la contestazione suppletiva siano emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale. Inoltre, si osserva, se i fatti predetti erano già a conoscenza del pubblico ministero nelle indagini preliminari, ‘‘la relativa contestazione suppletiva in giudizio costituisce una violazione della par condicio delle parti, anche perché, tra l’altro, esclude la possibilità per l’imputato di chiedere il giudizio abbreviato’’ e tale violazione, si soggiunge, ‘‘è causa di nullità assoluta... costituendo un vizio concernente l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale’’ (così Cass., Sez. III, 17 marzo 1998, Picchioni). 2. Le Sezioni Unite optano per l’orientamento giurisprudenziale che dà una soluzione positiva al quesito sopra enunciato, vale a dire ritengono consentita la contestazione suppletiva in sede dibattimentale basata unicamente sugli elementi probatori acquisiti nelle indagini preliminari. Al riguardo, si sottolinea che il dato meramente letterale, vale a dire l’esplicito riferimento all’istruzione dibattimentale di cui agli artt. 516 e 517 c.p.p., non è risolutivo ove si tenga conto, altresì, dell’intenzione del legislatore posto che la direttiva n. 78 di cui all’art. 2 della legge delega per il codice di procedura penale, nel prevedere la contestazione suppletiva al dibattimento, non pone limiti temporali all’esercizio di tale potere nel corso della fase dibattimentale e non ‘‘consente di fare distinzioni quanto alla fonte degli (*)
La legge 16 dicembre 1999, n. 479 è entrata in vigore quando il lavoro era già in stampa.
— 343 — elementi dai quali la contestazione ‘suppletiva’ trae causa’’. Inoltre, non avrebbe senso porre tali limiti dal momento che la modifica della imputazione per la diversità del fatto o in conseguenza della possibilità di contestare un reato connesso nelle ipotesi delineate dall’art. 12, comma 1, lett. b) costituiscono ‘‘eventualità fisiologiche in un sistema processuale che si ispira al rito accusatorio incentrato nel dibattimento’’ ma nel quale non è consentita una dispersione degli elementi probatori. Del resto, sarebbe assurdo (ove per inerzia od errore il pubblico ministero effettui la contestazione prima dell’inizio dell’istruzione dibattimentale e basandosi sulle indagini preliminari) ritenere nulla la sentenza conseguente a tale contestazione suppletiva in quanto, secondo le Sezioni Unite, non sussisterebbe nessuna violazione del diritto di difesa ed in assenza di tale pregiudizio ravvisare una nullità della sentenza con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero appare del tutto ingiustificato nonché manifestazione di un formalismo esasperato. L’assenza di un qualunque pregiudizio dei diritti della difesa discenderebbe dalla costatazione che alla difesa è garantita la tempestiva conoscenza degli elementi su cui si basa la nuova contestazione, dal diritto ad un termine a difesa non inferiore a venti giorni (e che può giungere sino a quaranta giorni) durante i quali il dibattimento è sospeso ed, infine, dal diritto dell’imputato a chiedere l’ammissione di nuove prove senza alcuna limitazione (essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 241 del 1992 l’inciso dell’art. 519, comma 2, c.p.p. che limitava, nell’ipotesi di contestazione suppletiva, il diritto dell’imputato di richiedere l’ammissione di nuove prove alle situazioni di assoluta necessità). Né sarebbe ravvisabile, secondo le Sezioni Unite, una violazione del diritto di difesa in ordine alla scelta dei riti deflattivi del dibattimento, posto che è consentita all’imputato la richiesta del patteggiamento con riferimento al fatto diverso o al reato connesso ex art. 12, comma 1, lett. b) contestato in sede dibattimentale. Infatti, la Corte costituzionale con la sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato illegittimi gli artt. 516 e 517 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la facoltà di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., allorquando la nuova contestazione abbia per oggetto un fatto che già risultava dalle indagini preliminari al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione della pena per le imputazioni originarie. Per quanto concerne, infine, il rilievo che la contestazione basata su atti delle indagini preliminari rende impossibile la richiesta di giudizio abbreviato a cui l’imputato aveva diritto, le Sezioni Unite lo ritengono inconsistente osservando che la Corte costituzionale con la sentenza n. 265 del 1994, ha ‘‘rimesso alla discrezionalità del legislatore di trovare un adeguato rimedio tecnico processuale in generale, in tutte le ipotesi cioè di contestazione suppletiva’’ dal momento che l’art. 439 c.p.p. pone, per la richiesta di giudizio abbreviato, un preciso limite temporale di carattere preclusivo. 3. Le autorevoli argomentazioni delle Sezioni Unite non paiono del tutto persuasive e, soprattutto, non tengono conto di una serie di considerazioni da cui può dedursi l’erroneità della tesi accolta. In primo luogo, non convincono le osservazioni con cui le Sezioni Unite sviliscono il dato normativo, che limita la contestazione suppletiva in parola al sopraggiungere nel corso della istruzione dibattimentale di nuove prove. È pur vero che nel codice vigente, che è (o meglio doveva essere) di stampo accusatorio, la modifica dell’imputazione è una eventualità fisiologica posto che essendo, come regola, l’assunzione delle prove riservata al dibattimento è normale che la diversità del fatto imputato o la possibilità di contestare un nuovo reato emerga dall’assunzione
— 344 — delle prove effettuata in sede dibattimentale. Peraltro, è del tutto logico che il legislatore (come risulta dalla lettera della legge) abbia voluto limitare la contestazione suppletiva al fatto che la necessità di modifiche dell’imputazione emerga da risultanze probatorie dell’istruzione dibattimentale e non da elementi probatori già acquisiti nelle indagini preliminari. Infatti, le indagini preliminari vengono compiute ‘‘per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale’’ e, pertanto, a conclusione delle indagini preliminari, il pubblico ministero, se ritiene di poter formulare il giudizio prognostico previsto dall’art. 125 delle disposizioni di attuazione e, cioè, di avere elementi idonei a sostenere l’accusa in sede dibattimentale, ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. In caso contrario richiederà il decreto di archiviazione rendendo così possibile il controllo giurisdizionale sul mancato esercizio dell’azione penale. Sono considerazioni ovvie. Orbene, se dalle indagini preliminari emergono elementi probatori idonei a sostenere l’accusa in dibattimento per un reato di abuso in atti di ufficio nonché per un reato di concussione legati dalla medesimezza del disegno criminoso, non è certo fisiologico ma appare, anzi, gravemente patologico che il pubblico ministero eserciti l’azione penale mediante la richiesta di rinvio a giudizio soltanto per il reato di abuso in atti di ufficio e differisca l’esercizio dell’azione per il reato di concussione alla fase dibattimentale, effettuando la contestazione subito dopo l’apertura del dibattimento. In tal modo si realizza una palese violazione di legge in ordine alle modalità di esercizio dell’azione penale idonea ad integrare una nullità assoluta ex art. 178, lett. b), c.p.p. come giustamente rilevato da Cass., Sez. III, Picchioni, sopra citata. Non ci pare che le Sezioni Unite abbiano dato a questo proposito una risposta adeguata. In secondo luogo, non è esatto che la contestazione effettuata subito dopo l’apertura del dibattimento sulla base delle indagini preliminari non comporti alcun pregiudizio per la difesa. Le Sezioni Unite hanno inspiegabilmente dimenticato che in tal caso si vanifica, in ordine al fatto tardivamente contestato, quell’importante esercizio del diritto di difesa previsto dalla normativa che impone, prima dell’esercizio dell’azione penale, l’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio e si vanifica, altresì, quella che è la funzione fondamentale dell’udienza preliminare e, cioè, il controllo delle imputazioni azzardate, che pure costituisce una importante attuazione del diritto di difesa. Il pubblico ministero che, nell’ipotesi sopra formulata, di indagini preliminari, da cui emergano elementi probatori di responsabilità per un reato continuato di abuso in atti di ufficio e concussione, effettui la richiesta di rinvio a giudizio soltanto per l’abuso e faccia precedere tale richiesta da un invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio riferito unicamente all’addebito di abuso, rende impossibile (ove, poi, in sede dibattimentale contesti sulla base delle indagini preliminari la concussione) quell’attuazione del diritto di difesa, integrata dall’interrogatorio, mediante la quale si potrebbe dimostrare al pubblico ministero l’erroneità di un giudizio prognostico di responsabilità ex art. 125 disp. att. oppure convincere il pubblico ministero della necessità di effettuare altre indagini su fatti o circostanze a favore del destinatario dell’invito a comparire (indagini che potrebbero condurre anziché all’esercizio dell’azione penale ad una richiesta di archiviazione per quanto concerne l’addebito di concussione). In altre parole, l’invito a comparire imposto dall’art. 416, comma 1, c.p.p. prima della richiesta di rinvio a giudizio o dall’art. 555, comma 2, c.p.p. prima del decreto di citazione a giudizio è diretto, rendendo possibile l’interrogatorio, ad una attuazione del diritto di difesa la cui finalità è, appunto, quella di evitare l’esercizio dell’azione penale. L’azione penale esercitata in sede dibattimentale e fondata soltanto sulle indagini preliminari rende impossibile questa attuazione, il che basterebbe a dimostrare l’erroneità
— 345 — della tesi delle Sezioni Unite che sostengono l’assenza di un qualunque pregiudizio per la difesa. 4. V’è di più: com’è noto e come già sopra ricordato, la funzione principale dell’udienza preliminare è quella di realizzare un filtro delle imputazioni azzardate. Infatti, con l’udienza preliminare è stato introdotto un controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale in modo da evitare il dibattimento, mediante l’emanazione di una sentenza di non luogo a procedere a’ sensi dell’art. 425 c.p.p., ove si ritenga errato l’esercizio dell’azione penale e questa funzione di controllo viene compiuta con riferimento ai risultati delle indagini preliminari. A nostro avviso, la funzione di controllo in questione è particolarmente ampia. Infatti, la tesi in passato sostenuta dalla giurisprudenza, secondo cui l’art. 425 c.p.p. si applicherebbe, per le formule enunciate nella seconda parte del comma 1 dell’art. 425 c.p.p., soltanto quando vi sia la prova d’innocenza e non anche quando la prova sia mancante, insufficiente o contraddittoria, è inaccettabile. Abbiamo avuto occasione più volte di criticare questa tesi rilevando, tra l’altro, che se l’art. 425 c.p.p. venisse applicato solo in caso di prova d’innocenza si potrebbe tranquillamente concludere che l’udienza preliminare funziona da filtro delle imputazioni azzardate solo nel caso di un pubblico ministero inetto, vale a dire di un pubblico ministero che abbia ritenuto di poter sostenere l’accusa sulla base di elementi probatori idonei, invece, ad integrare la prova, ad esempio, della non sussistenza del fatto o della non commissione del fatto da parte dell’imputato e, cioè, idonei ad integrare la prova d’innocenza. Sono situazioni estremamente rare e statisticamente irrisorie: la vera imputazione azzardata, che si tende ad evitare, non può essere quella fondata su elementi probatori da cui emerge l’innocenza (questa più che azzardata appare una imputazione insipiente) bensì quella fondata su elementi mancanti, contraddittori o insufficienti. Tale tesi è basata su numerose argomentazioni che più volte abbiamo avuto occasione di enunciare. Qui ci limitiamo a ricordare che l’interpretazione dell’art. 425 c.p.p., secondo cui la sentenza di non luogo a procedere va pronunciata non solo nel caso di prova d’innocenza ma anche nel caso di prova mancante, insufficiente o contraddittoria, appare avallata dalla obbligatorietà dell’azione penale e, comunque, dalla finalità ricollegabile alle indagini preliminari. La Corte costituzionale ha più volte affermato che l’obbligatorietà dell’azione penale ‘‘concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale’’. Orbene, se questa impostazione è esatta e se, quindi, l’obbligatorietà dell’azione penale mira pure ad assicurare l’eguaglianza dei cittadini in ordine all’attuazione del principio di legalità, può fondatamente asserirsi che tale eguaglianza risulta lesa non soltanto quando, nonostante la fondatezza della notitia criminis, non venga esercitata l’azione penale ma anche quando, malgrado la palese infondatezza della notitia criminis, l’azione penale sia esperita facendo subire ingiustamente al cittadino tutte le conseguenze negative (si pensi, ad esempio, alla obbligatoria sospensione da determinati impieghi) derivanti dalla assunzione della qualifica di imputato. Se si ipotizzano due situazioni assolutamente identiche sotto il profilo della fondatezza della notitia criminis e se, in un caso, il pubblico ministero abbia chiesto l’archiviazione e, nell’altro, il decreto di rinvio a giudizio, delle due l’una: ove sia errata la richiesta di archiviazione l’errore può essere corretto imponendo la formulazione dell’imputazione mentre, ove sia errata la richiesta di rinvio a giudizio per carenza, insufficienza o contraddittorietà di elementi probatori, la possibilità di correggere l’errore, evitando il dibattimento, è insussistente se si ritenga applicabile l’art. 425, comma 1, seconda parte, c.p.p. unicamente nel caso di prova d’innocenza. Né questo può spiegarsi sulla base dell’ovvio rilievo che il legislatore,
— 346 — imponendo l’obbligatorietà, ha privilegiato l’esercizio dell’azione penale poiché l’eguaglianza correlata al principio di legalità impone un controllo sull’esercizio dell’azione penale palesemente pretestuoso. Infatti, la Corte costituzionale ha asserito che ‘‘limite implicito alla stessa obbligatorietà, razionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi oggettivamente superfluo’’. Siffatto limite risulta inequivocabilmente violato ove non sia consentito un controllo sull’esercizio dell’azione penale conseguente ad un mero sospetto (vale a dire se l’udienza preliminare non funziona come filtro delle imputazioni azzardate). L’uguaglianza in ordine all’attuazione del principio di legalità impone che venga evitata, mediante il controllo giurisdizionale, non solo la discriminazione conseguente all’errato mancato esperimento dell’azione penale ma, altresì, la discriminazione conseguente all’errato esercizio dell’azione penale. Questa tesi, che riconosce un’ampia operatività dell’art. 425, comma 1, c.p.p. è stata in gran parte avallata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 1996, la quale, al fine di valutare se il decreto di rinvio a giudizio, escludendo l’applicabilità dell’art. 425 c.p.p., comporti o no una valutazione di merito idonea ad impedire l’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza in sede di impugnative proposte nei confronti di provvedimenti de libertate, ha effettuato una esegesi dell’art. 425 c.p.p. Al riguardo, la Corte costituzionale ha asserito che l’art. 425 c.p.p. deve sempre trovare applicazione nel caso di mancanza di prova mentre nel caso di prova insufficiente o contraddittoria non sempre risulta giustificato il proscioglimento in questione. Infatti, per una esatta soluzione del problema si rende indispensabile tener presente che la sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. è sempre una sentenza di tipo processuale con cui si valuta la necessità o no di passare alla fase dibattimentale e, pertanto, allorquando la prova risulti insufficiente o contraddittoria, la sentenza di non luogo a procedere risulterà doverosa unicamente se il giudice ritenga che l’insufficienza non possa essere completata o la contraddittorietà superata dalla istruzione dibattimentale. In caso contrario, il giudice, nonostante la predetta insufficienza o contraddittorietà, dovrà rinviare a giudizio. In quest’ordine di idee è ormai anche la Corte di cassazione, la quale, di recente, ha asserito che ‘‘il principio della necessità di pronunziare sentenza di non luogo a procedere sia nel caso di prova della innocenza, sia nel caso di di mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova di colpevolezza, sempre che essa non appaia integrabile nella successiva fase del dibattimento, può ritenersi consolidato’’ (così Cass., Sez. I, 6 febbraio 1999, Gabriele e altro). I rilievi sopra enunciati, al fine di sostenere l’applicabilità dell’art. 425 c.p.p. pure nelle situazioni di prova mancante, insufficiente o contraddittoria, vogliono mettere in risalto l’importanza dell’attuazione del diritto di difesa ai fini del controllo giurisdizionale sull’erroneità o no dell’esercizio dell’azione penale. Infatti, mediante l’attività difensiva che si esercita nell’udienza preliminare, è sufficiente che l’imputato convinca il giudice dell’udienza preliminare che la prova è carente o anche soltanto insufficiente o contraddittoria e che tale lacuna non appare colmabile in fase dibattimentale perché il giudice dell’udienza preliminare, disattendendo la richiesta di rinvio a giudizio, pronunci sentenza di non luogo a procedere. Ne segue, per restare all’esempio sopra ripetutamente formulato, che se dalle indagini preliminari emergono elementi probatori di responsabilità di un abuso in atti di ufficio nonché di una concussione uniti dalla medesimezza del disegno criminoso ed il pubblico ministero richieda il rinvio a giudizio solo per l’abuso per poi contestare la concussione in sede dibattimentale, basandosi unicamente sugli atti delle indagini preliminari, si impedisce a causa dell’omissione dell’invito a comparire, non solo quell’esercizio del diritto di difesa diretto ad ottenere la ri-
— 347 — chiesta di archiviazione evitando l’esercizio dell’azione penale ma, altresì, quell’esercizio del diritto di difesa diretto ad ottenere la sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. evitando il decreto di rinvio a giudizio e, quindi, il dibattimento. L’affermazione delle Sezioni Unite, secondo cui la contestazione suppletiva in sede dibattimentale effettuata soltanto su atti di indagine preliminare ‘‘non comporta compromissione alcuna del diritto di difesa’’, non risponde al vero: i pregiudizi del diritto di difesa sussistono e sono gravi. 5. Le Sezioni Unite, per negare l’esistenza di un qualunque pregiudizio per il diritto di difesa dell’imputato negano, altresì, che l’impossibilità di richiedere il giudizio abbreviato concreti una lesione del diritto predetto rilevando, come già ricordato, che la Corte costituzionale ‘‘ha rimesso alla discrezionalità del legislatore di trovare un adeguato rimedio tecnico processuale in generale, in tutte le ipotesi cioè di contestazione suppletiva’’. La sentenza della Corte costituzionale n. 265 del 1994 citata dalle Sezioni Unite ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 24, comma 2 e 3, Cost. per l’impossibilità di richiedere un giudizio abbreviato nell’ipotesi di contestazione suppletiva fondata sulle indagini preliminari. Al riguardo, si osserva, che il giudizio abbreviato realizza ‘‘una vera e propria ‘procedura’ inconciliabile con quella dibattimentale’’ e ‘‘non potrebbe, quindi, ritenersi scelta costituzionalmente obbligata, allo stato dell’ordinamento processuale, un simile meccanismo di trasformazione del rito’’. L’impossibilità di una declaratoria di illegittimità costituzionale, a prescindere dal rilievo predetto, discende peraltro dal fatto che la trasformazione del rito ‘‘si pone in termini alternativi ad altre possibili opzioni, attinenti alla sfera della discrezionalità legislativa, come ad esempio quella di attribuire al giudice, all’esito del dibattimento, il compito di verificare l’esistenza dei presupposti’’ del giudizio abbreviato ‘‘al solo fine di applicare, nel caso di condanna, la riduzione della pena di un terzo’’, oppure quella di prevedere una preclusione ‘‘della nuova contestazione, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero relativamente ad essa’’. Ciò significa che la Corte costituzionale non ha escluso il vizio di legittimità costituzionale in relazione all’art. 24, comma 2, Cost. ma ha ritenuto che, nella situazione sottoposta al suo esame, non fosse consentito emanare una sentenza additiva. In altri termini, si è ritenuto di non poter accogliere l’eccezione proposta posto che la c.d. sentenza additiva, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, è consentita ‘‘soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad un’estensione logicamente necessitata e implicita nella possibilità del contesto normativo in cui è inserita la disposizione impugnata. Quando, invece, si profili una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni, l’intervento della Corte non è ammissibile, spettando la relativa scelta unicamente al legislatore’’ (cfr. Corte cost. n. 350 del 1985; 109 del 1986; n. 33, 37, 39 del 1986). L’impossibilità di emanare la sentenza additiva non permetterebbe, quindi, di superare il problema di legittimità costituzionale indubbiamente fondato. Ciò significa che la contestazione suppletiva in esame, rendendo impossibile la scelta del giudizio abbreviato, lede il diritto di difesa dal momento che, come la Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto nella sentenza n. 265 del 1994, la scelta del rito deflattivo del dibattimento costituisce una ‘‘modalità dell’esercizio del diritto di difesa’’. Orbene, come è noto, allorquando di una norma sono possibili due interpre-
— 348 — tazioni ed una di esse risulta viziata di legittimità costituzionale, l’interprete ha il dovere di dare alla norma il significato che la rende conforme ai principi costituzionali. In quest’ordine di idee, anche ad ammettere che sia consentita l’interpretazione che giustifichi la contestazione suppletiva basata sulle indagini preliminari (il che neghiamo per le ragioni sopra enunciate), bisognerebbe, sotto il profilo della scelta del giudizio abbreviato, negare l’ammissibilità della contestazione predetta per evitare il contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. GILBERTO LOZZI
CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 12 novembre 1996, n. 2827 (dep. 24 marzo 1997) Pres. Tranfo — Rel. Conti La Greca Reati contro la pubblica amministrazione - Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio - Enti pubblici economici - Membri della giunta esecutiva dell’ENI - Delibera avente un oggetto diverso da quelli attribuiti con la legge istitutiva - Formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione - Qualifica - Sussistenza (C.p., artt. 357 e 358). Corruzione - Momento consumativo del reato - Continuazione - Configurabilità Presupposti - Competenza territoriale (C.p., artt. 318; c.p.p., art. 16). La valutazione circa la sussistenza della qualifica pubblicistica in capo ai dirigenti di un ente pubblico economico va fatta in concreto, secondo un criterio oggettivo - funzionale a norma degli artt. 357-358 c.p. I dirigenti di tali enti pubblici, che concorrono ad emettere una deliberazione che incide sulla programmazione dell’attività dell’ente, sul conseguente assetto organizzativo e sulla destinazione in parte qua delle risorse finanziarie disponibili, sono pubblici ufficiali in quanto concorrono alla formazione della volontà dell’ente (1). Con riferimento al delitto di corruzione, quelli che di regola sono considerati come due momenti dell’unico reato, vale a dire l’accettazione della promessa e la successiva ricezione da parte del p.u. del denaro o di altra utilità, sono invece fattispecie autonome di pari gravità, dato che la sanzione prevista per entrambe è la medesima, legate dal vincolo della continuazione. Ciò comporta che ai fini dell’individuazione della competenza territoriale determinata dalla connessione di reati in continuazione, si deve far riferimento ai sensi dell’art. 16 c.p.p. al giudice competente per il primo reato, quello cioè che si è consumato con la conclusione dell’accordo (2). (Omissis). — La sentenza della Corte di appello di Milano viene contestata principalmente sulla base del rilievo che nella specie la delibera della Giunta esecutiva dell’ENI riguardava la costituzione con due soggetti privati di una società per azioni diretta a fornire ai dipendenti del Gruppo, liberi di aderire, contratti di assicurazione sulla vita e, in futuro, anche altri servizi assicurativi. Lo scopo non aveva quindi di per sé natura publicistica, né assumeva tale carattere in via accessoria, complementare o strumentale, come ritenuto dai giudici di merito. Si sottolinea inoltre che dal 1992 l’ENI è stata trasformata in società per azioni, assumendo natura giuridica privatistica, con la conseguenza che le persone preposte ai relativi organi non possono avere qualità di pubblici ufficiali. Anche in relazione a dette questioni si ritiene di dover confermare la decisione adottata dalla Corte di appello di Milano, ma sulla base di ragioni in parte diverse da quelle che sono state prospettate dai giudici di merito. Va ovviamente condivisa la premessa dalla quale muovono i ricorrenti e la stessa sentenza impugnata, con l’affermare ehe per ritenere la qualifica di pubblico ufficiale deve aversi riguardo alla natura dell’attività svolta (qualificazione oggettivo-funzionale e non soggettiva). In effetti, questo è un chiaro portato della
— 350 — riforma del 1990, che ha eliminato i riferimenti, prima esistenti negli artt. 357 e 358 c.p., alla qualità pubblica del soggetto agente. Deve solo aggiungersi che tale principio va applicato in modo costante, coerente e attentamente critico, anche in considerazione delle difficoltà derivanti dalla presenza di una casistica e di una relativa problematica che tendono a divenire via via più diversificate e frammentate. La realtà attuale si caratterizza infatti per un forte mutamento — in gran parte ancora in itinere — delle organizzazioni pubbliche, non solo nel senso che le stesse operano sempre più spesso mediante strumenti di diritto privato, ma anche nel senso che soggetti di diritto privato svolgono sempre più spesso funzioni pubbliche e altresì nel senso che i medesimi soggetti possono volta a volta svolgere attività di natura pubblicistica o di natura privatistica, così come esercitare pubbliche funzioni ovvero porre in atto un pubblico servizio. L’applicazione del principio oggettivo-funzionale comporta inoltre che un soggetto, il quale svolga normalmente una pubblica funzione, possa trovarsi ad operare in attività di pubblico servizio ovvero privatistica; analogamente un soggetto, il quale svolga normalmente un pubblico servizio, può trovarsi a svolgere una pubblica funzione.(Omissis). In realtà nell’occasione la Giunta deliberò sulla programmazione delle attività dell’ente, alle quali veniva aggiunto un ulteriore settore di intervento, sul conseguente assetto organizzativo, che veniva modificato con l’aggiunta di un nuovo soggetto societario, sulla destinazione in parte qua delle risorse finanziarie disponibili. Si trattava di decisioni che attenevano direttamente alla politica dell’ENI nel suo insieme e che si caratterizzavano quindi in modo prettamente pubblicistico (in senso analogo, con riguardo all’appartenenza al diritto pubblico di attività che esulano dalla gestione, riguardando invece la costituzione dell’ente — nella specie creditizio —, il funzionamento dei suoi organi statutari, l’esercizio dei poteri di organizzazione, l’amministrazione degli utili, v. Cass., SS.UU., 16 luglio 1987, Tuzet). Le osservazioni appena fatte agevolano la soluzione del problema relativo alla qualificazione dell’attività in relazione alla distinzione tra pubblica funzione e pubblico servizio. Due sono i presupposti in base ai quali, a norma dell’art. 357 c.p., comma 2, c.p., va riconosciuta la pubblica funzione. Anzitutto deve trattarsi di una attività amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi. Quanto alle norme di diritto pubblico può richiamarsi ciò che si è già osservato circa le fonti e i caratteri della normativa riguardante l’ENI. Circa il riferimento agli atti autoritativi, è sufficiente considerare che l’ente medesimo è soggetto alle direttive generali determinate da un Comitato composto dal Ministro per le finanze, dal Ministro per il tesoro e dal Ministro per il commercio, che lo presiede (art. 10 l. n. 136/1953), è soggetto ad approvazioni (v. l’art. 4, comma 2, in tema di partecipazioni azionarie) e ad autorizzazioni (v. in particolare proprio il caso dell’intervento in altri settori di attività: art. 1, comma 4). Il secondo presupposto appartiene alle tre ipotesi contemplate dalla norma richiamata e relative alla formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, nonché al suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi ovvero di poteri certificativi. Le tre ipotesi sono chiaramente disciplinate come autonome, di modo che il ricorrere anche di una sola di esse definisce l’attività svolta come funzione pubblica. Nella specie, detta attività si è espletata con l’adozione della
— 351 — delibera della Giunta esecutiva del 4 aprile 1992, con la quale si decise in ordine alla programmazione di attività dell’ente, al conseguente mutamento del suo assetto organizzativo e alla destinazione delle relative risorse finanziarie; essa deve quindi essere qualificata come pubblica funzione, in relazione alla ipotesi della formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione. (Omissis).
—————— (1-2)
La sentenza Eni - Sai: la Cassazione ritorna ad una concezione soggettiva della qualifica pubblicistica?
SOMMARIO: 1. Premessa — 2.1. Ambito di rilevanza penale della ‘‘pubblica funzione’’ e del ‘‘pubblico servizio": il criterio oggettivo - funzionale. - 2.2. (Segue): il criterio di disciplina. — 3. Critica alle conclusioni della sentenza in oggetto: si ritorna ad una individuazione soggettiva della qualifica di pubblico ufficiale. — 4. Privatizzazione degli enti pubblici. Vuoto di tutela. Conclusioni e auspici de jure condendo.
1. La sentenza che si annota (1) costituisce una delle significative pronunce della Corte di legittimità relative all’applicazione dei criteri, funzionale - oggettivo e di disciplina, che, alla luce dei novellati artt. 357-358 c.p., dovrebbero determinare l’attribuzione della qualifica pubblicistica ad un soggetto nell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione. Invero la scelta della Cassazione ha dovuto tenere conto delle particolari caratteristiche del caso in questione (2), intraprendendo una via quasi obbligata, senza riuscire, peraltro, a dissolvere i numerosi dubbi circa la sua correttezza giuridica. Con la delibera incriminata (quella del 9 aprile 1992), la giunta esecutiva dell’ENI autorizzava la partecipazione della Padana Assicurazioni S.p.A. — una sua controllata al 40% che da anni curava tutte le esigenze assicurative del gruppo — ad una iniziativa imprenditoriale da realizzare attraverso la costituenda PADANA VITA, con la SAI e la SALOMON bro.s i.l., e, pertanto, con partners privati, avente come oggetto sociale l’attività di assicurazione sulla vita dei dipendenti del gruppo ENI e dei loro familiari. Nell’accordo erano previste clausole, quali quella, ad esempio, del put & call, che avrebbero favorito i partners privati ai danni dell’ENI. La delibera in questione trovava l’appoggio di esponenti di spicco della D.C. e P.S.I., i quali, peraltro, avrebbero ricevuto versamenti di denaro in contropartita. Nel caso di specie si trattava di decidere se i membri della giunta esecutiva dell’ENI che adottarono quella delibera rivestissero o meno — in quel momento — la qualifica di pubblico ufficiale, così come ritenuto dai giudici di merito. Il problema rivestiva fondamentale rilievo, poiché negare tale qualifica (e, eventualmente, anche quella di incaricato di pubblico servizio) avrebbe escluso la configu(1) In Guida al diritto - Sole-24 Ore, n. 20/1997 pag. 59 ss. con commento di PATALANO, Il dirigente statale privatizzato può conservare la qualità di pubblico ufficiale; in Cass. pen., 1998, pag. 84 ss., con nota di G. MARRA, Corruzione: norma a più fattispecie o disposizione di legge a più norme?; ivi, 1998, pag. 1994 ss. con nota di R. RAMPIONI, Nuovi virtuosismi interpretativi in tema di condotta costitutiva e momento consumativo del delitto di corruzione: l’art. 319 c.p. quale disposizione a più norme!. (2) Nella situazione de qua, infatti, la Corte di legittimità doveva decidere in merito ad un caso politicamente pregnante, trattandosi di uno dei primi — e dei più scottanti — casi di ‘‘tangentopoli’’ giunti al vaglio della Suprema Corte. Una decisione diversa da quella adottata avrebbe avuto un impatto politico esplosivo.
— 352 — rabilità del delitto di corruzione, sussistente, invece, secondo i giudici di primo e di secondo grado. Nella sentenza in esame i membri della giunta esecutiva dell’ENI che adottarono quella delibera sono stati considerati pubblici ufficiali (3). Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello di Milano (4), la Cassazione riconosce tuttavia che lo scopo dell’accordo tra le società non aveva di per sé natura pubblicistica, né assumeva tale carattere in via accessoria, complementare o strumentale, aveva cioè chiaramente natura privatistica. Ed ancora correttamente osserva che per ritenere la qualifica di pubblico ufficiale deve aversi riguardo alla natura dell’attività svolta (qualificazione oggettivo - funzionale e non soggettiva). Tale principio comporta che tanto un soggetto pubblico come uno privato possa svolgere una attività privatistica, una pubblica funzione o un pubblico servizio. Ne consegue ulteriormente che non ha rilevanza la trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni ai fini della determinazione della qualifica pubblicistica, poiché deve aversi riguardo soltanto alla natura dell’attività in concreto svolta (5). La Corte prosegue, poi, considerando che l’ENI rest(a) tuttora disciplinato da una normativa di carattere pubblico ed appart(iene) funzionalmente all’amministrazione pubblica in senso lato, svolgendo nel suo insieme un servizio pubblico. Questo tuttavia non esclude che l’ENI possa svolgere attività prettamente privatistiche, e che — anzi — anche le attività propriamente oggetto del servizio pubblico siano svolte attraverso strumenti di diritto comune. Ma — rileva ancora la S.C. — il soggetto che svolge un servizio pubblico può comunque esercitare attività che rivesta i caratteri della pubblica funzione, con ciò preannunciando le fatali conclusioni cui perviene. (3) Le considerazioni che esamineremo sono risultate assorbenti anche rispetto ad un’eventuale qualificazione in termini di pubblico servizio. (4) Corte di Appello di Milano sentenza 1 febbraio 1996 (dep. 15 marzo 1996), pagg. 31 ss.: ‘‘.... è vero che l’ENI ha concretato una politica di diretto intervento dello Stato nelle attività imprenditoriali ritenute fondamentali per lo sviluppo economico del Paese, ma ciò non significa — come assunto dalle difese degli imputati — che i managers della giunta esecutiva dell’ENI sarebbero P.U. solo laddove assumessero deliberazioni nei settori definiti fondamentali dalla legge istitutiva, e cioè i settori degli idrocarburi, dei vapori naturali, della chimica e dei combustibili nucleari. Perché le finalità pubbliche — sia pure con carattere di accessorietà — rimangono nelle iniziative non direttamente riconducibili al settore ‘‘fondamentale’’, come quelle concernenti l’ingresso nel settore delle assicurazioni quando lo stesso risponda ad esigenze estrinseche ad un determinante fine di profitto imprenditoriale e si armonizzi — per complementarità od accessorietà — al settore fondamentale, a norma del 3o comma dell’art. 1 della l. 136/53. Ed all’uopo è importantissimo — e decisivo — ricordare che la joint venture riguardava il particolarissimo mercato interno dei dipendenti dell’ENI. Ed aveva l’evidente finalità di dare una sicurezza previdenziale ed assicurativa più favorevole allo status impiegatizio dei dipendenti, in tal modo incidendo sulla produttività e sul legame affettivo dei singoli soggetti verso l’Ente. Questa finalità pubblica che caratterizza l’intervento de quo nel settore assicurativo siccome collegato a quelli fondamentali enfatizza e dà significato pratico e concreto alla sostanziale funzione di ‘‘verifica’’ in senso lato da attribuirsi alla autorizzazione del Ministero delle partecipazioni statali, al controllo della commissione parlamentare bicamerale ed al controllo della Corte dei Conti, la quale partecipa con un suo magistrato alle riunioni di Giunta’’. (5) Alcuni dei ricorrenti avevano, infatti, sollevato la questione che la privatizzazione degli enti pubblici economici, avvenuta con il d.l. 11 luglio 1992 n. 333, conv. dalla l. 8 agosto 1992, n. 395, avrebbe mutato la qualifica dei soggetti che agiscono per l’ente, e, alla luce dei principi che regolano la successione della legge penale nel tempo, ed in particolare del principio del favor rei: questo mutamento avrebbe dovuto interessare anche i fatti oggetto del processo (retroattività della legge più favorevole). Tali osservazioni non colgono nel segno e dimostrano al contrario di fraintendere il significato dell’art. 357 c.p. così come modificato dalla riforma del 1990. Un simile ragionamento, infatti, potrebbe avere senso nell’ambito di una determinazione soggettivistica della qualifica pubblicistica, ma perde completamente significato allorché l’attribuzione della qualifica pubblicistica derivi dalla natura in concreto svolta dal soggetto. V. sul punto per tutte Cass. Sez. VI pen., 28 settembre 1995, CALICIURI ed altri, in Diritto pen. e proc., 1996, pag. 192, e in Cass. pen., 1996, p. 1465.
— 353 — È la stessa Corte, quindi, a riconoscere in premessa che si versava nel campo di attività funzionalmente privatistica e disciplinata da norme di diritto privato, ma fa derivare la natura pubblicistica della delibera incriminata, e quindi dei suoi autori, dalla natura pubblicistica dell’Ente ENI e di coloro che ne formano e manifestano la volontà; con ciò, in realtà, capovolgendo l’impostazione iniziale. La Corte ha, infatti, ritenuto che l’ENI abbia utilizzato denaro pubblico per un attività neppure indirettamente compresa nell’ambito delineato dalla legge istitutiva, e abbia così operato al di là del disposto delle norme di legge relative alle attribuzioni dell’ente; con ciò incidendo sull’assetto organizzativo dell’ente ENI e, quindi, in buona sostanza, contribuendo a ‘‘formare e manifestare la volontà della p.a.’’. 2. La prima e centrale questione che si pone all’interprete è stabilire se il parametro che costituisce oggetto della qualifica pubblicistica ai sensi degli artt. 357 — 358 c.p. — così come novellati dalla l. 86/90 — sia la singola mansione (nel caso di specie la delibera incriminata), oppure l’attività complessiva dell’ente in quanto tale (6). Il legislatore del ’90, nel selezionare in maniera autonoma rispetto ad altre discipline le definizioni suddette e, quindi, le condotte penalmente rilevanti, ha inteso limitare l’ambito di applicazione delle stesse con la locuzione ‘‘agli effetti della legge penale": solo a quegli effetti è pubblica la funzione ‘‘disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autorizzativi o certificativi’’ (7). I criteri distintivi della funzione e del servizio pubblico (con particolare riferimento all’attività amministrativa), introdotti con la legge n. 86/1990, ma già in parte elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza (8), sono, quindi, individuati nel criterio ‘‘di disciplina’’ ed in quello ‘‘oggettivo - funzionale’’ (9): perché si con(6) È chiaro che, ove si scelga questa seconda impostazione, si rischia di tornare a dare rilevanza ad un criterio puramente soggettivo di attribuzione della qualifica pubblicistica, con ciò ponendosi in aperto contrasto con la volontà espressa dal legislatore del ’90. (7) Non si pongono particolari problemi interpretativi per la definizione di funzione legislativa e giudiziaria (la seconda soprattutto in seguito all’intervento attuato con l’art. 4 della l. 7 febbraio 1992, n. 181 con cui si è sostituito la precedente più ambigua nozione di ‘‘giurisdizionale’’, v. SEVERINO DI BENEDETTO, Commento alla l. 7 febbraio 1992, n. 181, cit., passim.), mentre certamente si porranno — come è successo in passato — per la ‘‘funzione amministrativa’’. (8) Precedentemente alla riforma, gli art. 357 e 358 c.p. esaurivano la loro funzione definitoria nella tautologica affermazione che doveva considerarsi pubblico ufficiale chi esercitava una pubblica funzione e incaricato di pubblico servizio chi svolgeva un pubblico servizio. Il settore particolarmente interessato dai dibattiti dottrinali e dalle pronunce giurisprudenziali è stato quello degli operatori bancari. Analoghi problemi interpretativi si sono posti con riguardo agli enti a partecipazione pubblica, come la RAI e l’Ente Ferrovie dello Stato. Per un esauriente ricostruzione storica degli orientamenti giurisprudenziali v. PISA, Giurisprudenza Commentata di diritto penale, Vol. II, Padova: CEDAM, 1997, pagg. 5 ss. In dottrina v. in particolare l’importante contributo di SEVERINO DI BENEDETTO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione: soggetti, qualifiche, funzioni, in La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di A.M. STILE, Napoli: Jovene, 1987, pagg. 31 ss., nel quale si proponeva una riformulazione degli articoli 357-358, recepita quasi pedissequamente dal legislatore del 1990. (9) Sulla riforma di tali articoli v. in dottrina BETTIOL R., Note a margine della legge di modifica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, pag. 617 ss.; CORRADINO M., Il parametro di delimitazione esterna delle qualifiche pubblicistiche: la nozione di diritto pubblico, in questa Rivista, 1992, pagg. 1316 ss.; FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale, parte speciale, vol. I, Bologna: Zanichelli, 1988, appendice 1990, pagg. 1 ss.; FIORELLA A., Ufficiale pubblico, incaricato di pubblico servizio o di un servizio di pubblica necessità, in Enc. Dir., Milano: Giuffrè, 1992, pag. 563 ss.; GROSSO C.F., Nozione di pubblico ufficiale, di incaricato di un pubblico servizio e di persona esercente un servizio di pubblica necessità, in Comm. al cod. pen., a cura di BRICOLA, ZAGREBELSKI, Torino: UTET, 1996; ID., Riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione: brevi annotazioni a margine del testo approvato dalla Camera dei Deputati, in questa Rivista, 1990, pagg. 700 ss.; MAZZA L., Delitti contro la pubblica amministrazione: prospettive di ulteriore riforma, in Riv. trim.
— 354 — figuri una pubblica funzione o un pubblico servizio si deve vertere in un campo regolato da norme di diritto pubblico, avuto riguardo all’attività in concreto svolta. Non può più darsi valore al criterio cd. soggettivo che qualifica il soggetto ‘‘pubblico’’ solo in base ad un rapporto di dipendenza dallo Stato o comunque da un ente pubblico (10). Non riveste più alcuna rilevanza la natura (pubblica o meno) del soggetto agente (11); i concetti di funzione o di servizio pubblico, infatti, non coprono necessariamente l’intero campo di attività del soggetto: ben potrà un soggetto pubblico svolgere un’attività privatistica e, viceversa, un soggetto privato svolgerne una tipicamente pubblicistica o essere incaricato di un pubblico servizio (12). Con la positivizzazione della cd. ‘‘concezione oggettivo - funzionale’’, la riformulazione delle norme tetiche di cui agli artt. 357 e 358 c.p. (13), nel perseguire il fine di una maggiore determinatezza, attribuisce rilevanza decisiva ai dir. pen. ec., 1992, pagg. 693 ss.; PAGLIARO A., Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in Principi di diritto penale, VI ediz., Milano: Giuffré, 1994 e VII ediz., 1995, pagg. 1 ss. ; ID., Brevi note sulla riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Ind. pen., 1989, pagg. 27 ss.; PALAZZO F., La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione: un primo sguardo di insieme, in questa Rivista, 1990, pag. 815 ss.; PETRONE M., La nuova disciplina degli agenti pubblici contro la P.A.: dalle prospettive di riforma alla l. n. 86/1990, in questa Rivista, 1993, pag. 917 - 950; PICOTTI L., Le ‘‘nuove’’ definizioni penali di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio nel sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1992, pagg. 263 ss.; RAMACCI F., Norme interpretative e definizioni: la nozione di ‘‘pubblico ufficiale’’, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di COPPI F., Torino: Giappichelli, 1993, pagg. 327 ss.; SEGRETO A.-DE LUCA G., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano: Giuffré, 1995, pp. 5 ss.; SEVERINO DI BENEDETTO P., Commento agli artt. 17 e 18 della l. 24 aprile 1990 n. 86, in Leg. pen., 1990, pag. 334 ss.; ID., Commento alla l. 7 febbraio 1992, n. 181, in Leg. pen., 1992, pag. 445 ss.; ID., Pubblica Amministrazione (delitti contro la), in Enc. Giur. Treccani; ID., Le nuove definizioni delle figure di pubblico ufficiale ed incaricato di un pubblico servizio nel testo riformato degli artt. 357 358 c.p., in Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di F. COPPI, Torino: Giappichelli, 1993, pagg. 338 ss.; ID., Commento sub artt. 357 - 358 c.p., in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, coord. da T. PADOVANI, Torino: UTET, 1996 p. 448 ss.; ROMANO M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione: i delitti dei privati, le qualifiche soggettive. Commentario sistematico, Milano: Giuffré, 1999; SINISCALCO M., La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali : profili critici, in Leg. pen., 1990, pag. 263 ss.; STORTONI L., La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione: profili generali e spunti problematici, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1990 pag. 707 ss. (10) Ispirata, invece, al criterio ‘‘soggettivo’’ e, quindi, totalmente in contrasto con lo spirito della riforma del ’90 è la sentenza della VI sezione penale della Corte di Cassazione, del 1 dicembre 1997, in Dir. pen. e Proc., n. 12/1998, pag. 1532, con nota di G. VICICONTE, che riconosce la qualifica di pubblico ufficiale al segretario dell’Ente Fiera Vini di Marsala ‘‘in considerazione della natura pubblica dell’ente desumibile dalla sussistenza di una serie di indicatori rappresentati: a) dalla costituzione avvenuta con deliberazione della giunta comunale, ratificata dal consiglio comunale; b) dalla nomina degli organi e dall’approvazione dei bilanci da parte del consiglio comunale; c) dal controllo contabile soggetto a revisori dei conti legati al comune, d) dalla previsione della sottoposizione dell’ente a gestione commissariale a seguito di deliberazione comunale; e) dal parziale finanziamento dell’ente da parte dello Stato, della Provincia e della Regione’’. In questo caso si torna a determinare la qualifica del soggetto agente, addirittura in virtù della natura pubblica dell’ente di appartenenza, riconosciuta a sua volta in funzione di indici sintomatici di pubblicità. (11) Rileva SEVERINO DI BENEDETTO, Le nuove definizioni, cit., pag. 345, che ciò non significa che la natura del soggetto non rivesta più alcuna rilevanza perché è chiaro che nel momento in cui lo Stato o un altro ente pubblico assume direttamente un’attività, l’adozione di un regime di disciplina di tipo pubblicistico rappresenta una scelta a monte necessaria. Tuttavia appare necessario — continua — sottolineare che, pur in presenza di alcune ipotesi di diversificazione tra attività che lo Stato riserva a se stesso e attività delegate al privato, è pur sempre, in ultima analisi, alla disciplina di tali attività che occorre prestare attenzione e fare fondamentale riferimento, onde pervenire ad una corretta qualificazione, ai fini penali, della funzione svolta. (12) Emblematico è il caso del professore universitario che riveste la qualifica di pubblico ufficiale in sede di sessione d’esame, di incaricato di pubblico servizio allorché tiene lezione, mentre è soggetto privato relativamente all’attività di ricerca. Sull’indipendenza della qualifica pubblicistica dallo stato giuridico dell’agente v. Cass. sez. VI pen., sent. n. 896 del 23.1.1998, in C.E.D. Cass. n. 210435. Cfr. ROMANO, op. cit., pag. 257. (13) Sulla natura definitoria di tali norme v. in particolare RAMACCI F., op. cit., pag. 327, che ritiene che il nuovo art. 357, come il vecchio, del resto, proponga una norma di interpretazione autentica, introdotta con lo specifico scopo di eliminare divergenze di interpretazione già in atto o che presumibilmente emergeranno in futuro e di assicurare al legislatore la fedeltà dell’interprete. PICOTTI, op. cit., pag. 284,
— 355 — caratteri dell’attività oggettivamente espletata dal soggetto per determinare se questi sia pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, escludendo ogni rilevanza dei criteri extrafunzionali (14). ‘‘La concezione oggettiva correttamente intesa conduce a concentrare l’attenzione sulla natura della mansione svolta, singolarmente considerata’’ (15). Ciò significa che è la funzione in concreto esercitata che deve riferirsi ad un momento tipicamente espressivo, appunto, della volontà (pubblicistica) della p.a., ed è dunque tale l’attività — disciplinata da norme di diritto pubblico o da atti autoritativi — che presenti in concreto caratteri pubblicistici, in quanto riferibile allo Stato o ad altro ente pubblico (16). Perché si possa affermare che i soggetti agenti stiano formando e manifestando la volontà dell’ente, essi devono esprimere nella compienda attività la ‘‘quintessenza della pubblicità’’; e che è ‘‘di regola anche quella di una precisa espressione di supremazia o, se si preferisce, di autorità’’ (17). È chiaro, infatti, che lo Stato o un Ente pubblico possono esprimere interessi prettamente privatistici, venendo a formare la volontà ‘‘imprenditoriale’’ della p.a.. Ed è altresì evidente come anche in questo campo si servono dei medesimi strumenti utilizzati per formare e manifestare la volontà ‘‘pubblica’’ della p.a.: in linea di massima un ente parla per delibere. Bisogna, quindi, accertare quale volontà si stia formando nella singola delibera. Non può farsi riferimento alla natura dell’ente nel suo insieme considerato e farne derivare natura pubblicistica per ogni delibera che promani dallo stesso (18). È necessario invece restringere il campo di indagine alla specifica mansione che viene in considerazione, isolandola dall’attività complessiva dell’ente da cui promana: e verificare se essa sia ‘‘genuinamente riferibile’’ allo Stato o ad altro ente pubblico (19). sottolinea la funzione tipizzante degli artt. 357 e 358 nel sistema penale, in quanto elementi essenziali comuni — e, quindi, solo per scelta di tecnica legislativa sinteticamente definiti unitariamente, nei loro caratteri essenziali — della maggior parte, ma non di tutti, i delitti previsti a tutela, sia attiva che passiva, della pubblica amministrazione. (14) Corretta applicazione di tali criteri si può ritrovare in diverse pronunce dei giudici penali, di legittimità ma soprattutto di merito: v. Corte di Appello di Roma, sez. II, 30 ottobre 1992, confermata da Cass, sez. VI, 2 novembre 1993 n. 1668, che con riferimento ad un unico ente (l’Ente Ferrovie dello Stato) ha giustamente individuato natura diversa in due delibere poste in essere dallo stesso C.d.A., ora riconoscendo l’esercizio di un potere di autoregolamentazione, ossia un provvedimento amministrativo, ora l’esercizio di un attività imprenditoriale, con la conseguenza di individuare solo nella prima e non anche nella seconda il delitto di abuso d’ufficio. Il caso resta un efficace esempio sia del criterio oggettivo - funzionale, sia del criterio di disciplina. (15) FIORELLA, op. cit., pag. 566. (16) La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al presidente di una Cassa Edile di Mutualità ‘‘in quanto, a prescindere dalla natura privatistica e dalla mancanza di un atto normativo o amministrativo di attribuzione del pubblico servizio, ciò che rileva è che in base alla normativa esistente, anche di rango inferiore, le Casse Edili sono enti di fatto, dotati di autonomia, che hanno come scopo primario l’accantonamento di percentuali delle retribuzioni dei lavoratori dell’edilizia in vista dell’erogazione successiva ai lavoratori alle naturali scadenze quali trattamento economico per ferie, gratifiche e festività e cioè destinati a svolgere un’attività di tipo previdenziale, in genere assunta dallo stato o da enti pubblici come propria riconducibile alla categoria del pubblico servizio’’ (Cass. sez. V pen. sent. n. 4666 del 9.2.1998 in C.E.D. Cass. n. 210232). Nonostante i dubbi che può suscitare questa sentenza, in quanto sembra riproporre problematiche ormai superate che sotto la vecchia disciplina interessavano le qualifiche degli operatori bancari, tuttavia essa ha il merito di sottolineare la rilevanza dell’attività in concreto svolta, prescindendo dalla qualifica del soggetto agente in sé considerato. V. in argomento Cass., sez. VI pen., 15.12.1997, in Dir. pen. e proc., n. 12/1998, con nota di G. VICICONTE. (17) Così FIORELLA, op. cit., pag. 573. (18) FIORELLA, op. cit., 566, rileva che ‘‘la natura (della singola mansione), in altri termini, non discende automaticamente dalla natura dell’attività dell’ente vista nel suo complesso, nel senso che questa medesima attività, ancorché pubblicistica, non può comportare per ciò solo la medesima natura per ogni attività comunque svolta per conto dell’ente pubblico, nel quadro delle sue competenze istituzionali’’. (19) Sempre FIORELLA, op. cit., pag. 571, rileva come possa dirsi pubblica solo la mansione e il rela-
— 356 — L’esistenza di un rapporto concessorio in capo ad un ente, infatti, non è di per sé sufficiente per desumere tout court la natura pubblica della complessiva attività svolta nell’ambito dello stesso rapporto, essendo necessario determinare la natura delle singole attività. (Risulta, invece, essenziale che la singola delibera sia riferibile allo Stato o comunque alla p.a. (20)). In particolare, è necessario verificare se la delibera rappresenti la concretizzazione della volontà pubblicistica della p.a. o se, al contrario, esprima sempre la volontà della p.a., ma la volontà ‘‘imprenditoriale’’ della stessa. Deve osservarsi come la giurisprudenza tanto di merito che di legittimità estende la nozione di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio anche ai soggetti esercenti attività non immediatamente espressive della pubbliche funzioni attribuite all’ente di riferimento, ma tuttavia legate da un rapporto di stretta strumentalità con le attività pubblicistiche vere e proprie o che comunque denotino ‘‘indici sintomatici della pubblicità’’ (21). Altra parte della giurisprudenza, peraltro, esclude la correttezza di tale impostazione metodologica, rilevando come tali criteri — se rigorosamente applicati — possono ‘‘condurre a conclusioni non soltanto aberranti ma altresì palesemente resistite dal dato normativo (....). Infatti la stessa attività pur essendo indiscutibilmente di natura privata, considerata in sé e per sé, dovrebbe considerarsi di natura pubblicistica sol perché strumentale ad altre attività pubblicistiche che costituiscono il contenuto del pubblico servizio vero e proprio’’ (22). L’attività svolta oltre i limiti di attribuzione indicati dalla legge, peraltro in un settore in cui l’Ente operava già da anni attraverso una sua controllata al 40%, non può rappresentare l’esercizio di poteri autoritativi (23). È la delibera autonomamente ed oggettivamente considerata che può di per sé assumere natura pubblica o privata, a prescindere dal fatto che chi la pone in essere sia un privato o un pubblico ufficiale (24). Ed è proprio questa la ‘‘rivoluzione’’ operata dalla riforma del ’90: il distacco da una visione globale dell’attività dell’ente in quanto tale. 2.1. Una volta che si è correttamente concentrata l’attenzione sulla mansione singolarmente considerata, bisogna osservare come la riferibilità della stessa tivo potere o dovere, solo se genuinamente riferibili allo Stato o ad altro ente pubblico. ROMANO, op. cit., pag. 259, osserva come non perda completamente di rilevanza la disciplina pubblicistica dell’attività ‘‘complessivamente’’ considerata, ma che dovrà comunque sempre ‘‘accertarsi se nel caso di specie sia in gioco una pubblica funzione o un pubblico servizio’’. (20) Sulla necessità di una regolamentazione pubblicistica e della riferibilità degli atti alla p.a. v. Cass. Sez. VI pen. sent. del 12 dicembre 1996, in Cass. pen., 1998 n. 238 con nota di S. D’ARMA (in tema di attività sanitaria libero - professionale esercitata all’interno di strutture pubbliche della p.a.). (21) Sulla sussistenza della qualifica pubblicistica in capo a chi è chiamato a svolgere attività avente carattere accessorio o sussidiario ai fini istituzionali di enti pubblici (in quanto anche in tal caso si verifica, attraverso l’attività svolta, una partecipazione, sia pure in misura ridotta, alla formazione della volontà della p.a.) v. Cass. VI pen. sent. n. 5575 del 13 maggio 1998 in C.E.D. Cass. n. 210611. (22) Così, recentemente, v. GIP Trib. Roma Trivellini sent. del 13 novembre 1998, inedita. In tal senso ROMANO, op. cit., pag. 287. (23) FIORELLA, op. cit., 572 ss., rileva come una corretta visione oggettiva porti a valorizzare la mansione specifica; e, se così non fosse, ogni attività esercitata per conto di un ente pubblico darebbe, inesorabilmente, pubblica veste al soggetto, perché potrebbe sempre dirsi, in modo più o meno diretto, strumentale alla realizzazione degli scopi ultimi e pubblicistici dell’ente medesimo. L’Autore mette in guardia dal rischio di slittare nuovamente verso una concezione decisamente soggettiva, perché così facendo l’enfasi si sposterebbe dal momento oggettivo della mansione esercitata all’esclusivo momento soggettivo della qualifica dell’ente per conto del quale la si eserciti. (24) Del resto, la stessa Cassazione in altri casi ha riconosciuto proprio questi principi, osservando tra l’altro: ‘‘In materia di responsabilità degli amministratori (in senso lato) degli enti pubblici economici, occorre accertare, di volta in volta, se gli atti sono stati posti in essere nell’ambito della gestione privatistica dell’attività imprenditoriale ovvero quali indicazioni di esercizio di poteri autoritativi di autorganizzazione ovvero di funzioni pubbliche svolte in sostituzione dell’amministrazione dello Stato o di pubblici poteri’’ (Cass. sez. V pen. sent. n. 7295 del 25 luglio 1997, in C.E.D., Cass. n. 205899).
— 357 — all’ente pubblico è un presupposto essenziale ma non sufficiente al fine della qualificazione pubblicistica (25). È necessario, infatti, che la natura pubblicistica della mansione sia confermata dal carattere pubblicistico delle norme che la regolano e dal carattere autoritativo degli atti da cui promana (26). Ciò che viene, quindi, in considerazione è la sussistenza del criterio di disciplina (27). La scelta di tale criterio, lungi dal voler spostare il dibattito sulla distinzione tra regolamentazione pubblicistica e regolamentazione privatistica e, quindi, in buona sostanza sulla vexata questio della differenziazione tra ius publicum e ius privatum, costituisce invece ‘‘una guida concreta alla soluzione dei problemi di qualificazione, soprattutto con riferimento ai sempre più numerosi settori nei quali convergono attività assoggettate a disciplina privatistica e attività assoggettate a disciplina pubblicistica’’ (28). Il criterio di ‘‘disciplina pubblicistica’’ rilevante ai fini della qualificazione pubblicistica della funzione, nel senso indicato dal legislatore della riforma, richiede la necessaria coesistenza dei due elementi della sottoposizione a norme di diritto pubblico e dell’assoggettamento ad atti autoritativi (29). Con riferimento, quindi, agli enti pubblici che esercitano attività di impresa in regime concessorio occorrerà distinguere i diversi ‘‘ambiti’’ o ‘‘fasi’’ dell’attività svolta dall’ente: ‘‘la formula delle disposizioni innovate impone comunque di distinguere tra eventuali diverse attività del medesimo soggetto, non consentendo di negare la rilevanza della disciplina di diritto comune di una determinata attività neppure quando questa sia strettamente connessa — perché ad essa strumentale — ad altra pubblicistica, vincolata dall’atto concessorio, secondo fini pubblici, nelle modalità e nelle forme di esercizio’’, distinzione che dovrà essere di volta in volta ricercata (30). Laddove sussiste una legge istituiva di un ente e attributiva di specifici compiti di interesse pubblico, questa fungerà da necessario indicatore delle attività a rilevanza pubblicistica (31). Ciò che contribuisce a segnare lo spartiacque fra le attività propriamente pub(25) In tal senso FIORELLA, op. cit., pag. 568. (26) FIORELLA, op. cit., pag. 570, ‘‘altrimenti detto, la riferibilità della mansione all’ente pubblico è significativa solo se è connessa alle sue attribuzioni squisitamente pubblicistiche’’. CORRADINO, op. cit., pag. 1362, conclude che ‘‘ai fini della legge penale può dunque ravvisarsi attività soggetta a normativa di diritto pubblico soltanto nelle ipotesi in cui l’ordinamento abbia assunto come essenziale all’attuazione dell’interesse pubblico lo svolgimento di una determinata attività e abbia perciò dettato una disciplina normativa che imponga agli agenti di perseguire l’interesse pubblico attraverso una prestazione regolare, continuativa ed imparziale’’. (27) SEVERINO, Commento agli art. 17 e 18, cit., pag. 339 precisa che ‘‘i parametri della scelta definitoria sono stati nel senso di accogliere il criterio di qualificazione della funzione attraverso la disciplina cui essa è assoggettata, con conseguente ripudio sia delle tesi fondate su criteri ontologici o teleologici di individuazione della funzione amministrativa (ad es. criterio della immanenza di un interesse pubblico, ovvero del perseguimento di finalità pubblicistiche) sia delle tesi fondate sulla differenziazione in sé dei modelli organizzativi della p.a. rispetto a quelli utilizzati da soggetti privati’’. (28) SEVERINO, Commento agli art. 17 e 18, cit., pag. 340. Tra i vari criteri individuati per la individuazione delle norme di diritto pubblico, l’A. ricorda quelli della ‘‘norma a soggetto vincolato", della ‘‘norma il cui meccanismo sanzionatorio è messo in moto d’ufficio’’, etc., senza prendere specifica posizione sulla validità esclusiva dell’uno o dell’altro. (29) sempre SEVERINO, Commento agli art. 17 e 18, cit., pag. 341. (30) ROMANO, op. cit., pag. 287. (31) Tali considerazioni si rinvengono in una sentenza del Gip presso il Tribunale di Roma Monastero del 24 novembre 1995 e relativa alla RAI. Riconosce, inoltre, la sentenza che l’atto autorizzatorio di investitura del pubblico servizio non è sufficiente per qualificare come pubblicistica l’intera area dell’attività del destinatario, apparendo altresì necessario che le singole attività vengano poste in essere attraverso una disciplina pubblicistica, si realizzino, cioè, attraverso norme di diritto pubblico. La Corte di Appello di Roma, sez. IV, investita del caso, pur pervenendo a conclusioni difformi, ha tuttavia riconosciuto con sentenza n. 14 del 28 novembre 1997 che, ‘‘premessa l’esistenza generica ed indispensabile in capo al soggetto del conferimento di un pubblico servizio, l’ambito, i confini dell’esercizio del servizio pubblico
— 358 — bliche e quelle svolte iure privatorum, infatti, sono le specifiche attribuzioni (poteri e doveri) assegnate dalla legge istitutiva all’ente. Punto di riferimento essenziale non può che essere la legge istitutiva: tutto ciò che ne è al di là non può essere definito pubblico alla luce dei criteri stabiliti dagli art. 357 - 358 c.p.; al contrario, proprio perché ‘‘al di là’’ deve essere implicitamente escluso dai settori di intervento di interesse pubblico (32). Sarebbe un pericoloso escamotage ricorrere, ogni qualvolta un ente agisca al di là dei poteri attribuitigli dalla legge, al criterio della formazione e manifestazione della volontà della p.a. e sostenere che l’ente in quel modo incida sul suo assetto organizzativo e che, pertanto, manifesta volontà pubblicistica (33). È la legge ad aver segnato i confini del campo di interesse pubblicistico. Oltre quel campo non può che trovarsi l’ambito del diritto comune e delle attività disciplinate iure privatorum, in quanto tali escluse dall’ambito di efficacia degli artt. 357 358 c.p.. Già in dottrina (34) si sottolineava come ‘‘rispetto al momento organizzativo dello stesso ente pubblico (sia) chiaro che l’esponente, sia pure di alto livello, non diviene automaticamente agente pubblico per il fatto che esercita un potere di organizzazione di un ente pubblico economico invece che quello inerente alla specifica attività privatistica oggetto dell’ente. Deve trattarsi di momento organizzativo prettamente pubblicistico; quindi, con specifica attribuzione di poteri (e/o doveri) pubblicistici’’. È pacifico, infatti, che l’ente Stato (o qualsiasi altro ente pubblico) possa agire con gli strumenti di diritto comune in iniziative propriamente imprenditoriali, al pari di un soggetto privato, così come è evidente che allorché un ente pubblico eserciti un’attività organizzativa con riferimento ad attività privatistiche non possa con ciò esprimere pubbliche funzioni (35). Lo Stato può correttamente svolgere attività di natura privatistica e con strumenti di diritto comune, senza che tali attività assumano carattere pubblicistico (36). Nel caso di specie in realtà l’ENI coincidono e si estendono fino all’area riguardata dalla citata disciplina di diritto pubblico’’. Così anche la cit. (n. 22) sent. Gip di Roma, dott. Trivellini. (32) Recentemente la S.C. ha riconosciuto: ‘‘L’attività oggetto di mercimonio di cui all’art. 319 c.p. non può considerarsi come propria di un pubblico ufficiale se essa non rientra nella sfera di attività, pur se latamente intesa, dello stesso; in una sfera cioè in cui il comportamento in oggetto sia preso in considerazione da una disciplina avente le caratteristiche di cui al comma 2 dell’art. 357 c.p.’’ (Cass. sez. VI pen. del 6 febbraio 1997, pres. Pisanti, in Dir. Pen. e proc., n. 1/1998, pag. 88 ss., con nota di C. BERNASCONI). (33) Già PICOTTI, op. cit., pag. 275 ss, osservava come, proprio sul versante della formazione e manifestazione della volontà dell’ente la portata della riforma potesse essere in concreto fortemente ridimensionata. Anche GROSSO, op. cit., pag. 422, nota come tale connotato potrebbe essere rinvenuto in ogni momento procedimentale, anche remotamente collegato ad un iter deliberativo. SEVERINO, Le nuove definizioni, cit., pag. 345 ss., ribadisce come anche il criterio di formazione e manifestazione della volontà della p.a., debba essere necessariamente recuperato in termini funzionali, con riferimento all’attività più specificamente interessata e soprattutto alla relativa disciplina. (34) FIORELLA, op. cit., pag. 571. (35) La giurisprudenza civile, del resto, ha ben evidenziato quali siano i caratteri di un’attività meramente privatistica, allorché si è trovata a dover distinguere l’attività di un ente pubblico economico. Vale la pena di riportare alcuni passi della sentenza delle SS.UU. civili (Cass. SS.UU. sent. n. 5792 del 14 dicembre 1990) con la quale la S.C. ha individuato i criteri distintivi degli enti pubblici economici. La Corte ha ritenuto (nel caso di specie si trattava dell’Ente Ferrovie dello Stato) che un ente ‘‘sia qualificabile economico quando la sua attività, anche se strumentale rispetto al perseguimento di un interesse pubblico, abbia prevalentemente ad oggetto l’esercizio di un’impresa e sia informata a regole di economicità, in quanto diretto a conseguire un profitto o, quanto meno, a coprire i costi’’. La Corte continua con l’individuare i criteri di imprenditorialità, di economicità di gestione, di autonomia patrimoniale, di natura privata del rapporti di lavoro dipendente. Ha altresì riconosciuto come il modello privatistico non possa dirsi infirmato da poteri di vigilanza e di controllo, di nomina e revoca dei componenti il C.d.A., né da controlli di bilancio. Neppure vale ad escludere tale natura la mancanza di concorrenzialità, né la previsione dell’intervento dell’erario per il ripianamento del deficit di bilancio. Ancor meno ha rilevanza che il patrimonio dell’ente sia stato conferito dallo Stato o vi sia comunque partecipazione statale. (36) Il problema potrebbe, eventualmente, essere impostato sotto un altro aspetto, in fondo emer-
— 359 — già operava — sia pur indirettamente attraverso la Padana sua controllata al 40% — nel settore assicurativo e, dunque, la delibera incriminata non incideva in alcun modo sull’assetto organizzativo dell’Ente. Si limitava, infatti, ad autorizzare la partecipazione della controllata alla joint venture. 3. Alla luce delle considerazioni svolte appare evidente che le conclusioni della sentenza annotata non risultano pienamente condivisibili. Se si concentra l’attenzione sulla singola mansione e si osserva, quindi, più da vicino l’oggetto della delibera incriminata, ci si avvede innanzitutto — come pure ha rilevato la S.C. — che esso esula dai compiti specificatamente attribuiti in via esclusiva all’ENI con la legge istitutiva n. 136 del 1953. In nessun modo tale attività poteva, dunque, assumere rilevanza pubblicistica. L’oggetto specifico della delibera riguarda forme volontarie di previdenza da proporre ai dipendenti (il cui rapporto di impiego già di per sé riveste carattere privatistico), i quali possono liberamente scegliere se aderirvi. Ed è decisivo il fatto che la stessa Corte escluda l’oggetto della delibera incriminata dai campi di possibile intervento dell’ENI, affermando, anzi, che nessun vincolo di strumentalità, accessorietà o complementarità è dato riscontrare tra i settori delle risorse energetiche e della chimica da una parte e il settore assicurativo dall’altra. Questa considerazione sarebbe stata sufficiente ad escludere la rilevanza pubblicistica di tale intervento. Non è dato rinvenire nella delibera in questione indici di pubblicità; essa, invece, ha ad oggetto attività tipicamente espressiva dell’iniziativa privata ed è certo da escludere la riferibilità della delibera all’ente pubblico funzionalmente inteso. Si trattava piuttosto di un’attività neutra per lo Stato. Tanto più che non era l’ENI ad intervenire direttamente nello specifico settore assicurativo ma, si ribadisce, era interessata una società (la ‘‘Padana Assicurazioni S.p.A.’’), già operante proprio in quell’ambito. La Corte sembra aver trascurato, in particolare, di verificare la sussistenza nel caso di specie del criterio di disciplina. Il settore assicurativo, infatti, non essendo espressamente disciplinato dalla legge istitutiva dell’Ente ENI, non risulta in alcun modo regolato da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi. Il fatto di aver agito al di là dei poteri e degli ambiti di rilevanza individuati dalla legge istitutiva dell’ente, avrebbe dovuto già di per sé escludere definitivamente che la incriminata delibera attenesse a campi di rilevanza pubblica, proprio perché interamente disciplinata da norme di diritto privato. La mancanza della natura ‘‘autoritativa’’ della specifica attività assicurativa risulta confermata dalla volontarietà dell’adesione (per i dipendenti ENI), circostanza questa riconosciuta anche dalla S.C. nella sentenza de qua. È chiaro, allora, che viene meno uno dei criteri utilizzati dal legislatore del ’90 per delimitare l’ambito della funzione pubblica agli effetti penali, e precisamente quello di disciplina. La Corte di Cassazione muove dalla considerazione che proprio perché l’ENI operava al di là dei confini attribuitigli dalla legge, incideva sull’assetto organizzativo dell’ente e, pertanto, in qualche modo contribuiva a formare e a manifestare la volontà della p.a. Ma il criterio di formazione e di manifestazione della volontà dell’ente non può essere sganciato dal criterio di disciplina pubblicistica, a meno di voler contraddire la svolta impressa dalla riforma. gente anche dalla sentenza annotata. Si potrebbe, infatti, sostenere che, allorché un ente pubblico utilizza denaro pubblico per attività diverse da quelle istituzionali (e quindi incide indirettamente sullo statuto e sull’assetto organizzativo previsto dalla legge istitutiva), potrebbe configurarsi un’ipotesi del vecchio peculato per distrazione, confluito poi nell’abuso d’ufficio del 1990.
— 360 — Invero, sembra che la Corte piuttosto che concentrarsi sui caratteri della singola attività oggetto della delibera, in sé considerata, sia tornata a dare rilevanza ad un criterio soggettivo; il ragionamento della Corte è infatti il seguente: poiché l’ENI svolge nel suo insieme un servizio pubblico, trattasi di un soggetto pubblico (il discorso potrebbe valere anche dopo che l’ENI è diventata una S.p.A.); pertanto, ogni qual volta si forma e si manifesta la sua volontà, su qualsiasi oggetto, si è in presenza di un’attività di rilevanza pubblica o, più precisamente, dell’esercizio di una pubblica funzione (!). Asserire ciò, però, significa, in ultima analisi, attribuire rilevanza alla natura del soggetto cui ci si riferisce e, quindi, in buona sostanza, negare le premesse poste. Nel caso in esame non si stava formando la volontà dello stato - istituzione, ma dello stato-imprenditore (37). Deve, quindi, essere precisata l’interpretazione dell’art. 357 c.p. laddove afferma che ‘‘agli effetti penali ... è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione’’. Allorché si parla di volontà della pubblica amministrazione, è il concetto stesso di pubblica amministrazione a doversi interpretare alla luce del criterio funzionale e di quello di disciplina; se invece si prescinde da tali criteri e si dà alla ‘‘pubblica amministrazione’’ una connotazione meramente soggettiva, avuto riguardo solo alla natura del soggetto agente (come ha fatto in questo caso la S.C.), si svilisce il significato della disciplina introdotta e si toglie ogni valore innovativo alla riforma del ’90. È, infatti, necessario, perché si possa parlare di pubblica funzione, che la ‘‘volontà’’ che si va formando presenti connotati tipicamente pubblicistici, altrimenti una qualsiasi estrinsecazione proveniente dal titolare di un ente incaricato di un pubblico servizio integrerebbe per ciò solo gli estremi della pubblica funzione. Il criterio del concorso alla formazione della volontà della p.a. non può fondarsi esclusivamente sulla qualificazione soggettiva dell’ente di appartenenza. ‘‘Certamente più espressiva del distacco da tali criteri appariva peraltro la formulazione di una proposta di emendamento, successivamente ritirata, la quale, facendo riferimento alla ’formazione e manifestazione della volontà in cui si concreta l’attività amministrativa’ (38) accentuava il riferimento al contenuto deliberativo delle manifestazioni tipiche della pubblica funzione oggettivamente intesa, inquadrando il criterio nell’ambito funzionale dell’attività normativamente qualificata come pubblica’’ (39). Anche il criterio di formazione e manifestazione della volontà della P.A. deve necessariamente essere recuperato in termini funzionali, e, quindi, essere valutato in stretta connessione con l’attività che ne forma oggetto. Ove questa presenti natura privatistica, si esclude automaticamente la rilevanza penale, tanto più se relativa ad un soggetto diverso, come nel caso in questione. In conclusione, allora, la delibera in questione, singolarmente considerata, da un lato non risulta regolata da una disciplina di tipo pubblicistico, dall’altra riguarda un’attività anche funzionalmente privatistica — peraltro svolta da un soggetto diverso dall’ENI. Non v’è spazio, dunque, per una qualifica pubblicistica penalmente rilevante. (37) V. Cass. VI pen. sent. n. 11462 del 15 dicembre 1997 in C.E.D. Cass. n. 209700: ‘‘I componenti del Consiglio di amministrazione di un ente ospedaliero rivestono la qualifica di pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 357 c.p., quando concorrono a formare le deliberazioni nelle materie ad esso riservate da norme di diritto pubblico’’. (38) Emendamento presentato dagli on. Mastrantuono e Alagna, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Commissione Giustizia, X Legislatura, 23.1.1990, pag. 26. (39) SEVERINO, Le nuove definizioni, cit. pag. 352.
— 361 — 4. Il punto nodale della questione probabilmente risiede altrove, e precisamente nel criterio di utilizzazione di denaro pubblico(40) (è chiaro che l’Eni operava anche in ambito privatistico utilizzando anche finanziamenti pubblici). L’impossibilità di applicare le sanzioni previste per i reati contro la pubblica amministrazione, per difetto di qualifica pubblicistica, agli amministratori di enti pubblici che siano in tutto o in parte finanziati con denaro pubblico, allorché si trovino ad agire iure privatorum, rischia di lasciare scoperti diversi settori che pure appaiono meritevoli di tutela penale. L’esigenza di approntare una tutela per la fedele gestione di patrimoni altrui ispirata a criteri di lealtà e correttezza è già avvertita da tempo anche con riferimento a soggetti che amministrano patrimoni più strettamente privati (41). Ma è una questione che interessa con maggiore urgenza — per evidenti ragioni — gli enti che, pur operando con strumenti di tipo privatistico, siano finanziati in tutto o in parte con denaro pubblico. Se lo Stato interviene conferendo il proprio finanziamento ad una S.p.A. di diritto comune sottoposta alle regole di mercato, lo fa, infatti, per propri fini, necessariamente — sia pur in via indiretta — di tipo pubblicistico (42). Per questi motivi è evidente che la disponibilità di denaro pubblico imponga una correttezza e lealtà nel suo utilizzo superiori a quelle normalmente richieste(43). Non se ne può consentire, infatti, una gestione incontrollata. Appare allora indispensabile tutelare anche in sede penale questo interesse, una volta ritenute inapplicabili, per carenza di qualifica, le norme riguardanti i delitti dei pubblici agenti contro la pubblica amministrazione (44). De jure condendo c’è chi (45) propone di ‘‘allestire statuti speciali, anche dal punto di vista penale, di settori omogenei di attività costituenti dei veri e propri ordinamenti sezionali autonomi’’. Si ritiene altresì necessario il ridimensionamento del ruolo dei pubblici ufficiali, perché l’allestimento di fattispecie proprie dei diversi ordinamenti sezionali ne garantirebbe una maggiore vicinanza agli interessi sostanziali sottostanti, e quindi una configurazione dei reati in termini meno (40) Già STILE A.M., Amministrazione pubblica (delitti contro la), in Digesto delle Discipline Penalistiche, Torino: UTET, 1987, pag. 135, riteneva opportuno, che la riforma divenisse occasione per affrontare le ardue questioni relative alla gestione del denaro pubblico nell’impresa di Stato. V. anche in proposito STORTONI, op. cit., pag. 18 - 19; FLICK G.M., Istituti di credito di diritto pubblico e aziende di credito private di fronte al diritto penale, in Riv. delle soc., n. 3/1980, pag. 476. (41) Sul tema NUVOLONE, L’infedeltà patrimoniale nel diritto penale, Milano, Giuffrè, 1941; ID., Infedeltà patrimoniale, in Enc. Dir., vol. XXI, Milano, Giuffrè, 1971, pag. 445 ss.; PEDRAZZI C., Gli abusi del patrimonio sociale ad opera degli amministratori, in questa Rivista, 1953, pag. 529 ss. L’insufficienza dell’attuale sistema si rivela soprattutto in presenza di logiche di gruppo che diano luogo a fenomeni di interlocking directorate. V. ROMANO, Profili penalistici del conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni, Milano: Giuffrè, 1967, pag. 123 ss.; SEVERINO DI BENEDETTO, Prospettive di riforma degli artt. 357 e 358 c.p., in questa Rivista, 1989, pag. 1165 ss.; da ultimo FOFFANI, Infedeltà patrimoniale e conflitto di interessi nella gestione di impresa, profili penalistici, in Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano: Giuffrè, 1997. (42) CARMONA A., Dagli enti pubblici alle public companies: un problema insoluto negli artt. 357 358 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1993 pag. 190. (43) ‘‘La S.p.A. pubblica utilizza la logica del profitto per raggiungere obiettivi socialmente rilevanti’’, così REGGIO S.-D’URSO PIGNATARO G., La responsabilità penale degli amministratori pubblici e privati nel quadro della riforma dei delitti contro la P.A.. Aspetti differenziali anche a seguito del processo di privatizzazione, in L’amministrazione italiana, n. 4/1996, pag. 551. (44) CARMONA, op. cit., pag. 234, osserva: ‘‘Se le oramai antiche difficoltà a sciogliere il nodo tra ‘‘pubblico’’ e privato’’, a vantaggio dell’uno o dell’altro, avevano suggerito alla dottrina la richiesta di nuove norme penali adatte ai fatti economici, oggi la soluzione pan-privatistica, che la lettura della disposizione ex 357 e 358 c.p. può accreditare, impone — ancor più che in passato — (anche per evitare l’effetto opposto in sede giurisprudenziale) l’allestimento, infine, dello ‘‘statuto penale dell’economia’’. (45) PALAZZO, op. cit., pag. 820.
— 362 — formalistici e sanzionatori (46). Da altri (47), nell’evidenziare i rischi di gravi vuoti di tutela che si possono determinare a seguito della vasta opera di privatizzazione in settori anche cruciali dello Stato-Amministrazione, e nel contempo il pericolo non meno insidioso, di arbitrarie estensioni delle norme penali, si propone la qualificazione dell’attività esercitata dal soggetto in rapporto al contesto della sua sottostante relazione con la pubblica amministrazione, ‘‘intesa come afferrabile soggettività istituzionale, organizzata in unità funzionali i cui soggetti preposti sono, per questo, pubblici’’. A tali conclusioni si giunge ritenendo insufficiente il criterio oggettivo della norma di disciplina dell’attività (solo di per sé astrattamente considerato) se sganciato comunque da criteri di tipo soggettivo. Già si è evidenziata (48) la residua rilevanza del criterio soggettivo purché tradotto in chiave funzionale: non è ‘‘sufficiente l’atto autoritativo di investitura soggettiva del pubblico servizio, per connotare di per sé come pubblicistica l’intera area delle attività svolte dal destinatario dell’atto stesso ma è necessario che esso si traduca anche in una disciplina pubblicistica delle singole attività, alcune delle quali, pur facendo capo all’identico soggetto, potrebbero rimanere regolate dal diritto privato’’. Tuttavia, l’esigenza di non lasciare serie lacune nella tutela di rilevanti interessi si può meglio soddisfare percorrendo altre strade. In verità torna a proporsi con toni piuttosto pressanti la annosa questione della necessità di introdurre nel nostro ordinamento una fattispecie analoga alla infedeltà patrimoniale di matrice tedesca (49). Da tempo, infatti, si ritiene necessaria in dottrina l’introduzione di siffatta fattispecie — che si rinviene ormai in tutti gli ordinamenti dell’Europa continentale, fatta eccezione per Belgio, Olanda e Italia (50) — che punisca gli amministratori infedeli; certamente essa dovrebbe essere introdotta quanto meno con riferimento all’amministrazione di fondi pubblici. Essa potrebbe essere così strutturata ‘‘Chiunque, investito del potere di amministrare interessi patrimoniali di una società o di un ente in tutto o in parte finanziato con denaro pubblico, abusa del relativo potere o viola i doveri ad esso connessi, cagionando un danno al patrimonio amministrato è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione ...’’. Per tale via potrebbero essere coperti quei vuoti di tutela vieppiù evidenziati dalla nuova disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, in particolare a seguito della vasta opera di privatizzazione che ha interessato l’economia nazionale. La tutela penale si renderebbe necessaria solo a fronte di un danno effettivo cagionato dolosamente al patrimonio ‘‘pubblico’’. Si potrebbe, inoltre, cominciare a pensare di configurare anche nel nostro ordinamento la cd. corruzione del circuito economico, già nota al codice tedesco e a quello francese. Nell’impostazione di tali sistemi i fatti di corruzione non attengono unicamente e specificamente alla pubblica amministrazione, ma sono trasponibili anche in diversi ambiti (51). (46) Lamenta la mancanza ‘‘nel sistema di norme repressive delle infedeltà patrimoniali da parte degli amministratori di società commerciali e di istituti di credito’’, MARINUCCI G., Gestione di impresa e pubblica amministrazione: nuovi e vecchi profili penalistici, in questa Rivista, 1988, pag. 441. (47) PICOTTI, op. cit., pag. 307. (48) SEVERINO, Le nuove definizioni, cit. pag. 356. (49) Nello schema di legge delega per la riforma del codice penale, cd. Progetto Pagliaro, in Ind. pen., 1992, pag. 660, si prevede l’introduzione (art. 112) in un capo dedicato ai reati contro l’economia, della fattispecie di infedeltà patrimoniale, ‘‘consistente nel fatto di chi, con abuso di poteri o violazione di doveri inerenti alle funzioni esercitate nell’impresa, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto ingiusto, cagioni all’impresa un danno patrimoniale’’. (50) FOFFANI, op. cit., passim. (51) Invero, anche nella nostra dottrina è stato auspicato un ‘‘avvicinamento della figura dell’amministratore della società di capitali agli operatori delle amministrazioni pubbliche’’ attraverso la formula-
— 363 — Invero, il fenomeno della corruzione è teoricamente suscettibile di trovare applicazione rispetto ad una gamma ben più vasta di soggetti di quella riferibile alla pubblica amministrazione e alle società commerciali ‘‘solo che lo si caratterizzi in funzione della generica posizione di potere rivestita dall’agente (è il caso del giornalista o del sindacalista) ovvero della sua posizione fiduciaria (ad es. il legale o il consulente), o ancora della sua specifica posizione di mandatario preposto alla gestione di interessi altrui’’ (52): si tratta di tutte quelle situazioni in cui la corruzione viene concepita come violazione di un dovere di fedeltà. L’art. l. 152-6 del Code du travail francese, ad esempio, punisce il fatto di sollecitare o di accettare da parte di dirigenti o impiegati di aziende economiche private offerte di denaro o altro genere di dazione per compiere o astenersi dal compiere un atto del loro ufficio: è la fattispecie che viene generalmente definita corruption d’employè. Il legislatore tedesco del 1997 (53) ha inserito nel codice penale le norme, finora contenute nella legge contro la concorrenza sleale (UWG) riguardanti la corruzione attiva e passiva nel circuito economico (paragrafi 299 e 300 StGB riformati), inasprendo le relative cornici edittali (54). La punizione di tali fatti risulta particolarmente urgente sol che si consideri che si tratta di fenomeni altamente disfunzionali rispetto alle regole del mercato e della concorrenza, in particolare in rapporto ad una logica di Unione Europea. Tali fattispecie sono sconosciute al nostro ordinamento che, come visto, ignora anche la fattispecie di infedeltà patrimoniale, così che resta completamente scoperto un ambito tuttavia meritevole di tutela penale, quello relativo alla corretta, trasparente e disinteressata gestione societaria. Per tale via si eviterebbe la tentazione di estendere oltre misura l’ambito di rilevanza degli artt. 357 - 358 c.p., tentazione cui non sembra aver resistito la Corte di Cassazione con la sentenza annotata. CARLA MANDUCHI Università di Roma ‘‘La Sapienza’’
zione di una fattispecie in tema di corruzione incentrata sull’accettazione di indebite utilità finalizzate al compimento di atti riferibili alla società: ‘‘nulla di sospetto in una proposta del genere — si è osservato — dall’angolo visuale della necessaria libertà di manovra nella conduzione dell’attività gestoria; si tratta in parte, crediamo, di un’indicazione ispirata ad una certa esigenza di cautela sostanziale, nel senso di una rigida separazione degli interessi patrimoniali dell’ente da quelli dell’amministratore’’ (MARINUCCI G.-ROMANO M., Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in Il diritto penale delle società commerciali, a cura di P. NUVOLONE, Milano, 1971. 114). (52) SEMINARA S., Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. It. Dir. proc. Pen., 1993, pag. 991. (53) Legge per la lotta alla corruzione del 19 agosto 1997. Sulla riforma BOITKE W., Corruzione e diritto criminale nella Repubblica Federale Tedesca, inedita. (54) § 299 — Corruzione passiva ed attiva del circuito economico: ‘‘Chiunque, in qualità di impiegato o incaricato di un’azienda economica, nel circuito economico, richiede, si fa promettere o riceve un’utilità per sé o per un terzo, quale ricompensa perché, in occasione dell’acquisizione di merci o di prestazioni professionali, favorisca slealmente un altro nella competizione è punito con la pena detentiva fino a tre anni o con la pena pecuniaria. Alla stessa pena soggiace chiunque nel circuito economico, allo scopo di fare concorrenza, offre, promette o dà ad un impiegato o ad un incaricato di un’azienda economica un’utilità per sé o per un terzo quale ricompensa perché favorisca in modo sleale lui o un terzo in occasione dell’acquisizione di merci o prestazioni professionali’’. 300 — Casi particolarmente gravi di corruzione nel circuito economico: ‘‘In casi particolarmente gravi il fatto di cui al 299 è punito con la pena detentiva da tre mesi a cinque anni. Un caso particolarmente grave sussiste di regola quando: 1) il fatto si riferisce ad un’utilità di grande entità, oppure 2) l’autore agisce professionalmente o come membro di una banda che si è formata allo scopo della commissione continuativa di tali fatti’’.
I CORTE DI CASSAZIONE — sez. IV penale — 3 marzo 1998, n. 548 Pres. Viola — Rel. Colarusso P.M. (concl. diff.) — Ric. Brambilla Lavoro — Prevenzione infortuni — Destinatari delle norme — Responsabilità del legale rappresentante — Assenza di delega formale — Necessità del riferimento ai compiti attribuiti ed alle concrete mansioni svolte. Posto che le esigenze dell’economia moderna impongono sempre più articolate organizzazioni delle strutture produttive soprattutto nelle società di capitali di grandi o notevoli dimensioni, la responsabilità penale va ancorata, piuttosto che al dato rigorosamente formale della legale rappresentanza, al dato sostanziale e funzionale che tiene conto della titolarità di poteri effettivi legati allo svolgimento concreto di talune attività. È necessario superare il dato puramente formale della rappresentanza e della assenza di delega per individuare se vi siano altri soggetti che, con riferimento ai compiti attribuiti ed alle concrete mansioni svolte, potessero avere assunto gli obblighi di salvaguardia dell’incolumità dei lavoratori, essendo tenuti ad attuare e sorvegliare l’attuazione delle norme di sicurezza (1).
II CORTE DI CASSAZIONE — sez. III penale — 26 febbraio 1998, n. 681 Pres. Tonini — Rel. Salvago P.M. (concl. parz. diff.) — Ric. Caron Produzione, commercio, consumo — Prodotti alimentari — Detenzione per la vendita di sostanze alimentari invase da parassiti ex art. 5 lett. d) L. 30 aprile 1962 n. 283 — Impresa di rilevanti dimensioni — Responsabilità del legale rappresentante della società — Assenza di delega formale — Necessità di avere riguardo alla predeterminata ripartizione interna dei compiti. Il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni non è responsabile allorché l’azienda sia stata preventivamente suddivisa in distinti settori, rami o servizi ed a ciascuno di essi siano in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione di quel servizio o settore. In tali fattispecie l’esigenza della delega è superata ed assorbita dalla predeterminata suddivisione dei servizi, delle attribuzioni e dei compiti; per altro verso essa è resa superflua dall’investimento della funzione tipica nonché dal suo concreto esercizio secondo la disciplina prestabilita dai contratti collettivi o individuali oppure secondo norme o regolamenti interni, corrispondenti ad esigenze effettive e costanti in azienda (2).
— 365 — I (Omissis). — SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Brambilla Gianfranco, legale rappresentante della Tecnoblends s.p.a. venne condannato dal pretore di Rho alla pena di giustizia per il reato di lesioni colpose ai danni del dipendente De Giorgis Eraldo, commesso con violazione delle norme di prevenzione sugli infortuni (artt. 8, 55, e 375 d.p.r. 547/55). Il predetto lavoratore, mentre era addetto al ripristino della zona di alimentazione della trafila di una macchina, era scivolato sul pavimento reso viscido dalla fuoriuscita dell’acqua di raffreddamento della trafila stessa ed era finito con la mano sinistra tra la cinghia di alimentazione di un motore che era privo di protezione laterale, riportando, così, lesioni con indebolimento dell’organo prensile. Propose appello deducendo: a) che egli era rappresentante legale di una società con più stabilimenti, ciascuno con un considerevole numero di addetti e che, pertanto, non gli si poteva imputare la lieve omissione consistente nella mancata protezione « della piccola feritoia scoperta », mancanza cui sia il direttore di stabilimento che il capo reparto avevano la possibilità di ovviare « magari anche solo con un fil di ferro »; b) che erano state concesse le attenuanti generiche equivalenti ma non era dato conoscere quale fosse la pena base su cui era stata operata la riduzione. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, ha confermato quella del Pretore osservando, quanto alla responsabilità, che nessuna delega per la sicurezza risultava data dall’imputato ad altre figure operanti nello stabilimento; che nessun rilievo poteva essere dato all’assenza del Brambilla dallo stabilimento; che la molteplicità dei profili della colpa (nella specie tre) contestati dava un quadro di scarsa attenzione alle norme antiinfortunistiche e non era il caso di rinnovare parzialmente il dibattimento per accertare se altri avesse il potere di coprire la piccola feritoia nella quale il lavoratore era finito con la mano. La Corte, poi, ha ribadito l’adeguatezza della pena. L’imputato ricorre per cassazione con l’unico motivo articolato in due censure. Con la prima ribadisce, in sostanza, quanto sostenuto in appello con riferimento alla sua posizione ed alle dimensioni dell’azienda, circostanze, queste, non adeguatamente considerate al punto che si era finito per attribuirgli la responsabilità a titolo puramente oggettivo. Con l’altra censura lamenta il vizio di motivazione in ordine alla mancata riduzione della pena. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il ricorso merita accoglimento. La Corte d’Appello, nella telegrafica motivazione, ha posto l’accento sul fatto che « nel corso dell’istruttoria dibattimentale di primo grado non è emersa l’esistenza di qualsivoglia forma di delega rilasciata dal legale rappresentante ad altre figure operanti nell’ambito dell’azienda » per cui ha ritenuto il legale rappresentante della stessa (ed attuale imputato) destinatario delle norme antinfortunistiche e responsabile penale anche dell’incidente per cui è causa, senza che alcun rilievo potesse avere il fatto che egli fosse assente dal luogo di lavoro. La Corte d’Appello si è riferita ad una giurisprudenza rigorosa non meglio specificata neppure quanto alla provenienza.
— 366 — Probabilmente si tratta di quella di questa Corte secondo la quale destinatario degli obblighi primari nascenti dalle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro è sempre il datore di lavoro che, nelle società di capitali aventi organizzazione e struttura complessa si identifica nel soggetto che, a termini statutari, è il legale rappresentante della società. Questa affermazione di principio trova giustificazione nel fatto che le dimensioni dell’azienda e la complessità della sua organizzazione non possono costituire un comodo schermo per eludere le responsabilità connesse alle posizioni di garanzia del datore di lavoro che si individua necessariamente e formalmente nel legale rappresentante. La giurisprudenza di questa Corte, poi, conscia che le esigenze dell’economia moderna impongono sempre più articolate organizzazioni delle strutture produttive soprattutto nelle società di capitali di grandi o notevoli dimensioni, ha ancorato la responsabilità penale piuttosto che al dato rigorosamente formale che la indirizza sempre in capo al legale rappresentante destinatario delle norme, al dato sostanziale e funzionale che tiene conto della titolarità dei poteri effettivi legati allo svolgimento concreto di talune attività (Cass. 29 settembre 1983 n. 7672 RV 160.317). Ed in questo campo ha ammesso l’istituto della c.d. delega di funzioni che comporta, quando sia correttamente attuata, anche delega di responsabilità connessa all’espletamento di attività penalmente sanzionate (Cass. 8 marzo 1986 n. 1910 RV 172.040). Questa Corte non ha neppure mancato di enunciare i principi cui deve uniformarsi ogni valido conferimento di delega e di precisare i contenuti della stessa quanto all’autonomia ed ai concreti ed effettivi poteri che al delegato debbono essere conferiti (cfr. Cass. IV 26 novembre 1996, ric. Perilli RV 206.644, in Cass. pen., 1997 p. 3549, cui si fa riferimento per evitare inutili ripetizioni). È ovvio che nel caso in cui tale ripartizione del lavoro manchi del tutto e non possa provarsi l’esistenza di una delega, gli amministratori non possono andare esenti dalle relative responsabilità (Cass. RV 134.855). Non basta, quindi, che nelle società di capitali a struttura complessa si individui il legale rappresentante facendogli risalire tout court la responsabilità penale, ma occorre tener presente la struttura effettiva dell’impresa stessa (c.d. organigramma) e le mansioni in concreto esercitate dalle singole persone fisiche (Cass. 27 giugno 1981 n. 2353 RV 149.570; Cass. 29 settembre 1983 n. 7672 RV 160.317). Nel caso di specie la sentenza tiene implicitamente conto e fa correttamente applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza, sia per quanto riguarda l’individuazione del responsabile, sia per quanto riguarda la possibilità della delega delle mansioni in tema di sicurezza. E, tuttavia, la motivazione si appalesa carente nel momento in cui la Corte, pur non disconoscendo (ed anzi, implicitamente confermando) che il Brambilla era legale rappresentante di una società di capitali di notevoli dimensioni, con numerosi stabilimenti dislocati in varie parti del territorio, non affronta sufficientemente questo profilo della causa ed, in più, ignora del tutto gli assunti difensivi contenuti nei motivi d’appello ove, tra l’altro, si prospetta anche la specifica questione della delega scritta per la sicurezza contenuta nel verbale di riunione del C.d.A. del 20 marzo 1991 e si parla di un direttore di stabilimento e di un capore-
— 367 — parto, entrambi, come si assume, dotati di poteri di intervento nella specifica materia e nel caso che ha dato origine al presente giudizio. A fronte di queste specifiche deduzione difensive, accompagnate, per giunta, dalla richiesta di rinnovazione parziale del dibattimento per verificarne la fondatezza, era dovere della Corte di merito fornire una adeguata risposta nella motivazione. I giudici di appello si sono, invece, ancorati ai dati puramente formali della rappresentanza e dell’assenza di delega omettendo ogni attività tesa ad individuare se vi fossero altri soggetti della produzione che, con riferimento ai compiti attribuiti ed alle concrete mansioni svolte, potessero aver assunto gli obblighi di salvaguardia dell’incolumità dei lavoratori, essendo tenuti ad attuare e sorvegliare l’attuazione della norma di sicurezza. Tale difetto di motivazione comporta l’annullamento della sentenza con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano, la quale dovrà, nel decidere, uniformarsi ai principi sopra enunciati accertando preventivamente se esistesse un soggetto responsabile alla sicurezza in base ad una delega valida e completa nei sensi chiariti dalla giurisprudenza di questa Corte che pure si è richiamata (Cass. 26 novembre 1996, Perilli).
II FATTO E MOTIVI. — (Omissis). — Il 2 giugno 1997, la Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza del 29 gennaio 1996 nella parte in cui il Pretore di Bassano del Grappa ha dichiarato Caron Giovanni colpevole di aver detenuto per vendere numerose confezioni di riso visibilmente invase da parassiti (art. 5 lett. d) della legge 283 del 1962) nei supermercati di cui era legale rappresentante, ubicati in Bassano del Grappa, Romano d’Ezzellino e Rosà; ha sostituito la pena detentiva inflitta dal primo giudice con quella pecuniaria determinata nella complessiva ammenda di lire 9.375.000. Il Caron ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione di legge nonché contraddittoria ed insufficiente motivazione perché i giudici di merito: a) gli avevano addebitato il reato senza considerare che egli era titolare di una catena di supermercati a ciascuno dei quali era preposto un gestore ed un ispettore alla vendita; che i gestori dei supermercati in cui erano state rinvenute le confezioni di riso invase da parassiti erano stati coimputati degli stessi reati a lui attribuiti ed avevano chiesto l’applicazione della pena patteggiata ex art. 444 c.p.p.; ed infine che non aveva trascurato alcuna forma di controllo sugli alimenti, tanto da averlo affidato ad organi specializzati; b) gli avevano inflitto una pena eccessiva senza giustificare i criteri recepiti e considerare il suo lievissimo grado di colpa; c) gli avevano concesso, malgrado la sua contraria richiesta, il beneficio della sospensione condizionale della pena. Il primo motivo, avente carattere assorbente, risulta fondato. La Corte di appello di Venezia, pur dando atto che il ricorrente è proprietario e legale rappresentante di un’azienda di vastissime dimensioni tanto da impiegare più di 1.000 dipendenti e da articolarsi in decine di supermercati nonché di punti vendita, ne ha dichiarato egualmente la responsabilità per aver detenuto per la
— 368 — vendita nei supermercati di Bassano del Grappa, Romano d’Ezzellino e Rosà numerose confezioni di riso invase da parassiti, da un lato, perché non risultava che egli avesse conferito la sorveglianza sull’igiene degli alimenti ad alcun dipendente per iscritto e con la specifica attribuzione di tali compiti. E, dall’altro, perché il ricorrente non aveva provato di aver impartito le opportune direttive affinché venisse verificata l’integrità di ogni confezione di prodotti alimentari. Sennonché, questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare in tema di personalità della responsabilità penale — in riferimento all’art. 27 della Costituzione ed all’art. 40 cod. pen. (rapporto di causalità) — che l’amministratore o il legale rappresentante di un ente, di una società o di un’azienda non può essere automaticamente tenuto responsabile, a causa della carica ricoperta, di tutte le infrazioni penali verificatesi nella gestione dell’ente; e che in caso di impossibilità di adempiere direttamente agli obblighi derivanti dalla legge, egli può delegarvi una persona tecnicamente qualificata mediante atto in cui risultino documentati in modo incontrovertibile il soggetto, i presupposti ed i contenuti della delega (IV, 11 dicembre 1986, Aquilani; 14 marzo 1989, Civello; III, 31 agosto 1993, Robba). A maggior ragione, dunque, la sua responsabilità deve essere esclusa allorché trattasi di ente o di azienda di notevoli dimensioni, la cui articolazione in varie branche renda per ciò solo impossibile ad una sola persona il controllo dell’attività produttiva; in tal caso richiedendosi che quest’ultima sia stata preventivamente suddivisa in distinti settori, rami o servizi e che a ciascuno di essi siano in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione completa degli affari inerenti a quel servizio. Ciò perché in tali fattispecie cui non ha prestato attenzione la corte di merito a differenza della prima l’esigenza della delega è superata ed assorbita dalla predeterminata suddivisione dei servizi, delle attribuzioni e dei compiti; e, per altro verso, resa superflua dall’investimento della funzione tipica nonché dal suo concreto esercizio secondo la disciplina prestabilita da contratti collettivi o individuali oppure secondo norme o regolamenti interni, corrispondenti ad esigenze effettive e costanti dell’azienda (sent. 22 marzo 1991 n. 3272; 6204 del 1 luglio 1983; 296 del 14 gennaio 1983). La Corte di appello ha, invece, trascurato del tutto questi ultimi principi, arrestandosi alla constatazione che l’imputato non aveva prodotto alcuna delega per atto scritto a dipendenti per il controllo degli alimenti e senza, perciò considerare quanto per converso accertato da entrambi i giudici di merito e cioè: 1) che l’azienda nel ramo che interessa era stata suddivisa in più strutture rivolte alla vendita di detti prodotti, denominate supermercati; 2) che a ciascuna di esse era preposto non già un dipendente con mansioni meramente esecutive (e, peraltro incompatibili con le stesse dimensioni della struttura), bensì un gestore-dirigente, avente, dunque, per la stessa funzione svolta i massimi poteri organizzativi e decisionali (nell’ambito delle direttive imprenditoriali) in ordine alla gestione del supermercato e, quindi, dei prodotti ivi confluiti per la vendita; 3) che la conferma di tale funzione e dei corrispondenti poteri per la gestione dei prodotti alimentari posti in vendita proveniva dal fatto che unitamente al ricorrente erano stati imputati del reato per cui è procedimento proprio i gestori di ciascun supermercato; i quali, tutti, avevano riconosciuto l’attribuzione della responsabilità derivante dalla preposizione alle relative strutture commerciali, richiedendo ed ottenendo l’applicazione della pena patteggiata ex art. 444 c.p.p.
— 369 — D’altra parte, il giudizio di colpevolezza del ricorrente neppure era consentito sotto i profili della colpa « in vigilando » o « in eligendo » della quale, trattandosi di materia contravvenzionale, sono chiamati a rispondere, secondo la giurisprudenza di questa Corte, anche gli amministratori o i rappresentanti legali di complessi di notevoli dimensioni che pur abbiano delegato (nei modi avanti esaminati) ai propri collaboratori l’espletamento di attività penalmente sanzionate (sent. n. 1910 del 8 marzo 1986; 11174 del 22 novembre 1985). Perché in ordine al primo, entrambi i giudici del merito hanno accertato, da un lato, che l’imprenditore aveva posto a disposizione dei suddetti gerenti anche per consentire i relativi controlli, un’ulteriore struttura interna costituita da « un direttore, dal quale dipendono quattro ispettori e alcuni supervisori per la merceologia deperibile; ciascuno degli ispettori è delegato al controllo di un gruppo di supermercati, esteso a tutte le risorse del punto vendita e in particolare alle date di scadenza della merce: tale compito risulta affidato anche ad un supervisore ». E, dall’altro, la Corte d’Appello ha dato atto che il ricorrente, in aggiunta, aveva demandato il controllo sia delle attrezzature che dei prodotti alimentari ad una struttura privata nonché all’Istituto sperimentale delle Venezie, che periodicamente prelevava ed analizzava campioni di merce; e che si era preoccupato, altresì, di vigilare sui risultati delle relative verifiche, avendo in precedenza mosso contestazioni ai dipendenti venuti meno al dovere di controllo ed irrogato loro le opportune sanzioni disciplinari. E perché, infine, il profilo della culpa in eligendo non è stato neppure affrontato dai giudici di appello, i quali di conseguenza non hanno mosso al ricorrente alcuna contestazione circa i criteri di scelta dei suddetti gerenti (nonché del direttore, degli ispettori e dei supervisori alle vendite) o la loro idoneità e qualificazione a svolgere i controlli cui erano tenuti; per cui la sentenza impugnata, che ne ha sostanzialmente affermato la responsabilità in base al fatto obbiettivo della funzione di responsabile legale della società, va annullata senza rinvio per non avere il ricorrente commesso il fatto.
——————— (1-2)
Ripartizione di attribuzioni aventi rilevanza penalistica e organizzazione aziendale. Un nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità.
SOMMARIO: 1. L’orientamento tradizionale della giurisprudenza.— 2. Il criterio di effettività nella individuazione dei soggetti responsabili e la ricerca del dato sostanziale nella sentenza n. 548/1998. — 3. L’assenza di delega e il « momento giuridico » dell’organizzazione aziendale nella sentenza n. 681/1998. — 4. Effetti della delega e D.Lgs. 26 maggio 1997, n. 155.
1. Due sentenze, una novità: le deleghe non sono più necessarie nell’ambito dell’organizzazione aziendale per esonerare da responsabilità il titolare dell’impresa. Si tratta di una vera e propria inversione di tendenza. È, infatti, risaputo che, secondo l’orientamento giurisprudenziale tradizionale, l’esonero da responsabilità è subordinato al rilascio di una valida delega (1) da (1) In dottrina, sulla individuazione dei destinatari del precetto penale qualora la legge richieda il possesso di una determinata qualifica extrapenalistica, si vedano per le diverse impostazioni PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. soc., 1962, p. 280 ss.; PULITANÒ, Posizioni di garanzia
— 370 — parte dell’imprenditore ai suoi collaboratori; ed è altrettanto noto che la delega, per essere valida, deve possedere ben otto requisiti (2): le dimensioni dell’impresa devono essere tali da giustificare la necessità di decentrare compiti e responsabilità (3); il trasferimento di poteri deve essere effettivo e attribuire al delegato autonomia decisionale e di spesa (4); la delega deve essere conferita in base a ineludibili norme interne o disposizioni statutarie, con adeguata pubblicità delle medesime (5); il contenuto della stessa deve essere specifico e puntuale (6). Deve inoltre sussistere la capacità e l’idoneità tecnica del delegato (7); la non ingerenza da parte del delegante nell’attività del delegato (8); e debbono mancare richieste di intervento da parte di quest’ultimo, e la conoscenza da parte del delegante della negligenza o della sopravvenuta inidoneità del delegato (9). Le due pronunce della Corte regolatrice annotate ritengono invece che, per individuare le responsabilità penali, sia necessario aver riguardo al « dato sostanziale e funzionale », agli « effettivi poteri legati allo svolgimento concreto delle attività ». Ma vediamo più da vicino le due sentenze. 2. La sentenza del 3 marzo 1998, n. 548 enuncia il principio secondo il quale i giudici di merito non possono affermare la responsabilità del legale rappresentante della società rimanendo « ancorati ai dati puramente formali della rappresentanza e della assenza di delega », ma devono svolgere « ogni attività tesa ad accertare se vi siano altri soggetti che con riferimento ai compiti attribuiti ed alle concrete mansioni svolte, possano aver assunto gli obblighi di salvaguardia dell’incolumità dei lavoratori essendo tenuti ad attuare e sorvegliare l’attuazione delle norme di sicurezza ». È bene, peraltro, approfondire la motivazione della Corte che si svolge essene criteri d’imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1982, IV, p. 192-193; PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Milano, 1983, p. 78 ss.; ALESSANDRI, Impresa (responsabilità penali), in Dig. disc. pen., Torino, 1992, p. 206 ss. Per l’impostazione funzionale, FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1984, p. 112; PAGLIARO, Problemi generali di diritto penale dell’impresa, in Ind. pen., 1985, p. 20 ss.; VASSALLI, La responsabilità penale per il fatto dell’impresa, in premessa al volume di IORI, Organizzazione dell’impresa e responsabilità penale nella giurisprudenza, Firenze, 1981, p. 30 ss. Ancora sulla delega GRASSO, Il reato omissivo improprio, 420 ss.; FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 200 ss.; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, p. 136 ss.; PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen., Torino, 1992, VI, p. 106; PALOMBI, La delega di funzioni, in Trattato di diritto penale dell’impresa, diretto da DI AMATO, Padova, 1990, p. 267 ss.; M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 350 ss. (2) Queste sentenze riassumono gli otto ‘‘requisiti’’ Cass., 3 aprile 1998, n. 4162, in ISL, 1998, n. 6, p. 350; Cass., 24 novembre 1997, n. 19671, ivi, 1998, n. 1, p. 45; Cass., 27 maggio 1996, n. 5242, in Dir. prat. lav., 1996, n. 26, p. 1851. (3) Tale requisito, criticabile come vedremo più avanti nel testo, sembra essere richiamato anche dalle sentenze in epigrafe. V. inoltre Cass., 10 aprile 1998, n. 4348, in ISL, 1998, n. 5, p. 274; Cass., 29 ottobre 1997, n. 9715, ivi, 1998, n. 1, p. 46; Cass., 9 dicembre 1997, n. 11265, ivi, 1998, n. 2, p. 88. Di diverso avviso Cass., 1 agosto 1995, in Dir. prat. lav., 1995, n. 37, p. 2439. (4) Tra le tante Cass., 25 marzo 1997, n. 2859, in ISL, 1997, n. 5, p. 329. (5) Sulla necessità di una delega formale Cass., 23 marzo 1998, n. 3602, in ISL, 1998, n. 6, p. 335; Cass., 17 ottobre 1997, n. 9379, ivi, 1997, n. 12, p. 677; Cass., 29 aprile 1997, in Dir. prat. lav., 1997, n. 22, p. 1647; Cass., 17 ottobre 1997, in ISL, 1997, n. 12, p. 677; Cass., 25 settembre 1997, ivi; Cass., 11 luglio 1997, ivi, 1997, n. 9, p. 537; Cass., 9 luglio 1997, ivi. Nel senso che la delega deve essere documentata ‘‘in modo incontrovertibile nei presupposti, nei contenuti, nei limiti’’, Cass., 11 marzo 1998, n. 3112, in ISL, 1998, n. 5, p. 271. (6) Cass., 5 settembre 1997, n. 8169, in ISL, 1997, n. 11, p. 641. (7) Idoneità da valutare ex ante come ricorda Cass., 29 settembre 1998, n. 10270, in ISL, 1998, n. 11, p. 587. Sulla capacità tecnica del delegato, Cass., 2 febbraio 1999, n. 1300, ivi, 1999, n. 4, p. 233. (8) Cass., 3 novembre 1994, in Riv. crit. dir. lav., 1995, p. 457 ss. (9) Cass., 17 dicembre 1992, in Cass. pen., 1994, p. 389; Cass., 14 febbraio 1992, ivi, 1992, p. 2438; Cass., 11 luglio 1989, ivi, 1990, p. 1795.
— 371 — zialmente in due distinti passaggi (che finiscono in concreto per sovrapporsi), riguardanti rispettivamente l’efficacia (10) e le condizioni di validità del trasferimento di funzioni. Per quanto riguarda il primo punto, i giudici sostengono una interpretazione funzionale delle qualifiche normative, idonea a giustificare dogmaticamente la rilevanza della trasmissibilità della posizione di garanzia. A tal fine la sentenza del 3 marzo 1998, n. 548 ripercorre le tappe salienti della elaborazione giurisprudenziale sull’individuazione dei soggetti responsabili all’interno di organizzazioni complesse, accogliendo quell’orientamento che àncora la responsabilità « piuttosto che al dato rigorosamente formale della legale rappresentanza, al dato sostanziale e funzionale che tiene conto della titolarità di poteri effettivi legati allo svolgimento in concreto di talune attività » (11). In questa prospettiva il soggetto attivo non è il titolare della qualifica extrapenalistica, ma colui che esercita le funzioni corrispondenti (12). La delega, quindi, esplicherà la sua efficacia già sul piano dell’elemento materiale del reato: il datore di lavoro sarà liberato da responsabilità in quanto in concreto estraneo a determinati processi aziendali, nei quali è invece subentrato con adeguati poteri il delegato assumendone le relative responsabilità. La Corte adotta, quindi, nelle individuazione del soggetto concretamente responsabile, un criterio di effettività che, diverso da quello della rappresentatività, (10) Sugli effetti della delega i giudici di legittimità hanno tradizionalmente seguito due diverse impostazioni (v. CULOTTA, DI LECCE, CASTAGLIOLA, Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 1998, p. 125): secondo un primo indirizzo la ripartizione di responsabilità, ‘‘nel pieno rispetto delle condizioni di validità formale e sostanziale della delega’’ avrebbe l’effetto di liberare il datore di lavoro (nella persona del legale rappresentante o dell’amministratore delegato) (Cass., 3 aprile 1998, n. 4162, in ISL, 1998, p. 273); secondo altre sentenze, invece, assodata l’intrasmissibilità della posizione di garanzia del soggetto di vertice, con la delega si opererebbe semplicemente un mutamento del contenuto della stessa sostituendo all’obbligo di un adempimento diretto, un dovere di vigilanza e controllo dell’attività del delegato (Cass., 12 marzo 1998, n. 1769, in ISL, 1998, p. 439; Cass., 26 novembre 1996, in Cass. pen., 1997, p. 3549; Cass., 1 agosto 1995, in Dir. prat. lav., 1995, n. 37, p. 2439). In realtà, come vedremo anche nelle sentenze in commento, l’adozione di un criterio di effettività nell’individuazione del soggetto responsabile tende ora nella pratica a risolvere questo contrasto (CULOTTA, DI LECCE CASTAGLIOLA, op. cit., p. 128. Nello stesso senso Cass., 27 maggio 1996, n. 5442, in Dir. prat. lav., 1996, p. 1851: ‘‘Le due teorie apparentemente contrapposte finiscono col coincidere sul piano pratico’’). (11) ‘‘E ciò perché la qualifica richiesta per la commissione del reato viene intesa dalla norma non già come condizione soggettiva del destinatario del precetto, bensì come situazione di titolarità, di quel fascio di poteri che permettono il compimento della condotta tipica cui la norma si riferisce’’; così VASSALLI, op. cit., p. 34; PAGLIARO, op. cit., p. 22 ss.; FIORELLA, op. cit., p. 44 ss.. Critico tra i tanti PADOVANI, op. cit., p. 45 ss. e 67 ss.; CULOTTA, DI LECCE, CASTAGLIOLA, op. cit., p. 129 nt. 17, di recente precisano che è importante non confondere il criterio della effettività, con quello ‘‘puro e semplice dell’esercizio di fatto, il quale finisce per assecondare una pericolosa tendenza a spostare sempre più a valle la ricerca del responsabile’’; in senso analogo FIORELLA, op. cit., p. 353. (12) In giurisprudenza è un orientamento risalente nel tempo: si veda ad esempio Cass., 30 marzo 1965, in Mass. Cass. pen., 1965, p. 1033; più di recente e in modo esplicito sul principio di effettività, Cass., sez. un., 14 ottobre 1992, in Dir. prat. lav., 1992, p. 3207: ‘‘l’individuazione dei destinatari delle norme antinfortunistiche deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, con assoluta prevalenza rispetto alla carica attribuita al soggetto, cioè alla sua funzione formale’’. Nello stesso senso, (anche se non con riferimento al datore di lavoro), si veda, Cass. 31 maggio 1995, n. 6284, in Dir. prat. lav., 1995, p. 1988: ‘‘colui che esercita in concreto determinate funzioni che, al di là di quella formale di cui è investito, lo obbligano a pretendere il rispetto delle norme antinfortunistiche, lo costituiscono come soggetto destinatario delle stesse’’. Di diverso avviso Cass. 20 maggio 1994, in Foro it., 1994, p. 547, la quale si oppone ad un indebito utilizzo del criterio delle mansioni di fatto: ‘‘se queste coinvolgono il soggetto che si trovi ad esercitarle, non valgono ad escludere la responsabilità di chi per legge e tenuto ad espletarle’’, e ancora ‘‘l’adozione del c.d. criterio di effettività nella individuazione del soggetto destinatario degli obblighi [...], per quanto in astratto corretta, non può portare a soluzioni incoerenti con il sistema di norme dettate a tutela dei lavoratori; norme che tendono a dilatare piuttosto che a restringere il numero dei soggetti chiamati ad attuare le misure di prevenzione ed a risponderne in caso di inadempienza’’.
— 372 — si rivela di grande utilità pratica, e dotato di « maggiore dignità, in quanto permette che la sostanza delle cose, la rerum natura trionfi sulla vuota forma » (13). Se sulla possibile efficacia di un riparto di attribuzioni la Suprema Corte concorda esplicitamente con la sentenza dei giudici di secondo grado, netto, invece, è il divario sull’interpretazione delle condizioni in presenza delle quali tale ripartizione esclude la responsabilità del datore di lavoro e sulla indagine richiesta al giudice di merito in assenza di una delega formale. La sentenza della Corte d’Appello di Milano (14), poi censurata dalla Cassazione, è, su questo punto, caratterizzata dall’ossequio a rigorosi e inderogabili canoni formali, quanto mai lontani dalla realtà dell’organizzazione aziendale, i cui processi sono, come vedremo, contraddistinti da rilevanti componenti informali (15). Vi si legge, infatti, che « non essendo emersa [...] l’esistenza di qualsivoglia forma di delega rilasciata dal legale rappresentante ad altre figure operanti nell’ambito della azienda [...], deve ritenersi [...] che destinatario delle norme in materia antinfortunistica e responsabile della sicurezza dei lavoratori è il legale rappresentante » (16); la ripartizione dei compiti, quindi, esplica i suoi effetti liberatori per il datore di lavoro solo a condizione che si provi la presenza di una delega: in mancanza, la responsabilità è inderogabilmente posta a carico del soggetto di vertice. Di opposto tenore il principio enunciato dalla Suprema Corte: l’assenza di delega non può far presumere che il rappresentante legale sia in possesso concretamente dei poteri di adempiere, ma al contrario impone al giudice del merito di indagare se altri soggetti possano aver assunto quei poteri e i correlati doveri. In altri termini il giudice deve valutare i fatti e accertare le effettive responsabilità secondo un criterio sostanziale (17). È una metodologia di individuazione del soggetto responsabile all’interno di organizzazioni complesse, che esplicitamente mette al bando qualsiasi formalismo: il giudice deve compiere ogni possibile indagine per rilevare l’effettiva dinamica dei processi aziendali e per individuare i soggetti dotati di poteri concretamente incidenti negli stessi; attività questa, più impegnativa, ma anche più rispettosa del principio della personalità della responsabile penale (18). Il nuovo orientamento dei giudici di legittimità respinge, quindi, il diffuso atteggiamento giurisprudenziale (19) che pone a carico dell’imputato l’onere di provare la delega e i suoi requisiti per essere liberato da responsabilità; è invece, il Pubblico Ministero che deve individuare chi, nell’organizzazione d’impresa, aveva i poteri in concreto necessari per agire ed impedire l’evento. È il caso di sottolineare come la posizione della Corte trovi riscontro nella (13) IORI, op. cit., p. 66. (14) App. Milano, 18 aprile 1997, n. 1813, inedita. (15) Si veda ad esempio, in un ottica economico-aziendale, con riferimento ad una recente indagine nelle aziende italiane, COLOMBO, MONTEMERLO, Gestione del consenso e processi di comunicazione nel modello italiano di management, in Economia & management, 1993, 6, p. 100 ss. (16) Si veda in favore di una delega formale, Cass., 3 aprile 1998, n. 4162, in ISL, 1998, p. 273; Cass. pen., 11 marzo 1998, n. 3112, ivi, 1998, p. 271; Cass., 23 marzo 1998, n. 3602, cit., p. 335; Cass., 17 ottobre 1997, n. 9379, cit., p. 677; Cass., 29 aprile 1997, cit., p. 1647. (17) Si veda sulla necessità di attenersi al dato sostanziale STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al Codice Penale, Padova, 1999, terza ed., sub art. 40 cpv., p. 150 ss. (18) Sulla funzione guida di questo principio nel diritto penale dell’impresa, ALESSANDRI, Impresa, cit., p. 197 ss. (19) Si vedano per un orientamento meno rigido Cass., 28 dicembre 1994, n. 13114, Dir. prat. lav., 1995, p. 579, in cui si richiede non la forma, ma comunque, ‘‘la prova rigorosa della delega, che può consistere in un comportamento univoco, nel quadro dello Statuto di un ente, quale la istituzione di una filiale cui sia preposto un direttore’’, e Cass., 2 ottobre 1992, n. 9616, ivi, 1992, p. 2868 che ammette l’esonero da responsabilità del garante originario anche ‘‘qualora la delega risulti pacificamente esercitata di fatto, pur se non scritta, né comunque esplicitata’.
— 373 — realtà dell’impresa: la teoria dell’organizzazione aziendale ha da tempo appurato sia il carattere plurisoggettivo dei processi decisionali (20), sia la forte componente informale (21) che contraddistingue gli stessi. Da ciò discendono due precise indicazioni di metodo per il giudice penale: innanzitutto « tener conto delle attività dei singoli non in modo atomistico, bensì come flusso costante di relazioni, informazioni, e prescrizioni » (22); in secondo luogo, considerare che il grado di decentramento in una struttura organizzativa « non è rilevabile direttamente dal disegno formale dell’organigramma, e spesso nemmeno dai mansionari, dato che si verificano di frequente scostamenti anche notevoli tra quanto definito in modo esplicito e quanto è prassi normale in azienda » (23) e, quindi, valutare le responsabilità attraverso il criterio sostanziale. Ma non basta. A questa informalità dei processi decisionali spesso si accompagna una organizzazione dell’impresa articolata in diversi sotto-gruppi secondo la specializzazione delle funzioni. Questa tipologia organizzativa pone una serie di problemi di comunicazione e collegamento tra i vari settori. I membri dei sottogruppi sono, infatti, legati da un forte vincolo di solidarietà, da uno spirito di corpo, con la conseguenza che nei rapporti intraziendali tendono a sostenere gli interessi particolaristici del gruppo, a difenderne l’autonomia e il « buon operato », anche a discapito del razionale svolgimento dell’attività d’impresa: tra i diversi gruppi vi è competizione, rivalità, diffidenza (24); si incrementano le difficoltà di interazione, collaborazione e comunicazione (25), fino a giungere ai casi patologici di manipolazione dei flussi informativi strumentali alle decisioni operative (26). È evidente che chi decide fa affidamento, per colmare il proprio deficit conoscitivo, sulle informazioni trasmesse, e che, se queste sono imprecise, incomplete, o false, egli non può essere ritenuto responsabile delle proprie scelte sulla sola base della carica sociale formalmente ricoperta (27). Si badi poi al fatto che l’orientamento giurisprudenziale « formalista » tende, (20) Il potere decisionale nelle organizzazioni complesse non si risolve nell’atto della scelta, ma va piuttosto inquadrato come controllo su un processo decisionale a carattere plurisoggettivo: infatti la prima fase di tale processo è la semplice raccolta delle informazioni su ciò che può essere fatto; la seconda, il consiglio su ciò che dovrebbe essere fatto; la terza, la scelta di ciò che si vuole venga fatto; la quarta consiste nell’autorizzazione di quella scelta; e infine la fase della concreta esecuzione (MINTZBERG, Structure in Fives. Designed Effective Organizations, trad. it. La progettazione dell’organizzazione aziendale, Bologna, 1996, p. 165 ss.; PATERSON, Management Theory, London, 1967). (21) MINTZBERG, op. cit., p. 178; PERRONE, Le strutture organizzative d’impresa, Milano, 1990, p. 373. (22) ALESSANDRI, Impresa (responsabilità penale), cit., p. 199. (23) PERRONE, op. cit., p. 376. (24) Anche gli studi aziendalistici sottolineano la necessità di ‘‘tener conto della natura umana così come noi la conosciamo’’; v. PERRONE, op. cit., 89 ss.; MINTZBERG, op. cit., p. 101 ss. (25) Per una analisi economico-aziendalistica del fenomeno si veda NELLI, La comunicazione interna nell’economia dell’azienda, Milano, 1994, 94 ss. (26) Tale fenomeno è stato rilevato nella letteratura penalistica, soprattutto nordamericana, con riferimento al dibattito sulla responsabilità penale della persona giuridica; si veda soprattutto COFFEE, No Soul to Damn. No Body to Kick: An Unscandalized Inquiry into the Problem of Corporate Punishment, in Mich. L. R., 1981, p. 393-394; poi MILLER, Federal Sentencing Guidelines for Organizational Defendants, in Vanderbilt L. R., 1993, p. 208 s.; FISSE, Reconstructing Corporate Criminal Law: Deterrence, Retribution, Fault, and Sanctions, in South. Cal. L. R., 1983, v. 56, p. 1216. Nella letteratura italiana, DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 107 ss.; in una più ampia prospettiva di politica criminale STELLA, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998, 459 ss. (27) I comportamenti descritti nel testo sono, naturalmente, solo un esempio dell’estrema complessità e irrazionalità della dinamica aziendale messa in luce dagli studi di sociologia dell’organizzazione, i quali, non a caso, dagli anni ’50, hanno abbandonato l’approccio ‘‘prescrittivo’’ della teoria economica classica, per adottare un approccio ‘‘previsivo’’, basato sull’osservazione degli effettivi comportamenti organizzativi; è stata cosi, per la prima volta, messa in luce — da CYERT, MARCH, A Behavioral Theory of the Firm, New Jersey, 1963 — la ‘‘razionalità limitata’’ dell’organizzazione d’impresa. Si veda BONAZZI, Dire, fare, pensare. Decisioni e creazione di senso nelle organizzazioni, Milano, 1999, p. 14 ss.
— 374 — paradossalmente, ad assecondare comportamenti aziendali antitetici ad una effettiva tutela della sicurezza soprattutto in quelle strutture produttive che adottano tecnologie complesse. L’imposizione di una rigida e formale ripartizione di funzioni orienta, infatti, la struttura aziendale verso un modello taylor-fordista di organizzazione, dominante fino alla metà del secolo, ma ormai superato, in quanto riduttivamente incentrato sulla « logica dell’efficienza », e finalizzato alla ricerca della minimizzazione dei costi in rapporto alla quantità della produzione (28). Tale modello diviene assolutamente inutilizzabile per la gestione delle odierne tecnologie, che esigono, viceversa, di seguire e praticare una « logica della affidabilità », basata sulla costante interazione tra i diversi soggetti, sull’incessante circolazione di comunicazioni formali ed informali, sul collegamento tra i diversi livelli di esperienze e di apporti conoscitivi: solo in questo modo l’organizzazione realizza « prestazioni coscienziose » (heedful performance) (29), tese cioè a prevenire ed eliminare gli attuali rischi delle attività produttive (30). L’impostazione della Corte è, in conclusione, da condividere proprio perché, indirizzando la ricerca sulla sostanza dei comportamenti aziendali, conferma che la posizione di garanzia avente ad oggetto il controllo di una specifica fonte di pericolo (31) deve essere determinata e delimitata dalla correlazione tra poteri e doveri: il dovere di attivarsi risulta legato al possesso di poteri (effettivi) adeguati all’adempimento (32), e questi potranno sussistere a prescindere dalla elaborazione formale della delega. Senza dubbio tale indirizzo lascia indeterminata la componente giuridica di tali posizioni esaltandone, viceversa, quella fattuale; ma tenendo conto delle recenti valutazioni negative sulla regolamentazione dei reati omissivi impropri formulate da autorevole dottrina (33), e della indeterminatezza delle posizioni di garanzia anche nella più recente legislazione antinfortunistica (34), si può forse rite(28) Più diffusamente BONAZZI, op. cit., p. 198. (29) Per un approfondimento di questi spunti si veda BONAZZI, op. cit., p. 197 ss., il quale fonda le proprie argomentazione su recenti lavori di WEICK, Collective Mind in Organizzations: Huful Interrelating on Flight Decks, in Administrative Science Q., 1993, v. 38, 357 ss.; ID., The Collapse of Sensemaking in Organizations: The Mann Gulch Disaster, ivi, 1993, v. 38, p. 628 ss. Quest’ultimo autore (che ha rivoluzionato la prospettiva degli studi sull’organizzazione sviluppando il concetto di sensemaking) utilizza, per spiegare il rapporto tra i diversi soggetti di una organizzazione che gestisce tecnologie complesse, l’espressione ‘‘processi mentali collettivi’’, riferendosi metaforicamente alle connessioni tra i neuroni della mente. (30) Queste considerazioni costituiscono, evidentemente, ulteriori motivi di riflessione a favore della responsabilità penale della persona giuridica. Si veda, per un recente approfondimento della tematica nell’ordinamento italiano ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), in questa Rivista, 1995, p. 1038 ss.; PALIERO, Problemi e prospettive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 1173 ss. (31) Sulle posizioni di garanzia aventi ad oggetto il controllo di una fonte di pericolo si veda ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1995, vol. I, sec. ed., p. 359; GRASSO, op. cit., p. 320; FIANDACA, op. cit., p. 190. (32) Si veda, per una decisa presa di posizione in proposito, la Relazione della Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale presieduta dal prof. GROSSO, pubblicata in questa Rivista, 1999, p. 600 ss., e in particolare p. 612. (33) ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., p. 364, il quale esprime preoccupazione ‘‘per una alternativa inquietante: o la posizione di garanzia, che è elemento costitutivo dei reati omissivi impropri, non è prevista dalla legge, e allora è violato il principio della riserva di legge, o è invece prevista, ma con scarsamente tollerabile genericità e approssimazione, e allora è violato il principio di determinatezza [...]’’. (34) La stessa previsione normativa di più garanti (datore di lavoro, dirigenti, preposti) coinvolti negli adempimenti antinfortunistici non è, infatti, mai stata interpretata in modo univoco: si è sostenuto che tale previsione non ha l’attitudine a rendere a priori esclusiva la responsabilità dei soggetti intermedi, permanendo in capo al datore di lavoro un dovere di vigilanza (PADOVANI, op. cit., p. 102-114); che la predisposizione di diversi garanti nulla dice in ordine ad eventuali ripartizioni di competenze e responsabilità, alle quali dovrebbe procedersi in base alle norme interne all’impresa che rilevano ai sensi dell’art. 43 c.p., sicché ‘‘la distribuzione dei compiti antinfortunistici tra i diversi anelli della compagine aziendale rinviene il proprio piano di rilevanza non già al livello delle posizioni di garanzia ad essi rispettivamente
— 375 — nere che questo deficit formale sia il prezzo da pagare per una responsabilità penale veramente « personale ». Va, peraltro, precisato che, secondo la sentenza annotata, i giudici di merito avrebbero dovuto preventivamente accertare « se esistesse un soggetto responsabile alla sicurezza in base ad una delega valida e completa nei sensi chiariti dalla giurisprudenza richiamata »: in altre parole prima di analizzare il « dato sostanziale », la Corte d’Appello avrebbe dovuto comunque verificare la sussistenza di una delega. 3. Un passo ulteriore è compiuto dalla sentenza del 26 febbraio 1998 n. 681, in materia di igiene dei prodotti alimentari, quando afferma che, a determinate condizioni, l’esigenza di una delega è « superata », « assorbita » e « resa superflua ». Questa sentenza, emessa dalla terza sezione della Suprema Corte a pochi giorni di distanza dalla prima, sembra costituire un completamento di quella, sia per la maggiore chiarezza e completezza argomentativa, sia per l’indicazione del sostrato giuridico che deve accompagnare il concreto esercizio della funzione. È bene tuttavia chiarire come il compito della Suprema Corte in questa fattispecie fosse ben più semplice per la diversa struttura delle norme incriminatrici che si trattava di applicare (35): la normativa prevenzionistica prevede, come s’è visto (36), più livelli di garanzia, con la conseguente difficoltà, incrementata dalla mancanza di una ratio coerente nel disegno legislativo, di verificare se e come la pluralità di livelli incida sulla ripartizione delle responsabilità; nella legge del 30 aprile 1962 n. 283, invece, il soggetto attivo è identificato impersonalmente con la semplice descrizione della condotta prevista dalla norma come reato: sembrerebbe, quindi, che il legislatore abbia previsto delle ipotesi di reati comuni. Nonostante qualche voce contraria (37), può tuttavia ritenersi che si tratti di reati apparentemente comuni: « condotte in apparenza impersonali come il proriferibili, quanto, piuttosto, sotto il profilo di un addebito di colpa a carico di ognuno di tali garanti di volta in volta formulabile’’, (M. MANTOVANI, op. cit., p. 350 ss., 390); che ‘‘l’ambito di doveri derivante dall’essere dirigente o preposto è determinato direttamente dalla legge, e non dall’atto di attribuzione di dato incarico’’ (PULITANÒ, Igiene e sicurezza del (tutela penale), cit., p. 109; in senso analogo PALOMBI, op. cit., p. 279); che non si tratta né di deleghe, né di ripartizioni di competenze, perché qui è il legislatore stesso a configurare specifiche responsabilità in capo a dirigenti e preposti (SMURAGLIA, Diritto penale del lavoro, Padova, 1980, p. 53-54). Un recentissimo orientamento della giurisprudenza di legittimità, valorizzando la previsione nella legislazione antinfortunistica di dirigenti e preposti (come soggetti garanti insieme al datore di lavoro), sembra confermare quest’ultima impostazione. Si afferma, infatti, che i soggetti intermedi rispondono a prescindere dall’aver ricevuto apposita delega da parte del datore di lavoro e che ‘‘non è accettabile che il preposto non possa rispondere della omissione in quanto non risultano essergli state delegate funzioni relative alla sicurezza del lavoro’’, precisando poi che ‘‘se tali funzioni gli fossero state delegate ciò avrebbe consentito di escludere la responsabilità di altri, mentre l’assenza di delega non incide sui compiti incombenti sul preposto in virtù della stessa sua qualifica rivestita’’ (Cass., 17 marzo 1998, n. 3364, in ISL, 1998, p. 438). In senso analogo con riferimento ad un dirigente, Cass., 2 dicembre 1998, n. 4678, ivi, 1998, p. 46. (35) Deve essere sottolineato come proprio tale diversa struttura aveva reso controversa l’estensione della delega dal suo ambito originario (legislazione prevenzionistica) ad altri settori normativi. Il dibattito è stato condotto soprattutto in materia di inquinamento: si veda ad esempio Cass., 16 marzo 1992, in Dir. prat. lav., 1992, 19, p. 1292, dove si legge che ‘‘l’istituto della delega di funzioni [...] in mancanza di una previsione esplicita (come avviene in tema di sicurezza del lavoro, ove sono contemplate figure tipiche di responsabili nel datore di lavoro, dirigente, preposto) non può trovare applicazione nella materia dell’inquinamento delle acque’’. Viceversa in Cass., 18 aprile 1988, in Giust. pen., 1990, Il, p. 17, e più di recente Cass., 27 maggio 1996, in Dir. prat. lav., 1996, 26, p. 1851 e in Foro it., 1997, n. 7-8, p. 490, con nota di LA SPINA, alla quale si rinvia per una efficace sintesi delle diverse posizioni su tale questione e per i necessari riferimenti giurisprudenziali. Si veda per le diverse tecniche di individuazione dei soggetti attivi all’interno dello stesso diritto penale del lavoro, PADOVANI, Diritto penale del lavoro, cit., p. 26 ss. ed in particolare 37 ss. (36) Si veda la nota 34. (37) PACILEO, Reati alimentari, Milano, 1995, p. 96-97.
— 376 — durre, il detenere, il porre in vendita [...] quando si innestano in una attività di impresa trovano il loro naturale punto di imputazione, la loro titolarità, nell’imprenditore » (38). Ma è d’altra parte evidente che, non avendo esplicitamente elevato il titolare dell’impresa a soggetto attivo, il legislatore ha astrattamente previsto la possibilità che anche diversi collaboratori possano, a seconda della suddivisione dei compiti, porre in essere le condotte vietate, non sembrando queste indissolubilmente legate alla soggettività dell’imprenditore (39). Quindi, il non aver strutturato formalmente i diversi livelli di responsabilità nei reati in questione facilita il compito dell’interprete nella individuazione dei soggetti concretamente responsabili, assegnando valore decisivo all’autonomia privata e alla concreta assunzione dei poteri di adempiere. Di tali affermazioni troviamo conferma nel principio di diritto enunciato dalla Corte regolatrice, secondo il quale « in una azienda di notevoli dimensioni l’esigenza della delega è superata ed assorbita dalla predeterminata suddivisione dei servizi, delle attribuzioni e dei compiti; per altro verso essa è resa superflua dall’investimento della funzione tipica nonché dal suo concreto esercizio secondo la disciplina prestabilita dai contratti collettivi o individuali oppure secondo norme o regolamenti interni, corrispondenti ad esigenze effettive e costanti in azienda ». In altre parole la disciplina dell’organizzazione, che ha come fonte la legge e l’autonomia privata, precisa la ripartizione delle competenze, l’attribuzione dei poteri e la determinazione dei rispettivi obblighi tra i collaboratori dell’imprenditore, e rileva come piattaforma su cui avviare ogni indagine diretta ad accertare responsabilità individuali, sia sul terreno della causalità che sul terreno della colpevolezza (40). Nella stessa sentenza è, d’altronde, esplicito il richiamo all’art. 27 Cost. e all’art. 40 c.p. per escludere la responsabilità del titolare della catena di supermercati. La ripartizione dei compiti e delle funzioni, dunque, oltre che essere un imprescindibile strumento per il razionale svolgimento dell’attività d’impresa, assume una precisa rilevanza giuridica esterna per l’accertamento delle responsabilità (41); e il decentramento non si configura come una modalità di elusione del precetto penale, ma trova la sua ragion d’essere nel fatto che l’esclusività della garanzia in capo al vertice dell’impresa è fortemente limitativa delle possibilità di tutela (42), oltre che contrastante con la personalità della responsabilità penale. Ovviamente, assegnato tale ruolo all’organizzazione del lavoro, e individuata (38) Così PEDRAZZI, Profìli problematici del diritto penale dell’impresa, cit., p. 131; nello stesso senso PAGLIARO, op. cit., p. 19; più di recente ALESSANDRI, Parte generale, in PEDRAZZI, ALESSANDRI, FOFFANI, SEMINARA, SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 1998, p. 45. Sicuramente
l’accennata originaria ‘‘titolarità’ di tali condotte in capo al vertice dell’impresa deve essere intesa in modo corretto e non strumentalizzata per affermare, come è stato fatto dalla Suprema Corte, che ‘‘tutto ciò che viene compiuto dai dipendenti non può che essere frutto di ordini, disposizione e volontà del titolare’’ (Cass., 10 marzo 1997, n. 384, inedita, in tema di ‘‘frode nell’esercizio del commercio’’ ex art. 515 c.p.). Un simile ‘‘principio giurisprudenziale’’, sicuramente utile mezzo di semplificazione probatoria allorché la pluralità dei soggetti dell’organizzazione imprenditoriale rende difficoltoso l’accertamento di una responsabilità penale ‘‘personale’’, non può essere accolto. (39) Ci si vuole riferire all’esistenza di norme che prevedono la responsabilità esclusiva del soggetto di vertice in ragione ‘‘della particolare rilevanza che assume, nella struttura di questi reati propri, la componente normativa rappresentata dall’abuso di poteri e dalla violazione di doveri funzionali, a loro volta inscindibili da premesse extrapenali’’: così PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, cit., p. 136. (40) VASSALLI, op. cit., p. 24 ss. Richiama tale concetto anche PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, cit., p. 138: ‘‘la distribuzione di compiti e di responsabilità ha un preciso sbocco normativo: è la legge che dispone sia pure per relationem’’. (41) IORI, op. cit., p. 48. (42) Quindi, la scomposizione di poteri e doveri è ‘‘non solo ammissibile, ma talvolta può essere perfino doverosa’’. Così già SGUBBI, Responsabilità per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1979, p.
— 377 — la effettiva e concreta ripartizione di competenze, il giudice non può più subordinare la liberazione del delegante all’esistenza di una delega, come invece sostenuto dalla Corte d’Appello di Venezia che, infatti, aveva condannato l’imputato asserendo la mancanza di una delega formale e di una specifica attribuzione di compiti (43). Riesce peraltro difficile comprendere perché la Suprema Corte subordini l’applicazione dei « nuovi principi » alle dimensioni dell’azienda (44): trattandosi « di accertare se al destinatario originario sia, per effetto della delega, subentrato un diverso soggetto provvisto dei poteri necessari a produrre la condotta tipizzata dalla norma, le dimensioni dell’impresa (45) risultano del tutto inconferenti per la soluzione della questione » (46). Oltretutto, non può certo essere negata l’esistenza di strutture produttive in cui, a prescindere dalle dimensioni, è necessario conferire ogni potere al dipendente in ragione dell’alta qualificazione professionale posseduta: in tali casi l’ampia discrezionalità di cui godono i collaboratori e la correlata responsabilizzazione per le scelte effettuate, impongono all’imprenditore di conferire la più larga autonomia (e quindi di attuare il massimo decentramento), e limitano conseguentemente la possibilità di un controllo sul loro operato (47). 4. Dopo essersi soffermata sulle condizioni del trasferimento di funzioni e aver escluso una aprioristica responsabilità per posizione del legale rappresentante in assenza di delega, la Corte si sofferma sugli effetti della ripartizione di compiti aventi rilevanza penalistica, con riferimento ai collaboratori delegati e ad un residuo obbligo di vigilanza in capo all’imprenditore. Su quest’ultimo punto dice qualcosa di più, e di diverso, rispetto alla prima sentenza annotata. I giudici di legittimità sembrano, infatti, aderire a quelle impostazioni inclini a riconoscere nell’affidamento ad altri soggetti di compiti di vigilanza su determinate fonti di pericolo, l’attitudine a creare una nuova posizione di garanzia in capo al delegato e a modificare già dal punto di vista oggettivo il contenuto degli obblighi gravanti sul delegante: costui, pur non essendo tenuto ad un adempimento personale, rimane comunque obbligato a svolgere una « attività di coordinamento organizzatorio, di direzione o di controllo » (48). 191. Successivamente PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, p. 137; PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), cit., p. 107. (43) Nello stesso senso in materia di infortuni sul lavoro si veda la giurisprudenza citata alle note 5 e 15. (44) Tale indirizzo finisce con il fare riferimento ‘‘al potere (naturalistico) di esercitare una certa quantità di funzioni come presupposto generale del dovere di esercitarle’’, FIORELLA, op. cit., p. 319. Anche nella sentenza annotata si accenna alla impossibilità di adempiere direttamente come presupposto del decentramento. (45) Paradossalmente talvolta i problemi maggiori sono quelli posti dalla piccola impresa. Queste ultime possono essere organizzate secondo la logica del ‘‘gruppo di pari’’, in cui l’imprenditore sceglie di coinvolgere e motivare i suoi collaboratori rinunciando all’accentramento gerarchico per consentire viceversa la massima flessibilità. Il livello di specializzazione di queste strutture è basso, e ciò, congiuntamente al limitato numero di membri, comporta che tutti partecipano alla gestione dell’impresa e siano disponibili, in condizioni di emergenza a svolgere una pluralità di compiti anche molto diversi tra loro (PERRONE, op. cit., p. 61 ss., 458). I problemi di applicazione dello strumento penale saranno allora innanzitutto la possibile frantumazione e dispersione delle responsabilità individuali, e in secondo luogo il problema dell’assunzione volontaria di compiti di controllo su determinate fonti di pericolo. Si veda su quest’ultimo punto ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., p. 361; GRASSO, op. cit., p. 262 ss., i quali, però, sviluppano le proprie argomentazioni soprattutto in relazione ad obblighi di protezione. (46) Così VASSALLI, op. cit., p. 33. Critico verso il requisito delle notevoli dimensioni anche PADOVANI, op. cit., p. 61 ss. (47) MINTZBERG, op. cit., p. 315 s. (48) GRASSO, op. cit., p. 439 ss.; PULITANÒ, Igiene e sicurezza sul lavoro (tutela penale), cit., p.
— 378 — Per quanto riguarda gli effetti del decentramento nei confronti dei collaboratori incaricati della gestione di diversi supermercati, la Corte constata che costoro erano in possesso dei « massimi poteri organizzativi e decisionali » anche con riferimento ai prodotti posti in vendita; e da ciò deduce la titolarità di un’autonoma posizione di garanzia relativamente alle strutture commerciali cui erano preposti. Un cenno a parte merita il profilo degli obblighi di controllo che, anche in presenza di una ripartizione dei compiti, continuerebbero a gravare sul titolare dell’azienda (49). La sentenza annotata adotta una soluzione a ragione limitativa del « residuo non delegabile » (50): una volta che il soggetto di vertice abbia adempiuto ai doveri primari imposti dalla sua posizione strutturando l’organizzazione in modo idoneo alla salvaguardia dei beni penalmente tutelati, e che lo stesso si sia curato di predisporre un apparato finalizzato al controllo della persistenza di tali condizioni di idoneità, « non è neppure consentito il giudizio di colpevolezza sotto il profilo della colpa in vigilando » (51). Sembra utile segnalare a riguardo il recente D.Lgs. 26 maggio 1997, n. 155 (52): un provvedimento che, in attuazione di direttive comunitarie, impone alle « industrie alimentari » l’adozione di un sistema (detto nella rubrica dell’art. 3 « autocontrollo ») di « analisi dei rischi e di controllo dei punti critici », finalizzato a individuare nella propria attività ogni fase che potrebbe rivelarsi critica per la sicurezza degli alimenti e a garantire che siano individuate, applicate, mantenute ed aggiornate le adeguate procedure di sicurezza; e individua il soggetto, tenuto a garantire che il processo aziendale, in tutte le sue fasi, dalla preparazione alla fornitura dei prodotti alimentari, sia effettuato in modo da garantire l’igiene dei relativi prodotti, nel « responsabile dell’industria alimentare » definito come « il titolare dell’industria alimentare ovvero il responsabile specificatamente delegato » (art. 2). A parte l’estensione anche a questo settore di un sistema a carattere preventivo di valutazione dei rischi, valutazione che si presenta « diagnostica » ed al contempo « terapeutica » (53) (in funzione cioè non solo di giudizio sulle condizioni esistenti, ma anche di programmazione delle misure necessarie a controllare i rischi emersi), ciò che deve essere sottolineata è proprio la disposizione che esplicitamente ammette la delega di funzioni ed una efficacia oggettiva della stessa. Il termine « ovvero » svolge una funzione inequivocabile: per il tramite di una « delega specifica » (54) la responsabilità del soggetto di vertice, primo garante ex 107 ss., si riferisce piuttosto al dovere di vigilanza e di intervento su situazioni conosciute o che si sarebbe dovuto conoscere. (49) In argomento: sui limiti applicativi dell’art. 40 cpv. c.p. nelle fattispecie monosoggettive si veda ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., p. 352 ss. (anche per ulteriori riferimenti bibliografici); per una evidenziazione della differenza tra obblighi di garanzia e obblighi di sorveglianza, e sulla incapacità dell’art. 40 cpv. c.p. di disciplinare anche quest’ultimo, vedi FIORELLA, op. cit., p. 184 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 197 s.; e in maniera più netta VASSALLI, op. cit., p. 34 ss. Sui limiti della predetta norma nella materia degli infortuni sul lavoro e per la necessità di introdurre una norma di agevolazione colposa vedi ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, p. 226 ss. (50) L’espressione è di PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), cit., p. 108, con riferimento alla sicurezza sul lavoro: ‘‘non delegabile è il potere dovere di organizzare l’impresa in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi di terzi messi in gioco nello svolgimento della attività d’impresa e perciò oggetto della garanzia dovuta dall’imprenditore’’. (51) Il profilo della culpa in eligendo non era stato neppure affrontato dalla Corte d’Appello, la quale quindi aveva ritenuto congrui i criteri di scelta adottati nella scelta dei collaboratori. (52) Si veda per un commento a questo provvedimento MESSINEO, PESCI, Controllo sull’igiene degli alimenti, in ISL, 1998, n. 5, p. 217 ss.; SALAMANA, Alimenti: l’attività di controllo ufficiale, ivi, 1999, n. 5, p. 265 ss. (53) Sono parole usate da PADOVANI, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 1163. (54) La laconicità del testo non permette di trarre indicazioni utili all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sulla delega, ma è viceversa portatrice di ulteriori dubbi; la norma prevede che il re-
— 379 — lege dei rischi derivanti dall’attività d’impresa, potrà essere trasferita ad altro soggetto che assumerà i relativi poteri. È la legge stessa a conferire all’autonomia privata la possibilità di trasferire validamente una situazione tipica di obbligo (55): nessun riferimento, quindi, alla persistenza, in capo al titolare dell’impresa, di un « residuo non delegabile » (56). Un cenno, da ultimo, al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (come modificato dal D.lgs. 19 marzo 1996, n. 242): si tratta di un testo normativo chiaramente in « controtendenza » rispetto al quadro fin qui delineato, e che solleva fondati dubbi di illegittimità costituzionale. In effetti il D.Lgs. 626/1994 non solo « scarica » sul privato funzioni pubbliche, di competenza cioè del parlamento o delle regioni e di enti o organi delegati dal potere legislativo (valutazione del rischio e giudizio di idoneità sulle norme tecniche da adottare), ma — statuendo la indelegabilità della funzione di valutazione del rischio — finisce per delineare una ipotesi di responsabilità « di posizione » (57): l’assenza di competenze specialistiche in capo al datore di lavoro rende di fatto, impossibile un suo controllo sulla adeguatezza dell’operato dei tecnici che procedono alla valutazione del rischio (artt. 8 e 9 D.Lgs. 626/1994). Sembra, dunque, palese la violazione del principio della personalità della responsabilità penale (art. 27 primo comma Cost.) ogni qual volta il datore di lavoro venga chiamato a rispondere, sulla base dell’art. 40 cpv. c.p., di un evento lesivo per « insufficiente valutazione dei rischi »; come sembra consistente il pericolo che l’individuazione delle norme tecniche adeguate venga effettuata ex post dal giudice penale con violazione del principio che gli preclude qualsiasi opera di creazione legislativa (art. 25 secondo comma Cost.) (58). FRANCESCO CENTONZE Assegnista di diritto penale presso l’Università Cattolica di Milano
sponsabile sia ‘‘specificatamente’’ delegato e tale attributo della delega è stato utilizzato, come visto, in diverse pronunce della giurisprudenza sugli infortuni sul lavoro, senza che peraltro sia dato intenderne il preciso significato: ossia se la specificità attiene al contenuto (vedi Cass., 23 aprile 1996, cit., nella quale si parla di ‘‘specifico e puntuale contenuto della delega’’), ovvero alla forma (Cass. 2 ottobre 1987, in Mass. giur. lav., 1988, p. 728) e alla prova (ad esempio Cass., 8 settembre 1994, in Cass. pen., 1995, m. 2024) della delega. La questione potrebbe apparire oziosa se non si ponesse mente al fatto che la delega è istituto di creazione prettamente giurisprudenziale, e che in concreto l’imprenditore deve avere certezze nell’adeguarsi ai precetti legislativi, soprattutto nel caso in cui la violazione degli stessi comporti l’irrogazione della sanzione penale. (55) Sembra accolta in sostanza l’impostazione di FIANDACA, op. cit., p. 202 nt. 48: ‘‘il datore di lavoro può sempre delegare totalmente funzioni di garanzia’’. (56) Di diverso avviso SALAMANA, op. cit., p. 266. (57) Si vedano in proposito le argomentazioni di STELLA, riportate in Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 1999, p. 17; fondamentale, poi, il saggio di SCHÜNEMANN, Die Regeln der Technik im Strafrecht, in Festschrif für K. Lackner, Berlin, 1987, p. 367 ss. (58) Sul ‘‘principio di precisione’’ come espressione della riserva di legge e limite al potere giudiziario, si veda MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1999, vol. I, p. 57 ss.
CASSAZIONE PENALE — sez. VI — 17 febbraio 1999 Pres. D’Asaro — Est. Colla Collegio per i procedimenti relativi a reati ministeriali - Competenza funzionale Funzione di giudici per l’udienza preliminare - Sussistenza (l. n. 1/1989). Spetta al Collegio istituito ai sensi della l. n. 1 del 1989 la funione di giudice dell’udienza preliminare competente a pronunciarsi sul rinvio a giudizio (1). (Omissis). — Con Trib. Napoli, ordinanza 2 marzo 1998 — Collegio per i procedimenti relativi ai reati previsti dall’art. 96 cost., istituito ai sensi della l. 16 gennaio 1989, n. 1 — pronunciando quale giudice dell’udienza preliminare sulle eccezioni di incompetenza funzionale e di illegittimità costituzionale degli artt. 1 commi 3 e 5, e 3 comma 1, l. 5 giugno 1989, n. 219, in riferimento agli artt. 8 e 9 comma 4 l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, sollevate dalla difesa dichiarava la propria incompetenza funzionale a pronunciare sulla richiesta di rinvio a giudizio nel procedimento a carico dell’ex ministro della Repubblica Francesco De Lorenzo e di altri cinque indagati per alcuni episodi di corruzione riferibili all’epoca dell’esercizio delle funzioni ministeriali del De Lorenzo. Rimetteva, conseguentemente, gli atti al pubblico ministero presso il Tribunale di Napoli per la prosecuzione del processo secondo le norme ordinarie, ex art. 416 c.p.p., chiedendo il rinvio a giudizio al competente giudice dell’udienza preliminare. Osservava il Collegio che la preferibile interpretazione delle norme della legge costituzionale e della relativa normativa di attuazione sopra ricordate portavano ragionevolmente a concludere, anche alla luce dei princìpi della Costituzione desumibili dagli artt. 3 e 24 cost., che i suoi poteri si erano esauriti con la richiesta di autorizzazione a procedere. Contro tale decisione sulla competenza insorgeva il giudice dell’udienza preliminare — ritualmente investito della richiesta di rinvio a giudizio — il quale, andando di diverso avviso e dichiarandosi a sua volta incompetente, rimetteva gli atti a questa Corte per la risoluzione dell’insorto conflitto di competenza. Secondo il Collegio per i procedimenti relativi ai reati ministeriali di Napoli, la competenza del giudice dell’udienza preliminare doveva ricavarsi dal complesso delle norme che disciplinano la materia, in base alle seguenti considerazioni. 1) L’art. 3 comma 1 l. n. 219 del 1989 — il quale stabilisce che « quando gli atti siano stati rimessi, ai sensi del comma 4 dell’art. 9 l. cost. n. 1 del 1988, al Collegio ivi indicato, il procedimento continua secondo le norme ordinarie vigenti al momento della rimessione » —, collegato logicamente al comma 2 — che afferma che « nei casi di cui al comma 1, il Collegio provvede senza ritardo a trasmettere gli atti al procuratore della Repubblica presso il Tribunale indicato nell’art. 11 l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1 » —, dimostrerebbe come il procedimento debba nuovamente essere disciplinato dalla normativa ordinaria vigente, giacché, al contrario, non avrebbero alcun significato i riferimenti testuali alle espressioni « procedimento » e « norme ordinarie » che si rinvengono nella disposizione, né avrebbe senso la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica competente secondo le disposizioni del codice processuale dopo la concessione dell’autorizzazione a procedere.
— 381 — 2) Importanza fondamentale avrebbero, poi, i lavori parlamentari nella parte in cui il senatore Elia, relatore al Senato della Repubblica sul disegno di legge, aveva precisato che la modifica apportata dalla Camera dei deputati al testo della norma dell’art. 9 comma 4, poi divenuto testo definitivo poteva « essere accolta solo qualora si intendesse che il Collegio non compia ulteriore attività istruttoria dopo quella preliminare ma che esso si limita a ‘‘trasmettere gli atti al pubblico ministero’’ perché il procedimento continui, coerentemente ‘‘con i principi che ispirano la nuova normativa che ha inteso attribuire al giudice ordinario ... la competenza dei reati ministeriali e presidenziali’’ », e aveva ulteriormente chiarito che la norma, pur lasciata inalterata, doveva essere letta diversamente da come prospettato dalla Camera: l’espressione « perché continui il procedimento » andava intesa nel senso « affinché il procedimento continui » (con significato intransitivo del verbo) e non già nel senso di « perché faccia continuare il procedimento » (dove il verbo « continuare » è transitivo ed il soggetto della proposizione rimane il collegio). 3) Tutto il sistema della legge costituzionale sopra citata e delle relative disposizioni attuative (e, in particolare, le norme dell’art. 6, comma 2 l. cost. n. 1 del 1989 e dell’art. 1 comma 2 l. n. 219 del 1989) dimostrerebbe che le funzioni del collegio speciale sono finalizzate esclusivamente alla valutazione della fondatezza della notitia criminis e si esauriscono con l’archiviazione o con la richiesta di autorizzazione a procedere: solo in tale fase il collegio — in via del tutto eccezionale — si sostituirebbe al pubblico ministero, con poteri di impulso processuale. 4) L’esiguità del termine — molto più breve di quello ordinario — entro il quale il collegio deve compiere l’indagine ai fini valutativi della fondatezza della notitia criminis, confermerebbe che solo nella fase anteriore alle richieste all’organo deputato a concedere l’autorizzazione a procedere si giustifica la commistione di ruoli di pubblico ministero e di giudice per le indagini preliminari in capo al collegio medesimo. 5) L’obbligo del collegio di disporre l’archiviazione in caso di diniego di autorizzazione come atto dovuto, e la mancanza, in tal caso, di ogni altro potere di indagine rappresenterebbero elementi che rafforzano la tesi sostenuta. 6) La contraria soluzione lascerebbe aperta la strada a gravi sospetti di legittimità costituzionale delle norme cardine che disciplinano il sistema: tali norme, infatti, in sostanziale violazione delle disposizioni costituzionali sopra citate e anche dell’art. 34 c.p.p. — che disciplina l’incompatibilità del giudice — attribuirebbero all’organo collegiale di cui si discute, già pronunciatosi con la motivata richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera competente, il potere di decidere, con funzione di giudice, sulla richiesta di rinvio a giudizio. Né tali conclusioni potrebbero superarsi con la considerazione che simile eventualità potrebbe essere evitata grazie alla presenza di giudici supplenti che devono essere nominati ex art. 71. cost. n. 1 del 1989 unitamente ai giudici effettivi a seguito di sorteggio, perché la nomina dei giudici supplenti non ha tale finalità, ma solo quella di consentire la sostituzione dei membri effettivi in casi di impedimento. La difesa del De Lorenzo ha depositato memoria. Il Collegio per i reati ministeriali del Tribunale di Napoli ripropone ancora una volta, senza introdurre particolari elementi di novità, un’interpretazione delle norme che definiscono il sistema delineato dalla l. cost. n. 1 del 1989 in netta antitesi con quella datane dalla Corte costituzionale con la fondamentale C. cost. 25
— 382 — maggio 1990, n. 265, la quale — chiarendo il significato dell’art. 3 l. n. 219 del 1989, attuativa della l. cost. n. 1 del 1989, sia pure nei limiti della questione devolutale — ha messo in evidenza la funzione ambivalente (di cui si dirà appresso) del « tribunale dei ministri », implicitamente ritenendo tale funzione compatibile con il dettato della nuova legge costituzionale del 1989 (id est con la Costituzione). E l’interpretazione della norma da ultimo citata data dalla Corte costituzionale rileva in questa sede sotto vari profili e deve essere tenuta presente da questa Corte, non solo per l’autorevolezza dell’intervento, ma anche per la sua persuasività, apparendo l’unica percorribile. La richiamata decisione, interpretativa di rigetto, proprio riferendosi all’iter parlamentare che ha condotto alla pubblicazione della l. cost. n. 1 del 1989, cit., pone in chiara evidenza la modifica del testo operata dalla Camera dei deputali ripetto a quello del Senato. Alla formulazione originaria del testo licenziato da quest’ultimo ramo del Parlamento, secondo la quale « l’assemblea, ove conceda l’autorizzazione, rimette gli atti al procuratore della Repubblica perché abbia corso il procedimento secondo le norme vigenti », la Camera sostituì quello attuale secondo cui: « L’assemblea, ove conceda l’autorizzazione, rimette gli atti al collegio di cui all’art. 7 perché continui il procedimento secondo le norme vigenti ». Orbene, la Consulta ha chiarito che il testo della norma, attraverso l’utilizzazione di una frase che, correttamente scritta in lingua italiana, pone il soggetto della proposizione (« il collegio ») davanti al verbo (« continui »), e a questo fa seguire il predicato (« il procedimento »), conferisce, oggettivamente, al periodo il significato che (dopo l’autorizzazione a procedere) è il collegio a dover continuare il procedimento secondo le norme ordinarie; ha conseguentemente escluso che l’espressione verbale « continui » possa essere stata usata in senso intransitivo (così attribuendo all’espressione un significato completamente difforme dalla opinione, pur autorevole, del relatore del disegno di legge al Senato, richiamata dal collegio di Napoli). I lavori parlamentari, d’altra parte, dimostrano (anche secondo accreditati commentatori della nuova normativa costituzionale) che la modifica apportata alla Camera dei deputati era chiaramente rivolta ad attribuire al collegio di cui all’art. 7 la competenza funzionale a condurre la fase istruttoria successiva all’autorizzazione (nella discussione sull’emendamento modificativo, il deputato Carlo Casini, nella discussione generale, individuava nel Collegio l’organo più idoneo per la prosecuzione delle indagini, e auspicava in tal senso una modifica del comma 4 dell’art. 9: v. A.C., X legislatura, seduta 4 marzo 1988, 11564, 11565; mentre il sottosegretario D’Aquisto osservava, in commissione affari costituzionali del Senato, che la modifica del comma 4 dell’art. 9 rispondeva a « un’opinione condivisa dalla maggioranza della Camera dei deputati; secondo la quale lo svolgimento delle attività istruttorie da parte del Collegio rappresenta comunque un elemento garantista per i corretti rapporti tra i poteri dello Stato »: v. A.S., X legislatura, Bollettino delle giunte e delle commissioni parlamentari, 16 giugno 1988, n. 155, 7). Alla luce delle suesposte premesse la Corte costituzionaIe ha affermato che il comma 2 dell’art. 3 l. n. 219 del 1989 deve essere interpretato nel senso che la trasmissione degli atti dal collegio al pubblico ministero avviene non perché questi provveda allo svolgimento di tutta l’attività conseguente alla concessa autorizzazione, ma perché partecipi all’attività spettante al collegio esercitando i suoi poteri
— 383 — (e svolgendo le sue richieste). Così mostrando di ritenere che la legge ordinaria di attuazione riconosce al collegio di cui si discute i poteri di istruzione, anche decisori, secondo le norme ordinarie vigenti al momento della rimessione, anche dopo la fase di autorizzazione, a norma dell’art. 9 comma 4 l. cost. n. 1 del 1989. Non si vede, pertanto, come di fronte a tali conclusioni univoche, cui deve giungersi sia in base al senso fatto palese dal significato proprio delle parole sia dalle intenzioni del legislatore (art. 12 disp. prel.), confortate dalla pronuncia interpretativa del giudice delle leggi di cui si è detto, possa giungersi a diversa soluzione. E infatti, tale linea interpretativa è stata costantemente seguita dalla giurisprudenza di questa Corte che si è oramai consolidata sul punto (cfr. Cass., sez. I, c.c. 10 ottobre 1997, Prandini, rv. 209212; Cass., sez. VI, c.c. 21 gennaio 1997, Misasi, rv. 207171; Cass., sez. VI, c.c. 19 febbraio 1997, Grafini, rv. 208124; Cass., sez. VI, c.c. 14 ottobre 1996, Gambarotta, rv. 206884; Cass., sez. I, c.c. 2 luglio 1996, Formica, rv. 205696; Cass., sez. VI, c.c. 14 dicembre 1995, Lattanzio, rv. 203855; Cass., sez. I, c.c. 4 marzo 1994, Prandini, rv. 197439; senza che — a quel che consta — esista una sola pronuncia in senso contrario) e ha sempre ritenuto che la l. cost. n. 1 del 1989 abbia istituito, per i reati ministeriali, un organo specializzato della giurisdizione ordinaria con competenza a svolgere attività di indagine, e con il potere decisionale riguardo all’archiviazione, pure in contrasto con il pubblico ministero, in funzione di garanzia e di terzietà, rafforzata dalla struttura collegiale dell’organo; attività del tutto analoghe a quelle del giudice istruttore previste dal codice di procedura penale del 1930. La medesima giurisprudenza, meglio definendo la portata della C. cost. n. 265 del 1990, cit., ha anche precisato che la specificità o, se si vuole, l’atipicità del collegio di cui all’art. 7 l. cost. n. 1 del 1989 consiste nella sua « dualità », o « duplicità », in quanto il sistema normativo introdotto con le leggi sopra richiamate ne fa un organo di indagine, ma anche un organo cui sono attribuiti poteri decisori sul rinvio a giudizio, all’esito dell’udienza preliminare, secondo il codice vigente, e ha, altresì, osservato come tale profilo ambivalente dell’organo abbia il suo fondamento nella stessa legge costituzionale la quale prevede, a un tempo, l’attività di indagine (art. 8 comma 1) e le attività tipiche della funzione decisoria, riservate dal codice vigente al giudice per le indagini preliminari, dovendo l’organo stesso, non solo compiere funzioni di pubblico ministero e di giudice per le indagini preliminari nella stessa fase delle indagini (si veda, a esempio, il dualismo indagini-archiviazione), ma anche continuare il procedimento secondo le norme vigenti (art. 9 comma 4). Tutte le residue considerazioni del tribunale dei ministri di Napoli riportate nei punti da 1) a 5) di cui sopra non sono idonee a scalfire le conclusioni raggiunte. Le espressioni di cui all’art. 3 l. n. 219 del 1989 « procedimento » e « secondo le norme ordinarie » si conciliano perfettamente con l’interpretazione della normativa in argomento sopra riportata, dovendosi, cioè, riconoscere che dopo la fase che culmina con l’autorizzazione, al collegio compete la funzione di giudice per le indagini preliminari, e quindi la decisione sul rinvio a giudizio, fermo restando che in tale fase deve avvalersi della attività del procuratore della Repubblica, perché questi vi svolga un ruolo di partecipazione e di impulso quale titolare dell’azione penale, secondo, appunto, le « norme ordinarie »; laddove l’ordinarietà
— 384 — non è riferita certamente all’organo che tale fase deve condurre, che è il tribunale dei ministri (designato dall’art. 9 comma 4 l. cost. n. 1 del 1989 quale organo che deve « continuare » il procedimento), ma al procedimento, ed è contrapposta alla « specialità » delle disposizioni che regolano la fase che l’art. 8 l. cost. n. 1 del 1989 definisce delle « indagini preliminari », eccezionalmente condotta non dal pubblico ministero, bensì dall’organo dalla stessa legge istituito in funzione di garanzia e di terzietà. Del tutto priva di qualsiasi consistenza ai fini del problema di cui si discute è la circostanza — sottolineata dal collegio per i reati ministeriali di Napoli per dimostrare la validità della sua tesi — che il tribunale dei ministri debba necessariamente pronunciare l’archiviazione se la Camera competente rifiuti l’autorizzazione: trattasi di disposizione di valenza del tutto neutra ai fini che interessano, la cui ratio è quella di individuare un decisivo punto di equilibrio politico-istituzionale nel senso che, in caso di disaccordo tra Parlamento e autorità giudiziaria sul materiale d’indagine raccolto, deve prevalere l’orientamento di quest’ultimo. Ugualmente deve dirsi per ciò che attiene al termine entro il quale deve svolgersi la fase dell’indagine: circostanza del tutto priva di significato ai fini della dimostrazione della tesi del collegio napoletano. Alla luce delle suesposte considerazioni non ritiene questa Corte di dover rimettere la decisione del conflitto di competenza alle sezioni unite, non risultando contrasti giurisprudenziali tra le decisioni sopra riportate nei punti rilevanti ai fini della soluzione del conflitto (cioè, se sia il giudice previsto dall’art. 7 commi 1 l. cost. n. 1 del 1989 a doversi pronunciare sul rinvio a giudizio, a nulla rilevando che Cass., sez. I, 4 marzo 1994, Prandini, cit., abbia dato una peculiare interpretazione della normativa richiamata sulle forme con cui il tribunale dei ministri dovrebbe disporre il rinvio a giudizio, cioè secondo le norme del codice del 1930, anche nella vigenza del nuovo codice). I dubbi di legittimità costituzionale dell’interpretazione di cui sopra, affacciati dal collegio napoletano, non hanno ragione di sussistere. È sicuramente condivisibile la deduzione del collegio secondo la quale i profili di incompatibilità che possono prospettarsi per i giudici chiamati a pronunciarsi sul rinvio a giudizio in sede di udienza preliminare (essendosi gli stessi già pronunciati con la richiesta di autorizzazione) non possono essere risolti affermando che i giudici supplenti previsti dall’art. 7 comma 1 l. cost. n. 1 del 1989 potrebbero essere chiamati a comporre il collegio che deve pronunciarsi sul rinvio a giudizio in sede di udienza preliminare. Sarebbe questo un modus procedendi sicuramente non consentito perché quei giudici supplenti sono esclusivamente chiamati dalla legge a sostituire i titolari in caso di impedimento. I motivi per cui non si pongono i paventati problemi di incompatibilità vanno ricercati nel fatto che tale istituto, nel caso del tribunale dei ministri, è diversamente regolato, rispetto alla disciplina ordinaria, dall’art. 11 l. cost. n. 1 del 1989, norma di rango costituzionale che si sostituisce a ogni altra e che prevede l’incompatibilità solamente per i giudici chiamati a pronunciarsi nella fase del dibattimento, al quale non possono partecipare « i magistrati che hanno fatto parte del collegio di cui all’art. 7 nel tempo in cui questo ha svolto indagini sui fatti oggetto dello stesso procedimento ». Di tal che un problema di incompatibilità nel senso sollevato dai giudici di Napoli non è neppure proponibile. D’altra parte, non sem-
— 385 — bra che tale conclusione possa destare perplessità, perché è del tutto in linea con i princìpi affermati in materia dalla Corte costituzionale che, pronunciandosi sulle svariate ipotesi di incompatibilità che negli ultimi anni le sono state rimesse, ha chiaramente e ripetutamente affermato che non può configurarsi nessun problema di incompatibilità per il giudice delle indagini in relazione ad atti compiuti in precedenza, in quanto egli, nell’udienza preliminare, è chiamato non già a svolgere una valutazione sul merito dell’accusa, bensì a controllare la legittimità della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, dandole ingresso ovvero paralizzandola, con una delibazione di carattere processuale (C. cost. n. 311, 206 e 94 del 1997; C. cost., ordinanza n. 91 del 1998; C. cost., ordinanze n. 367 e n. 97 del 1997; C. cost., ordinanze n. 410, 333, 279, 232 e 24 del 1996). Si deve, infine, dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 2 l. n. 219 del 1989, in relazione agli artt. 3, 24 e 112 cost., sollevata dalla difesa del De Lorenzo. Da quanto sopra si è detto risulta evidente che la legge speciale di attuazione, in modo conforme alla legge costituzionale, correttamente interpretata alla luce della C. cost. n. 265 del 1990, cit., ha riconosciuto al collegio di cui si discute la duplice funzione di organo delle indagini e di organo decisionale in ordine al rinvio a giudizio. Tale dualismo non viola la disposizione dell’art. 3 cost., giustificandosi la diversità di disciplina rispetto al processo ordinario con la speciale posizione che rivestono i soggetti nei confronti dei quali si svolge il giudizio per reati ministeriali. Né si ravvisano lesioni del diritto di difesa che ben può esplicarsi in tutti i passaggi e in tutte le fasi previsti dalla legge fino all’udienza preliminare. Può aggiungersi che il fatto che il legislatore del 1988, nel disciplinare la fase delle indagini preliminari del codice di procedura penale attuale abbia selezionato fra le varie opzioni possibili quella del binomio pubblico ministero-giudice per le indagini preliminari, non assume un’importanza decisiva: tale scelta, invero, non era affatto obbligata da un punto di vista della legittimità costituzionale, giacché alla luce della Costituzione anche altre soluzioni sarebbero state possibili, compresa quella dell’organo monocratico dotato, a un tempo, di poteri di indagine e di poteri decisori sul rinvio a giudizio. E ciò è tanto vero che nella vigenza dell’abrogato codice processuale la Corte costituzionale, mentre fece sentire i suoi moniti al legislatore con riferimento alla esigenza di modificare l’assetto processuale con riguardo alla figura del pretore per i suoi poteri inquirenti e di decisione sul merito della notitia criminis, non lanciò mai analoghi inviti nei confronti della figura del giudice istruttore, organo che sommava in sé le funzioni di indagine e di decisione sul rinvio a giudizio, in una configurazione che ha resistito per più di un quarantennio dall’entrata in vigore della Carta costituzionale senza destare sospetti di non conformità alla medesima, sino alla nuova scelta processuale del 1988. Neppure, può dirsi, infine, che la l. n. 219 del 1989 abbia privato il pubblico ministero dell’esercizio dell’azione penale, rimanendo investito detto organo del potere di richiedere il rinvio a giudizio, dopo la fase dell’autorizzazione della Camera competente, nel che si sostanzia, appunto, l’esercizio dell’azione penale. Si deve, quindi, dichiarare la manifesta infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale e affermare la competenza del collegio per il reati ministeriali di Napoli a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio. (Omissis).
— 386 — (1)
Una pronuncia della Cassazione che lascia aperti molti interrogativi sull’incompatibilità dei componenti del ‘‘tribunale dei ministri’’.
1. La decisione in esame trae origine da un conflitto negativo di competenza che metteva in luce le palesi anomalie caratterizzanti i procedimenti per reati ministeriali. Nel dirimere il conflitto la Cassazione ha respinto l’impostazione in base alla quale il c.d. ‘‘tribunale dei ministri’’ (1), e cioè il collegio istituito ai sensi dell’art. 7 della l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, esaurirebbe praticamente i propri poteri con l’inoltro della richiesta di autorizzazione a procedere (2), cosicché, a seguito dell’intervenuta autorizzazione, il procedimento continuerebbe secondo le scansioni procedimentali ‘‘ordinarie’’. È stata invece accolta (soprattutto in virtù del richiamo alle indicazioni emergenti dalla sent. 265 del 1990 della Corte costituzionale) (3) la tesi volta a sostenere che anche successivamente all’autorizzazione a procedere la competenza funzionale debba essere riattribuita al ‘‘tribunale dei ministri’’, fino alla conclusione dell’udienza preliminare (4). Al centro del dibattito si agita, come noto, il problema relativo all’esatta interpretazione della seguente previsione, contenuta nell’art. 9 comma 4 della citata l. n. 1 del 1989: « l’assemblea, ove conceda l’autorizzazione, rimette gli atti al collegio di cui all’art. 7 perché continui il procedimento secondo le norme vigenti ». Tale interpretazione è resa più ardua dalla necessità di pervenire ad un suo coordinamento con la regolamentazione delineata dall’art. 3 comma 2 l. 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’art. 90 della Costituzione), volta a stabilire che, quando gli atti siano rimessi dal Parlamento, a seguito della concessione dell’autorizzazione a procedere, all’organo collegiale sovramenzionato, detto organo debba poi provvedere « senza ritardo a trasmettere gli atti al Procuratore della Repubblica presso il tribunale ». Secondo un orientamento, che trae a proprio sostegno anche alcune espresse indicazioni emergenti dai lavori parlamentari, il sintagma « perché continui il procedimento secondo le norme vigenti » andrebbe interpretato in senso intransitivo, e cioè come se fosse detto « perché il procedimento continui secondo le norme vigenti », e dunque ad opera degli organi giudiziari ‘‘ordinari’’ e con le comuni cadenze (5). In senso contrario viene tuttavia obiettato che, in base alle usuali regole ermeneutiche, e tenuto conto dell’ordine delle parole, il verbo « continui », utilizzato (1) Per un’analisi in ordine alla struttura di tale organo v. P. DELL’ANNO, Azione penale e udienza preliminare per i reati ministeriali, in Giust. pen., 1997, III, c. 385 ss.; E. MALFATTI, Natura e poteri di indagine del « tribunale dei ministri » in un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in Foro it., 1995, I, c. 1426; D. MANZIONE, Reati ministeriali e giudizio penale, ovvero della giurisdizione dimezzata, in Cass. pen., 1991, p. 210; M. OLIVETTI, Il c.d. tribunale dei ministri all’esame del C.S.M.: osservazioni in margine ad alcune « risposte a quesiti », in Giur. cost., 1993, p. 1504 ss.; L. TIRABASSI, Giudizi sui reati ministeriali e udienza preliminare: una difficile « convivenza » all’insegna del diritto di difesa, in Giur. it., 1997, II, c. 321 ss.; A. TOSCHI, sub art. 7 l. cost. 16 gennaio 1989 n. 1, in Legisl. pen., 1989, p. 494 ss. (2) Sull’istituto dell’autorizzazione a procedere v., tra gli altri, R. ORLANDI, Aspetti processuali dell’autorizzazione a procedere, Torino, 1994; ID., voce Procedibilità (condizioni di), in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 50 ss.; P.P. RIVELLO, Spesso confusa la garanzia col privilegio nell’istituto dell’autorizzazione a procedere, in Cass. pen., 1990, p. 909 ss.; G. TRANCHINA, L’autorizzazione a procedere, Milano, 1967; ID., voce Autorizzazione a procedere, in Dig. disc. pen., vol. I, Torino, 1987, p. 377 ss. (3) Corte cost., sent. 25 maggio 1990, n. 265, in Cass. pen., 1991, p. 205, n. 157, con nota di D. MANZIONE, Reati ministeriali e giudizio penale, ovvero della giurisdizione dimezzata. (4) In tal senso si era già espressa Cass., sez. VI, 19 febbraio 1997, Grafini, in Cass. pen., 1998, p. 1137, m. 685, con nota di P.P. RIVELLO, Un profilo particolare in tema di incompatibilità del giudice con riferimento alle funzioni svolte dal tribunale per i reati ministeriali. (5) V. in tal senso l’intervento dell’on. Mellini (in Atti Camera Deputati, X legislatura, Res. sten., seduta del 12 maggio 1988, p. 37), volto a ribadire « l’esigenza invece che dopo la concessione dell’autorizzazione il procedimento non fosse sottratto a forme normali ».
— 387 — nel contesto dell’art. 9 l. n. 1 del 1989, sembra avere un’accezione ben diversa, assumendo un significato transitivo, come desumibile dal fatto che ad esso viene in tal caso posposto, come predicato, il termine « procedimento »; gli atti sarebbero dunque ritrasmessi al ‘‘tribunale dei ministri’’ proprio perché lo stesso collegio riprenda ad occuparsi della vicenda con quella ambivalenza di funzioni che già caratterizzava la fase precedente all’autorizzazione a procedere. Come abbiamo accennato, la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 265 del 1990, nel dichiarare non fondata « nei sensi di cui in motivazione » una questione di legittimità concernente la normativa che disciplina il ‘‘tribunale dei ministri’’, aveva affermato che l’art. 9 comma 4 l. cost. n. 1 del 1989, laddove prevede che gli atti siano rimessi al collegio di cui all’art. 7 della stessa legge, riconsegna la piena titolarità della gestione del procedimento all’organo che in precedenza ha svolto le indagini prodromiche all’inoltro della richiesta di autorizzazione a procedere; il Giudice delle leggi rilevò infatti che tale interpretazione « si ricava con certezza dalla lettera della disposizione in esame, là dove è detto testualmente che lo stesso collegio competente nella prima fase del procedimento lo continua secondo le norme vigenti ». Quello che peraltro interessa ai fini della nostra indagine, e che costituirà oggetto di approfondimento nel prosieguo di questa trattazione, è sottolineare il carattere deludente dei passaggi argomentativi della decisione della Cassazione, laddove i giudici di legittimità, accolta la tesi interpretativa sviluppata dalla Corte costituzionale, hanno negato che dal suo accoglimento possano derivare rilevanti problemi di incompatibilità. 2. Non v’è dubbio che il procedimento innanzi al collegio per i reati ministeriali costituisce « in relazione alla incerta natura di detto organo, un unicum nel nostro ordinamento » (6). È stato osservato in effetti che l’attività di tale organo assume una connotazione « ibrida » o « duale » (7), in quanto in essa si fondono poteri investigativi e funzioni valutative; appare conseguentemente difficoltoso, se non avventato, tentare di operare un coerente raffronto con i meccanismi processuali ‘‘ordinari’’ (8). Le evidenti peculiarità, discendenti dalla l. cost. n. 1 del 1989 (9), che ha dato vita ad un organo ‘‘specializzato’’ della magistratura ordinaria (10), non possono peraltro far ritenere ammissibile un’attenuazione delle garanzie poste a tutela del canone di terzietà del giudicante. Purtuttavia la Cassazione ha rilevato che l’istituto dell’incompatibilità « nel caso del tribunale dei ministri, è diversamente regolato, rispetto alla disciplina ordinaria, dall’art. 11 l. cost. n. 1 del 1989, norma di rango costituzionale che si sostituisce a ogni altra e che prevede l’incompatibilità solamente per i giudici chiamati a pronunciarsi nella fase del dibattimento, al (6) Corte cost., sent. 21 novembre 1997, n. 352, in Giur. cost., 1998, p. 3450, con nota di P.P. RIVELLO, Separazione della posizione di un indagato « laico » disposta dal collegio per i reati ministeriali e incompatibilità dei componenti del collegio in relazione al processo celebrato nei confronti di tale soggetto. (7) A. TOSCHI, Commento all’art. 6 l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, in Legisl. pen., 1989, p. 493. (8) Così A. FERRARO, Spunti per una riflessione su taluni aspetti problematici della nuova regolamentazione dei procedimenti d’accusa, in Cass. pen., 1989, p. 1439; detto A. aggiunge (ivi, p. 1440) che le attività espletate dal collegio si collocano « al di fuori dell’ambito dell’ordinamento giurisdizionale comune, costituendo solo ‘momenti’ della procedura costituzionale volta a rimuovere l’ostacolo all’esercizio della giurisdizione ‘ordinaria’ posto dall’art. 96 Cost. ». A sua volta A. TOSCHI, Commento all’art. 8 l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, in Legisl. pen., 1989, p. 500, sostiene che il c.d. ‘‘tribunale dei ministri’’ opera, almeno inizialmente, « nei limiti di una fase prevalentemente ricognitiva e, in un certo senso, propedeutica tanto al sindacato politico-parlamentare, quanto al procedimento giurisdizionale ordinario ». (9) In ordine a tale normativa v. le osservazioni di P. DELL’ANNO, Azione penale e udienza preliminare per i reati ministeriali, cit., c. 385 ss. (10) In tal senso Cass., sez. un., 20 luglio 1994, De Lorenzo, in Cass. pen., 1994, p. 2945.
— 388 — quale non possono partecipare ‘‘i magistrati che hanno fatto parte del collegio di cui all’art. 7 nel tempo in cui questo ha svolto indagini sui fatti oggetto dello stesso procedimento’’ ». Va osservato come la Cassazione fornisca una versione ‘‘libera’’ del disposto dell’art. 11, giacché nella realtà detta norma, dopo aver stabilito che per i reati commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni e, in concorso con gli stessi, da altre persone, la competenza appartiene in primo grado al tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio, precisa, con una statuizione a valenza assai più generalizzata, che non possono « partecipare al procedimento » tutti i magistrati che abbiano fatto parte del collegio per i reati ministeriali, nel tempo in cui detto collegio ha svolto indagini sui fatti in esame. La sussistenza della previsione di cui all’art. 11 l. cost. n. 1 del 1989 non potrebbe del resto essere certamente letta come una deroga rispetto ai canoni del ‘‘giusto processo’’ (11), ed in particolare, con riferimento alla nostra tematica, rispetto all’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo, laddove delinea « l’imparzialità del giudice alla stregua di un canone oggettivo indeclinabile per la disciplina della funzione giurisdizionale » (12). Si può semmai rilevare che, in considerazione delle particolarità del meccanismo ivi delineato, il legislatore, mediante la l. n. 1 del 1989, definibile come ‘‘norma speciale costituzionale’’ (13), al fine di evitare incertezze al riguardo, ha voluto espressamente configurare una autonoma ipotesi di incompatibilità, operante senza alcuna necessità di rinvio al disposto dell’art. 34 c.p.p. (14); deve invece escludersi che in questo settore sia tollerabile un decremento di garanzie e che l’imputato sia conseguentemente sottoponibile al giudizio di un magistrato ‘‘prevenuto’’ nei suoi confronti. Del resto appare significativa la pronuncia n. 352 del 1997 della Corte costituzionale. Il Giudice delle leggi era stato chiamato a valutare l’eventuale illegittimità dell’art. 34 comma 3 c.p.p., nella parte in cui la norma non prevederebbe un’incompatibilità gravante sul magistrato che, facendo parte del ‘‘tribunale dei ministri’’, abbia in tale veste ravvisato la sussistenza di un reato ascribile ad un imputato ‘‘laico’’, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica, in relazione a detto ulteriore episodio, e trovandosi poi a dover celebrare l’udienza preliminare nei confronti di tale soggetto. La Corte costituzionale aveva affermato che, così operando, il collegio per i reati ministeriali si limita ad assolvere « all’obbligo, imposto dall’art. 331 c.p.p. nei confronti dei pubblici ufficiali che nell’esercizio o a causa delle loro funzioni hanno notizia di un reato perseguibile d’ufficio, di farne denuncia e di trasmettere gli atti al pubblico ministero; tale situazione ... configura appunto il caso di incompatibilità, espressamente previsto dall’art. 34 comma 3 c.p.p., di avere proposto denuncia ». Queste argomentazioni evidenziano come anche la partecipazione al collegio per i reati ministeriali renda operanti le tradizionali cause di incompatibilità. Una simile conclusione avrebbe peraltro dovuto condurre, come è stato sotto(11) In ordine alla tematica del ‘‘giusto processo’’, v. per tutti A. GIARDA, Affermati come valori costituzionali i contenuti del « giusto processo », in Corr. giur., 1996, p. 24; G. UBERTIS, Verso un ‘‘giusto processo’’ penale, Torino, 1997. (12) G. UBERTIS, L’incompatibilità del giudice ha pure risvolti ‘‘europei’’, in ID., Verso un ‘‘giusto processo’’ penale, cit., p. 61. (13) Cass., sez. I, 1o novembre 1995, Leccisi, in Cass. pen., 1997, p. 1748, m. 1038. (14) Si sofferma su questo dato Cass., sez. VI, 19 febbraio 1997, Grafini, cit., ove viene osservato come il legislatore costituzionale abbia « avuto cura di assicurare la separazione tra funzioni investigative e giurisdizionali, conferite al collegio, e funzioni giudicanti, attribuite al tribunale competente ».
— 389 — lineato da una parte della dottrina, ad una più generale rimeditazione in ordine a queste tematiche. Infatti, essendo stata configurata l’incompatibilità, prevista dall’art. 34 comma 3 c.p.p., in relazione all’ipotesi, meramente eventuale, in cui il componente del collegio per i reati ministeriali venga a rivestire la posizione di ‘‘denunciante’’, si dovrebbe riconoscere che un’analoga incompatibilità scaturisce dal pregresso svolgimento delle funzioni inquirenti, nell’ambito del ‘‘tribunale dei ministri’’; in effetti non è agevole comprendere le ragioni che, sul piano logico-sistematico, inducono « a conferire rilievo esclusivo ad un’attività ‘‘sussidiaria’’ rispetto a quella esercitata dal pubblico ministero, trascurando, per converso, un’attività tipicamente inquirente volta alla individuazione di fonti di prova a carico dell’imputato » (15). Né avrebbe senso obiettare che la posizione di componente del ‘‘tribunale dei ministri’’ non è assimilabile, né anteriormente alla richiesta di autorizzazione a procedere — basata su una delibazione sommaria dei fatti denunciati, diretta unicamente ad « evitare il coinvolgimento in procedimenti penali di presidenti del Consiglio e di ministri, ancorché cessati dalla carica, sulla base di denunce manifestamente infondate » (16) — né dopo la concessione di tale autorizzazione, a quella del pubblico ministero. Indubbiamente, i componenti del collegio per i reati ministeriali esercitano una pluralità di funzioni, secondo schemi che, a ben vedere, risentono in larga parte dell’impostazione caratterizzante l’abrogato codice di procedura penale (17). Si è affermato che il collegio per i reati ministeriali procede alle indagini « con i poteri tipici del p.m. dominus dell’istruzione sommaria di vecchia memoria, con la possibilità di compiere altresì gli atti istruttori tradizionalmente riservati all’ormai scomparso g.i. » (18). Con riferimento alle figure processuali delineate dal codice attuale, deve poi rilevarsi come i componenti di tale collegio svolgano in sostanza, oltre ai compiti del pubblico ministero, le funzioni normalmente attribuite al giudice per le indagini preliminari. Questo dato emerge espressamente dall’art. 1, comma 2, l. 5 giugno 1989, n. 219, in base al quale « successivamente alla data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, il collegio procede alle indagini di cui al comma 1 con i poteri che spettano al pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari. Ove ne ricorrano le condizioni il collegio può disporre anche d’ufficio incidente probatorio, provvedendo direttamente allo stesso, che si considera ad ogni effetto come espletato dal giudice delle indagini preliminari. Il collegio può altresì compiere anche d’ufficio gli altri atti che a norma del nuovo codice di procedura penale sono di competenza del suddetto giudice ». In altre parole, il collegio ha poteri inquirenti ed al contempo esercita un ruolo di garanzia e di controllo, risultando così modellato secondo una logica che « altera l’equilibrio su cui si fonda il nuovo sistema processuale » (19). Proprio per questo, come già accennato, viene riconosciuta una natura ‘‘duale’’ a tale organo; tuttavia, preso atto di questa poliedricità funzionale, bisogna osservare che tra i compiti spettanti al collegio per i reati ministeriali un ruolo certo non secondario è occupato dalle attività ‘‘investigative’’ altrimenti di competenza (15) L. TIRABASSI, La Consulta « declina » l’invito a sancire la natura investigativa del Tribunale dei ministri. Scelta obbligata o decisione « prudente? », in Giur. cost., 1998, p. 246. (16) Cass., sez. un., 26 aprile 1989, Goria, in Cass. pen., 1989, p. 1435, m. 1193, con nota di A. FERRARO, Spunti per una riflessione, cit. (17) V. al riguardo i rilievi espressi da Cass., sez. I, 4 marzo 1994, Prandini, in Giust. pen., 1994, III, c. 301. (18) A. GAITO, Nei processi per reati ministeriali qual è il giudice per l’udienza preliminare?, in Dir. pen. proc., 1997, p. 854. (19) A. TOSCHI, Commento all’art. 8 l. cost. 16 gennaio 1989 n. 1, loc. cit.
— 390 — del pubblico ministero; sotto questo aspetto si è anzi parlato di un p.m. collegiale, voluto per scongiurare « iniziative d’accusa affrettate e/o ideologicamente condizionate » (20), e dunque per permettere di valutare con maggiore approfondimento come risolvere l’alternativa tra l’inoltro della richiesta di autorizzazione a procedere, di fronte all’emergere di possibili ipotesi di reato, e l’archiviazione (21), laddove i fatti in esame si rivelino invece privi di ogni valenza penalistica o qualora risultino comunque configurabili le ipotesi previste dall’art. 2 l. n. 219 del 1989. Sembrerebbe dunque inevitabile ravvisare una posizione d’incompatibilità tra l’esercizio di tali funzioni investigative, nella fase antecedente alla richiesta di autorizzazione a procedere, e la celebrazione dell’udienza preliminare, successivamente alla concessa autorizzazione. Se si ammette invece che gli stessi magistrati, dopo aver svolto funzioni investigative quali componenti del collegio per i reati ministeriali, possano poi partecipare all’udienza preliminare preordinata alla valutazione del medesimo episodio, si finisce col ritenere che ad essi spetti accertare la fondatezza delle proprie precedenti ipotesi investigative, in violazione del canone accusatorio della separazione fra funzioni inquirenti e giudicanti (22). Deve inoltre aggiungersi che « sarebbe contra ius non considerare il ruolo diaframmatico che assolve istituzionalmente l’intervento di un giudice terzo a garanzia di neutralità tra il materiale d’indagine e la decisione da adottarsi all’epilogo dell’udienza preliminare, in quanto solo la presenza di un organo differenziato nel ruolo e diverso nella persona può valere a dissolvere la pericolosità di un sospetto di parzialità » (23). Non assume rilievo, ai fini in esame, l’osservazione, indubbiamente corretta, volta a sottolineare come le indagini espletate dal tribunale dei ministri, al fine di accertare se sussistano i presupposti per la richiesta di archiviazione o se debba invece essere inoltrata la richiesta di autorizzazione a procedere, si caratterizzino « per una serie di limitazioni non solo temporali, ma anche di ‘‘acquisizione probatoria’’ del tutto ‘‘eccentriche’’ rispetto ai poteri di indagine che l’ordinamento processuale comune riconosce all’autorità giudiziaria » (24). È infatti la commistione tra l’esercizio dei compiti investigativi, antecedentemente all’inoltro della richiesta di autorizzazione a procedere, e l’espletamento delle funzioni valutative, all’esito dell’udienza preliminare, a risultare comunque antitetica rispetto all’esigenza di garantire il principio di terzietà del giudicante, e ciò a prescindere dall’intensità dei poteri di accertamento riconosciuti al ‘‘tribunale dei ministri’’, che comunque non possono essere sottovalutati, giacché il collegio per i reati ministeriali deve essere in grado di offrire elementi di prova di adeguata consistenza, atti ad escludere la sussistenza di un fumus persecutionis nei confronti del politico inquisito. Oltretutto, se l’anomala connotazione del collegio risulta in qualche misura necessitata nella fase antecedente alla richiesta di autorizzazione a procedere, ca(20) A. GAITO, Nei processi per reati ministeriali, cit., p. 853. (21) In relazione a questa archiviazione ‘‘preliminare’’, adottabile in relazione ai procedimenti per reati ministeriali, v. D. CENCI, Profili problematici dell’attività del Pubblico ministero nei procedimenti d’accusa, in Giur. it., 1997, IV, c. 13 ss.; O. LUPACCHINI, Il processo per i reati ministeriali, in Il giusto processo, 1992, p. 155. (22) L. TIRABASSI, La Consulta « declina » l’invito a sancire la natura investigativa del Tribunale dei ministri, cit., p. 240, nt. 10. (23) A. GAITO, Nei processi per reati ministeriali qual è il giudice per l’udienza preliminare?, cit., p. 853. (24) A. FERRARO, Spunti per una riflessione su taluni aspetti problematici della nuova regolamentazione dei procedimenti d’accusa, cit., p. 1440.
— 391 — ratterizzata da quell’ibrida ed inestricabile commistione di ruoli a cui abbiamo più volte fatto riferimento, tale necessità viene meno nel momento procedimentale successivo alla concessione di detta autorizzazione, giacché in questa nuova situazione nessun specifico motivo sembra giustificare una così radicale deroga rispetto alla disciplina ordinaria ed il conseguente persistere di ulteriori inspiegabili ‘‘anomalie’’. È significativo osservare che chi si oppone alla tesi in base alla quale dopo la concessione dell’autorizzazione a procedere sarebbe ancora il Collegio per i reati ministeriali a dover celebrare l’udienza preliminare pone a fondamento delle proprie argomentazioni il rilievo concernente l’inevitabile posizione di incompatibilità in cui i componenti di tale collegio verrebbero a trovarsi, avendo essi esercitato precedentemente funzioni investigative (25). L’annotata sentenza, omettendo in pratica di approfondire la problematica derivante dalla supposta incompatibilità dovuta al pregresso esercizio di tali funzioni investigative, sottolinea la sola affinità tra i compiti spettanti al collegio per i reati ministeriali e quelli normalmente attribuiti al g.i.p., e ciò al fine di negare che da questa situazione possa derivare una causa di incompatibilità. L’analisi della Cassazione, che trascura tra l’altro ogni riferimento, sia pur come accenno, al nuovo disposto dell’art. 34, comma 2-bis c.p.p., inserito dall’art. 171 d.lgs. 19 febbraio 1988, n. 51, si basa sulle argomentazioni, sviluppate a più riprese dalla Corte costituzionale, volte a sostenere la tesi secondo cui, fatta salva l’ipotesi del procedimento penale a carico di imputati minorenni (26), la pronuncia emessa all’esito dell’udienza preliminare assumerebbe una valenza esclusivamente processuale, in quanto finalizzata ad accertare la legittimità della richiesta tendente alla celebrazione del giudizio dibattimentale, e non costituirebbe pertanto motivo di incompatibilità (27). In tal modo la Cassazione sembra non avere tenuto conto del fatto che comunque la natura ibrida del collegio rendeva configurabile l’ipotesi di violazione del canone di terzietà dovuta al pregresso svolgimento di indagini ad opera dei componenti di detto organo. Su un punto invece le conclusioni accolte dalla pronuncia in esame appaiono esenti da qualsivoglia rilievo: intendiamo riferirci al passaggio argomentativo in cui la Corte di Cassazione evidenzia come la questione afferente ai dubbi concernenti la posizione di incompatibilità dei membri del ‘‘tribunale dei ministri’’ non possa essere risolta, semplicisticamente, « affermando che i giudici supplenti previsti dall’art. 7 comma 1 l. cost. n. 1 del 1989 potrebbero essere chiamati a comporre il collegio che deve pronunciarsi sul rinvio a giudizio in sede di udienza pre(25) A. GAITO, Nei processi per reati ministeriali, cit., p. 854. (26) Infatti nella sent. 22 ottobre 1997, n. 311, in Giur. cost., 1997, p. 2922, con nota di P.P. RIVELLO, Una particolare incompatibilità per l’udienza preliminare nel rito penale minorile; ed in Guida dir., 1997, n. 42, p. 66, con commento di R. BRICCHETTI, L’udienza preliminare come vero giudizio scatena l’elemento pregiudicante, il Giudice delle leggi, escludendo che le argomentazioni utilizzabili in relazione all’udienza preliminare nel rito ‘‘ordinario’’ potessero valere con riferimento al processo minorile, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 comma 2 c.p.p. « nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare nel processo penale a carico di imputati minorenni del giudice per le indagini preliminari che si sia pronunciato in ordine a una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato ». (27) Corte cost., sent. 12 novembre 1991, n. 401, in Giur. cost., 1991, p. 3487, con nota di P.P. RIVELLO, Un articolato intervento della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giudice; Corte cost., sent. 30 dicembre 1991, n. 502, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 695; Corte cost., sent. 25 marzo 1992, n. 124, in Giur. cost., 1992, p. 1064. Va ricordato come il Giudice delle leggi non abbia mutato la propria impostazione anche successivamente alla modifica dell’art. 425 c.p.p., ad opera della l. 8 aprile 1993, n. 105, con cui è stato cancellato il richiamo alla nozione di « evidenza »: v. al riguardo Corte cost., ord. 5 febbraio 1996, n. 24, in Cass. pen., 1996, p. 1733, n. 981; Corte cost., ord. 11 aprile 1997, n. 97, ivi, 1997, p. 2408, n. 1327.
— 392 — liminare », e ciò in quanto questo sarebbe « un modus procedendi sicuramente non consentito perché quei giudici supplenti sono esclusivamente chiamati dalla legge a sostituire i titolari in caso di impedimento » (28). Il disposto dell’art. 7 l. cost. n. 1 del 1989, in base al quale il collegio deve essere composto, oltre che da tre membri effettivi, da tre membri supplenti, non può evidentemente essere stato introdotto al fine di ovviare ad un’ipotesi di incompatibilità che avrebbe i caratteri dell’assoluta automaticità, ed imporrebbe un ricorso in via generalizzata e costante allo strumento della supplenza. Se così fosse, ogni volta i membri ‘‘titolari’’, dopo l’inoltro della richiesta di autorizzazione a procedere, andrebbero sostituti dai supplenti. Questa soluzione non appare accoglibile, in quanto in tal modo verrebbe snaturato l’istituto stesso della supplenza, predisposto al limitato fine di assicurare la continuità dell’organo giudiziario, in caso di impedimento temporaneo dei suoi componenti. PIER PAOLO RIVELLO Procuratore della Repubblica presso il Tribunale militare di Torino
(28)
In tal senso v. altresì Cass., sez. VI, 19 febbraio 1997, Grafini, cit.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Atti adottati a norma del Titolo VI del trattato sull’Unione europea. Il Consiglio dell’Unione europea ha adottato, in ordine alla tematica facente parte del c.d. terzo pilastro del Trattato sull’Unione, una serie di iniziative di notevole rilevanza in materia penale: — Azione comune del 29 giugno 1998 adottata dal Consiglio, sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, sull’istituzione di una rete giudiziaria europea; — Azione comune del 29 giugno 1998 adottata dal Consiglio, sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, sulla buona prassi nell’assistenza giudiziaria in materia penale; — Azione comune del 3 dicembre 1998 sul riciclaggio di denaro e sull’individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato, adottata dal Consiglio in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea; — Piano d’azione del Consiglio e della Commissione sul modo migliore per attuare le disposizioni del Trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia (testo del 3 dicembre 1998, adottato dal Consiglio Giustizia e Affari interni) (v. infra); — Azione comune del 21 dicembre 1998, adottato dal Consiglio sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, relativa alla punibilità della partecipazione a un’organizzazione criminale negli Stati membri dell’Unione europea; — Azione comune del 22 dicembre 1998, adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, sulla corruzione nel settore privato. Per i relativi testi v. in Documenti Giustizia, n. 4 - 6/1999, cc. 499-538, la raccolta curata da L. Salazar.
Per un autentico spazio di giustizia europeo. Nell’intendimento di ‘‘promuovere l’attuazione piena e immediata del trattato di Amsterdam’’, il Consiglio Europeo, riunitosi a Tampere nei giorni 15-16 ottobre 1999, ha approvato un documento contenente una serie di ‘‘orientamenti politici’’ e di ‘‘obiettivi concreti’’ a vasto raggio (‘‘Verso un’unione di libertà, sicurezza e giustizia: i capisaldi di Tampere’’). Riproduciamo la parte del documento che più direttamente attiene alla tematica di questa rubrica: (...) B) ‘‘Un autentico spazio di giustizia europeo. 28. In un autentico spazio di giustizia europeo l’incompatibilità o la complessità dei sistemi giuridici e amministrativi degli Stati membri non dovrebbero costituire per i singoli e le imprese un impedimento o un ostacolo all’esercizio dei loro diritti.
(*)
A cura di MARIO PISANI.
— 394 — V. Migliore accesso alla giustizia in Europa. 29. Per agevolare l’accesso alla giustizia, il Consiglio europeo invita la Commissione, in cooperazione con altri organismi pertinenti, come il Consiglio d’Europa, a lanciare una campagna di informazione e a pubblicare adeguate ‘‘guide dell’utente’’ sulla cooperazione giudiziaria nell’Unione e sui sistemi giuridici degli Stati membri. Esso chiede inoltre che sia istituito un sistema di informazione di facile accesso, la cui manutenzione e il cui aggiornamento siano affidati ad una rete di autorità nazionali competenti. 30. Il Consiglio europeo invita il Consiglio a stabilire, sulla base di proposte della Commissione, norme minime che garantiscano un livello adeguato di assistenza giudiziaria nelle cause transnazionali in tutta l’Unione e specifiche norme procedurali comuni per semplificare e accelerare la composizione delle controversie transnazionali di piccola entità in materia commerciale e riguardanti i consumatori, nonché le cause relative alle prestazioni alimentari, e in materia di crediti non contestati. Gli Stati membri dovrebbero inoltre istituire procedure extragiudiziali alternative. 31. Dovrebbero essere definite norme minime comuni per i formulari o documenti multilingui da utilizzare nelle cause giudiziarie transnazionali nell’Unione. Tali documenti o formulari dovrebbero quindi essere accettati reciprocamente come documenti validi in tutti i procedimenti che si svolgono nell’Unione. 32. Tenendo presente la comunicazione della Commissione, dovrebbero essere elaborate norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità, in particolare sull’accesso delle vittime alla giustizia e sui loro diritti al risarcimento dei danni, comprese le spese legali. Dovrebbero inoltre essere creati programmi nazionali di finanziamento delle iniziative, sia statali che non governative, per l’assistenza alle vittime e la loro tutela. VI. Reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie. 33. Il rafforzamento del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e delle sentenze e il necessario ravvicinamento delle legislazioni faciliterebbero la cooperazione fra le autorità, come pure la tutela giudiziaria dei diritti dei singoli. Il Consiglio europeo approva pertanto il principio del reciproco riconoscimento che, a suo parere, dovrebbe diventare il fondamento della cooperazione giudiziaria nell’Unione tanto in materia civile quanto in materia penale. Il principio dovrebbe applicarsi sia alle sentenze sia alle altre decisioni delle autorità giudiziarie. 34. In materia civile, il Consiglio europeo chiede alla Commissione di presentare una proposta al fine di ridurre ulteriormente le procedure intermedie tuttora necessarie per ottenere il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni o sentenze nello Stato richiesto. Inizialmente, tali procedure intermedie dovrebbero essere abolite per i titoli relativi alle cause di modesta entità in materia commerciale o relative ai consumatori e per determinate sentenze nel settore delle controversie familiari (per esempio quelle relative alle prestazioni alimentari e ai diritti di visita). Dette decisioni sarebbero automaticamente riconosciute in tutta l’Unione senza che siano necessarie procedure intermedie o che sussistano motivi per rifiutarne l’esecuzione. A ciò potrebbe accompagnarsi la definizione di norme minime su taluni aspetti del diritto di procedura civile. 35. In materia penale, il Consiglio europeo invita gli Stati membri a ratificare rapidamente le convenzioni UE del 1995 e del 1996 sull’estradizione. Esso ritiene che la procedura formale di estradizione debba essere abolita tra gli Stati membri per quanto riguarda le persone che si sottraggono alla giustizia dopo essere state condannate definitivamente ed essere sostituita dal semplice trasferimento di tali persone, in conformità dell’articolo 6 del TUE. Occorre inoltre prendere in considerazione procedure di estradizione accelerate, fatto salvo il principio di un equo processo. Il Consiglio europeo invita la Commissione a presentare proposte al riguardo alla luce della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen.
— 395 — 36. Il principio del reciproco riconoscimento dovrebbe altresì applicarsi alle ordinanze preliminari, in particolare a quelle che permettono alle autorità competenti di procedere rapidamente al sequestro probatorio e alla confisca di beni facilmente trasferibili; le prove legalmente raccolte dalle autorità di uno Stato membro dovrebbero essere ammissibili dinanzi ai tribunali degli altri Stati membri, tenuto conto delle norme ivi applicabili. 37. Il Consiglio europeo invita il Consiglio e la Commissione ad adottare, entro il dicembre 2000, un programma di misure per l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento. Tale programma dovrebbe anche prevedere l’avvio di lavori su un titolo esecutivo europeo e sugli aspetti del diritto procedurale per i quali sono reputate necessarie norme minime comuni per facilitare l’applicazione di detto principio, nel rispetto dei principi giuridici fondamentali degli Stati membri. (Omissis). C) Lotta a livello dell’Unione contro la criminalità. 40. Il Consiglio europeo è profondamente impegnato a rafforzare la lotta contro le formi gravi di criminalità organizzata e transnazionale. L’elevato livello di sicurezza nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia presuppone un approccio efficace e globale nella lotta contro qualsiasi forma di criminalità. Si dovrebbe raggiungere l’obiettivo dell’elaborazione equilibrata di misure a livello di Unione contro la criminalità proteggendo nel contempo la libertà e i diritti giuridici delle persone e degli operatori economici. VIII. Prevenzione della criminalità a livello dell’Unione. 41. Il Consiglio europeo chiede di integrare gli aspetti relativi alla prevenzione della criminalità nelle azioni contro quest’ultima e di sviluppare ulteriormente i programmi nazionali di prevenzione della criminalità. A livello di politica estera e interna dell’Unione si dovrebbero individuare ed elaborare priorità comuni nella prevenzione della criminalità delle quali tener conto nel predisporre la nuova normativa. 42. Occorre sviluppare lo scambio delle ‘‘migliori prassi’’, rafforzare la rete delle autorità nazionali competenti per la prevenzione della criminalità e la cooperazione tra gli organismi nazionali impegnati in tale prevenzione, esaminando a tal fine la possibilità di un programma finanziato dalla Comunità. Le prime priorità per tale cooperazione potrebbero essere la criminalità giovanile e urbana e quella connessa alla droga. IX.
Potenziamento della cooperazione contro la criminalità.
43. Si dovrebbe trarre il massimo vantaggio dalla cooperazione tra le autorità degli Stati membri nell’ambito delle indagini sulla criminalità transnazionale svolte in qualsiasi Stato membro. Il Consiglio europeo chiede di istituire senza indugio le squadre investigative comuni previste nel trattato, inizialmente per combattere il traffico di droga, la tratta di esseri umani e il terrorismo. Le norme da definire a tale riguardo dovrebbero consentire ai rappresentanti dell’Europa di partecipare, se opportuno, a tali squadre con funzioni di supporto. 44. Il Consiglio europeo chiede l’istituzione di una Task Force operativa europea dei capi della polizia, incaricata di scambiare, in cooperazione con l’Europol, esperienze, migliori prassi e informazioni sulle tendenze attuali della criminalità transnazionale e di contribuire alla predisposizione di azioni operative. 45. L’Europol ha un ruolo fondamentale di sostegno per quanto riguarda la prevenzione della criminalità, l’analisi e le indagini a livello dell’Unione. Il Consiglio europeo chiede al Consiglio di fornire all’Europol il sostegno e le risorse necessarie. Nel prossimo futuro il suo ruolo dovrebbe essere rafforzato, conferendogli la facoltà di ottenere dati operativi dagli Stati membri e autorizzandolo a chiedere agli Stati membri di avviare, svolgere o coordinare indagini o di istituire squadre investigative comuni per alcuni settori della criminalità, rispettando nel contempo i sistemi di controllo giudiziario degli Stati membri.
— 396 — 46. Per rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità organizzata il Consiglio europeo ha convenuto di istituire un’unità (EUROJUST) composta di pubblici ministeri, magistrati o funzionari di polizia di pari competenza, distaccati da ogni Stato membro in conformità del proprio sistema giuridico. L’EUROJUST dovrebbe avere il compito di agevolare il buon coordinamento tra le autorità nazionali responsabili dell’azione penale, di prestare assistenza nelle indagini riguardanti i casi di criminalità organizzata, in particolare sulla base dell’analisi dell’Europol, e di cooperare strettamente con la rete giudiziaria europea, in particolare allo scopo di semplificare l’esecuzione delle rogatorie. Il Consiglio europeo chiede al Consiglio di adottare lo strumento giuridico necessario entro la fine del 2001. 47. Dovrebbe essere istituita un’accademia europea di polizia per la formazione degli alti funzionari incaricati dell’applicazione della legge. Essa dovrebbe essere avviata come una rete degli istituti di formazione nazionali esistenti ed essere aperta anche alle autorità dei paesi candidati. 48. Fatti salvi i settori più ampi previsti nel trattato di Amsterdam e nel piano di azione di Vienna, il Consiglio europeo ritiene che, per quanto riguarda le legislazioni penali nazionali, gli sforzi intesi a concordare definizioni, incriminazioni e sanzioni comuni dovrebbero incentrarsi in primo luogo su un numero limitato di settori di particolare importanza, come la criminalità finanziaria (riciclaggio di denaro, corruzione, falsificazione dell’euro), il traffico di droga, la tratta di esseri umani e in particolare lo sfruttamento delle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, la criminalità ad alta tecnologia e la criminalità ambientale. 49. La criminalità economica grave presenta sempre più spesso aspetti relativi a imposte e dazi. Il Consiglio europeo invita pertanto gli Stati membri a fornire piena assistenza giudiziaria nelle indagini e nei procedimenti riguardanti la criminalità economica grave. 50. Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza di affrontare il problema della droga in modo globale. Esso invita il Consiglio ad adottare la strategia europea contro la droga per il periodo 2000-2004 prima della riunione del Consiglio europeo di Helsinki. X.
Azione specifica antiriciclaggio.
51. Il riciclaggio dei capitali è il nucleo stesso della criminalità organizzata. Esso dovrebbe essere sradicato ovunque si manifesti. Il Consiglio europeo è determinato ad assicurare che siano intraprese iniziative concrete per rintracciare, sequestrare e confiscare i proventi di reato. 52. Si esortano gli Stati membri a dare piena attuazione, anche in tutte le loro dipendenze, alle disposizioni della direttiva antiriciclaggio, alla convenzione di Strasburgo del 1990 e alle raccomandazioni della Task Force ‘‘Azione finanziaria’’. 53. Il Consiglio europeo esorta il Consiglio e il Parlamento europeo a adottare al più presto il progetto di direttiva antiriciclaggio riveduta, che la Commissione ha recentemente proposto. 54. Occorre, tenendo nella debita considerazione la protezione dei dati, migliorare la trasparenza delle transazioni finanziarie e degli assetti societari e accelerare lo scambio di informazioni fra le unità di informazione finanziaria (FIU) esistenti relativamente alle operazioni sospette. Indipendentemente dalle disposizioni sulla segretezza applicabili alle attività bancarie o ad altre attività commerciali, le autorità giudiziarie e le FIU devono avere il diritto, fatto salvo il controllo giudiziario, di ricevere informazioni, qualora tali informazioni siano necessarie per indagini sul riciclaggio dei capitali. Il Consiglio europeo invita il Consiglio ad adottare le disposizioni necessarie a tal fine. 55. Il Consiglio europeo chiede un ravvicinamento delle normative e procedure penali relative al riciclaggio dei capitali (ad es., in materia di rintracciamento, sequestro e confisca dei capitali). La sfera delle attività criminose che si configurano come reati presupposto del
— 397 — riciclaggio dovrebbe essere il più possibile uniforme e sufficientemente vasta in tutti gli Stati membri. 56. Il Consiglio europeo invita il Consiglio a estendere la competenza dell’Europol al riciclaggio in generale, a prescindere dal tipo di reato da cui i proventi riciclati derivano. 57. Dovrebbero essere definite regole uniformi per impedire che società o altre persone giuridiche registrate fuori dalla giurisdizione dell’Unione vengano usate per occultare e riciclare i proventi di attività criminose. L’Unione e gli Stati membri dovrebbero concludere intese con i centri offshore dei paesi terzi per assicurare una cooperazione efficiente e trasparente nel campo dell’assistenza giudiziaria, seguendo le raccomandazioni formulate in materia dalla Task force ‘‘Azione finanziaria’’. 58. Si invita la Commissione a illustrare in un rapporto le disposizioni delle normative nazionali nel settore bancario, finanziario e societario che ostacolano la cooperazione internazionale. Il Consiglio è a sua volta invitato a trarre le necessarie conclusioni da tale rapporto’’.
‘‘Ministro della giustizia’’ e cooperazione internazionale. 1. La Costituzione menziona, espressamente e per ben due volte (artt. 107, comma 2o, e 110) un solo ministro: il ‘‘ministro della giustizia’’. Purtuttavia, e nonostante che, oltretutto, fosse compito del nuovo codice di procedura penale attuare i principî della Costituzione medesima, tale codice — in difformità rispetto al precedente — a più riprese, ed anche nella disciplina dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere, parla di ‘‘ministro di grazia e giustizia’’. 2. Questa discrasia terminologica (v. Ind. pen., 1989, p. 528), pur segnalata con tempestività (da chi scrive) ai competenti uffici ministeriali, è stata virtualmente superata solo col 14 settembre 1999, cioè all’entrata in vigore del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo). Nel dettare una serie di ‘‘norme per la razionalizzazione, il riordino, la soppressione e la fusione di Ministeri, ecc.’’, l’art. 2, comma 1o, di questo decreto fissa i ministeri nel numero di 12 — ma ‘‘a decorrere dalla prossima legislatura’’ —, e indica, al numero 3, il ‘‘Ministero della giustizia’’. Le funzioni e i compiti attribuitigli sono ripartiti in quattro ‘‘aree funzionali’’. La prima di esse, intitolata ‘‘servizi relativi alla attività giudiziaria’’, comprende anche l’ambito della ‘‘cooperazione internazionale in materia civile e penale’’. 3. Successivamente, e... senza attendere la ‘‘prossima legislatura’’, è intervenuto il d.P.R. 13 settembre 1999 che, genericamente richiamando (‘‘... ai sensi del quale’’) il decreto del 30 luglio, finalmente sancisce la ‘‘nuova denominazione del Ministero e del Ministro della Giustizia’’.
Ancora sui c.d. mandati di cattura internazionali (1). Quando una persona sospettata è ricercata fuori dai confini nazionali, i mezzi di informazione annunciano che è stato emesso un mandato d’arresto internazionale. Nella maggior parte dei casi, questa formulazione è inesatta. ‘‘In realtà, non esistono mandati d’arresto internazionali, nel senso proprio del termine, che in un solo caso: quello dei mandati che, dal 1995, sono emessi dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per la repressione dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, così come contro gli atti di genocidio perpetrati nell’ex-Jugoslavia.
(1)Sul tema v. Una circolare sui c.d. mandati di cattura internazionali, in Ind. pen., 1988, p. 649.
— 398 — In questo contesto ne sono stati emessi 66. Noi li abbiamo ‘‘diffusi nel mondo intero’’, osserva il vice-direttore dell’Interpol Serge Sabourin. Questo però non significa che i truffatori, gli assassini, i violentatori e gli altri criminali non hanno motivo di temere le ricerche internazionali. Nel loro caso, si tratta di un ‘‘mandato d’arresto nazionale a diffusione internazionale’’ (trad. da J.-N.C., Voyage au bout d’un mandat d’amener à diffusion internationale, in Tribune de Genève, del 21 marzo 1999)’’.
Locus regit actum: in tema di sequestri all’estero in materia bancaria. ‘‘Il 17 gennaio 1995 la Chambre d’accusation di Ginevra ha deciso in ordine all’iniziativa di un giudice istruttore che mirava a bloccare le disponibilità di una società presso una filiale all’estero di una banca ginevrina. I fatti, in sintesi, sono i seguenti: dopo aver proceduto alla perquisizione nei locali di una banca di Ginevra, un giudice istruttore decise di porre sotto sequestro il saldo attivo di una società, sul conto della quale dei fondi sospetti erano stati accreditati, e poi in parte trasferiti presso la filiale alle Bahamas della banca ginevrina. Nella sua ordinanza il giudice istruttore chiedeva alla banca: — di disporre gli adempimenti necessari per il blocco dei fondi trasmessi alla filiale delle Bahamas; — di comunicare tutta la documentazione bancaria relativa ai conti alimentati mediante i trasferimenti da Ginevra; — di indicargli se ad essa spettasse un potere di gestione sulla disponibilità accreditate su questo conto estero. Decidendo a seguito di ricorso da parte della banca di Ginevra, la Chambre d’accusation ha annullato la decisione impugnata in ordine ai punti di cui sopra. Nella sua motivazione (nei suoi considérants), la Chambre d’accusation ha insistito sul fatto che le norme processuali hanno un carattere strettamente territoriale. In applicazione del criterio locus regit actum, essa ha deciso che le autorità giudiziarie sono legittimate a procedere soltanto nel loro Cantone. Le misure disposte non sono in grado di estendere all’estero la loro efficacia. In buona sostanza, la Chambre d’accusation ha specificato [citando G. PIQUEREZ, Précis de procédure pénale suisse, 2a ed., 1994, nn. 776-778] che nella misura in cui degli atti devono venire compiuti al di fuori del territorio di loro competenza, le autorità giudiziarie devono procedere attraverso la via usuale della cooperazione, intercantonale o internazionale. La decisione della Chambre d’accusation va apprezzata, in quanto delimita la sfera di competenza del giudice istruttore in materia di sequestri e di ordini di produzione. Essa consacra quello che alcuni autori hanno chiamato [G. Sträuli] il ‘‘principio della territorialità delle indagini penali’’ (...). Si può inoltre osservare che il divieto, per un magistrato, di dare esecuzione, all’estero, ad atti espressione del potere pubblico, senza il consenso esplicito delle competenti autorità locali, si fonda chiaramente su un principio generale ben fermo del diritto delle genti, che deriva dalla sovranità di ogni Stato sul proprio territorio’’. (trad. da B. CHAPPUIS, Les obligations du banquier en cas de mesures de blocage émanant d’une autorité pénale, in AA.VV., Mesures provisionnelles judiciaires et administratives, a cura di P. Bernasconi e R. Chopard, per il Centre d’Etudes Bancaires dell’Association Bancaire Tessinoise, Bellinzona, Méta-Editions, 1999, pp. 46-47).
L’impunità e la deterrenza dei Tribunali internazionali. ‘‘... Occorre ritornare allo spirito della Dichiarazione universale delle Nazioni Unite, favorire l’intesa tra i popoli anche se ‘tanti governi interpretano il mondo in maniera sempre più egoista, guardando ai propri interessi più che al bene dell’umanità’.
— 399 — È questa la filosofia che Kofi Annan, il segretario generale dell’Onu, esprime durante una conversazione in una saletta dell’Hotel Hassler dopo essere stato da Massimo D’Alema e prima di partire per Sarajevo. (...) L’estradizione di Pinochet per delitti ordinati mentre governava avrà conseguenze nel diritto internazionale? Significa un cambio di tendenza? ‘Quanto è successo nelle Corti inglese e spagnola indica una novità. Indipendentemente dal posto in cui un grave crimine sarà stato commesso, l’impunità non verrà più accettata. Spero che questo, la creazione di una Corte internazionale e i Tribunali per Ruanda e Jugoslavia funzionino da deterrente, affinché si sappia che quanto viene commesso potrà rivelarsi prima o poi oggetto di imputazione. Ciò modificherà le attitudini di alcuni leader’.’’ (M. CAPRARA, Kofi Annan: « No a un Kosovo indipendente », in Corriere della Sera del 12 ottobre 1999, p. 14).
Dalla Croazia: l’impegno della non-consegna (e l’inerzia del Consiglio di sicurezza). ‘‘... L’opposizione gode anche dell’appoggio sempre più aperto della comunità internazionale che rimprovera al governo di Tudjman la mancanza di democrazia nel Paese, il controllo della televisione di Stato, e l’insufficiente collaborazione con il Tribunale internazionale dell’Aja. Sfidando le sanzioni internazionali Zagabria rimanda da mesi l’estradizione alla corte di Mladen Natelilic, detto ‘Tuta’, croato della Bosnia Erzegovina che al comando di un formazione paramilitare composta perlopiù da ex detenuti si è macchiato di crimini di guerra contro i musulmani. Finalmente la Corte Suprema di Zagabria ha confermato la consegna di ‘Tuta’ alla Corte dell’Aja, ma la decisione è stata ancora una volta sospesa perché l’uomo, detenuto in una prigione croata, sarebbe in cattive condizioni di salute. Una commissione medica del Tribunale dovrebbe accertare nei prossimi giorni la situazione. ‘‘La questione di ‘Tuta’ riguarda il sistema giudiziario croato che sarà rispettato’’, ha detto Tudjman, aggiungendo che Zagabria è sicuramente quella che ha collaborato al meglio con il tribunale dell’Aja, mentre i responsabili dei crimini commessi contro i croati sono tuttora in libertà. ‘‘Continueremo a cooperare con la corte, ma non permetteremo mai che nessun generale croato venga estradato al tribunale. I generali croati hanno difeso la Croazia dall’aggressione serba. Ogni guerra è un male, ma quelli che hanno liberato il Paese dal male non possono venire chiamati a rispondere di fronte al tribunale’’. (I. BADURINA, Tudjman: non consegnerò mai un generale croato, in La Stampa del 19 ottobre 1999, p. 11). ‘‘Arrivé comme juge au Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie (TPIY) en janvier 1994, Claude Jorda, ancien procureur général à Bordeaux et à Paris, a été nommé mercredi 17 novembre président du TPIY. Cet ancien collaborateur de Robert Badinter à la chancellerie, plaide, dans son premier entretien à ce poste, pour une réforme du tribunal, passant notamment par des procès moins longs, afin de lutter contre les risques d’engorgement (...). Reste la question des sanctions. Gabrielle Mc Donald (n.d.r.: ex presidente del TPIY) avait regretté que le Conseil de sécurité tarde à agir contre la Croatie et la Serbie, qui refusent de coopérer avec le TPIY. Que peut faire son successeur? ‘Je ne sais pas si je peux faire beaucoup plus. Peut-être peut-on faire différemment. Une chose est certaine: je serai un président actif, utilisant tous ses pouvoirs, et rien que ses pouvoirs. J’insisterai aussi souvent qu’il le faut auprès des Etats membres du Conseil de sécurité pour que les mesures appropriées, voire des sanctions, soient prises contre les Etats défaillants’’’. (A. FRANCO, Le nouveau président du TPIY pour l’ex Yugoslavie souhaite « renforcer les pouvois des juges », in Le Monde, del 19 novembre 1999, p. 38).
— 400 — Italia-Sri Lanka: un negoziato per l’estradizione (2). ‘‘... i figli di Erika Lehrer Grego, la cardiologa uccisa la sera del 20 marzo ’98 a Milano, la loro battaglia internazionale contro il killer l’avevano cominciata neanche due giorni più tardi: lui, il maggiordomo cingalese [Rambukkanage Pereira Sudath Nishanta] che l’aveva appena accoltellata, in meno di 24 ore era già riuscito a lasciare Milano, a raggiungere Roma, e a salire sull’aereo che lo riportava al sicuro a casa sua, nello Sri Lanka. (...) I familiari della vittima, una delle esponenti più note della comunità ebraica milanese, per mantenere viva l’attenzione delle autorità sulla faccenda avevano speso in effetti tutte le loro energie: soprattutto presso il ministro Dini e il suo entourage, cui si è aggiunta l’attivazione dei ministeri della Giustizia e degli Interni. Le basi per il negoziato sull’accordo, secondo la Farnesina, erano state gettate col governo cingalese già in maggio da una delegazione guidata dal professor Vittorio Mele’’. (P. FOSCHINI, « Mi costituisco per il karma », in Corriere della Sera, dell’8 settembre 1999, p. 17).
Cooperazione internazionale nella lotta contro le sette. ‘‘... Since the beginning of this year, the Chinese Government has set the abolishing of cults as a key task for law-enforcement departments and adopted the principle of ‘combining prevention and crackdowns, with prevention as the primary focus’. The Ninth National People’s Congress Standing Committee passed a resolution urging governments and judicial departments at all levels to prevent the emergence and spread of cults. It quoted a French anti-cult official who proposed that international co-operation is necessary for fighting cults as many of them have formed transnational networks. Some large cult bodies have been known to set up their headquarters in countries with a lax legal system’’. (Da China Dai, del 30 dicembre 1999, sotto il titolo: Law will win in battles against cults).
(2) Per qualche riferimento circa i rapporti (indiretti) tra Italia e Sri Lanka — già Ceylon — in tema di estradizione v. PISANI-MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 1979, p. 300; 3a ed., 1996, p. 295.
LEGGI E DOCUMENTI
CAMERA DEI DEPUTATI. — DISEGNO DI LEGGE N. 5491 PRESENTATO DAL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI (DINI) E DAL MINISTRO DI GRAZIA E GIUSTIZIA (DILIBERTO) DI CONCERTO CON IL MINISTRO DELLE FINANZE (VISCO) E CON IL MINISTRO DEL TESORO, DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA (CIAMPI). — Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997 - Presentato il 4 dicembre 1998.
ART. 1. (Ratifica di Atti internazionali). — 1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare i seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995; suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996; Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996; nonché Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. ART. 2. (Entrata in vigore sul piano internazionale). — 1. Piena ed intera esecuzione è data agli Atti internazionali indicati nell’art. 1 a decorrere dalla data della loro entrata in vigore, in conformità a quanto rispettivamente disposto da ciascuno di essi. ART. 3. (Concussione e corruzione di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — 1. Dopo l’art. 322 del codice penale sono inseriti i seguenti: ‘‘Art. 322-bis. (Concussione e corruzione di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — Le disposizioni degli artt. da 317 a 320 e dell’art. 322, comma 3 e 4, si applicano anche: 1) ai membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee; 2) ai funzionari e agli agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari delle Comunità europee o del regime applicabile agli agenti delle Comunità europee; 3) alle persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle Comunità europee; 4) ai membri e agli addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono le Comunità europee; 5) a coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione europea, svolgono fun-
— 402 — zioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio. Le disposizioni degli artt. 321 e 322, comma 1 e 2, si applicano anche se il denaro o altra utilità è dato, offerto o promesso: 1) alle persone indicate nel comma 1 del presente articolo; 2) a persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali, qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali. Le persone indicate nel comma 1 sono assimilate ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti, e agli incaricati di un pubblico servizio negli altri casi. Art. 322-ter. (Confisca). — Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per alcuno dei reati previsti dagli artt. da 317 a 322-bis, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale profitto o prezzo’’. ART. 4. (Modifica all’art. 295 del testo unico approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, in materia di reati doganali). — 1. Dopo il comma 2 dell’art. 295 del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, è aggiunto il seguente: ‘‘Per gli stessi delitti, alla multa è aggiunta la reclusione fino a tre anni quando l’ammontare dei diritti di confine dovuti è maggiore di lire 90 milioni’’. ART. 5. (Modifica all’art. 2 della l. 23 dicembre 1986, n. 898, in materia di frodi ai danni del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia). — 1. Nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 2 della l. 23 dicembre 1986, n. 898, come sostituito dall’art. 73 della l. 19 febbraio 1992, n. 142, le parole: ‘‘venti milioni’’ sono sostituite dalle seguenti: ‘‘sette milioni’’. ART. 6. (Responsabilità delle persone giuridiche). — 1. La legge stabilisce i casi nei quali le persone giuridiche sono autonomamente responsabili dei reati di corruzione attiva e istigazione alla corruzione, previsti dagli artt. 321, 322, comma 1 e 2, e 322-bis, comma 2, del codice penale, e le sanzioni ad esse applicabili. ART. 7. (Autorità responsabile). — 1. Il Ministero di grazia e giustizia - Direzione generale degli affari penali è designato quale autorità responsabile per le finalità di cui all’art. 11 della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. ART. 8. (Entrata in vigore). — 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
SENATO DELLA REPUBBLICA. — RELAZIONE DELLE COMMISSIONI PERMANENTI 2A E 3A RIUNITE N. 3915-A (Testo approvato dalla Camera e dalle Comm. Senato) (2a Giustizia) (3a Affari esteri, emigrazione) (Relatori MAGGIORE e PETTINATO) Comunicata alla Presidenza il 28 marzo 2000 sul disegno di legge n. 5491. Presentato dal Ministro degli affari esteri e dal Ministro di grazia e giustizia di concerto col Ministro delle finanze e col Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica - Approvato dalla Camera dei deputati il 24 marzo 1999 (V Stampato Camera n. 5491) - Trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza il 25 marzo 1999.
— 403 — CAMERA
SENATO
DISEGNO DI LEGGE APPROVATO DALLA CAMERA DEI DEPUTATI
DISEGNO DI LEGGE Testo proposto dalle Commissioni riunite
Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997.
Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto 9 a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche private e degli enti privi di personalità giuridica in relazione alla commissione di reati contro la Pubblica Amministrazione e in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, nonché di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
ART. 1. (Ratifica di Atti internazionali) 1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare i seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995; suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996; Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996; nonché Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri
ART. 1. (Ratifica di Atti internazionali). — Identico.
— 404 — nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. ART. 2. (Entrata in vigore sul piano internazionale). — 1. Piena ed intera esecuzione è data agli Atti internazionali indicati nell’art. 1 a decorrere dalla data della loro entrata in vigore, in conformità a quanto rispettivamente disposto da ciascuno di essi.
ART. 2. (Entrata in vigore sul piano internazionale) — Identico.
ART. 3. (Concussione e corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — 1. Dopo l’art. 322 del codice penale sono inseriti i seguenti: ‘‘Art. 322-bis. (Concussione e corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — Le disposizioni degli artt. da 317 a 320 e dell’art. 322, comma 3 e 4, si applicano anche: 1) ai membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee; 2) ai funzionari e agli agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari delle Comunità europee o del regime applicabile agli agenti delle Comunità europee; 3) alle persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle Comunità europee; 4) ai membri e agli addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono le Comunità europee; 5) a coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione europea, svolgono funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio. Le disposizioni degli artt. 321 e 322, comma 1 e 2, si applicano anche se il denaro o altra utilità è dato, offerto o promesso: 1) alle persone indicate nel comma 1 del presente articolo; 2) a persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri o orga-
ART. 3. (Concussione e corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — 1. Identico: ‘‘Art. 322-bis. (Concussione e corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — Identico.
— 405 — nizzazioni pubbliche internazionali, qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali. Le persone indicate nel comma 1 sono assimilate ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti, e agli incaricati di un pubblico servizio negli altri casi. Art. 322-ter. (Confisca). — Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per alcuno dei reati previsti dagli artt. da 317 a 322-bis, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale profitto o prezzo’’.
Art. 322-ter. — (Confsca). — Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli artt. da 316-bis a 320, anche se commessi dai soggetti indicati nell’art. 322-bis, comma 1, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo salvo che appartengano a persona estranea al reato ovvero quando essa non è possibile la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale prezzo. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall’art. 321, anche se commesso ai sensi dell’art. 322-bis, comma 2, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell’art. 322-bis, comma 2. Nei casi di cui ai commi precedenti, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o i beni oggetto di confisca’’. 2. Dopo l’art. 640-ter del codice penale è inserito il seguente: ‘‘Art. 640-quater. — Nei cusi di cui agli artt. 640, comma 2, n. 1, 640-bis e 640-ter, comma 2, con esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nelI’art. 322-ter’’. ART. 4. (Definizione della condotta di frode). — 1. All’art. 640-bis del codice penale sono aggiunti i seguenti commi:
— 406 — ‘‘Ai fini di cui al comma 1, integra la condotta illecita ivi considerata l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero l’omissione di informazioni dovute, cui consegua l’indebito percepimento di benefici provenienti dagli enti. Si applica la sola sanzione amministrativa da cinquanta a cinquecento milioni di lire, e comunque non superiore al triplo del beneficio conseguito, se questo non supera i venti milioni di lire’’. ART. 4. (Modifica all’art. 295 del testo unico approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, in materia di reati doganali). — 1. Dopo il comma 2 dell’art. 295 del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, è aggiunto il seguente: ‘‘Per gli stessi delitti, alla multa è aggiunta la reclusione fino a tre anni quando l’ammontare dei diritti di confine dovuti è maggiore di lire 90 milioni’’.
ART. 5. (Modifica all’art. 295 del testo unico approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, in materia di reati doganali). — Identico.
ART. 5. (Modifica all’art. 2 della l. 23 dicembre 1986, n. 898, in materia di frodi ai danni del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia). — 1. Nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 2 della l. 23 dicembre 1986, n. 898, come sostituito dall’art. 73 della l. 19 febbraio 1992, n. 142, le parole: ‘‘venti milioni’’ sono sostituite dalle seguenti: ‘‘sette milioni’’.
ART. 6. (Modifica all’art. 2 della l. 23 dcembre 1986, n. 898, in materia di frodi ai danni del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia). — Identico.
ART. 6. (Delega al Governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche). — 1. Il Governo della Repubblica è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, conformemente agli atti internazionali indicati all’art. 1 della presente legge, un decreto legislativo concernente la responsabilità delle persone giuridiche, in relazione ai reati di cui alla presente legge, con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi:
ART. 7. (Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giundiche private e degli enti privi di personalità giuridica in relazione alla commissione di reati contro la Pubblica Amministrazione e in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, nonché di prevenzione degli infortnni sul lavoro). — 1. Il Governo della Repubblica è delegato ad emanare, entro otto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche private e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale, con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere la responssbità in relazione alla commissione dei reati di cui agli artt.
— 407 —
a) previsione della responsabilità penale personale esclusivamente nei confronti dei responsabili delle persone giuridiche;
b) previsione, in aggiunta alle disposizioni sulla responsabilità civile, della sanzione amministrativa pecuniaria da lire cinquanta milioni a lire tre miliardi, nei confronti delle persone giuridiche, quando i loro responsabili o le persone sottoposte al loro controllo hanno commesso il reato a vantaggio delle persone giuridiche stesse ed in proporzione alla loro capacità economica;
316-bis, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 320, 321, 322, 322-bis, 640, comma 2, n. 1, 640-bis e 640-ter, comma 2, con esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, del codice penale, nonché dei reati, da elencare tassativamente nel decreto legislativo, previsti dalle leggi speciali o dal predetto codice, in materia di tutela dell’ambiente e del territorio ovvero conseguenti alla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale; b) prevedere che i soggetti di cui alI’alinea del presente comma sono responsabili in relazione ai reati commessi, a loro vantaggio o nel loro interesse, da chi svolge funzioni di rappresentanza o di amministrazione o di direzione, ovvero da chi esercita, anche di fatto, poteri di gestione e di controllo ovvero ancora da chi è sottoposto alla direzione o alia vigilanza delle persone fisiche menzionate, quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi a tali funzioni; prevedere l’esclusione della responsabilità dei soggetti di cui all’alinea del presente comma nei casi in cui l’autore abbia commesso il reato nell’esclusivo interesse proprio o di terzi; c) prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive nei confronti dei soggetti indicati nell’alinea del presente comma; d) prevedere una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore a lire cinquanta milioni e non superiore a lire tre miliardi stabilendo che, ai fini della determinazione in concreto della sanzione, si tenga conto anche dell’ammontare dei proventi del reato e delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, prevedendo altresì che, nei casi di particolare tenuità del fatto, la sanzione da applicare non sia inferiore a lire venti milioni e non sia superiore a lire duecento milioni; prevedere inoltre l’esclusione del pagamento in misura ridotta; e) prevedere che gli enti rispondono del pagamento della sanzione pecuniaria entro i limiti del fondo comune o del patrimonio sociale; f) prevedere la confisca del profitto o del
— 408 — prezzo del reato, anche nella forma per equivalente; c) previsione, in relazione alla gravità del reato commesso, di una o più delle seguenti sanzioni amministrative, quando l’illecito sia strumentale all’attività della persona giuridica: 1) confisca; 2) chiusura temporanea dello stabilimento; 3) revoca della concessione; 4) sospensione dell’attività produttiva;
d) applicazione delle sanzioni amministrative di cui alle lett. b) e c) da parte dell’autorità amministrativa competente per territorio, cui è trasmessa la sentenza che accerta la responsabilità penale e la sussistenza dei presupposti di cui alle medesime lett. b) e c); e) applicazione, per le sanzioni amministrative di cui alle lett. b) e c), delle disposizioni di cui alla l. 24 novembre 1981, n. 689, ad eccezione dell’art. 16.
g) prevedere, nei casi di particolare gravità ovvero quando l’ente sia stato costituito o venga stabilmente utilizzato allo scopo di commettere i reati di cui d presente articolo, I’applicazione di una o più delle seguenti sanzioni in aggiunta alle sanzioni pecuniarie: 1) chiusura temporanea dello stabilimento o della sede commerciale; 2) sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; 3) interdizione temporanea dalI’esercizio dell’attività ed eventuale nomina di altro soggetto per l’esercizio vicario della medesima quando la prosecuzione dell’attività è necessaria per evitare pregiudizi ai terzi; 4) divieto anche temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione; 5) esclusione temporanea da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi, ed eventuale revoca di quelli già concessi; 6) pubblicazione della sentenza; h) prevedere che la sanzione amministrativa pecuniaria di cui alla lett. d) è diminuita da un terzo alla metà ed escludere l’applicabilità di una o più delle sanzioni di cui alla lett. g) in conseguenza dell’adozione da parte dei soggetti di cui all’alinea del presente comma di comportamenti idonei ad assicurare un’efficace riparazione o reintegrazione rispetto alI’offesa realizzata; i) prevedere che le sanzioni di cui alla lett. g) sono applicabili anche in sede cautelare, con adeguata tipizzazione dei requisiti richiesti; l) prevedere che le sanzioni amministrative a carico degli enti sono applicate dal giudice competente a conoscere del reato e che per il procedimento di accertamento della responsabilità si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale, assicurando forme di adeguata pertecipazione e di difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale;
m) prevedere che la responsabilità degli enti non esclude quella della personalità che ha commesso il reato e che la competenza del giudice penale in ordine alla responsabi-
— 409 —
2. Il decreto legislativo di cui al comma 1 è adottato ai sensi dell’art. 14 della l. 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro di grazia e giustizia. 3. Lo schema di decreto legislativo di cui al comma 1 è trasmesso alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica almeno quaranta giorni prima della scadenza del termine previsto per l’esercizio della delega. Le Commissioni parlamentari competenti per materia esprimono il loro parere entro quindici giorni dalla data di trasmissione dello schema medesimo.
lità degli enti permane quale che sia la decisione sulla responsahllità penale delle persone fisiche. 2. Il Governo è altresì delegato ad emanare, con il decreto di cui al comma 1, le norme di coordinamento con tutte le altre leggi dello Stato, nonché le norme di carattere transitorio. Soppresso.
Soppresso. (Vedi in diversa formulazione, l’art. 10).
ART. 8. (Delega al Governo in materia di interpretazione, in via pregiudiziale, da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee). — 1. Il Governo è delegato ad emanare, entro otto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo per disciplinare le modalità con cui gli organi giurisdizionali nazionali possono richiedere che la Corte di giustizia delle Comunità europee si pronunci in via pregiudiziale sull’interpretazione della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e del suo primo protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere che ogni organo giurisdizionale possa richiedere che la Corte di giustizia si pronunci in via pregiudiziale su una questione sollevata in un giudizio pendente dinanzi ad esso e relativa all’interpretazione della Convenzione e del suo primo protocollo, qualora tale organo giurisdizionale reputi necessaria una decisione su questo punto per pronunciare sentenza; b) adottare le ulteriori norme di attuazione e quelle di coordinamento eventualmente necessarie.
— 410 — ART. 7. (Autorità responsabile). — 1. Il Ministero di grazia e giustizia - Direzione generale degli affari penali è designato quale autorità responsabile per le finalità di cui all’art. 11 della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997.
ART. 9. (Autorità responsabile). — 1. Il Ministero della giustizia - Direzione generale degli affari penali è designato quale autorità responsabile per le finalità di cui all’art. 11 della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997.
(Vedi in diversa formulazione, il comma 3 dell’art. 6)
ART. 10. (Esercizio delle dekghe). — 1. Gli schemi dei decreti legislativi di cui agli artt. 7 e 8 sono trasmessi alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica almeno novanta giorni prima della scadenza prevista per l’esercizio delle deleghe. Le Commissioni parlamentari competenti per materia esprimono il loro parere entro sessanta giorni dalla data di trasmissione degli schemi medesimi. Decorso tale termine, i decreti possono essere adottati anche in mancanza del parere. ART. 11. (Norma transitoria). — 1. Le disposizioni di cui all’art. 322-ter del codice penale, introdotto dal comma 1 dell’art. 3, non si applicano ai reati ivi previsti, nonché a quelli indicati nel comma 2 del medesimo art. 3, commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge.
ART. 8. (Entrata in vigore). — 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
ART. 12. (Entrata in vigore). — Identico.
SENATO DELLA REPUBBLICA TESTO APPROVATO CON MODIFICAZIONI IL 10 MAGGIO 2000.
ART. 1. (Ratifica di Atti internazionali). — 1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare i seguenti Atti internazionali elaborati in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995; suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996; Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996; nonché Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. ART. 2. (Entrata in vigore sul piano internazionale). — 1. Piena ed intera esecuzione è data agli Atti internazionali indicati nell’art. 1 a decorrere dalla data della loro entrata in vigore, in conformità a quanto rispettivamente disposto da ciascuno di essi.
— 411 — ART. 3. (Competenza). — 1. All’art. 7 del codice penale, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente: ‘‘Sono altresì puniti secondo la legge italiana il cittadino che commette in territorio estero taluno dei delitti previsti dall’art. 322-bis, comma 1 e 2, ovvero dall’art. 640-bis se il fatto riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati od altre erogazioni concessi od erogati da parte delle Comunità europee, nonché lo straniero che commette in territorio estero taluno di detti delitti quando il prezzo o il profitto del reato è stato conseguito da cittadino italiano o da soggetto avente sede, residenza, domicilio o dimora nello Stato e, trattandosi di cittadino comunitario, vi è il consenso dello Stato cui appartiene’’. 2. Nell’art. 344 del codice di procedura penale è aggiunto, in fine, il seguente comma: ‘‘4-bis. Le disposizioni del presente articolo e dell’art. 343 si applicano anche quando per procedere è richiesto il consenso di uno Stato estero’’. ART. 4. (Peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — 1. Dopo l’art. 322 del codice penale sono inseriti i seguenti: ‘‘Art. 322-bis. (Peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri). — Le disposizioni degli artt. 314, 316, da 317 a 320 e 322, comma 3 e 4, si applicano anche: 1) ai membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee; 2) ai funzionari e agli agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari delle Comunità europee o del regime applicabile agli agenti delle Comunità europee; 3) alle persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle Comunità europee; 4) ai membri e agli addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono le Comunità europee; 5) a coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione europea, svolgono funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio. Le disposizioni degli artt. 321 e 322, comma 1 e 2, si applicano anche se il denaro o altra utilità è dato, offerto o promesso: 1) alle persone indicate nel comma 1 del presente articolo; 2) a persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali, qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali. Le persone indicate nel comma 1 sono assimilate ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti, e agli incaricati di un pubblico servizio negli altri casi. Art. 322-ter. (Confisca). — Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli artt. da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati nell’art. 322-bis, comma 1, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall’art. 321, anche se commesso ai sensi dell’art. 322-bis, comma 2, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o pro-
— 412 — messe al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell’art. 322-bis, comma 2. Nei casi di cui al comma 1 e 2, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato. Quando le utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio non hanno natura patrimoniale, il giudice determina le somme di denaro o i beni assoggettati a confisca avuto riguardo alla natura e alla rilevanza di dette utilità’’. 2. Dopo l’art. 640-ter del codice penale è inserito il seguente: ‘‘Art. 640-quater. — Nei casi di cui agli artt. 640, comma 2, n. 1, 640-bis e 640-ter, comma 2, con esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nell’art. 322-ter’’. ART. 5. (Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato). — 1. Dopo l’art. 316-bis del codice penale è inserito il seguente: ‘‘Art. 316-ter. (Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato). — Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a lire sette milioni settecentoquarantacinquemila si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da dieci a cinquanta milioni di lire. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito’’. ART. 6. (Modifiche agli artt. 9 e 10 del codice penale). — 1. All’art. 9, comma 3, del codice penale, le parole: ‘‘a danno di uno Stato estero’’, sono sostituite dalle seguenti: ‘‘a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero’’. 2. All’art. 10, comma 2, del codice penale, le parole: ‘‘a danno di uno Stato estero’’, sono sostituite dalle seguenti: ‘‘a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero’’. ART. 7. (Modifiche agli artt. 32-quater e 323-bis del codice penale). — 1. All’art. 32quater del codice penale, dopo la parola: ‘‘316-bis’’ è inserita la seguente: ‘‘, 316-ter’’, e dopo la parola: ‘‘322’’ è inserita la seguente: ‘‘, 322-bis’’. 2. All’art. 323-bis del codice penale, dopo la parola: ‘‘316-bis’’ è inserita la seguente: ‘‘, 316-ter’’, e dopo la parola: ‘‘322’’ è inserita la seguente: ‘‘, 322-bis’’. ART. 8. (Modifica all’art. 295 del testo unico approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, in materia di reati doganali). — 1. Dopo il comma 2 dell’art. 295 del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, è aggiunto il seguente: ‘‘Per gli stessi delitti, alla multa è aggiunta la reclusione fino a tre anni quando l’ammontare dei diritti di confine dovuti è maggiore di lire novantasei milioni e ottocentomila’’. ART. 9. (Modifiche all’art. 295-bis del testo unico approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43). — 1. Al comma 1 e 4 dell’art. 295-bis del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, e successive modificazioni, le parole: ‘‘lire sette milioni’’ sono sostituite dalle seguenti: ‘‘lire sette milioni settecentoquarantacinquemila’’. ART. 10. (Modifica all’art. 297 del testo unico approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43). — 1. All’art. 297 del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, e successive modificazioni, le parole: ‘‘lire
— 413 — ventuno milioni’’ sono sostituite dalle seguenti: ‘‘lire ventitré milioni duecentotrentacinquemila’’. ART. 11. (Modifica all’art. 2 della l. 23 dicembre 1986, n. 898, in materia di frodi ai danni del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia). — 1. Nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 2 della l. 23 dicembre 1986, n. 898, come sostituito dall’art. 73 della l. 19 febbraio 1992, n. 142, le parole: ‘‘venti milioni’’ sono sostituite dalle seguenti: ‘‘sette milioni settecentoquarantacinquemila’’. ART. 12. (Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche private e degli enti privi di personalità giuridica in relazione alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione e in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, nonché di prevenzione degli infortuni sul lavoro). — 1. Il Governo della Repubblica è delegato ad emanare, entro otto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche private e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale, con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere la responsabilità in relazione alla commissione dei reati di cui agli artt. 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 320, 321, 322, 322-bis, 640, comma 2, n. 1, 640-bis e 640-ter, comma 2, con esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, del codice penale, nonché dei reati, da elencare tassativamente nel decreto legislativo, previsti dalle leggi speciali o dal predetto codice, in materia di tutela dell’ambiente e del territorio o relativi alla tutela dell’incolumità pubblica ovvero conseguenti alla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale; b) prevedere che i soggetti di cui all’alinea del presente comma sono responsabili in relazione ai reati commessi, a loro vantaggio o nel loro interesse, da chi svolge funzioni di rappresentanza o di amministrazione o di direzione, ovvero da chi esercita, anche di fatto, poteri di gestione e di controllo ovvero ancora da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza delle persone fisiche menzionate, quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi a tali funzioni; prevedere l’esclusione della responsabilità dei soggetti di cui all’alinea del presente comma nei casi in cui l’autore abbia commesso il reato nell’esclusivo interesse proprio o di terzi; c) prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive nei confronti dei soggetti indicati nell’alinea del presente comma; d) prevedere una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore a lire cinquanta milioni e non superiore a lire tre miliardi stabilendo che, ai fini della determinazione in concreto della sanzione, si tenga conto anche dell’ammontare dei proventi del reato e delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, prevedendo altresì che, nei casi di particolare tenuità del fatto, la sanzione da applicare non sia inferiore a lire venti milioni e non sia superiore a lire duecento milioni; prevedere inoltre l’esclusione del pagamento in misura ridotta; e) prevedere che gli enti rispondono del pagamento della sanzione pecuniaria entro i limiti del fondo comune o del patrimonio sociale; f) prevedere la confisca del profitto o del prezzo del reato, anche nella forma per equivalente; g) prevedere, nei casi di particolare gravità ovvero quando l’ente sia stato costituito o venga stabilmente utilizzato allo scopo di commettere i reati di cui al presente articolo, l’applicazione di una o più delle seguenti sanzioni in aggiunta alle sanzioni pecuniarie: 1) chiusura anche temporanea dello stabilimento o della sede commerciale; 2) sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; 3) interdizione anche temporanea dall’esercizio dell’attività ed eventuale nomina di altro soggetto per l’esercizio vicario della medesima quando la prosecuzione dell’attività è necessaria per evitare pregiudizi ai terzi;
— 414 — 4) divieto anche temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione; 5) esclusione temporanea da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi, ed eventuale revoca di quelli già concessi; 6) divieto anche temporaneo di pubblicizzare beni e servizi; 7) pubblicazione della sentenza; h) prevedere che le sanzioni amministrative di cui alle lett. d), f) e g) si applicano soltanto nei casi e per i tempi espressamente considerati e in relazione ai reati di cui alla lett. a) commessi successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo previsto dal presente articolo; i) prevedere che la sanzione amministrativa pecuniaria di cui alla lett. d) è diminuita da un terzo alla metà ed escludere l’applicabilità di una o più delle sanzioni di cui alla lett. g) in conseguenza dell’adozione da parte dei soggetti di cui all’alinea del presente comma di comportamenti idonei ad assicurare un’efficace riparazione o reintegrazione rispetto all’offesa realizzata; l) prevedere che le sanzioni di cui alla lett. g) sono applicabili anche in sede cautelare, con adeguata tipizzazione dei requisiti richiesti; m) prevedere, nel caso di violazione degli obblighi e dei divieti inerenti alle sanzioni di cui alla lett. g), la pena della reclusione da sei mesi a tre anni nei confronti della persona fisica responsabile della violazione, e prevedere inoltre l’applicazione delle sanzioni di cui alle lett. d) e f) e, nei casi più gravi, l’applicazione di una o più delle sanzioni di cui alla lett. g) diverse da quelle già irrogate, nei confronti dell’ente nell’interesse o a vantaggio del quale è stata commessa la violazione; prevedere altresì che le disposizioni di cui alla presente lettera si applicano anche nell’ipotesi in cui le sanzioni di cui alla lett. g) sono state applicate in sede cautelare ai sensi della lett. l); n) prevedere che le sanzioni amministrative a carico degli enti sono applicate dal giudice competente a conoscere del reato e che per il procedimento di accertamento della responsabilità si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale, assicurando forme di adeguata partecipazione e di difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale; o) prevedere che la responsabilità degli enti non esclude quella della persona fisica che ha commesso il reato e che la competenza del giudice penale in ordine alla responsabilità degli enti permane quale che sia la decisione sulla responsabilità penale delle persone fisiche; p) prevedere che le sanzioni amministrative di cui alle lett. d), f) e g) si prescrivono decorsi cinque anni dalla consumazione dei reati indicati nella lett. a) e che l’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile; q) prevedere l’istituzione di un’Anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative irrogate nei confronti dei soggetti di cui all’alinea del presente comma; r) prevedere, salvo che gli stessi siano stati consenzienti ovvero abbiano svolto, anche indirettamente o di fatto, funzioni di gestione, di controllo o di amministrazione, che sia assicurato il diritto dell’azionista, del socio o dell’associato ai soggetti di cui all’alinea del presente comma, nei confronti dei quali sia accertata la responsabilità amministrativa con riferimento a quanto previsto nelle lett. da a) a o), di recedere dalla società o dall’associazione o dall’ente, con particolari modalità di liquidazione della quota posseduta; disciplinare i termini e le forme con cui tale diritto può essere esercitato e prevedere che la liquidazione della quota a seguito del recesso avvenga con apprezzamento della stessa secondo il criterio del maggior valore con riferimento al momento immediatamente precedente a quello in cui si è verificato il fatto che ha determinato l’accertamento della responsabilità oppure a quello in cui la liquidazione ha luogo; prevedere altresì che la liquidazione della quota possa aver luogo anche con onere a carico dei predetti soggetti, e prevedere che in tal caso il recedente, ove non ricorra l’ipotesi prevista dalla lett. g), n. 3), debba richiedere al Presidente del tribunale del luogo in cui i soggetti hanno la sede legale la nomina di un curatore speciale cui devono essere delegati tutti i poteri gestionali comunque inerenti alle attività necessarie per la liquidazione della quota, compresa la capacità di stare in giudizio;
— 415 — s) prevedere che l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori delle persone giuridiche private e delle società, di cui sia stata accertata la responsabilità amministrativa con riferimento a quanto previsto nelle lett. da a) a o), sia deliberata dall’assemblea con voto favorevole di almeno un ventesimo del capitale sociale nel caso in cui questo sia inferiore a lire cinquecento milioni e di almeno un quarantesimo negli altri casi; disciplinare analogamente le ipotesi di rinuncia o di transazione dell’azione sociale di responsabilità; t) prevedere che il riconoscimento del danno a seguito dell’azione di risarcimento spettante al singolo socio o al terzo nei confronti degli amministratori dei soggetti di cui all’alinea del presente comma, di cui sia stata accertata la responsabilità amministrativa con riferimento a quanto previsto nelle lett. da a) a o), non sia vincolato dalla dimostrazione della sussistenza di nesso di causalità diretto tra il fatto che ha determinato l’accertamento della responsabilità del soggetto ed il danno subìto. 2. Il Governo è altresì delegato ad emanare, con il decreto legislativo di cui al comma 1, le norme di coordinamento con tutte le altre leggi dello Stato, nonché le norme di carattere transitorio. ART. 13. (Delega al Governo in materia di interpretazione, in via pregiudiziale, da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee). — 1. Il Governo è delegato ad emanare, entro otto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo per disciplinare le modalità con cui gli organi giurisdizionali nazionali possono richiedere che la Corte di giustizia delle Comunità europee si pronunci in via pregiudiziale sull’interpretazione della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e del suo primo Protocollo di cui all’art. 1 della presente legge, con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere che ogni organo giurisdizionale possa richiedere che la Corte di giustizia si pronunci in via pregiudiziale su una questione sollevata in un giudizio pendente dinanzi ad esso e relativa all’interpretazione della citata Convenzione e del suo primo Protocollo, qualora tale organo giurisdizionale reputi necessaria una decisione su questo punto per pronunciare sentenza; b) adottare le ulteriori norme di attuazione e quelle di coordinamento eventualmente necessarie. ART. 14. (Autorità responsabile). — 1. Il Ministero della giustizia - Direzione generale degli affari penali è designato quale autorità responsabile per le finalità di cui all’art. 11 della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. ART. 15. (Esercizio delle deleghe). — 1. Gli schemi dei decreti legislativi di cui agli artt. 12 e 13 sono trasmessi alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica almeno novanta giorni prima della scadenza prevista per l’esercizio delle deleghe. Le Commissioni parlamentari competenti per materia esprimono il loro parere entro sessanta giorni dalla data di trasmissione degli schemi medesimi. Decorso tale termine, i decreti legislativi possono essere adottati anche in mancanza del parere. ART. 16. (Norma transitoria). — 1. Le disposizioni di cui all’art. 322-ter del codice penale, introdotto dal comma 1 dell’art. 4 della presente legge, non si applicano ai reati ivi previsti, nonché a quelli indicati nel comma 2 del medesimo art. 4, commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge. ART. 17. (Entrata in vigore). — 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
DOTTRINA
LE ORIGINI E LE CONSEGUENZE DEL PANICO MORALE: GLI EFFETTI SULLE CORTI AMERICANE DELLE LEGGI ‘‘TRE VOLTE E SEI ELIMINATO’’ (*)
Introduzione. — Ogni americano di più di sei anni conosce la regola, ‘‘tre volte e sei eliminato’’. È un elementare principio di correttezza nel gioco nazionale americano del baseball. Ed è anche un ben conosciuto principio di correttezza nella vita. È così che quegli avvocati americani favorevoli a pene più aspre per i recidivi — quelli del ‘‘fuori’’ per la vita — toccarono una corda potente e sensibile per la gente, quando ritagliarono questa metafora all’inizio degli anni ’90 durante la loro campagna per pene più severe (1). Nello spazio di pochi mesi, un fatto probabilmente senza precedenti per velocità e determinazione, le legislazioni statali inasprirono le norme in materia di condanna. Tra il 1994 ed il 1996 furono trentasei Stati americani su cinquanta ad adottare una qualche versione della legge ‘‘tre volte e sei eliminato’’. Sebbene nello specifico vi fossero differenze da Stato a Stato, tali normative tipicamente prevedevano obbligatoriamente, in caso di terza condanna per delitto, una condanna a vita (o per un periodo molto lungo) con esclusione del ‘‘rilascio sulla parola’’. Alcuni Stati limitarono le ‘‘tre volte’’ alle condanne per delitti violenti mentre altri, come la California, stabilirono le pene delle ‘‘tre volte’’ in tutti i casi di terza condanna per delitto. Questo lavoro rintraccia le origini del ‘‘panico morale’’ ed esamina i gruppi organizzati che ne favorirono l’affermazione per poi esplorare il seguito — cosa accadde nelle Corti — una volta adottata la nuova politica (2). La preoccupazione maggiore di questo lavoro si lega proprio a (*) Presentato alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano il 4 marzo 1999. Adattamento e traduzione di Marco Calleri. (1) Per comprendere la pregnanza di tale metafora sarà utile risalire all’origine dell’espressione ‘‘tre volte e sei fuori’’, proveniente dal baseball, lo sport nazionale americano. Questo gioco permette ad ogni partecipante di colpire la pallina, mancando la quale per tre volte, si è eliminati e si deve aspettare che tutti i giocatori terminino il ciclo di battuta. (2) Il termine ‘‘moral panic’’, ormai parte del lessico sociologico, fu coniato da Stanley Cohen per sintetizzare l’atteggiamento che si sviluppò verso i mods ed i rockers (si tratta di due movimenti giovanili, riconoscibili per una sorta di divisa che si impose tra i giovani di tutto il mondo, protagonisti di disordini di strada e di reciproche violenze tra gli anni sessanta e settanta che ispirarono il film-cult ‘‘Quadrophoenia’’, N.D.T.).
— 418 — quest’ultima domanda: come si sono atteggiate le Corti davanti ad una legge che non volevano e non erano preparate ad applicare. Tuttavia, in considerazione del fatto che la ‘‘tre volte’’ è una novità e non esistono ancora dati sufficienti, dai quali ricavare la lettura degli effetti di questa legge sul lungo periodo, mi baserò per le mie analisi su altre stime effettuate su situazioni simili nelle quali a Corti riluttanti è stato chiesto di applicare leggi frutto di scelte di politiche criminali più dure. Per la maggior parte si è trattato di sforzi inutili; giudici, procuratori e difensori sono riusciti ad eludere la disciplina, per tornare all’equilibrio precedente la nuova legge. Sebbene i fautori della legge delle ‘‘tre volte’’ la ritengano particolarmente efficace, non si vede perché escludere che le Corti, dopo l’iniziale incertezza, tornino all’equilibrio precedente la legge ovvero a qualcosa di molto simile. In questo senso mi pare militino le circostanze di fatto che vedremo più oltre. 1. Origine del panico morale. — Una volta iniziata la campagna con il motto ‘‘tre volte e sei eliminato’’, i fautori della legge si diffusero come un fuoco all’aperto. In pochi mesi la maggior parte degli Stati approvò nuove leggi con pene draconiane per il caso di terza condanna. I fautori della legge sapevano il fatto loro al momento di scegliere una simile metafora: è stato un colpo di genio. Tuttavia, a differenza del fuoco all’aperto che serpeggia qua e là, la campagna a favore delle ‘‘tre volte’’ era organizzata e sistematica. In effetti, guardando con il senno di poi, essa può essere vista come l’apice di una campagna decennale o quindicennale all’insegna dell’appesantimento delle condanne e della riduzione della discrezionalità in caso di condanna. Benché il sistema penale americano sia sempre stato aspro, almeno rispetto ai sistemi dell’europa occidentale, già alla fine degli anni ’70 covava la brace dei vari gruppi della società americana che chiedevano misure più severe. Queste richieste incoraggiarono i procuratori ad essere più duri nel formulare le accuse ed i giudici ad emettere provvedimenti più pesanti. Nel corso degli anni, uno degli obiettivi di questi gruppi è stato la discrezionalità attribuita ai procuratori ed ai giudici. Tradizionalmente, i procuratori nel sistema giuridico di common law godevano di una vasta discrezionalità nell’incriminare. A differenza dei loro colleghi continentali, essi non operano in un sistema nel quale l’azione penale è obbligatoria. Anche i giudici di common law hanno goduto di vasta discrezionalità in caso di condanna e, secondo la tradizionale normativa americana in materia di condanne, essi hanno potuto scegliere la condanna che ritenevano appropriata, con grandi variazioni di minimi e di massimi di pena. Quegli avvocati schierati per la
— 419 — ‘‘legge e l’ordine’’ hanno, a loro volta, esercitato pressioni su procuratori e giudici nel senso di una maggiore durezza nell’esercizio di questa discrezionalità, sino ad una sua eliminazione attraverso la soppressione del patteggiamento, l’introduzione di minimi edittali e così via. Negli anni ’70 ed ’80 il successo sembrò soddisfare l’appetito di questi gruppi, quando le campagne ‘‘diventiamo più duri’’ si rincorrevano l’un l’altra. Per tutti gli anni 70’ i giudici statali furono soggetti a richieste di maggior severità e molti Stati introdussero nuove ‘‘riforme’’ in materia di condanna. Durante questo periodo la popolazione americana aumentò in maniera esplosiva (3). Tra il 1980 ed il 1992 per tutti gli Stati Uniti, la popolazione carceraria si triplicò. Tuttavia, si può notare come la grande parte di tale aumento dipese dalla pressione ambientale piuttosto che direttamente dai cambiamenti nella normativa in materia di sentenze. In effetti, in molti casi, furono introdotte nuove severe leggi dopo — e non prima — l’aumento della popolazione carceraria. Sebbene l’opinione pubblica degli USA sia sempre stata probabilmente a favore di pene più severe, le recenti politiche di inasprimento non derivano soltanto da un sentimento collettivo. L’opinione pubblica è stata raccolta ed in parte creata da gruppi di interesse che si sono fatti notare ed hanno promosso campagne per una politica di inasprimento (4). In California, il centro di questo lavoro, questi gruppi hanno avuto particolare successo. Si tratta di due tradizionali organizzazioni di dipendenti: una rappresenta le organizzazioni locali di poliziotti; l’altra le guardie carcerarie. Sebbene queste organizzazioni siano molto vecchie e vengano da una lunga storia politica, sino a poco tempo fa esse si limitavano a temi molto pratici tipo il costo della spesa, un salario più alto, migliori condizioni di lavoro e così via. Ma quando negli anni ’70 il crimine esplose e si politicizzò, i sindacati allargarono il loro campo d’azione ed aumentarono le proprie proposte in tema di politiche criminali, dando grande evidenza e forza alle tesi pro pena di morte ed inasprimento delle pene. Va poi notato che nel corso degli anni ’80 sorgono nuovi gruppi d’opinione in materia di criminalità. Favorite da una crescente sensibilità per i diritti delle vittime, sorsero numerose associazioni per i diritti delle vittime. Questi gruppi presero a modello, grazie alla strada di grande efficacia da esso tracciata, il movimento delle madri contro i guidatori in stato di ubriachezza (il MADD), un’organizzazione nazionale di madri, nata agli inizi degli anni ’70, i cui figli erano stati uccisi da guidatori in stato di (3) Negli anni ’70 solo il 10% delle condanne superava l’anno di reclusione (il resto era sospeso condizionalmente o ammesso alla probation o inferiore all’anno): negli anni ’80 il numero era quadruplicato. (4) Non è tipico degli USA: il criminologo Nils Christie (1992) ha coniato il termine ‘‘complesso industriale del crimine’’ per individuare le lobbies che chiedono maggiore severità.
— 420 — ubriachezza. Lo scopo di MADD era la richiesta a giudici e procuratori di serietà nel trattare i casi in parola. A tal fine fu organizzato un servizio di osservatori ai processi di quel tipo. MADD riuscì a mutare la pratica lassista delle Corti: infatti i giudici ed i procuratori, preoccupati dalle dichiarazioni di MADD agli organi d’informazione, presero a trattare i casi più severamente. Al successo di MADD sembra si debba la nascita di altre associazioni. Sorsero gruppi di vedove di poliziotti, di madri di bambini assassinati e così via, tesi a premere sui mezzi d’informazione e sui comitati che concedono la liberazione sulla parola, nonché sull’organo legislativo di Stato, per ristabilire o diffondere la pena di morte, la limitazione del patteggiamento e della liberazione su parola, etc. Oltre ad una efficace pressione su stampa e autorità, questi gruppi ottennero che le famiglie della vittima fossero avvertite dell’inserimento dell’autore del reato nel programma di liberazione sulla parola (in modo da condizionare negativamente i comitati preposti a tale funzione). Come è stato detto da un senatore, non è davvero possibile opporsi ad una donna che ha perso il figlio. Il maggior successo di questi gruppi è proprio la legge delle ‘‘tre volte’’, adottata sull’onda di brutali stupri ed omicidi di ragazzine noti in tutto il Paese e commessi da recidivi. I gruppi di pressione evocarono un panico morale ed in pochi mesi furono adottate le nuove leggi delle ‘‘tre volte’’, senza opposizione ed anzi nel timore che un intervento contrario sarebbe costato la rielezione. Grazie all’instancabile attività del padre di una ragazzina stuprata e uccisa, autore dell’espressione ‘‘tre volte e sei eliminato’’, la California varò la legge e fu tra i primi Stati a farlo. Nel 1994 la California introdusse l’ergastolo per il recidivo al terzo delitto (tale legge fu confermata dagli elettori in sede di revisione costituzionale), contrariamente a Stati che avevano introdotto tale previsione solo per delitti di sangue. La legge fu salutata come la più severa del Paese e lo era. Come spesso accade in questa materia, la legge californiana non distingueva i delitti per gravità, presenza o possibilità di violenza, periodo di commissione. Ad esempio l’autore di un furto con alle spalle altri due furti in vent’anni era accomunato al responsabile di violenze recenti e ravvicinate: fece scalpore la condanna all’ergastolo per il furto di una pizza di un tale con precedenti per droga di 25 anni prima. Tra i sostenitori, la metafora del ‘‘tre volte e sei eliminato’’ si affermò per la sua universale chiarezza. Nonostante ciò, molti procuratori e giudici resistettero alla nuova legge secondo la tradizionale attitudine di questi soggetti, quando si cerca di limitarne la discrezionalità, con danno alla loro professionalità e capacità di giudicare. Molti resistettero anche solo davanti all’accomunamento tra il ladro di pizza ed il violentatore, come spiegherò nel capitolo 3. Che cosa voleva davvero la base di queste agguerrite associazioni per i diritti delle vittime? Da dove nasceva tutto quell’entusiasmo per pene
— 421 — draconiane? Come mai gli operatori del diritto accolsero le nuove norme scetticamente, per non dire con ostilità? E gli avvocati? Giudici e procuratori furono obbligati a cambiare il modo di operare e la legge costituì una critica implicita al loro modo di lavorare. È passato troppo poco tempo per rispondere alla fondamentale domanda di quale sia stata la reazione delle Corti. Vi è però già una certa letteratura su come hanno reagito tutti i soggetti elencati in occasione di precedenti leggi (meno dure). 2. La spiegazione del consenso popolare alla legge delle ‘‘tre volte’’. — Da Tocqueville (‘‘Democrazia in America’’) in poi, è chiaro che gli americani adorano il concetto di individuo e di libertà, nonostante Tocqueville abbia aperto un dibattito, che dura da 170 anni, sulla violenza della cultura americana, i molti crimini e la risposta, aspra, agli autori di essi. Rimane la domanda sulla provenienza di tale violenza e di tali reazioni. Tocqueville attribuì (nel 1836 ma vale tutt’ora) entrambi i fenomeni all’elevato tasso di criminalità americana e ad una peculiarità che distingue gli USA dalla Francia e dagli altri Paesi europei. Egli infatti notò la disomogeneità culturale degli americani, nonostante i comuni valori dell’individuo e della libertà: neri, schiavi e schiavi liberati ed emigranti. La novità del Paese aveva portato ad una società di stranieri, neri ed emigranti, diversi per razza, colore, lingua e povertà, una società individualista. Essi si scrutavano con sospetto, alieni in una società di stranieri. Un altro sociologo francese della fine del diciannovesimo secolo, Emile Durkheim (1893), offrì una versione ancor più generalizzante di questa tesi. Al centro della sua teoria sociale funzionalista sta la pena: la solidarietà sociale è in larga misura frutto del ruolo di pungolo sulla ‘‘coscienza collettiva’’ svolta dalla pena. In tale visione è la pena che sviluppa la solidarietà sociale e se essa si riduce la necessità di alzare le pene aumenta. Un mio collega, il prof. Tyler, ha esplorato nella California del 1997 questa intuizione, in particolare sul favore e sfavore rispetto alla legge delle ‘‘tre volte’’, attraverso interviste telefoniche su un campione casuale in un area popolata dal 25% degli abitanti della California (la baia di San Francisco). Le domande erano divise in quattro sezioni: per prima cosa fu chiesto ai soggetti se si consideravano pro o contro la ‘‘legge delle tre volte’’ e scoprì che i favorevoli alla legge erano la stessa percentuale di maggioranza formatasi alla votazione per l’introduzione della legge (60%); poi chiese un’opinione sulle leggi penali e sulle prassi in vigore ed in particolare se i procuratori fossero troppo deboli nel formulare le accuse, accomodanti con il patteggiamento per gravi delitti rispetto a quelli di minor gravità, deboli con i criminali ovvero se lo erano i giudici, perché deboli o vincolati da leggi inefficaci. Fu poi chiesto se in California vi era troppa tensione razziale e se
— 422 — fosse troppo difficile far convivere culture diverse, anche a causa della lingua. Dopo aver creato una specie di scala della ‘‘diversità culturale’’, ci si accorse che gli intervistati si erano divisi tra gli estremi di chi auspicava una minor eterogeneità culturale e chi non riteneva la diversità un problema sociale. Tyler chiese poi agli intervistati se ritenevano che l’aumento dei divorzi danneggiasse i valori familiari, il controllo dei genitori sui figli, la possibilità di insegnare ai propri figli la differenza tra bene e male, etc. Fu ipotizzata una connessione tra i valori familiari e l’autorità e si scoprirono gruppi che riconducevano il declino della famiglia tradizionale alla mancanza di rispetto dell’autorità ed alla crescita dell’indisciplina; così come emersero gruppi che non attribuivano alcun significato alle mutazioni nella famiglia tradizionale. I ricercatori correlarono allora i risultati rispetto alla domanda sull’efficacia della legge ‘‘delle tre volte’’ con i tre gruppi seguenti di intervistati: a) chi vede un lassismo da parte degli operatori di giustizia; b) chi vede diversità etniche e razziali; c) chi vede la correlazione tra il divorzio e l’autorità nella famiglia. I risultati furono illuminanti e rinforzarono l’opinione di Tocqueville. Tyler scoprì la mancanza di correlazione tra il favore alla legge delle ‘‘tre volte’’ e il biasimo ad un certo lassismo del sistema criminale. Gli intervistati favorevoli alle tre volte erano in parte uguale propensi a lodare il lavoro delle Corti ovvero a biasimarlo. Per contro Tyler rintracciò un forte legame tra gli intervistati favorevoli alla legge delle ‘‘tre volte’’ e altri due gruppi di intervistati: quelli convinti che in California ‘‘c’è troppa diversità’’ e quelli che vivevano la sensazione di una riduzione di autorità nella famiglia a causa del divorzio. Si scoprì cioè ciò che Durkheim e Tocqueville si aspettavano: la paura dell’altro, lo straniero, di razza e lingua diversi e la fine della tradizionale famiglia, come spinta alla richiesta di pene maggiori e non invece la critica al lassismo delle Corti. Tocqueville e Durkheim non si sarebbero sorpresi. Il secondo fonda la propria teoria sul concetto di pena come pungolo alla solidarietà sociale piuttosto che come strumento di controllo sul reo, il quale viene punito incidentalmente, essendo l’azione punitiva rivolta al popolo: la pena è un rituale simbolico che rafforza la coscienza collettiva e deve essere inasprita quando la solidarietà sociale si disgrega. Se ciò è vero, la spiegazione più facile al favore per la legge ‘‘delle tre volte’’ afferisce alla crescente emigrazione ed è connessa alle diversità nella società (5). È a questo punto importante notare che il livello di emigrazione verso gli USA ha toccato i massimi nel periodo 1980-inizi anni 90, sorpassando persino il grande flusso tra il 1890 ed il 1920. La stragrande maggioranza degli im(5) Va detto che non c’è differenza nelle risposte tra ispanici, asiatici, bianchi e neri.
— 423 — migrati recenti era nettamente distinta etnicamente: ispanofoni dell’America latina e gente dal sud dell’Asia. Analogamente il tasso di divorzio in USA è in crescita. Inoltre in California entrambe le tendenze citate si sono manifestate in modo più spiccato rispetto al resto degli USA. Questo spiega forse perché la versione californiana della legge delle ‘‘tre volte’’ è stata la più severa. 3. Le conseguenze del panico morale: l’applicazione delle ‘‘tre volte’’. — Questo lavoro si propone di analizzare l’esperienza della ‘‘tre volte’’ alla luce di altri ‘‘panici’’ (6). In particolare ci si riferisce agli effetti della legge Rockefeller sugli stupefacenti del 1972, ai limiti obbligatori di pena, statali e federali, ai principi federali di commisurazione della pena, alla recente normativa californiana a favore delle vittime del reato: io assumo che essi costituiscono una risposta al ‘‘panico morale’’ con notevoli punti di comunanza. Infatti, in primo luogo va osservato come giudici e procuratori, nonostante si oppongano a tali misure, beneficino delle maggiori risorse ad essi destinate dai fautori di queste leggi. In secondo luogo, si nota in tutti i casi un iniziale periodo di timore e confusione che sfocia in alcune ingiustizie. Un terzo fenomeno è rappresentato dalla restaurazione del modus operandi precedente ad opera degli addetti al settore. Infine, una volta passato il periodo caldo di prima applicazione, gli operatori di giustizia propongono di smussare le durezze della legge per eliminare le disparità. Non voglio con ciò dire che ‘‘non funziona nulla’’ o che le leggi sono eluse dai concreti comportamenti. Quasi sicuramente non è così, anche se nel loro complesso tali comportamenti minano la severità delle condanne (Casper e Brereton, 1984). Mi preme sottolineare come queste misure, di norma più che in via eccezionale, producono un inasprimento cui segue un adattamento che mitiga tale severità (7). Vediamo quali comportamenti di adattamento sono derivati da precedenti limitazioni di discrezionalità a seguito di ‘‘panico morale’’ e saremo in grado di fare previsioni circa gli effetti della legge delle ‘‘tre volte’’. I ‘‘Panici’’ recenti. La legge Rockefeller sugli stupefacenti. — Nel 1972 il governatore Rockefeller propose l’ergastolo, il divieto di patteggiamento e di libera(6) La recente apparizione della legge delle ‘‘tre volte’’ si inserisce nel filone delle leggi sui recidivi della metà del secolo, le più recenti delle quali si distinguono per le limitazioni che pongono alla discrezionalità dei giudici oltre che per la maggiore severità. (7) Non c’è dubbio circa una maggiore severità dal 1980; ma non sempre ciò dipende da una politica criminale nuova: alcuni stati non varano alcuna nuova politica e tuttavia le sentenze si inaspriscono. La legge delle ‘‘tre volte’’ può quindi ritenersi un effetto piuttosto che una causa.
— 424 — zione sulla parola in caso di vendita o possesso di stupefacenti ovvero di commissione di crimini sotto l’effetto di stupefacenti, oltre alla confisca del patrimonio personale in caso di condanna. Nonostante l’opposizione di avvocati, giudici e procuratori, la legge fu approvata in una versione assai dura. La retorica del passaggio. — Nella foga di applicare la legge in 4 mesi, si crearono tre categorie di reati di classe A — AIII, AII e AI — che prevedevano un minimo edittale rispettivamente di 1, 6 e 15 anni. Il massimo era l’ergastolo, mentre la liberazione sulla parola era condizionata ad una supervisione vita natural durante. Alla fine si permise il patteggiamento per i delitti AII e AI e non per gli AIII, tenendo in conto che le accuse più serie potevano essere derubricate ed i delitti più gravi potevano essere puniti in concreto come i meno gravi. Nonostante tale indebolimento della legge, essa prevedeva misure draconiane e Rockefeller, in odore di presidenza (8), la descrisse come ‘‘brutale’’ o ‘‘il più forte strumento contro gli spacciatori’’ (Goldstein, 1973, p. 1). Si manifestò l’opposizione di tutti gli operatori di giustizia e il preside della facoltà di legge di New York nonché presidente del Comitato di soccorso legale comunale affermò che ‘‘la legge contrasta con tutti gli obiettivi del mondo civile’’ (Feeley, 1983, p. 119, n. 10). L’associazione per le libertà civili, sezione di New York, definì la legge: ‘‘un pauroso passo verso lo stato di polizia’’ (Feeley, p. 119, n. 9). I giudici preannunciarono la paralisi della giustizia in caso di applicazione della legge. Si stimò che l’incremento di processi per droga (dal 9% all’85%) avrebbe richiesto l’aumento dei giudici di New York da 79 a 370. Nonostante tutto, la legge fu approvata e Rockefeller ebbe modo di candidarsi per il quarto mandato, con un occhio alla presidenza e furono forniti nuovi giudici, procuratori, cancellieri e aule di giustizia (9). Le prime applicazioni: confusione e scorrettezze. — Gli effetti della legge furono studiati come sarà solo in occasione dell’entrata in vigore dei principi di commisurazione della pena del Minnesota e poi federali (Japha, 1976a, 1976b, 1976c) e si scoprì che non si erano avverate né le selvagge promesse della legge né le predizioni disastrose. In primo luogo la polizia si limitò ad arrestare ‘‘pesci piccoli’’, che ora affrontavano pene maggiori, così mantenendo sgombre le Corti e proseguendo le indagini sui grandi spacciatori. Si noti che il prezzo della droga non salì, a conferma dell’assenza di impatto della legge sulla circolazione della droga (Japha, 1976a; cfr. Feeley, 1983, p. 124). Inoltre, nonostante la micidiale arma tra le (8) In effetti il governatore non concorse alle elezioni del 1974. (9) Il 70% delle sentenze relative alla nuova legge sulla droga furono emesse a New York e gli agenti di questa città ricevettero una percentuale simile degli stanziamenti economici.
— 425 — mani, le condanne e le carcerazioni nei tre anni successivi all’entrata in vigore della legge non superarono quelle dei tre anni precedenti, forse a seguito dell’aumento delle assoluzioni a fronte del livello di pene previste (10). Inizialmente salì enormemente la proporzione di coloro che sceglievano di essere processati da una giuria per le nuove imputazioni ma, nel giro di due anni, le cifre tornarono normali sia grazie alla disponibilità dei giudici a raffreddare la situazione, sia per la maggiore esperienza degli avvocati, sia per altri adattamenti di carattere sistematico, con il risultato di un nuovo equilibrio, nonostante i paletti messi all’attività delle Corti. Non che la legge non abbia prodotto effetti: ne ebbe alcuni, come l’inasprimento delle condanne per reati di droga, la nascita di un nuovo modus operandi nelle Corti, l’emissione di alcune sentenze palesemente inique a carico di criminali colpiti in pieno dalla legge. Ma in generale la legge ebbe un modesto impatto sulla reperibilità della droga e sul funzionamento del sistema giudiziario. Dall’adattamento alle modifiche. — Le lampanti iniquità ed i problemi circa i delitti di classe AIII innescarono, a partire dal terzo anno di applicazione, un processo di revisione della legge, quando il procuratore capo del pool antidroga annunciò che avrebbe permesso il patteggiamento per i delitti di classe AIII. Questa politica di disapplicazione del dettato normativo permise alle procure di separare i casi gravi dagli altri, così contribuendo a sentenze più corrette. Malgrado la popolarità della legge, non ci furono reazioni alla notizia: la crociata morale era passata e Rockefeller, divenuto vicepresidente, non operava più nella capitale dello Stato di New York: nel 1979, dopo l’audizione di giudici, procuratori e difensori, fu reintrodotta la negoziabilità delle accuse e la flessibilità nelle condanne, così da ridefinire alcune dure condanne già irrogate. Iniziò così un processo di aggiustamento lento concluso 20 anni dopo l’entrata in vigore della legge dal governatore Pataki, anche se possiamo notare come dal 1979 in poi si sono intensificate le modifiche e ristabilito nelle Corti di New York il modus operandi precedente. In definitiva la legge Rockefeller ha spiegato effetti modesti in quanto le Corti erano impegnate a condannare più severamente i grandi spacciatori già prima della legge: essa era basata sul falso presupposto che tutti, anche Rockefeller, sapevano falso, di un presunto lassismo nel trattare il grande spaccio. È la sorte delle misure di irrigidimento promosse in piena (10) Sono due le cause, tra loro assai diverse: alcune assoluzioni tese ad aggirare la durezza della legge a favore di imputati per così dire ‘‘meritevoli’’; una maggiore attenzione da parte dei giudici alle procedure di ammissione di prova che si è risolta in maggiori annullamenti dei rinvii a giudizio.
— 426 — crociata morale, quello di non incidere davvero e di basarsi sulla percezione dei fatti piuttosto che su di essi. 4. Altri panici morali. — Studi su altre norme che prevedono minimi obbligatori di condanna raccontano una storia simile alla legge Rockefeller nel senso di un’efficacia, sul periodo medio lungo, assai limitata dallo sforzo degli operatori di giustizia di mitigarne gli eccessi. Altre leggi di condanna minima obbligatoria. — Studi sulle normative in materia di anni del Massachusetts e del Michigan, presentate come ‘‘le più dure della nazione’’, rivelano un tenace adattamento ed una sostanziale elusione delle stesse. In Michigan l’approvazione della reclusione minima ad un anno per possesso di arma da fuoco ha lasciato inalterato il tasso di carcerazione per gravi reati e molte accuse lievi sono state messe da parte di fronte alla ingiustizia della legge: quelle poche volte che ciò non avveniva, si apriva la strada al patteggiamento. Paradossalmente, la legge del Michigan ha avuto l’effetto di aumentare la discrezionalità nel patteggiamento (Feeley, 1983, pp. 128-138). La stessa inefficacia può dirsi per la legge Bartley-Fox del Massachussetts, sempre in materia di armi, sia per la riluttanza di tutti a coltivare accuse punite con la carcerazione minima obbligatoria, sia per una certa superfluità della legge rispetto a norme già in uso per fatti come la rapina a mano armata (Feeley, 1983, p. 130). Tale ineffettività ha permesso che la legge attraversasse la legislatura senza opposizione. Per Michigan e Massachussetts l’adattamento degli operatori del diritto fu il medesimo, nel senso cioè di usare la legge per le sole parti per le quali essa non contrastava una prassi giurisdizionale ritenuta già adeguata a distinguere casi gravi da casi meno gravi. Direttive in materia di sentenze. — Come i minimi edittali obbligatori, così le raccomandazioni del potere legislativo in materia di sentenze diminuiscono il potere discrezionale del giudice e del procuratore. Una riforma molto nota negli Stati Uniti concerne l’istituzione di una commissione per le sentenze e la creazione di direttive in materia di giudizi circa reati federali. Qualche critica vede una inutilizzabilità di tali direttive in casi e per persone particolari. Altri vedono nelle direttive uno strumento per aggravare le pene piuttosto che per armonizzarle (Alschuler, 1991; per una visione differente cfr. Marvell & Moody, 1996) (11). Per qualsivoglia ragione, sembra che le direttive siano assai deboli di fronte ai comportamenti adattivi di procuratori e giudici. Un ex componente della commissione sentenze, Ilene Nagel, ed un professore di diritto (11) C’è del vero in entrambe le posizioni. I sostenitori delle linee guida criticano le limitazioni ad esse arrecate dalle leggi sui minimi edittali approvate dal Congresso, a discapito della Commissione.
— 427 — dell’Università di Chicago, Steve Schulhofer, hanno stimato nel 30% la percentuale di sentenze emesse dopo una derubricazione delle accuse discrezionalmente disposta dal giudice e dal procuratore, secondo quanto essi ritenevano intimamente giusto (Nagel & Schulhofer, 1992). Conferma si trova in un recente studio sulle direttive in materia di sentenze (Stith and Cabrenas). Il sistema giurisdizionale federale che costituiva un tempo un modello proprio per l’assenza del patteggiamento, non è più tale da quando i procuratori patteggiano per evitare gli eccessi irragionevoli dei minimi obbligatori di condanna (12). Le iniziative delle vittime: impedire il patteggiamento. — Nel 1982, gli elettori californiani approvarono ‘‘lo statuto dei diritti delle vittime’’ che proibiva, tra l’altro, il patteggiamento per reati gravi. Norme simili erano state criticate in precedenza sia dai procuratori sia dai difensori d’ufficio (presumibilmente perché entrambe le categorie ritenevano di trattare i reati gravi già in maniera corretta). Nonostante una lieve opposizione (McCoy, 1990, pp. 30-31) e l’accattivante titolo della legge, essa passò con solo il 56% dei voti. Non stranamente, gli effetti della legge furono ben diversi dalla fine del patteggiamento. Uno studio iniziale rilevò che i patteggiamenti crescevano invece di diminuire (McCoy, 1990, pp. 90-92): il patteggiamento risultava ora alla fine di un processo di negoziazione mutato, in aderenza alla lettera — ma non allo spirito — della legge (13). Alla luce di quanto detto in tema di tentativi di limitazione della discrezionalità, la vicenda californiana non deve stupire. Pare evidente che i comportamenti degli operatori del diritto non cambiano facilmente per editto: il divieto di patteggiamento, lungi dal far scomparire il patteggiamento dal mondo delle procedure accettabili, ne muta soltanto la percezione e gli effetti. 5. Le conseguenze del panico morale. — Questo viaggio nella storia dei tentativi di imporre sentenze più severe limitando la discrezionalità, dovrebbe sensibilizzarci sulle conseguenze della legge delle ‘‘tre volte’’. In particolare, emerge come una legge dura: a) genera un linguaggio esagerato usato dagli operatori di giustizia, anche contrari alla legge, per ottenere risorse economiche in più e b) crea, sul breve periodo, una confusione ed uno squilibrio che favorisce la crescita dei dibattimenti che c) sono seguiti da una serie di comportamenti di adattamento che ristabiliscono l’equilibrio tra gli operatori del Tribunale. Queste sono chiaramente (12) I procuratori americani oggi disattendono la precedente abitudine di concedere il patteggiamento in cambio di risultati investigativi. (13) La nuova legge vieta il patteggiamento in caso di grave reato (McCoy, 1990) e non per tutti i reati, proprio come auspicava McCoy.
— 428 — ovvie ‘‘lezioni’’ ma vanno ripetute, visto il panico morale causato tanto dai proponenti che dagli oppositori al progetto. Anche se il passato non predice perfettamente il futuro, non c’è ragione di ritenere che la legge delle ‘‘tre volte’’ si differenziarà dai precedenti tentativi di limitare la discrezionalità. Se ciò è vero, dobbiamo aspettarci forti richiami alle potenzialità della legge così come discrezionalità e flessibilità a temperare la durezza delle norme, sino alla riemersione delle normali procedure del passato. Non che la legge rimanga lettera morta: essa spiegherà un qualche effetto nel senso sperato dai suoi sostenitori e si registreranno sentenze più severe (Casper & Brereton, 1984). Ma, forse, più ancora che in occasione delle grandi riforme giudiziarie, gli effetti saranno assai inferiori alle aspettative, proprio come suggerisce una lettura durkheimiana della legge ‘‘delle tre volte’’. Kei Erikson (‘‘The Wayward puritans’’, 1966) e Joseph Gusfield (‘‘Simbolic crusade’’, 1963) possono spiegare meglio la natura del favore per la legge ‘‘delle tre volte’’ di qualunque ricerca che si focalizzi sulla utilità di questa legge per il sistema giudiziario. California - L’esperienza sul breve periodo. — Ad oggi, in California vige la legge delle ‘‘tre volte’’ più severa che sia stata oggetto di analisi e può essere una verifica alla tesi di una assimilabilità di tale legge ai tentativi di limitare la discrezionalità. Retorica. — Al centro della polemica sulla legge delle ‘‘tre volte’’ (14) sono sempre stati gli effetti di essa ed è il motivo perché favorevoli e contrari ne hanno sempre enfatizzato le dimensioni (15). Philip J. Romero (1994), economista capo del governatore, arrivò a stimare in 48 miliardi di dollari per anno — dal primo anno al 2027 — i benefici della nuova legge. Tutto al contrario, la società RAND stimò in 5,5 miliardi di dollari per anno il costo della legge (Greenwood ed altri, 1994); Mike Reynolds (Reynolds, Scully & Huffington, 1994), il principale sostenitore della legge, sostenne che la legge delle tre volte avrebbe evitato i costi di processi e processi (p. 36). Un rapporto dell’ufficio legislativo (1995) stimò i costi della nuova legge in 3 miliardi di dollari nel 2003 e 6 miliardi di dollari nel 2026 oltre all’aumento dei costi di costruzione di prigioni per 20 miliardi di dollari. Si comprende facilmente come gli operatori del diritto usino queste cifre per ottenere finanziamenti: tanto le stime sulla popolazione carceraria sia gli effetti delle leggi delle tre volte si prestano a manipolazioni ed hanno raggiunto lo scopo di aumentare i finanziamenti. (14) La California dispone di due ‘‘leggi delle tre volte’’ uguali, una d’iniziativa popolare e una parlamentare. (15) I media hanno contribuito con titoli apodittici tipo ‘‘la legge che metterà in ginocchio il sistema giudiziario’’.
— 429 — Adozione e adattamento. — Benchè sia presto per bilanci, si nota già un processo di adattamento. I procuratori delle aree conservative spingono per una integrale adozione della legge, contro i primi adattamenti delle procure metropolitane che, come conferma il responsabile degli avvocati d’ufficio D. Inouye, si servono dell’insufficienza di prove — e non della ora illecita formula ‘‘nell’interesse della giustizia’’ — per consentire ad un patteggiamento che non costituisca precedente ai sensi della nuova legge, lasciando intendere di poter colmare le insufficienze probatorie se l’imputato insiste a volere il processo. Per R. Igelhart della procura di Alameda non si contesta un ‘‘terzo’’ reato se esso non è grave o l’imputato non è un violento in contrasto con la legge nota, che parla di qualunque reato. Una volta contestato il terzo reato tuttavia, è precluso il patteggiamento con le condanne precedenti. Per Igelhart alcune sentenze hanno subito gli effetti della nuova legge, ma ciò che importa è distinguere tra ‘‘recidivi veramente cattivi’’ e quelli ‘‘meno cattivi’’, vuoi per il lasso di tempo intercorso tra gli episodi vuoi per la natura dei reati da giudicare. Ogni volta che è stato imposto un minimo edittale di pena, giudici e procuratori hanno riaffermato la propria visione delle cose, come precisato dal consiglio giudiziario della California per il quale ‘‘tipicamente ogni riforma si misura con le aspettative punitive e le risorse disponibili’’ e che ‘‘l’aumento di sentenze più severe si accompagna, nell’ultima decade, alla diminuzione di reati contestati in quanto gli imputati preferiscono patteggiare con ammissione di responsabilità ed evitare una ‘‘severa condanna’’ (California Judicial Council, 1994, p. 3) (16). Un passo indietro. — Vi sono stati altri segnali di elusione della normativa, come quando nel 1995 la legge per l’avvio in comunità di recupero, introdusse, per i detenuti non violenti che stessero scontando due pene cumulate o l’ergastolo previsto dalla legge delle ‘‘tre volte’’, l’inserimento in comunità, la riabilitazione ed un controllo elettronico a distanza. Un altro provvedimento concesse ai prigionieri delle ‘‘tre volte’’ l’accesso a pene alternative alla detenzione. Di recente i giudici hanno trovato nuove vie di elusione della durezza della legge, come riformare precedenti decisioni al fine di non considerare il caso pendente come un terzo caso. Nel 1987 la Corte Suprema della California, non esattamente un organo liberale, ha riconosciuto ai giudici il potere di discostarsi dai minimi di condanna obbligatori. Una certa discrezionalità nella sentenza — ha motivato la Corte — deriva dall’originale ruolo del magistrato, dotato di potere di disapplicare i limiti edittali se il caso lo richiede. Questa motivazione creativa da parte di un organo piuttosto conserva(16) Si ricorda il caso del Giudice Antolini che, nel 1995, trovò il modo di non infliggere la terza condanna ad un possessore di 8 grammi di marjuana con piccoli precedenti per furto. La decisione fu riformata in Appello con 2 voti a 1.
— 430 — tore ha minato la legge delle ‘‘tre volte’’, avendo la Corte — pur senza dichiarare l’incostituzionalità della legge — ammesso la libertà del giudice. Si tratta di un’arma in più per gli oppositori della legge ‘‘delle tre volte’’, verso un ritorno alla ‘‘normalità’’, la fine del panico morale e delle crociate per la legge e l’ordine. Solo il tempo ci dirà il finale di questa storia. Conclusioni. — Sebbene sia prematuro concludere che il sistema giudiziario californiano si è adattato ed ha annullato gli effetti della legge delle ‘‘tre volte’’, tuttavia, ad oggi, i limiti di applicazione ricordano gli adattamenti avvenuti a New York dopo la legge Rockefeller. Non è quindi irragionevole aspettarsi che la legge delle ‘‘tre volte’’, una volta sedato il panico morale, sarà spogliata delle sue previsioni più draconiane: un processo più facile se attuato per legge piuttosto che su altre iniziative (17), ma non sarebbe il solo tentativo di imporsi alla giustizia penale ignorato dai procuratori (18). Se la California seguirà New York, potremo assistere ad una applicazione saltuaria della legge delle tre volte, con un procuratore desideroso di applicarla ed uno che tenterà regolarmente di ridurne gli effetti così perpetrando nel Paese la diseguaglianza. Potremo assistere ad un lento processo: nel 1994, quasi 20 anni dall’approvazione della legge Rockefeller, il nuovo governatore conservatore di New York, Pataki, ha riaperto i termini per le udienze circa condanne assurdamente lunghe: accadrà lo stesso in California, anche se nulla vieta che negli Stati Uniti si riaffacci un panico morale generatore di inasprimenti di pena. Una lezione che è possibile trarre dagli ultimi 20 anni di inasprimenti e dalla legge delle ‘‘tre volte’’ è che quando si adotta una legge in forza della quale le procure ed i giudici incarcerano più persone per più tempo, non è il costo della carcerazione a costituire un problema insormontabile. Se l’opinione pubblica o il legislatore spingono troppo per la severità, giudici e procuratori ‘‘creativi’’ non faranno altro che opporre resistenza e discostarsi, in tutto od in parte, da qualsiasi direttiva che ostacola la loro discrezionalità. MALCOM M. FEELEY Professore di Diritto all’Università della California, Berkeley
Riferimenti bibliografici. ALSCHULER, A. (1991), The failure of sentencing guidelines: A plea for less aggregation, in University of Chicago Law Review, 58, 901-951. (17) L’iniziativa della California può essere contrastata solo dai 2/3 del parlamento o dagli elettori. (18) Cfr. il paragrafo: « iniziative per i diritti degli elettori: un ostacolo al patteggiamento ».
— 431 — AUSTIN, JAMES, The Effect of Three Strikes? and You’re out on Corrections, in DAVID SHICHOR and DALE K. SECHREST, ed., Three Strikes and You’re out: Vengance as Public Policy (Thousand Oaks, CA: Sage Publications, 1996). CALIFORNIA JUDICIAL COUNCIL (1994, April 19), Three strikes document [for the Town Hall Meeting on « three strikes and you’re out »]. San Francisco: Bar Association of San Francisco. CASPER, J.D., & BRERETON, D. (1984), Evaluating criminal justice reforms, in Law and Society Review, 18, 121-144. CHRISTIE, NILS, Crime Control as Industry, 2nd ed., (London: Routledge, 1994). STANLEY COHEN, Folk Devils and Moral Panic: The Creation of the Mods and Rockers (New York: St. Martin’s Press, 1972). DURKHEIM, EMILE, The Division of Labour, in Society (New York: The Free Press, 1964 [originally published 1893]). ERIKSON, K. (1966), Wayward Puritans: A study in social deviance. New York: John Wiley. FEELEY, M.M. (1983), Court reform on trial. New York: Basic Books. GOLDSTEIN, T. (1973, May 9), [Article]. New York Times, sec. 1, p. 1. GREENWOOD, P.W., RYDELL, C.P., ABRAHAMSE, A.F., CHIESA, J., MODEL, K.E., & KLEIN, S.P. (1994), Three strikes and you’re out: Estimated benefits and costs of California’s new mandatory-sentencing law (Report No. MR-509-RC). Santa Monica, CA: RAND. GUSFIELD, J. (1963), Symbolic crusade: Status polities and the American temperance movement. Urbana: University of Illinois Press. FEELEY, MALCOLM M. and SAM KAMIN, The Effect of « Three Strikes and You’re out » on the Courts: Looking Back to see the Future, in DAVID SHICHOR and DALE K. SECHREST, eds. Three Strikes and You’re out. Vengance as Public Policy (Thousand Oaks, CA: Sage Publications, 1996). JAPHA, A. (1976a, August), Crime committed by narcoties users in Manhattan (Drug Law Evaluation Project report) [staff memorandum]. New York: Association of the Bar of the City of New York. JAPHA, A. (1976b, August), The effects of the 1973 drug laws on the New York State courts (Drug Law Evaluation Project report) [staff memorandum]. New York: Association of the Bar of the City of New York. JAPHA, A. (1976c, August), Sentencing patterns under the 1973 New York State drug laws (Drug Law Evaluation Project report) [staff memorandum]. New York: Association of the Bar of the City of New York. LEGISLATIVE ANALYST’S OFFICE (1995, JANUARY 6), Status: The three strikes and you’re out law-A preliminary assessment. Sacramento, CA: Author. MARVELL, T.B., & MOODY, C.E. (1996), Determinate sentencing and abolishing parole: The long-term impacts on prisons and crime, in Criminology, 34, 107-128. MCCOY, C. (1990), Politics and plea bargaining: Victims’ rights in California. Philadelphia University of Pennsylvania Press. NAGEL, I.H., & SCHULHOFER, S.J. (1992), A tale of two cities: An empirical study of charging and bargaining practices under the federal sentencing guidelines (Symposium on federal sentencing), in Southern California law Review, 66, 501-554. PRESSMAN, J.L., & WILDAVSKY, A.B. (1973), Implementation. Berkeley: University of California Press. REYNOLDS, M., SCULLY, J., & HUFFINGTON, M. (1994, August 16), Argument in favor of Pro-
— 432 — position 1884 [the three-strikes initiative]. California ballot pamphlet for the general election on November 8, 1994. ROMERO, P.J. (1994, March 31), How incarcerating more felons will benefit California’s economy. Sacramento, CA: Governor’s office of Planning and Research. STITH, KATE and JOSE CABRANES, Fear of Judging: Sentencing Guidelines in the Federal Courts (Chicago: N. of Chicago Press, 1998). TOCQUEVILLE, ALEXIS, de, Democracy in America (New York: Vintage Books, 1964 [originally published, 1836]. TURNER, M.G., SUNDT, J.L., APPLEGATE, B.K., & CULLEN, F. (1995, September), Three strikes and you’re out legislation: A national assessment, in Federal Probation, 59, 16-35. TYLER, THOMAS and DAVID B., Fear of Judging: Sentencing Guidelines in the Federal Courts (Chicago: N. of Chicago Press, 1998). WEINSTEIN, H. (1994, November 30). 3 strikes-spawned flood of cases crowds out civil suits, in Los Angeles Times, p. 24.
TESTO E INTERPRETAZIONE NEL DIRITTO PENALE (*)
1. Nel diritto penale le peculiarità capaci di riflettersi sul modo di costruire il testo di legge, nonché sul procedimento interpretativo che lo ha per oggetto, sono essenzialmente due (1). La prima di esse riguarda l’alta intensità dell’effetto preventivo. Alle norme penali è affidata, infatti, la funzione di assicurare, per quanto è possibile con i mezzi giuridici, la ‘‘tenuta’’ dell’intero ordinamento come struttura pubblicistica. Non per nulla nelle fasi embrionali di costituzione di un ordinamento nuovo, negli Stati dittatoriali, nonché in quelle istituzioni che sono le organizzazioni criminali, l’aspetto giuridico più evidente si ritrova nelle norme penali. Ciò indica che dal diritto penale ci si attende un effetto preventivo assai marcato nei confronti degli illeciti da esso previsti. La seconda nota caratteristica dipende dalla prima. Proprio per assicurare un effetto preventivo particolarmente intenso, tale da assicurare la ‘‘tenuta’’ dell’ordinamento giuridico, le sanzioni penali devono avere un contenuto estremamente pesante. La storia del diritto e l’indagine comparatistica ci parlano di pena di morte, di mutilazioni, di pene infamanti e così via. Ma pure se ci si limita, come oggi richiede la coscienza giuridica dei popoli europei, ad assumere come pena più grave la pena detentiva, si fa operare una sanzione che intacca profondamente i beni della persona umana. Entrambe queste caratteristiche delle norme penali condizionano il tipo di ‘‘testo’’ che deve essere impiegato nelle disposizioni che le contengono. Entrambe ne condizionano altresì il procedimento di ‘‘interpretazione’’ di quel testo. 2. Ogni effetto di prevenzione generale degli illeciti presuppone che il testo normativo sia portato alla conoscenza — o almeno alla conoscibi(*) Relazione presentata al Congresso su ‘‘L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo’’ (Perugia, 16-18 dicembre 1999). (1) Di rado, peraltro, i teorici di scienza della legislazione fanno qualche cenno ai problemi specifici del diritto penale. V., per esempio, R. GUASTINI, Redazione ed interpretazione dei documenti normativi, in Lezioni di tecnica legislativa (a cura di S. Bartole), Padova, 1988, p. 105 ss.
— 434 — lità — da parte dei consociati. Ciò vale per qualsiasi disposizione giuridica (2), ma ancora più vale per il diritto penale, che vuole coinvolgere anche emotivamente i cittadini. Le disposizioni penali devono essere redatte in un linguaggio semplice, idoneo ad essere compreso dalla maggior parte della popolazione e capace di esprimere in modo plastico e con efficacia suggestiva ciò che si deve fare o non fare. Ne seguono alcuni corollari. In primo luogo, la legge penale non deve impiegare, salvo dove ciò sia assolutamente necessario, termini tecnici (3). Il termine tecnico richiede, per essere compreso, interpreti tecnici; e non si può pretendere che tutti coloro ai quali la legge penale si rivolge siano esperti tecnici. Di norma, il termine tecnico sarà impiegato solo quando c’è da attendersi (come in certe leggi speciali) che il normale destinatario della legge sia anch’egli un tecnico. C’è da aggiungere che il termine tecnico risponde alla funzionalità di un altro settore scientifico e perciò può essere totalmente disfunzionale nell’ambito delle conoscenze e delle applicazioni giuridico-penali (4). Ciò vale ancora di più quando si tratti di termini tecnici giuridici che siano originariamente propri di altre branche del diritto. Oltre che per le ragioni che ne sconsigliano l’uso in generale, qui l’impiego del termine tecnico è controindicato per un altro motivo. Il termine tecnico proprio di altra branca del diritto (5) porta celata in sé una componente teleologica che, trapiantata inavvertitamente nel diritto penale, può generare effetti strani o comunque non desiderabili. Tutto ciò comporta notevoli riflessi in tema di interpretazione. Talvolta accade che una legge penale impieghi nel proprio corpo qualche parola che possa corrispondere tanto a un significato proprio del linguaggio comune (o, per meglio dire, di un linguaggio comune che è stato fatto (2) Di recente, VIOLA, Intenzione e discorso giuridico: un confronto tra la pragmatica linguistica e l’ermeneutica, in Testo e diritto (Ars interpretandi, 1997), p. 64; HABERMAS, Fatti e norme, Milano, 1996, p. 266 s. Più in generale e per una scelta bibliografica, R. SACCO, Interpretazione del diritto. Dato oggettivo e spirito dell’interprete, in Ermeneutica e critica (Atti Convegni Lincei, n. 135), Roma, 1998, p. 93 ss. (3) Solo per casi ben delimitati può essere accolto in diritto penale, dunque, il consiglio (Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Proposte e materiali di studio, in Quaderni del Dipartimento per la Funzione Pubblica, n. 8, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato — Libreria dello Stato, Roma, 1992, p. 19) di impiegare nella legislazione preferibilmente termini tecnici. (4) Cfr. G. PRETI, Linguaggio comune e linguaggi scientifici (1953), ora in Saggi filosofici, La Nuova Italia, Firenze, 1976, I, p. 161. (5) Per una diffusa analisi sulle diversità di significato dei medesimi termini nel linguaggio comune e nel linguaggio giuridico, L.M. RAYMONDIS-M. LE GUERN, Le language de la justice pènale, Paris, 1976. V. pure V. PANNUCCIO, Linguaggio giuridico, linguaggio comune e linguaggi tecnici, in Scritti catanzaresi in onore di Angelo Falzea, Edizioni scientifiche Italiane, Napoli, 1987, p. 341 ss.
— 435 — proprio e trasformato dalla norma penale secondo i propri fini), quanto a un significato tecnico-giuridico di altra branca del diritto. Esempi possono esserne i termini ‘‘possesso’’, ‘‘detenzione’’, ‘‘altruità’’. In presenza di termini di questo tipo, l’interprete non deve mai acriticamente pensare che essi abbiano senz’altro, in quel contesto, il loro originario significato tecnico-giuridico. La questione, invece, va risolta caso per caso. Anzi, fino a prova contraria, ci si deve orientare verso il significato che in qualche modo corrisponde all’uso del linguaggio comune ed operare su di esso quella trasformazione metodologica che è richiesta dal fine della norma penale (6). Tra gli esempi citati, il più istruttivo è forse quello relativo al termine ‘‘possesso’’. Tale termine indica un istituto proprio del diritto civile, ed ivi particolarmente approfondito; ma il medesimo termine è impiegato, come tale o nei suoi derivati, anche in talune disposizioni penali (es., artt. 314, 624, 646 c.p.). Al termine di polemiche annose e complesse, oramai tutti riconoscono concordemente che nelle disposizioni penali il termine ‘‘possesso’’ deve essere inteso in modo autonomo rispetto alla nozione civilistica. Bisogna assumere, come punto di partenza, la nozione di possesso nel linguaggio comune, tenere conto delle specificazioni che le sono state apportate nell’ambito del diritto civile, e infine apportarle le correzioni semantiche che sono imposte da quella trasformazione metodologica che si verifica ogniqualvolta un termine deve essere interpretato alla luce del fine della norma. Applicando rigorosamente uno schema ermeneutico di questo tipo, può darsi addirittura che un medesimo termine assuma significati parzialmente diversi in ciascuna delle norme penali dove è contenuto. Ciò non deve sembrare strano, ove si rifletta sulla circostanza che ‘‘comprendere è sempre già applicare’’; persino il senso di un medesimo testo giuridico può mutare anche sincronicamente in diversi contesti applicativi, secondo le varie modalità e le mutevoli esigenze delle singole situazioni concrete (7). 3. Alla pesantezza delle sanzioni penali deve far riscontro, in un ordinamento giuridico ispirato a principi di civiltà, una particolare cautela nella loro applicazione. Qui il principio, di per sé valido per tutto il di(6) V. pure G. LAZZARO, Diritto e linguaggio comune, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, p. 177. Vi è dunque un rovesciamento rispetto ai criteri ermeneutici propri del diritto civile, dove nel dubbio si propende per il significato tecnico: F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Giuffrè, Milano, 1947, § 5, p. 58; BELVEDERE, Testi e discorso nel diritto privato, in Testo e diritto, cit., p. 154. (7) HABERMAS, Fatti e norme, cit., p. 261; MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, pp. 17, 22 s.
— 436 — ritto (8), che i cittadini devono potere essere in grado di prevedere come saranno giudicate le loro azioni, ottiene una forza superiore proprio a causa della gravità delle sanzioni previste dalla norme penali. Da questo punto di vista, il testo e la sua interpretazione devono possedere, nel diritto penale, la capacità di contribuire ad assicurare al cittadino la garanzia che egli non sarà punito, e nemmeno sottoposto a processo, per una condotta della quale non fosse chiara, fin da principio, la illiceità penale (9). Anche sotto questo profilo è necessario, dunque, l’uso del linguaggio comune. Esso ha importanza non solo per assicurare l’effetto preventivo, ma anche per assolvere al compito di ‘‘proteggere l’imputato da brutte sorprese’’ (10). Nell’ambito culturale derivato dall’illuminismo uno degli ulteriori mezzi predisposti al medesimo scopo (di assicurare, cioè, almeno la conoscibilità delle leggi) è la codificazione. In una congerie di leggi — oggi in Italia pare vi siano circa duecentomila leggi (11), tra le quali alcune migliaia contengono disposizioni penali — è difficile orientarsi anche per l’esperto di ditritto. Tanto meno lo può il cittadino comune. In un codice è assai più facile rintracciare le norme penali, cercare di apprenderne il contenuto ed individuare, quindi, il discrimine tra ciò che è penalmente lecito e ciò che è penalmente illecito. Certo, in un ordinamento statale moderno sarebbe impossibile comprendere proprio tutte le norme penali in un solo codice; ma si può ovviare (in parte) all’inconveniente, ove si inseriscano le rimanenti norme penali in appositi testi unici. Si può approvare, perciò, l’art. 129 del recente Progetto di riforma costituzionale, è là dove stabilisce che ‘‘Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono’’. Anche il Progetto 1992 (12) si muove in questo senso. Ricordiamo che l’art. 2, relativo ai Principi di codificazione, stabilisce, al n. 3, che il (8) VIOLA, op. cit., p. 64. (9) G. VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Digesto disc. penalistiche, VIII, Torino, 1994, p. 281 ss.; VIOLA-ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto (in corso di stampa). (10) Testualmente, HASSEMER, Diritto giusto attraverso un linguaggio corretto?, in Testo di diritto, cit., p. 188. (11) Cfr. AINIS, La legge oscura. Come e perché non funziona, Bari, 1997, p. 17 ss. (12) Il Progetto di legge delega per un nuovo codice penale (c.d. Progetto 1992) fu composto da una Commissione Ministeriale composta dai professori Antonio Pagliaro, Franco Bricola, Fernando Mantovani, Tullio Padovani, Antonio Fiorella e, fino alla sua prematura scomparsa, Angelo Raffaele Latagliata. Il progetto è pubblicato, nella sua versione più recente con la relazione, in Giust. pen., 1994, I, 88. Il testo originario è pure leggibile, con la relazione, nel sito Internet www.giustizia.it/.
— 437 — codice penale deve ‘‘porsi come testo centrale e punto di riferimento fondamentale dell’intero ordinamento penale, in modo da contrastare il pericolo di decodificazione’’ (13). Inoltre, una innovativa disposizione di coordinamento (art. 13) prevede quanto segue: ‘‘Al fine di assicurare la centralità del codice penale, nei casi in cui il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti, stabilire la non applicabilità di queste, salvo che siano state confermate con leggi delegate, da emanare nel tempo indicato per la entrata in vigore dal codice medesimo’’. 4. Un ulteriore mezzo per assicurare la tutela del cittadino di fronte alla legge penale consiste nel principio di legalità, a norma del quale solo al legislatore è riservata la potestà di emanare norme penali (14). Su di esso ha insistito con grande efficacia la tradizione illuministica, che lo ha collocato nel quadro della divisione dei poteri. Ma in realtà il principio è ben più antico (anche se non sempre è stato pienamente osservato), perché viene avvertito come quasi connaturato alla legislazione penale. Di per sé, il principio di legalità, in quanto esige che fonte del diritto penale sia soltanto la legge o l’atto equiparato nella gerarchia delle fonti del diritto, non pone, circa il testo e la interpretazione delle norme penali, problemi che non siano propri anche delle altre branche del diritto. Tuttavia, esso ha rapidamente sviluppato, come corollario, il divieto di analogia in malam partem; e, in tempi assai più recenti, il principio di tassatività. Il divieto di analogia in malam partem fa sorgere, per il legislatore penale, la necessità di indicare col testo impiegato tutte, proprio tutte, le condotte che egli vuole incriminare. Se ne dimentica qualcuna, non vi sarà possibilità, per l’interprete, di invocare la eadem ratio ed ampliare la punibilità a casi simili. La conseguenza è che sarà necessaria, nei lavori preparatori della legge, un’attenta considerazione dei moduli linguistici da utilizzare; talvolta, poi, si imporrà l’uso di termini linguistici dotati di una certa elasticità semantica (c.d. elementi vaghi) e, più spesso ancora l’uso di termini capaci di denotare il comportamento incriminato (o un suo aspetto) non attraverso una sua nota naturale, ma piuttosto attraverso la circostanza che il comportamento (o un suo aspetto) posseggano una certa valenza rispetto a una norma giuridica o anche extragiuridica (c.d. elementi normativi) (15). Si noti che un elemento della fattispecie può es(13) Su tale pericolo, v. pure AINIS, La legge oscura, cit., p. 99 ss., nonché il capo XI della Relazione della Commissione Grosso sugli orientamenti e le priorità di una riforma del codice penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 600 ss., e nel sito Internet www.giustizia.it/. (14) PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 1998, p. 36 ss. (e autori ivi citati). (15) Talvolta si preferisce parlare di ‘‘termini normativi’’ (in contrapposto a ‘‘termini fattuali’’. Ad es., LAZZARO, op. cit., p. 160; A. BELVEDERE, Il linguaggio del codice civile: al-
— 438 — sere soltanto vago o soltanto normativo, ma sono frequenti casi di elementi che siano al tempo stesso vaghi e normativi. Gli elmenti vaghi (per esempio, ‘‘interessi o vantaggi usurari’’, che pur nel tentativo di specificazione compiuto dalla nuova legge sono quelli ‘‘sproporzionati’’; art. 644 c.p.; ‘‘di notte in un luogo abitato’’; art. 699, comma 3, c.p.; atti, pubblicazioni e spettacoli ‘‘osceni’’; artt. 627-629 c.p.; ‘‘negligenza, imprudenza, imperizia’’; art. 43 c.p.) sono, per lo più, quelli tratti dall’uso linguistico comune e perciò rispondono al requisito ricordato sopra, che la legge penale deve impiegare un linguaggio semplice e comprensibile dalla generalità dei consociati. Bisogna tuttavia che il legislatore usi una particolare prudenza nell’impiego di termini di tal fatta, perché è necessario guardarsi dal pericolo che la fattispecie risulti esageratamente indeterminata, al punto da far dubitare del rispetto del principio di legalità (16). Come è logico, per ritenere incostituzionale per tal motivo una fattispecie occorrerà tenere conto, anzitutto, che il diritto guarda agli uomini nella loro società e, perciò, il principio di legalità non può richiedere che la determinazione delle fattispecie avvenga attraverso formule matematiche: anzi, se così si facesse, la fattispecie stessa sarebbe indeterminata rispetto alle esigenze sociali; inoltre, possono essere proprio le necessità inerenti alla tutela di un particolare bene giuridico a imporre che la incriminazione avvenga utilizzando un elemento vago (per es.: ‘‘offende l’altrui reputazione’’: art. 595 c.p.). Per questo motivo, è ben difficile imbattersi in qualche dichiarazione di illegittimità di disposizioni contenenti elementi vaghi (si ricordano soltanto quella relativa al delitto di plagio e l’altra relativa alla espulsione di extracomunitari; quanto al reato militare di violata consegna, la ragione che portò a dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge fu piuttosto l’eccessiva elasticità della pena edittale (17)). La interpretazione degli elementi vaghi è soggetta alle regole normali; le quali, proprio in dipendenza della elasticità di tali elementi, impongono di interpretarli in modo conforme al fine della disposizione. Così, ad esempio, il già citato ‘‘di notte in luogo abitato’’, che riguarda una circostanza aggravante del porto abusivo di armi, deve essere inteso in modo da indicare correttamente quei casi, in cui il porto abusivo di armi può destare maggiore allarme sociale. cune osservazioni, ne Il linguaggio del diritto (a cura di Scarpelli e Di Lucia), Milano, 1994, pp. 415 ss. (16) G. VASSALLI, op. cit., pp. 303, 322; G. MARINI, Note sull’interpretazione, in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne (Studi F. Gallo), Napoli, 1997, p. 324 s. (17) Corte cost., n. 96 del 1981 c.n. 34 del 1995; nonché n. 299 del 1992. In generale C. LUZZATI, La vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Giuffrè, Milano, 1990, p. 375 ss.
— 439 — Circa gli elementi normativi, la loro caratteristica sta nel denotare una classe di accadimenti non già mediante contrassegni naturali comuni, bensì attraverso un (dis-)valore che li accomuna tutti. Per esempio, la classe delle ‘‘imprudenze’’ può essere composta anche da comportamenti tra loro assai diversi; ma tutti quanti sono accumunati dal fatto che costituiscono la violazione di una regola sociale di prudenza. Le materie che richiedono una tecnica legislativa basata su elementi normativi sono molte; tuttavia, un limite costituzionale può scaturire dal principio di legalità. Potrebbe aversi una violazione di questo principio, quando l’intera struttura della fattispecie fosse costituita da un elemento normativo (c.d. ‘‘legge penale in bianco’’; es., art. 650 c.p.) e, al tempo stesso, tra il minimo e il massimo della pena edittale esistesse un distacco tale da far sì che la vera fonte del diritto penale non fosse più la legge, bensì la norma alla quale l’elemento normativo fa riferimento (18). Nella interpretazione dell’elemento normativo bisogna chiedersi, innanzi tutto, se la norma richiamata sia proprio la norma extrapenale nella sua interezza, o se, piuttosto, la norma extrapenale abbia subito una profonda trasformazione metodologica in dipendenza dei fini della norma penale (19). Identificata bene la norma richiamata, non sorgono poi, in diritto penale, questioni specifiche, se non a proposito della possibilità di utilizzare il procedimento analogico (anche in malam partem), per determinare quale sia l’accadere denotato dall’elemento normativo, nonché a proposito della successione di leggi. Ad esempio, ci si può chiedere se, per stabilire quando la cosa mobile è ‘‘altrui’’ agli effetti del furto (art. 624 c.p.), sia lecito far ricorso, ove ne ricorra il caso, anche all’analogia rispetto alle norme civilistiche sulla proprietà. In questo caso, la risposta deve essere positiva, non solo perché l’analogia in diritto civile è consentita, ma anche perché la trasformazione metodologica discendente dall’inserimento del termine ‘‘altrui’’ nella legislazione penale comporta un rafforzamento delle componenti sostanziali rispetto a quelle formali civilistiche. Considerazioni simili valgono per la successione tra le disposizioni cui bisogna richiamarsi per determinare il contenuto dell’elemento normativo. Nello stesso esempio dell’‘‘altruità’’, quid juris se varia la legge civile dalla quale si prendono le mosse per stabilire se una cosa sia propria o altrui? Anche qui bisogna rifarsi alle regole proprie del corpo normativo richiamato; pertanto, se ivi la variazione ha effetto retroattivo, tale effetto si trasferirà anche nel campo del diritto penale. Con un limite, però: la retroattività non potrà mai operare a svantaggio del reo, posto che la so(18) PAGLIARO, Principi, cit., p. 55 ss. (19) Così avviene, ad esempio, per l’altruità della cosa nell’appropriazione indebita; PAGLIARO, Appropriazione indebita, in Digesto disc. penalistiche, I, Torino, 1987, p. 230 ss.
— 440 — stanza del principio costituzionale che la legge penale sfavorevole è irretroattiva (art. 25 Cost., 2 c.p.) lo vieta. Alla categoria degli elementi normativi della fattispecie va ricondotto pure il c.d. potere discrezionale del giudice nella scelta della misura sanzionatoria. Vero è che l’art. 132 c.p. accenna testualmente a una discrezionalità del giudice; ma, in realtà, la misura della pena non dipende da una libera scelta del giudice sul momento o sul mezzo o sul modo di perseguire il fine di interesse pubblico connesso all’applicazione della pena (come dovrebbe essere, se si trattasse di vero potere discrezionale (20)). Essa, invece, è specificamente vincolata alla gravità del reato e alla capacità a delinquere (art. 133 c.p.): a reato meno grave e a minore capacità a delinquere deve corrispondere una pena più lieve; a reato più grave e a maggiore capacità a delinquere deve corrispondere una pena maggiore. Perciò, non di discrezionalità si tratta, ma di elementi normativi della fattispecie. In altri termini, le situazioni di fatto che lasciano concludere per una maggiore o minore gravità del fatto o per una maggiore o minore capacità a delinquere sono elementi del fatto di reato, ai quali la legge fa riferimento tramite la tecnica degli elementi normativi. 5. Che il divieto di analogia in malam partem sia opportuno ha fatto talvolta sorgere l’idea di proporre anche un divieto di interpretazione estensiva per le norme incriminatrici. Così, nel recente Progetto di riforma costituzionale, si voleva stabilire che le leggi penali non potessero ‘‘essere interpretate in modo analogico o estensivo’’ (art. 129, comma 3). Naturalmente, a questo proposito il problema è, in primo luogo, di ordine teorico, e concerne la possibilità stessa di tracciare una linea differenziale tra analogia e interpretazione estensiva. Non voglio qui affrontare il problema dal punto di vista filosofico, ma solo da quello del giurista. E direi che la circostanza, pur vera, che talvolta chi applica il diritto non si avvale di schemi sillogistici (21), non può escludere il fatto che la proposizione linguistica di cui la legge è formata, delinei il comportamento incriminato attraverso una tecnica che corrisponde alla logica degli insiemi. La proposizione linguistica, attraverso ciascuno dei termini che la formano, delimita un certo gruppo di accadimenti; e, dal convergere di tutte queste delimitazioni, emerge quel limitato gruppo di accadimenti che può considerarsi ‘‘tipico’’ rispetto alla fattispecie legale. Nella teoria degli insiemi, i comportamenti tipici rispetto alla fattispecie penale saranno formati da quell’insieme di accadimenti che soddisfano tutti i requisiti posti dai di(20) Sui connotati della discrezionalità, v. per tutti, VIRGA, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1968, p. 20 ss. (21) Per tutti, HRUSCHKA, La comprensione dei testi giuridici, Napoli, 1983, p. 98.
— 441 — versi insiemi parziali. Ora, questa è una proprietà logica, che non può essere scalzata dal fatto che considerazioni di carattere teleologico possono indurre l’interprete a ritenere applicabile una disposizione anche a casi che, dal punto di vista puramente logico, a tale insieme non possono essere riportati. Anzi, proprio questa sfasatura tra momento logico e momento teleologico è l’elemento che permette di distinguere tra interpretazione (anche estensiva) ed analogia. La interpretazione estensiva non è una species diversa di interpretazione. È una normalissima interpretazione, valutata dal punto di vista del suo risultato. L’insieme dei casi cui la norma si applica risulta, a seguito del processo interpretativo (che ovviamente comprende anche il momento teleologico), più ampio di quel che era sembrato a prima vista. Ma si tratta pur sempre di casi che rimangono entro l’insieme delineato dalla proposizione linguistica contenuta nella legge. Per questo, il possibile significato dei temini ivi impiegati e della proposizione nel suo complesso costituisce il limite estremo della interpretazione anche estensiva. Il momento teleologico della interpretazione incontra tale limite logico. Nel caso dell’analogia, tale limite viene superato. Mentre la interpretazione estensiva suppone che il significato della disposizione, se ben inteso, sia idoneo a disciplinare anche il caso concreto per il quale si ricerca la regola, l’analogia presuppone tutto il contrario: cioè la riconosciuta inidoneità della disposizione — per via del limite logico che le è proprio — a fornire una soluzione del problema corrispondente alla visuale teleologica. Perciò, tale limite logico viene superato da chi applica il diritto. Se le cose stanno così, il divieto di applicare per analogia le disposizioni incriminatrici appare pienamente giustificato. Al contrario, la idea di vietare la interpretazione estensiva delle leggi penali non può essere condivisa. La interpretazione estensiva non è una forma specifica di interpretazione, ma è un risultato della interpretazione stessa, in dipendenza del fatto che il risultato di un corretto procedimento esegetico ha, in un caso particolare, una portata più vasta di quello che si poteva pensare a una prima sommaria indagine (attraverso il momento letterale della interpretazione). Negarne la validità significherebbe, in questi casi, vietare la interpretazione corretta per privilegiare una interpretazione superficiale. Bisogna aggiungere che un divieto di interpretazione estensiva avrebbe una efficacia pressoché nulla sul diritto vivente. Infatti, l’esperienza storica ha dimostrato ogni volta la inanità dei ricorrenti sforzi legislativi che, di tanto in tanto, hanno mirato a porre vincoli al processo interpretativo (22). (22) Si veda ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, tr. it., Milano, 1970, p. 145 (dove, alla nota 27 sono pure ricordati alcuni esempi storici degli inefficaci divieti di interpretare: Costituzione Tanta § 21 del Corpus juris; Introduzione al Corpus juris fridericiani del 1749-51).
— 442 — 6. Si diceva sopra che dal principio di legalità è germogliato, in tempi recenti, il principio di tassatività della legge penale (23). Questo principio comporta che la descrizione del fatto incriminato debba essere effettuata, dal legislatore, nel modo più preciso possibile. Tale esigenza contrasta con l’altra, che il legislatore penale deve attenersi fondamentalmente al linguaggio comune. Da questo, infatti, non si può pretendere una precisione assoluta. Allora, il principio di tassatività va inteso cum grano salis, mettendo in opera quelle regole di proporzione e di bilanciamento degli interessi che devono presiedere ad ogni interpretazione giuridica corretta. Fermo restando che il linguaggio del legislatore penale deve rimanere il linguaggio comune, ci si deve sforzare, nella formulazione delle leggi penali, di compiere quelle scelte terminologiche che, in tale ambito linguistico, abbiano la maggiore possibile precisione. Ma non si deve ricercare l’impossibile. Un esempio illuminante può essere quello relativo alla punibilità del tentativo di delitto. Secondo una nostra secolare tradizione giuridica, è giusto punire chi abbia già cominciato ad eseguire la condotta tipica del delitto, mentre bisogna astenersi dall’applicare una pena a chi si è limitato a preparare tale condotta. Ebbene, per quanti sforzi linguistici si facciano, non esiste alcun modo sicuro per indicare con precisione il confine tra attività preparatoria ed attività esecutiva. Non solo un tale approccio non dà risultati se si pretende di trovare una formula valida per tutti i delitti, ma addirittura non è possibile fissare un criterio sicuro limitato a gruppi ristretti di delitti e persino a un unico tipo delittuoso (i modi concreti di realizzazione possono essere in concreto i più svariati). Ricorrere a criteri naturalistici sarebbe addirittura disastroso. A questo punto, tanto vale indicare, nel testo di legge, le linee guida (la distinzione tra preparazione ed esecuzione; oppure la formula ‘‘atti idonei diretti in modo non equivoco’’, la quale, se correttamente interpretata, conduce allo stesso risultato) ed affidarsi alla prassi perché si sappia mantenere nell’ambito del modello prefigurato. È molto importante, in questi casi, il ‘‘precedente’’. Perció se vi è un’accettabile giurisprudenza sufficientemente stabilizzata, non è opportuno intervenire con riforme legislative, che potrebbero magari avere un risultato opposto a quello preso di mira. Altre volte, nella scelta delle soluzioni giuridiche non ci si deve fare sviare da astratti preconcetti ideologici. Per esempio, la nozione di ‘‘peri(23) Sul punto, F. PALAZZO, Il principio della determinatezza nel diritto penale, Cedam, Padova, 1979; M. RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Giappichelli, Torino, 1979; G. LICCI, Ragionevolezza e significatività come parametri di determinatezza della norma penale, Giuffrè, Milano, 1989; G. VASSALLI, op. cit., p. 321 ss.
— 443 — colosità sociale’’ è, in sé stessa, una nozione estremamente vaga (24). E perciò un buon correttivo possono esserne le presunzioni di pericolosità, che almeno appoggiano a qualche cosa di fattuale (la commissione di reati di gravità x, il numero dei reati commessi ecc.) il giudizio che un certo soggetto è pericoloso. Quando si afferma, in contrario, che una presunzione di pericolosità contrasti con le esigenze di rieducazione e risocializzazione, si dice cosa del tutto vacua (anche se sulla base di queste argomentazioni si è ottenuta la riduzione di tutta la pericolosità sociale a pericolosità accertata in concreto), che non tiene conto del fatto che le attuali conoscenze dell’uomo non sono minimamente in grado di stabilire se un soggetto commetterà reati in futuro; quindi, nessuno può sennatamente asserire alcunché sulla pericolosità in concreto. Probabilmente, se vi era un istituto da bandire, era proprio quello della concreta pericolosità. 7. Anche la dogmatica penalistica ha le sue responsabilità (25). Vi sono problemi di interpretazione ‘‘che nascono non da difetti del linguaggio delle fonti, ma piuttosto dalla sovrapposizione a tale linguaggio, di (più o meno artificiose) costruzioni dogmatiche degli interpreti’’ (26). Ebbene, sulla interpretazione della legge penale hanno talvolta effetto deleterio talune costruzioni dogmatiche, che pure vengono sostenute in nome di loro asseriti meriti. Può essere utile ricordarne due: la ‘‘concezione critica del bene giuridico’’ e la ‘‘teoria del dolus in re ipsa’’. Si sa che il reato è offesa a un bene giuridico: il che equivale a dire che, in un sistema teleologicamente costruito in modo corretto, non può esservi reato, se nel caso concreto l’interesse tutelato dalla legge penale non è stato offeso. Ciò discende de plano dalla teoria della interpretazione; ed è confermato, sul piano testuale, dal nostro diritto positivo agli artt. 40 e 43 c.p., i quali richiedono espressamente, per il configurarsi di ogni reato, che l’evento sia ‘‘dannoso o pericoloso’’. Il rispetto del pricipio di legalità, e, prima ancora, il rispetto del principio che l’interprete non può creare liberamente il diritto, ma deve attenersi alle regole sulla produzione giuridica proprie dell’ordinamento al quale egli si riferisce, rendono ovvio che il giudizio sul verificarsi dell’offesa a un bene giuridico deve essere effettuato dal punto di vista della legge. Perciò lo stabilire se un certo bene esista e meriti di essere tutelato, (24) Cfr., ad es., L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 1989, p. 514 s. (25) Sul compito della dogmatica di formulare scelte giuridiche che, rendendo possibili decisioni giudiziarie trasparenti e controllabili, si situino nell’ambito di uno Stato di diritto, HASSEMER, Diritto giusto, cit., p. 172. (26) GUASTINI, Le fonti del diritto e l’interpretazione, nel Trattato di diritto privato a cura di Judica e Zatti, 1993, p. 346.
— 444 — diventando a seguito della tutela un bene ‘‘giuridico’’, è compito che può spettare soltanto al legislatore. Tuttavia, una dottrina prospettata da qualche autore tedesco propugna la c.d. ‘‘concezione critica del bene giuridico’’; intendendo con ciò che l’interprete dovrebbe potere stabilire se l’oggetto della tutela penale sia un vero e proprio bene giuridico (nel qual caso la norma in questione sarebbe legittima) oppure l’oggetto della tutela penale sia costituito da un’immagine priva di effettivo contenuto (nel qual caso, la norma penale dovrebbe essere ritenuta illegittima e, perciò, dovrebbe essere disapplicata). La teoria in questione è stata utilizzata in Germania per ottenere l’abolizione delle norme su alcuni reati sessuali (27). Per quanto mi risulta, non vi è studioso italiano alcuno, che accetti in toto questa ‘‘concezione critica’’. Tuttavia, talvolta si allude a presunti meriti che tale dottrina possederebbe (28) e si finisce così col negare — senza il filtro di una dichiarazione di illegittimità costituzionale (la quale peraltro potrebbe essere fondata solo su un effettivo contrasto con valori contenuti nella Costituzione) — validità giuridica a norme che pure sono state introdotte nell’ordinamento rispettando le sue regole sulla produzione normativa. Perciò, è opportuna qualche parola di confutazione. In primo luogo, la concezione critica ha il difetto di rimanere in una equivoca metà strada tra giuridico e pregiuridico. Se ‘‘bene giuridico’’ è ogni ‘‘entità meritevole di tutela da parte del diritto’’, bisogna stabilire dal punto di vista di chi giudicare questa meritevolezza di tutela. Ora, se il punto di vista è quello della legge, la teoria in esame rimane una concezione ‘‘giuridica’’, ma non è più una concezione ‘‘critica’’, in quanto si limita a recepire l’esistente; se, invece, il punto di vista è un altro, la concezione rimane ‘‘critica’’ ma non è più una concezione ‘‘giuridica’’ in quanto diventa un mezzo per introdurre surrettiziamente nella giurisprudenza componenti politiche estranee all’ordinamento. La specificazione, talora proposta, che il bene tutelato, per adempiere alla sua funzione storica ‘‘liberale’’ (29), dovrebbe essere un’entità materiale (30), non corrisponde minimamente alla storia effettiva della teoria del bene giuridico. Questa sorse, nell’ambito delle concezioni liberali, (27) Ad es., JÄGER, Strafgesetzgebung und Rechtsgüterschutz bei Sittlichkeitsdelikten, Henke, Stuttgart, 1957; M. MARX, Zur Definition des Begriffs ‘‘Rechtsgut’’, Heymmans, Köln-Berlin-Bonn-München, 1972. (28) Si vedano, ad esempio, talune tra le relazioni contenute nel volume collettivo Bene giuridico e riforma della parte speciale (a cura di A. Stile), Jovene, Napoli, 1985. (29) P. SINA, Die Dogmengeschichte des strafrechtlichen Begriffs ‘‘Rechtsgut’’, Helbing & Lichtenhahn, Basel, 1962, p. 89 ss. (30) V. soprattutto JÄGER, Strafgesetzgebung, cit., passim. Indirettamente anche chi (G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Giuffrè, Milano, 1995, p. 59 s.) critica l’idea di considerare il bene giuridico come sinonimo di valori e interessi tutelati dal diritto, e quindi non come ‘‘dato della realtà modificabile’’.
— 445 — come teoria della tutela penale dei diritti soggettivi (31); e i diritti soggettivi, come ognuno sa, sono essi stessi entità immateriali e, per di più, possono avere per oggetto anche entità immateriali. La sostituzione del bene al diritto soggettivo non fu dovuta ad una ‘‘materializzazione’’ del concetto, ma soltanto al riconoscimento che non tutti i reati offendono diritti soggettivi e che, comunque, il reato è tale non perché offende un diritto soggettivo, bensì perché lede o pone in pericolo un bene-interesse (anche non costituito in diritto soggettivo in senso tecnico), che lo Stato ritiene meritevole della tutela penale (32). Bene e interesse sono due aspetti correlativi di una stessa realtà umana; la quale può, anche in una concezione liberale, avere carattere spirituale ed esprimersi, quindi, come un ‘‘valore’’. La limitazione della tutela penale alle sole entità materiali può essere coerentemente sostenuta solo nell’ambito di un piatto materialismo: si rifletta che nello stesso pensiero marxista ortodosso, nessuno si sarebbe mai sognato di negare che beni meritevoli di tutela anche penale siano taluni beni immateriali, come la libertà personale, la libertà sessuale, la pietà dei defunti, l’onore, ecc. La concezione critica del bene giuridico rivela allora la sua vera natura, che è quella di veicolare la personale opinione di coloro che vorrebbero abolite le incriminazioni che, per motivi culturali, religiosi, politici, personali ecc., essi non condividono. Ora, una opinione di tal fatta può essere certo fatta legittimamente valere come manifestazione del proprio pensiero; ma trasformare l’argomentazione di opportunità in argomentazione ‘‘scientifica’’, che dimostrerebbe in questi casi l’assenza del bene giuridico, è solo un’abile forzatura, in cui la valutazione personale circa l’assenza di un interesse meritevole di tutela viene fatta apparire come valutazione della comunità e, quindi, dell’ordinamento. Se si accogliesse davvero tale tesi, i valori democratici, che si incorporano nel testo delle leggi penali approvate secondo la Costituzione della Repubblica, sarebbero sacrificati a un punto di vista del tutto soggettivo e individuale dell’interprete. 8. Un altro esempio di dogmatica capace di fuorviare gli interpreti di un testo di legge penale può essere indicato nella teoria del dolus in re ipsa. Si usa questa espressione, in dottrina e qualche volta pure in giurisprudenza, per designare quei casi, nei quali un soggetto viene chiamato a (31) Tra gli altri: P.J.A. FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gültigen peinlichen Rechts, Giessen, 1847, § 21, p. 45; G. CARMIGNANI, Elementi di diritto criminale, Milano, 1863, § 120, p. 45; F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, I, Lucca, 1871, § 42. (32) Art. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, in Opere giuridiche, I, Ed. del Foro Italiano, Roma, 1932, p. 46 ss.; PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, p. 18 ss., 40 e passim.
— 446 — rispondere a titolo di dolo per aver voluto un determinato fatto naturalistico, ma prescindendo dall’accertare il significato che egli attribuiva alla sua condotta. Secondo questo modo di vedere, ogni comportamento esteriore dell’uomo è, per la sua stessa struttura, legato in modo indissolubile a un certo significato; sicché, dove il comportamento esteriore è voluto, nulla osta al configurarsi dell’azione che possiede quel significato. La tipicità si costruirebbe sul mero aspetto materiale della condotta, con la conseguenza che — dove le fattispecie non siano caratterizzate da dolo specifico o da altri elementi estranei alla condotta illecita, né sussistano cause di esclusione del reato — la distinzione tra i fatti penalmente illeciti e quelli leciti, nonché la distinzione tra più ipotesi criminose, dovrebbero fondarsi in modo esclusivo sull’aspetto materiale della condotta. Ad esempio, nei delitti contro l’onore, per la sussistenza del dolo si è talvolta ritenuta sufficiente la volontà di pronunciare la parola obiettivamente ingiuriosa, a prescindere dalla prova della volontà di offendere l’altrui onore o l’altrui reputazione; nei delitti contro la fede pubblica, si è ritenuta sufficiente la volontà di modificare un testo, anche se il soggetto era convinto di operare una lecita correzione. Similmente anche in altri casi: atti osceni e di libidine, delitti di villipendio, di calunnia, spergiuro, danneggiamento, frode in forniture, infedeltà in affari di Stato, usurpazione di potere politico o di comando militare, strage, favoreggiamento, abuso di ufficio, rissa, incitamento al duello, emissione di grida sediziose, apologia di delitto, consenso all’aborto, arruolamenti non autorizzati, cospirazione, e ancora in tutti i reati in cui si richiede un comportamento come impossessarsi, costringere, appropriarsi, ingannare, contrarre un’obbligazione o un matrimonio, accettare promesse, associarsi, alienare, acquistare, fare commercio, attentare, tenere intelligenze, portare le armi contro qualcuno, ecc. (33). Di solito, il problema del dolus in re ipsa viene inquadrato nel tema dell’accertamento del dolo. Questa sistemazione è esatta solo in parte, perché non si trova ivi la vera peculiarità del dolus in re ipsa. Infatti, se è vero che l’accertamento del dolo nei casi di c.d. dolus in re ipsa deve essere condotto in sede processuale utilizzando massime di esperienza (come esattamente afferma la dottrina che critica il dolus in re ipsa dal punto di vista processuale), è anche vero che tale principio in materia di accertamento vale per tutte le forme di dolo, dato che dei processi psichici altrui non si può avere cognizione diretta. A monte sta la necessità di stabilire in modo preciso quale sia, nel diritto sostanziale, l’oggetto della volontà dolosa. Prima di accertarne la sussistenza, bisogna avere ben chiaro quale deve essere l’oggetto dell’accerta(33) Per una più larga esemplificazione A. PAGLIARO, Il fatto di reato, Priulla, Palermo, 1960, p. 420 ss.; F. BRICOLA, Dolus in re ipsa, Giuffrè, Milano 1960, passim.
— 447 — mento: perciò, nei casi di dolus in re ipsa, diventa determinante stabilire preliminarmente se, per aversi dolo, basti la volontà di un fatto materiale, oppure occorra la volontà di un contenuto significativo. Ora, la regola che la volontà di un certo fatto naturalistico esteriore sia sufficiente per la produzione dell’effetto giuridico non è adeguata a un diritto penale moderno. Essa è caratteristica degli ordinamenti giuridici primitivi. Ancora nel jus civile romano bastava aver voluto una certa condotta materiale (anche se non se ne era compreso e voluto il significato), perché l’effetto giuridico si producesse. Il senso della condotta risultava dalle forme esteriori, cioè da verba o gesta perfettamente determinati (si pensi ai negozi per aes et libram e ai negozi richiedenti verba predeterminati [per esempio, spondes? spondeo; fidepromittis? fidepromitto; doti tibi erit; ecc.], o anche al celebre principio contenuto nelle XIII Tavole ‘‘uti lingua nuncupassit ita jus esto’’). Solo successivamente ebbero rilievo elementi come mens, voluntas, animus, conventio, consensus, id quod actum est e simili (34). L’evolversi della coscienza giuridica rese ben presto palese la rudimentalità di questo primitivo modo di pensare. Attraverso un processo storico complesso, che qui non è possibile neppure accennare, si giunse nel diritto giustinianeo al trionfo del principio che il senso di un’azione non risiede nella forma esteriore del comportamento. Restava solo da chiarire se fosse più conforme alle esigenze del diritto attenersi al significato subiettivamente posto dall’agente oppure al significato obiettivamente riconoscibile nell’ambiente sociale in cui il soggetto opera. Su questa base si sono sviluppate nel diritto privato le note teorie della volontà e della dichiarazione, con tutti i loro temperamenti e le loro varianti (teoria della responsabilità, teoria dell’affidamento). E, sulla scia del diritto privato, pure il diritto amministrativo e il diritto internazionale sono pervenuti alle medesime conclusioni. In queste condizioni, il persistere, in dottrina e giurisprudenza penali, di un orientamento che ancora lascia dipendere il significato giuridico della condotta esclusivamente dalla forma esteriore del comportamento, costituisce un fatto davvero singolare. La scienza del diritto penale, ancor più delle sue consorelle, dovrebbe sentire l’esigenza di ancorare gli effetti giuridici a quel significato di condotta che il soggetto, con il suo volere, ha proiettato nel mondo esterno e che è insieme riconoscibile — come significato, e non come materialità — dalla comunità degli uomini. Ma l’unico argomento, che si ritrova in dottrina, per sostenere la necessità di ancorare il significato penale di una condotta alla sua forma esteriore è costituito da un richiamo alla esigenza di certezza del diritto, che è particolar(34) B. ALBANESE, Gli atti negoziali nel diritto privato romano, Pubblicazioni del Seminario Giuridico della Università di Palermo, 1982, p. 15 ss.
— 448 — mente viva nel settore penalistico a tutela della libertà personale. Si afferma, cioè, che una indagine di tipo naturalistico risponderebbe nel massimo grado ai requisiti di certezza. Ma la erroneità di una simile concezione dovrebbe apparire evidente, perché tale presunta certezza sarebbe riferita all’accadere naturalistico, e non all’effettivo significato della condotta, che è quello che conta in diritto penale. La certezza del diritto, se vuole davvero essere un’esigenza imprescindibile della vita giuridica, si deve riferire agli elementi che realmente sono l’oggetto dell’indagine, e non ad elementi diversi, sotto pena di offrire una rappresentazione deformata del fenomeno giuridico. Ove la rappresentazione sia erronea, la certezza, ad essa riferita, è ridotta ad una lustra: il che può avere gravi conseguenze proprio in materia di libertà personale, perché diventa possibile configurare un reato pure dove il significato della condotta non corrisponde al significato delle incriminazioni. Questa pretesa certezza del diritto, cui si dovrebbe commettere la tutela della libertà, si rivela come negazione della certezza, perché fondata su un’erronea identificazione tra forma materiale e significato, e come negazione della libertà, perché può introdurre una sanzione penale anche dove il soggetto nulla ha fatto per meritarla. Non resta allora se non riconoscere che la teoria in questione non risponde affatto ad esigenze teleologiche incorporate nel nostro sistema penale, ma anzi vi contrasta. Se si considera l’origine di tale dottrina, ci si avvede che essa si è sviluppata, come corollario della famosa, e purtroppo ancora imperante, teoria della « tripartizione », nell’ambito delle concezioni naturalistiche imperanti alla fine del secolo scorso. Essa, piuttosto che scaturire da un’intima esigenza del diritto penale, è dovuta alla violenta sovrapposizione di schemi naturalistici a una materia che ne è insofferente; ed ha avuto effetti così gravi e duraturi solo perché, a differenza che per le altre discipline giuridiche, era mancata nei secoli precedenti una elaborazione scientifica della tipicità penale (35). Si può, a questo punto, concludere. I testi di legge penale, e soprattutto quelli dove si incontra la descrizione di condotte finalisticamente significative, devono essere interpretati in modo da non trascurare che tipico rispetto ad essi non può essere un mero accadere materiale. In diritto penale, tipicità è sempre corrispondenza tra il significato della norma e il significato dell’accadere; e, quando l’accadere è una condotta umana, il suo significato dipende dal contenuto del volere. Non rimane spazio per un dolus in re ipsa. ANTONIO PAGLIARO
(35)
PAGLIARO, Il fatto, cit., p. 448 ss.
IL GIUDIZIO ABBREVIATO (*)
SOMMARIO: 1. L’instaurazione del giudizio abbreviato. — 2. Problemi di legittimità costituzionale in tema di giudizio abbreviato antecedenti la riforma apportata dalla l. n. 479/1999. — 3. La necessità di una riforma del giudizio abbreviato: le modifiche apportate dalla l. n. 479/1999. — 4. Il diritto all’integrazione probatoria. — 5. Problemi di legittimità costituzionale prospettabili anche dopo la riforma della l. n. 479/1999. — 6. Incongruenze legislative.
1. L’instaurazione del giudizio abbreviato si attuava nella normativa antecedente alle modifiche apportate dalla l. n. 479/1999 mediante due diverse sequenze processuali a seconda che la richiesta dell’imputato si verificasse prima dell’udienza preliminare ovvero nel corso di tale udienza. Nel primo caso l’imputato depositava la sua richiesta con il consenso del pubblico ministero in cancelleria almeno cinque giorni prima dell’udienza ed il giudice, se riteneva che il processo potesse essere definito allo stato degli atti, disponeva senz’altro il giudizio abbreviato. L’ordinanza di accoglimento (o di rigetto se il giudice riteneva di non poter formulare il predetto giudizio) era depositata in cancelleria almeno tre giorni prima dell’udienza. Nel secondo caso la richiesta di giudizio abbreviato ed il relativo consenso del pubblico ministero erano presentati nel corso dell’udienza preliminare sino a quando non fossero formulate le conclusioni previste dall’art. 421 comma 3o c.p.p. (quelle effettuate nel corso della discussione successiva agli accertamenti relativi alla costituzione delle parti) oppure le conclusioni previste dall’art. 422 comma 7o c.p.p. nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla l. n. 479/1999 (quelle effettuate nel corso della discussione successiva all’assunzione delle prove ammesse ex art. 422 comma 2o c.p.p. vecchio testo). La situazione in seguito alla l. n. 479/1999 è completamente cambiata a causa dell’abrogazione degli artt. 439 e 440 c.p.p. e delle modifiche apportate agli artt. 438 e 441 c.p.p. La richiesta di giudizio abbreviato può essere formulata dall’imputato soltanto nel corso dell’udienza preliminare, oralmente o per iscritto (personalmente o per mezzo di procuratore speciale), fino a che non siano formulate le conclusioni a’ sensi dell’art. 421 comma 3o c.p.p. (al termine (*)
Questo studio è dedicato alla memoria di GIAN DOMENICO PISAPIA.
— 450 — della discussione successiva agli accertamenti relativi alla costituzione delle parti) oppure ai sensi dell’art. 422 comma 3o c.p.p. nuovo testo successivamente all’attività di integrazione probatoria disposta dal giudice. Sulla richiesta il giudice deve provvedere con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato, la cui instaurazione non dipende più dal fatto che il processo possa essere definito allo stato degli atti. In altri termini, la semplice richiesta di giudizio abbreviato da parte dell’imputato comporta l’obbligatoria adozione di questo rito speciale. Peraltro, l’imputato può subordinare ex art. 438 comma 5o c.p.p. la richiesta di giudizio abbreviato ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione ed il giudice, in tal caso, non ha più l’obbligo di disporre il giudizio abbreviato in quanto il rito speciale è adottato soltanto quando il giudice valuti l’integrazione probatoria effettivamente necessaria ai fini della decisione nonché compatibile con le finalità di economia processuale proprie del giudizio abbreviato. Il giudizio abbreviato si svolge allo stato degli atti non essendo consentita dall’art. 441 c.p.p. l’applicazione dell’art. 422, c.p.p., che prevede un’attività di integrazione probatoria del giudice. Peraltro, tale esclusione non impedisce sempre che, nel giudizio abbreviato, si possa tener conto di elementi di prova assunti nell’udienza preliminare ex art. 422 c.p.p. Infatti, se la richiesta di giudizio abbreviato venga effettuata successivamente alle acquisizioni probatorie previste dall’art. 422 c.p.p. (vale a dire nel corso della discussione ex art. 422 comma 3o ultima parte successiva a dette acquisizioni), delle acquisizioni probatorie è dato tener conto per la decisione che chiude il giudizio abbreviato. Gli elementi di prova assunti ex art. 422 c.p.p. in quanto tali non valgono per il dibattimento ma valgono per tutte le decisioni emanate nell’udienza preliminare, tra cui quella del giudizio abbreviato (art. 442 comma 1-bis c.p.p.). Nel giudizio abbreviato non si applica neppure l’art. 423 c.p.p. che consente la modifica dell’imputazione nel corso dell’udienza preliminare (art. 441 comma lo c.p.p.). Posto che la richiesta di giudizio abbreviato non condizionata ad una integrazione probatoria rende obbligatoria l’adozione del rito in questione, quid iuris allorquando il giudice ritenga di non essere in condizioni di decidere sulla base degli atti? Il problema è risolto dall’art. 441 comma 5o c.p.p., il quale dispone che, in tal caso, il giudice ‘‘assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione’’ e ‘‘resta salva... l’applicabilità dell’art. 423’’ (vale a dire è consentita la modifica dell’imputazione). Emerge, quindi, una discrasia se si pongono a raffronto il comma 5o dell’art. 438 c.p.p. ed il comma 5o dell’art. 441 c.p.p. Infatti, l’integrazione probatoria, a cui l’imputato subordina la richiesta di giudizio abbreviato, verrà effettuata soltanto se il giudice la valuti (oltre che necessaria ai fini della decisione) compatibile con le finalità di economia processuale
— 451 — tipiche del giudizio abbreviato mentre l’integrazione probatoria disposta a’ sensi del comma 5o dell’art. 441 c.p.p. dovrà essere ordinata ancorché palesemente contrastante con le finalità di economia sopra indicate. Certamente il giudizio abbreviato comporta una metamorfosi dell’udienza preliminare, la quale da udienza ‘‘filtro’’, destinata ad accertare se sia o no necessario il dibattimento, diventa un’udienza in cui si accerta la responsabilità o no dell’imputato. Pertanto, ex art. 442 c.p.p., terminata la discussione, il giudice provvede a norma degli artt. 529 e s. c.p.p. pronunciando sentenza di proscioglimento o di condanna, ma in caso di condanna la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita di un terzo. La l. n. 479/1999 ha modificato il comma 2 dell’art. 442 c.p.p. aggiungendo il periodo: ‘‘alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta’’. Tale disposizione già esisteva nella versione originaria dell’art. 442 comma 2o c.p.p. ma era stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza 176 del 23 aprile 1991 per eccesso di delega. 2. Il giudizio abbreviato ha determinato e può determinare dubbi di legittimità costituzionale. La normativa originaria in tema di giudizio abbreviato poneva dubbi di legittimità costituzionale conseguenti al fatto che il pubblico ministero poteva dare oppure no il suo consenso esercitando non un potere discrezionale ma una vera e propria facoltà. Il legislatore non aveva indicato nessun parametro, neppure vago, a cui il pubblico ministero dovesse ispirarsi allorquando decideva se acconsentire oppure no alla richiesta dell’imputato. Ne seguiva, in primo luogo, che il pubblico ministero non era tenuto a motivare il dissenso ed, in secondo luogo, che tale dissenso non era in alcun modo sindacabile: sotto questo profilo la differenza rispetto al patteggiamento sulla pena appariva notevole, posto che, nel caso di patteggiamento, il pubblico ministero doveva e deve enunciare le ragioni del dissenso e tali ragioni erano e sono sindacabili dal giudice, il quale se le ritiene ingiustificate e, nel contempo, ritiene congrua la pena proposta dall’imputato pronuncia sentenza applicando la pena richiesta. Nell’ipotesi in cui il pubblico ministero prestasse il proprio consenso alla celebrazione del giudizio abbreviato, il giudice dell’udienza preliminare poteva, poi, negare l’instaurazione del rito alternativo (e la conseguente riduzione di pena prevista dall’art. 442 comma 2o c.p.p.) sulla base di un giudizio di non decidibilità allo stato degli atti che era anch’esso largamente discrezionale e non sindacabile. Si è osservato nella relazione al progetto preliminare del codice che ‘‘l’innovazione del giudizio abbreviato crea una commistione tra decisioni processuali e trattamento sanzionatorio dell’imputato responsabile e questa commistione, per il nostro ordinamento, ha caratteri di assoluta origi-
— 452 — nalità’’. L’osservazione è esatta ma il fatto che il trattamento sanzionatorio dipendesse da una decisione del tutto discrezionale ed insindacabile del pubblico ministero e del giudice dell’udienza preliminare creava e non poteva non creare problemi di legittimità costituzionale. Infatti, sul punto era intervenuta la Corte costituzionale prima con la sentenza 15 febbraio 1991 n. 81 e poi con la sentenza 31 gennaio 1992 n. 23. La pronunzia Corte cost. 81/1991 aveva dichiarato illegittimi gli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p. nel loro combinato disposto, nonché gli artt. 458 commi 1o e 2o e 464 comma 1o c.p.p., nella parte in cui non prevedevano che il pubblico ministero, in caso di dissenso dalla richiesta di giudizio abbreviato, fosse tenuto ad enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevedevano che il giudice - ritenendo, a dibattimento concluso, ingiustificato tale dissenso - potesse applicare all’imputato la riduzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p. La pronunzia Corte cost. 23/1992 aveva, invece, dichiarato illegittimi gli stessi articoli di legge nella parte in cui non prevedevano che il giudice, all’esito del dibattimento, potesse ritenere errata la valutazione di non decidibilità allo stato degli atti formulata dal giudice dell’udienza preliminare ed applicare, di conseguenza, la riduzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p. Le sentenze sopra citate di parziale declaratoria di illegittimità costituzionale non avevano risolto tutti i problemi prospettabili, in tema di giudizio abbreviato, con riferimento all’art. 3 Cost. È pur vero che, nel motivare il suo dissenso, il pubblico ministero doveva giustificarlo (così come avveniva per il giudice della udienza preliminare) in base alla impossibilità di decidere allo stato degli atti ma è altrettanto vero che tale impossibilità poteva dipendere dal fatto che il pubblico ministero aveva effettuato indagini preliminari incomplete. Se più persone avevano assistito al fatto oggetto di imputazione ed il pubblico ministero aveva sentito soltanto alcune di esse, l’impossibilità di definire il processo allo stato degli atti per la necessità di sentire le altre era stata indubbiamente determinata dal pubblico ministero, il cui comportamento aveva causato l’impossibilità di decidere allo stato degli atti e conseguentemente l’impossibilità di usufruire del rito abbreviato e, pertanto, in caso di condanna, della riduzione di pena. Il che sembrava contrastare sia con il principio di eguaglianza enunciato nell’art. 3 Cost. sia con il principio di legalità sancito dall’art. 25 comma 2o Cost. La Corte costituzionale con la sentenza 92/1992 aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 439, 440 c.p.p. sollevata con riferimento agli artt. 3 e 25 comma 2o Cost., nella parte in cui non prevedevano che, qualora il dissenso del pubblico ministero all’introduzione del giudizio abbreviato fosse motivato con l’impossibilità di definire il processo allo stato degli atti, il giudice dell’udienza preliminare, che ritenesse l’lmpossibilità addotta dipendente da
— 453 — fatto rimediabile dallo stesso pubblico ministero, potesse indicare alle parti (sulla falsariga del meccanismo di integrazione probatoria previsto dal vecchio testo dell’art. 422 c.p.p.) i temi lasciati incompleti, sui quali si rendeva necessario ‘‘acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione in ordine alla possibilità di definire il processo allo stato degli atti’’. La problematica sottesa alla questione, secondo la Corte costituzionale, non poteva risolversi in una pronunzia additiva ma richiedeva necessariamente un intervento legislativo. In altri termini, la Corte costituzionale non aveva negato la fondatezza delle eccezioni proposte ma aveva ritenuto di non poterle accogliere posto che la c.d. sentenza additiva, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, è consentita ‘‘soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad un’estensione logicamente necessitata ed implicita nella possibilità del contesto normativo in cui è inserita la disposizione impugnata. Quando, invece, si profili una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni, l’intervento della Corte non è ammissibile, spettando la relativa scelta unicamente al legislatore’’ (v. sentenze 109/1986, 33, 37, 39/1986, 350/1985). L’impossibilità di emanare la sentenza additiva non permetteva, quindi, di superare il problema di legittimità costituzionale, la cui fondatezza appariva indubbia dal momento che, secondo quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale, ‘‘la possibilità per il pubblico ministero di decidere quali e quante indagini esperire al fine di richiedere il rinvio a giudizio’’ comportava ‘‘rispetto al giudizio abbreviato, l’inaccettabile paradosso per cui il pubblico ministero’’ poteva ‘‘legittimamente precluderne l’instaurazione allegando lacune probatorie da lui stesso discrezionalmente determinate’’. Si rendeva, perciò, necessario, ‘‘al fine di ricondurre l’istituto a piena sintonia con i principi costituzionali, che il vincolo derivante dalle scelte del pubblico ministero’’ fosse reso superabile ‘‘con l’introduzione di un meccanismo di integrazione probatoria’’ che, consentendo di colmare le lacune delle indagini preliminari incomplete, avrebbe permesso di formulare un giudizio di decidibilità allo stato degli atti reso impossibile da un comportamento dello stesso pubblico ministero. Su questo argomento la Corte costituzionale era tornata con la sentenza n. 442 del 23 dicembre 1994, che aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 452 comma 2o c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 25 comma 2o Cost., nonché la questione di legittimità costituzionale, sempre in relazione agli artt. 3 e 25 comma 2o Cost., degli artt. 452 comma 2o c.p.p. e 247 comma 2o disp. att. La Corte aveva ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale per la parte in cui le disposizioni sopra indicate subordinavano la trasformazione del giu-
— 454 — dizio direttissimo in giudizio abbreviato al consenso del pubblico ministero, il quale con le sue discrezionali scelte investigative appariva ‘‘arbitro di determinare la decidibilità del processo allo stato degli atti e quindi di precostituire la condizione per negare il consenso alla trasformazione del rito’’. Il giudizio di inammissibilità era ribadito dalla Corte costituzionale a causa della pluralità delle scelte idonee a risolvere il problema di legittimità costituzionale, scelte, asseriva la Corte, riservate al legislatore. La sentenza in questione si chiudeva, peraltro, con una ‘‘minaccia’’ in quanto veniva testualmente asserito: ‘‘corre, tuttavia, l’obbligo di precisare che avendo la Corte già sollecitato il legislatore ad intervenire... i giudici costituzionali sottolineano come, perdurando lo stato di inerzia, non potranno esimersi — ove siano investiti da ulteriori questioni di costituzionalità riguardanti lo specifico tema — dall’adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la più volte constatata distonia con i principi costituzionali’’. Tali sentenze sottolineavano inequivocabilmente un potere del pubblico ministero relativo alla prosecuzione dell’azione penale (nel senso che il pubblico ministero poteva precludere il rito abbreviato) e conseguentemente un potere sul quantum di pena da infliggere che era in palese contrasto con il principio di legalità e di eguaglianza (art. 25 comma 2o e art. 3 Cost.) e cioè con i principi posti a fondamento della obbligatorietà dell’azione penale. 3. I palesi vizi di legittimità costituzionale sopra prospettati rendevano necessaria una riforma del giudizio abbreviato prevedendo, come espressamente richiesto dalla Corte costituzionale, un meccanismo di integrazione probatoria. Nel contempo, in previsione di una riforma di tale rito speciale, si discuteva se fosse opportuno oppure no mantenere la necessità di un consenso del pubblico ministero giustificato dalla decidibilità allo stato degli atti. In senso negativo si sosteneva (ed è praticamente la via seguita dalla l. n. 479/1999) che la scelta del giudizio abbreviato doveva dipendere unicamente dalla richiesta dell’imputato. A tale tesi avevamo obiettato che una normativa siffatta avrebbe potuto distorcere il significato e la funzione delle indagini preliminari in quanto il pubblico ministero, sapendo che una semplice richiesta di giudizio abbreviato trasformerebbe l’udienza preliminare in un’udienza in cui si deve accertare la responsabilità o l’innocenza dell’imputato, effettuerebbe le indagini preliminari (idonee a funzionare come prova nel caso di giudizio abbreviato) non soltanto più per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale ma in modo da fornire al giudice dell’udienza preliminare (che su scelta dell’imputato potrebbe sempre divenire giudice della responsabilità dell’imputato stesso) elementi probatori idonei a giustificare una affermazione di responsabilità.
— 455 — L’eccezionalità del valore probatorio delle indagini preliminari ne sarebbe risultata gravemente compromessa. Per non parlare, poi, del fatto che in tal modo si sarebbe sempre assicurata all’imputato colpevole una riduzione del terzo della pena senza che il titolare dell’azione penale potesse al riguardo interloquire. Un’ulteriore proposta di riforma del giudizio abbreviato era quella secondo cui in sede di udienza preliminare il giudizio abbreviato doveva trovare attuazione senza necessità di una richiesta dell’imputato, di un consenso del pubblico ministero alla richiesta stessa e di una valutazione del giudice dell’udienza preliminare diretta ad accertare la decidibilità allo stato degli atti. Il passaggio alla fase dibattimentale, in quest’ordine di idee, doveva verificarsi unicamente quando veniva espressamente richiesto dall’imputato: in caso contrario si sarebbe sempre fatto il giudizio abbreviato. Le eventuali lacune delle indagini preliminari, per i sostenitori di questa proposta, avrebbero dovuto essere colmate conferendo al giudice dell’udienza preliminare che effettuasse il giudizio abbreviato (a causa della mancata richiesta della fase dibattimentale da parte dell’imputato), il potere d’ufficio o su istanza di parte di disporre l’assunzione di elementi di prova. Questa proposta si prestava ad una duplice critica. In primo luogo poteva osservarsi che il passaggio alla fase dibattimentale sarebbe stato penalizzato in caso di condanna in quanto si sarebbe inevitabilmente tenuto conto sotto il profilo del comportamento processuale e, quindi, ai fini della quantizzazione della pena ex art. 133 c.p., del fatto che l’imputato abbia voluto un’istruzione dibattimentale che non gli ha giovato pur potendo usufruire davanti al giudice del giudizio abbreviato di una integrazione probatoria: valutazione negativa del tutto anomala in un processo che vorrebbe essere accusatorio e nel quale, pertanto, l’attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova dovrebbe essere la regola e non l’eccezione. Siffatta obiezione era superabile sulla base del rilievo che i giudici non dovrebbero in virtù di una corretta interpretazione dell’art. 133 c.p. valutare negativamente una richiesta (quella del dibattimento) diretta a dare attuazione ad un aspetto fondamentale del diritto alla prova e, cioè, il contraddittorio nel momento di formazione della prova nonché sulla base del rilievo che una realistica attuazione di detto contraddittorio presuppone un numero molto ridotto di dibattimenti. La vera critica alla proposta sopra formulata era integrata dall’osservazione che se l’imputato, chiedendo la fase dibattimentale, perde in caso di condanna la riduzione di un terzo della pena in concreto inflitta e rischia una valutazione negativa del suo comportamento processuale, il passaggio alla fase dibattimentale dovrebbe garantirgli una effettiva ed amplissima attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Orbene, se, come affermavano i sostenitori della proposta predetta,
— 456 — tutte le numerosissime eccezioni al contraddittorio nel momento di formazione della prova dovevano continuare a sussistere anche in un sistema processuale penale in cui il giudizio abbreviato costituisse la regola ed il dibattimento l’eccezione, non si capisce per quale ragione l’imputato avrebbe dovuto chiedere il passaggio alla fase dibattimentale. Invero, stante il meccanismo di integrazione probatoria che, secondo la proposta di riforma in parola, doveva prevedersi per colmare le lacune delle indagini preliminari, l’unica ragione del passaggio al dibattimento sarebbe consistita e non poteva non consistere nel togliere alle indagini preliminari quel valore di prova che esse assumono nel giudizio abbreviato e nel far sì che il giudice del dibattimento giudicasse sulla base di prove assunte nel contraddittorio fra le parti. È evidente che questa finalità sarebbe frustrata se nel dibattimento, chiesto dall’imputato per evitare il giudizio abbreviato, le indagini preliminari continuassero ad avere in modo amplissimo un valore probatorio vanificando il contraddittorio predetto, la cui esigenza doveva spingere l’imputato a chiedere il passaggio alla fase dibattimentale. La riforma attuata dalla l. n. 479/1999 si è mossa nel senso indicato dalla prima delle proposte sopra enunciate. Il legislatore non richiede più il consenso del pubblico ministero né subordina l’adozione del giudizio abbreviato ad una valutazione da parte del giudice di decidibilità allo stato degli atti. Come già si è ricordato, se l’imputato richiede incondizionatamente il giudizio abbreviato, il giudice dell’udienza preliminare ha il dovere di disporlo anche se ritenga il processo non decidibile allo stato degli atti. In tal caso, avrà il dovere, previsto dall’art. 445 comma 5o c.p.p., di ordinare, anche d’ufficio, l’assunzione degli elementi di prova necessari alla decisione. La reiezione della richiesta di giudizio abbreviato è consentita soltanto se sia lo stesso imputato a renderla possibile condizionando la richiesta stessa ad una integrazione probatoria ritenuta dall’imputato necessaria ai fini della decisione. In tal caso, il giudice può negare l’adozione del rito ove valuti non necessaria detta integrazione oppure, allorquando concordi sulla valutazione della necessità, ove ritenga detta richiesta non compatibile con le finalità di economia processuale proprie di questo rito speciale (art. 438 comma 5o c.p.p.). Il meccanismo di integrazione probatoria è duplice in quanto il giudice dell’udienza preliminare può colmare le lacune delle indagini preliminari con l’ordinanza di integrazione delle indagini stesse ex art. 421-bis c.p.p. oppure disponendo l’assunzione anche d’ufficio ‘‘delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere’’ (art. 422 comma 1o c.p.p.). Con questa riforma il giudizio abbreviato dovrebbe avere ampia attuazione riducendo notevolmente il numero dei dibattimenti poiché l’im-
— 457 — putato che non si attenda dall’attuazione del contraddittorio in sede di assunzione della prova in dibattimento un diverso e più favorevole risultato probatorio ha interesse, una volta colmate le eventuali lacune delle indagini, a richiedere il giudizio abbreviato. Si noti, poi, che tale richiesta stante l’applicabilità dell’art. 392 c.p.p. nell’udienza preliminare potrà essere formulata dopo l’assunzione di prove effettuata in incidenti probatori e, quindi, dopo un’attuazione del contraddittorio per la prova. A ben vedere un’integrazione probatoria nell’udienza preliminare tale da giustificare una richiesta di giudizio abbreviato è stata resa possibile dalla sentenza 77/1994 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 c.p.p. nella parte in cui non consentono che, nelle situazioni delineate dall’art. 392 c.p.p., l’incidente probatorio possa essere richiesto ed eseguito nella fase dell’udienza preliminare. Il vizio di legittimità è stato ravvisato in relazione all’art. 24 comma 2o Cost. e all’art. 3 Cost. sulla base del rilievo per cui, ove sussistano le circostanze elencate nell’art. 392 c.p.p., comprovanti la non differibilità dell’assunzione della prova alla fase dibattimentale, ‘‘l’anticipata assunzione della prova’’ nel corso della udienza preliminare ‘‘si appalesa indispensabile per l’acquisizione di elementi... necessari all’accertamento dei fatti e per garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova, che sarebbe altrimenti irrimediabilmente perduta’’. La possibilità di effettuare incidenti probatori nell’udienza preliminare è stata notevolmente ampliata dalle modifiche all’art. 392 c.p.p. apportate dalla l. 7 agosto n. 267, la quale ha soppresso sia nella lettera c) sia nella lettera d) dell’art, 392 c.p.p le parole: ‘‘quando ricorre una delle circostanze prevedute dalle lettere a) e b)’’. Ciò significa che l’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri (art. 392 lett. c)) e l’esame delle persone indicate nell’art. 210 (art. 392 lett. d)) possono sempre farsi senza alcuna limitazione mentre, quando è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 392 c.p.p. con la sentenza n. 77/1994, gli esami suddetti erano subordinati all’esistenza delle circostanze eccezionali delineate nelle lettere a) e b). La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 392 c.p.p. ha operato al di là delle intenzioni della Corte, la quale, come risulta dalla motivazione, ha dichiarato l’illegittimità sul presupposto che l’impossibilità di effettuare l’incidente probatorio nell’udienza preliminare avrebbe reso impossibile l’acquisizione della prova e, quindi, sul presupposto che si trattasse di prove non rinviabili al dibattimento. Peraltro, il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale ha reso applicabili tutte le situazioni delineate dall’art. 392 c.p.p. nell’udienza preliminare e, quindi, il testo modificato trova integrale attuazione nella predetta udienza.
— 458 — 4. L’imputato che voglia richiedere il giudizio abbreviato successivamente ad una integrazione degli elementi di prova assunti nelle indagini preliminari al fine di ottenere tale integrazione può o richiedere incidenti probatori ove sussistano le situazioni indicate nell’art. 392 c.p.p., oppure fare istanza affinché il giudice della udienza preliminare applichi l’art. 421-bis c.p.p. ordinando al pubblico ministero ulteriori indagini o applichi l’art. 422 comma 1o c.p.p. disponendo l’assunzione di prove di cui appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere. Infine, l’imputato può subordinare la richiesta di giudizio abbreviato ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Peraltro, l’applicazione dell’art. 421-bis c.p.p. o l’applicazione dell’art. 422 c.p.p. sono subordinate ad una valutazione discrezionale del giudice (come espressamente detto in queste disposizioni) di non poter provvedere a’ sensi dell’art. 421 comma 4o c.p.p. e, cioè, di non potere decidere allo stato degli atti così come, nel caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionata ad una integrazione probatoria, l’accoglimento della richiesta è subordinato ad una valutazione discrezionale di necessità della prova e di compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del giudizio abbreviato. Ne segue che se dalle indagini preliminari il processo appaia decidibile allo stato degli atti l’istanza di applicazione dell’art. 421-bis o dell’art. 422 comma 1o c.p.p. non potrà essere accolta. Analogamente non potrà essere accolta la richiesta di giudizio abbreviato se sulla base degli atti di indagini preliminari l’integrazione probatoria non appaia necessaria ai fini della decisione. Il diritto all’ammissione della prova a difesa emersa successivamente alla chiusura delle indagini preliminari e previsto dalla direttiva n. 69 della legge delega non sembrerebbe garantito neppure alla stregua delle modifiche introdotte dalla l. n. 479/1999. Ci si pone il problema se tale diritto sia ricollegabile alla discussione, vale a dire se possa sostenersi che la discussione può servire a dimostrare l’esistenza del diritto stesso convincendo il giudice a non provvedere allo stato degli atti per poi provvedere all’integrazione probatoria a’ sensi dell’art. 421-bis c.p.p. oppure ai sensi del 1o comma dell’art. 422 c.p.p. oppure convincendo il giudice che la prova alla cui assunzione si condiziona la richiesta di giudizio abbreviato è necessaria ai fini della decisione: la discussione costituirebbe, cioè, il mezzo per realizzare il diritto alla prova. A ben vedere, non ci sembra che la discussione e la possibilità di convincere, tramite la stessa, il giudice ad instaurare l’iter per l’assunzione della prova, serva a dimostrare l’attuazione del diritto in questione. Non si intende certo disconoscere il valore della prova come argomentum e di conseguenza prescindere dal momento fondamentale della persuasione posto che nel processo penale ‘‘il ’segno’ non conta come fatto fisico, ma come prova, come ragionamento, come argomentum’’ (Giuliani). Peral-
— 459 — tro, l’efficacia argomentativa non può prescindere dal ‘‘segno’’, dal fatto fisico. Di conseguenza, la discussione è idonea, in alcuni casi, a dimostrare l’insufficienza degli elementi d’accusa per il rinvio a giudizio sulla base di una mera critica degli elementi probatori raccolti dal pubblico ministero e, in tal caso, dall’efficacia argomentativa emerge il diritto alla ammissione di altre prove. Senonché l’efficacia argomentativa a nulla serve se gli elementi probatori acquisiti nelle indagini preliminari siano idonei a giustificare il rinvio a giudizio e l’argomentum si basi unicamente sui ‘‘segni’’ non acquisiti agli atti e di cui si chiede l’assunzione. Si faccia l’ipotesi di indagini preliminari che appaiano complete ed idonee a giustificare il rinvio a giudizio e nel contempo di una discussione nel corso della quale il difensore dell’imputato segnali di essere venuto a conoscenza di nuovi elementi probatori mai acquisiti in precedenza (ad esempio di dichiarazioni di persone informate dei fatti integranti una inconfutabile prova d’alibi). La discussione, in tal caso, non serve come ragionamento ma come segnalazione al giudice dell’udienza preliminare dell’esistenza di elementi probatori non acquisiti idonei a completare le indagini preliminari ed idonei a modificare la valutazione di necessità del rinvio a giudizio. Può bastare tale segnalazione, non confortata dagli atti processuali, a concretare un diritto alla prova nel senso che il giudice dovrebbe, in virtù della segnalazione stessa, ritenere di non poter decidere allo stato degli atti (nonostante che, a ben vedere, dagli atti stessi emerga il contrario) al fine di rendere possibile l’acquisizione della prova? Vale a dire, se le informazioni testimoniali assunte dal pubblico ministero nelle indagini preliminari dimostrino inconfutabilmente la necessità del rinvio a giudizio ma il difensore ritenga che altre persone da lui indicate potrebbero inficiare il risultato probatorio acquisito, può bastare la semplice dichiarazione del difensore in ordine all’esistenza di tali testi a concretare il diritto alla prova? Una risposta positiva appare non realistica poiché ben difficilmente un giudice deciderà di non poter provvedere allo stato degli atti (che consentirebbero l’emanazione di un decreto di rinvio a giudizio) disponendo nel contempo una integrazione probatoria ex art. 421-bis c.p.p. oppure ex art. 422 comma 1o c.p.p. soltanto perché si è sostenuta, senza documentarla, l’esistenza di elementi probatori a difesa. D’altro lato, una risposta negativa e cioè l’impossibilità di far acquisire elementi probatori addotti dalla difesa porterebbe a ritenere che il diritto alla prova non ha trovato attuazione nell’udienza preliminare. Infatti, il diritto alla prova non esiste se non è garantito alle parti il diritto di far ammettere ed assumere le prove ed il contraddittorio non trova piena attuazione se non riguarda anche l’accertamento probatorio dei fatti (il che comporta e non può non comportare la possibilità di contrastare le prove dell’accusa mediante l’ammissione e l’acquisizione di prove a difesa).
— 460 — La soluzione esatta sembra essere quella intermedia. Non è sufficiente, cioè, la semplice enunciazione degli elementi probatori a difesa, essendo necessario che risulti da ‘‘atti e documenti’’ l’esistenza degli elementi stessi: atti e documenti di cui è prevista l’ammissione prima della discussione ex art. 421 comma 3o c.p.p. In tal caso, il giudice dovrà completare la prova garantendo così il diritto alla stessa e l’attuazione del contraddittorio. L’attuazione del diritto alla prova, cioè, dipende dal fatto che gli atti del processo documentino la possibilità di acquisire elementi probatori a difesa. A questo punto sorge il quesito di quale sia la nozione di documento ed in particolare se in esso possano farsi rientrare le dichiarazioni scritte delle persone informate. A prescindere dal problema relativo all’ammissibilità dell’affidavit, va rilevato come nella nozione di documento di cui all’art 421 comma 3o c.p.p. non possano ricomprendersi anche le dichiarazioni delle persone informate. In tema di documenti è necessario distinguere tra documenti costituenti di per sé prova e documenti costituenti rappresentazione di prova. La produzione dei primi è consentita mentre parrebbe vietata quella dei secondi che, ove fosse possibile, vanificherebbe il contraddittorio nel momento di formazione della prova. Di conseguenza, riteniamo che tra i documenti di cui all’art. 421 comma 3o c.p.p. non possano ricomprendersi quelli rappresentativi di enunciati descrittivi nel senso che, nell’ipotesi di un documento rappresentativo di un enunciato descrittivo, l’acquisizione è consentita soltanto se la dichiarazione ha rilevanza come fatto e non come rappresentazione di un fatto posto che il documento non può sostituirsi alla testimonianza. Il diritto alla prova nell’udienza preliminare consente, quindi, la produzione di documenti da cui emerga che esistono elementi probatori a difesa. Per quanto concerne la dichiarazione di persone informate, il documento non deve contenere e, comunque, non può avere valore probatorio in ordine ai fatti che la dichiarazione rappresenta ma solo avere valore come prova che esistono dichiarazioni testimoniali, che potrebbero venire utilmente acquisite. In questa situazione il giudice dovrà ritenere che ‘‘lo stato degli atti’’ non gli consente di procedere e dovrà conseguentemente provvedere all’integrazione probatoria ai sensi dell’art. 421-bis c.p.p. oppure ai sensi dell’art. 422 comma 1o c.p.p. Questa soluzione ha il pregio di consentire un’attuazione del diritto alla prova e, quindi, del contraddittorio nell’udienza preliminare anche se bisogna riconoscere che non appare più attuale l’affermazione sopra riferita ed enunciata nella relazione al progetto preliminare del codice (p. 226) secondo cui l’udienza preliminare è stata ‘‘modellata come procedimento allo stato degli atti, cui può far seguito, eventualmente, un regime eccezionale imperniato su limitate acquisizioni probatorie caratterizzate da una efficacia interna alla fase’’. Non può più definirsi eccezionale il re-
— 461 — gime di acquisizione della prova (posto che non appaiono più limitate le acquisizioni probatorie in quanto il giudice dell’udienza preliminare può ex art. 421-bis c.p.p. indicare al pubblico ministero qualunque ulteriore indagine ed, inoltre, può ex art. 422 comma 1o c.p.p. disporre l’assunzione immediata di qualunque elemento di prova che ritenga decisivo ai fini della sentenza di non luogo a procedere) e non è neppure più esatto che le acquisizioni probatorie siano caratterizzate da una efficacia interna alla fase dal momento che, come si è chiarito, oggi è ampiamente consentito l’incidente probatorio nell’udienza preliminare e la prova assunta nell’incidente probatorio esercita la sua efficacia anche in sede dibattimentale. 5. Il giudizio abbreviato continua a suscitare dubbi di legittimità costituizionale. A) In primo luogo va rilevato che, se non vi siano stati nel corso delle indagini preliminari e nel corso della udienza preliminare degli incidenti probatori sembrerebbe consentito giungere ad una affermazione di responsabilità senza assunzione di prove vere e proprie, il che potrebbe far sorgere un dubbio di legittimità costituzionale in relazione all’art. 27 comma 2o Cost., per cui l’imputato deve essere considerato innocente sino a quando una sentenza definitiva consacri un accertamento probatorio della sua responsabilità e in relazione all’art. 111 comma 4o Cost. là ove stabilisce che ‘‘il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova ‘‘. In altri termini, nel caso di condanna emanata nel giudizio abbreviato potrebbe ravvisarsi, in conseguenza della carenza di vere prove (ove non vi siano stati incidenti probatori), la mancanza del contraddittorio nella formazione della prova e, conseguentemente, la mancanza di un accertamento di responsabilità e, pertanto, una violazione dell’art. 111 comma 4o Cost. nonché dell’art. 27 comma 2o Cost. Siffatto dubbio è palesemente infondato posto che nel giudizio abbreviato il giudice provvede a norma degli artt. 529 e s. c.p.p., così come esplicitamente dispone l’art. 442 comma 1o c.p.p. Ciò significa che il giudice deve pronunciare, se del caso, la sentenza di assoluzione di cui all’art. 530 c.p.p., il che non può non comportare una valutazione come prova delle indagini preliminari. Inoltre, l’art. 546 lettera e) c.p.p., nel porre tra i requisiti della sentenza ‘‘l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa’’, non può non valere anche per la condanna emanata nel giudizio abbreviato con conseguente attribuzione di valore probatorio alle indagini preliminari. Quanto sopra dimostra che la richiesta di giudizio abbreviato comporta una rinunzia al dibattimento e, quindi, al contraddittorio nel momento di formazione della prova, rinunzia che, come emerge dal dato normativo, che impone l’applicazione degli artt. 529 e s. c.p.p., attribuisce dignità di prova alle indagini preliminari. Né tale rinunzia determina un
— 462 — dubbio di legittimità costituzionale posto che non riguarda l’esercizio del diritto di difesa nel suo complesso ma unicamente il contraddittorio nel momento dl formazione della prova, a cui l’imputato ritiene di poter rinunciare valutando per lui irrilevante l’istruzione dibattimentale e riconoscendo così implicitamente dignità di prova alle indagini preliminari effettuate: il che è esplicitamente riconosciuto dall’art. 111 comma 5o Cost. là ove stabilisce che ‘‘la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato’’. B) Un ulteriore problema di legittimità costituzionale prospettabile riguarda la compatibilità della normativa sul giudizio abbreviato con il principio di legalità sancito dall’art. 25 comma 2o Cost. Infatti, l’imputato potrà ottenere oppure no la riduzione obbligatoria della pena così come determinata in concreto a seconda che effettui o no la richiesta di giudizio abbreviato. Nell’ipotesi, poi, di richiesta di giudizio abbreviato condizionata ad una integrazione probatoria a parità di condizioni (stesso tipo di reato e identica capacità a delinquere ex art. 133 c.p. nonché identico comportamento processuale concretatosi nella richiesta di giudizio abbreviato condizionata) l’imputato potrà ottenere oppure no l’adozione del rito abbreviato a seconda che il giudice, sulla base di una valutazione inevitabilmente discrezionale, giudichi oppure no l’integrazione predetta necessaria nonché compatibile con le finalità di economia processuale del rito abbreviato. Pertanto, non può dirsi quale pena può essere comminata per un determinato reato posto che la riduzione di un terzo o la sostituzione della pena dell’ergastolo con la reclusione ad anni trenta dipende dalla richiesta oppure no del giudizio abbreviato e, se si tratti di richiesta condizionata, dipende, altresì, da un giudizio discrezionale del giudice, che comporta il realizzarsi o no della condizione. Si tratta di vedere se il dubbio di legittimità costituzionale sia o no superabile alla stregua della ratio di garanzia sottesa all’art. 25 comma 2o Cost., dal momento che l’incertezza sul quantum di pena è sempre a favore dell’imputato. In altri termini, la mancata richiesta di giudizio abbreviato o nel caso di richiesta condizionata il mancato verificarsi della condizione non può mai rendere applicabile una pena più grave di quella prevista dal codice ma solo precludere una riduzione di pena. Orbene, la dottrina penalistica, nel precisare che l’art. 25 comma 2o Cost. fissa il principio della riserva assoluta di legge, il principio della tassatività della legge penale ed il principio della irretroattività della legge penale, osserva come questi princìpi abbiano ‘‘un denominatore comune rappresentato dalla garanzia del cittadino di fronte agli arbitrii normativi dell’esecutivo, delle interpretazioni del potere giudiziario e dell’applicazione retroattiva delle leggi’’ soggiungendo, altresì, che ‘‘se questa ratio comune viene comunque salvaguardata, il principio può subire temperamenti a scapito dell’esigenza specifica che lo sorregge’’. Peraltro, si precisa, in tanto potrà rite-
— 463 — nersi rispettata la ratio predetta in quanto l’esigenza di garanzia rimanga salva non per il singolo ma per ‘‘la generalità dei cittadini che entrano in rapporto con il potere punitivo’’ (Bricola) o che, a nostro avviso, possono entrare in rapporto. Di conseguenza, alla stregua di questi rilievi, l’indeterminatezza della fattispecie idonea a provocare la riduzione di un terzo della pena o la sostituzione della pena di trenta anni di reclusione all’ergastolo non sembra conforme alla obbiettiva esigenza di garanzia sopra indicata. C) Un problema di legittimità costituzionale si poneva e si pone, altresì, in rapporto all’art. 25 comma 1o Cost. Invero, nell’ipotesi di un reato di competenza del tribunale in composizione collegiale o di competenza della corte d’assise, l’imputato sarà giudicato da un giudice monocratico (il giudice dell’udienza preliminare) o da un giudice collegiale a seconda che abbia richiesto o no un giudizio abbreviato e nel caso di richiesta condizionata a seconda che il giudizio discrezionale del giudice abbia reso possibile o no il realizzarsi della condizione. La predeterminazione del giudice non è più certa in quanto alla competenza originaria può sostituirsi una competenza in deroga come conseguenza di una richiesta dell’imputato e, nel caso di richiesta condizionata, come conseguenza, altresì, di una valutazione discrezionale ed insindacabile del giudice. In dottrina, si è giustamente osservato che il legislatore, senza porsi in contrasto con l’art. 25 comma 1o Cost., può predeterminare degli spostamenti di competenza e che tali spostamenti possono anche conseguire ad un fatto aggiuntivo accertato nel corso del processo (Nobili): situazione che sembrerebbe ravvisabile nel caso di giudizio abbreviato. Peraltro, alla stregua di quanto asserito nella sentenza 82/1971 della Corte costituzionale, il potere di spostare la competenza deve essere ‘‘condizionato a fattispecie preventivamente descritte dalla legge con delimitazioni sufficienti ad escludere un’illimitata discrezionalità’’, essendo necessaria ‘‘una descrizione della fattispecie delimitata in modo da consentire che possa valutarsi a quale situazione obbiettiva debba seguire l’attribuzione del procedimento’’. Ciò significa, si è osservato, che ‘‘si pretende una certa qualità della fattispecie, perché solamente l’esistenza di parametri ’obbiettivi’ fa sì che la scelta del giudice venga effettivamente e direttamente a dipendere, in via generale, da una norma giuridica e non da una scelta operata, in concreto, da qualsivoglia soggetto diverso dal legislatore’’. Il rito abbreviato, come fattispecie derogatoria della competenza originaria, non sembra rispondere a questi criteri poiché la fattispecie attributiva della nuova competenza consiste in una dichiarazione di volontà di una parte processuale che, nel caso di richiesta subordinata ad integrazione probatoria, deve essere completata da una valutazione discrezionale ed insindacabile del giudice.
— 464 — Si tratta di vedere se pure qui il dubbio di legittimità costituzionale possa superarsi alla stregua della ratio di garanzia dell’art. 25 comma 1o Cost. Il principio del giudice naturale sembrerebbe posto a garanzia del singolo (per evitare che questi possa essere giudicato da un giudice appositamente costituito) e, quindi, potrebbe dirsi che la garanzia è rispettata allorquando la fattispecie attributiva della nuova competenza risulti integrata in conseguenza di una dichiarazione di volontà dell’imputato. Senonché, a prescindere dal problema della disponibilità del diritto sancito a tutela del cittadino, il giudice naturale è nato ‘‘come un pilastro portante di un sistema basato sulla contemporanea tutela di valori relativi al singolo cittadino ed all’organizzazione giudiziaria’’ e, quindi, giustamente si osserva come la precostituzione del giudice ‘‘può, al tempo stesso, assicurare le parti dall’arbitrio e la magistratura da violazioni concrete della propria indipendenza interna’’ (Nobili). Orbene, la scelta del rito abbreviato, oltre ad eliminare la pubblicità del dibattimento e il contraddittorio per la prova, sostituisce ad un giudice collegiale (che, ove si tratti di corte d’assise, concreta la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia) un giudice monocratico. Se la ratio dell’art. 25 comma 1o Cost. non è solo di tutela del singolo, ma, altresì, di tutela di interessi dell’organizzazione giudiziaria, la volontà dell’imputato non basta a giustificare il venir meno della competenza del giudice collegiale precostituito e, quindi, il dubbio di legittimità costituzionale appare giustificato. D) Va, infine, osservato che la l. n. 479/1999 ripropone inspiegabilmente un vizio di legittimità costituzionale del tutto analogo a quello risolto con la sentenza n. 23 del 1992, la quale aveva dichiarato illegittimo l’art. 440 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice all’esito del dibattimento ritenendo che il processo fosse — su richiesta dell’imputato e con il consenso del pubblico ministero — ‘‘definibile allo stato degli atti dal giudice delle indagini preliminari’’ potesse applicare la riduzione di un terzo della pena. In altri termini, la non sindacabilità da parte del giudice del dibattimento del giudizio di non decidibilità allo stato degli atti, con cui il giudice giustificava la reiezione dell’istanza di giudizio abbreviato che aveva avuto il consenso del pubblico ministero, contrastava con gli art. 3 e 25 comma 2o Cost. Non c’è dubbio che l’art. 438 comma 5o c.p.p., che giustifica la reiezione della richiesta di integrazione probatoria allorquando il giudice ritenga non necessaria tale integrazione oppure, ancorché necessaria, non compatibile con le finalità di economia processuale del giudizio abbreviato, appare viziato di legittimità costituzionale là ove non prevede la sindacabilità del giudizio di non necessità o di non compatibilità. Un’ errata valutazione del giudice che ritenga non necessaria una prova che abbia, invece, tale connotazione o che ritenga non compatibile una prova che, in-
— 465 — vece, non contrasti minimamente con le finalità di economia processuale del rito abbreviato preclude la riduzione di un terzo della pena o l’applicazione della pena di trent’anni di reclusione in luogo dell’ergastolo senza che tale errore del giudice possa essere corretto. In situazioni assolutamente identiche si potrà avere oppure o no la riduzione di pena a seconda della valutazione del giudice e ciò in palese contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di legalità. 6. Se i meccanismi di integrazione probatoria verranno applicati dai giudici, il giudizio abbreviato diventerà il giudizio normale ed il giudizio di primo grado si svolgerà prevalentemente nell’udienza preliminare. Il numero dei dibattimenti dovrebbe notevolmente ridursi e conseguentemente l’attuazione del contraddittorio nella formazione della prova costituzionalizzato dalla modifica dell’art. 111 Cost. verrebbe ad avere una ridotta applicazione. In questa prospettiva non si giustifica il sacrificio della collegialità determinato dalla legge che ha istituito il tribunale in composizione monocratica. Non v’è dubbio che il giudice in composizione collegiale sia un miglior giudice del giudice momocratico poiché la sentenza emanata dopo una camera di consiglio, nella quale un organo giurisdizionale collegiale abbia discusso tutte le questioni di fatto e diritto e nella quale si siano confrontate opinioni discordanti, non può non essere una sentenza di maggiore affidabilità rispetto a quella emanata da un organo giurisdizionale monocratico. L’unica giustificazione del sacrificio della collegialità determinato dalle legge che ha istituito il tribunale in composizione monocratica è la necessità di una migliore efficienza dell’amministrazione della giustizia, che certamente verrebbe realizzata effettuando mediante il tribunale in composizione monocratica un maggior numero di dibattimenti. Peraltro, la minor affidabilità di sentenze pronunziate da un organo monocratico rende più difficile giustificare una riduzione dei mezzi di impugnazione, che a nostro avviso era la via da percorrere. Orbene, se la finalità della riduzione del numero dei dibattimenti, in virtù della riforma dell’udienza preliminare e del giudizio abbreviato, verrà raggiunta poiché normalmente sarà richiesto il giudizio abbreviato (ed in questa prospettiva ha operato il legislatore) non risulta più necessario il sacrificio della collegialità che, come si è detto, rende più difficile una riforma in senso riduttivo dei mezzi di impugnazione. Difficile vedere una coerenza del legislatore che sembra operare applicando in modo del tutto distorto la massima evangelica: ‘‘non sappia la mano destra quel che fa la sinistra’’. GILBERTO LOZZI
LA FABBRICA DEL GOLEM Progettualità e metodologia per la « Parte Generale » di un Codice Penale dell’Unione Europea
SOMMARIO: 0. ARGOMENTO. — I. PROLOGO. - I.1. Il diritto penale europeo: da sogno impossibile ad utopia necessaria. — II. SVOLGIMENTO. - II.1. La ‘prospettiva generale’. II.1.1. Il problema del metodo. - II.1.1.1. Ipotesi di lavoro. - II.1.1.2. Risultato intermedio. - II.1.2. Il problema dei contenuti: (a) il campo di applicazione; (b) il tipo dell’illecito; (c) lo schema della responsabilità. - II.1.2.1. Conclusione provvisoria. II.1.3. Cambio di paradigma: diritto penale « delle mani pulite » versus diritto penale « delle mani sporche ». - II.2. La ‘prospettiva speciale’. - II.2.1. La « costruzione unitaria » dalla visuale dell’ordinamento italiano. - II.2.2. « Punti di forza » e « punti deboli » nella costruzione unitaria. - II.2.2.1. Excursus: l’orientamento del sistema (italiano) nelle sue regole di diritto materiale. - II.2.3. I « punti di forza del sistema ». II.2.4. I « punti deboli » del sistema. - II.2.4.1. L’imputazione collettiva: la responsabilità penale dell’ente. - II.2.4.2. L’imputazione individuale: le forme tipiche di colpevolezza. - II.2.5. Un « punto controverso »: la responsabilità personale collettiva. — III. EPILOGO.
0.
ARGOMENTO
La mia riflessione prende spunto dall’attuale fermento per un « diritto penale europeo », che già si pensa di etichettare come movimento internazionale di codificazione penale ‘unitaria’. Di fatto, un embrione di ‘codice penale modello’ già è stato elaborato da una cerchia transnazionale di studiosi (1), ed è sul tappeto da qualche anno, oggetto di riflessione critica e di dibattito in Convegni in Italia e all’estero (2); un suo ampliato aggiornamento è stato presentato ad una (1) Il testo — nell’originale in una doppia versione, inglese e francese — è ora pubblicato anche in lingua italiana: cfr. Verso uno spazio giudiziario europeo — Corpus Juris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea (con prefazione di GRASSO), Milano, 1997. (2) Ricordo in particolare il Convegno intergermanico XXVI Tagung der Gesellschaft für Rechtsvergleichung di Graz (24/27 settembre 1997), i cui Atti sono pubblicati sulla ZStW 110 (1998), p. 415 ss.; il Seminario di Catania (26 maggio 1997), i cui Atti sono pubblicati nel volume Prospettive di un diritto penale europeo (a cura di GRASSO), Milano, 1998; il Convegno di Trento (3/4 ottobre 1997), i cui Atti sono pubblicati nel volume Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea (a cura di PICOTTI), Milano, 1999.
— 467 — élite di specialisti, un anno orsono (3); e già fervono d’altra parte — come si addice ad ogni buon Progetto con ambizioni di storica performatività — le iniziative ‘parallele’ (rectius, attingendo la stessa materia, antagonistiche) di ‘Gegen-’ e ‘Alternativ-Entwürfe’, magari ordite (sembra la nouvelle vogue del momento, nel nostro settore) da taluni degli stessi studiosi che hanno partorito il « Progetto Ufficiale » (4). Sia pure contenuta entro i limiti, e lo stile, dei ‘minima dogmatica’, la mia riflessione odierna si connette dunque, giocoforza, al vasto scibile metodologico della codificazione penale: nella prometeica visione, addirittura, dello « scrivere un codice » espressivo della koinè giuridico-penale d’Europa — quantomeno, dell’Europa dei quindici. In siffatta visione, quali siano i tempi, e i modi, di tale codificazione, qui non ci riguarda. Ci riguardano, invece, le mete e le aporie che attualmente questo obiettivo prospetta, principalmente concernenti il metodo e i contenuti della legificazione penale a livello unitario-europeo. Con riguardo all’osservatorio italiano, su cui ovviamente mi devo concentrare, il discorso può essere ordinato secondo un’elementare dicotomia, così formulata: (a) una « prospettiva generale » contenente le indicazioni di metodo comuni a tutti gli ordinamenti che intendano affrontare l’impegno della « codificazione europea », ed i — correlati — problemi fomentati dalle scelte di contenuto che tale unificazione consentano; adversum (b) una « prospettiva speciale » (rectius, ‘specifica’) relativa alla griglia di principi ed alle strutture tecnico-sistematiche, rispetto alle quali, nella prospettiva unitaria di « costruzione della parte generale del reato », il sistema italiano mostra peculiari ‘sensibilità’, o, meglio, sensibilizzazioni. Tali fattori di ‘sensibilizzazione’ valgono poi, sia ‘in negativo’ (nel senso cioè di una particolare ‘resistenza’ all’unificazione), sia ‘in positivo’ (nel senso cioè di una ‘specificità’ utile per l’unificazione, cioè meritevole di essere assimilata a livello unitario). I.
PROLOGO
Per avviare l’indagine avverto però l’esigenza di soffermarmi, in via preliminare, e sia pure per sommi capi, sulle principali tappe attraverso cui, nel nostro secolo, ha avuto origine e si è poi resa sempre più urgente la necessità di dar vita ad un codice penale europeo. (3) V. postea, nota 48. (4) Mi riferisco in particolare al documento « Euro-Delikte » — Vorschläge zur Harmonisierung des Wirtschaftsstrafrecht in der Eropäischen Union, elaborato da una Commissione presieduta da Klaus Tiedemann (cfr. Paper del Seminar, Freiburg 13/14 Oktober 1999).
— 468 — I.1.
Il diritto penale europeo: da sogno impossibile ad utopia necessaria.
Un simile obiettivo (se non addirittura quello di una « codificazione penale universale ») non è mai stato estraneo al pensiero giuridico europeo del secolo XX (5). È soltanto a partire dagli anni cinquanta, tuttavia, che quest’idea, dall’empireo dell’utopia viene, per così dire, calata sul terreno (non del tutto solido, per la verità, ma nemmeno troppo incerto) della progettualità politica. È in quegli anni che si assiste alla nascita delle Comunità europee, enti « di nuovo genere », diversi e distinti non soltanto dagli Stati, ma anche dalle organizzazioni internazionali di comune esperienza: esse risultano infatti contraddistinte dal carattere precipuo della ‘sovranazionalità’, diretta conseguenza dell’avere gli Stati membri dato vita ad un ordinamento fondato su un complesso sistema di « competenze di attribuzione ». Connotato peculiare ne è il particolare « effetto di penetrazione » di cui sono dotate le istituzioni delle Comunità europee (6), che si caratterizza per la capacità di tali organismi, non solo di regolamentare determinati settori della vita economica, ma anche di poter creare un contatto diretto ed immediato con gli individui (7). Sta di fatto, che la comparsa, sulla scena internazionale, di nuovi soggetti dalla fisionomia inedita ha inevitabilmente determinato l’insorgere di interessi non più rapportabili agli Stati (membri) in quanto tali, bensì ad una Comunità, e precisamente ad una « Comunità di diritto ». Non solo, tali interessi hanno presentato sin dagli albori dell’esperienza comunitaria quei requisiti di bisogno e di meritevolezza di pena il cui manifestarsi costituisce la condizione politico-criminale necessaria e sufficiente perché un dato interesse possa ascriversi alla categoria dei « legittimi oggetti della tutela penale » altrimenti detta dei « beni giuridici ». Così, le Comunità Europee, che sul presupposto della loro rilevanza puramente economica furono concepite sprovviste di una competenza penale, devono ora fare fronte alla ‘scoperta’ e alla correlativa evoluzione dei « beni giuridici comunitari ». Di pari passo, si pone come sempre più urgente il problema della tutela effettiva di tali beni. Siffatta evoluzione, come è noto, ha riguardato in special modo il settore delle finanze comunitarie, essenzialmente per due ordini di ragioni. In primo luogo, sul fronte ‘interno’, a partire dal 1970 (8) le Comunità sono state dotate di un patrimonio autonomo fondato su un articolato sistema di « risorse proprie ». In secondo luogo, sul fronte ‘esterno’, la carica criminogena inscindibilmente connessa (5) Ne sono in questo senso testimonianza i numerosi Convegni sull’unificazione del diritto criminale organizzati dall’Associazione internazionale di diritto penale nel primo dopoguerra, nonché, a partire dalla seconda metà degli anni quaranta, « una serie di importanti seminari, colloqui e studi: tutti volti vuoi a riaffermare la concreta esigenza di un potenziamento del diritto penale internazionale, vuoi — in una diversa e più circoscritta prospettiva — a preconizzare un vero e proprio sistema punitivo europeo, ad analizzare i relativi ostacoli ed i modi per superarli, ad esaminare i diversi modelli di integrazione » (BERNARDI, Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, in Annali dell’Università di Ferrara, 1996, p. 6). (6) In proposito, v. GRASSO, Comunità Europee e diritto penale, Milano, 1989, p. 3; RIONDATO, Competenza penale della Comunità europea: problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, Padova, 1996, p. 3 ss. (7) Così, più o meno testualmente, GRASSO (nota 6), p. 6. (8) È del 22 aprile 1970 la decisione (n. 70/243) con cui il Consiglio CEE ha trasformato l’eterofinanziamento di quest’ultima in autofinanziamento, mediante l’istituzione delle cosiddette « risorse proprie » costituite dai prelievi agricoli, dai dazi doganali, e infine, dalle entrate degli Stati membri provenienti dall’imposta sul valore aggiunto.
— 469 — a qualunque sistema di sovvenzioni (9) — voce portante delle finanze comunitarie — acuisce ulteriormente le necessità di tutela richieste da tale settore. I beni giuridici delle Comunità, inoltre, non si esauriscono nel novero delle entità economiche, poiché accanto ad essi vanno ascritti, come naturale pendant strumentale, i beni giuridici di tipo « istituzionale » connessi al buon andamento degli apparati amministrativi comunitari, e dunque, in ultima istanza, al reale e corretto funzionamento del mercato interno, in cui si materializza l’‘effettività di scopo’ dei trattati istitutivi. È opportuno, peraltro, sottolineare che, al di là delle differenze categoriali individuabili, i beni giuridici testé ricordati, tanto quelli del primo, quanto quelli del secondo tipo, presentano una natura similare di volta in volta qualificabile come ‘sovraindividuale’ e ‘diffusa’, rispetto alla quale — lo annoto sin d’ora — risulta difficilmente concepibile una ‘offesa’ identificabile nei termini classici di « evento dannoso o pericoloso ». È in tale contesto che si ambienta la macchinosa, e talvolta maccheronica ideazione di una politica criminale europea volta alla tutela dei beni allo specifico europeo riconducibili. Nell’economia di questa indagine — schematizzando al massimo — posso ricordare come, dopo i tentativi per attribuire una competenza penale alle Comunità Europee, che senza successo si sono succeduti nei vari decenni (10), la questione proprio in quest’ultimo (stavolta, decisivo?) decennio ha subìto una netta accelerazione. In primo luogo emerge, in campo sanzionatorio-amministrativo, la progressiva espansione di una autonoma potestà punitiva comunitaria (11). Inoltre, su di un terreno propriamente penale-criminale, a partire dal 1989 si assiste a quello che sembra essere un vero cambio di paradigma, attraverso l’utilizzo delle direttive, fonti tipicamente comunitarie, come strumento proprio del diritto comunitario per — quan(9) Sul punto, anche per la presentazione del complesso funzionamento di tali sovvenzioni e della correlativa possibilità di una loro captazione abusiva, v. GRASSO (nota 6), p. 17. (10) Dopo il tentativo di « Convenzione generale » del 1962, definitivamente tramontato nel 1966 per le resistenze della delegazione francese, i lavori ripresero con i Progetti presentati dalla Commissione il 10 gennaio 1976 al Consiglio. Il primo progetto si riferisce ad un » trattato che modifica i trattati che istituiscono le Comunità europee in ordine alla adozione di una regolamentazione comune sulla tutela penale degli interessi finanziari delle Comunità nonché sulla repressione delle infrazioni alle disposizioni dei presenti trattati », il secondo ad una « regolamentazione comune sulla responsabilità e sulla tutela penale dei funzionari e degli altri agenti delle Comunità europee ». Per tutta la questione v. ampiamente GRASSO (nota 6), p. 206 s. e, ora, anche PARODI GUSINO, Diritto comunitario e diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 109. Successivamente, queste iniziative furono lasciate da parte per cedere il passo, nel corso degli anni ottanta, ad un ritorno alle tradizionali procedure istituzionali di natura intergovernativa, determinando così di fatto una netta battuta di arresto nell’evoluzione della problematica. (11) A partire dalle tradizionali ammende in materia di concorrenza, direttamente previste nel trattato, le CE hanno progressivamente esteso e diversificato il loro potere sanzionatorio attraverso sanzioni c.d. di « nuova generazione »: tale competenza, il cui fondamento viene individuato nell’art. 172 (ora art. 229) TCE fu contestata da alcuni Stati ma espressamente riconosciuta dalla Corte di Giustizia (Corte Giust. CE, 27 ottobre 1992, RFT c. Commissione CEE — 240\90 -). In proposito, v. per tutti GRASSO, Recenti sviluppi in tema di sanzioni amministrative comunitarie, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 739; IDEM, Nouvelles perspectives en matière de sanctions communautaires, in Rév. sc. crim. dr. pén. comp., 1993, p. 265 s..
— 470 — tomeno, per il momento — armonizzare le risposte punitive nazionali rispetto a fenomeni criminosi emergenti, quali l’insider trading e il riciclaggio (12). A questa strada si affianca la via dell’assimilazione, fomentata a partire dall’ormai ‘storica’ sentenza sul mais greco-yugoslavo (13), decisione con la quale la Corte di Giustizia, sulla base del dovere di lealtà e collaborazione a cui sono tenuti gli Stati in favore della Comunità (sancito dall’art. 5 del Trattato di Roma — ora art. 10 TCE —), individuava, nei confronti di questi ultimi, uno specifico obbligo (14) di sanzionare le violazioni della normativa comunitaria. Tale obbligo veniva poi precisato anche con riguardo ai contenuti (15): le sanzioni poste dagli Stati, in virtù dell’assimilazione del bene comunitario ai corrispondenti beni nazionali, devono essere di natura e importanza similari a quelle poste per la tutela dei beni interni, e devono inoltre rivestire i caratteri della effettività, proporzionatezza e dissuasività. Il percorso appena schizzato, tuttavia, lungi dal ritmare una ‘marcia trionfale’ del potere punitivo comunitario, ha intrecciato, in merito, una serie di nodi gordiani, che emergono per la prima volta in tutta la loro conflittualità logica con il trattato di Maastricht del 1992. In effetti, se da una parte la nuova architettura europea elaborata con Maastricht prima, ed Amsterdam poi, riserva uno spazio sempre più centrale alla cittadella penale come elemento qualificante di una ‘Casa Comune Europea’ (16), dall’altra parte tale costruzione sconta l’insuperabile contraddizione di essere contenuta entro i ceppi normativi caratteristici del c.d. « terzo pilastro ». Tali strumenti giuridici, infatti (sia i più tradizionali, come le convenzioni, sia i più innovativi, come le « posizioni » e le « azioni comuni » — poi sostituite, da Amsterdam in poi, con le « decisioni »), restano in ogni caso atti normativi di tipo intergovernativo, con tutti i limiti di effettività che ne conseguono. Non solo: tali strumenti, che in origine dovevano porsi come complementari rispetto ai tradizionali atti normativi comunitari — dotati di efficacia diretta e di aggio sulle fonti interne — finiscono per sostituirsi in questo settore agli atti di maggior durezza, così da rendere effimera l’esperienza delle direttive in qualità di strumento di normazione lato sensu incriminatrice (17). Assistiamo così ad una situazione per molti versi paradossale: da una parte, l’Unione europea, attraverso il metodo della cooperazione intergovernativa, ha prodotto, in un arco di tempo relativamente ristretto, una quantità notevolissima di disposizioni a contenuto punitivo (18); dall’altra parte — e qui sta il paradosso — tra siffatta gamma di strumenti, proprio quelli adottati a tutela degli interessi comunitari sono rimasti lettera morta. (12) V. per tutti MANACORDA, L’efficacia espansiva del diritto comunitario sul diritto penale, in Foro it., Cron. comunitarie, 2-1995, IV, 55, p. 20 (estratto). (13) Corte di Giustizia, 21 settembre 1989, causa 68\88, Commissione c. Repubblica ellenica pubblicata in Cass. pen. 1992, p. 1654 con nota di SALAZAR, Diritto penale e diritto comunitario: la strana coppia. (14) E non più una semplice facoltà come invece aveva in precedenza ammesso la Corte. In proposito v. la luminosa spiegazione offerta da JESCHECK, Possibilità e limiti di un diritto penale per la protezione dell’Unione europea, in Possibilità e limiti (nota 2), p. 20. (15) Sulla questione cfr., ora, la recentissima sentenza Corte Cost. n. 31 del 2000. In proposito, v. la perspicua analisi di JESCHECK, Possibilità e limiti di un diritto penale per la protezione dell’Unione europea, in Possibilità e limiti (nota 2), p. 20. (16) Si vedano in particolare con dei toni non privi di una certa enfasi gli artt. 6 e 29 del TUE. (17) Così MANACORDA, Unione europea e sistema penale, in Studium Juris, 1997, p. 952. (18) Così, per limitarmi ad alcuni esempi di diretta rilevanza penale, in questo periodo si è provveduto all’adozione della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari della Comunità (1995) con i relativi protocolli in materia di corruzione(1996) e di responsabilità delle persone giuridiche (1997), della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione dei funzionari della CE e degli Stati membri (1997), della convenzione EURO-
— 471 — Si è determinato così uno stato di dissociazione, nel quale il « diritto penale (rectius, sanzionatorio) europeo » costituisce, in misura sempre maggiore, una struttura portante, ma solo progettuale della costruzione europea; mentre nel cantiere già in opera di tale edificazione dominano ancora le vecchie e malsicure fondazioni — basate sulla mole degli atti e documenti di eterogenea tipologia, sopra evocati — che di fatto proseguono il perimetro precario (ancorato ai bastioni discontinui della cooperazione, della armonizzazione e della assimilazione) di una tutela ‘tradizionale’ dei beni giuridici comunitari. Non è dunque un caso, che nella parte esplicativa prefata al testo del Corpus Juris si legga il seguente, significativo brano: « In tale stadio della costruzione europea, si pone il problema di sapere se ci si possa ancora accontentare di queste tre vie e rassegnarsi ad attendere degli anni per osservare qualche miglioramento del sistema repressivo. Il rischio è duplice: da una parte, ‘l’arenarsi’ politico di un processo che passando da protocolli addizionali a convenzioni, firmati ma non ratificati, ha come risultato di erigere « un muro di carta » contro una criminalità ben più concreta ed in continua espansione che è stimata in miliardi di ecu; dall’altra, il rifiuto, da parte degli stessi giuristi, di questa crescente complessità normativa dovuta all’aggrovigliarsi di norme nazionali, più o meno armonizzate ma mai identiche, e di pratiche di cooperazione a geografia e contenuto variabile. (...) Se c’è un settore del diritto che appare refrattario ad una tale Europa a geometria variabile e a più velocità, questo è il diritto penale quando si tratti di interessi vitali quali gli interessi finanziari dell’Unione europea » (19).
II. II.1.
SVOLGIMENTO La ‘prospettiva generale’
II.1.1. Il problema del metodo È legittimo, a questo punto, congetturare che si sia determinata, in una dimensione diacronica compressa nell’arco di meno di un decennio, una situazione tale da rendere auspicabile, quanto meno sul terreno del diritto penale (ma non in quello soltanto), l’avvento di una codificazione: intesa in senso benthamiano, e resa indifferibile dall’ormai manifesta inadeguatezza, in questo settore, di una semplice consolidazione (20). La prospettiva di partenza riguarda dunque una nuova (e speciale) ‘codificazione’ (21). Su questo terreno, le principali indicazioni di metodo derivano dall’esperienza storica della codificazione, che proprio in Europa POL (1995) delle azioni e posizioni comuni in materia di criminalità organizzata etc. Per un’utile rassegna aggiornata al dicembre 1998 dei testi adottati nei settori della giustizia e degli affari interni, v. PARISI-RINOLDI, Giustizia e affari interni nell’Unione europea, Torino, 1998, Appendice, p. 257 e p. 317. (19) Cfr. Corpus Juris, Motivazione (nota 1), p. 49. (20) Non posso quindi essere d’accordo con le posizioni, vagamente retro, avanzate da pur autorevolissima dottrina, decisamente scettica verso l’idea di una vera e propria codificazione: cfr. ROXIN, I compiti futuri della scienza penalistica, in questa Rivista, 2000, p. 13 s. (21) E non, per chiarirci, una mera linea-guida del tipo del Model Penal Code dell’e-
— 472 — è nata come realtà giuridico-istituzionale. E, come noto, l’esperienza della codificazione non è certo iniziata fra seicento e settecento, ma, viceversa, ha trovato origine nelle prime consolidazioni del medioevo e probabilmente già nel ’500 ha vissuto la sua ‘fase edificatoria’. La Storia ci dice che il metodo con cui il sistema penale ha ricevuto una formalizzazione codicistica ha risposto a due criteri essenziali, traducibili nelle seguenti formule: (a) dal « particolare » al « generale », per astrazione dei connotati caratterizzanti; (b) dai « paradigmi criminali » alle « categorie dogmatico-penali », per tipizzazione delle modalità di lesione più intollerabili del « bene comune » (dapprima la sovranità, poi i diritti soggettivi, infine i beni giuridici). Così è nata la moderna teoria del reato — e la sua « parte generale »: astraendo da tipi di reato specifici, l’omicidio, il furto e il sacrilegium (o maleficium); i « delitti capitali », cioè, perché paradigmatici dell’aggressione agli unici veri pilastri della società pre-moderna: l’incolumità fisica, il patrimonio, la pietas come fonte sacrale dell’auctoritas pubblica. E dai « tipi universali » dei ‘Mordtaten’, attraverso un processo astrattivo-concettuale, di Begriffsjurisprudenz, in epoca post-classica — a partire dalla summae di Boehmer e di Klein — prese corpo quel modello ‘classico’ di Tatbestand che Beling avrebbe poi consacrato come insuperato ‘strumento d’arte’ del penalista moderno, nonché vademecum di ogni codificatore della « Parte Generale », per lo meno nello spazio giuridico continentale (22).
Su questo terreno, ciò che la Storia ci insegna è confermato dall’attualità: ci si pone oggi in una prospettiva di unificazione del diritto penale solo perché da un contesto socio-politico già (in parte) giuridicamente unificato sono venuti degli inputs che rispettano completamente le due formule sopra evocate: quella dell’astrazione e quella della tipizzazione. Di tali, diversi inputs ricordo qui solo i due che mi sembrano principali: (a) La crescita di un autonomo potere sanzionatorio-amministrativo di fonte sperienza nordamericana. Per questa posizione v. SIEBER, Memorandum on a European Model Penal Code, in European Journal of law Reform, vol. 1, n. 4, 1999, p. 465 s.; CADOPPI, Verso un diritto penale unico europeo?, in PICOTTI (a cura di), Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, (nota 2), p. 39. Per una ricognizione di queste tesi v. TIEDEMANN, Europeizzazione del diritto penale, in questa Rivista, 1998, p. 6 s. V. anche MANACORDA, Pour un Corpus Juris. Perspectives d’unification de droit pénal das affaires en Europe, in Cahiers de la securité intérieure, no 2-1999, p. 155 s. (22) Resta fondamentale, in merito, l’analisi di HALL, Die Lehre von corpus delicti, Stuttgart, 1933. In seguito, v. la puntuale analisi di SCHWEIKERT, Die Wandlungen der Tatbestandslehre seit Beling, Karlsruhe, 1957 e, intelligentemente, VOLK, Prozeßvoraussetzungen im Strafrecht, Ebelsbach, 1978 (spec. p. 36 s.); da ultimo, nella letteratura italiana, diffusamente, GALGANI, Dal corpus delicti al Tatbestand, Milano, 1997.
— 473 — comunitaria. Tale evoluzione ha progressivamente composto un mosaico di modelli sanzionatori, che ha poi trovato una sua « parte generale » per astrazione da alcuni prototipi di illecito amministrativo comunitario. La formalizzazione ‘codicistica’ di tali tipi di illecito, sul piano normativo, è avvenuta, come noto, con il ‘Regolamento-quadro’ dell’Unione europea datato 18 dicembre 1995 (23). (b) Le pressanti esigenze di criminalizzazione dei comportamenti lesivi degli interessi della Comunità Europea come tale. Queste istanze, che, come ho accennato precedentemente, non sono state sufficientemente soddisfatte dal processo di assimilazione, armonizzazione e cooperazione sino ad ora avviato, hanno fomentato la formazione, questa volta sul piano dottrinale, di un ‘codex’, denominato « Corpus Juris » (24), di norme penali comuni (e comunitarie). Nella elaborazione di quest’ultimo testo, i criteri seguiti sono stati proprio quelli che ho appena segnalato, derivanti dalla evoluzione storica. I redattori del Corpus Juris hanno individuato e descritto una serie di aggressioni ai beni giuridici comunitari e per queste soltanto hanno formulato delle ‘regole di fondo’ generali ricavate per astrazione dalle esigenze imputative indotte da quei modelli di illecito. E — si badi — la struttura stessa di siffatto testo, sotto il profilo topografico, rispetta quest’ordine mentale e questo metodo, per così dire, evolutivo. Prima sono elencate le singole fattispecie « di parte speciale » (artt. 1-8); poi trova spazio la tipologia sanzionatoria (art. 9); successivamente, e per ultimo, vengono presentati i principi di parte generale (artt 10-14) (25).
A sua volta, la tipizzazione di tali illeciti in singole fattispecie delittuose è stata realizzata muovendo dalle costanti criminologiche del settore, cioè dalle forme di aggressione più rilevanti per frequenza e minacciosità ai beni comunitari (in primis, la frode in sovvenzioni, l’abuso della funzione pubblica, la malversazione). (23) Su cui v. ampiamente PISANESCHI, Le sanzioni amministrative comunitarie, Padova, 1998, p. 103 ss.; MAUGERI, Il regolamento n. 2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario. I. La natura giuridica delle sanzioni comunitarie, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 529, e II. I principi fondamentali della sanzioni comunitarie, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 929. (24) DELMAS-MARTY (a cura di), Corpus Juris portant dispositions pénales pour la protection des intérêts financiers de l’Euaropéenne pubbl. nella versione bilingue francese\inglese, Ed. Economica, 1997; pubbl. altresì in italiano in Verso uno spazio giudiziario europeo (nota 1). A dimostrazione del successo di questo testo ricordiamo, tra i numerosi convegni e lavori già ad esso dedicati, oltre a quelli citati alla nota 2: Le Corpus Juris comme base d’un droit pénal européen, Colloque international de l’accademie de droit Européen en collaboration avec le Max-Planck Institut für ausländisches und internationales Strafrecht de Freiburg-en-Brisgau. V. infine, da ultimo, DELMAS-MARTY-MANACORDA, Le Corpus Juris: un chantier ouvert dans la construction du droit pénal economique européen, in European Journal of Law Reform, vol. 1 No. 4 1999, p. 473 s.; DELMAS-MARTY-VERVAELE (a cura di), The Implementation of the Corpus Juris in the Member States, Vol. I, Antwerpen-GroningenOxford, 2000. (25) Quest’ordine rispecchia una proposta di metodo che avanzavo alcuni anni orsono (Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, p. 510).
— 474 — II.1.1.1. Ipotesi di lavoro La mia tesi è allora la seguente. I requisiti essenziali di una « Parte Generale » unitario-europea vanno ricercati seguendo il metodo dell’astrazione categoriale e della tipizzazione criminologicamente orientata; muovendo — quanto ad oggetto — dai nuclei essenziali di coesione sociale propri dell’ambito politico-istituzionale cui il prodotto giuridico è, nella specie, destinato. Tali nuclei essenziali sono rappresentati, principalmente, dagli interessi economici: una sfera di interessi che nel bilancio comunitario trova il suo bene giuridico più importante ed afferrabile. Giustamente, in proposito, si è ricordato che: « definito come l’espressione concreta di un vero e proprio patrimonio comune a tutti i cittadini comunitari, il bilancio rappresenta lo strumento per eccellenza della politica europea » (26).
Ma, a mio avviso, si tratta di una sfera di interessi che va anche oltre il puro dato patrimoniale (materializzato nel bilancio), per comprendere l’intero complesso delle istituzioni economiche — beni giuridici che rispecchiano l’ormai noto paradigma della « unità di funzioni » — che comunque esorbitano dalle cerchie di attività economiche puramente « interne », per essere transnazionali, multinazionali o internazionali tout court. Secondo la mia ipotesi di lavoro, in questa prima fase ‘costituente’, esclusivamente in tale sfera di rapporti vanno ricercati i conflitti sociali rilevanti, da rielaborare e formalizzare in termini penalistici nella prospettiva unitario-europea. Siffatte specifiche « costanti criminologiche », una volta formalizzate, dovranno fornire i « tipi universali » (il corrispondente moderno di ciò che hanno rappresentato i ‘Mordtaten’ agli albori della concezione penalistica), da cui ricavare — per astrazione — la « teoria del reato » e la corrispondente « Parte Generale » di un diritto penale unificato. II.1.1.2. Risultato intermedio Se si segue sino ai suoi più conseguenti sviluppi il filo del discorso sopra abbozzato, si giunge ad una conclusione — per il momento, certo, provvisoria, ma già gravata da non irrisorie ipoteche concettuali — che in tempi anche di poco precedenti, e in dimensioni normative diverse, sarebbe suonata, se non paradossale, per lo meno stravagante. Cerco di esprimere tale conclusione nei termini seguenti. (26) Corpus Juris, Motivazione-Verso una repressione più giusta più semplice e più efficace, in Verso uno spazio giudiziario europeo (nota 1), p. 33. Questa linea di sviluppo è acutamente percorsa da BERNARDI, « Europeizzazione » del diritto penale commerciale?, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 1 s.
— 475 — La « Parte Generale » di un diritto penale unificato-europeo tende ad emergere come rielaborazione e formalizzazione di conflitti sociali che in termini sociologici siano definibili come « criminalità economica », e sotto il profilo dogmatico, vengano inglobati in una « teoria del reato economico ». Risultato sorprendente: il reato economico, a lungo misconosciuto come « reato », sta ora per assurgere a Idealtipo per la « teoria del reato » nello spazio europeo unificato. Si tratta di un diritto penale — e di una sistematica di parte generale — ben diversi da quelli ‘classici’, ricavati per astrazione-tipicizzazione dai « delitti naturali ». Un diritto penale ‘classico’, che, dal canto suo, si è nel frattempo in parte modernizzato proprio per « adattarsi » alla progressiva estensione di campo dei « delitti artificiali » contenuti — per dirla con l’originaria terminologia della dottrina tedesca, che per prima ha elaborato questi paradigmi — nel Nebenstrafrecht (‘diritto penale accessorio’) e, all’interno di questo, nel Wirtschaftsstrafrecht in particolare (27). Ciò che è nostro compito costruire, ora, è un sistema di principî e di criteri di imputazione, il cui fulcro sia costituito proprio da quelle ‘deviazioni’ (28) — dovute a « necessità di adattamento » — dai canoni del « buon vecchio sano diritto penale » (29). Qui ci si imbatte subito, però, in un problema metodologico, per così dire propedeutico, che attinge direttamente la natura giuridica della materia di cui si progetta la ricostruzione categoriale. Proprio perché storicamente sorta, almeno in parte, per formazione alluvionale da bacini di alimentazione ab origine non penali, ma canalizzati entro le sponde, sia pure improprie (e quindi precarie), di una funzione lato sensu punitiva (v. § I.1.); perché frutto di una koiné di fatto, forzosa, di ordinamenti, taluni dei quali, conoscendo tradizionalmente forti aree di tutela sanzionatoria formalizzata in paradigmi para-penali, hanno progressivamente assimilato, nel corso degli anni, i due settori, quanto meno sotto il profilo dei principî e dei dogmi sistemici (tipico, in tal senso, l’esempio della Germania); perché, infine, oggetto, fra l’altro, di una ‘giurisdizione superiore’ (quella della Corte Europea) che da anni ha elaborato una nozione di ‘matière pénale’ ‘onnicomprensiva’ (30) — inclusiva cioè, in funzione garanti(27) Pionieristici, in questo senso, i lavori di TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen im Nebenstrafrecht, Tübingen, 1969; Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, Reinbeck bei Hamburg, 1976. (28) In questa prospettiva, cfr. TULKENS-VAN DE KERCHOVE, Introduction au droit pénal, 4a ed., Bruxelles, 1998, p. 155. (29) Cfr. LÜDERSSEN, Zurück zum guten, alten, liberalen, anständigen Kernstrafrecht?, in BÖLLIGEN-LAUTMANN, Vom Guten, das noch stets das Böse schafft, Frankfurt am Main, 1993, p. 268 ss. (30) V. postea, nota 33.
— 476 — stico-omologante, sia del diritto criminale che del diritto penale-amministrativo — la materia di cui si progetta qui la ‘codificazione’ non può essere ragionevolmente contenuta entro le griglie rigide (per essa, prevedibile letto di Procuste), non solo dell’essenziale ‘Kernstrafrecht’ (il ‘diritto penale nucleare’), ma neppure del ‘Kriminalrecht’ (‘diritto penale-criminale’) complessivamente considerato. Per converso, la materia economica che di tale nuovo sistema deve, secondo ipotesi, costituire il back-ground genetico, per suoi stessi natura e sviluppo (e per quella « necessità di adattamento » cui prima ho fatto cenno) ha dal canto proprio preso congedo, nella sua proiezione sanzionatoria, dai paradigmi sistemici esclusivi del diritto penale ‘classico’; questo, almeno, è già avvenuto negli ordinamenti più avanzati, comunque li si voglia definire: post-capitalitistici o post-moderni (31). Da qui deriva l’opportunità di parlare, nella mia prospettiva, non di « diritto penale », ma di « diritto sanzionatorio tout court » (di Sanktionenrecht, anziché di Strafrecht, come è ormai invalso in una parte significativa della dottrina tedesca) (32); da qui derivano anche, però, i problemi, quando da tale indicazione di metodo si passi — come mi accingo a fare — ad una prima individuazione dei contenuti che la « Parte Generale » del diritto penale europeo dovrà prioritariamente possedere. II.1.2. Il problema dei contenuti Se si trasferisce questa indicazione di metodo sul terreno delle scelte di contenuto per una « Parte Generale » unitario-europea, sorge immediatamente una serie di problemi, principalmente collegati ai connotati strutturali del paradigma dommatico-criminologico del reato economico. (a) Un primo requisito di fondo di natura macrosistematica riguarda il campo di applicazione di tale « Parte Generale » che, sulla base della mia ipotesi di partenza, deve essere estesa anche alle sanzioni amministrative ‘punitive’ (la « matière pènale » in senso lato, secondo la già citata Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (33)). Nella prospettiva in cui qui ci si pone — lo ribadisco — siamo, di fatto, obbligati a costruire un sistema di ‘Sanktionenrecht’, e non di puro (31) Ho espresso questi concetti in L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1220 ss.; v. inoltre NAUCKE, Schwerpunktverlagerungen im Strafrecht, in Krit. V., 1993, p. 135 ss.; HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrecht, in ZRP, 1992, p. 378 ss.; FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 23 ss. (32) Alludo in particolare alla c.d. « Scuola di Francoforte ». (33) In proposito, v. La matière pénale au sens de la Convention européenne des droits de l’homme, flou du droit pénal, rapporto del Groupe de recherches, Droits de l’homme et logiques juridiques, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1987, p. 819 s.; PALIEROTRAVI, La sanzione amministrativa, Milano, 1988, p. 151 s.; DELMAS-MARTY, Les grands systèmes de politique criminelle, Parigi, 1992, p. 32 s.
— 477 — ‘Strafrecht’ (di diritto sanzionatorio, e non di diritto penale in senso stretto). A conferma di quest’‘obbligo di scelta’ concorre, in posizione prioritaria, una ragione, per così dire genetica e pregiudiziale rispetto a quelle sopra annoverate. Fondamentalmente: il diritto penale economico ha avuto invero da sempre una doppia anima: penale-criminale e penale-amministrativa, con periodica migrazione delle materie ivi disciplinate dall’uno all’altro settore punitivo (34). Ciò comporta però che in una prospettiva de iure condendo, la quale abbia come paradigma il delitto economico, la fisionomia essenziale dell’illecito si orienti naturalmente verso una « posizione di equilibrio » fra i due settori. Ma si può, altrettanto giustificatamente, pervenire, per questa strada, addirittura al rovesciamento, in certi loci sistematici, del rapporto regola/eccezione; ovvero ancora — sempre rispetto al diritto penale modellato sui « delitti naturali » — sino alla svalutazione di alcune regole, ipervalutandone all’opposto altre. Mi limiterò, qui, ad alcune segnalazioni cursorie. (aa) In tema di fonti, nel ‘diritto sanzionatorio economico’ (comprensivo, cioè, tanto del ‘diritto penale accessorio’ quanto del ‘diritto sanzionatorio amministrativo’ in materia economica) sono dominanti, e non recessive, la normazione « per rinvio » (35) (a fonti tecniche e regolamentari) e, soprattutto, le norme penali in bianco (‘Blanketttatbestände) (36), tecniche viceversa eccezionali, e costituzionalmente sospette, nel ‘diritto penale nucleare’ (‘Kernstrafrecht’). (bb) Nel diritto criminale in senso stretto, il fulcro della responsabilità risiede nella volontà dell’evento, nel ‘diritto sanzionatorio’, viceversa, nella violazione di un obbligo. (cc) Sul versante, ancora, della colpevolezza, nel ‘diritto sanzionatorio’ il problema dell’imputabilità è praticamente irrilevante, mentre l’error juris ha enorme importanza; nel « diritto penale classico », all’opposto, il rapporto di rango fra queste due componenti del giudizio di riprovevolezza è esattamente invertito. (34) In generale, TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht (nota 27). (35) Con riferimento ad un recupero della « teoria meramente sanzionatoria del diritto penale » occasionato dal ricorso alla tecnica del rinvio quale strumento privilegiato di tutela dei beni giuridici comunitari, si veda BERNARDI (nota 5), pp. 1-20; sul processo che ha condotto a privilegiare in ambito comunitario le tecniche di strutturazione del fatto tipico fondate sul rinvio, v. ancora le considerazioni di BERNARDI (nota 5), pp. 41-43. Da ultimo, decisive le osservazioni critiche di MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2a ed., 1999, p. 177 s. (36) TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen (nota 27), p. 239 ss.
— 478 — Il problema diviene allora quello di una tendenziale divaricazione tra l’eventuale fisionomia della « Parte Generale » unitario-europea, ancora da costruire, e la teoria del reato che è tradizionale, e tutt’oggi regna, negli ordinamenti nazionali. (b) Una seconda caratteristica strutturale riguarda la costruzione del tipo dell’illecito ed i suoi rapporti con le sottostanti « costanti criminologiche » di riferimento. Come è noto, la teoria del reato, nell’ambito dei diversi « diritti penali » nazionali è stata costruita — almeno a partire dall’800 — sull’Idealtipo del reato commissivo doloso d’evento (di danno o di pericolo concreto). L’omicidio come paradigma universale di reato (37)! Il diritto penale delle tradizioni nazionali è inoltre dotato di carattere frammentario (38): esso è modellato su tipi selezionati di offesa, espressivi di « esempi intollerabili » di conflitto sociale, che sono stati ridefiniti dal legislatore « di parte speciale » secondo una tecnica analitico-descrittiva. Si tratta essenzialmente di illeciti « a modalità di lesione », contenuti per lo più in fattispecie a forma vincolata (con la sola esclusione dei delitti contro la vita e l’incolumità fisica). Nella prospettiva di un ‘diritto sanzionatorio’ unitario-europeo, con riguardo alla configurazione del Tatbestand, sussistono due paradigmi, derivanti dalle due « diverse anime » del diritto penale economico, che possono essere tra loro in conflitto. Si tratta di paradigmi non semplici da ricondurre ad un unico Idealtipo categoriale, su cui costruire il sistema della « Parte Generale ». (aa) Da un lato, c’è infatti il modello di illecito caratteristico, nei sistemi nazionali, del ‘diritto penale accessorio’. Esso è connotato principalmente dalla tecnica — non selettiva — della « penalizzazione a tappeto ». Ciò avviene in due modi: il primo di questi si realizza attraverso « clausole sanzionatorie finali », che puniscono indiscriminatamente ogni trasgressione ad un testo normativo (39). L’altro modo di tutela non selettiva si fonda invece sul « sistema del rinvio » (40) a fonti subordinate, con il (37) Esemplare, in merito, nel nostro diritto penale classico, il vero e proprio « trattato » di IMPALLOMENI, L’omicidio nel diritto penale, Torino, 1899. (38) PALIERO, « Minima non curat praetor » — Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 159 ss. (39) In ambito comunitario, l’Idealtipo « storico » di questa categoria è rappresentato dalle « tradizionali » ammende e indennità di mora previste nei regolamenti CEE nn. 11/60, 17/62, 1017/68, 4056/86, 4064/89 fondate sull’art. 83 TCE (nuova numerazione) in materia di tutela della concorrenza, il cui carattere costitutivo è di essere irrogate direttamente dalle istituzioni comunitarie. (40) Cfr., per il sistema del rinvio, i lavori di BERNARDI, e in particolare, da ultimo: I tre volti del « diritto penale comunitario », in Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, (nota 21), p. 66. Per la prospettiva francese, tradizionalmente molto disin-
— 479 — quale un’unica clausola sanzionatoria reprime ogni violazione della disciplina di una certa materia. Tale congerie di fattispecie sanzionatorie, sotto il profilo della struttura del tipo contemplano principalmente figure di illecito di pericolo astratto, se non di pura trasgressione (le ‘echte Zuwiderhandlungen’ ben note all’antico diritto di polizia (41)), prevalentemente omissive, modernamente riconducibili al paradigma concettuale del reato d’obbligo. Scarsamente tipizzate in termini di « modalità di lesione », sono anche illeciti ‘artificiali’, cioè di pura creazione politica. Quest’ultimo modello di illecito — merita di essere ricordato — è penetrato nei vari ordinamenti anche attraverso le disposizioni sanzionatorie direttamente predisposte dalla CEE a generale tutela dei propri interessi finanziari ed organizzativi. Va in merito ancora segnalato, a margine di tale discorso, che il diritto comunitario presenta ormai una variegatissima casistica strutturalmente riconducibile al paradigma testé proposto (42). Nella prospettiva italiana tale sistema di rinvii, alla stregua del meccanismo introdotto dalla legge 9 marzo 1989 n.86 (c.d. « legge La Pergola »), risulta congegnato secondo la seguente sequenza: dalla fonte comunitaria derivata alla normativa italiana; dalla normativa italiana delegante alla normativa delegata. Così, per quanto concerne il primo passaggio, le direttive comunitarie, dopo aver disciplinato una determinata materia, contengono una disposizione di chiusura in cui si demanda agli Stati membri il compito di adottare un regime sanzionatorio adeguato per reprimere le violazioni delle disposizioni contenute nella direttiva (dal ‘generale’, al ‘particolare’, dunque). Par cascade, nell’ordinamento italiano la legge delega in materia comunitaria contiene a sua volta delle clausole sanzionatorie generali, in cui si delega il Governo ad emanare le sanzioni per le violazioni della normativa comunitaria direttamente considerata (43) (con sequenza, di nuovo, dunque, dal ‘generale’ al ‘particolare’) volta nell’utilizzo di tale tecnica, v. la classificazione dei vari sistemi di rinvio presentata da DELMAS-MARTY, Union Européenne et droit pénal, in Cahiers de droits européen, 1997, p. 628. (41) Ancora istruttivo, in proposito, è MICHELS, Strafbare Handlung und Zuwiderhandlung, Berlin, 1963. (42) Per una casistica v. GRASSO (nota 6), p. 292 ss.; BERNARDI, La tutela penale dell’ambiente in Italia: prospettive nazionali e comunitarie, in Annali dell’università di Ferrara, 1997, p. 111 s. Da ultimo, MANACORDA, Le droit pénal et l’Union européenne: esquisse d’un système, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 2000, p. 101 s. (43) V. ad es. l’art. 5 legge comunitaria del 1999: « Al fine di assicurare la piena integrazione delle norme comunitarie nell’ordinamento nazionale, il Governo, fatte salve le norme penali vigenti, è delegato ad emanare (...) disposizioni recanti sanzioni penali ed amministrative per le violazioni di direttive comunitarie attuate (...) in via regolamentare o amministrativa e di regolamenti comunitari (...). All’art. 2 comma 1o lett. c) sono poi contenuti i criteri direttivi per orientare la scelta tra sanzioni penali e amministrative e per determinarne i limiti edittali (leggi la pubbl. in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 422 s.).
— 480 — (bb) Dall’altro lato, emerge il paradigma delle fattispecie volte a proteggere gli interessi finanziari ed organizzativi della « koiné economica » degli Stati europei da specifiche — e selezionate — forme di aggressione. Tale paradigma ha trovato una prima applicazione tecnica nelle direttive comunitarie in tema di insider trading (la c.d. « direttiva sulla trasparenza » del 12 dicembre 1988, la c.d. « direttiva sull’insider » del 13 novembre 1989 e la c.d. « direttiva sulla negoziazione dei titoli » del 10 maggio 1993) e in tema di riciclaggio (la direttiva comunitaria del 10 giugno 1991 « sulla prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio »). E una seconda fase di applicazione — per ora soltanto virtuale — di tale modello è rappresentata dall’adozione, nell’ambito degli strumenti del terzo pilastro introdotti con Maastricht, della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari della Comunità, del 1995 (44) (con i relativi protocolli del 1996 e 1997) (45) e della Convenzione in materia di corruzione del 1997 (46). Questo stesso paradigma ha poi trovato organica formalizzazione nella ‘parte speciale’ del « Corpus Juris » del 1997. Su quest’ultima ‘fonte’ virtuale, va precisato quanto segue. Sebbene si collochi in una fase meramente progettuale, tale ‘codificazione’ sta registrando ulteriori, rilevanti sviluppi: in seguito alla presentazione del testo del 1997, infatti, il Parlamento Europeo ha dato mandato ai redattori del Corpus Juris di procedere ad uno « studio di fattibilità » (47) di tale testo volto ad individuarne i problemi di implementazione nei differenti universi giuridici nazionali. Inoltre, nel corso di tale studio complementare, è stata proposta, nel maggio del 1999, in una riunione ristretta a Firenze, una versione riformata dello stesso Corpus Juris (48). Sulla base di questi documenti è stato poi presentato un Projet de Rapport (49) in cui si chiede di adottare con regolamento comunitario la parte sostanziale del Corpus Juris, e, contestualmente, di procedere ad una conferenza intergovernativa per l’approvazione della parte processuale. (44) Adottata il 26 luglio 1995, in G.U.C.E. C 316 del 27 novembre 1995. (45) In particolare il primo ed il secondo protocollo adottati rispettivamente il 27 settembre 96 (in G.U.C.E. C 313 del 23 ottobre 1996) e il 19 giugno 1997 (in G.U.C.E. C 221 del 19 luglio 1997). (46) Adottata il 26 maggio 1997 in G.U.C.E. C 195 del 25 giugno 1997. (47) DELMAS-MARTY-VERVAELE (a cura di), The implementation of the Corpus Juris in the member States, Penal provisions for the protection of European Finances, AntwerpenGroningen-Oxford, 2000. (48) Tale seconda versione del ‘Corpus Juris’ (detta « Proposition de Florence ») presentata pubblicamente al Seminario di lavoro « Vers un espace pénal européen » tenutosi a Madrid il 18 e 19 novembre 1999, è contenuta nel lavoro citato alla nota precedente. Nel prosieguo della mia indagine la numerazione degli articoli del Corpus Juris si intende comunque riferita alla versione originaria del 1997. (49) Projet de Rapport du 22 septembre 1999 (PE 231.653) sur l’etablissement d’une protection pénale des intérêts financiers de l’Union, dans le cadre des révisions du TUE (Rapp. Theato).
— 481 — Le figure di illecito riconducibili allo schema strutturale di cui tratto in questo punto rispecchiano i paradigmi del Tatbestand penale per così dire ‘classico’: rectius, quella astrazione concettuale delle singole fattispecie della parte speciale — nelle loro componenti sia oggettive che soggettive — che il tardo Beling indicava come ‘Leitbild’ (50) (la frode, l’abuso, la corruzione, l’« associazione di malfattori »). Si tratta, inoltre, di figure di illecito direttamente ricavate da modelli comportamentali che hanno una specifica rilevanza fenomenologica, tanto da poter esser considerati vere e proprie « costanti criminologiche ». La loro divergenza rispetto al modello sopra descritto (sub aa) è evidente: ma anche qui sarebbe errato pensare che l’Idealtipo di questi illeciti sia perfettamente assimilabile a quello delle analoghe o corrispondenti figure di reato contro il patrimonio, gli interessi economici, l’amministrazione o l’ordine pubblico nazionali. Il caso della frode è emblematico. In tutti gli ordinamenti continentali, il suo ‘Leitbild’ rispecchia il paradigma del reato d’evento commissivo e doloso. La « costante criminologica » delle frodi comunitarie esige invece la configurazione di un Tatbestand che arretri la punibilità alla soglia del pericolo (anche astratto) e che incrimini altresì, a certe condizioni, le condotte colpose e, sempre, le condotte omissive (51). Da ciò si può dedurre che, in generale, al livello del Tatbestand ci sono forti disarmonie strutturali ‘interne’ all’erigendo diritto sanzionatorio unitario-europeo, e che i modelli apparentemente più vicini al « paradigma classico » di tipicità penale sono in realtà ben lontani dal corrispondente Idealtipo di reato tradizionale nei sistemi nazionali. Il problema qui è rappresentato dal fatto che la struttura del tipo ha storicamente influenzato, e continua ad influenzare, la costruzione della ’Parte Generale’ nelle sue articolazioni fondamentali: in primo luogo, nei criteri di imputazione della responsabilità e nei limiti della punibilità e, in secondo luogo, nel sistema delle fonti e nelle stesse definizioni legislative ove, come nel sistema italiano, presenti. È su questo banco di prova che andrà verificato se sono davvero indispensabili o se non, invece, addirittura superflui alcuni attuali capisaldi della « teoria del reato » — e perciò della medesima ‘Parte Generale’ — propria dei nostri sistemi penali nazionali. (c) Un terzo connotato strutturale da prendere in considerazione in chiave problematica riguarda infine lo schema delle responsabilità. Nel « diritto penale nucleare » delle esperienze nazionali i criteri di (50) BELING, Die Lehre vom Tatbestand, Tübingen, 1930, p. 6 ss. (51) Cfr., al riguardo, le osservazioni a commento dell’art. 1 del Corpus Juris e la comparazione qui condotta con la Convenzione PIF in Verso uno spazio giudiziario europeo (nota 1), p. 55.
— 482 — imputazione sono primariamente orientati su un Idealtipo di responsabilità che ha come caratteristiche salienti: (a) di essere una responsabilità individuale; (b) di prevedere, come forma di imputazione normale, la realizzazione monosoggettiva della condotta tipica; (c) di essere una responsabilità orientata sul normotipo commissivo di condotta; (d) di imputare, di regola, la condotta stessa in quanto produttiva di un evento lesivo. E, invero, gli istituti della partecipazione criminosa e del tentativo (v. punti b e d) sono tradizionalmente concepiti — anche sotto il profilo della pedagogica sistematica — come « forme di manifestazione » eventuali del reato; il tentativo, per di più, è di regola previsto per alcune figure soltanto di reato, al fine di limitare i confini della punibilità quando la condotta realizzata non produca la piena lesione del bene giuridico protetto. Un discorso analogo può essere fatto (v. punto c) in relazione ad una terza « clausola generale » di estensione del tipo delittuoso, e quindi della punibilità: la responsabilità per omissione. Norme come l’art. 40, co. II, cod. pen. it. ed il § 13 d. StGB servono a circoscrivere il novero delle ipotesi in cui il mero « non agire » fa sorgere la responsabilità penale per un evento lesivo, la cui produzione commissiva viene invece sempre punita. Il diritto penale ‘classico’, infine, è pervicacemente ancorato al dogma hegeliano dell’azione umana (52) come scelta individualistica esponenziale della volontà (v. punto a), e rifugge istintivamente dalla valorizzazione, a fini imputativi, delle decisioni collettive (se non come sommatoria di, e ‘passando attraverso’, le singole decisioni individuali); eppertanto, conseguentemente, è restio alla autonoma responsabilizzazione degli enti e dei soggetti collettivi personificati. Orbene, l’esperienza del moderno diritto penale economico — fra l’altro, sempre più caratterizzato da fenomenologie comportamentali di portata, non solo collettiva, ma anche multinazionale — ci dimostra all’opposto che l’Idealtipo di responsabilità appena descritto risulta, entro i suoi confini, praticamente rovesciato. (aa) La complessità, la transnazionalità, e la « organicità al sistema » dei comportamenti economici rivelano anzitutto che, in questo settore, tipica è la responsabilità collettiva, e non quella individuale. Nella criminalità economica, in particolare, il discrimine fondamentale non corre fra responsabilità individuale e responsabilità collettiva, ma fra responsabilità plurisoggettiva delle persone fisiche e responsabilità collettiva della persona giuridica come tale. Quest’ultimo tipo di responsabilità, dal diritto penale nucleare, all’interno dei sistemi penali nazionali, è pervicacemente disconosciuta, o soltanto da poco, con cautela, valorizzata in taluni ordinamenti soltanto, Al contrario di ciò che è avvenuto nel diritto sanziona(52) Cfr. LARENZ, Hegels Zurechnungslehre, Leipzig, 1927 (ried. Aalen, 1970), spec. p. 67 ss., nonché le riflessioni di DE GIORGI, Azione e imputazione, Lecce, 1984.
— 483 — torio comunitario, il quale sin dalla sua origine ha assunto come tipica la responsabilità dell’ente (53). (bb) La natura necessariamente organizzata e gerarchizzata dei moderni comportamenti economici è ormai riconducibile al paradigma funzionalistico dei subsistemi organizzati complessi e dei c.d. ‘Machtapparate’, le cui caratteristiche si riassumono essenzialmente nella complessità, nella burocratizzazione e nella segmentazione del potere attraverso la parcellizzazione dei centri decisionali (54). All’interno di questo paradigma decisionale, perde di senso la ricerca di una condotta individuale principale, alla quale far eventualmente accedere le condotte individuali secondarie, secondo il tradizionale sistema di rapporti fra ‘fattispecie monosoggettiva tipica’ e ‘condotte di partecipazione plurisoggettiva’, che è tuttora caratteristico dei singoli diritti penali nucleari. (cc) Siffatta natura dei comportamenti economici, poi, non solo incide sul dogma penalistico della « volontà unitaria » del fatto ma, soprattutto, realizza la piena intercambiabilità tra fare ed omettere a livello di struttura del tipo delittuoso. Se a questo dato strutturale si aggiunge la naturale espansione, nelle organizzazioni complesse, dei meccanismi di controllo delle decisioni imperniati su posizioni di garanzia, si constata immediatamente che in questa sfera la responsabilità omissiva (o, quantomeno, con concorrenti componenti omissive) diviene la regola, e non l’eccezione del sistema imputativo. Di fatto, nel subsistema economico organizzato, poteri di gestione e poteri di controllo si bilanciano e si compenetrano vicendevolmente, sicché si potrebbe addirittura affermare che responsabilità commissiva e responsabilità per omissione, non solo — come si è appena constatato — non rispecchiano più il tradizionale rapporto regola/eccezione, ma rappresentano l’uno l’interfaccia strutturale dell’altro, nell’ambito di un più complesso comportamento collettivo, rispetto al quale assume significato soltanto la distinzione per « ruolo » e per « sfera di rischio ». (dd) Si consideri, infine, la disciplina del tentativo, che nei sistemi penali continentali costituisce il principale criterio di orientamento per la fissazione dei limiti della condotta punibile e, dunque, dei limiti della responsabilità penale per il fatto. Ebbene, in un moderno diritto penale economico — che dovrà costituire il modello per la « Parte Generale » unitario-europea — l’istituto del (53) Cfr. TIEDEMANN, Diritto Comunitario e diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 229. (54) Cfr. essenzialmente LUHMANN, Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt am Main, 1984, trad. it., Sistemi sociali, Bologna, 1990, p. 331 ss.; per una precoce valorizzazione penalistica di questi paradigmi, v. ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Berlin, (1a ed., 1963), 5a ed., 1990, p. 242 ss.
— 484 — tentativo finisce per rivelarsi addirittura superfluo rispetto allo schema della responsabilità. Nel settore economico, infatti — e soprattutto in quello multinazionale — i macro-beni da tutelare si adeguano difficilmente alla concretizzazione del pericolo. In questo ambito prevalgono i reati modellati sul pericolo astratto e i reati d’obbligo; sempre più spesso, inoltre, nelle attività produttive complesse, anche a livello dommatico-concettuale il topos penalistico del ‘pericolo’ è soppiantato dalla ben diversa categoria del rischio, sospingendo l’evento nel limbo dommatico delle condizioni di punibilità e, soprattutto, smantellando in tal modo il binomio concettuale — pericolo (concreto)/evento — sul quale il rationale del tentativo da sempre si fonda, qualunque ne sia la formula euristica al suo interno privilegiata (55). In proposito è illuminante la ‘storia’, breve, ma già assai travagliata, delle fattispecie-guida, in questo campo, quella di « frode agli interessi finanziari della Comunità », nelle versioni via via proposte a livello di normazione comunitaria. Dalla lettura successiva dei vari testi della Convenzione PIF e dello stesso Corpus Juris emerge chiaramente la sopra descritta ‘rincorsa’ verso il pericolo astratto, con puntuali ricadute in tema di funzionalità residua del tentativo. In principium era il sistema concepito nella « Proposta di atto del consiglio dell’UE relativo alla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità » (56), ove, all’art. 1, si costruiva un tipo delittuoso di frode — dolosa o colposa — fondato sull’ equiparazione tra lesione e messa in pericolo del bilancio comunitario; ed il successivo art. 2 ad abundantiam ribadiva anche ai fini della dosimetria commisurativa tale equiparazione tra fatto consumato e tentato. L’omologa disposizione della Convenzione PIF sembra invece più rispettosa del paradigma ‘classico’ delle ‘tipicità differenziate’: è ben vero che l’art. 1 di questo testo formalizza l’assoluta parificazione tra condotte attive e condotte omissive (ecco una conferma ulteriore, ‘trovata sul cammino’ della presente ricerca, di quanto osservato al punto precedente); al contempo, però, limita l’imputazione della responsabilità alla sola forma del dolo (sia pure legittimandolo, con inconsueta schiettezza legislativa, ad assumere già iussu principis la forma del « dolus in re ipsa », senza dover attendere il comunque scontato sviluppo in questa direzione della prassi applicativa) — ma, soprattutto, richiede l’effettiva lesione del bi(55) Per un ripensamento originale, in merito, v. ora GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, 2000. Per una rapida panoramica sui differenti modelli europei di punibilità del tentativo, v. CANCIO MELIO, Consideraciones sobre una regulaciòn comùn europea de la tentativa, relazione al convegno « Prolegomena zu einem Europäischen Modellstrafgesetzbuch » (Freiburg im Br. 2-5-1998) (dattiloscritto). (56) Mi riferisco alla proposte formulate il 7 luglio 1994 dalla Commissione CE per un regolamento e una convenzione, che come è noto sono state parzialmente recepite per l’elaborazione del reg. 2988\95 e della Conv. PIF. I testi sono pubblicati in Riv. trim. dir. pen. ec. 1995 p. 527; per un commento di questi testi v. VOGEL, Frode ai danni degli interessi finanziari delle CE, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995 p. 601 s.
— 485 — lancio comunitario, configurando la fattispecie come reato d’evento, e demandando alle singole discipline degli Stati membri la puntuale disciplina del tentativo. Dal canto suo, il Corpus Juris, allegando l’inefficacia del modello di fattispecie elaborato dalla Convenzione PIF, propone la configurazione di un Tatbestand modellato come illecito di pericolo, soggettivamente connotato, in alternativa, dal dolo o dalla colpa grave (Leichtfertigkeit), e strutturalmente riconducibile al paradigma del reato di obbligo. Sul punto, particolarmente illuminante è il commento all’art.1, ove, a sostegno di questa scelta, viene esplicitato che il Tatbestand di frode disegnato nella Convenzione PIF presentava gli « incovenienti » di essere un reato di evento, e quindi di sovrapporsi pedissequamente alle discipline nazionali di truffa — evidentemente mutuandone l’ineffettività ‘per eccesso’ (per surplus, cioè, di elementi oggettivi del tipo); di venire, altresì, quanto ad imputazione, « limitato al caso del dolo » (57) — mutuando così, dei modelli nazionali, l’ineffettività ‘per difetto’ (per deficit, cioè, di elementi soggettivi del tipo). Non sorprende, a questo punto, che nella « Parte Generale » di questa versione originaria del Corpus Juris sia contemplata la « forma di manifestazione » della partecipazione, ma non vi sia traccia della disciplina del tentativo (58).
II.1.2.1. Conclusione provvisoria In definitiva, in relazione ai contenuti, mi pare che trovi qui conferma un postulato generale — storicamente convalidato — della genetica dei sistemi, che stabilisce una correlazione biunivoca fra l’oggetto disciplinato ed il modo della disciplina: nel senso che dogmi, costruzioni ermeneutico-sistematiche, istituti e criteri di imputazione sono sempre, almeno (57) Così, quasi testualmente, sub art. 1 del Corpus Juris, in Verso uno spazio giudiziario europeo (nota 1), p. 55; sicuramente degno di nota è il fatto che la validità di queste opzioni venga fatta discendere direttamente dalle Raccomandazioni formulate a seguito dello studio comparato sulle sanzioni penali e amministrative negli Stati membri della CE. (58) Tale mancanza, da alcuni commentatori è stata interpretata come richiamo implicito, passando attraverso l’art. 35, alle discipline nazionali del tentativo (in questo senso, v. ad es. SGUBBI, Principio di legalità e singole incriminazioni, in Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea (nota 2), p. 154; GRASSO, Il Corpus Juris e le prospettive di formazione di un diritto penale dell’Unione europea, Prefazione a Verso uno spazio giudiziario europeo (nota 1), p. 26); resta però anche in questo caso confermata la ritenuta marginalità dell’istituto del tentativo in una « Parte Generale », non più nazionale, ma unitarioeuropea. Non mi fa, d’altra parte, cambiare idea, circa il significato di questi dati normativi, il recente inserimento, nella versione ultima del « Corpus Juris », di una nuova norma (l’art. 11-bis), che ‘introduce’ nella « Parte Generale » il tentativo, disciplinandolo in modo ‘classicheggiante’, secondo una compromissoria formula di matrice franco-tedesca (basata sia sul « commencement d’esecution », sia sulla « Verwirklichung (...) nach seiner Vorstellung. ») (« A person is guilty of an attempt if, with intent to commit an offence under articles 1 to 7, he does an act which is a beginning of the commission of the offence »). Lo scarso sforzo immaginativo profuso in quest’occasione, e, soprattutto, la costanza del riferimento, anche in questa versione aggiornata, ad un novero di fattispecie « di parte speciale » tutte indistintamente ancorate alla soglia del pericolo, mi fanno ritenere tale disposto niente più che un obiter dictum, motivato da bisogno psicologico di ‘completezza sistematica’, più che da reali esigenze di praticabilità della jurisdictio unitario-europea.
— 486 — geneticamente, funzione delle specifiche fattispecie, frutto del processo di giuridicizzazione (Verrechtlichung) dei fenomeni sociali di volta in volta coinvolti dalla Verrechtlichung stessa (59) — sono quindi, in ultima analisi, funzione delle dinamiche sociali (conflittuali) sottostanti. È vero che — a ben vedere — nel caso di specie, proprio per il particolare modus operandi, di natura apicale, che è giocoforza adottare, si sarebbe di fronte ad una codificazione di secondo grado (o « codificazione di codificazioni »), sfornita quindi del normale back-ground antropologico-culturale proprio delle codificazioni di primo grado — vale a dire, la diretta rielaborazione, ‘per formalizzazione’, dei conflitti interpersonali promananti dalla comunità (60). Ciò emerge bene sotto un duplice profilo. In primis, sotto il profilo tecnico-strutturale: con attenzione all’attuale fase progettuale, è forte la tentazione, segnatamente per quanto riguarda la « Parte Generale », di creare un codice penale, non ‘per astrazione’ categoriale dai singoli ‘tipi conflittuali’, espressivi delle dinamiche sociali, ma ‘per omologazione’ di modelli normativi pre-formalizzati (questi, sì, ‘per astrazione’, ma da ‘tipi conflittuali’ alieni rispetto al soggetto politico-istituzionale ‘Unione europea’); modelli normativi, nella specie rappresentati dalle « parti generali » dei singoli codici nazionali. Ma anche sotto il profilo genetico, una ‘codificazione’ di questo tipo rischia di rivelarsi un’elaborazione, per un verso ‘esponenziale’ (come ‘astrazione da astrazioni’, sintesi categoriale, non di species, bensì di genera), per altro verso artificiale (perché creata ‘a tavolino’, su base esclusivamente concettualistica, senza la mediazione delle dinamiche sociali produttive, e, al contempo, selezionatrici dei conflitti meritevoli di formalizzazione penalistica). Il rischio è più reale che teorico. Nel caso che ci riguarda, una ‘collettività di collettività’ esprime bisogni di tutela che le sono propri come ente esponenziale: ma, diversamente dallo Stato, quando fomenta bisogni di pena ‘propri’, attraverso la protezione formalizzata di beni giuridici ’istituzionali’, l’Unione Europea non canalizza bisogni sociali direttamente provenienti dalla comunità (dalle (59) Cfr, LUHMANN, Ausdifferenzierung des Rechts, Frankfurt am Main, 1999, spec. p. 419 ss. In generale, sui processi di Verrechtlichung, ancora denso di cognizioni è il collettaneo VOIGT (a cura di), Gegentendenzen zur Verrechtlichung — Jahrbuch für Rechtssoziologie und Rechtstheorie, Band 9, 1983; per un’acuta valorizzazione penalistica di questa prospettiva, v. NAUCKE, Die Wechselwirkung Zwischen Strafziel und Verbrechensbegriff, Wiesbaden, 1985, p. 1805. (60) In proposito, mi sia consentito il rinvio al mio Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p. 850 ss. Al riguardo è d’obbligo il riferimento ad alcuni lavori di HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, Frankfurt am Main, 1980, p. 132 ss.; Strafrechtsdogmatik und Kriminalpolitik, Reinbek bei Hamburg, 1974, p. 123 ss.; Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, München, 1981, p. 26 ss.
— 487 — singole comunità), ma opera in modo totalmente autoreferenziale, ‘autoproteggendosi’ (o, se si preferisce, proteggendo strumentalmente la funzionalità di un ente artificiale, perché privo di substrato sociale). L’Unione, infatti, solo metaforicamente è la sintesi delle comunità dei singoli Stati membri: sintesi, viceversa, allo stato, impossibile sia per la permanente autocrazia, sotto il profilo politico-istituzionale, degli Stati stessi, sia per l’eterogeneità culturale, sociale e antropologica delle singole comunità ‘sottostanti’. Dal punto di vista sistemico, essa rappresenta soltanto un macroscopico meccanismo tecnico — detto nel lessico della ‘Rechtsgutslehre’: una ‘(macro)unità di funzioni’ — per il controllo e lo sviluppo del mercato (latamente inteso) comunitario, il quale, a sua volta, non è il frutto di dinamiche sociali reali, ma il prodotto artificiale (basato su decisioni politiche apicali) della mediazione, non fra i diversi interessi, ma fra i diversi (e sperequati) poteri economici dalle singole unità politico-statuali. Siamo dunque di fronte a due paradigmi diversi, e in un certo senso antitetici del controllo sociale: (α) un modello esistenziale di controllo sociale versus (β) un modello strumentale di controllo sociale (αα) Il primo paradigma, tipico di tutti i sistemi penali ‘tradizionali’, è funzionale a garantire le condizioni (ab origine, ‘minime’, ora ‘minime e massime’) di esistenza e di sviluppo esistenziale di una comunità socialmente riconoscibile come tale (dal ‘600 in poi, le comunità degli Stati nazionali). (bb) Il secondo paradigma, che si progetta ora di ‘codificare’, è finalizzato invece — per il momento, almeno — a garantire il funzionamento di uno strumento tecnocratico esclusivamente deputato al controllo e al governo di una determinata cerchia di rapporti internazionali (nella specie, economici); ogni dimensione sociale di controllo, ovvero di rielaborazione sociale della conflittualità è strutturalmente assente da questo paradigma. Tutto ciò — sia detto a mo’ di (micro)-excursus — comporta un problema, più generale e complessivo, di legittimazione della legislazione penale unitario-europea, rispetto al quale lo sfruttatissimo argomento del deficit di democraticità (61) rappresenta solo un aspetto: direi, marginale, di ricaduta consequenziale. Il vero problema è quello del deficit di consenso sociale, (per lo meno, di un consenso controllabile) alle singole scelte di criminalizzazione ‘a dimensione europea’; ovvero, vista in altra luce (in prospettiva di sintesi), la questione è quella del con(61) V., in merito, per una serrata critica al topos, RIONDATO, Competenza penale della Comunità europea (nota 6), p. 210 ss.; inoltre, GRASSO (nota 2), p. 3; PRADEL-CORSTENS, Droit pénal européen, Parigi, 1999, p. 405 ss.
— 488 — senso-legittimazione (62) di cui può ragionevolmente godere l’unità astratta di funzioni ‘mercato unitario’ a divenire oggetto di tutela penale.
Quest’ultimo, però, è un altro discorso. Nella prospettiva metodologica in cui mi sto ponendo, una volta accettata l’ipotesi che l’immaginaria comunità rappresentata dall’‘Europa dei bottegai’ sia assimilabile ad una qualsiasi comunità fomentatrice di una naturale antropogenesi del diritto (segnatamente, di diritto penale), proprio il formalismo strutturale che, in generale, caratterizza il diritto in quanto sistema autopoietico (63), consente di estendere l’ipotesi genetica da cui ho preso le mosse (v. retro, II.1.1.1.) anche a questo ‘nuovo’ sistema, ‘doppiamente autopoietico’ (a ben vedere, un esempio paradigmatico di ‘ipercircolo autoreferenziale’ (64), in cui una serie di sistemi autopoietici ‘trae dal suo interno’ gli elementi per un sistema ‘nuovo’, che si autocrea per partenogenesi). Riformulo pertanto la mia proposta, che in quest’ottica sposa metodo e contenuti, prendendo programmaticamente le distanze da qualsiasi ideazione concettualistica, che elabori una Begriffsjurisprudenz modulata sull’assemblaggio materiale di prodotti già di sintesi (i ‘canoni’ delle diverse « Parti Generali » nazionali) per seguire le cadenze di una Interessenjurisprudenz (65) (sia pure anch’essa a suo modo, inevitabilmente, ’artificiale’) che sviluppi in vitro un processo di sintesi nuovo, e che però abbia come basi i paradigmi conflittuali ed i ‘conflitti di interessi’ già manifestatisi come fenomeni sociali (con carattere di omogeneità) nello spazio giuridico ‘comune’ europeo (a prescindere dal fatto che tali conflitti siano già stati, o meno, giuridicamente formalizzati). Conclusivamente — echeggiando la teratogenia di miti più moderni -: la mia proposta va nel senso di seguire l’artistico modus operandi di « León Giuda, rabbino in Praga », che per forgiare il golem simulò l’azione plasmatrice del primo Creatore nella cosmogonia originaria, piuttosto che il macabro proceeding del demiurgo shelleyano, che creò Frankenstein per ‘assemblaggio’ di membra esauste. *** * Il discorso che precede ha una serie di ricadute, che a mio avviso portano a scelte obbligate, nel momento della costruzione del sistema. (62) PALIERO (nota 60), p. 904 ss. (63) TEUBNER, Recht als autopoietisches System, Frankfurt am Main, 1989 (trad. it.) Il diritto come sistema autopoietico, Milano, 1996, passim. (64) Ibidem, p. 36 s. (65) Su questi diversi paradigmi, sotto il profilo storico-metodologico, è indimenticabile la lezione di un penalista: cfr. PORZIO, Formalismo ed antiformalismo nello sviluppo della metodologia giuridica moderna, in Bollettino della Biblioteca degli Istituti Giuridici dell’Università di Napoli, Anno VII (1961), p. 254 ss. e Anno VIII (1962), p. 203 ss.
— 489 — Innanzitutto, certo, l’opzione quoad materiam, che impinge esaustivamente l’economia ed i suoi meccanismi di funzionamento ‘comuni’, modifica inevitabilmente — lo si è ben visto — la geografia delle fonti, e la gerarchia tipologica che le governa. Soprattutto, però, tale opzione reca come deriva tecniche di costruzione delle fattispecie (dei ‘tipi conflittuali’) tradizionalmente ‘eterodosse’ per il penalista ‘classico’, le quali, purtuttavia, in questo settore tendono a passare da recessive a dominanti: è una deriva, con cui occorre comunque fare, realisticamente, i conti, allorché si selezionino le ‘basi’ per la ‘produzione di sintesi’ che si suggerisce qui di avviare. Analogamente, lo schema della responsabilità, ai nostri fini, dovrà essere costruito partendo dai ‘margini’ — e non più dai nuclei concettuali ‘centrali’ — della dommatica del reato; seguendo di conserva gli inputs che vengono dalla fenomenologia concreta dei comportamenti « criminologicamente rilevanti »: nel settore di riferimento, atteggiati anch’essi in guisa ‘eterodossa’, rispetto ai canoni del classicismo penale, essenzialmente sotto il profilo strutturale. Con immediate, importanti ricadute sulla paradigmatica, sia della ‘forma di realizzazione’ dell’illecito monosoggettiva, sia della ‘forma di realizzazione’ dell’illecito plurisoggettiva. Ed anche qui, le implicazioni di ordine strutturale, nella configurazione di una « Parte Generale » costruita su tali basi, sono importanti. Basti pensare ad un paio di esempi di straordinario valore storico, ai nostri fini: solo implicazioni di natura strutturale hanno potuto indurre il legislatore italiano, sia pure « di parte speciale », a infrangere il tabù — tutto nostro — della responsabilità penale della persona giuridica: e ciò è avvenuto nel settore ‘avanzato’, sul fronte della globalizzazione dei mercati, rappresentato dalla telediffusione (66). Solo argomenti di natura strutturale hanno potuto, altresì, convincere il legislatore tedesco, così tabuisticamente affezionato al ‘sistema differenziato’ di partecipazione (67), ad adottare la soluzione della ‘Einheitstäterschaft’ per la Allgemeiner Teil delle Ordnungswidrigkeiten: guarda caso, proprio il settore punitivo ora destinato a rappresentare una delle ‘matrici storiche’ del diritto sanzionatorio unitario-europeo (anche se gli estensori del Corpus Juris non hanno poi ritenuto di tenerne conto, a mio avviso erroneamente, in sede di elaborazione del loro modello). II.I.3.
Cambio di paradigma: diritto penale « delle mani pulite » versus diritto penale « delle mani sporche »
La prospettiva che abbiamo tracciato dovrebbe rappresentare la via maestra per individuare quei principi e quelle regole « di parte generale », (66) Cfr., sul punto, PALIERO, Problemi e prospettive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 1190. (67) Ampiamente, in argomento, SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, p. 102 ss. e p. 156 ss.
— 490 — « che, per così dire, costituiscono il ‘nocciolo duro’, rappresentandone i fondamenti, del diritto penale del moderno Stato di diritto, eppertanto sono suscettibili di consenso e di omologazione in tutta la sfera giuridica europea » (68).
L’esito, dunque, è quello di un diritto penale « delle mani pulite », modellato sulla criminalità dei colletti bianchi. Del resto, l’esperienza italiana della lotta alla corruzione politico-economica — appunto non a caso ribattezzata, dall’immaginario collettivo, « Mani pulite » — ha lasciato questo insegnamento: si può combattere efficacemente siffatto criminoso intreccio di interessi, soprattutto economici, attraverso un diritto penale fondato su un numero ristretto di fattispecie, da redigere ricorrendo ad una più raffinata tipicizzazione. Non deve però venire meno la solida griglia di principi dogmatico-ermeneutici che soltanto una « Parte Generale » liberaldemocratica può garantire anche sul piano processuale (69). Se questo è un punto fermo, è però anche possibile pensare, nella composita realtà degli attuali sistemi di controllo sociale, ad un cambio di paradigma, di incalcolabili conseguenze, che si apra anche a diverse e ulteriori esigenze di difesa sociale. Una svolta di questo genere è contenuta, in nuce, nello stesso Corpus Juris, laddove inserisce, a chiusura del novero dei suoi ‘Grundtypen’ delittuosi (art. 8), l’autonoma fattispecie della « Association de malfaiteurs — Conspirancy ». La tipicità di questa figura associativa è limitata alla realizzazione — come delitti-fine — dei soli reati ‘economici’ in senso stretto, contemplati dai sette articoli precedenti: ma inevitabilmente la previsione di questa fattispecie rimanda ad un paradigma criminologico-giuspenalistico che corrisponde, in Italia, ad un intero capitolo — di genere tragico — della storia sociale (ed economica) del Paese, in Germania al topos letterario della ‘O.K.’ (Organisierte Kriminalität). L’esistenza di questo potenziale « punto di passaggio » è confermato dal fatto che tra i Grundtypen del Corpus Juris è compreso il riciclaggio, che sotto il profilo criminologico notoriamente rappresenta il giunto cardanico che collega la « criminalità del colletto bianco » in senso stretto e l’attività tipica delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, garantendo il perfetto funzionamento di un meccanismo antagonistico di produzione del potere economico. Della valenza ideologica ed — in parte — mistificatoria assunta in Europa dal topos ‘O.K.’, la dottrina è ormai consapevole, nei Paesi sia latini che di lingua tedesca (70). Ma è un dato di fatto — confermato dall’esperienza italiana di lotta alla mafia — che il trattamento penalistico delle attuali forme di criminalità organizzata dà vita a un sistema « di doppio binario », attraverso il quale ad un tradizionale diritto penale dei principi, delle categorie e delle garanzie si affianca un diritto penale della prevenzione e della pura difesa sociale. Su questo ‘secondo binario’ le scorciatoie processuali si sostituiscono ai fondamenti materiali di accerta(68) TIEDEMANN, Grunderfordnisse des Allgemeinen Teils fürein europäisches Sanktionenrecht — Generalbericht, in ZStW 110 (1998), p. 498. (69) PULITANÒ, La Giustizia penale alla prova del fuoco, in questa Rivista, 1997, p. 3 ss. (70) V., anche per ulteriori citazioni sul dibattito, LÜDERSSEN, Polizei zwischen Effizienzerfordernissen und rechtsstaatlichen Kontrollbedürfnissen, in Abschaffen des Strafens?, Frankfurt am Main, 1995, p. 343 ss.
— 491 — mento della responsabilità; V-Mann, charge-bargaining per i ‘pentiti’, intercettazioni ambientali e misure preventive fondate su presunzioni di colpevolezza sono i veri cardini di questo sistema, idonei ad assicurargli effettività. In questo secondo sistema, che si può definire come un « diritto penale delle mani sporche », tutto si decide comunque sul terreno della strategia processuale, se non della tattica poliziesca. Rispetto ad esso, una « Parte Generale » unitarioeuropea modellata sui paradigmi garantistico-categoriali consegnatici dalla tradizione codicistica, più che disarmonica, appare superflua. Sotto tale profilo, la recente evoluzione della politica criminale europea nella lotta alla criminalità organizzata manda dei segnali assai poco rassicuranti. In effetti è ormai risaputo che, a fronte di una zoppicante cooperazione giudiziaria, il processo di integrazione tra le polizie europee cammina per converso a passo di marcia (71), sopravanzando di slancio, non solo la cooperazione giudiziaria, ma, più in generale, l’integrazione politica tra gli Stati membri. A conferma di quest’ultimo concetto, faccio solo due constatazioni: (a) l’unica Convenzione che per ora è stata ratificata, del novero degli strumenti del terzo pilastro è — non a caso — la Convenzione EUROPOL; (b) le modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam in materia di cooperazione di polizia, con il nuovo art. 30 TUE, sono il corollario di questo primo successo, che diventa poi eclatante se raffrontato con l’inserimento degli obiettivi di cui al successivo art. 31 TUE, in punto di cooperazione giudiziaria.
Le reazioni a tale situazione si polarizzano nella — per altro comprensibilissima — domanda di introduzione di adeguati strumenti di controllo giudiziario su di un’attività di polizia dal raggio d’azione tanto vasto, e, per certi versi, incontrollabile (72). È allora facile immaginare che, in presenza di un sistema organico — ancorché ‘sincopato’, o ‘parziale quoad materiam’ — di « diritto penale unificato », tale domanda si traduca nella formalizzata immissione di quelle competenze — e delle correlate attività investigative — nelle capaci anse giuspenalistiche di un contenitore ’nobile’ di simile portata. Si profila dunque, sotto questo aspetto, un rischio molto concreto per il codificatore europeo: una « Parte Generale » che muova i suoi primi passi sorreggendosi su strutture tipologiche che abbraccino anche l’‘Haupttatbestand’ della criminalità organizzata rischia di inquinare, compromettendolo, il resto delle funzioni — ripeto, in primis garantistico-categoriali — che vanno assegnate, nell’attuale conteso storico, al « diritto penale unificato »; anche perché a pochi altri settori, come a questo, è così ben applicabile il principio economico, secondo il quale la moneta cattiva scaccia quella buona. Un simile, eventuale, ampliamento di pro(71) V. PARISI-RINOLDI, Giustizia e affari interni nell’Unione Europea, Torino 1998 (ristampa con appendice di aggiornamento): in particolare, i contributi di SALAZAR, La cooperazione giudiziaria in materia penale, p. 133 s. e PASTORE, La cooperazione tra autorità di polizia: Schengen e Unione Europea a confronto, p. 179 e relative appendici di aggiornamento; inoltre, SALAZAR, La lotta alla criminalità organizzata da Maastricht a Amsterdam, in Doc. giust., 1999, 391 ss.; MASSÈ, Droit pénal international, chroniques, notes brèves sur la rencontre de deux expressions: crime organisé et éspace judiciarie européen, in Rev. sc. crim. dr. pen. comp., 2000, p. 469 ss. (72) Cfr., in questo senso, tra gli altri, PASTORE (nota 71), p. 226; MARTENS, Conclusions, in TULKENS-BOSLY (a cura di), La justice pénale et l’Europe, Bruxelles, 1996, p. 529.
— 492 — spettiva non si colloca infatti nella dimensione, pur allargata — rispetto al diritto penale ‘classico’ —, del ‘diritto sanzionatorio’ di cui stiamo qui ragionando, e che si fonda sulle garanzie del « nullum crimen » e sulle regole del due process, ma si ambienta semmai nel clima di un ‘Interventionsrecht’ della prevenzione e della pura difesa sociale (73), che pertanto non ha bisogno di garanzie, di principi e di categorie ‘forti’.
II.2.
La ‘prospettiva speciale’
II.2.1. La « costruzione unitaria » dalla visuale dell’ordinamento italiano Alla luce delle prospettive e dei problemi individuati a livello generale, posso ora scendere nel particolare, per cercare di immaginare, a fronte della ‘circolazione dei modelli’ attualmente in atto nell’esperienza comparatistica, per l’area giuridica che ci interessa, quali siano i modelli nazionali che, ciascuno per parte sua, forniscano il miglior materiale per fabbricare le singole componenti del ‘nuovo’ sistema. Riprendendo la metafora del golem: si tratta di individuare quali siano, di volta in volta, i terreni da cui il ‘miglior fabbro’ (l’’Ezra Pound’ dei codificatori ‘di secondo grado’) possa trarre la ‘migliore argilla’ per dar forma all’homunculus, nelle sue diverse membra. Correggo, con maggior modestia, il tiro: passerò ora ad indicare le specificità che, segnatamente nel sistema nazionale italiano, la codificazione unitario-europea può ravvisare come significative — come dirò subito, sia « nel bene » che « nel male » — ai fini dell’edificazione comune. Con l’ovvia avvertenza, che l’economia del presente lavoro — essenzialmente di taglio programmatico-metodologico — non consente, su questi aspetti, che una trattazione cursoria e rapsodica, per ‘spunti di riflessione’, da consegnare a successivi approfondimenti. II.2.2. « Punti di forza » e « punti deboli » nella costruzione unitaria Nella prospettiva di offrire un proprio contributo alla costruzione di un diritto penale europeo, ogni sistema mostra inevitabilmente « punti di forza » e « punti deboli », che vanno individuati e saggiati. Dalla visuale offerta dal sistema italiano, quest’analisi va condotta muovendo da alcune indicazioni di fondo, relative all’evoluzione sistematico-strutturale dell’ordinamento, che è rimasto forse l’unico, in Europa, a non aver subìto una riforma radicale nel dopoguerra. II.2.2.1.
Excursus: l’orientamento del sistema (italiano) nelle sue regole di diritto materiale
Se si ha riguardo ai principi ed alle regole, tanto di validità, quanto di imputazione del (73) Criticamente, su questa prospettiva, ‘lanciata’ negli anni ’90 dalla ‘Scuola di Francoforte’, v. da ultimo MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale minimo e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 808 s.
— 493 — paradigma di responsabilità penale, il sistema italiano è orientato, analogamente al sistema tedesco, in senso filosofico-dommatico. La « Parte Generale » del codice penale del ‘30 può essere definita come la pura positivizzazione di una concezione dommatica consolidata e dominante all’epoca. Una concezione, che ha avuto i suoi maestri in Manzini, Massari ed Arturo Rocco: dal punto di vista strettamente dommatico, tale concezione non era dissimile dalla teoria « classica » del reato che in Germania aveva avuto in Beling, Binding e von Liszt i primi, autorevoli creatori. Su questo modello di base è intervenuta, nell’epoca repubblicana, da parte della Corte Costituzionale, una significativa opera di adeguamento alla Costituzione liberaldemocratica (propria dello Stato sociale di diritto), dei requisiti fondamentali di una « Parte Generale » ereditata dal diritto penale autoritario (proprio dello Stato monarchico-fascista). In definitiva, l’ordinamento italiano, diversamente da quello inglese ma anche da quello francese (a orientamento pragmatico-positivistico) è orientato in senso dommatico-costituzionalistico (74). Questo significa che, attraverso le decisioni della Corte Costituzionale, la Carta dei Diritti è direttamente intervenuta a rimodellare parti importanti del sistema dei principi garantistici, nonché delle regole di validità e di imputazione delle responsabilità. In particolare, risultano ora interamente modellati alla luce della Costituzione il sistema delle fonti e, in buona parte, i criteri di imputazione della responsabilità; il più significativo intervento è stato però direttamente portato sul tessuto normativo del codice, riformulando completamente, con la disciplina dell’errore, il paradigma della colpevolezza. In questo contesto, gli interventi costituzionalmente orientati — in particolare, attraverso la costruzione della colpevolezza come categoria autonoma — hanno completato la base sistematica della « Parte Generale », consolidando, non solo nella ‘law in book’ dei dommatici italiani, ma nella ‘law in action’ dei tribunali una tripartizione molto rigorosa tra fatto, antigiuridicità e colpevolezza (75).
Tutto ciò, nella prospettiva dell’unificazione, assume una notevole importanza sotto un duplice profilo. (a) Con riguardo alle scriminanti, e specialmente ai c.d. ‘Not’- e ‘Konfliktrechte’ (cioè le situazioni di conflittualità interpersonali, o di conflitto di doveri, tradizionalmente coperte dallo spettro delle esimenti « legittima difesa » e « stato di necessità ») (76). La chiara individuazione dell’antigiuridicità come categoria autonoma e criterio di verifica, alla luce dell’intero ordinamento, della tipicità penale, con la conseguente identificazione delle scriminanti come norme non penali — provenienti pertanto da qualunque ramo del diritto, interno e internazionale (77) — facilitano l’unificazione. Si pensi, infatti, che in questo modo si supera il problema della specificità penale dell’antigiuridicità, che ha come conseguenza la mera valenza ‘interna’ delle cause di giustificazione, nonché la loro eccessiva facilità a tradursi in, o ad essere confuse con, le scusanti, anch’esse — e par exellance — le(74) Pionieristici, in questo senso, gli studi di BRICOLA, Teoria generale del reato (voce), in Noviss. Dig. it., XIX, 1973, p. 7 s.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974; SPASARI, Diritto penale e costituzione, Milano, 1966; GROSSO, Responsabilità penale (voce), in Noviss. Dig. it., XV, 1968, p. 707. (75) MARINUCCI-DOLCINI (nota 35), p. 311 ss. e p. 467 ss. (76) Ha approfondito in particolare questi aspetti lo studio di DANNECKER, Der Allgemeine Teil eines europäischen Strafrechts als Herausforderung für die Strafrechtswissenschaft, in Festschrift Hirsch, Berlin-New York, 1999, p. 143 ss. (77) MARINUCCI, Antigiuridicità (voce), in Dig. disc. pen., 1987, p. 173 ss.; IDEM, Cause di giustificazione (voce), in Dig. disc. pen., 1988, p. 132 ss.
— 494 — gate a valutazioni contingenti, frutto del « clima dei valori » etico-nazionale (si pensi alla « causa d’onore » negli ordinamenti latini!). La separazione delle scriminanti dalla legge penale in senso stretto in primo luogo garantisce la massima oggettivizzazione dei conflitti che esse rappresentano (78) e, in secondo luogo, può fungere da limite del penalmente punibile in tutto lo spazio giuridico europeo.
(b) Con riguardo alla colpevolezza. In Italia, il Tatbestand rappresenta la « pietra angolare » del sistema e consente di separare nettamente la valutazione oggettiva (antigiuridicità) dalla valutazione soggettiva (colpevolezza) dell’illecito (Unrecht) (79). Ne deriva, a livello europeo, che le rationes della punibilità restino ancorate a regole e fondamenti sostanziali, e non a meri meccanismi processuali. Si delinea così un nucleo di conflitti di interesse in assoluto idonei ad escludere la punibilità del fatto, per il carattere ‘universale’ della ratio sottostante (bilanciamento di interessi, interesse mancante, etc.). Accanto a tale nucleo, vi è un’area più variegata di conflitti, che sono caratterizzati soggettivamente; qui la punibilità è condizionata a verifiche collegate essenzialmente al giudizio di riprovevolezza e quindi, almeno in parte, al « clima di valori » e delle esigenze general/special preventive che caratterizzano una determinata sfera giuridica. Questa distinzione favorisce un’armonizzazione ‘graduale’: dal « più facile » (perché universale) al « più difficile » (perché in qualche misura specifico). Sotto questo profilo appare più complicato gestire un sistema come quello di common-law — segnatamente, nordamericano — che nella categoria delle « defences » comprende, assieme a classiche scriminanti come la self-defence, scusanti come l’errore e cause processuali di improcedibilità, come l’alibi e l’entrapement. In questo caso, infatti, si finisce con il proiettare l’intera problematica nella dimensione processuale, che è sempre ‘immanente’ ad un determinato sistema. Trovo conferma di quest’ordine di idee con riguardo al problema cruciale dello stato di necessità. Diversamente dal sistema tedesco, l’ordinamento italiano conosce soltanto uno stato di necessità-scriminante (art. 54 cod. pen.), costruito su base rigorosamente oggettiva e comunque limitato ai beni vitali e personalissimi (80). Nella sfera di interessi che abbiamo visto privilegiati da fattispecie orientate su di un « Parte Generale » unitario-europea, di particolare rilevanza può essere il bilanciamento con beni economici, e a fronte di un pericolo di natura patrimoniale (ad es., il rischio di fallimento dell’impresa) — interessi che invece di regola esorbitano dallo spettro classico dello stato di necessità-scriminante nei sistemi nazionali. La chiara distinzione dei due versanti dell’‘Unrecht’ (81) consentirebbe di trovare subito un consenso generale — sul versante oggettivo dell’illecito — intorno allo stato di neces(78) Valorizza specialmente l’origine ‘conflittuale’ delle scriminanti, e la loro ‘sensibilizzazione’ alle dinamiche sociali, ROXIN, Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi dell’illecito penale, trad. it., Napoli, 1996, p. 43 s. (79) Insuperato, in argomento, il saggio di MARINUCCI, Fatto e scriminanti: note dogmatiche e politico criminali, in MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 177 ss. Da ultimo, sul punto, DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 108. (80) Di recente, per la valorizzazione della natura ‘soggettiva’ dello stato di necessità sul particolare versante del ‘conflitto di doveri’, v. peraltro il denso contributo di VIGANÒ, Stato di necessità e conflitto di doveri, Milano, 2000. (81) Il riferimento è ancora a DONINI, (nota 78), p. 207 (ma v. anche la osservazioni a p. 365). Un quadro dei confini tra i profili oggettivi della illiceità e quelli soggettivi della colpevolezza è proposto da GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 194 ss. (in part. p. 286).
— 495 — sità-scriminante, limitato al suo ‘nocciolo duro’ orientato sui ‘beni personalissimi’, e di individuare per converso — sul versante soggettivo dell’illecito — una serie di elementi tipizzanti, orientati sulle singole figure di reato economico — e dunque su requisiti di « danno », « costrizione » e « pericolo » di natura patrimoniale — idonei a fondare una causa di esclusione della colpevolezza, id est una figura di stato di necessità-scusante, che più facilmente si adatti allo specifico tipo di conflitti che qui vengono in considerazione.
II.2.3. I « punti di forza » del sistema L’evoluzione del sistema italiano offre anzitutto all’interprete la considerazione di alcuni punti di forza per la costruzione della « Parte Generale » del « diritto penale comune » europeo, quantomeno per il settore della criminalità economica. Sinteticamente richiamati, essi riguardano: (a) il sistema della fonti ed il principio di legalità; (b) la disciplina dell’errore; (c) i limiti legali della punibilità. (aa) Con riguardo al principio di legalità, l’assetto codicistico modificato dall’orientamento costituzionale, cui si è affiancata la « legge-quadro » sull’illecito amministrativo (l. 24 novembre 1981, n. 689), ha costruito una griglia di principi relativa all’intero diritto sanzionatorio (sia nella sua componente criminale, che penale-amministrativa). Su questo terreno c’è una connessione diretta con i « principi di diritto » (82) vigenti a livello convenzionale europeo (83), e con le regole d’interpretazione (divieto d’analogia, interpretazione restrittiva delle fattispecie). Sul versante delle fonti, con riguardo al diritto penale accessorio, prevale la concezione della « riserva tendenzialmente assoluta » (84): possibilità di integrazione (82) L’emersione di tali principi generali come è noto rappresenta uno dei punti nodali della costruzione Europea. Esso può essere considerato il frutto di un incessante « travaso osmotico » che si è determinato tra la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, l’Unione europea e i « principi costituzionali europei ». Tuttavia, nell’economia della mia indagine non mi sembra possibile addentrarmi in tale — pur centralissima — questione. Sul contenuto e sull’evoluzione di tale sistema di « principi di diritto », dalle sentenze della Corte di Giustizia alle attuali « consacrazioni legislative » contenute nel Trattato di Amsterdam, v. GRASSO (nota 6), p. 57 s.; RIONDATO, Competenza penale della Comunità europea (nota 6), p. 151 ss., 167 ss.; BERNARDI, « Principi di diritto » e diritto penale europeo, Annali dell’Università di Ferrara, Sez. V, vol. 2, 1988; MARI, Quelques réflexions sur la « mesure excessive » de la sanction pénale par rapport au droit communautaire, in Droit communautaire et droit pénal (Colloque du 25 octobre 1979), Milano-Bruxelles, 1981, p. 159 ss.; DARMON, La prise en compte des droits fondamentaux par la Cour de justice des Communautès européennes, in Vers un droit pénal communautaire?, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1995 p. 23 s.; SUDRE, La communauté européenne at les droits fondamentaux aprés le traité d’Amsterdam, in JCP, Le seimaine juridique, 7 janvier 1998, p. 9; SOULIER, le Traité d’Amsterdam et la coopération policière et judiciare en matière pénale, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1998, p. 239. (83) Sui contenuti fondamentali del principio di legalità in Europa, v., da ultimo, PALAZZO, La legalidad en la Europa de Amsterdam, in Revista penal, 1999, 3, p. 36 ss. (84) V. BRICOLA (nota 74), p. 42 s.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., 1995, sub art. 1, n. 21 s.; MARINUCCI-DOLCINI, (nota 35), p. 41 s.
— 496 — sublegislativa della fattispecie, autorizzata dalla legge formale e di contenuto esclusivamente tecnico. Essa offre un efficace contemperamento delle esigenze di assoluta legalità proprie del diritto penale nucleare con l’inevitabile ricorso a norme penali (parzialmente) in bianco preteso dal diritto penale accessorio. Qui davvero è solo la struttura del Tatbestand — e non l’arbitrio del legislatore — a decidere di volta in volta, sulla base delle insuperabili esigenze tecniche delle materie da disciplinare. Un aspetto controverso può essere soltanto quello collegato al criterio della lex mitior che, previsto dal codice del ‘30 per il diritto criminale stricto sensu, ma non contemplato come principio di garanzia dalla Costituzione del ‘47, non vale per il diritto penale amministrativo. Un’armonizzazione generale di questo aspetto del principio di legalità risulta problematica. Sotto il profilo politico-criminale, questa regola di garanzia — coerente con i « delitti naturali » — risulta controproducente rispetto ad un « diritto di creazione artificiale » e « di origine recente » (come tipicamente è il diritto sanzionatorio in materia economica), soprattutto se non collegato a gravi pene detentive. Resta inalterata, d’altro canto, la funzione di garanzia che il principio del ‘minimo mezzo’ — di cui la ‘lex mitior’ rappresenta un corollario — continua a giocare in ambiti di normazione restrittivi dei diritti individuali (85). In merito, elementi di novità, per lo scioglimento del dilemma, sembrano venire proprio ‘dall’interno’ della legislazione ab origine unitaria: il regolamento CE 2988/95 del 18 dicembre 1995 prevede — all’art. 2 co. 2o — un tipico meccanismo di lex mitior retroattiva. Circa l’impatto di un principio del genere sulla legislazione unitaria, la dottrina è per la verità divisa, ma sul fondamento, non sull’esito dell’interpretazione, che si orienta comunque in senso favorevole all’accoglimento generalizzato del principio. Da parte di taluno, infatti, si attribuisce alla disposizione regolamentare, sulla base della sua duplice natura, sanzionatoria-amministrativa e sovrastatuale, un’efficacia catalizzatrice, capace di armonizzare i sistemi nazionali su questo contenuto della garanzia del ‘rule of the law’ (86). Altri, invece, senza chiamare in soccorso la disposizione in questione, immagina senz’altro una « Parte Generale » europea che positivizzi il principio di retroattività in mitius, ricavandone la fonte, anche qui ‘dall’interno’ del sistema unitario, ma in apicibus, a livello dei massimi principi: si tratterebbe dell’espressione di un diritto fondamentale di valenza internazionale del cittadino (87). (85) PALIERO-TRAVI (nota 33), p 173 ss. (86) V. BERNARDI, (nota 40), p. 59 e nota 51-bis. (87) V. TIEDEMANN, Esigenze fondamentali della parte generale e proposte legislative per un diritto penale europeo, p. 6 del dattiloscritto.
— 497 — In ogni caso, sembra che in merito le ragioni della garanzia debbano prevalere sulle ragioni dell’effettività. (bb) In tema di errore, la fondamentale e « storica » sentenza costituzionale n. 364 del 1988 non ha solo riscritto una norma (l’art. 5 cod. pen.), ma ha anche riformulato interamente la disciplina dell’errore (88). Quest’ultima era imperniata sulla distinzione ottocentesca, ereditata dal sistema francese, basata sulla fonte dell’errore (error facti versus error juris); ora, la distinzione è formalmente rimasta, ma la disciplina si fonda sulla distinzione — caratteristica del sistema tedesco — collegata all’oggetto dell’errore (Verbotsirrtum versus Tatbestandsirrtum). In questo modo, all’interno della colpevolezza, come categoria multifattoriale, è stato recuperato l’« elemento tipico » della coscienza dell’illiceità, prima pressoché atrofica nella sistematica italiana. L’efficacia scusante dell’errore sul precetto ha così assunto proporzioni significative nell’ordinamento penale, soprattutto in relazione al diritto penale accessorio, e con ulteriori prospettive di sviluppo nel diritto sanzionatorio ampiamente inteso. Attraverso il canale conoscitivo orientato sul precetto — e favoriti in quest’operazione dalla particolare struttura delle fattispecie che allignano in tale settore (reati d’obbligo, Zuwiderhandlungsdelikte, ‘fattispecie in bianco’), nelle quali ‘fatto tipico’ e divieto penale tendono a sovrapporsi, sino alla perfetta coincidenza — i diversi sistemi hanno raggiunto risultati analoghi a quelli mirati dall’introduzione (da taluno in passato propugnata per il solo settore del diritto penale complementare) della soluzione ispirata alla Vorsatztheorie (versus la soluzione della Schuldtheorie, da mantenersi dominante nel diritto penale nucleare) (89). E, in definitiva: sotto questo profilo, i modelli tradizionali dell’area di lingua tedesca e le nuove conformazioni assunte dalla corrispondente disciplina dei Paesi latini (oltre all’Italia, penso al Portogallo, alla Francia e alla Spagna) confluiscono in uno schema omogeneo di disciplina (90), che può davvero rappresentare un « paradigma per l’Europa ». (cc) Con riguardo, infine, ai limiti della punibilità, il sistema ita(88) Per tutti, in proposito: PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti e orizzonti nuovi della colpevolezza, in questa Rivista 1988, p. 920 ss.; MUCCIARELLI, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte costituzionale 364/1988, in questa Rivista, 1996, p. 223 ss. Per una più ampia considerazione della problematica, v., da ultimo, BELFIORE, Contributo alla teoria dell’errore in diritto penale, Torino, 1997 (nello specifico, p. 91 ss.). (89) TIEDEMANN, Zur legislatorischen Behandlung des Verbotsirrtums im Ordnungswidrigkeiten— und Steuerstrafrecht, in ZStW 81 (1969), p. 869 ss. (90) Per una rapidissima panoramica in tema di errore sul precetto in Europa v. TIEDEMANN, Esigenze fondamentali della parte generale (nota 87), p. 7 s.; MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione », in questa Rivista, 1995, p. 805 e, da ultimo, ZAPATERO, El principio de culpabilidad y sus plasmaciones. Reflexiones y propuestas para la consrtucción de una normativa europea, in Revista penal, 1999, 3, p. 7 ss.
— 498 — liano è rimasto legato (come il sistema austriaco, e diversamente dal sistema tedesco) ad una concezione oggettivistica del reato, ancorata al criterio del bene giuridico. Essa emerge, in più punti, dal codice del ’30: nella disciplina, oggettivamente orientata, del tentativo, fondato sul requisito dell’« inizio idoneo di esecuzione »; nella norma che esclude la punibilità per il tentativo inidoneo (art. 49); nella regola che manda esente da pena l’istigazione non accolta o non seguita dalla commissione del reato (art. 115). Tale concezione di fondo è stata poi confermata e rafforzata dalla giustizia costituzionale, che ha sviluppato la concezione realistica del reato, basata sul principio di « materialità » dell’illecito, e sul criterio del bene giuridico. Tale concezione ha reso obbligata, nelle fattispecie di attentato, a dolo specifico e nei reati di pericolo presunto, l’interpretazione che introduce come requisito del tipo delittuoso l’idoneità obbiettiva della condotta a ledere il bene giuridico protetto (91). In relazione al problema dei limiti della puniblità, il paradigma oggettivistico sembra specialmente adatto alla prospettiva unitario-europea. Il diritto penale economico è per sua natura estraneo a concezioni soggettivistiche, caratterizzate da valutazioni etiche: diversamente da quelli propri del diritto penale nucleare, i comportamenti economici illegali non sono storicamente condizionati da un profondo disvalore etico — il solo che può in qualche modo legittimare una concezione soggettivistica — che tende a punire l’intenzione lesiva anche in assenza di una materiale messa in pericolo del bene giuridico. Come si è detto (retro, § II.1.2., c ), il diritto penale economico ricorre, per anticipare la tutela, alla tecnica del pericolo astratto: per il resto, una concezione oggettivistica in relazione ai limiti della punibilità sembra la più consona ad un modello ‘pragmatico’ di protezione degli interessi in gioco (92). Semmai, proprio la coerenza interna di un modello di tutela così concepito può suggerire l’introduzione, e la proficua sperimentazione in questo ambito — quoad materiam circoscritto — di una Bagatellklauseln (sul tipo previsto dallo Umweltschutzgesetz tedesco) (93) che limiti gli eccessi di un paradigma punitivo privilegiatamente imperniato sul pericolo astratto; ed anche in questo caso si tratterebbe di un (ulteriore) limite oggettivo della punibilità, orientato sul principio di offensività e sul criterio materiale della protezione del bene giuridico. (91) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI (nota 35), p. 428 s.; PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, Milano, 1993, in particolare p. 505 s. (92) Cfr. le osservazioni sub art. 22 del Corpus Juris in Verso uno spazio giudiziario europeo (nota 1), p. 85, dove viene presentata la transazione come causa estintiva dei reati previsti nel Corpus Juris. (93) Cfr. in proposito TIEDEMANN, Die Neuordnung des Umweltstrafrechts, Berlin, 1980, p. 36 ss.
— 499 — II.2.4. I « punti deboli » del sistema Una serie di aporie si profilano, viceversa, su altri versanti della « Parte Generale », almeno dal punto di vista nazionale italiano. Ne considero, esemplarmente, due soltanto. II.2.4.1. L’imputazione collettiva: la responsabilità penale dell’ente Un punto nevralgico del modello di imputazione della responsabilità nel diritto sanzionatorio unitario-europeo è rappresentato dalla responsabilità diretta della persona giuridica (94). Su questo terreno, però, la situazione a livello europeo è molto variegata, e in proposito il sistema italiano (analogamente agli ordinamenti di lingua tedesca) versa in stato di forte arretratezza. Nel sistema penale in senso stretto una responsabilità penale diretta della persona giuridica è stata sinora esclusa (95) agitando il feticcio dell’incompatibilità con il principio costituzionale della personalità della responsabilità (art. 27 co. 1o Cost.). Ed è questo, invero, l’unico terreno in cui l’orientamento costituzionale del sistema penale italiano ha svolto un ruolo frenante e conservatore, anziché progressista, vale a dire di adeguamento dello strumento penale alle moderne esigenze politico-criminali. Anche nella disciplina del settore penale-amministrativo (l. 689/1981), pur in assenza di vincoli costituzionali in merito, il legislatore di « parte generale » è stato oltremodo conservatore: ha concepito una ‘Haftung’ di tipo civilistico, governata dal criterio della solidarietà nell’obbligazione da illecito, e collegata a criteri commisurativi del tutto inadeguati (non foss’altro, perché esclusivamente basati sulla persona fisica autore materiale dell’infrazione) (96). Su queste basi, già in partenza, appare velleitario voler soddisfare le esigenze general- e specialpreventive che emergono in questo settore. Solo il legislatore « di parte speciale » (94) Nella letteratura italiana, sul punto, v. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss.; Societas delinquere potest, Padova, 1999 (ed. provvisoria). (95) Anche in Italia, tuttavia, le acque in questo settore si fanno sempre più agitate sia per le recenti aperture dottrinarie a favore dell’introduzione di una responsabilità penale diretta dell’ente (v., da ultimo, i lavori di DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, p. 19 s.; PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, p. 108, dove, con motivazioni differenti, viene esplicitamente affrontata la questione della compatibilità tra (determinate) forme di responsabilità penale dell’ente ed il principio di personalità della responsabilità), sia per le indicazioni che si ricavano a livello normativo-progettuale (v. in merito la Relazione del 20 luglio 1999 della Comm. ministeriale per la riforma del Codice Penale istituita con Decr. Min. 1 ottobre 1998 (« Commissione Grosso ») par. X). Tale Relazione suggerisce di introdurre forme di imputazione del reato alla responsabilità (penale o amministrativa) diretta dell’ente. Cfr. anche, da ultimo, lo Schema di disegno di legge delega per la riforma del diritto societario, sub art. 10, lettera h). (96) PALIERO-TRAVI, (nota 33), p. 210 ss.
— 500 — (’d’avanguardia’) del settore economico post-moderno delle telecomunicazioni mediatiche — come ho detto — ha saltato il fossato del locus-taboo, per introdurre una forma di responsabilità diretta delle società concessionarie (97); ma si è trattato di un intervento così marginale e ‘discreto’ da far venire il sospetto che in questo caso il legislatore italiano abbia « fatto della prosa senza saperlo », e neppure si sia avveduto della portata ‘eversiva’ di quelle semplici disposizioni apposte in funzione di « clausola sanzionatoria finale » ad un testo di contenuto ‘amministrativo’. Nel resto dell’Europa continentale, se si eccettua il provetto sistema olandese, i modelli vigenti di responsabilità dell’ente sono tuttora ampiamente incompleti, o da sperimentare nella prassi. Cito due esempi emblematici: (a) il sistema francese, dove i disorientamenti giurisprudenziali su temi cruciali per qualunque sistema di responsabilità penale dell’ente, quali la ripartizione di responsabilità tra persone fisiche e persona giuridica e il giudizio di colpevolezza relativo alla persona giuridica, configurano questo modello (98) come un prototipo ancora in fase di rodaggio; (b) il neonato modello belga, che pur rappresentando una evidente evoluzione del sistema francese, propone soluzioni tecniche inedite, ma ancora totalmente prive di verifica applicativa (99).
Per altro verso, proprio il sostanziale deficit di una disciplina di settore sperimentata nello spazio giuridico europeo (escludendo il sistema di common law, nel quale peraltro, sul punto, anche l’Inghilterra è più arretrata rispetto agli USA) potrebbe rappresentare un vantaggio per il ’codificatore’ europeo. Sia perché questi potrebbe ‘costruire’ senza dover prima ‘demolire’ (o demolendo pochissimo). Sia, ancora, perché su questo fronte le esigenze del diritto penale in senso stretto e le esigenze del diritto penale-amministrativo (le « due anime » del ‘Sanktionenrecht’) coincidono perfettamente. Sia, infine, perché si tratta di un modello di responsabilità non solo « di origine recente », ma anche del tutto ‘artificiale’ (costruito su di una pura fictio juris), eppertanto scevro da implicazioni etiche e sociali ‘profonde’: quelle implicazioni, cioè, che normalmente rappresentano il maggior ostacolo per il raggiungimento della koinè, in ra(97) PALIERO (nota 66), p. 1190. (98) Su cui v., tra gli altri, AA.VV., La responsabilité pénale des personnes morales, in Revue des Societés, 1993, p. 227 ss.; DESPORTES-LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, Paris, 1996, p. 437 ss.; DE SIMONE, Il nuovo codice francese e le responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, p. 189 ss. Per una presentazione delle prime applicazioni di questo modello v. la rassegna giurisprudenziale curata da MARON-ROBERT, Cent personnes morales pénalment condamnées, in Droit pénal, Chroniques, nei tre fascicoli di ottobre, novembre e dicembre 1998. (99) Introdotto con la legge 4 maggio 1999, Loi instaurant la responsabilitè pénale des personnes morales, pubbl. in Moniteur Belge del 22 giugno 1999.
— 501 — gione dell’eccessiva specificità culturale evidenziata, in merito di valutazioni morali, dai singoli ordinamenti nazionali. Da queste premesse deriva, non troppo sorprendentemente, che il primo problema della codificazione unitario-europea sarà rappresentato proprio dalla costruzione di un modello di responsabilità collettiva, esteso ad: (a) la selezione di tipi sanzionatori specificamente orientati sulla persona giuridica; (b) la ripartizione delle responsabilità fra « autori materiali »-persone fisiche ed « autore materiale »-ente, che sia tale da non creare zone di impunità per alcuno; (c) la costruzione di una categoria dommatica di ‘colpevolezza’ della persona giuridica. Su questo terreno, giusto l’ampiezza del ‘mandato’ di cui il ‘codificatore’ — per le ragioni appena esposte — si troverà a disporre potrà forse approntare il più significativo banco di prova per la costruzione di un paradigma unitario direttamente realizzato dal movimento internazionale di riforma penale, senza l’ingombrante oligopolio e le assillanti ipoteche del ‘vissuto’ culturale ed ordinamentale dei singoli sistemi nazionali. II.2.4.2. L’imputazione individuale: le forme tipiche di colpevolezza La responsabilità delle persone fisiche anche in Europa si fonda sullo Schuldprinzip: l’imputazione individuale della persona fisica dovrebbe pertanto, senza difficoltà, tradursi nelle due sole forme tipiche di volontà colpevole conosciute dal diritto penale moderno — dolo e colpa. Ma già esaminando il nostro sistema, si può notare come la costruzione unitaria di un modello di responsabilità personale, nella sfera di beni giuridici prediletta da questo obiettivo, sia assai meno semplice di quanto appaia a prima vista. Nel sistema codicistico italiano — per restare al nostro osservatorio privilegiato — accanto alla responsabilità dolosa e a quella colposa vi sono ancora ipotesi di responsabilità obiettiva fondate sul principio del versari in re illicita. La Corte costituzionale ha mantenuto le residue ipotesi di responsabilità per l’evento presenti nel sistema; ma anche il più recente Progetto di riforma (varato) del codice penale (del ‘92) ha inteso conservarle — nella loro sostanza imputativa e sanzionatoria — sia pure etichettandole formalmente come ipotesi di responsabilità colposa. Va inoltre considerato che nel nostro sistema è tuttora controversa la figura del dolo eventuale. Sebbene non sia stata prevista legislativamente nell’ambito della norma definitoria del dolo (art. 43, 1o cpv.), è da sempre ricavata interpretativamente, in giurisprudenza, dal sistema, ma continua a non trovare una seria legittimazione, né sotto il profilo dommatico, della coerenza concettual-categoriale, né sotto il profilo scientifico, delle dinamiche psicologico-motivazionali verificate (100). (100)
In merito, si vedano le raffinate riflessioni di EUSEBI, Il dolo come volontà, Bre-
— 502 — Sul versante della responsabilità colposa, la relativa norma definitoria (art. 43, 3o cpv.) deriva dalla vecchia distinzione, di imprinting civilistico, fra « colpa generica » e « colpa specifica », e quindi risulta inidonea a fornire una sufficiente tipizzazione del fatto colposo, specialmente con riguardo alla formalizzazione della regola di diligenza e del criterio di copertura del rischio tipico. Inoltre, manca ogni forma di tipizzazione dei gradi della colpa, il cui ruolo, ai fini della responsabilità penale, è relegato nel gregario ambito commisurativo (art. 133, co 1o c.p.). Peraltro, la prassi sviluppatasi nell’ambito del diritto penale accessorio, e specialmente nel diritto penale economico, ha dato vita alla creazione giurisprudenziale di una forma nuova e ibrida di dolo (101), variamente denominata: dolus in re ipsa; dolo presunto, secondo il criterio delle « massime di esperienza »; dolo di posizione, secondo il criterio del « non poteva non sapere », et similia. Tale forma di dolo, peculiare del diritto penale accessorio e — almeno di principio — del tutto assente negli spazi del diritto penale nucleare, deriva dalla sovrapposizione totale delle esigenze (processuali) dell’accertamento sui criteri sostanziali di determinazione dell’oggetto e della struttura del dolo stesso. Essa tende a confondersi con la colpa professionale che — per di più, come si è detto — nel sistema italiano manca, a sua volta, di sufficienti requisiti di tipizzazione. Per la verità, sul punto il discorso è assai più generale, e coinvolge gli attuali destini della figura del dolo come figura concettualmente antagonistica della colpa. In generale, la dottrina moderna ha cominciato a prendere consapevolezza del progressivo dissolvimento, in primis sotto il profilo concettual-categoriale, dell’una figura nell’altra: non tanto in una sorta di ‘notte concettuale’ in cui tutte le vacche sono nere, quanto in una sorta di paradigma sincretistico-unitario rispetto al quale l’elemento connettivo è rappresentato dal puro orientamento funzionalistico rispetto all’ascrizione della responsabilità. Si è parlato efficacemente, in proposito, di una concezione tipologica che avrebbe soppiantato la concezione filologica del dolo (102): quest’ultima, consistente nella traduzione in paradigmi scientifici della struttura naturalistico-psicologica del ‘dolo-motivazione’ (dato psichico di natura reale); la prima, volta invece a standardizzare le forme di manifestazione della ‘intenzionalità delittuosa’, traducendole in stereotipi, differenziati in ragione dei tipi strutturali di ogni singolo delitto, ed esclusivamente funzionali all’imputazione normativa della responsabilità (‘dolo-imputazione’: dato psicologistico di natura deontica). scia, 1993, e, da ultimo, esaustivamente, CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999. (101) Cfr. DONINI, Dolo e prevenzione generale nei reati economici, in Riv. trim dir. pen. ec., 1999, p. 1 ss. (102) SCHÜNEMANN, Vom philologischen zum typologischen Vorsatzbegriff, in Festschrift Hirsch (nota 75), p. 370 ss.
— 503 — In altri termini, è il fatto (si badi, come fattispecie astratta) che esprime il dolo — il dolo-imputazione — e non è, viceversa, il fatto (concreto) ad essere forma di espressione di quella volontà colpevole che, nel lessico penalistico tradizionale, viene per antonomasia definita ‘dolo’ (il ‘dolo-motivazione’). Il trend appena descritto, solo provocatoriamente paventato come pervasivo dell’intero sistema penale, è però un esito consolidato nel diritto penale economico, ove la tipologia strutturale delle condotte esprime per se gli stereotipi di ‘dolo’, a loro volta desunti, ‘per normativizzazione’, dalle singole posizioni soggettive (o dai singoli status), rivestiti dai destinatari delle corrispettive norme incriminatrici. Con gli inevitabili corollari: (a) della ipostatizzazione normativa (per homunculi motivazionali standardizzati) dell’oggetto, e (b) della semplificazione processuale (per presunzioni e ‘pregiudizi di genere’) dell’accertamento del dolo stesso, che potrebbe a questo punto definirsi ‘dolo di posizione’. *** * Su queste basi, non è facile costruire un modello di imputazione soggettiva — rigoroso in termini di tipicità e duttile in termini di funzionalità — che sia adeguato ad un diritto penale europeo. Qui, sia il back-ground criminologico, sia le funzioni politico-criminali del diritto sanzionatorio unificato sono ben diversi da quelli caratteristici dei diritti penali-criminali nazionali. Anzitutto, occupandosi delle forme tipiche di colpevolezza, in questo settore, occorre tener presente la great division (anticipata dalla recentissima riforma penale belga) (103) tra responsabilità individuale (cioè propria della persona fisica) e responsabilità collettiva (cioè propria della persona giuridica); mentre con riferimento alla prima si potrà muovere, per eventualmente evolvere, dalle forme di colpevolezza tradizionali, per la seconda si dovranno escogitare ex novo tipi di « pseudo-dolo » e di « pseudo-colpa » del tutto differenti. In secondo luogo, la tipologia degli illeciti che confluiranno nella « Parte Generale » ‘comune’ — pur non riguardando i beni-guida della vita e dell’integrità fisica, individuale e collettiva (gli unici che il diritto penale ‘classico’ tutela sotto un ‘doppio titolo’ di responsabilità) — sembra esigere la punibilità sia a titolo di dolo, sia a titolo di colpa (eventualmente qualificata da un ‘grado’ significativo). Espressiva, in questo senso, nell’ambito del Corpus Juris, è la confi(103) Cfr. l’art. 5 del codice penale belga come modificato dall’art. 2 della loi instaurant la responsabilité pénale des personnes morales del 4 maggio 1999, dove viene affermato che la colpevolezza dell’ente è autonoma e distinta da quella delle persona fisiche.
— 504 — gurazione della « Frode al bilancio comunitario » come condotta punibile se commessa « con dolo o per imprudenza o negligenza grave » (Art. 1). Negli ordinamenti penali nazionali — se si esclude il settore ‘minore’ delle contravvenzioni — la sovrapposizione della forma colposa alla forma dolosa nello stesso tipo di illecito, come si è detto sussiste, di regola, rispetto ai soli delitti contro la vita e l’incolumità personale (individuale e collettiva), ma nell’ambito di due diverse fattispecie, ben distinte per la struttura del fatto e per la misura della pena. Rispetto ad altri tipi di beni, solo nell’ambito del diritto penale fallimentare, per quanto concerne la bancarotta, sono indifferentemente punite, anche se con pene diverse, sia le condotte dolose che le condotte colpose. Inoltre, non in tutti gli ordinamenti (è il caso, come si è accennato, dell’ordinamento italiano) sono previste — a livello di criterio imputativo generale — tipi qualificati di colpa, come la ‘Leichtfertigkeit’ del sistema tedesco. In definitiva, il modello unitario-europeo di responsabilità esige la tipizzazione di nuove e diverse forme di volontà colpevole, che verosimilmente si collocano in una posizione intermedia fra le nozioni « classiche » di dolo e di colpa penale: più esattamente « al di sotto » del dolo intenzionale e « al di sopra » della colpa generica (104). Anche su questo terreno, il compito è dunque arduo. Forse — ma in questa sede è poco più che un appunto — si potrebbe rivalutare il modello anglo-americano della recklessness (105), un paradigma che ‘rinvia’ sia al dolo eventuale, sia alla colpa cosciente ‘per rischio assunto’. È ben vero che si tratta di una forma di imputazione orientata su situazioni che nei nostri sistemi continentali sono tipiche dell’area originariamente (e da noi tuttora) coperta dal paradigma del ‘versari in re illicita’ (e, dunque, orientata su beni giuridici esorbitanti dal campo applicativo che ho delimitato in ipotesi); ma l’innegabile capacità espansiva già dimostrata da questo criterio imputativo negli ordinamenti in cui è autoctono, così come il suo spiccato e caratterizzante orientamento al fattore del rischio assunto, piuttosto che dell’evento (104) Cfr. da ultimo l’indagine condotta da FORTI, Ai confini tra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in questa Rivista, 1999, p. 255 ss. (105) E a tale modello intende ispirarsi il criterio di imputazione previsto per la « Frode al bilancio comunitario ». Cfr. il richiamo alla recklessness del diritto inglese nel Corpus Juris, sub art. 10, in Verso uno spazio giudiziario europeo, (nota 1), p. 65. Nella versione inglese (originale) dell’art. 10 di questo testo, inoltre, si parla esplicitamente di recklessness. Il ‘nuovo’ Corpus Juris introduce poi un comma aggiuntivo a questo articolo dove viene data la definizione della condotta recklessy (« The offender acts recklessly if he is aware of the risk that the circumstances that amount to the constituent elements of the offence exist and that it is unreasonable, having regard to the circumstances known to him, to take that risk. The offender acts grossly negligently if he is not aware of the risk that the circumstances that amount to the constituent elements of the offence exist but the risk is, having regard to the circumstances known to the offender, obvious »).
— 505 — realizzato, consentono sin d’ora una suggestiva proiezione sulla paradigmatica dei comportamenti bisognosi di criminalizzazione nella prospettiva qui in discussione — comportamenti (è superfluo ripeterlo) eminentemente economici, e connessi ad attività di impresa, della significatività sociale dei quali, pertanto, proprio il rischio rappresenta il fulcro insostituibile. II.2.5.
Un « punto controverso »: la responsabilità personale collettiva Occorre ora richiamare l’attenzione sulla responsabilità plurisoggettiva, vale a dire la responsabilità collettiva della persona fisica, nell’ambito delle attività tendenzialmente complesse ed organizzate, che implicano interessi economici. Tale forma di responsabilità rappresenta un « punto controverso », nella nostra prospettiva, perché la sua elaborazione giuridico-penale è ancora terreno di scontro dogmatico e di profonda contrapposizione legislativa nello spazio giuridico europeo. Il problema si presenta sotto due profili: da un lato, la questione del modello formale di tipicizzazione delle condotte partecipative e dei collegati criteri di imputazione della responsabilità collettiva; dall’altro lato, la questione della ripartizione sostanziale dei carichi di responsabilità all’interno delle organizzazioni complesse (dell’impresa, o dell’apparato di potere burocratico). A questo proposito sarò estremamente sintetico, anche perché il problema è destinato a rappresentare uno dei filoni di massimo sviluppo, nelle riflessioni future. (a) Con riguardo al primo aspetto, cioè il modello di tipizzazione della responsabilità plurisoggettiva, in Europa si fronteggiano due principali paradigmi di formalizzazione legislativa del concorso di persone nell’illecito: (aa) il modello differenziato, ereditato dal Code Napoléon e da sempre tradizionale, oltre che in Francia (e sistemi giuridici collegati), nei Paesi di lingua tedesca; (bb) il modello unitario causale, proprio del sistema italiano dopo la riforma penale del ‘30, ma adottato anche dai legislatori norvegese e danese, nonché dal legislatore tedesco nell’ambito dell’Ordnungswidrigkeitenrecht (106). Ciascuno di questi due modelli rivela insufficienze e difficoltà applicative, tanto che ogni ordinamento sembra attualmente insoddisfatto del (106) Sulla differenziazione dei modelli, e per un’ampia paradigmatica, v. di recente ESER-HUBER-CORNILS (a cura di), Einzelverantwortung und Mitverantwortung im Strafrecht, Freiburg im Breisgau, 1998.
— 506 — proprio sistema. Acute analisi, in Germania come in Italia (107), hanno rivelato che sui punti più discussi della tematica la teoria unitaria e la teoria differenziata finiscono con l’arrivare alle stesse conclusioni, ovvero a presentare le stesse difficoltà. È stata ormai ampiamente smentita la convinzione che vorrebbe il modello differenziato di più complessa applicazione, ma più garantista circa il limite della punibilità; e, viceversa, il sistema unitario più semplice da applicarsi, ma incontrollabilmente estensivo (sia nell’an che nel quantum) della punibilità. In realtà, attraverso la teoria della Tatherrschaft si arriva, in Germania, a sottoporre al trattamento più severo di autore condotte ai limiti dell’irrilevanza, sotto il profilo della tipicità formale, addirittura alla stregua delle figure normative di mera partecipazione (108); e per converso, in Italia, il sistema delle circostanze e l’autonoma tipizzazione della figura dell’istigatore, nonché quella — di fonte giurisprudenziale — del ‘concorrente esterno’ (nel reato associativo) hanno reso particolarmente complessa la ricostruzione unitaria, così come l’individuazione dei singoli ruoli di partecipazione (109). Ne è derivato che i nodi problematici che di solito si ritengono frutto del modello differenziato di « tipizzazione delle figure » di concorso (delitti di propria mano, autoria mediata, concorso nei ‘Sonderdelikte’, etc.), nel sistema italiano si presentano praticamente negli stessi termini, ma di fatto gravano interamente sull’interprete, senza alcuna malleveria da parte del legislatore. (b) Quanto al secondo aspetto, ossia alla « divisione dei carichi » di responsabilità nell’ambito delle attività complesse, i sistemi penali nazionali si trovano in uno stato di generale arretratezza. La sistematica del concorso di persone, comunque congegnata, non è in grado di apportare alcun contributo di specifica tipizzazione. A tale problematica è d’altra parte strettamente connessa la questione del trasferimento di funzioni (e di responsabilità) e delle corrispondenti deleghe (110): questo istituto però non trova collocazione nella disciplina codicistica, ma solo in ambiti settoriali della legislazione speciale, e spesso è stata solo frutto di fluttuanti elaborazioni giurisprudenziali. (107) Per il nostro ordinamento v. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, p. 247 s. (108) ROXIN (nota 54), spec. p. 399 ss. (109) Peraltro, criticamente, in merito, si veda MONACO, La riforma dell’art. 110 del codice penale italiano. Spunti introduttivi, in VASSALLI (a cura di), Problemi generali di diritto penale, Milano, 1982, p. 119 ss., e, per quanto riguarda il ‘concorso esterno’, ALEO, Diritto penale e complessità, Torino, 1999, p. 47 s. (110) Sulla problematica: FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1984; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, p. 125 ss.; ALESSANDRI, Impresa (Responsabilità penali) (voce), in Dig. disc. pen., 1992, p. 209 ss.; Idem, in PEDRAZZI-ALESSANDRI-FOFFANI-SEMINARA-SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 1999, p. 71 ss.
— 507 — Gli esiti, nella prassi, sono stati ovunque sconfortanti: la ricerca dei centri di imputazione soggettiva all’interno dell’organizzazione si risolve, di fatto, o nella punizione dei soli « esecutori manuali » dell’illecito, o nella incriminazione degli apici societari, quest’ultima il più delle volte priva di esiti processuali concludenti, perché si tratta dei soggetti materialmente più lontani dal fatto. Per questa problematica, una soluzione legislativa comune a tutto lo spazio giuridico europeo imporrebbe l’elaborazione di un sistema complesso, ma unitario di responsabilità collettiva, che dovrebbe avere almeno due requisiti di fondo: (aa) lo stretto collegamento con un modello di imputazione diretta della responsabilità penale all’ente; (bb) la presenza di un griglia sincronizzata di centri di imputazione individuali, nell’ambito della responsabilità collettiva, che assicurino — ad ogni livello della gerarchia organizzata — una proporzionata ripartizione del carico di responsabilità principalmente in funzione dei rischi assunti e delle posizioni di garanzia assicurate a causa dell’attività svolta o del ruolo rivestito. Ma su tutti questi aspetti, nel panorama europeo, come si sa, vi sono più contrasti che sincronie, ed una soluzione praticabile a mio avviso passa solo attraverso una rifondazione complessiva, di tipo funzionalistico, dei criteri di imputazione della responsabilità penale (rectius, sanzionatoria), nella quale il restyling delle forme di colpevolezza vada di pari passo con l’edificazione ex novo della responsabilità penale della persona giuridica. III.
EPILOGO
Inevitabile, giunti all’epilogo del discorso, ricollegarsi al suo incipit, in questo caso rappresentato dalla mia ipotesi di metodo. Se dovessi, in sede di esame riassuntivo, riqualificare sinteticamente in termini contenutistico-strutturali il paradigma imputativo che secondo tale ipotesi dovrebbe costituire il ‘thema codificandi’, personalmente lo definirei nei termini seguenti: « Un modello, per l’Unione, di responsabilità penale (rectius, sanzionatoria) del produttore di ricchezza ». Anzitutto, nel senso che il tipo di controllo sociale che in tale prospettiva si intende omogeneizzare a livello unitario riguarda essenzialmente il ciclo di produzione delle risorse economiche globali (per lo meno, nell’ambito geo-politico convenzionalmente definito « europeo »): con tutti i vantaggi — da ottimizzare — e tutti i rischi — da minimizzare — che questo (peculiare) come qualsiasi altro ciclo produttivo induce. Si tratta di una fenomenologia che possiede — già ben caratterizzata
— 508 — — la sua corrispondente paradigmatica; dotata, a legittimare la parafrasi adottata, di sorprendenti analogie con il topos ‘emergente’ dell’esperienza comparata d’aujourd’hui, il topos: vale a dire, della responsabilità penale del produttore (di beni materiali di consumo: responsabilità per il prodotto e per la produzione) (111). (a) Quanto alla fenomenologia: ci offre qui un preciso orientamento il ‘catalogo minimo’ di fattispecie proposto dallo stesso Corpus Juris: all’interno del quale, un controllo sociale ‘mediante pena’ a livello unitario è auspicato — di tipo relativo — nei confronti di modalità di produzione della ricchezza socialmente utili, eppertanto consentite, ma rischiose (per il ‘bene economico’), quali ad esempio il sistema delle sovvenzioni; ed un controllo penale è altresì auspicato — di tipo assoluto — nei confronti di modalità di produzione della ricchezza vietate tout court, come il riciclaggio di capitali o l’esercizio dell’impresa mafiosa (112). (b) Quanto alla paradigmatica: l’analisi che precede ha mostrato, sia pure per saltum, le peculiarità strutturali comuni ad una sfera omogenea di fattispecie — già di rilevante significato a livello di sistemi nazionali, massimamente valorizzabili a livello unitario — tutte accomunate dalle seguenti specificità: — la dominante collettiva nella forma di realizzazione del fatto: di tal che, con riferimento all’autore, il tipo paradigmatico è rappresentato dalla figura plurisoggettiva, anziché, come è classico, dalla figura monosoggettiva; — l’intercambiabilità fra agire ed omettere (113): entrambe le species del genus primigenio e basilare del Tatbestand (la ‘Handlung’) sfumano e si trasfondono, in ultima analisi, in una modalità sincretistica e multifattoriale di condotta (un tertium genus che supera e soppianta, insieme alle due species classiche, la categoria stessa della ‘azione’ in senso penalistico); e tale modalità ‘di sintesi’ è rappresentata — se posso usare una formula habermasiana — dall’agire comunicativo di tipo decisorio (cioè essenzialmente produttivo di decisioni) nell’organizzazione com(111) Su questa ‘nuovissima’ problematica, v. HASSEMER, Produktverantwortung im modernen Strafrecht, Heidelberg, 1994; HINGELDORF, Strafrechtliche Produzentenhaftung in der « Risikogesellschaft », Berlino, 1993 e, nella letteratura italiana, PIERGALLINI, Danno da prodotto e responsabilità penale. Profili dommatici e politico-criminali, Ascoli Piceno, 2000 (ed. provv.). (112) Richiamo qui l’ormai noto paradigma criminologico che valorizza dell’organizzazione criminale la moderna propensione a trasmutare in (sub)sistema antagonistico di produzione e ditrasformazione della ricchezza (ARLACCHI, La mafia imprenditrice, Bologna, 1983). (113) Apprezzabili, in merito, le intelligenti riflessioni di VOLK, Zur Abgrenzung von Tun und Unterlassung, in Festschrift Tröndle, 1989, p. 219 ss. e Sistema penale e criminalità economica, Napoli, 1998, p. 61 ss.; con specifico riguardo alla problematica delle organizzazioni produttive, HASSEMER (nota 111), p. 4 ss.
— 509 — plessa (si è di regola imputati, non per l’azione, ma per la decisione, presa o tralasciata); — lo spostamento del fulcro della leva dell’illecito, in termini di offensività — e, quindi, di danno sociale — dal locus ‘chiuso’ e nomologicamente determinato dell’evento (e, quindi, della lesione), al locus ‘aperto’ e probabilisticamente orientato del rischio (e, quindi, del mero pericolo di lesione); — la dissolvenza delle forme di colpevolezza, e la loro trasmutazione in stereotipi normativi ancipiti, partecipi sia dell’essenza del dolo, sia dell’essenza della colpa, ma entrambi trascendenti in una forma di subiettivizzazione ipostatizzata ‘per status’ dei doveri di controllo del rischio. Un corollario significativo, per la formazione evolutiva del sistema unitario: lo sviluppo appena delineato può facilitare la costruzione di una ‘colpevolezza della persona giuridica’ — onere ineludibile dell’attualità, in ambito giuridico europeo — la quale, pur rappresentando un aliud rispetto alla colpevolezza della persona fisica, sia rispettosa dello Schuldprinzip. Tale facilitazione è garantita, se si proietta sull’ente, come soggetto esponenziale, quella griglia incrociata di posizioni di controllo doveroso del rischio (dei singoli segmenti di rischio, posti in sequenza priva di soluzioni di continuità), da un lato, degli stereotipi motivazionali corrispondenti, dall’altro lato, che già ora — con molta minor legittimazione — il diritto penale economico ‘di formazione giurisprudenziale’ sperimenta negli ambiti nazionali. Per la persona fisica, il sistema nazionale raggiunge quest’esito, come è noto, derivando, attraverso standardizzazioni di tipo statistico-comportamentale, dalla struttura del fatto tipico (dei fatti, nella loro modalità collettiva ed organizzata — in una parola, collegiale — di realizzazione) la volontà del fatto illecito o, alternativamente, la doverosità del fatto alternativo lecito. Orbene, tali standardizzazioni, a tutt’oggi assai discutibili rispetto ad una responsabilità naturalistica dell’individuo, sembrano poter essere assai meglio tollerate rispetto alla responsabilità metaforica dell’ente, proprio in ragione dello schema per se ‘fittizio’ e ‘presuntivo’ della societas come tale, del suo ‘agire’ giuridicamente rilevante, e, conseguentemente, del suo ‘delinquere’.
Sia nell’uno che nell’altro caso — per la persona fisica come per la persona giuridica — l’onere principale di qualsiasi riformatore, nella sfera di beni giuridici qui considerata, resta comunque la tipizzazione predeterminata ex lege di queste ‘nuove’ forme, probabilmente inevitabili, di imputazione penale, che più non è consentito lasciare al libero gioco creativo della prassi. Una tipizzazione specificante, sia sul piano oggettivo dell’‘Unrecht’ — riguardante cioè la formalizzazione dei singoli rischi, e, in sequenza, delle singole posizioni di garanzia nonché dei correlati doveri di controllo; sia sul piano soggettivo dell’‘Unrecht’ — riguardante cioè la specificazione: degli stereotipi di condotta per ogni singolo rischio (o porzione di rischio) doverosi, in relazione alla responsabilità ‘colposa’; degli stereotipi di condotta espressivi di consenso all’integrazione dei rischi di
— 510 — cui sopra, in relazione alla responsabilità ‘dolosa’. Si tratta, in altri termini, della costruzione, su base fenomenologico-concreta, e non meramente tipologico-astratta, della ‘Parte Speciale’ del reato omissivo e, corrispettivamente, del ‘reato collegiale’ (114), sul primo versante; della ‘Parte Speciale’ del reato colposo, e, rispettivamente doloso, sul secondo versante. Resta ora soltanto da chiedersi, di fronte a questo scenario progettuale ‘di alta ingegneria’, che parte possano avere le opere di ‘buono’ o ‘modesto’ ‘artigianato’ già esistenti nei singoli comprensori nazionali, nella futura edificazione della ‘Casa comune’. In proposito, traendo spunto dalle ultime considerazioni, vorrei permettermi, conclusivamente, una presa di posizione ‘nazionalistica’. Per il tipo di fattispecie rispetto alle quali, principalmente, la « Parte Generale » unitario-europea dovrà risultare complementare, mi sentirei di proporre, fra le opere di prima, e più facile realizzazione, la combinazione — adeguatamente sviluppata — di due modelli di imputazione già presenti nell’ordinamento italiano; — Per quanto riguarda la disciplina generale ‘di base’ della responsabilità collegiale, paradigmatica in questa sfera di beni giuridici, proporrei di muovere dalla soluzione unitario-causale: non tanto nella versione del codice penale del ‘30, quanto in quella (scevra da contaminazioni dommatiche ‘ereditate’ dalla ‘Differenzierungslehere’ previgente) adottata dalla legge sugli illeciti amministrativi del 1981. La linearità ‘aperta’ di questo schema consente infatti più facilmente le — doverose — tipizzazioni successive, ricavate dalla fenomenica prasseologica ‘di setttore’, e non da superfetazioni dommatiche di natura tralatizia — quali le obsolete figure di proto- e deuteragonisti (’autore’, ‘coautore’, ‘complice’, ‘istigatore’) che allignano sul versante ‘differenziato’ di questo capitolo della criminalistica. — Per quanto riguarda il problema della tipizzazione oggettiva dell’Unrecht, segnatamente in punto di segmentazione e controllo doveroso dei rischi (da cui sgorghi la responsabilità penale), segnalerei invece i criteri introdotti in Italia dalla recente legge 19 settembre 1994, n. 626 in tema di igiene e sicurezza dei lavoratori (115). Tale legge stabilisce infatti criteri fissi di ripartizione della responsabilità penale (ed amministrativa) (114) Per un’interessante valorizzazione di questo topos, v. FRANKE, Kriminologische und Strafrechtsdogmatische Apekte del Kollegial-delinqunz, in Festschrift Blau, Berlin-New York, 1985, p. 227 ss. (115) Su questa nuova frontiera legislativa, v. PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen. Aggiornamento, 2000, p. 388 ss.; GULLO, La delega di funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto, nota a Cass. pen. 27 gennaio 1999, in questa Rivista, 1999, p. 1508 ss.; M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 414 ss.; VENEZIANI, Infortuni sul la-
— 511 — all’interno dell’impresa: essa individua normativamente le posizioni soggettive (datore di lavoro; medico competente; responsabile del servizio di prevenzione; responsabile del servizio di protezione) e collega ogni singola responsabilità alla valutazione e alla conseguentemente assunzione di uno specifico rischio di realizzazione dell’evento tipico (che nella materia de qua è sempre rappresentato dalla morte, lesioni o malattia del lavoratore). Una prospettiva che sviluppi questo nucleo di legislazione penale dell’impresa, nell’ambito di una responsabilità collettiva ancorata alla concezione unitaria della partecipazione, mi sembrerebbe un buon punto di partenza, per soddisfare in questo campo le esigenze di un diritto penale unitario-europeo. Una ‘Einheitstäterschaft’ liberata dal « dogma dell’autoria » semplificherebbe l’individuazione dei centri di imputazione, del resto già facilitata dalla struttura stessa della responsabilità collettiva nelle cerchie organizzate di attività (ove i ruoli comportamentali — « decisoriprincipali » o « decisori-gregari » — sono già prefissati dall’infrastruttura del subsistema). Al contempo, una divisione dei carichi di responsabilità ancorata a posizioni di garanzia orientate ai rischi e normativamente predeterminate, nella sfera particolare di interessi di cui qui ci si occupa, sembra soddisfare a sufficienza quelle esigenze minime di garanzia e di certezza, che ogni tipo di sistema sanzionatorio giustamente esige. CARLO ENRICO PALIERO Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Pavia
voro e responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998, p. 495 ss.
GIUDIZIO, REGOLE E GIUSTO PROCESSO. I TORMENTATI ITINERARI DELLA COGNIZIONE PENALE (*)
SOMMARIO: 1. La crisi della giustizia penale in Italia: i dati della relazione del Procuratore generale della Corte di Cassazione e gli ultimatum del Consiglio d’Europa. — 2. Diritto emergenziale e processo penale: una endiadi mai superata. — 3. L’involuzione del processo penale italiano. Il ruolo della giurisprudenza costituzionale. — 4. Segue: Le leggi naturali del giudizio. Le regole della cognizione penale. — 5. L’emergenza in bonam partem: la recente riforma dell’art. 111 della Costituzione.
1. Ogni discussione teorica sulla giustizia penale in Italia sembra scadere a vuoto esercizio di parole, se posta a confronto con le statistiche giudiziarie nazionali e sovranazionali. Si potrebbe obiettare, a chi si ostina nel ragionare su diritto alla prova, garanzia collegiale, imputato in procedimento connesso e così continuando, che nel frattempo i delitti commessi da ignoti sono cresciuti sino all’84 per cento del totale; che sono necessari 443 giorni per l’esaurimento di un giudizio in tribunale (601 giorni in appello). Che, nel solo 1999, la durata dei procedimenti giudiziari italiani (in gran parte civili, ma anche penali) è stata ritenuta irragionevole per ben 361 volte da parte del Comitato dei Ministri europei. A chi persiste nel riflettere su modelli processuali, portata del contraddittorio et similia, si potrebbe più prosaicamente ricordare che, attesa la ricezione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo da parte del Trattato di Amsterdam, non è affatto remota la possibilità che il Consiglio dei Ministri dell’Unione europea sospenda l’Italia dall’esercizio del diritto di voto. E che scade a petizione di principio l’affermazione secondo cui tale eventualità sarebbe assurda e inaccettabile per l’onore di un Paese che è padre fondatore della Comunità europea. Lo Stato di diritto, potrebbe rispondersi a ragione, ha regole ben precise, per cui o si è dentro, o si è fuori. E l’Italia, da questo punto di vista, ne è clamorosamente fuori. Riflettere sul giudizio e sulle sue regole, in un simile scenario, potrebbe allora sembrare come suonare la lira mentre la città va a fuoco. E così sarebbe se, in tema di giustizia penale, alla crisi dei « numeri » non si affiancasse una altrettanto grave crisi culturale. Di questa crisi bisogna (*) Testo della prolusione svolta in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico 1999-200 nell’Aula Magna della Facoltà giuridica dell’Università di Foggia, sabato 4 marzo 2000.
— 513 — pure dare conto: per chi voglia imbastire un discorso serio e costruttivo sul tema, l’analisi delle vicende della cognizione penale in Italia non solo è cosa utile, ma ne costituisce anzi il passaggio obbligato. 2. Sul campo si confrontano due opposte visioni della macchina penale; per la prima, il processo è strumento di lotta contro il crimine, e si riassume nel « tutti i colpevoli devono essere puniti »; per la seconda, invece, il processo è complesso di garanzie a tutela del cittadino, sintetizzabile nel « tutti gli innocenti devono essere tutelati ». Sono queste le tradizionali ideologie del processo penale. Difficile dire quale delle due prevalga in Italia. Letto il punto in prospettiva storica, di certo la prima sovrasta la seconda; se invece si restringe l’orizzonte alle vicende repubblicane, sembra di assistere ad una continua staffetta, con repentini avvicendamenti imposti dalle contingenze politiche e sociali. La recente modifica dell’art. 111 della Costituzione fa ora pendere l’ago della bilancia a favore dell’opzione garantista. In precedenza, la preoccupante recrudescenza del crimine organizzato aveva consigliato ben altre scelte, sia da parte del legislatore che della Corte costituzionale; a soli tre anni, si badi, dalla svolta accusatoria del 1989, che a sua volta suggellava il completo superamento degli « anni di piombo », e della caduta verticale delle garanzie che ne era conseguita. E così via, qualora si voglia procedere ulteriormente a ritroso. Ad un osservatore poco addentro alle questioni italiane tutto ciò potrebbe sembrare il frutto di un sano alternarsi di culture in campo, conseguente ad una altrettanto benefica alternanza politica. Ma così non è, purtroppo. Di solito, anzi, ogni brusca virata rispetto all’assetto precedente riceve il placet del legislatore nel suo complesso, in nome del superiore bene comune; sicché — sia consentito un rapido e limitato sconfinamento nel metagiuridico — quelle stesse forze politiche che sembrano con decisione imboccare vie liberali alla questione penale, si smentiscono — dopo non molto, di solito — con provvedimenti legislativi di tutt’altro segno. Non è necessario, per cercare conferme, andare troppo indietro nel tempo; basti pensare a quanto sta accadendo in queste ultime settimane, laddove ad una svolta determinante, qual è stata indubbiamente la costituzionalizzazione del metodo del contraddittorio, si oppongono spinte legislative volte ad ampliare i poteri della polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari e a restringere decisamente i casi di impugnazione delle sentenze, con l’obiettivo, barbaro e malamente dissimulato, di introdurre l’esecutività delle sentenze di condanna non ancora divenute irrevocabili, passando, se del caso, attraverso il logoro espediente dell’allungamento dei termini di durata della custodia cautelare. C’è una spiegazione a tutto questo. Il solo accennare alle ragioni remote renderebbe lo sconfinamento nel metagiuridico completo ed irrime-
— 514 — diabile. In realtà — per limitarsi alle ragioni prossime — è il fattore emergenza il vero motore dell’ipertrofico e contraddittorio intervento legislativo in materia penale; la discutibile considerazione, cioè, per cui il contingente vale da solo a stravolgere assetti normativi e valori di riferimento, senza remora alcuna. In questa logica, è l’intervento legislativo in sé che vale, piuttosto dei suoi contenuti. Questi, anzi, sembrano non importare affatto; come non importa se i fenomeni che si intende fronteggiare siano davvero degni di considerazione. A volte è sufficiente il casuale verificarsi a breve distanza l’uno dall’altro di eventi di per sé insignificanti su scala statistica, perché la macchina dell’emergenza, opportunamente sollecitata dai mass media, si metta in moto e produca i suoi effetti. Il diritto emergenziale nasce, di fatto, in contrasto con le più elementari regole di produzione legislativa. È legge che guarda al caso singolo — o alla pluralità di casi che hanno determinato l’aspettativa legislativa —, ma finisce giocoforza per scardinare ampi settori normativi; non intende « regolare », ma semplicemente « reagire »; accentua con forza l’effettività della norma e l’asprezza della sanzione, volutamente dimenticando che il diritto è soprattutto sguardo unitario, esercizio logico, rigore linguistico. E che la stessa effettività non è compromessa dalla sporadica violazione di norme. Il diritto emergenziale, anzi, finisce soltanto per promettere effettività, dato che l’importante, nella sua ottica, è la pura risposta legislativa. Le vicende future e concrete della norma che si introduce non interessano; semmai costituiranno il fosco scenario di qualche altra emergenza. Ciò che manca, in definitiva, è la visione d’insieme; e non c’è da stupirsi, quando il diritto scade, come in questo caso, a strumento di propaganda politica, a illusoria panacea di frizioni sociali che non si riesce in altro modo a fronteggiare. È superfluo spiegare perché il diritto e il processo penale costituiscono l’approdo più frequentato di questo discutibilissimo eppure diffuso sentire giuridico. Fatto sta che le ideologie che ne fanno da sfondo decadono a giustificazioni di facciata, da valorizzare o da affossare a seconda delle circostanze. Un cinico e distorto fenomeno di contestualizzazione banalizza, ponendole sullo stesso piano, garanzie del cittadino e supposte esigenze di difesa sociale. Ogni principio, anche di rango costituzionale, può essere riplasmato e rinegoziato. E se l’operazione non è in alcun modo praticabile, se ne creano di nuovi (si pensi al principio di non dispersione dei mezzi di prova), salvo poi a discuterne la coerenza e la stessa legittimazione giuridica e politica. La parabola del processo penale italiano può essere, da questo punto di vista, elevata a caso paradigmatico. La riforma del 1988 partiva da lontano, beneficiando di un lungo ed autorevole dibattito dottrinale. Non si può negare che sia stata una svolta « ragionata », complessivamente condivisibile perché poggiante sulle benefiche sedimentazioni di un trenten-
— 515 — nio di riflessioni di altissimo profilo. La modulazione dei suoi assi portanti, vale a dire la separazione delle funzioni e la separazione delle fasi, garantiva un accettabile equilibrio tra ruolo delle parti, terzietà del giudice e indisponibilità dell’oggetto del processo penale. La valorizzazione del dibattimento come luogo tendenzialmente esclusivo di formazione della prova, nel rispetto del metodo del contraddittorio, veniva irrobustita — paradossalmente — dalla introduzione di una serie di riti alternativi, alcuni dei quali a cognizione compressa, che lo destinavano, almeno nelle intenzioni, a momento residuale di composizione dei conflitti, nei casi più seri ed impegnativi. L’adozione di misure cautelari veniva finalmente sottratta, come impone la Costituzione, alle logiche liberticide dell’immediata risposta sanzionatoria, della pena senza processo. Il codice del 1988 si giovava, in definitiva, di un robusto retroscena culturale, opposto al precedente. Ciò nonostante, agli iniziali entusiasmi (rivelatisi poi di maniera) per il nuovo congegno processuale subentrava un diffuso sentimento di diffidenza: nella magistratura, innanzitutto, ancorata ad una visione burocratico-gerarchica dell’organizzazione giudiziaria, e dunque maggiormente a suo agio nel sistema processuale precedente, tenuto conto del nodo ancora irrisolto dell’appartenenza di pubblici ministeri e giudici al medesimo corpo professionale; ma anche nell’avvocatura, scopertasi impreparata nel cogliere nella riforma processuale una rivalutazione del proprio ruolo, dopo decenni vissuti all’ombra di un comodo ma intollerabile paternalismo giudiziale. Il nuovo codice, cioè, non ha potuto contare, sin dall’inizio, su forti e sostanziali aperture di credito; la stessa cultura accademica, che per prima avrebbe dovuto sostenere con argomenti decisivi le ragioni della riforma, e reagire con altrettanta forza ai venti di una controriforma da subito nell’aria, ha finito invece — è doloroso ammetterlo — per subire passivamente gli sconvolgimenti, ripiegando, a giochi ormai fatti, nella sterile denuncia e nel mesto governo dell’esistente. Favorita, a tacer d’altro, da simili atteggiamenti mentali, la metaideologia dell’emergenza ha avuto ragione di una riforma pure concepita su solide basi culturali. Nel codice è difficile individuare, allo stato, un residuo di spina dorsale; i sistematici impenitenti possono al più discettare di doppio binario processuale: da un lato, il procedimento per i reati ordinari; dall’altro, quello per i reati di criminalità organizzata. È uno sforzo apprezzabile, ma le cui conclusioni, per intuibili ragioni, non possono dirsi rassicuranti. 3. Nel dare conto, sia pure sinteticamente, delle tappe della involuzione del nostro sistema processuale penale, non si può, in via preliminare, negare che il diritto emergenziale, che di solito si muove a colpi d’ascia, ha in questo caso lavorato di cesello. Ciò è dovuto, probabilmente, al
— 516 — ruolo determinante giocato dalla Corte costituzionale, ben conscia del fatto che, per stravolgere gli equilibri di un processo tendenzialmente accusatorio, non è necessario fare granché; basta eliminare qualche divieto di lettura, per generare l’effetto domino desiderato. Il conseguente vacillare del principio della separazione delle fasi si riverbera necessariamente sul principio della separazione dei ruoli: un atto di indagine raccolto dal pubblico ministero che assuma dignità di prova altera irrimediabilmente le dinamiche processuali, e relega la difesa a mero contraddittore in partibus. Nel processo, in altre parole, tutto si gioca sul diritto delle prove; e su di esso, in rapida sequenza e con precisione chirurgica, ha agito la Corte costituzionale (sentenze n. 24, 254 e 255 del 1992), abolendo il divieto di testimonianza della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni acquisite da testimoni, consentendo la lettura delle precedenti dichiarazioni dell’imputato in procedimento connesso che si sia valso nel dibattimento della facoltà di non rispondere, travolgendo il meccanismo delle contestazioni nell’esame testimoniale. In quest’ultimo caso, addirittura, la Corte costituzionale ha preso esplicitamente posizione sulle funzioni del processo penale, attraverso una pronuncia che si è posta, almeno sino alla recente modifica dell’art. 111 Cost., come cavallo di Troia per la risurrezione della precedente e screditata istruzione sommaria, senza peraltro i limiti, anche cronologici, cui la stessa era assoggettata. Per chiarire quali siano le esigenze della cognizione penale, e quali le regole del processo che se ne facciano portavoce, un buon punto di partenza può essere costituito dalle più pregnanti affermazioni della sentenza n. 255 del 1992, la più ideologica del « trittico » poc’anzi menzionato: quella per cui fine primario e ineludibile del processo penale è il raggiungimento della verità; e quella a quest’ultima strettamente consequenziale, per cui il modello accusatorio, col suo indulgere all’oralità e al contraddittorio, mette a repentaglio il raggiungimento del fine del processo. Su queste asserzioni molto si è detto, sicché il discorso potrebbe apparire ripetitivo; ma sul punto non ci si stancherà mai di insistere, specie oggi; entrate ormai nel patrimonio giurisprudenziale della Corte costituzionale, esse potrebbero condizionare la stessa espansione dei nuovi principi introdotti nell’art. 111 della Costituzione. Il fine primario ed ineludibile del processo penale, statuisce la Corte costituzionale, è dunque quello del raggiungimento della verità. È difficile non essere d’accordo sul punto, a meno di non volere mettere in discussione non soltanto il concetto di giurisdizione, ma anche i cardini dello Stato di diritto. Sembra però che esistano più concetti di verità: una verità formale, che nelle strettoie della gimcana procedurale scolorisce sino a risultare scarsamente attendibile; e una verità materiale, che trae invece linfa proprio dalla fuga dalla legalità processuale, e si arroga il diritto di
— 517 — essere per ciò solo più « vera » della prima. Il codice del 1988 — sottintende la Corte —, nel momento in cui eleva il contraddittorio a metodo principe di formazione della prova, fa proprio il concetto di verità formale, con tutte le garanzie difensive che da essa discendono; ma questa tendenza risulta nel codice alquanto esasperata, e dunque irragionevole; bisogna pure tenere conto delle esigenze di difesa dell’ordinamento dagli attacchi del crimine; sotto questo aspetto, il contraddittorio costituisce un ostacolo, e dunque va temperato attraverso la valorizzazione di un altro principio, quello della « non dispersione dei mezzi di prova » (rectius: dei risultati dell’investigazione). Altrimenti, il raggiungimento della verità — nel senso di verità materiale — verrebbe fortemente compromesso. Nel settore processuale penale, dunque, il diritto emergenziale veste le spoglie di un ideologismo inquisitorio e nemico del contraddittorio. È questo, comunque, il terreno su cui confrontarsi 4. Sono anzitutto necessarie alcune preliminari considerazioni, relative alla stessa accettabilità dei tradizionali modelli processuali. Da secoli, infatti, ogni discorso sul processo penale parte dalla constatazione dell’esistenza di due tipi di processo: quello accusatorio e quello inquisitorio, con tutte le differenziazioni, soprattutto culturali, che ne conseguono. Il superamento di questa dicotomia è essenziale per una razionalizzazione della materia. Le ideologie, si sa, non sono logicamente sindacabili, e ogni presa di posizione in tema finisce inevitabilmente per assumere i contorni della petizione di principio. Con la conseguenza — soprattutto nel caso italiano — di rendere più facile il gioco del diritto emergenziale, che di solito si aggrappa, a legittimazione dei repentini mutamenti legislativi che produce, proprio a sponde di questo tipo. Non esistono, a rigore, un processo accusatorio e un processo inquisitorio. Esistono semmai — e la storia lo insegna — diversi tipi di procedimentalizzazione della risposta punitiva, dalle forme più rozze a quelle più sofisticate, e solo in questo senso la contrapposizione accusatorio-inquisitorio ha valore. Ogni procedimento, inteso come serie coordinata di atti finalizzata ad uno scopo, sconta infatti, nel suo concreto atteggiarsi, il peso delle stratificazioni ideologiche, ma è proprio l’ideologia — ogni ideologia — che bisogna bandire dal nostro tema, in quanto strutturalmente permeata di indesiderate tensioni finalistiche. « Noi servitori della giustizia non abbiamo niente da combattere, niente da ottenere, niente da creare », insegnava del resto Feuerbach. Nel procedimento penale si può distinguere tra un momento specificamente deputato all’accertamento (il cosiddetto giudizio o processo) e tutte quelle fasi a quest’ultimo precedenti o seguenti, in funzione preparatoria o esecutoria. Questo nucleo, dalle esclusive funzioni cognitive, non ha uno scopo suo proprio, se per scopo intendiamo un interesse latamente
— 518 — politico. Non è strumento di lotta contro la criminalità, né, specularmente, apparato a tutela delle garanzie individuali. La funzione, infatti, finisce per orientare il risultato, compromettendo la serenità dell’accertamento; diverso è il discorso, invece, nel caso della norma sostanziale, quella sì robustamente provvista di scopo, e dunque legittimamente permeata di opzioni ideologiche. C’è chi, al riguardo, ha autorevolmente parlato di leggi naturali del giudizio. Sono leggi i cui limiti sono imposti dall’epistemologia dominante; perché, a ben vedere, il raggiungimento della verità nella scienza è cosa del tutto simile alla verificazione di un fatto nel processo. Il resto — vale a dire tensioni oltremodo libertarie oppure, che è lo stesso, ideologie del law and order — non fa altro che inquinare il delicato meccanismo della cognizione, capovolgendo il sacrosanto assunto secondo cui è la veritas, e non l’auctoritas, a connotare il giudizio. La carica politica di un orientamento culturale può avere ingresso nelle fasi adiacenti al momento cognitivo vero e proprio, ma lì deve arrestarsi. Si tratta di concetti che faticano ad entrare nel patrimonio genetico giurisprudenziale, nonostante ormai da tempo la scienza giuridica se ne faccia portavoce. Non esiste un genus di verità, al quale ricondurre le species di verità formale e verità materiale; esiste, invece, una sola verità, che è necessariamente relativa perché umana, sempre smentibile dalle successive risultanze, ma comunque più attendibile se sottoposta ad un procedimento di controllo di tipo dialettico. Se queste sono le premesse di un credibile accertamento fattuale, è allora agevole individuare quali siano le leggi naturali del giudizio: contrapposizione dialettica tra le parti, contraddittorio nella ricostruzione del fatto, terzietà dell’organo giudicante. Quelli che la giurisprudenza costituzionale considera come ostacoli al raggiungimento della verità, sono al contrario suoi ineliminabili presupposti; se la ricostruzione di un fatto è maggiormente attendibile quando è sottoposta ad un compiuto procedimento di verificazione e di falsificazione, un atto a rilevanza probatoria assunto unilateralmente da una parte — che sia pubblica o privata, non importa — è solo una informazione sulla quale discutere, ma non può mai costituire prova. In ciò si sostanzia, in definitiva, il giudizio. Il resto è perseguimento di un interesse attraverso un procedimento, salvo poi a discutere, invero sterilmente, sull’interesse maggiormente degno di tutela. Di questa visione si potrebbe criticare un certo agnosticismo; ad essa si potrebbe cioè rimproverare il suo mettere in secondo piano, in nome di una presunta indifferenza assiologica delle regole del giudizio, il profilo politico della questione, relegando in un angolo le grandi opzioni che pure il processo penale chiede inevitabilmente di esercitare. Né si può negare, del resto, come la contrapposizione accusatorio-inquisitorio sia valsa, dall’epoca illuministica in poi, a mitigare di molto l’intrinseca violenza della risposta punitiva, segnando, attraverso il riconoscimento della preferibilità etica del modello accusatorio, un incontestabile progresso civile.
— 519 — Simili preoccupazioni, pure emotivamente giustificabili, sono tuttavia per un certo verso superflue, e per altro senza « contatti » con la presente materia, sempre che si vogliano tenere distinti, all’interno del procedimento penale, il momento del sapere e quello del potere, e le rispettive zone d’influenza. A prescindere dalla considerazione che un giudizio così inteso presenta considerevoli punti di contatto con il modello accusatorio, dire che il giudizio non è apparato a tutela delle garanzie del cittadino non significa voler negare la loro compiuta espansione all’interno dello stesso. Le leggi naturali del giudizio, anzi, esaltano proprio le garanzie; segnano il momento di evoluzione del pensiero liberale, che manifestava, attraverso queste, la mera diffidenza dell’individuo nei confronti dell’autorità; si può dire, anzi, che le garanzie discendono dalle regole della cognizione come vero e proprio effetto naturale delle stesse, per nulla trascurando, peraltro, l’interesse (non individuale, ma pubblico) all’accertamento del supposto fatto di reato. Il contraddittorio nella formazione della prova (legge del giudizio per eccellenza), se concretamente realizzato, adempie infatti ad una duplice funzione: tutela il diritto dell’imputato alla effettiva partecipazione del processo e, nello stesso tempo, non arreca alcun vulnus all’ordinamento giuridico, che, al contrario, può giovarsi di una decisione epistemologicamente accettabile. E lo stesso vale, rovesciando il piano, per il perseguimento delle esigenze di difesa della società dal crimine, che godranno di decisioni « vere », nel senso poc’anzi chiarito, per di più sentite come « giuste » dalla collettività. Questo per ciò che riguarda il momento cognitivo, vale a dire quello del sapere. Circa le altre fasi, estranee al giudizio vero e proprio, un problema di scelte politiche continua a porsi, dato che in questo caso è in gioco il potere; ma si tratta, evidentemente, di altro discorso. Si pensi, per esemplificare, ai divieti di utilizzabilità delle intercettazioni disposte illegittimamente, oppure alla salvaguardia della libertà morale della persona nell’assunzione della prova, o ancora alle questioni de libertate: in questi casi rileva esclusivamente il dato etico, e non quello cognitivo; una regolamentazione di questi settori in un senso piuttosto che in un altro è del tutto indifferente dal punto di vista dell’attendibilità epistemologica del risultato del giudizio. Qui le diverse culture possono avere campo aperto, aumentando o restringendo gli spazi di potere, e dunque di libertà; inutile precisare, peraltro, quanto sia moralmente consigliabile la maggiore restrizione possibile delle occasioni di compressione della libertà e della dignità dell’individuo, già poste in difficoltà dal mero avvio del procedimento penale. Ma nel nucleo relativo alle modalità di accertamento del fatto, massimo conto deve essere dato al sapere, piuttosto che al potere; qualsiasi iniziativa in senso contrario ne snatura la funzione, avvicinandolo alle diverse logiche del diritto sostanziale. 5. Di queste riflessioni il diritto emergenziale ha fatto scempio, manomettendo i delicati meccanismi del diritto delle prove e, più in generale,
— 520 — gli altrettanto delicati equilibri tra auctoritas e veritas all’interno dell’intero procedimento penale. L’illusione decisionista, ancora una volta, ha promesso effettività, iniettando potere in un habitat strutturalmente intriso di sapere; e se a ciò si aggiungono le tristi vicende dell’istituto della custodia cautelare, e le rapide battute d’arresto che qualsiasi ripensamento sul tema ha subito (esemplare, al riguardo, la parabola dell’art. 513), si potrebbe concludere che l’emergenza ha vinto la sua personale battaglia. Gli ottimisti consiglierebbero di guardare con fiducia alla recente riforma dell’art. 111 Cost.; ma un opportuno realismo impone cautela, sia per le modalità del revirement, sia per i contrastanti segnali provenienti dalla legislazione di attuazione, peraltro ancora in itinere. Il fatto è che la cultura dell’emergenza non vive di solo autoritarismo ed efficientismo. Vi è anche una emergenza in bonam partem, che non merita fiducia per il suo solo concedere alle garanzie individuali; il filo rosso, infatti, rimane pure sempre quello della spinta emotiva, del dato normativo come oggetto di un tâtonnement politico incerto e friabile, della prevalenza della risposta sui contenuti. E i risultati sono quelli di sempre: norme male formulate, scarsa cura per la coerenza del sistema, garantismo transeunte e di facciata. Il « nuovo » art. 111 della Costituzione non si sottrae a queste logiche. La rapidità con la quale è stato confezionato — quasi fulminea, trattandosi di riforma costituzionale — è causa di un certo pressappochismo linguistico; il suo pedissequo rifarsi al tradizionale lessico convenzionale, volutamente vago, perché da adattare a sistemi giuridici profondamente diversi tra di loro, stride con la delicatezza della materia che intende regolare; e il fatto non è da sottovalutare, conoscendo la giurisprudenza costituzionale in tema di contraddittorio. Una riforma costituzionale anch’essa figlia dell’emergenza, dunque; apprezzabile nelle sue linee di tendenza, certamente — ed in questo da plaudire —, ma che risente oltre modo del clima nel quale è stata concepita: introduce il principio dell’autodifesa — sempre negato dalla Corte costituzionale — nel procedimento penale, e sembra quasi non accorgersene; tenta con foga di risolvere il problema attualissimo delle dichiarazioni dell’imputato in procedimento connesso, quasi che la tutela del metodo del contraddittorio si esaurisca in ciò, incautamente spostando l’accento, peraltro, dal momento dell’acquisizione a quello della valutazione delle stesse, con tutte le conseguenze che ne derivano; codifica il concetto di « giusto processo », che è slogan, piuttosto che espressione giuridicamente qualificabile in modo compiuto. Le regole della cognizione, astrattamente valorizzate, di fatto evaporano in forme dai contorni difficilmente delineabili. Se poi si passa alle prospettive di attuazione ordinaria, il quadro diventa ancora meno chiaro. Il progetto di legge che questa riforma costitu-
— 521 — zionale intende mettere in pratica nulla dice riguardo al regime delle contestazioni e appesantisce il regime della valutazione della prova; nel frattempo, un progetto di riforma sulle indagini difensive tenta l’ennesima sortita a danno del contraddittorio: l’intento è quello — lodevole — di potenziare il diritto di difesa; ma se si intende perseguirlo attribuendo agli atti di indagine raccolti dal difensore la stessa efficacia probatoria di quelli del pubblico ministero, non si può non denunciare la contraddizione rispetto alla recente riforma costituzionale, che avrebbe più semplicemente imposto la riconduzione di tutti gli atti di indagine ad un’efficacia probatoria meramente contestativa. È una delle facce, del resto, del cosiddetto garantismo inquisitorio, che non elimina le disuguaglianze, ma le moltiplica, a danno della coerenza del sistema. Tutto ciò, mentre la legge n. 479 del 1999 (c.d. legge Carotti), eliminando nel giudizio abbreviato la necessità del consenso del pubblico ministero e il requisito della decidibilità allo stato degli atti, risponde alla crisi della giustizia penale italiana con antidoti a dire poco discutibili, vale a dire con la fuga dal contraddittorio e mediante vistose lesioni alla funzione general-preventiva della pena; tutto ciò, mentre la nuova modulazione dell’udienza preliminare amplifica i poteri del suo organo decidente sino ad avvicinarlo alla figura del giudice istruttore, la cui scomparsa era stata ritenuta proprio uno dei punti di forza della codificazione del 1989. Le cassandre aggiungeranno, al quadro fino ad ora delineato, i timori per gli interventi adeguatori della Corte costituzionale, che inevitabilmente verrà chiamata a giudicare sulla compatibilità tra il modificato articolo 111 della Costituzione e un codice ormai lontano dalle logiche del contraddittorio. È certo che il principio di non dispersione dei mezzi di prova non avrà più vita facile: troppo perentoria l’affermazione secondo cui il processo penale « è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova ». Ma è francamente troppo ottimistico ritenere ad esso precluso qualsiasi residuo margine di manovra, specie quando la Corte valuterà l’eventuale deficit di contraddittorio nelle norme codicistiche preesistenti alla riforma costituzionale. A ben vedere, le fortune del processo penale in Italia — dai « numeri » alla più profonda questione culturale — dipenderanno dal ruolo che il diritto emergenziale verrà via via assumendo. L’esperienza dimostra come anche le norme costituzionali possano essere modulate a seconda delle contingenze. E il clima attuale, purtroppo, non fa sperare in meglio: nuove emergenze attenderanno sicuramente dietro l’angolo, e il pendolo, c’è da giurare, questa volta non scandirà di certo i ritmi del giudizio, e delle sue leggi naturali. VINCENZO GAROFOLI Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Foggia
PROFILI COSTITUZIONALI DELLA RICHIESTA DI PROCEDIMENTO
SOMMARIO: 1. La richiesta di procedimento in generale. — 2. Dubbi sulla costituzionalità dell’istituto per quel che concerne: a) il principio di obbligatorietà dell’azione penale. — 3. (Segue): b) il canone dell’eguaglianza. — 4. (Segue): c) le regole sull’ordinamento giurisdizionale. — 5. (Segue): d) l’inviolabilità del diritto di difesa. — 6. Un tentativo di risolvere le anzidette questioni attraverso il richiamo a valori, beni e/o interessi costituzionalmente rilevanti: a) generalità. — 7. (Segue): b) quanto ai reati commessi all’estero o in danno di Stato straniero. — 8. (Segue): c) circa i delitti punibili a querela dell’offeso commessi in danno del Presidente della Repubblica. — 9. (Segue): d) in ordine ai reati realizzati nell’esercizio del comando in guerra o contro le leggi o gli usi della guerra. — 10. (Segue): e) con riferimento a determinati reati militari compiuti in tempo di pace. — 11. Conclusioni: a) le critiche, in una prospettiva de iure condendo, all’obbligatorietà dell’azione penale e la loro non incidenza sulla validità delle precedenti deduzioni. — 12. (Segue): b) procedibilità subordinata a richiesta d’una autorità politica e/o amministrativa e diritto dell’imputato a veder giurisdizionalmente riconosciuta la propria innocenza.
1. La richiesta di procedimento in generale. — Secondo la definizione corrente (1) — la ‘‘richiesta di procedimento’’ è un atto con il quale, relativamente a determinati reati espressamente previsti dalla legge, la competente autorità elimina un ostacolo al procedimento penale sollecitandone lo svolgimento. Per l’orientamento oggi prevalente, tale atto — pur essendo suscettibile d’emanazione o no a seconda dell’esito d’una valutazione discrezionale basata su considerazioni d’ordine politico (2) — non è ‘‘politico’’, ma amministrativo, con la conseguenza di risultare impugnabile davanti ai giudici amministrativi, nonché sindacabile dall’autorità giudiziaria ordinaria quanto alla sussistenza dei suoi requisiti formali (3). (1) Cfr. G. TRANCHINA, in D. SIRACUSANO, A. GALATI, G. TRANCHINA ed E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, 3a ed., II, Milano, 1999, 57. (2) V. A.A. DALIA e M. FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, 2a ed., Padova, 1999, 429; S. DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, in E. FORTUNA, S. DRAGONE, E. FASSONE, R. GIUSTOZZI ed A. PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, 4a ed., Padova, 1995, 502; G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., Torino, 1997, 288; G. TRANCHINA, loc. cit. (3) G. ILLUMINATI, Richiesta di procedimento, in Enc. del dir., XL, Milano, 1989, 502. Peraltro, queste autorevoli conclusioni d’ordine generale sono state disattese dalla giuri-
— 523 — L’esercizio del potere di richiesta soggiace ad un termine perentorio (cfr., ad esempio, per quanto riguarda il potere attribuito al Ministro di grazia e giustizia, l’art. 128 c.p.) (4); l’atto de quo è irrevocabile e sottoposto al regime d’estensione soggettiva previsto per la querela (art. 129 c.p.); secondo Taluno (5), il suddetto potere sarebbe, altresì, irrinunciabile; altro orientamento (6), per contro, ammette la rinuncia, ma anche la revocabilità della medesima. In particolare, il vigente ordinamento esige la richiesta nelle seguenti ipotesi: a) delitto politico commesso all’estero non rientrante tra quelli contro la personalità dello Stato (art. 8 comma 1 c.p.); b) delitto comune del cittadino all’estero, punito con pena restrittiva della libertà personale inferiore, nel minimo, a tre anni, quando il colpevole si trovi nel territorio dello Stato (art. 9 comma 2 c.p.); c) delitto comune dello straniero all’estero, ove ricorrano le altre condizioni stabilite dall’art. 10 c.p.; d) delitto punibile a querela della persona offesa commesso in danno del Presidente della Repubblica (art. 127 c.p.); e) offesa alla libertà o all’onore di Capi di Stati esteri o contro rappresentanti di tali Stati o alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato straniero (art. 313 comma 4 c.p. in relazione agli artt. 296-299 c.p.); f) reato, contro persona internazionalmente protetta, sprudenza quando s’è trattato della loro applicabilità o non alla richiesta da parte del comandante del corpo ex art. 260 comma 2 c.p.m.p.; difatti, è stato affermato che: a) l’atto in oggetto non va motivato, o in quanto esso è processuale e non amministrativo (Cass., 16 dicembre 1996, P.G. mil. in c. Gargiulo, in C.E.D. Cass., 206665), o perché il medesimo è espressione d’un potere discrezionale (Cass., 24 marzo 1989, P.M. in c. Del Rosso, in Rass. della giust. mil., 1990, 270); b) di conseguenza, l’omessa motivazione non potrebbe essere ragione né di censura né di disapplicazione da parte del giudice penale (App. mil. Roma, 7 luglio 1989, Federici, in Rass. della giust. mil., 1990, 87-90, con nota critica del S. RIONDATO, Ancora sui contrasti fra ‘‘sezioni’’ di Corte militare d’appello in materia di motivazione della richiesta di procedimento; contra v. anche G. PAGLIARULO, La richiesta di procedimento nel rito penale militare e alla luce del nuovo codice di procedura penale, ivi, 1989, 225-226 e 232-239). (4) A questo specifico riguardo, si pone la questione se i termini rispettivamente fissati dai due commi dell’art. citato nel testo concernano ipotesi distinte, oppure, quando il colpevole sia presente nel territorio dello Stato, debbano applicarsi concorrentemente: nel primo senso è la giurisprudenza (Cass., 13 gennaio 1993, Shoukry Tarek, in Arch. della nuova proc. pen., 1993, 458; Id., 17 dicembre 1991, Andriolo Stagno, in Giur. it., 1991, II, 73-74; conf. S. DRAGONE, loc. cit.; G. TRANCHINA, in op. cit., II, 58), nel secondo, una parte della letteratura (F. CORDERO, Procedura penale, 4a ed., Milano, 1998, 408; ID., Codice di procedura penale commentato, 2a ed., Torino, 1992, 411; G. ILLUMINATI, op. cit., 506; P.P. RIVELLO, Richiesta di procedimento, in Dig. delle disc. pen., XII, Torino, 1997, 199; M. ROMANO e G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1990, 262-263). (5) G. PAGLIARULO, op. cit., 224. (6) Nel senso che la nota con cui il Ministro di grazia e giustizia comunica all’autorità giudiziaria che non intende domandare procedimento penale dev’essere considerata come un comune atto amministrativo, onde va ritenuta suscettibile di revoca, con conseguente piena validità giuridica della richiesta inoltrata con la nota suddetta v. Cass., 3 giugno 1988, Vinci, in Cass. pen., 1989, 1483, 1250.
— 524 — rientrante nell’elenco di cui all’art. 1 l. 25 marzo 1985, n. 107, commesso all’estero dal cittadino o dallo straniero in danno di chi eserciti funzioni per conto dello Stato italiano, o dello straniero riparato sul territorio dello Stato e non estradato (art. 2 l. cit.); g) reato militare commesso all’estero (non in territorio di occupazione, soggiorno o transito) (art. 18 c.p.m.p.); h) comunicazione all’estero di notizie non segrete né riservate (art. 94 c.p.m.p.) e violazione di doveri generali inerenti al comando (artt. 103112 c.p.m.p.) (art. 260 comma 1 c.p.m.p.); i) reato militare per il quale è prevista la reclusione non superiore nel massimo a sei mesi, o danneggiamento di edifici militari (art. 168 c.p.m.p.), o distruzione o deterioramento di cose mobili militari (art. 169 c.p.m.p.), nei casi di particolare tenuità del danno (art. 171 n. 2 c.p.m.p.) (art. 260 comma 2 c.p.m.p.); l) atto commesso nell’esercizio del comando in guerra o reato contro le leggi o gli usi della guerra (art. 248 c.p.m.g.); m) rinnovamento del giudizio nei casi indicati dagli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p. (art. 11 comma 2 c.p.), o per reato commesso all’estero dal cittadino o dallo straniero al servizio di una nave o d’un aeromobile nazionale (art. 1080 c.nav.), o per concorso, all’estero, in un reato riguardante il reclutamento obbligatorio (art. 145 comma 2 d.P.R. 14 febbrato 1964, n. 237), o per reato militare commesso all’estero (art. 239 c.p.m.g.). A seconda del caso, competente ad effettuare la richiesta è il Ministro di grazia e giustizia (nelle ipotesi di cui alle lett. a), b), c), d), e), f), e per tutte le eventualità di rinnovamento del giudizio indicate alla lett. m), eccettuata quella di cui all’art. 239 c.p.m.g.), il Ministro (quello della difesa o quello delle finanze) da cui dipende il colpevole (nell’ultima evenienza richiamata, nonché in quelle considerate alle lett. g) ed h)), il ‘‘Ministro competente’’ per gli illeciti di cui alla lett. l)), il ‘‘comandante del corpo’’ (7) o ‘‘d’altro ente superiore’’ nei casi di cui alla lett. i). Quanto alla natura giuridica dell’istituto in esame, sembra, ormai, incontrovertibile ch’esso debba farsi rientrare nel novero delle condizioni di procedibilità: da un lato, se l’azione penale viene esercitata in mancanza della prescritta richiesta, il giudice, rilevata tale circostanza, è tenuto a dichiararla immediatamente d’ufficio in conformità all’art. 129 comma 1, c.p.p., senza poter prendere in considerazione il merito dell’imputazione, essendo quest’ultima viziata da nullità assoluta ai sensi degli artt. 178 lett. (7) Di appartenenza, non di temporanea aggregazione: cfr. Cass., 28 ottobre 1985, Proc. gen. Napoli in c. Bargagallo, in Foro it., 1986, II, 400 ss., con nota adesiva del R. MESSINA, Titolarità e presupposti della richiesta di procedimento nel rito penale militare. La Corte costituzionale, con la sentenza 13 dicembre 1991, n. 449, ha dichiarato illegittimo l’art. 260 comma 2 c.p.m.p. nella parte in cui non prevedeva che i reati da esso contemplati fossero puniti a richiesta del comandante di altro ente superiore allorché il comandante del corpo di appartenenza del militare colpevole fosse la persona offesa dalla condotta illecita.
— 525 — b) e 179 comma 1 c.p.p.; dall’altro, una volta ritualmente pronunciato, sulla base del medesimo presupposto, il ‘‘non luogo a’’ (o il ‘‘non doversi’’) procedere (ex art. 425 comma 1 o 529 comma 1 c.p.p.), tale conseguente provvedimento, anche nei casi d’intervenuta sua inimpugnabilità con i mezzi ordinari, non impedisce un nuovo processo per lo stesso fatto e contro la medesima persona se, in séguito, è proposta la richiesta (artt. 345 comma 1 e 649 comma 1 c.p.p.). Dunque, poiché la mancanza di quest’ultima preclude l’esame della res iudicanda, mentre il sopravvenire della medesima alla declaratoria d’improcedibilità lo rende doveroso, segue la logica delle norme concludere — uniformemente, del resto, alla rubrica del titolo III del libro V c.p.p. (8) — nel senso che l’atto de quo ha rilevanza meramente formal-procedimentale (9). 2. Dubbi sulla costituzionalità dell’istituto per quel che concerne: a) il principio di obbligatorietà dell’azione penale. — Gli aspetti della ‘‘richiesta di procedimento’’, come delineati brevemente nel precedente §, conducono ad un’ovvia perplessità: posto che, nei casi in cui è prescritta la condizione de qua, l’esercizio o non dell’azione penale vien fatto dipendere dal risultato d’una valutazione amministrativo-discrezionale, talora effettivamente ispirata da criteri politici, di un’autorità esecutiva, come conciliare il nostro istituto con la norma costituzionale che obbliga il pubblico ministero ad esercitare l’azione penale? L’argomento in base al quale tale quesito vien ritenuto superato dalla giurisprudenza costituzionale e da gran parte della dottrina è fin troppo noto: la regola testé citata escluderebbe solo che al suddetto magistrato possa esser attribuito di determinarsi o no ad instaurare il processo secondo valutazioni d’opportunità, ma non che il legislatore ordinario abbia potestà discrezionale nel definire i presupposti dell’obbligo d’agire, in particolare, facoltà di subordinare la nascita di quest’ultimo al verificarsi di determinate circostanze, liberamente individuabili nell’àmbito dell’attività (8) Si legge, al riguardo, nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (v. in Supplemento ordinario ordinario n. 2 alla ‘‘Gazzetta Ufficiale’’ n. 250 del 24 ottobre 1988 — Serie generale, 83): ‘‘È bensì vero che la querela è istituto di ordine chiaramente processuale e che la sistemazione delle disposizioni relative, in parte nel codice penale e in altra parte nel codice di procedura penale, ha una discutibile giustificazione tecnica e dà luogo, inoltre, a notevoli inconvenienti pratici; ma non è sembrato possibile inserire nel codice di procedura penale l’intera disciplina dell’istituto, perché diversamente si sarebbero create delle inammissibili duplicazioni normative’’. (9) Sulla natura processuale della richiesta v., tra le opere più recenti, F. CORDERO, Procedura, cit., 400-402; A. GAITO, Procedibilità (condizioni di) (diritto processuale penale) a) Caratteri generali, in Enc. del dir. Aggiornamento, II, Milano, 1998, 739; ID., Querela, richiesta, istanza, in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, 1-2; ID., Procedibilità — b) Diritto processuale penale, in Enc. del dir., XXXV, Milano, 1986, 808; R. ORLANDI, Procedibilità (condizioni di), in Dig. delle disc. pen., X, Torino, 1995, 45.
— 526 — di produzione normativa (10). A ben vedere, in fondo, siffatto orientamento coincide con quello secondo cui le condizioni di procedibilità derogherebbero al principio di ‘‘officialità’’ (cfr. artt. 50 c.p.p 1988 e 1 c.p.p. 1930), ma non a quello di obbligatorietà, dell’azione penale (11). Peraltro, il ragionamento de quo presta il fianco ad una facile obiezione: l’art. 112 Cost., se inteso nel modo suesposto, consentirebbe un’indefinibile estensione di novero ed area delle condizioni di procedibilità, ond’esso risulterebbe suscettibile d’un completo svuotamento del suo autentico significato precettivo: cosa impedirebbe, per esempio, di stabilire con legge ordinaria che, in materia di delitti contro l’ordine pubblico (artt. 414-421 c.p.p.), si possa procedere soltanto previa richiesta del questore (12), o, addirittura, che, per agire in relazione a qualsiasi reato, il pubblico ministero debba essere richiesto dal Ministro di grazia e giustizia? Né gioverebbe replicare che, nell’istituire (e/o ampliare l’àmbito di) condizioni della procedibilità, il legislatore sarebbe pur sempre vincolato dall’obbligo, di rango costituzionale, della ragionevolezza (13): si tratterebbe d’un limite, davvero, troppo elastico: buone ragioni per subordinare (10) Tale concetto è stato asserito, per la prima volta, da Corte cost., 5 maggio 1959, n. 22, a proposito dell’autorizzazione a procedere (‘‘La riaffermazione’’ costituzionale ‘‘del principio di obbligatorietà’’ dell’azione penale ‘‘non vale ad escludere che l’ordinamento possa in via generale stabilire che, indipendentemente dall’obbligo del pubblico ministero, determinate condizioni concorrano perché l’azione penale possa esser promossa o proseguita’’; il relativo incidente era stato sollevato da Pret. S. Daniele del Friuli, 18 dicembre 1957, Presello: v. in questa Rivista, 1958, 877 ss., con nota adesiva del G. CONSO, Illegittimo l’istituto dell’autorizzazione a procedere?). Nello stesso senso, successivamente, Corte cost., 12 luglio 1967, n. 105; nonché, in dottrina, E. CASETTA, Autorizzazione a procedere, in Enc. del dir., IV, Milano, 1959, 524; ID., in Giur. cost., 1959, 320 ss.; A. GAITO, Procedibilità, cit., 814-815; G.C., in questa Rivista, 1959, 611; R. ORLANDI, op. cit., 49-50; ID., L’autorizzazione a procedere, Torino, 1994, 27; G. TRANCHINA, Autorizzazione a procedere e principi costituzionali, in Giur. cost., 1970, 84-87; ID., L’autorizzazione a procedere, Milano, 1967, 154-155; C. VALENTINI REUTER, Le forme di controllo sull’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, 56. La critica fondamentale a siffatto orientamento è quella per cui ‘‘così si dà per risolto a priori il problema cruciale, che è quello del reciproco valore che, ai fini dell’instaurazione dei processi penali, deve attribuirsi alle interpretazioni dell’interesse pubblico rispettivamente provenienti dal pubblico ministero e da altri organi’’ (M. CHIAVARIO, Riflessioni sul principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, in Scritti in onore di C. Mortati. Aspetti e tendenze del diritto costituzionale, 4, Le garanzie giurisdizionali e non giurisdizionali del diritto obiettivo, Milano, 1977, 101-102; conf. M. MONTAGNA, Autorizzazione a procedere e autorizzazione ad acta, Padova, 1999, 230-231). (11) Cfr. G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, 13a ed., Napoli, 1988, 75; ID., Trattato di diritto processuale penale, I, Napoli, 1961, 143. (12) V., per tale esempio, M. SESTA, I privilegi dei comandanti di corpo. Pretesa legittimità della condizione di procedibilità ex art. 260 comma 2 c.p.m.p., in Giur. cost., 1977, I, 399. (13) In tal senso R. ORLANDI, op. ult. cit., 28-29.
— 527 — l’esercizio dell’azione penale all’esito d’una ponderazione d’interessi diversi da quello (o da quelli) tutelato (o tutelati) dalla norma incriminatrice violata se ne potrebbero trovare, di volta in volta, a bizzeffe. Sembra opportuna, a questo punto, una precisazione: la questione qui affrontata assume una diversa rilevanza a seconda che la si riferisca a quelle condizioni le quali risultano integrate da una manifestazione di volontà cui è legittimato l’offeso dal reato (esempio: querela o istanza) e quelle che, come la richiesta, consistono in un provvedimento discrezionalmente emanabile o non da un’autorità diversa da quella giudiziaria. Con riferimento alle prime, infatti, la necessità d’una dichiarazione del soggetto offeso per la perseguibilità dell’illecito ben potrebbe essere considerata come derivante dall’esigenza di verificare sintomaticamente l’offensività o non del fatto commesso (14), in considerazione della sua tenuità, oppure la minore offensività del medesimo rispetto al possibile pregiudizio derivante dal processo (15); insomma, qui la disciplina, formale, della procedibilità appare, evidentemente, ispirata da considerazioni sostanziali relative alla meritevolezza, o non, di protezione da parte d’un interesse che potrebbe non esser stato compromesso nonostante la commissione d’un fatto tipico ed antigiuridico; oppure, tale che, nel caso in cui si agisse, sarebbe ristorato solo a prezzo del nocumento relativo ad un altro interesse più rilevante; onde non sembrano esservi limiti costituzionali — salvo che, qui, effettivamente, quello della ragionevolezza (16) — ad un’espansione, per esempio, dell’àmbito della perseguibilità a querela, magari — sempre per esempio — con fini deflattivi del sistema penale (17). Il discorso cambia — è ovvio — laddove colui che è possibile autore d’un reato soggiaccia, circa la sua perseguibilità, alla condizione d’un previo atto d’impulso demandato ad un organo politico e/o amministrativo: fattispecie di questo genere non sono moltiplicabili indefinitamente, perché la corrispondente riduzione d’area delle competenze autonome della (14) È stato autorevolmente affermato che, per il principio di offensività, ‘‘il reato deve sostanziarsi anche nella offesa di un bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa: nullum crimen sine iniuria’’ (F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., Padova, 1992, 204 ss.; cfr. anche, ivi, i corrispondenti, ampi, cenni bibliografici). (15) Per una panoramica critica relativa alle funzioni della querela attraverso il succedersi delle diverse concezioni v., fra le opere più recenti, F. GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Milano, 1993, 1-69. (16) Secondo la Corte costituzionale (ord. 28 luglio 1987, n. 295; nello stesso senso v., già, sent. 19 gennaio 1987, n. 7) ‘‘la scelta di subordinare, mediante la perseguibilità a querela, la persecuzione di certi reati alle determinazioni della parte privata offesa risponde ad esigenze di vario ordine, non necessariamente connesse alla minor gravità degli illeciti, e sottende bilanciamenti di interessi e valutazioni di politica criminale spesso assai complesse, rispetto alle quali deve perciò riconoscersi al legislatore un’ampia discrezionalità, non sindacabile da questa Corte se non sia affetta da manifesta irrazionalità’’. (17) In tal senso v. F. GIUNTA, op. cit., 173-208.
— 528 — magistratura comporterebbe l’elusione, oltre che dell’art. 112 della Carta, di tutta una serie d’altri principi costituzionali dei quali questa norma non è che l’indefettibile corollario: l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (art. 3 comma 1) (18), la stretta legalità in materia penale (art. 25 comma 2) (19), la soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101 comma 2) (20), l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di magistrati istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (102 comma 1) e, soprattutto, appunto, l’autonomia della magistratura e la sua indipendenza da ogni altro potere (art. 104 comma 1). Del resto, il disagio procurato dalla necessità di giustificare, sotto il profilo costituzionale, le condizioni di procedibilità del secondo tipo appare evidente laddove si cerca di risolvere il problema attraverso l’accostamento di tale categoria a quella delle c.d. ‘‘condizioni obiettive di punibilità’’ (v. art. 44 c.p.); in entrambe le serie d’ipotesi — viene addotto — la repressione d’un reato è subordinata ad una valutazione d’opportunità; ma quest’ultima, quando si tratta di requisiti sostanziali della sanzione penale, viene effettuata una tantum dal legislatore, mentre, quando è in questione la sola procedibilità, è, dal medesimo, rimessa pro casu all’operatore (21). Però, anche questa soluzione non sembra resistere ad un’altra, ovvia, osservazione: essa dà per già provato quello che, invece, bisogna ancora dimostrare: che, cioè, sia costituzionalmente legittima quest’ultima delega (18) Il collegamento fra obbligatorietà dell’azione penale e principio di uguaglianza viene assai di frequente sostenuto sia in giurisprudenza che in dottrina: v., ad es., di recente, Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88; P. BARILE, L’obbligatorietà dell’azione penale, in Scritti in onore di A. Bozzi, Padova, 1992, 36; G.D. PISAPIA, Relazione introduttiva, ne Il pubblico ministero oggi, Milano, 1994, 17; nonché, già in precedenza, G. LEONE, Manuale, cit., 76; ID., Trattato, cit., I, 144. Secondo altra opinione, il contrario principio della discrezionalità potrebbe riuscire perfino utile alla reale tutela della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, se la discrezionalità venisse intesa come criterio di valutazione di elementi di fatto ulteriori e specificanti, rispetto alla descrizione operata dalla legge penale (V. ZAGREBELSKY, Indipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, a cura di G. Conso, Bologna, 1979, 6). (19) Dalla regola per cui ‘‘Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso’’ si desume il principio dell’indisponibilità della tutela penale: v., in tal senso, fra l’altro, Corte cost., sent. n. 88 del l991, cit.; nonché P. BARILE, loc. cit.; F. CORDERO, op. ult. cit., 413; P. DE LALLA, Il concetto legislativo di azione penale, Napoli, 1966, 83; E. MARZADURI, intervento, ne Il pubblico ministero oggi, cit., 144. (20) Difatti, posto il principio ‘‘ne procedat iudex ex officio’’, la limitazione dell’autonomia del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale comporterebbe omologa restrizione del novero dei fatti sottoposti all’esplicazione della funzione giurisdizionale e, quindi, una riduzione complessiva della imparzialità di quest’ultima; cfr. P. BARILE, loc. cit.; nonché, infra, § 4. (21) G. NEPPI MODONA, sub art. 112, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, La magistratura, tomo IV, artt. 111-113, Bologna-Roma, 1987, 50.
— 529 — — in particolare quando il clinico prescelto sia autorità estranea all’ordine giudiziario — e non si faccia, invece, con siffatta operazione, entrare dalla finestra quella discrezionalità di cui l’art. 112 mentovato tende ad impedire l’ingresso dalla porta. Del pari, non sembra condivisibile un’ammissione di costituzionalità limitata alla richiesta di procedimento ‘‘attiva’’, a quella, cioè, basata sul riconoscimento d’una prerogativa di ‘‘autotutela’’ al soggetto offeso dal reato (22). Difatti l’attribuzione d’un simile potere ad un organo politico e/o amministrativo non viola meno i principi richiamati nel presente § per il fatto d’essere effettuata in considerazione della qualità di ‘‘vittima’’ del legittimato. 3. (Segue): b) il canone dell’eguaglianza. — Del resto — è facile intuire da quanto detto nel precedente § — la legittimità o l’illegittimità, sotto il profilo costituzionale, di quelle condizioni di procedibilità che — come la richiesta — presuppongono una valutazione discrezionale da parte d’un organo pubblico non appartenente all’ordine giudiziario appare discutibile anche con diretto rapporto ad altri princlpi della Carta. Sembra da considerare, anzitutto, la regola basilare per cui ‘‘Tutti i cittadini... sono eguali di fronte alla legge’’ (art. 3 comma 1): sarebbe valida, allora, la legge ordinaria che demandasse, pregiudizialmente, ad un’autorità politica e/o amministrativa di sollecitare o no, pro casu, il pubblico ministero affinché questi instauri il processo penale? Per rispondere a tale quesito, la Corte costituzionale si è basata sulla distinzione fra le condizioni di procedibilità fondate sulla qualità del soggetto attivo del reato e quelle fissate con riferimento alla tipologia degli illeciti perseguibili sub condicione: solo le prime violerebbero il principio di eguaglianza (23), non anche le seconde, in virtù delle quali, difatti, tutte le persone che avessero commesso uno o più tra i reati testé indicati si troverebbero egualmente nella stessa posizione quanto alla loro suscettibilità d’esser processate (24). (22) M. CHIAVARIO, Ancora sull’azione penale obbligatoria: il principio e la realtà, in L’azione penale tra diritto e politica, Padova, 1995, 123. Un’ipotesi di richiesta ‘‘attiva’’ potrebbe essere considerata quella di cui all’art. 127 c.p., il quale subordina alla mentovata condizione la procedibilità per il delitto punibile a querela commesso in danno del Presidente della Repubblica. Secondo chi scrive, peraltro, la disposizione testé citata è da ritenere, si, costituzionalmente legittima, ma per ragione differente: cfr., infra, § 8. (23) Vanno ricordate, a questo proposito, le sentenze costituzionali 18 febbraio 1965, n. 4, e 6 giugno 1963, n. 94, mediante le quali è stato dichiarato illegittimo, con riferimento anche all’art. 3 della Carta, l’istituto della garanzia amministrativa, quale anteriormente preveduto, rispettivamente, dagli artt. 158 t.u. 4 febbraio 1915, n. 148, 22 t.u. 3 marzo 1934, n. 383 e 16 c.p.p. 1930. (24) Cfr. Corte cost., sent. n. 22 del 1959, cit.
— 530 — Per fare un esempio, quindi, l’art. 8 comma 1 c.p., nel prevedere la punibilità, a richiesta del Ministro di grazia e giustizia, di coloro che abbiano commesso all’estero certi delitti politici, collocherebbe tutti i medesimi soggetti in un’identica situazione circa la loro assoggettabilità alla repressione penale, il che risulterebbe conforme al principio d’eguaglianza. Ma, allora, sulla base di tale esemplificazione, risulta fin troppo immediata un’ulteriore obiezione: l’astratta, identica, perseguibilità di tutti gli appartenenti ad una determinata categoria non fa venir meno il pericolo di discriminazioni irragionevoli fra gli stessi; perché — sempre restando nell’esempio —, in concreto, Tizio, che ha commesso all’estero un dato illecito politico, viene perseguito su richiesta e Caio, autore, pure in territorio straniero, di un delitto della stessa specie, invece, no? Pare, a questo punto, da evidenziare un aspetto non sempre, in passato, pienamente colto: l’uso — tanto più quando effettuato per opera di un’autorità politica — d’un potere discrezionale in ordine alla scelta del soggetto (o dei soggetti) da far sottoporre a procedura penale può non solo determinare situazioni d’ingiusto privilegio a favore di taluno (o di taluni) dei teoricamente perseguibili, ma anche consentire operazioni di tipo, appunto, persecutorio, come, ad esempio, quella consistente nel permettere tale assoggettamento soltanto nei confonti d’una persona nell’àmbito della serie indeterminata dei possibili autori di medesime fattispecie delittuose. In conclusione, l’istituto della richiesta di procedimento, anche laddove previsto con oggettivo riferimento a classi d’illecito d’un determinato tipo, non si sottrae alla censurabilità sotto il profilo della violazione dell’art. 3 comma 1 Cost. (25); salvo che la deroga a quest’ultimo non si giustifichi attraverso un’operazione logica correlata alla tutela di altri valori, beni e/o interessi, di rango costituzionale (cfr., infra, § 6). 4. (Segue): c) le regole sull’ordinamento giurisdizionale. — Come s’è accennato nel § 2, la procedibilità a richiesta, comportando la pregiudizialità dell’esito d’una valutazione discrezionale, rimessa ad un’autorità politica e/o amministrativa, rispetto all’esercizio dell’azione penale e, quindi, all’attuazione della giurisdizione, presta il fianco al sospetto d’una sua antinomia, altresì, con i principi costituzionali di: a) autonomia ed indipendenza della magistratura da ogni altro potere (art. 104 comma 1); b) soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101 comma 2); c) esercizio (25) Si è osservato che ‘‘se la condizione di procedibilità consistesse in una richiesta’’ (...) ‘‘formulata da un organo pubblico sulla base della mera valutazione di opportunità che un dato fatto concreto venga punito, ciò potrebbe pregiudicare l’uguaglianza degli individui davanti alla legge penale’’ (M. SCAPARONE, Conclusioni, ne Il pubblico ministero oggi, cit., 274).
— 531 — della funzione giurisdizionale solo da parte di magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 102 comma 1). Si potrebbe tentare di superare siffatti rilievi adducendo — sulla scia di una non recente sentenza costituzionale (26) — che la condizione de qua, una volta posta in essere, non influirebbe sul modo in cui il pubblico ministero e il giudice esercitano le rispettive funzioni. Tuttavia, questo sarebbe, evidentemente, un argomento non risolutivo, perché il preindicato sospetto riguarda non le ipotesi in cui la richiesta sia stata formulata (nelle quali il pubblico ministero e il giudice svolgeranno i loro compiti — come, almeno, è da auspicarsi — , rispettivamente, con autonomia ed imparzialità) ma quelle in cui ciò non sia avvenuto, nelle quali ai suddetti magistrati risulterà preclusa in limine ogni funzione per volontà contraria d’un organo non giudiziario. Insomma, il pregiudizio derivante dalla procedibilità solo a richiesta concerne non il quomodo, bensì il quantum di esercizio dell’azione e della giurisdizione penali: la possibilità di non emanare, o anche solo di ritardare, l’atto de quo in un numero di casi non indicabile a priori comporta quella d’una restrizione, dai margini imprevedibili, dell’operatività delle anzidette funzioni; onde il suesposto dubbio di costituzionalità appare tutt’altro che infondato. 5. (Segue): d) l’inviolabilità del diritto di difesa. — Non si può escludere, infine, che la subordinazione del processo alla richiesta d’una autorità non giudiziaria comprima il diritto di difesa dell’imputato (garantito dall’art. 24 comma 2 Cost.). Difatti, il giudice delle leggi ha più volte ritenuto questo diritto comprensivo pure di quello, eventuale e più specifico, a veder riconosciuta la propria innocenza con una sentenza di merito (27); orbene, un provvedimento di tal genere potrebbe risultare precluso in conseguenza del (discrezionale) non esercizio della facoltà di richiesta da parte della testé indicata autorità (28). Come si vedrà (infra, § 12), siffatto rilievo non sembra poter essere, per tutte le ipotesi, superato. 6. Un tentativo di risolvere talune delle anzidette questioni attraverso il richiamo a valori, beni e/o interessi costituzionalmente rilevanti: a) generalità. — A questo punto della trattazione, si potrebbe essere portati a concludere che l’istituto in oggetto, essendo congenitamente antico(26) La n. 22 del 1959, cit. (27) Cfr. Corte cost., 31 maggio 1990, n. 275; Id. 14 luglio 1971, n. 175. (28) Cfr. P.A. CAPOTOSTI, Ordinamento costituzionale e autorizzazione a procedere per i reati di vilipendio politico, in Scritti in onore di C. Mortati, cit., 4, 82.
— 532 — stituzionale, va radicalmente espulso dal nostro ordinamento. In tal senso, del resto, una dottrina (29) nega la legittimità di quelle condizioni del processo la cui integrazione è determinata da una manifestazione di volontà affidata al potere discrezionale di un’autorità non giudiziaria. Ma una soluzione così drastica prescinderebbe dalla seguente considerazione: se è vero che il subordinare l’azione penale, in molteplici ipotesi, ad una richiesta di procedimento può incidere su valori, beni e/o interessi costituzionalmente tutelati, resta, però da verificare, per ciascuno dei suddetti casi, se tale operazione sia sempre arbitraria o non trovi, invece, giustificazione nell’esigenza di consentire la prevalenza — a séguito della valutazione discrezionale d’un organo politico e/o amministrativo — di altri valori, beni e/o interessi, pure costituzionalmente rilevanti (30). Nei prossimi §§ si cercherà di vedere, con riferimento alle varie ipotesi di richiesta (che, talora, verranno accostate in base a caratteristiche comuni), la corrispondenza o non di ciascuna delle medesime al suddetto paradigma costituzionale. 7. (Segue): b) quanto ai reati commessi all’estero o in danno di Stato straniero. — Come si è visto (cfr. § 1), sussiste, anzitutto, una serie di casi in cui la richiesta è prescritta ai fini della procedibilità per delitti commessi all’estero. Diverse fra le suddette ipotesi — va preliminarmente ricordato — hanno formato oggetto di questioni (nessuna delle quali, tuttavia, è stata accolta) concernenti la rispettiva legittimità. In particolare, per quel che concerne i commi primo e secondo dell’art. 8 c.p., denunciati con riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., i relativi incidenti sono stati considerati inammissibili per irrilevanza, essendo, nella fattispecie, intervenuta la richiesta ministeriale (31); omologa declaratoria, basata su identica ragione, ha riguardato simile quesito sollevato a proposito dell’art. 11 c.p., in rapporto all’art. 3 Cost. (32). Successivamente, circa gli art. 9 comma 2 e 11 comma 2 c.p., di cui era stata prospettata l’illegittimità relativamente agli artt. 2, 107 comma 2 e 110 Cost., è stato affermato essere non irrazionale l’attribuzione del potere di richiesta al Ministro di grazia e giustizia, in considerazione della sue competenze istituzionali (33). (29) G. ILLUMINATI, op. cit., 509. (30) Cfr., in tal senso, O. DOMINIONI, Azione penale, in Dig. delle disc. pen., I, Torino, 1988, 410. (31) Corte cost., 30 marzo 1971, n. 65; al riguardo v., in senso critico, L. CARLASSARRE, Dubbi sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa all’art. 8 c.p., in Giur. cost., 1971, 619 ss. (32) Corte cost., 1o febbraio 1971, n. 1. (33) Corte cost., ord. 25 maggio 1989, n. 289; sulla quale v., in senso critico, E.
— 533 — Comunque, a prescindere da tali precedenti, non sembra impossibile ricavare dal sistema costituzionale una norma tale giustificare la perseguibilità condizionata di certi reati commessi all’estero. A tal fine, bisogna tener presente, anzitutto, il ‘‘principio pacifista’’ (34) sancito dall’art. 11, seconda proposizione, della Carta, per il quale l’Italia ‘‘consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni’’. Una dottrina (35) ritiene, in proposito, che dette limitazioni, introducibili sul presupposto di accordi plurilaterali, richiedano non già l’instaurazione di un’esatta reciprocità con gli altri Stati contraenti, ma semplicemente la non determinazione, a carico dell’Italia, d’una situazione d’assoluta diseguaglianza rispetto a quella che verranno ad assumere i suddetti Paesi. Ed allora, se, per i fini, superiori, della pace e della giustizia tra le Nazioni, la norma da ultimo citata ammette che il nostro Stato autoriduca la sua sfera di sovranità, cosa vieta di ritenere possibile il perseguimento dei medesimi scopi attraverso atti discrezionali unilaterali? In particolare, se, in certi casi, secondo la legge penale italiana, sono punibili reati perpetrati all’estero, tali deroghe al principio generale di territorialità della stessa legge (art. 6 comma 1 c.p.) (36) stanno a significare che, nelle suddette fattispecie, l’Italia perviene ad estendere la propria sovranità al di fuori dei suoi confini. È logicamente conseguenziale, allora, che — ferma restando l’incondizionata punibilità di taluni gravissimi delitti anche se commessi in Paese straniero (v., ad esempio, l’art. 7 c.p.) il nostro Stato, in altre ipotesi, si riservi di subordinare il processo per l’illecito accaduto oltre i propri confini alla valutazione discrezionale d’una sua autorità politica e/o amministrativa, dimodoché quest’ultima sia in grado d’evitare l’esercizio dell’azione penale quando tale iniziativa le appaia potenzialmente pregiudizieBASSO, Richiesta di procedimento, principio di eguaglianza e obbligatorietà dell’azione penale, in Giur. cost., 1990, 837. Per la verità, l’ordinanza testé citata ha cura di precisare che ‘‘la richiesta di cui agli artt. 9 e 11 consegue ad una scelta, vincolata al perseguimento di fini, legislativamente determinati, di politica criminale’’, scelta la quale non potrebbe ‘‘non appartenere ad un organo dell’esecutivo’’. Tuttavia — a nostro avviso — in tal modo, si omette, anzitutto, d’indicare i fini cui va preordinata tale opzione, in secondo luogo (conseguenzialmente) di vedere se tali scopi sottintesi siano tali da assurgere ad un rango costituzionalmente rilevante. (34) V., in proposito, A. CASSESE, sub art. 11, in Commentario alla Costituzione, cit., Art. 1-12. Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, 581. (35) A. CASSESE, op. cit., 581-582. (36) Circa il carattere derogatorio delle norme penali che prevedono la punibilità di fatti commessi all’estero v., per tutti, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 7a ed aggiornata a cura di L. Conti, Milano, 1975, 92.
— 534 — vole per il conseguimento d’uno degli (o di entrambi gli) scopi individuati dal citato art. 11, seconda proposizione. Per fare un esempio, insomma, sarebbe perfettamente adeguato allo spirito della Costituzione il comportamento del Ministro di grazia e giustizia che, edotto dell’avvenuta commissione all’estero d’un reato punibile a richiesta, si astenesse — magari, previa concertazione con il Governo o con il Ministro degli affari esteri — d’emanare siffatto provvedimento, al fine di non compromettere i rapporti amichevoli (o di non aggravare i rapporti già tesi) esistenti con lo Stato nel cui territorio il fatto è avvenuto; tanto più, poi, quando tale linea politica facesse riscontro ad omologa adottata da quest’ultimo Ente, verificandosi, allora, anche, quelle ‘‘condizioni di parità’’ che la norma della Carta sopra ripetuta sembra richiedere. Identico discorso pare possa valere con riferimento ai casi in cui dalla richiesta dipenda non la procedibilità, ma il rinnovamento del giudizio per un reato, commesso all’estero, su cui, quivi, si sia già statuito (cfr. le ipotesi individuate nel § 1); ma, a destare perplessità, circa queste eventualità, è lo stesso istituto del rinnovamento, come quello in contrasto con il principio, in via di progressiva affermazione, del ne bis in idem internazionale (37). Infine, le stesse ragioni di pace e giustizia nei rapporti fra le Nazioni portano a ritenere costituzionalmente legittimo il condizionamento dell’azione penale ad un provvedimento discrezionale d’un organo politico e/o amministrativo anche per fatti, commessi nel territorio italiano, dannosi nei confronti d’uno Stato straniero o d’un suo rappresentante (v., ancora, § 1). 8. (Segue): c) circa i delitti punibili a querela dell’offeso commessi in danno del Presidente della Repubblica. — Quanto al caso di cui all’art. 127 c.p., la sua armonizzazione con il dettato costituzionale appare d’evidente semplicità: il Capo dello Stato ‘‘rappresenta l’unità nazionale’’ (art. 87 comma 1 della Carta), onde sarebbe in contrasto con il carattere super partes della sua posizione ammettere ch’egli possa assumere la veste di querelante, tanto più, poi, in quanto ne deriverebbe il rischio dell’assoggettamento del Medesimo a condanna per spese e danni nel caso di remissione o soccombenza (v. artt. 340 comma 4, 427 e 542 comma 1 c.p.p.) (38). È perfettamente legittimo, quindi, che, nel caso de quo, alla (37) Cfr., al riguardo, R. BARBERINI, Il principio del ne bis in idem internazionale, in Cass. pen., 1999, 1790 ss.; N. GALANTINI, Il principio del ‘‘ne bis in idem’’ internazionale nel processo penale, Milano, 1984, passim; EAD., Il divieto di doppio processo come diritto della persona, in questa Rivista, 1981, 96 ss.; sullo stesso tema v. anche, già in precedenza, G. FOSCHINI e G. LEONE, Effetti internazionali delle sentenze penali, ivi, 1964, 662. (38) Si presuppone qui, evidentemente, l’accoglimento della tesi, dominante, se-
— 535 — sua privata valutazione si sostituisca quella, pubblicistica, del Ministro di grazia e giustizia, avente riferimento all’opportunità o non di richiedere il processo. 9. (Segue): d) in ordine ai reati realizzati nell’esercizio del comando in guerra o contro le leggi o gli usi della guerra. — L’art. 248 c.p.m.g. (secondo il quale — sembra opportuno ricordare — l’azione penale per atti commessi nell’esercizio del comando in guerra e per i reati contro le leggi e gli usi della guerra può essere iniziata, dopo la cessazione dello stato di guerra, solo a richiesta del Ministro competente) ha formato oggetto, con riferimento agli artt. 3 e 28 Cost., d’una questione di legittimità la quale è stata dichiarata manifestamente infondata: la subordinazione del processo penale, nelle ipotesi de quibus, al giudizio dell’autorità politica risulterebbe pienamente giustificato dalla diversità di situazione in cui i militari si trovano ad operare rispetto a tutti gli altri cittadini; né subirebbe menomazione il principio della eguale e diretta responsabilità dei funzionari, poiché le specifiche garanzie apprestate dall’art. 248 sarebbero fondate su situazioni soggettive ed oggettive del tempo di guerra, e non intese a creare privilegi (39). Per il vero, difatti, nelle preindicate fattispecie, la deroga — in favore del militare — al principio di cui all’art. 112 Cost., ed agli altri che al medesimo sistematicamente si collegano, sembra giustificata, limitatamente al periodo dello stato di guerra, in ragione della sospensione delle garanzie costituzionali che detto stato può comportare (40); a guerra finita, invece il permanere, in capo al soggetto de quo, d’una assoggettabilità al processo solo sub condicione costituisce un irragionevole privilegio personale, omologo a quelle forme di garanzia amministrativa delle quali il giudice delle leggi ha fatto, da tempo, appunto, giustizia. 10. (Segue): e) con riferimento a taluni reati militari commessi in tempo di pace. — Per quanto concerne le fattispecie di cui all’art. 260 c.p.m.p., va ricordato preliminarmente che la disposizione di cui al capocondo cui il Presidente della Repubblica è pienamente responsabile per gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni (arg. ex art. 90 comma 1 Cost.); in tal senso v., fra gli altri, F. ANTOLISEI, op. cit., 108; G. BETTIOL, Diritto penale. Parte generale, 9a ed., Padova, 1976, 165-166; G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2a ed., Bologna, 1989, 115-116; F. MANTOVANI, op. cit., 818-819; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, 8a ed., Padova, 1963, 514-515; G. SCARLATO, Presidente della Repubblica II) Responsabilità penale del Presidente della Repubblica, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991, 1. (39) Cass. civ., 9 agosto 1968, n. 2938, Catania ed altro c. Passalacqua e Ministero della difesa-esercito, in Foro it., 1968, I, 2715, con nota contraria del V. CAFFERRA, Incostituzionalità della richiesta di procedimento penale per fatti commessi nell’esercizio del comando in tempo di guerra. (40) Per tale possibilità v. G. FERRARI, Guerra (stato di), in Enc. del dir., XIX, Milano, 1970, 827-828.
— 536 — verso del medesimo — relativa alla procedibilità a richiesta d’un comandante militare di taluni reati militari individuati tra i meno gravi — è stata, tra tutte quelle riguardanti la condizione di procedibilità in oggetto, la più frequentemente denunciata per illegittimità. Nondimeno, la Corte costituzionale, nel corso degli anni, in una difesa ad oltranza della succitata disposizione, ha, di volta in volta, negato che questa violi: a) l’art. 3 comma 1 Cost., sia in relazione alla dedotta diversità di trattamento del militare rispetto agli altri cittadini, data la peculiare situazione del primo (41), sia per ciò che concerne le eventuali discriminazioni tra vari prevenuti militari, perché la discrezionalità nell’applicazione della legge potrebbe dar luogo non a diversità di trattamento incostituzionali, ma solo, tutt’al più, ad una mera disparità di fatto, giuridicamente irrilevante (42); b) gli artt. 3 comma 1 e 24 comma 1 Cost. — invocati per la mancata attribuzione, al militare offeso, nei casi de quibus, del diritto di presentare querela — in quanto si tratterebbe d’implicazione del carattere eminentemente pubblico dell’interesse leso dai reati militari, la quale non eliminerebbe la possibilità d’agire in una sede non penale (43); c) l’art. 28 Cost., poiché: aa) la previsione della richiesta non fa venir meno né l’antigiuridicità penale della condotta né la responsabilità civile di chi l’ha posta in essere (44); bb) le norme costituzionali per ultime citate si limiterebbero a recepire quanto stabilito dalle leggi ordinarie (45); cc) rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore, in ordine a reati di lieve entità, se ricorressero ragioni d’interesse pubblico, sostituire alle sanzioni penali quelle disciplinari (46); d) gli artt. 2 e 52 comma 1 Cost., dato che lo spirito democratico della Repubblica non sarebbe compromesso dalla sostituzione della querela con la richiesta in ipotesi di lesioni lievissime e la posizione dell’offeso resterebbe tutelabile in sede civile (47); e) l’art 97 comma 1 Cost., perché il controllo sulla conformità al precetto, ivi contenuto, delle leggi ordinarie sarebbe ammissibile solo nei limiti in cui fosse diretto a verificare la non arbitrarietà delle medesime (48); f) l’art. 112 Cost., il quale, stabilendo l’obbligatorietà dell’a(41) Corte cost., ord. 16 dicembre 1996, n. 396; cfr. anche Id., ord. 12 novembre 1987, n. 397; per rilievi critici al riguardo v., tuttavia, MAZZI, Prospettive di politica criminale militare, in Rass. della giust. mil., 1985, 665. (42) Corte cost., ord. 10 maggio 1978, n. 60; in senso critico sul punto v., però, G. D’ELIA, Richiesta di procedimento del comandante del corpo e obbligatorietà dell’azione penale, in Giur. cost., 1997, 536. (43) Corte cost. 22 luglio 1976, n. 189; in proposito, peraltro, v. i rilievi del M. SESTA, in op. cit., 395-396. (44) Corte cost., ord. n. 397 del 1997, cit. (45) Cfr. ord. cost. ult. cit. (46) Corte cost., sent. n. 189 del 1976, cit.; Id., ord. n. 396 del 1996, cit. (47) Corte cost., ord. n. 397 del 1987, cit.; cfr. pure Id., ord. n. 296 del 1996, cit. (48) Corte cost., ord. n. 70 del 1978, cit.
— 537 — zione penale, non escluderebbe che l’ordinamento possa fissare determinate condizioni per il promuovimento della stessa, anche in considerazione degli interessi perseguiti dalla pubblica amministrazione (49). Nondimeno, le suesposte motivazioni non hanno fatto venir meno l’atteggiamento complessivamente negativo degli autori in merito alla costituzionalità della preindicata disposizione contenuta nel codice penale militare di pace (50). Anzi, alla critiche poste alla base delle suddette questioni rigettate si è aggiunto che, nella fattispecie de qua, la procedibilità previa richiesta appare espressione d’una capacità di valutare l’offensività del fatto la quale dovrebbe esser sempre sottratta ad un’autorità amministrativa (51). Questo indirizzo non può stupire: il mentovato art. 260 comma 2 non solo appare antinomico con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, ma altresì risulta sostanzialmente ingiustificabile alla luce d’una qualsiasi esigenza di tutelare un qualche valore, bene e/o interesse di rango costituzionale. Di primo acchito, invero, a voler trovare, nel dettato della Carta, un certo punto di riferimento in proposito, si potrebbe esser tentati d’individuarlo nella garanzia del ‘‘buon andamento’’ della pubblica amministrazione, cui tende l’art 97 comma 1 del testo in oggetto; ma — se ben si vede — è tutto da dimostrare che l’efficienza delle forze armate sia assicurata da un sistema che lascia all’assoluta discrezionalità del comandante il far perseguire o non, penalmente, determinati reati militari minori meglio di quanto non lo sarebbe da un altro, indubbiamente più responsabilizzante, il quale ammettesse, per tali illeciti medesimi, un’incondizionata procedibilità, o una procedibilità a querela dell’offeso. Per contro, se c’è, nella Costituzione, un principio senz’altro da porre in relazione con il primo capoverso del citato art. 260, questo è quello per cui ‘‘L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica’’ (art. 52 comma 3 della Carta); ma qui il rapporto norma costituzionale-norma ordinaria è di evidente contrasto, poiché non si riesce a considerare ‘‘democratico’’ un sistema che rimette alla scelta discrezionale del comandante militare l’alternativa tra l’inflizione d’una (49) Corte cost., 18 giugno 1982, n. 114; conf. V. ZAGREBELSKY, Ancora una sentenza costituzionale sulle condizioni di procedibilità, in Cass. pen., 1982, 1689 ss.; contra PIACENTINI, Le decisioni della Corte costituzionale in tema di processo penale militare, in questa Rivista, 1978, 1310. (50) Cfr. P.P. RIVELLO, Richiesta di procedimento, in Dig. delle disc. pen., XII, Torino, 1997, 201-202; R. VENDITTI, Il processo penale militare e il nuovo codice di procedura penale, 3a ed., Milano, 1993, 46-52. (51) MAZZI, op. cit., 661-664.
— 538 — pena disciplinare, oppure d’una sanzione penale, oppure d’entrambe, oppure di nessuna (52). Ad omologhe censure, per identiche ragioni, sembra soggetta la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 260 c.p.m.p. Del resto, la criticata disciplina s’è dimostrata, altresì, inopportuna, in quanto ha determinato la pratica inefficacia dei meccanismi diretti a tutelare penalmente le vittime dei reati nei confronti del fenomeno sociale altamente deviante costituito dal c.d. ‘‘nonnismo’’. Merita, perciò, plauso la proposta di legge (53) che — per garantire, da un lato, ‘‘i diritti inviolabili della personalità e dell’individuo’’ e, dall’altro, le stesse ‘‘dignità’’ e ‘‘immagine delle Forze armate’’ (54) — prevede la punibilità dei reati di cui al ripetuto art. 260 comma 2 su richiesta diretta del militare offeso nel caso d’inerzia del comandante militare protratta successivamente ai quindici giorni dalla commissione o dalla conoscenza del fatto (55). 11. Conclusioni: a) le critiche, in una prospettiva de iure condendo, al principio di obbligatorietà dell’azione penale e la loro non incidenza sulla validità delle precedenti deduzioni. — A questo punto della trattazione sembra opportuno — secondo chi scrive — un duplice ordine di rilievi conclusivi. Anzitutto, le nostre, varie, precedenti considerazioni sono, evidentemente, ispirate da un comune intento: far salvo, in qualche modo, il principio d’obbligatorietà dell’azione penale, come indefettibile corollario d’una serie d’altri princìpi costituzionali diretti a garantire sia diritti e libertà fondamentali, sia la medesima configurabilità d’uno ‘‘Stato di diritto’’. Peraltro, non è possibile ignorare che, da almeno vent’anni, è la stessa obbligatorietà dell’azione penale ad essere riguardata, nel contesto di un’ottica riformatrice, da un ripensamento, ai fini dell’eventuale adozione d’altra soluzione. In tal senso, si sottolinea come tale principio, in concreto, non ‘‘viva’’: nei fatti, al pubblico ministero restano ampi margini di discreziona(52) M. SESTA, op. cit., 393-394. (53) V. Camera dei Deputati. Proposta di legge n. 6347, d’iniziativa dei Deputati Romano Carratelli, Molinari, Borrometi, recante ‘‘Norme per contrastare episodi di violenza nelle Forze armate’’. Presentata il 16 settembre 1999. (54) Cfr. nella Relazione acclusa alla suindicata proposta n. 6347. (55) In tal senso l’art. 2, comma 1, Proposta in oggetto, che prospetta l’inserimento d’un ulteriore capoverso dopo il comma 2 dell’art. 260 c.p.m.p. Inoltre, al comma 4 di questo stesso articolo dovrebbe essere aggiunto, dopo la fine, un periodo per cui la richiesta della persona offesa non potrebbe essere più presentata decorsi sessanta giorni dalla commissione del fatto o da quando l’autorità militare ne avesse avuto notizia (art. 2 comma 2 Proposta cit.).
— 539 — lità, in particolare, quanto a ricerca delle notizie di reato (56), fissazione di priorità per quel che concerne la rispettiva trattazione, scelta del tipo e dei tempi delle indagini da condurre e delle richieste da effettuare, formulazione dell’imputazione, determinazione del rito da seguire (57). Tale situazione risulterebbe tanto più grave poiché comporterebbe l’affidamento della ‘‘politica criminale’’ a soggetti (quali quelli cui, in Italia, sono demandate le funzioni di pubblico ministero) ‘‘politicamente’’, appunto, irresponsabili e sottratti ad ogni controllo. In contrapposizione, si auspica, da un lato, l’introduzione d’un sistema ispirato alla discrezionalità (talora, intesa come regolata con criteri di priorità da stabilirsi in via generale ed astratta) dell’azione penale, dall’altro, la sottoposizione del pubblico ministero ad un organo di vertice — variamente individuato — politicamente responsabile e, come tale, soggetto a controllo da parte di altre istituzioni (58). (56) Cfr., sul tema, P. FERRUA, L’iniziativa del pubblico ministero nella ricerca della notitia criminis, in Legislaz. pen., 1986, 313 ss.; G. TRANCHINA, Il Pubblico Ministero ‘‘ricercatore’’ di notizie di reato; una figura poco rassicurante per il nostro sistema, ivi, 330 ss. (57) Cfr., fra gli altri, G. RICCIO, Il nuovo pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione penale, in Giusto proc., 1990, 28 ss.; V. ZAGREBELSKY, Indipendenza, cit., 9-12. (58) V., in proposito, con diversi orientamenti: O. DOMINIONI, Per un collegamento ministro della giustizia e pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., 44 e ss.; A. PIZZORUSSO, Per un collegamento fra organi costituzionali politici e pubblico ministero, ivi, 30 e ss. Ai fini d’una panoramica critica delle diverse proposte v., altresì, N. ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, Padova, 1996, 157 e ss. Tempo addietro, a volte nel contesto d’un disegno complessivo diretto ad una riforma globale dell’ordinamento costituzionale, si è prospettata la subordinazione dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero all’osservanza di criteri di priorità definiti annualmente dal Parlamento (Cfr. in Senato della Repubblica. XIII legislatura. Disegno di legge costituzionale n. 2059, d’iniziativa dei Senn. La Loggia e altri, comunicato alla Presidenza il 29 gennaio 1997, recante ‘‘Modifiche alla parte II della Costituzione della Repubblica italiana’’, 22; Camera dei Deputati. Proposta di legge costituzionale n. 3122, d’iniziativa dei Deputati Berlusconi ed altri, recante ‘‘Ordinamento della Repubblica delle autonomie e introduzione della forma di governo semipresidenziale’’, presentata il 29 gennaio 1997, 24; Camera dei Deputati. Proposta di legge costituzionale n. 3121, d’iniziativa dei Deputati Pisanu e altri, recante ‘‘Ordinamento della Repubblica delle autonomie e introduzione dell’elezione diretta del Primo Ministro e del governo di legislatura, presentata il 29 gennaio 1997, 25; Camera dei Deputati. Proposta di legge costituzionale n. 3032, d’iniziativa dei Deputati Parenti e Donato Bruno, recante ‘‘Modifiche agli articoli da 100 a 113 della Costituzione’’, presentata il 23 gennaio 1997, 12; tale soluzione era stata, già in precedenza, suggerita dalla dottrina: v. V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, ne Il pubblico ministero oggi, cit., 115-116; conf. G. DI FEDERICO, Dilemmi del pubblico ministero: indipendenza e responsabilità, ivi, 254-258; G. NEPPI MODONA, Principio di legalità e nuovo processo penale, ivi, 124; in senso critico al riguardo cfr., però, M. SCAPARONE, op. cit., 275). Per contro, il Progetto di legge costituzionale elaborato dalla Commissione parlamentare per le riforme istituzionali manteneva fermo l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, tendendo, anzi, ad assicurare l’effettività di tale esercizio attraverso ‘‘misure idonee’’ da stabilirsi con legge ordinaria. Sarebbe spettato, poi, al Ministro della
— 540 — Ed allora, se l’obiettivo delle (o, almeno, di talune) tendenze riformistiche è quello della discrezionalità politicamente controllata, potrebbe sembrare anacronistico mirare, se non all’eliminazione, alla riduzione dell’àmbito di un istituto, quale la richiesta di procedimento, che ha come specifico fine il subordinare l’esercizio dell’azione penale alla valutazione, appunto, discrezionale, di un’autorità politica e/o amministrativa. Tuttavia — a guardare attentamente — il passaggio al sistema prospettato non renderebbe meno problematica la condizione de qua: la discrezionalità eventualmente introdotta sarebbe, semmai, da gestire tenendo presenti finalità generali di politica criminale e, quindi, non più compatibile del principio d’obbligatorietà con la coesistenza di altre facoltà — estranee a quelle proprie dell’organizzazione giudiziaria nel suo complesso — relative alla determinazione d’un requisito per l’esercizio dell’azione penale (59). La verità è che l’istituto considerato ben s’inseriva in un sistema — quale quello emergente dall’ordinamento della giustizia penale del periodo fascista — in cui l’apparato inquirente-requirente, a vertice ministeriale, giustizia riferire annualmente al Parlamento sullo stato della stessa, sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine (art. 132) (V. in Camera dei Deputati n. 3931. Senato della Repubblica n. 2583. XIII legislatura. Commissione parlamentare per le riforme costituzionali. Progetto di legge costituzionale. Revisione della parte seconda della Costituzione (art. 1 della legge costituzionale 24 gennaio 1997, n. 1), trasmesso alla Presidenza della Camera dei Deputati e alla Presidenza del Senato della Repubblica il 30 giugno 1997, 149). Quanto al problema determinato dalla pratica, effettiva, impossibilità di esaurire la trattazione di tutte le notizie di reato, il Consiglio Superiore della Magistratura (Sez. disc., sent. 20 giugno 1997, Vannucci; v. in Giur. cost., 1878 e ss., con nota critica del G. D’ELIA, I principi costituzionali di stretta legalità, obbligatorietà dell’azione penale ed eguaglianza a proposito dei ‘‘criteri di priorità’’ nell’esercizio dell’azione penale) ha affermato che, in tale situazione, è compito del procuratore della Repubblica o, in difetto, del sostituto procuratore, elaborare criteri di priorità i quali, escluso il mero riferimento al caso o alla successione cronologica della sopravvenienza, non possono non derivare dalla gravità e/o offensività sociale dei reati. Com’è noto, secondo la disposizione transitoria di cui all’art. 227 comma 1 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (recante ‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’), ‘‘al fine di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti alla data di efficacia’’ dello stesso ‘‘decreto, nella trattazione dei procedimenti’’ (...) ‘‘anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento, si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa’’. (59) Così, ad esempio, se si accogliesse il sistema, indicato da talune delle proposte di riforma costituzionale citate nella nota precedente, di subordinare l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero alla valutazione, per opera del medesimo, dell’interesse pubblico in conformità ai criteri di priorità fissati dal Parlamento, tale apprezzamento dovrebbe restare pur sempre intrinsecamente diverso, nei fini ispiratori, dall’altro, demandato a distinta autorità, politica e/o amministrativa, rivolto a decidere sull’emissione o no della richiesta de qua.
— 541 — poteva gestire in maniera assolutamente arbitraria la funzione d’impulso processuale; lo stesso, dunque, non può non risultare una stonatura a séguito dell’affermarsi — a livello di normativa, dapprima, ordinaria, poi, costituzionale — del canone dell’obbligatorietà; solo alcune ipotesi di richiesta possono, oggi, e non senza un certo sforzo, esser ricondotte al sistema delineato dalla Carta; ma resta da vedere, anche a proposito di questi casi così eccettuati (o, almeno, di taluni dei medesimi: si pensi, per esempio, ai reati commessi all’estero), se gli obiettivi presi di mira attraverso la loro previsione non potrebbero esser meglio raggiunti attraverso una ‘‘depenalizzazione’’ (la quale risponderebbe, del resto, al principio di territorialità della legge penale quando riguardasse fatti non commessi in Italia). 12. (Segue): b) procedibilità subordinata a richiesta di un’autorità politica e/o amministrativa e diritto dell’imputato a veder giurisdizionalmente riconosciuta la propria innocenza. — Come s’è accennato (§ 1), l’istituto de quo, in quanto rientrante tra le condizioni di procedibilità, partecipa della disciplina generale di quest’ultime, anche e soprattutto quanto alla rispettiva incidenza sulle vicende procedimentali nell’eventualità d’una sua mancata integrazione: ove si sia verificata quest’ultima circostanza, il pubblico ministero non potrà esercitare l’azione penale, ma dovrà, al contrario, domandare l’archiviazione (art. 411 c.p.p.); se, invece, nella stessa ipotesi, lo stesso magistrato avesse formulato l’imputazione, il processo instaurato non potrebbe concludersi che con una sentenza di non luogo a (o di non doversi) procedere perché l’azione non sarebbe dovuta essere iniziata (arg. ex artt. 129 comma 1 425 comma 1 e 529, comma 1 c.p.p.), restando precluso al giudice l’esame del merito della res iudicanda. Vien fatto, però, di chiedersi se siffatta normativa non comprima il diritto — secondo il giudice delle leggi, costituzionalmente garantito (cfr., supra, § 4) — dell’imputato a veder giurisdizionalmente riconosciuta la propria innocenza; si tratterebbe, peraltro — come si può rilevare ampliando la visuale —, d’un profilo d’illegittimità inficiante non solo, specificamente, il regime della richiesta, ma, altresì, quanto al sottolineato aspetto, la disciplina di tutte le condizioni di procedibilità; né, qui, la questione potrebbe essere superata mediante il richiamo ad altri valori, beni e/o interessi, di rilievo costituzionale, da considerarsi prevalenti. Sul punto sembra necessario distinguere fra due ordini d’ipotesi. Certamente, la persona sospettata autrice d’un reato perseguibile a richiesta, ritenutasi innocente al riguardo, non ha diritto — nemmeno in esito a sua sollecitazione — a che l’autorità politica e/o amministrativa competente provveda nel senso di consentire l’instaurazione del processo nei suoi confronti e, quindi, la conseguente sentenza per lei pienamente li-
— 542 — beratoria: non sono concepibili iniziative private di tal genere, dettate da mera iattanza. Per la stessa ragione, poi, nemmeno sarebbe ammissibile, quando il processo fosse stato cominciato invalidamente per mancanza della prescritta richiesta, che, in assenza di prove sufficienti ai fini assolutori, l’attività istruttoria potesse continuare allo scopo d’arrivare al quantum di evidenza probatoria necessario per l’adozione d’una formula più favorevole di quella basata sull’improcedibilità. Diverso sarebbe il caso in cui la mancanza (oppure l’inefficacia per irregolarità o intempestività) della richiesta (come di ogni altra condizione di procedibilità consistente in una dichiarazione) venisse rilevata quando al contempo fosse risultata l’insussistenza del fatto, o la sua non commissione da parte dell’imputato, o la sua non illiceità penale. Con riferimento a questa serie d’ipotesi, l’assenza dal sistema d’una disposizione omologa a quella dell’art. 129 comma 2 (il quale, come risulta dal suo tenore letterale, si riferisce al solo caso dell’estinzione del reato) sembra escludere la possibilità di un’assoluzione nel (e, ancor prima, d’un non luogo a procedere per motivi di) merito quando sia stato riscontrato che l’azione penale non si sarebbe dovuta esercitare (60). Ci si potrebbe domandare, però, se non sia dato pervenire a ritenere siffatta possibilità conseguentemente ad un impegno ermeneutico: in particolare, nel caso in cui il giudice si trovasse dinanzi, da un lato, un processo insanabilmente nullo perché instaurato senza osservare una norma concernente l’iniziativa del pubblico ministero nel promuovimento dell’azione penale (arg. ex artt. 178 lett. b) e 179 comma 1 c.p.p.), dall’altro, una serie di prove favorevoli all’imputato acquisite in esito a procedimenti istruttori autonomi espletati nel pieno rispetto delle regole ad essi specificamente relative, non sarebbe sostenibile la non comunicazione alle prove suddette dell’invalidità dell’originario atto propulsivo (61) e, quindi, che le medesime debbano ritenersi pienamente valide ai fini d’una declaratoria d’innocenza? Ed inoltre: anche a ritenere la nullità delle medesime prove, non si tratterebbe, in realtà, d’un ‘‘vizio innocuo’’ (62), perché cagionato da inosservanza di norme poste con finalità di garanzia per l’imputato, finalità da ritenersi superata per effetto dell’emergere della possibilità d’un (60) Omologa conclusione, formulata sulla base dell’art. 152 comma 2 c.p.p. 1930, sta in G. LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, 99-101. In precedenza, però, sulla base del favor libertatis, si era ritenuta l’incondizionata prevalenza delle formule di merito su quelle processuali (v. Gius. SABATINI, Classificazione e gerarchia delle formule di proscioglimento, in Scritti giuridici in onore di V. Manzini, Padova, 1954, 560). (61) Come noto, la distinzione tra atti propulsivi e atti istruttori risale all’opera, del F. CORDERO, Nullità, sanatorie e vizi innocui (v. in questa Rivista, 1961, 693-698). (62) Cfr., in proposito, F. CORDERO, op. ult. cit., 730-732.
— 543 — esito processuale più favorevole, in relazione al medesimo soggetto, di quello conseguente alla dichiarazione della mentovata invalidità? Peraltro, la tesi — che tali due argomenti potrebbero indurre a sostenere — favorevole alla prevalenza, nel caso de quo, della formula liberatoria nel merito su quella per improcedibilità non sembra poter trovare accoglimento. Anzitutto, al principio di comunicazione dell’invalidità è sottratto il rapporto tra atto istruttorio precedente ed atto istruttorio successivo (arg. ex art. 185 comma 4 c.p.p.), non quello tra l’atto propulsivo ed il susseguente atto istruttorio; in secondo luogo, le nullità derivanti dall’inosservanza di norme sull’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero non sembrano, nel loro complesso, riconducibili alla finalità di garantire l’imputato. Insomma, de iure condito, risulta impossibile, in qualsiasi ipotesi, far prevalere una delle formule di merito su quella per improcedibilità. Resta, però, aperto il discorso sulla legittimità o no di siffatto limite, dopo che la Corte costituzionale ha, per ben due volte, riconosciuto il diritto dell’imputato innocente a vedersi proclamato tale (63). PAOLO MOSCARINI Associato di Diritto processuale penale nell’Università di Siena
(63)
Corte cost., sentt. nn. 275 del 1990 e 175 del 1971, citt.
PREMESSE ALLO STUDIO DELLE DICHIARAZIONI SPONTANEE RESE ALLA POLIZIA GIUDIZIARIA DALLA PERSONA SOTTOPOSTA ALLE INDAGINI
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Le « dichiarazioni spontanee » alla polizia giudiziaria nell’elaborazione giurisprudenziale formatasi in vigenza del codice abrogato. — 3. Le scelte del legislatore delegante ... — 4. ... e quelle del legislatore delegato. — 5. Dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 350, comma 7, c.p.p. ... — 6. ... all’« aggiustamento » legislativo del 1992. — 7. Il problema della valutazione della natura spontanea delle dichiarazioni: « volontarietà » e « libera iniziativa ». — 8. La conoscenza della posizione processuale, dell’addebito e del diritto al silenzio come elementi distintivi della spontaneità delle dichiarazioni: l’applicabilità dell’art. 63 c.p.p. alla fattispecie di cui all’art. 350 c.p.p. — 9. Dichiarazioni spontanee e necessità dell’assistenza difensiva: il rapporto regola-eccezione dettato dall’art. 350 c.p.p. con riguardo alle modalità di approccio della polizia giudiziaria con l’indagato.
1. Considerazioni introduttive. — Il tema della collaborazione dell’imputato all’accertamento penale — da sempre in bilico tra facoltà ed obbligo, tra libera scelta ed imposizione, più o meno esplicita — è strettamente legato alle scelte di fondo dell’ordinamento processuale: il profilo « tecnico » della relativa disciplina positiva (presupposti, condizioni, modalità, effetti del particolare rapporto) è infatti direttamente e chiaramente riconducibile alle istanze politiche ed ideologiche cui il modello processuale, nello specifico momento storico, si ispira, a sua volta riflettendo i principi accolti dalle fonti sovraodinate. In un contesto giuridico che vede affermato il diritto di difesa come inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.) e nel quale, al tempo stesso, è proclamato che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva (art. 27, comma 2 Cost.), la libertà dell’individuo di scegliere se partecipare attivamente o contrastare l’azione di accertamento non può non essere ritenuta irrinunciabile: il riconoscimento del diritto a tacere, inteso essenzialmente come privilegio contro l’autoincriminazione, ossia come negazione del dovere — tipico dei sistemi autoritari — di collaborazione e di verità anche contra se, rappresenta innanzitutto l’espressione concreta di quei valori. È però vero che l’esercizio (in positivo) dell’opzione collaborativa potrebbe spingersi sino a compromettere altre (od altrui) garanzie fonda-
— 545 — mentali, nel momento in cui gli elementi forniti producono effetti penalizzanti nei confronti di altri soggetti, incriminati da quelle stesse dichiarazioni. I contenuti dell’apporto conoscitivo così fornito non sono, infatti, irrilevanti: inteso in senso assoluto, il diritto alla recusatio respondendi attribuito all’imputato-accusatore finisce per scontrarsi con l’opposto interesse di cui è titolare l’imputato-accusato. Quando alla libera, consapevole scelta iniziale di « parlare » con gli inquirenti corrisponde il riconoscimento della stessa facoltà nelle fasi successive del procedimento, non v’è dubbio che l’esercizio dello ius tacendi — ove si consenta in qualche modo l’ingresso nel quadro probatorio delle dichiarazioni precedentemente rese e sottratte al confronto dialettico con l’interessato — finisce per agire « da fattore di crisi: compromette l’operatività delle tecniche dell’oralità, del contraddittorio e dell’immediatezza » (1), riverberandosi a sua volta sullo stesso diritto di difesa dell’accusato (2). Il problema di conciliare l’interazione, potenzialmente conflittuale (3), dei diritti dei diversi soggetti non ha sinora trovato nel sistema adeguate soluzioni (4). Sono note le tormentate vicende delle regole (1) Così O. DOMINIONI, Un nuovo dolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in questa Rivista, 1997, p. 766, tra i primi Autori a denunciare, con riferimento all’assetto normativo derivante dalla novella del 1997 (l. 7 agosto 1997, n. 267) « l’effetto perverso » di tale situazione ed a suggerire il rimedio di ricondurre « il diritto al silenzio [...] alle dimensioni realmente richieste da esigenze di tutela che non sia possibile soddisfare altrimenti »; sul punto v. altresì V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’imputato, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari, Atti del Convegno presso l’Università di Catania, Noto Marina, 30 settembre - 2 ottobre 1992, Giuffré, Milano, 1995, p. 42, ove, pur sottolineandosi le difficoltà, sul piano pratico, di distinguere nettamente i casi in cui l’imputato « possa conservare un interesse pro se a mantenere il silenzio sul fatto altrui », si sottolinea come sia « difficile negare che, rispetto al fatto altrui, l’imputato dovrebbe assumere una posizione non dissimile da quella del testimone ». (2) Osserva in proposito P. TONINI, Diritto dell’imputato a interrogare colui che lo accusa e diritto di non rispondere, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 354, come in questa situazione « in definitiva, non è tutelato il diritto di difesa dell’imputato di interrogare colui che lo accusa », esprimendo l’opinione « che in Italia nell’ultimo ventennio si è ecceduto nel tutelare i diritti individuali di difesa ottenendo un risultato paradossale: si è impedito al singolo imputato di esercitare quell’aspetto fondamentale del diritto alla prova che consiste nel chiamare a deporre con l’obbligo di verità colui che lo accusa, anche se questi è a sua volta un imputato »; ID., Il diritto a confrontarsi con l’accusatore, ivi, 1998, p. 12. Evidenzia la rilevanza del diritto dell’imputato a controesaminare l’imputato accusatore D. SIRACUSANO, Urge recuperare l’oralità, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 528. (3) Come sottolinea P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in Studi sul processo penale, vol. III, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, Giappichelli, Torino, 1997, p. 28; ID., Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, ivi, p. 46. (4) Per una interessante analisi in chiave storico comparatistica dei due istituti del privilegio contro l’autoincriminazione e del confronto con l’accusatore v. P. TONINI, Impu-
— 546 — del codice dedicate all’argomento: dopo il controverso intervento della Corte costituzionale nel 1992 (5), si sono susseguite diverse interpolazioni normative (6), ancora censurate dal Giudice delle leggi (7) con una pronuncia che ha fatto discutere almeno quanto le precedenti (8); tato « accusatore » ed « accusato » nei principali ordinamenti processuali dell’Unione europea, in AA.VV., Le nuove leggi penali. Abuso d’ufficio dichiarazioni del coimputato videoconferenze giudiziarie, Cedam, Padova, 1998, p. 261; nonché C. VETTORI, Diritto dell’imputato a confrontarsi con colui che lo accusa e diritto al silenzio: l’ordinamento inglese, ivi, p. 273; M.E. CATALDO, Imputato e « testimone assistito » nel processo penale francese, ivi, p. 285; R. ORLANDI, Coimputato e imputato di reato connesso nel processo germanico, ivi, p. 299; cui adde, per l’analisi del modello statunitense anche sotto il profilo in discorso, V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo adversary, Eicg, Genova, 1988, p. 11; nonché, con riguardo al sistema inglese, R. GAMBINI, La « cross-examination » dell’imputato nel processo penale inglese: limiti ed inconvenienti, in questa Rivista, 1975, p. 127. (5) Ci si riferisce principalmente alle sentenze costituzionali n. 24) e n. 255 del 1992, su cui amplius, infra, par. 6. (6) In particolare — dopo l’intervento d’urgenza attuato dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356, su cui si tornera più avanti (infra, par. 6) — quelle operate sugli artt. 513 e 238 c.p.p. dalla l. 7 agosto 1997, n. 267, sulle quali, anche per ulteriori riferimenti dottrinali, si rinvia ai commenti analitici in AA.VV., Le nuove leggi penali, cit. e AA.VV., Le innovazioni in tema di formazione della prova nel processo penale, coordinato da A.A. Dalia e M. Ferraioli, Giuffré, Milano, 1998; nonché il Commento articolo per articolo alla l. 7 agosto 1997, n. 267, in Legisl. pen., 1998, p. 296. (7) Cfr. C. cost. 26 ottobre 1998, n. 361, in Cass. pen., 1999, p. 35. (8) Nell’esteso panorama dottrinale a commento della sentenza della Corte v., con diversi accenti, S. BUZZELLI, L’articolo 513 c.p.p. tra esigenze di accertamento e garanzie del contraddittorio, in questa Rivista, 1999, p. 314; M. CHIAVARIO, Una nuova svolta nella tormentata vicenda del regime di utilizzabilità delle dichiarazioni di coimputati e di imputati in procedimenti connessi: impressioni, congetture e suggestioni « a prima lettura » sulla sentenza 361 del 1998, in suppl. a Legisl. pen., 1998, p. 2; ID., Dichiarazioni a carico e contraddittorio tra l’intervento della Consulta e i progetti di riforma costituzionale, in Legisl. pen., 1998, p. 925; G. FRIGO,Un’involuzione dell’impianto accusatorio con il pretesto di tutelare la difesa, in Guida dir., 1998, fasc. 44, p. 62; I. FRIONI, Equilibrismi e improbabili simmetrie nella sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale, in Cass. pen., 1999, p. 431; A. GIARDA, Commento alla sentenza n. 361 del 1998 della Corte costituzionale, in Appendice di aggiornamento a AA.VV., Processo civile e penale; le riforme del 1998, Giuffré, Milano, 1998, p. 7; G. GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361/98 della Corte costituzionale, in Quest. giust., 1999, fasc. 2, p. 205; V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio (dagli insegnamenti della Corte costituzionale al progettato nuovo modello di « giusto processo »), in questa Rivista, 1999, p. 821; F.M. GRIFANTINI, Utilizzabilità in dibattimento degli atti provenienti dalle fasi anteriori, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, Torino, 1999, p. 173; A. NAPPI, Quale riforma del processo penale dopo la sentenza costituzionale sull’art. 513 c.p.p.?, in Gazz. giur., 1999, fasc. 1, p. 3; D. NEGRI, Nuove regole per l’esame dell’imputato sul fatto altrui e profili di diritto transitorio dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998, in Cass. pen., 1999, p. 1079; I. RUSSO,Complessa e di difficile lettura la sentenza costituzionale sull’art. 513 c.p.p., ivi, 1998, fasc. 45, p. 7; P. TONINI, La prova penale, 4a ed., Cedam, Padova, 2000, p. 155; P. TONINI e C. CONTI, Imputato « accusatore » ed « accusato » dopo la sentenza costituzionale n. 361 del 1998, Appendice di aggiornamento ad AA.VV., Le nuove leggi penali. Abuso d’ufficio dichiarazioni del coimputato videoconferenze
— 547 — per tornare quindi ad essere ancora oggetto di correzione legislativa (9). Oggi, a seguito della riforma costituzionale operata con l’inserimento dei principi del « giusto processo » nell’art. 111 Cost., sono attese ulteriori, incisive rielaborazioni normative, segnatamente, per quanto qui rileva, per armonizzare le disposizioni del codice con le nuove formule secondo cui, da un lato, « il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova » e, dall’altro, « la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore » (10). Certo è che le notevoli difficoltà che si incontrano nel tentativo di distinguere tra dichiarazione sul fatto proprio e dichiarazione sul fatto altrui — dal particolare angolo visuale della verifica dell’eventuale permanenza di un interesse del dichiarante che abbia fornito elementi contra alios a mantenere successivamente il silenzio per evitare l’autoincriminazione (11) — rendono quanto mai complessa la ricerca di adeguate risposte al problema. giudiziarie, Cedam, Padova, 2000, p. 1; M. SCAPARONE, Diritto al silenzio e diritto al controesame dell’imputato, in Giur. cost., 1998, p. 3149; G. SPANGHER,Il rifiuto di rispondere del coimputato dopo l’intervento della Corte costituzionale (art. 513 c.p.p.), in Studium iuris, 1999, fasc. 2, p. 129; P. VENTURA, Escussione della prova e contraddittorio, in Giur. cost., 1998, p. 3183. (9) Un primo tentativo di adeguamento del sistema alla pronuncia della Corte cost. n. 361 del 1998 è stato operato dalla c.d. legge « Carotti » (l. 16 dicembre 1999, n. 479), che all’art. 38 ha interpolato l’art. 486 c.p.p. inserendovi, tra l’altro, l’obbligo di indicare nelle liste delle persone da esaminare anche quelle di cui all’art. 210 c.p.p.; sul punto v., tra i primi commenti, G. CIANI, Le nuove disposizioni sul giudizio, in AA.VV., IL processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Cedam, Padova, 2000, p. 572; S. CORBETTA, Commento agli artt. 38-40 della l. 16 dicembre 1999, n. 497, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 408. (10) Sul significato della riforma e sulle prospettive aperte dalla modifica costituzionale v. , con posizioni articolate, M. CHIAVARIO, Nelle Carte europee garanzie più equilibrate e un freno agli abusi, in Dir. e giust., 2000, fasc. 1, p. 5; ID., Quando la « scommessa » sul giusto processo si gioca tutta nella valutazione delle prove, in Guida dir., 1999, fasc. 45, p. 9 s.; P. FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in Quest. giust., 2000, fasc. 1, p. 49; ID., Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio. Troppi dettagli nel 111, in Dir. e giust., 2000, fasc. 1, p. 4; G. FRIGO, Solo con l’approvazione del giusto processo si evitano censure e interferenze inopportune, in Guida dir., 1999, fasc. 43, p. 14; V. GREVI, Giusto processo: subito norme coerenti per evitare il rischio della paralisi, ivi, 2000, fasc. 2, p. 12; ID., Quelle rigidità del « giusto processo » che portano a risultati paradossali, ivi, 1999,fasc. 42, p. 11; ID., Processo penale, « giusto processo » e revisione costituzionale, in Cass. pen., 1999, p. 3317; M. MADDALENA, Modificare l’articolo 111 della Costituzione vuol dire « fare spazio » all’irragionevolezza, in Guida dir., 1999, fasc. 43, p. 16; E. MARZADURI, Quell’ingorgo sulla strada delle riforme che rischia di travolgere l’interprete, ivi, 1999, fasc. 46, p. 7; A. NAPPI, Il codice di procedura penale torna alle origini, in Dir. e giust., 2000, fasc. 1, p. 6. (11) Sul tema, delicato e complesso, delle « dichiarazioni inscindibili », affrontato anche dalla Corte costituzionale con la ricordata sentenza n. 361 del 1998, v. le approfon-
— 548 — E quand’anche la via preferibile per « trovare un bilanciamento accettabile tra il diritto al silenzio dell’accusatore e il diritto alla prova dell’accusato », fosse quella di ritenere irretrattabile la scelta collaborativa inizialmente fatta dal dichiarante (12), merita peraltro sottolineare come, anche in questa prospettiva, resti comunque immutata la rilevanza del tema di fondo. È fuori di dubbio, infatti, che quella scelta — sia essa produttiva per il soggetto dichiarante di effetti esclusivamente contra se o contra alios, ovvero sia contemporaneamente ammissiva di responsabilità plurime — debba necessariamente essere esercitata dall’imputato o dalla persona sottoposta alle indagini (di seguito, per brevità, indicata anche come indagato), in modo libero e consapevole (13). Questa sembra essere, dunque, l’essenziale chiave di lettura delle disposizioni che assicurano, durante tutto lo svolgimento del procedimento dite osservazioni — mirate a risolvere il nodo problematico del recupero delle dichiarazioni precedentemente rilasciate dall’imputato in procedimento connesso — di P. TONINI e C. CONTI, op. cit., p. 29. Avvertiva come una soluzione fondata sulla distinzione del contenuto delle dichiarazioni (rispettivamente sulla propria imputazione o su quella altrui) sarebbe « troppo pericolosa o addirittura impossibile sotto il profilo delle esigenze di tutela dell’inquisito » M. NOBILI, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, p. 74. In termini problematici V. GREVI, Diritto al silenzio, loc. cit.; sottolinea come un dovere di collaborazione sul fatto altrui, presupponendo la ritenuta colpevolezza dell’imputato, si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali G. UERTIS, Intervento in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova, cit., p. 149. Ritiene, invece, che l’obiezione circa le difficoltà di distinzione tra dichiarazioni sul fatto proprio e dichiarazioni sul fatto altrui « prova troppo ed è ben superabile con una articolata elaborazione giurisprudenziale », A. GIARDA, Le « novelle » di una notte di mezza estate, in AA.VV., Le nuove leggi penali, cit., p. 148. (12) Nel senso indicato da P. TONINI e C. CONTI, op. cit., p. 45, secondo i quali « se e nella misura in cui un imputato abbia scelto liberamente di accusare un altro dinanzi ad un giudice (garante della sua libertà morale), il diritto al silenzio deve intendersi rinunciato, perché prevale il diritto alla prova dell’accusato » (l’articolata proposta di modifica, presentata da P. Tonini e P. Ferrua all’incontro in memoria di M. Polvani svoltosi a Firenze il 27 novembre 1997, si può leggere in P. TONINI, La prova, cit., p. 297; a commento ID., « Giusto processo », diritto al silenzio ed obbligo di verità: la possibile coesistenza, in Ind. pen., 2000, fasc. 1, p.34); nella stessa prospettiva O. DOMINIONI, op. cit., p. 767, che vede nella « soluzione di ricondurre alla misura davvero necessaria il diritto al silenzio delle persone di cui all’art. 210 c.p.p. [...] quella che meglio concorre a salvaguardare l’integrità delle tecniche della prova dialettica »; V.GREVI, Dichiarazioni dell’imputato, cit., p. 836. (13) Ed anzi, proprio nell’ottica dell’accoglimento di soluzioni quali quella citata (v. nota precedente) — pur condividendosi la prospettiva tracciata da O. DOMINIONI, op. loc. ult. cit., secondo cui per quella via si otterrebbero benefici anche sul piano della trasparenza dei rapporti tra imputati « connessi » ed il pubblico ministero, dal momento che quest’ultimo « non avrebbe modo di influenzare, anche solo involontariamente, i loro comportamenti sia nelle indagini e sia nella fase dibattimentale » — si dovrà a maggior ragione riconoscere la necessità di una verifica del concreto e corretto esercizio dello ius tacendi da parte dell’imputato, per evitare che il mutamento di veste processuale del dichiarante finisca (sia pur in ipotesi residuali e remote) addirittura per consolidare (anziché disincentivare) l’ingresso nel procedimento connesso delle tesi derivanti da eventuali « forzature » esercitate nella fase iniziale.
— 549 — penale, la possibilità per l’imputato e per l’indagato di fornire dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero ed in ogni stato del dibattimento (14). Ma specie nel delicato momento in cui si realizzano i primi approcci con gli investigatori, ed ancor più quando la persona si trovi sottoposta ad un provvedimento di coercizione personale, il privilegio contro la self incrimination rappresenta, sol che si consideri la posizione di soggezione psicologica (se non anche fisica) della persona e la facilità con cui nei suoi confronti sono esercitabili pressioni volte ad indurne l’atteggiamento collaborativo, una garanzia indiscussa sul piano dei principi ed irrinunciabile nella sua concreta attuazione. Occorre, quindi, che l’ordinamento assicuri l’effettiva e piena autonomia della disponibilità manifestata attraverso le dichiarazioni, non potendo in alcun modo trovare ingresso nel sistema, direttamente o surrettiziamente, uno strumento che consenta di presumere la volontà collaborativa dell’interessato. E le possibilità di verifica discendono essenzialmente, come dimostra la stessa storia (normativa ed applicativa) dei vari istituti che disciplinano i rapporti tra inquisito ed inquirente, dal grado di sensibilità dimostrato dal sistema nel predisporre le singole regole attraverso le quali viene garantito (o negato) il concreto esplicarsi della funzione difensiva. Regole che, per le stesse ragioni appena evidenziate, finiscono per giovare anche alla posizione del terzo eventualmente accusato: se non per scongiurare il rischio di versioni utilitaristicamente concordate, quanto meno per inibire forme di (aperta o mascherata) intimidazione. Astrattamente non legati, per quanto qui interessa, da un rapporto di stretta complementarietà, il diritto di autodifesa (attraverso il silenzio) (15) e quello di difesa (nella composita articolazione dei diversi strumenti operativi), sono invece strettamente connessi sul piano pratico, non potendosi in ipotesi escludere, ovviamente, la libera rinuncia al primo anche prescindendo dal secondo, ma risultando al tempo stesso difficile, se non impossibile, accertare a posteriori l’autonomia e l’assenza di condizionamenti dell’eventuale ammissione di responsabilità, se non attraverso il riscontro fornito dai congegni che assicurano all’interessato la corretta instaurazione del rapporto con il suo interlocutore: dalla consapevolezza dell’esatta posizione processuale a quella relativa agli effetti della dichia(14) Il riferimento va agli artt. 141, 350, comma 7, 374 e 494 c.p.p., nonché agli artt. 415-bis, comma 3, 420-quater, comma 3 e 421, comma comma 2 c.p.p. (come formulati a seguito delle modifiche apportate dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479). (15) Nel senso che il diritto al silenzio è « ricollegabile nel quadro costituzionale all’esplicazione del diritto di autodifesa, sotto il particolare profilo della non collaborazione (art. 24 comma 2 Cost.), e radicato nella presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2 Cost.) », V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in questa Rivista, 1998, p. 1131.
— 550 — razione, dalla conoscenza del diritto a tacere all’assistenza del difensore (16). Invero, nel sistema processuale penale vigente — come già nel precedente, a partire dalla « novella » del 1969 (17) — non trova spazio il dovere di collaborazione dell’inquisito nei riguardi dell’inquirente, essendo al contrario assicurato apertamente ed esplicitamente a favore del primo un vero e proprio diritto al silenzio (18). In questo senso dispone innanzitutto, in materia di regole generali per l’interrogatorio, l’art. 64, comma 3 c.p.p., che impone l’obbligo del preventivo avvertimento circa la facoltà di non rispondere; cui fa da complemento, quale corollario indispensabile per evitare surrettizi aggiramenti del principio, l’art. 63 c.p.p., che prescrive una serie di specifiche garanzie nel caso di dichiarazioni autoindizianti fornite al magistrato od alla polizia da persona non formalmente indagata. Tutto l’impianto normativo, del resto, risulta articolato per dare concreta attuazione allo ius tacendi, assicurando alla parte la consapevolezza dell’effettiva veste processuale assunta, l’assistenza difensiva e la garanzia contro la self incrimination nelle diverse situazioni: dai contatti con la polizia giudiziaria a quelli con il pubblico ministero od il giudice per le indagini preliminari, dall’interrogatorio alle sommarie informazioni, dall’esame ex art. 210 c.p.p. alla testimonianza. Ma non solo: va da sé che, nel momento in cui riconosce legittima la recusatio respondendi, l’ordinamento non può che erigere un duplice sbarramento, da un lato, a forme di valutazione negativa dell’eventuale silenzio e, dall’altro, ad impieghi processuali degli elementi acquisiti in violazione delle regole che garantiscono il libero esercizio del diritto dell’interessato a non collaborare con l’inquirente. Le stesse norme che presidiano l’uso degli strumenti cautelari limitativi della libertà personale del prevenuto non mancano di sottolineare — (16) Quando addirittura non siano richieste ulteriori forme di garanzia, come nel caso di cui all’art. 141-bis c.p.p. per l’interrogatorio della persona in stato di detenzione. (17) V. infra, par. 2. (18) Per l’approfondimento dei principi che presidiano la materia restano fondamentali ed attuali gli studi pubblicati sotto la vigenza dell’abrogato codice da E. AMODIO, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, in Riv. dir. proc., 1974, p. 416; A. GIARDA, Persistendo ’l reo nella negativa, Giuffrè, Milano, 1980; G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Zanichelli, Bologna, 1979; V. GREVI, « Nemo tenetur se detegere ». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Giuffrè, Milano, 1972; ID., Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Giuffrè, Milano, 1976; ID., Le sommarie informazioni di polizia e la difesa dell’indiziato, Giuffrè, Milano, 1980; con riferimento al nuovo codice, particolarmente efficace ed articolata è l’indagine di S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Giuffrè, Milano, 1992, p. 79, cui si rinvia anche per l’ampio panorama dei riferimenti dottrinali.
— 551 — per quanto occorrente (19) — che le situazioni « di concreto ed attuale pericolo » sintomatiche della sussistenza di « specifiche ed inderogabili » esigenze attinenti alle indagini « non possono essere individuate dal rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né dalla mancata ammissione degli addebiti » (20). Peraltro, se l’insieme di queste disposizioni manifesta inequivocabilmente la volontà di dare piena attuazione al principio secondo cui nemo tenetur se detegere, non meno evidente si dimostra, al tempo stesso, l’attenzione del legislatore alle esigenze dell’accertamento, che porta, nell’inevitabile mediazione tra gli opposti interessi in gioco (21), a circoscrivere e dettagliare l’ambito di operatività della garanzia. Così, mentre da un lato una serie di prescrizioni impone il rispetto di particolari regole, mirate alla corretta costituzione del rapporto tra la persona sottoposta alle indagini e l’autorità procedente e corredate da dispositivi sanzionatori per l’eventuale mancata osservanza, dall’altro la configurazione stessa di quei limiti lascia spazio per l’ingresso nel procedimento — in differenti circostanze e con diverse conseguenze — del contributo dichiarativo dell’indagato e dell’imputato. E proprio a questa lineare (quanto insidiosa) logica di « bilanciamento » — tra il rinnegare il dovere di collaborazione dell’indagato ed il non disperdere il contributo che questi abbia comunque fornito all’accertamento — si è ispirata a ben vedere la scelta del legislatore del 1988 nel disciplinare all’art. 350, comma 7, c.p.p., accanto ai « tradizionali » istituti dell’interrogatorio e delle sommarie informazioni, la figura delle dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria. Una figura che, proprio perché imperniata sul contributo « spontaneo » del dichiarante, tradisce sin troppo chiaramente l’obiettivo di sfuggire a criteri valutativi (ed applicativi) rigidamente ancorati al rispetto delle garanzie difensive, per loro natura preordinate ad intervenire per riequilibrare un rapporto di potenziale soggezione dell’individuo all’autorità. (19) V. in proposito le osservazioni di G. ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, in AA.VV., Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995 n. 332, a cura di V. Grevi, Giuffrè, Milano, 1996, p. 81; E. MARZADURI, Quale rimedio è invocabile dinanzi a prove costituite da dichiarazioni rese sotto la pressione della custodia in carcere in atto o annunciata da inequivoci precedenti giudiziari?, in Crit. dir., 1995, fasc. n. 1, p. 62; nonché, volendo, M. CERESA-GASTALDO, Diritto al silenzio, aspettative di « collaborazione » dell’imputato e controlli sull’impiego della custodia cautelare, in questa Rivista, 1993, p. 1161. (20) Così dispone l’art. 274, comma 1, lett. a), c.p.p., come sostituito dall’art. 3, comma 1, l. 8 agosto 1995, n. 332. (21) Sottolinea la problematicità di questo equilibrio V. GREVI, Le sommarie informazioni, cit., p. 15, ricordando che « qui più che mai, occorre tener conto che l’esigenza dello sviluppo delle indagini e, in ultima analisi, la finalità della difesa sociale realizzata attraverso il processo, non possono venire perseguite a qualunque prezzo ».
— 552 — D’altra parte, la stessa « storia » dell’istituto è, sotto questo profilo, illuminante. 2. Le « dichiarazioni spontanee » alla polizia giudiziaria nell’elaborazione giurisprudenziale formatasi in vigenza del codice abrogato. — Nella versione originaria del codice Rocco il problema dell’apprezzamento della spontaneità delle dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria neppure si poneva. L’impianto normativo non solo non si curava di assicurare all’indagato alcuna forma di diritto al silenzio, ma risultava al contrario chiaramente orientato a favorire l’acquisizione dei più importanti elementi incriminanti proprio dall’accusato, di fatto assoggettato all’obbligo di collaborazione con l’inquirente. Agli ufficiali di polizia era consentito, « in caso di flagranza e quando vi è urgenza di raccogliere le prove del reato o di conservarne le tracce » di « procedere a sommario interrogatorio dell’arrestato, a sommarie informazioni testimoniali e ai necessari atti di ricognizione, ispezione o confronto, osservate per quanto possibile le norme sull’istruzione formale » (art. 225 c.p.p. 1930). Nessuna garanzia difensiva — tanto meno quella dell’assistenza del difensore all’atto — veniva riconosciuta nella fase delle indagini di polizia, attesa l’inefficacia del (comunque debole) richiamo alle regole dell’istruzione formale: e mentre gli elementi così raccolti dagli investigatori venivano ad assumere contenuti probatori fortemente condizionanti nei confronti dell’istruttoria e del dibattimento, gli stessi limiti posti dalla norma (la flagranza di reato e l’urgenza probatoria) finivano per essere ampiamente sopravanzati dalla consuetudine — legittimata dalla giurisprudenza che qualificava il requisito dell’urgenza come autonomamente rilevante — di utilizzare lo strumento anche nei confronti del soggetto libero, quando addirittura non favorivano invece l’adozione della misura restrittiva (nei casi in cui questa era facoltativa) proprio per procedere all’atto (22). Né la riforma del 1944 (23), né l’importante « novella » adeguatrice del 1955 (24), cui venne affidato il compito di conformare il rito ai nuovi principi consacrati nella Carta fondamentale, riuscirono ancora ad incidere sostanzialmente sullo specifico contesto. Fu solo con la sentenza costituzionale n. 86 del 1968 (25) che, ormai a vent’anni dall’adozione della Costituzione repubblicana, il concreto riconoscimento del diritto di difesa « in ogni stato e grado del procedimento » ex art. 24 Cost. venne propiziato dalla Corte con la pronuncia di illegitti(22) Rileva la circostanza V. GREVI, op. ult. cit., p. 4. (23) Ci si riferisce al R. d.l. 20 gennaio 1944, n. 45. (24) L. 18 giugno 1955, n. 517. (25) C. cost. 5 luglio 1968, n. 86, in Giur. cost., 1968, p. 1430.
— 553 — mità dell’art. 225 c.p.p. 1930, nella parte in cui consentiva alla polizia il compimento di atti istruttori senza l’applicazione delle garanzie difensive. L’intervento legislativo che ne seguì risultò particolarmente incisivo. Con la l. 5 dicembre 1969, n. 932, si procedette, intanto, alla modifica dell’art. 78 c.p.p. 1930, nel cui ambito trovò finalmente ingresso l’affermazione dello ius tacendi dell’indagato nei rapporti con l’autorità procedente (26); allo stesso tempo, l’istituto dell’interrogatorio di polizia venne profondamente rimaneggiato, riservandosi all’autorità giudiziaria il compito di sentire la persona privata della libertà personale (art. 225, comma 2, c.p.p. 130), mentre alla polizia residuò il potere di procedere al « sommario interrogatorio » nei confronti del solo indiziato libero, nei casi d’urgenza e nel rispetto delle norme (che tuttavia ancora escludevano la presenza del difensore all’atto) sull’istruzione formale (art. 225, comma 1, c.p.p. 1930) (27). Di lì a poco, con la l. 18 marzo 1971, n. 62 (28) — anch’essa anticipata da una pronuncia di illegittimità costituzionale (29) — si giunse quindi a garantire espressamente il diritto dei difensori ad assistere all’interrogatorio davanti all’autorità giudiziaria (30); garanzia che si estendeva, per relatio, anche all’atto condotto dalla polizia giudiziaria (31). Il quadro risultava nell’insieme decisamente mutato rispetto alle scelte del legislatore del 1930 (32): abbandonata l’idea che l’attività di polizia dovesse essere prioritariamente protesa ad ottenere la confessione dell’indagato — la prova « regina » — l’interrogatorio assumeva una fisio(26) Con l’inserimento del comma 3 all’art. 78 c.p.p. ad opera dell’art. 1 l. n. 932 del 1969. (27) A commento della riforma del 1969 v. G. CONSO, Inizio delle indagini e diritto di difesa (brevi note sulla legge 5 dicembre 1969, n. 932), in Arch. pen., 1970, I, p. 139; oltre alle monografie di V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, cit.; ID., « Nemo tenetur se detegere », cit. (28) Di conversione del d.l. 23 gennaio 1971, n. 2. (29) V. C. cost. 16 dicembre 1970, n.190 - in Giur. cost., 1970, p. 2179, annotata da M. CHIAVARIO, Un salto qualitativo (... con cautela) nella giurisprudenza della Corte costituzionale: l’interrogatorio struttorio e la presenza del difensore; e in Foro pen., 1970, p. 477, con nota di V. CARULLI, Corte costituzionale, autorità giudiziaria e potere legislativo: trilogia sulla parità partecipativa del p.m. e del difensore — che dichiarò illegittimo l’art. 304-bis c.p.p. 1930 nella parte in cui escludeva il diritto del difensore ad assistere all’interrogatorio ex art. 225 c.p.p. 1930. (30) Venne infatti inserito un nuovo comma 1 all’art. 304-bis c.p.p. 1930, che statuiva che « i difensori delle parti private hanno diritto di assistere all’interrogatorio dell’imputato » (art. 1 d.l. n. 2 del 1971). (31) Sul punto, per tutti, V. GREVI, « Nemo tenetur se detegere », cit., p. 138. (32) Per l’approfondimento del significato e degli effetti di tale rovesciamento di logica rispetto all’impostazione codicistica originaria, cfr. M. CHIAVARIO, Profili di disciplina della libertà personale nell’Italia degli anni settanta, in La libertà personale. Studi di diritto pubblico comparato, Milano, 1977, p. 262; V. GREVI, op. ult. cit., p. 207; ID., Poteri della polizia giudiziaria ed interrogatorio di persone arrestate o fermate, in Pol. dir., 1972, p. 853.
— 554 — nomia nuova, marcatamente connotata dalla funzione difensiva dello strumento. Fu allora che la giurisprudenza iniziò a forgiare il congegno delle « dichiarazioni spontanee ». La possibilità per la polizia di esaminare l’indiziato in vinculis, prima del contatto con il magistrato, si scontrava ormai apertamente con la ripartizione di competenze imposta dall’art. 225 c.p.p. 1930; ma decenni di sicura esperienza dimostravano che proprio dai primi approcci con gli investigatori emergevano i contributi collaborativi più interessanti. Di qui l’idea di valorizzare l’apporto spontaneo e non provocato del dichiarante, attraverso la riconosciuta possibilità di « assecondare l’istanza del fermato o dell’arrestato, raccogliendone a verbale le dichiarazioni che questi ... del tutto spontaneamente desideri rendere nell’opinione, sia pure erronea, di avervi interesse » (33). E, per quanto la stessa Corte costituzionale fosse indirettamente intervenuta sul tema riferendosi ai soli « elementi a discarico » forniti dall’arrestato o dal fermato alla polizia « di propria iniziativa e di spontanea volontà » (34), fu subito chiaro che l’inedita via individuata avrebbe agevolmente consentito l’ingresso — necessariamente documentato (35) — nel procedimento di qualunque dato (anche autoincriminante) ottenuto dall’indiziato. (33) Così Cass., Sez. II, 25 agosto 1971, Porzessere e altri, in Giur. it., 1973, II, c. 113. La posizione tenuta dalla giurisprudenza di legittimità, subito fermamente criticata dalla prevalente dottrina (v. tra i numerosi contributi sul tema E. AMODIO, Diritto al silenzio, cit., p. 416; G. GALLI, in AA.VV., Le recenti leggi contro la criminalità, vol. II, Aspetti processuali, Giuffrè, Milano, 1977, p. 332; ID., In tema di « spontanee » dichiarazioni dell’arrestato o del fermato, in Temi, 1975, p. 73; ID., In tema di interrogatorio di polizia: « escamotages » vecchi e nuovi, in Riv. dir. proc., 1976, p. 626; V. GREVI, « Nemo tenetur se detegere », cit., p. 234; ID., Le sommarie informazioni, cit., p. 63; S. PASSARETTI, Dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e diritto di difesa, in Giur. merito, 1977, II, p. 604; C. TAORMINA, Criteri interpretativi della normativa sul divieto di sommario interrogatorio del fermato o dell’arrestato, in Arch. pen., 1972, I, p. 157; G.P. VOENA, Interrogatorio di polizia e principio uguaglianza, in Giur. cost., 1974, p. 2226), trovò qualche consenso da parte di alcuni Autori appartenenti alla magistratura: cfr. L.D. CERQUA, Le sommarie indagini di polizia giudiziaria (art. 225 c.p.p.), in Giust. pen., 1975, III, c. 412; L. DI FILIPPO, La polizia giudiziaria, Giuffrè, Milano, 1970, p. 102; U. DINACCI, Alcune prospettazioni sulla miniriforma del processo penale, in Arch. pen., 1970, I, p. 303; ID., Poteri della polizia giudiziaria e libertà personale, in Giust. pen., 1974, III, p. 272; A. MASI, In tema di interrogatorio dell’arrestato a seguito di incidente stradale, in Riv. giur. circ. trasp., 1975, p. 279; M. MAZZANTI, I « nuovi atti » di polizia giudiziaria, 2a ed., Giuffrè, Milano, 1972, p. 51; I. MONTONE, Primi appunti sulla legge 5 dicembre 1969, n. 932, con particolare riguardo all’attività del p.m. e del pretore in base alla nuova normativa processuale concernente le indagini preliminari, il diritto di difesa, l’avviso di procedimento e la nomina del difensore, in Giust. pen., 1970, III, p. 254. (34) C. cost. 18 aprile 1974, n. 103, in Giur. cost., 1974, p. 748. A commento cfr. G. P. VOENA, op. loc. cit. (35) Sottolineava « il dovere di verbalizzazione delle spontanee dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria », da ritenersi « imposto dalla imprescindibile esigenza della docu-
— 555 — Infatti, all’originaria « timidezza » degli assunti formulati in proposito nelle prime pronunce, dai quali emergeva la preoccupazione di giustificare (almeno sul piano formale) l’acquisizione delle ammissioni sulla scorta di un potenziale interesse del dichiarante a migliorare la propria posizione processuale (36), subentrò ben presto un atteggiamento interpretativo decisamente più disinvolto, che avallava il completo aggiramento delle regole dell’interrogatorio (37) per cristallizzare nel processo (38) gli elementi forniti dallo stesso indagato circa la propria responsabilità (39). Neppure la successiva « controriforma », ossia la restituzione agli ufficiali di polizia, ad opera della l. 14 ottobre 1974, n.497, della competenza ad interrogare la persona arrestata o fermata (40) — che pure, in linea teorica, avrebbe dovuto far venire meno l’esigenza di individuare escamotages utili ad aggirare il decaduto sbarramento — poté a questo punto far regredire un indirizzo applicativo destinato a consolidarsi ed arricchirsi negli anni di sempre nuove e più ampie valenze. Paradossalmente, al suo rafforzamento contribuì in misura non indifmentazione », I. MONTONE, op. cit., p. 254; analogamente U. DINACCI, Alcune prospettazioni, loc. cit.; E. SANTACHIARA, Altri interrogativi sulla applicazione della legge 5 dicembre 1969, n. 932, in Mon. trib., 1971, p. 1052. (36) Come argomentava Cass., Sez. II, 25 agosto 1971, Schiana, in Cass. pen. mass. ann., 1973, p. 142. (37) Tra le molte, Cass., Sez. I, 15 giugno 1973, Belviso, in Cass. pen. Mass. ann., 1975, p. 296; Cass., Sez. IV, 17 ottobre 1975, Meloni, ivi, 1976, p. 1210; Cass., Sez. III, 6 giugno 1977, Isacchi, in Riv. pen., 1978, p. 97; Cass., Sez. I, 29 novembre 1978, Santoro, ivi, 1979, p. 437; analogamente Cass., Sez. I, 20 febbraio 1976, Pontelli, in Cass. pen. Mass. ann., 1977, p. 1243; Cass., Sez. II, 27 aprile 1977, Pepe, in Riv. pen., 1978, p. 97; Cass., Sez. IV, 28 ottobre 1975, Magnasciutti, ivi, 1976, p. 1211. (38) Cfr., con diverse sfumature, ma con identità di obiettivi, Cass., Sez. IV, 15 maggio 1974, Mazza, in Giur. it., 1976, II, c. 70, con nota di E. RUBIOLA; Cass., Sez. IV, 17 ottobre 1975, Meloni, cit.; Cass., Sez. I, 15 giugno 1973, Belviso, cit.; solo formalmente distinta la posizione di Cass., Sez. I, 23 gennaio 1976, Lo Bello, in Cass. pen. Mass. ann., 1977, p. 658; per un tentativo, subito isolato, di circoscrivere l’ambito di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee in sede processuale cfr. Cass., Sez. III, 11 dicembre 1972, Aiello, in Foro it., 1973, II, c. 324. (39) Cfr., emblematicamente, Cass., Sez. II, 15 novembre 1974, Gerace, in Mass. dec. pen., 1974, 1235; oltre a Cass., Sez. IV, 15 maggio 1974, Mazza, cit. (40) A commento del provvedimento, con diversi accenti, v. L.D. CERQUA, op. cit., c. 400; E. FASSONE, Le nuove sommarie indagini di polizia giudiziaria, in questa Rivista, 1975, p. 159; E. FORTUNA, Riflessioni sulla nuova legge contro la criminalità, in Giur. merito, 1975, IV, p. 30; G. GALLI, Le recenti leggi, cit., p. 322; A. GIARDA, Le « novelle » del 1974 relative al processo penale: perplessità ed osservazioni critiche, in Riv. pen., 1975, p. 847; V. GREVI, Scelte politiche e valori costituzionali in tema di libertà personale dell’imputato, in Pol. dir., 1974, p. 602; C. MIZZONI, Il nuovo testo dell’art. 225 c.p.p., in Giust. pen., 1975, III, c. 506; I. MONTONE, Riforma e controriforma, ovvero: del potere della polizia giudiziaria di interrogare l’arrestato o il fermato, e di compiere altri atti con la partecipazione degli stessi, in Giust. pen., 1975, III, c. 346.
— 556 — ferente proprio l’estensione dello spazio contestualmente riconosciuto al diritto di difesa nella fase delle indagini di polizia (41): la previsione dell’obbligatorietà dell’assistenza difensiva durante le « sommarie indagini », da un lato, e il richiamo, nella stessa sede, alla prescrizione relativa all’avvertimento circa la facoltà di non rispondere alle sollecitazioni dell’autorità (42), creavano all’evidenza un mal tollerato intralcio al rapporto diretto ed immediato con l’inquisito (43); cosicché le nuove regole di tutela, anziché azzerare le possibilità operative « informali » degli investigatori, finirono fatalmente per favorire, di riflesso, il proliferare di pronunce tese ad enfatizzare l’autonomia ontologica delle « dichiarazioni spontanee » rispetto agli atti processuali tipici codificati dall’art. 225 (44). Quando, con l’ulteriore intervento del 1978 (45), occasionato dalla violenta recrudescenza terroristica di quegli anni, il legislatore introdusse nell’ordinamento l’art. 225-bis c.p.p. 1930, recante la disciplina delle « sommarie informazioni dall’indiziato, dall’arrestato e dal fermato », apparve ancora più evidente la volontà di svincolare l’attività di polizia dai condizionamenti derivanti dal rispetto delle garanzie difensive (46). Il nuovo istituto, tuttavia, se pure consentiva agli ufficiali di polizia giudiziaria di esaminare l’indiziato (libero o meno) senza la presenza del difensore (47), risultava quantomeno confinato entro un ambito oggettivo (41) Come osserva V. GREVI, Le sommarie informazioni, cit., p. 9. (42) Interpolando in tal senso l’art. 225 c.p.p. 1930 (art. 7 l. n. 497 del 1974). (43) Significativamente, la letteratura vicina agli ambienti della polizia sottolineava con forza l’inopportunità della previsione relativa all’intervento del difensore nella fase delle indagini di polizia e, nell’enfatizzarne gli effetti negativi sul piano operativo, lamentava un ingiustificato atteggiamento di sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine sotteso alla regola: cfr. in tal senso S. LI DONNI, La minaccia del vuoto di potere nelle funzioni di polizia, in Riv. pol., 1974, p. 324; A. SPARANO, I poteri della polizia giudiziaria, ivi, 1971, p. 417; I. MONTONE, op. cit., p. 351. (44) Cfr., in tal senso, Cass., Sez. VI, 7 luglio 1975, Arbib, in Mass. dec. pen., 1975, p. 1111; Cass., Sez. II, 15 giugno 1973, Belvisio ed altri, in Cass. pen., 1975, p. 296; Cass., Sez. I, 13 marzo 1973, Arciero, in Foro it., 1974, II, c. 134; Cass., Sez. I, 6 febbraio 1973, Senoner, in Cass. pen. 1974, p. 173. (45) Ci si riferisce alla l. 18 maggio 1978, n. 191, di conversione del d.l. 21 marzo 1978, n. 59. A commento, oltre alla citata monografia di Grevi, v. G.C. CASELLI, Le recenti misure per l’ordine pubblico, in Dem. e dir., 1978, p. 129; C. LAROSA, Interrogatorio di polizia e utilizzabilità a fini processuali, in Giust. pen., 1979, III, c. 104; D. PULITANÒ, La funzione coercitiva: garanzie giuridiche e democratizzazione degli apparati, in Dem. e dir., 1978, p. 148; S. RAMAJOLI, Note di commento al d.l. 21 marzo 1978 n. 59, in Riv. cons. (Ordine avv. e proc. Milano), 1978, fasc. 2, p. 24; M.T. STURLA, Sull’efficacia probatoria dell’interrogatorio di polizia, in Cass. pen., 1979, p. 638. (46) In questi termini V. GREVI, Le sommarie informazioni, cit., 18, che denunciava in proposito l’adesione legislativa « all’antica logica illiberale, che vedeva nell’inquisito la principale fonte di notizie utili per gli inquirenti », e che si riteneva in via di superamento; critico anche S. RAMAJOLI, Note di commento al d.l. 21 marzo 1978, n. 59, in Rivista del Consiglio (Ordine degli avvocati e procuratori di Milano), 1978, n. 2, p. 24. (47) Ancorché dovesse ritenersi imprescindibile, anche in quella sede, l’avvertimento
— 557 — ben delimitato (gli accertamenti per i reati più gravi indicati dall’art. 165ter c.p.p. 1930) (48) e soprattutto — architettato per funzionare « nei casi di assoluta urgenza e al solo scopo di proseguire le indagini » — conteneva un significativo contrappeso alla rinuncia alle regole di salvaguardia da poco « conquistate », all’art. 225 c.p.p. 1930, per l’interrogatorio: la norma vietava, infatti, la verbalizzazione delle informazioni così assunte e le privava « di ogni valore ai fini processuali », impedendo altresì che potessero « formare oggetto di rapporto o di testimonianza, a pena di nullità » (49). L’eccezionalità della disciplina e la sua peculiare caratterizzazione inducevano a quel punto a ritenere che proprio la codificazione delle « sommarie informazioni » avrebbe potuto (ed anzi dovuto) esaurire in sé ogni modalità di approccio comunicativo tra inquisito e polizia alternativa all’interrogatorio, tagliando dunque in radice la possibilità di (continuare ad) avallare ipotesi difformi da quel modello (50): anche le dichiarazioni spontanee avrebbero seguito — se rese in assenza del difensore — la sorte degli elementi raccolti dagli investigatori ex art. 225-bis c.p.p. 1930, ossia quella di meri dati storici utili ad orientare le indagini, non documentabili in alcun modo e privi di qualsiasi effetto processuale (51). La realtà fu invece ben diversa. Il nuovo congegno non solo non produsse alcun effetto inibitore sulla circa la facoltà di non rispondere: sul punto v., oltre a V. GREVI, op. ult. cit., p. 49; V. CARULLI, Urgenza e criminalità, in Polizia moderna, 1978, fasc. IV, p. 30; G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, cit., p. 230; e, dello stesso A., la voce Presunzione di non colpevolezza, in Enc. giur., Treccani, Roma, vol. XXIV, 1991, p. 1. (48) Ossia « i delitti non colposi previsti dai capi I e II del titolo I del libro II del codice penale » e quelli specificamente elencati dall’art. 165-ter, comma 1, c.p.p. 1930. (49) Proprio la previsione di questa serie di cautele aveva indotto D. PULITANÒ, op. cit., p. 150, ad esprimere un giudizio positivo sul nuovo istituto, segnalando come lo stesso si collocasse opportunamente « formalmente al di fuori della logica inquisitoria dell’interrogatorio come mezzo di prova privilegiata », ed allo stesso tempo anche « fuori del liberalismo radicale, che vede nell’interrogatorio soltanto un mezzo di difesa »; critico nei confronti di questa posizione V. GREVI, op. ult. cit., p. 39. (50) Nel senso che dovesse a questo punto escludersi « la configurabilità di una categoria di « dichiarazioni » dell’indiziato non riconducibili né alla figura dell’interrogatorio ex art. 225 c.p.p., né all’area delle « sommarie informazioni » ex art. 225-bis, ma destinate in virtù dell’asserita nota di « spontaneità » — e nonostante il sintomatico silenzio della legge — ad un trattamento processuale del tipo di quello che la giurisprudenza ha fin qui ammesso per le c.d. « dichiarazioni spontanee » dell’indiziato », si esprimeva V. GREVI, op. ult. cit., p. 67; condivideva la prospettiva G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza, loc. cit. (51) Evidenziava la preoccupazione che le regole di sbarramento imposte nel secondo comma dell’art. 225-bis c.p.p. 1930 potessero essere aggirate proprio attraverso l’impiego dello schema delle dichiarazioni spontanee il Parere espresso dal Consiglio superiore della magistratura sul testo del decreto legge 21 marzo 1978 n. 59, in Quale giust., 1978, p. 778, ove si suggeriva di precisare che « non possono essere verbalizzate e che sono prive di ogni valore processuale non solo le informazioni assunte, ma anche quelle rese spontaneamente dall’indiziato, dall’arrestato o dal fermato ».
— 558 — prassi, destinata al contrario ad assumere dimensioni quantitativamente sempre più rilevanti (52), ma addirittura costituì l’occasione per un’ulteriore, articolato sviluppo della stessa linea interpretativa, indirizzata a questo punto ad eludere proprio le regole di cautela fissate dal legislatore del 1978. Così, sullo sfondo della conclamata « esigenza di libertà del cittadino, il quale ha diritto di esprimersi al di fuori di qualsiasi meccanismo che impedisca o inquini » la sua spontaneità (53), si arrivò ad argomentare nel senso che la « presenza-intrusione » del difensore e la stessa contestazione del fatto avrebbero seriamente compromesso la genuinità del rapporto con l’autorità; « come se proprio gli adempimenti garantistici apprestati dal legislatore nella disciplina delle dichiarazioni dell’imputato fossero i meno idonei ad assicurare la volontarietà delle parole pronunciate dalla persona incolpata » (54). Negli anni successivi subirono un effetto moltiplicatore le decisioni della Cassazione volte ad assicurare la piena autonomia (ovviamente sul piano dell’emancipazione dai vincoli normativamente imposti) della figura delle « spontanee dichiarazioni » sia rispetto all’istituto dell’interrogatorio disciplinato dall’art. 225 c.p.p. 1930 (55), sia con riguardo al congegno delle « sommarie informazioni » di cui all’art. 225-bis c.p.p. 1930 (56). (52) G. GALLI, In tema di interrogatorio, cit. p. 639, osservava criticamente al proposito: « non può non suscitare perplessità questa improvvisa frequenza dell’urgere a confidarsi con l’autore dell’arresto; ancora, resta incomprensibile che dichiarazioni su « circostanze favorevoli » si risolvano, invece, sistematicamente, in « spontanee » ammissioni di colpevolezza ». (53) Cass., Sez. I, 22 ottobre 1979, Buffone ed altri, in Riv. pen., 1980, p. 657. (54) Così S. BUZZELLI, Diritto al silenzio e dichiarazioni spontanee (critica della giurisprudenza), in Riv. dir. proc., 1989, p. 817. (55) Cass., Sez. I, 3 maggio 1988, Marras, in Cass. pen., 1989, p. 1518; Cass., Sez. I, 21 aprile 1988, Novelli, in CED Cass., n. 145854; Cass., Sez. VI, 30 aprile 1987, Cozzella, in Cass. pen., 1988, p. 2118; Cass., Sez. III, 30 marzo 1987, Rossi, ivi, 1988, p. 1475; Cass., Sez. I, 12 gennaio 1987, Drago, ivi, 1988, p. 1672; Cass., Sez. II, 11 ottobre 1985, Lacirignola, ivi, 1987, p. 1591; Cass., Sez. II, 18 febbraio 1985, Guggia ed altro, in Mass. dec. pen., 1985, p. 799; Cass., Sez. IV, 21 settembre 1984, Clerico, in Riv. pen. 1985, p. 486; Cass., Sez. I, 9 luglio 1984, A.A., in Cass. pen., 1986, p. 1320; Cass., Sez. I, 15 giugno 1984, Marino, in Riv. pen., 1985, p. 596; Cass., Sez. II, 10 maggio 1984, Pescini, ivi, 1985, p. 82; Cass., Sez. VI, 5 aprile 1984, Ulivi, in Cass. pen., 1986, p. 312; Cass., Sez. II, 12 gennaio 1984, Colombo, in Riv. pen. 1985, p. 204; Cass., Sez. I, 18 maggio 1983, Giudice, ivi, 1984, p. 172; Cass., Sez. II, 25 febbraio 1983, Passalacqua, ivi, 1984, p. 442; Cass., Sez. I, 27 aprile 1982, Gnecchi, in Cass. pen., 1984, p. 1979, con nota di P. FERRUA, Dichiarazioni spontanee dell’indiziato, nullità dell’interrogatorio di polizia e invalidità derivata; Cass., Sez. VI, 27 gennaio 1982, Servanti, in Riv. pen., 1982, p. 1040; Cass., Sez. VI, 5 ottobre 1981, Bischetti, in Mass. dec. pen., 1982, p. 940; Cass., Sez. II, 24 aprile 1981, Caldaras, in Cass. pen., 1983, p. 114; Cass., Sez. II, 13 marzo 1980, De Siato, in Giust. pen., 1981, III, c. 479; Cass., Sez. IV, 29 ottobre 1979, Pogliani, in Cass. pen., 1981, p. 1080; Cass., Sez. I, 10 maggio 1979, Pepe, in Riv. pen., 1980, p. 295; Cass., Sez. II, 13 dicembre 1978, Ribetto, in Giust. pen., 1980, III, c. 344; Cass., Sez. I, 20 febbraio 1976, Pongelli, in Cass. pen., 1977, p. 1243. (56) Cfr. Cass., Sez. I, 22 marzo 1985, Selmo, in Riv. pen., 1986, p. 731; analoga-
— 559 — Si consolidava così un tertium genus (57), dai confini ambigui e talvolta contraddittoriamente tracciati da quella stessa giurisprudenza che l’aveva forgiato, il cui unico, costante punto di riferimento sembrava (ed apertamente si ammetteva) essere quello della necessità di svincolare la polizia giudiziaria da formalismi inutili ed anzi controproducenti rispetto al fine primario dell’accertamento (58). Azzerate le garanzie difensive (59) sia nei confronti del « sospettato » — perché « il regime garantistico della difesa trova applicazione nella fase processuale, ma non già in quella precedente tendente all’acquisizione della notitia criminis » (60) — sia nei riguardi dell’indagato e dell’imputato, libero od in vinculis (61), persino il requisito (invero sempre solo enunciato, ma mai effettivamente approfondito) (62) della « spontaneità » delle ammissioni fu in più di un’occasione messo in secondo piano, arrivandosi ad asserire la legittimità della trasposizione nel rapporto anche delle dichiarazioni rese nell’immediatezza del fatto dall’indiziato sua sponte, « pur se sollecitate dagli ufficiali di polizia giudiziaria » (63). Quanto al valore probatorio dell’atto, le oscillazioni che si registrarono — da una posizione tendente a valorizzarne il contenuto solo in senso integrativo di elementi acquisiti aliunde (64), ad altra invece orientata alla piena ed autonoma utilizzabilità delle ammissioni (65), anche se mente Cass., Sez. II 15 gennaio 1985, Sannino, in Cass. pen., 1986, p. 1319; Cass., Sez. I, 26 novembre 1984, Florio, in Riv. pen., 1986, p. 206; Cass., Sez. II, 27 febbraio 1984, Chirico, ivi, 1985, p. 204; Cass., Sez. II, 9 giugno 1983, Cordone, ivi, 1984, p. 634. (57) In dottrina la tesi della natura autonoma delle dichiarazioni spontanee venne sostenuta da P. MOSCARINI, Il fermo degli indiziati di reato, Giuffrè, Milano, 1981, p. 174; M. TIRELLI, Le sommarie informazioni come mezzo di investigazione, in questa Rivista, 1982, p. 881. (58) Davvero illuminanti, in questo senso, alcune pronunce, come Cass., Sez. I, 22 marzo 1985, Selmo, cit., o Cass., Sez. II, 11 ottobre 1985, Lacirignola, cit. (59) Cass., Sez. I, 3 maggio 1982, Daolio, in Mass. dec. pen., 1982, p. 947; Cass., Sez. II, 18 febbraio 1985, Guggia ed altro, cit.; Cass., Sez. II, 18 giugno 1982, Napoli, in Riv. pen., 1983, p. 728; Cass., Sez. I, 28 ottobre 1975, Magnasciutti, in Cass. pen. 1976, p. 1211. (60) Così Cass., Sez. I, 21 novembre 1985, Bellanti, in Giust. pen., 1986, III, p. 585. (61) V., emblematicamente, tra le moltissime, Cass., Sez. I, 15 dicembre 1987, Sciarrone, in Riv. pen., 1989, p. 419. (62) Unico lodevole tentativo risulta quello condotto da Cass., Sez. I, 11 luglio 1988, Nicolini, in Cass. pen., 1989, p. 1799, che richiamava la necessità del giudice di « accertare con adeguata motivazione e prudente cautela l’effettiva spontaneità » delle dichiarazioni. (63) Così Cass., Sez. II, 9 giugno 1983, Cordone, cit.; nello stesso senso Cass., Sez. II, 6 dicembre 1983, Pescini, in Riv. pen. 1985, p. 82; Cass., Sez. I, 15 giugno 1984, Marino, ivi, 1985, p. 596. (64) V., ad esempio, Cass., Sez. III, 17 febbraio 1988, Senese, in Cass. pen., 1989, p. 1519, non nota di P. SECHI, L’utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee tra vecchio e nuovo processo penale; Cass., Sez. VI, 11 dicembre 1986, Alberti, in Cass. pen., 1988, p. 1066; Cass., Sez. I, 21 novembre 1985, Bellanti, cit. (65) Era la tesi prevalente: Cass., Sez. I, 12 gennaio 1987, Drago, cit.; Cass., Sez. II,
— 560 — successivamente ritrattate dall’interessato (66) — non manifestavano in realtà apprezzabili scostamenti dall’univoca convinzione che le acquisizioni della polizia dovessero comunque essere sottoposte al « prudente » appezzamento del giudice (67); parametro, questo, molto spesso (ed anche qui) impiegato proprio come formidabile « mezzo eversivo dei divieti probatori » (68). Allo stesso tempo, crollava ogni remora nella giurisprudenza di legittimità ad ammettere la possibilità per gli ufficiali (e gli stessi agenti) di polizia giudiziaria di rendere testimonianza de auditu sui contenuti delle dichiarazioni spontanee loro rese dall’indagato (69). La tesi — che pure per un momento si affacciò in giurisprudenza — della totale inutilizzabilità, anche in sede extraprocessuale, delle dichiarazioni spontaneamente rese dall’indiziato (o dall’imputato) agli organi di polizia al di fuori delle garanzie difensive ex art. 225 c.p.p. 1930 (70), non ebbe alcun seguito; presupponendo una lettura sistematica ed integrata dei diversi istituti, si poneva in aperto contrasto con l’imperante stereotipo, ormai divenuto incrollabile, della piena indipendenza della particolare figura processuale rispetto agli schemi che il codice riservava a situazioni reputate, per « natura » e « funzione », diverse e « non equiparabili » (71). 15 aprile 1986, Giordana, in Giust. pen., 1987, III, c. 173; Cass., Sez. IV, 22 maggio 1981, Zerbato, in Cass. pen., 1982, p. 1358; Cass., Sez. II, 15 giugno 1973, Belviso e altri, ivi, 1975, p. 296. (66) Come affermarono, tra le altre, Cass., Sez. I, 3 maggio 1988, Marras, cit.; Cass., Sez. VI, 30 aprile 1987, Cozzella, cit.; Cass., Sez. III, 30 marzo 1987, Rossi, cit.; Cass., Sez. I, 27 gennaio 1987, Drago, cit.; Cass., Sez. II, 15 gennaio 1985, Sannino, cit.; Cass., Sez. I, 9 luglio 1984, Peruzzo, in Giust. pen., 1985, III, c. 409; Cass., Sez. I, 9 luglio 1984, A.A., cit.; Cass., Sez. I, 15 giugno 1984, Marino, cit.; Cass., Sez. II, 27 febbraio 1984, Chirico, cit. (67) In questo senso Cass., Sez. I, 24 settembre 1984, Secci, in Giust. pen., 1984, III, c. 557; analogamente Cass., Sez. II, 5 luglio 1984, Kazianka, ibid.; Cass., Sez. I, 11 giugno 1984, Mantero, in Cass. pen. 1986, p. 1325. V., sul punto, l’efficace critica di P. FERRUA, Dichiarazioni spontanee, cit., p. 1985. (68) Così P. FERRUA, Studi sul processo penale, vol. II, Anamorfosi del processo accusatorio, Giappichelli, Torino, 1992, p. 168; mettono in rilievo i ripetuti abusi della regola E. AMODIO, Libertà e legalità della prova nella testimonianza, in questa Rivista, 1973, p. 310; M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Giuffrè, Milano, 1974, p. 106. (69) Cfr. Cass., Sez. I, 11 giugno 1984, Mantero, cit.; nello stesso senso, Cass., Sez. II, 15 gennaio 1985, Sannino, cit. (70) In questa direzione Cass., Sez. I, 17 dicembre 1985, Callegarini, in Cass. pen., 1987, p. 138; Cass., Sez. I, 21 novembre 1985, Bellanti, cit.; Cass., Sez. I, 15 giugno 1984, Marino, cit. Nel senso che « non sussiste violazione dell’art. 225 c.p.p. una volta che una dichiarazione resa spontaneamente alla polizia giudiziaria e trasfusa in un promemoria venga in seguito ritualmente confermata all’autorità giudiziaria » in sede di interrogatorio, Cass., Sez. II, 22 aprile 1983, Agostino, in Cass. pen., 1985, p. 2070, con nota adesiva di M. GARDENAL, Brevi riflessioni sulle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato nella fase degli atti di polizia giudiziaria. (71) V., ad esempio, Cass., Sez. I, 3 maggio 1988, Marras, cit.; ad identiche conclu-
— 561 — 3. Le scelte del legislatore delegante ... — Benché sottoposta alla serrata ed accesa critica della dottrina (72) — che non mancò di sottolineare l’assoluta inaffidabilità dei criteri distintivi tratteggiati dalla giurisprudenza (73), evidenziandone i connotati potenzialmente elusivi delle garanzie costituzionali (74), sino a denunciare un « fenomeno di autentica inciviltà umana prima ancora che giuridica » (75) — la figura delle dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria ha finito per trovare spazio nel codice di procedura del 1988. In realtà, la lettura delle direttive impartite in proposito dal legislatore delegante non sembrava autorizzare una simile scelta. L’art. 2, n. 31 della l. 16 febbraio 1987, n. 81, infatti, nel dettare i criteri guida per la formulazione delle disposizioni codicistiche relative all’attività di iniziativa della polizia giudiziaria, si sofferma con particolare dettaglio sul tema dei rapporti tra l’indagato e gli investigatori, sancendo l’espresso « divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese [da testimoni o] dalla persona nei cui confronti vengono sioni, con riguardo alle dichiarazioni rese spontaneamente al magistrato, giungeva Cass., Sez. II, 1 dicembre 1982, Di Lauri, in Cass. pen., 1985, con nota di M.L. MAMMOLI, Dichiarazioni spontanee come mero « fatto storico » e garanzie difensive dell’indiziato. (72) Cfr., nell’ampio panorama letterario sull’argomento, E. AMODIO, Diritto al silenzio, cit., p. 415; S. BUZZELLI, op. loc. ult. cit.; O. CAMPO, voce Interrogatorio dell’imputato, in Enc. dir., vol. XXII, Giuffrè, Milano, 1972, p. 339; C. CARLI, Art. 225 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Cedam, Padova, 1987, p. 706; E. DE GENNARO e V. BRUNO, L’iniziativa della polizia giudiziaria. Appendice di aggiornamento, Giuffrè, Milano, 1070, p. 15; A. FERRARO, Sulle dichiarazioni spontanee alla polizia, in Riv. pen., 1987, p. 289; P. FERRUA, Dichiarazioni spontanee, cit., p. 1981; G. GALLI, Le recenti leggi, cit., p. 332; ID., In tema di « spontanee dichiarazioni », cit., p. 73; M. GARDENAL, op. cit., p. 2071; E. GAZZANIGA, In tema di utilizzazione processuale delle dichiarazioni dell’imputato, in Cass. pen., 1984, p. 608; V. GREVI, Le sommarie informazioni, cit., p. 63; G. ILLUMINATI, op. cit., p. 230; M.L. MAMMOLI, op. cit., p. 1173; P. MOSCARINI, op. cit., p. 172; M. PASSARETTI, Dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e diritto di difesa, in Giur. merito, 1977, II, p. 606; S. RAMAJOLI, Qualche riflessione sull’art. 225-bisc.p.p., in Giust. pen., 1983, III, c. 105; E. RUBIOLA, op. cit., p. 69; P. SECHI, op. cit., p. 1522; C. TAORMINA, op. cit., p. 126; M. TIRELLI, op. cit., p. 880; G.P. VOENA, op. cit., p. 2225. (73) V. GREVI, op. ult. cit., p. 66, aveva rimarcato « il gravissimo pericolo di svuotamento dei meccanismi garantistici predisposti dall’art. 225 c.p.p. per l’interrogatorio dell’indiziato »; sul punto v. altresì l’efficace critica di P. FERRUA, op. ult. cit., p. 1982; e le lucide osservazioni di S. BUZZELLI, op. ult. cit., p. 815. (74) Come osservava P. FERRUA, op. loc. ult. cit.; alle stesse conclusioni giungeva M. SCAPARONE, Evoluzione e involuzione del diritto di difesa, Giuffrè, Milano, 1980, p. 84. (75) L’espressione è di G. GALLI, La politica criminale, cit., p. 90; l’A. (In tema di « spontanee » dichiarazioni, cit., p. 74) imputava alla prassi in questione il negativo effetto del sistematico « orientarsi unilaterale delle indagini secondo i primi indirizzi degli organi di polizia (necessariamente, non sempre a sufficienza meditati) », con il conseguente « svilimento dell’intervento dell’autorità giudiziaria ».
— 562 — svolte le indagini, senza l’assistenza della difesa » (direttiva 31, parte seconda) (76). Il principio, di evidente portata generale, trova diretto riscontro nella successiva enunciazione, che attribuisce alla polizia il potere-dovere, « sino a che il pubblico ministero non abbia impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini », di « assumere sommarie informazioni da chi non si trova in stato di arresto o di fermo, con l’assistenza difensiva » (direttiva 31, parte terza). Qui, ritornando ad attestarsi sulla posizione antecedente alla riforma del 1974 (77), la legge delega non solo sottrae alla polizia la possibilità di esaminare l’indagato in vinculis (78) ma ribadisce l’inequivocabile scelta dell’ineludibilità delle garanzie difensive anche nella fase delle prime indagini. Quanto, poi, al riconosciuto « potere-dovere della polizia giudiziaria di assumere sul luogo o nell’immediatezza del fatto, anche senza l’assistenza del difensore, notizie ed indicazioni utili ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini », la stessa direttiva prescrive — in chiara linea di continuità con l’istituto delle « sommarie informazioni » introdotto all’art. 225-bis c.p.p. 1930 — il « divieto di ogni documentazione ed utilizzazione processuale, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria » (direttiva 31, parte sesta). Sullo sfondo la previsione, ricca di significato sul piano politico, più ancora che giuridico, che riconosce esplicitamente all’interrogatorio la « natura di strumento di difesa » (direttiva 5, parte terza) (79), non delegabile da parte del pubblico ministero alla polizia giudiziaria (direttiva 37, (76) La norma, come è noto, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima da C. cost. 31 gennaio 1992, n. 24, in questa Rivista, 1992, p. 678, con nota di F. PERONI, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria al vaglio della corte costituzionale (la sentenza è pubblicata anche in Riv. dir. proc., 1992, p. 1130, con nota di G. GIOSTRA, Equivoci sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e sacrificio del principio di oralità, in Giur. costit., 1992, p. 114, con nota di M. SCAPARONE, La testimonianza indiretta dei funzionari di polizia giudiziaria; in Corriere giur., 1992, p. 406, con nota di A. GIARDA, Corte costituzionale e processo penale: la riforma continua; in Cass. pen., 1992, p. 917, con nota di M. D’ANDRIA, Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 195, 4o comma, c.p.p.; in Giust. pen., 1992, I, p. 304, con nota di P. DELL’ANNO, Testimonianza indiretta di polizia giudiziaria e « ragionevolezza » inquisitoria). (77) V., retro, par. 2. (78) Facoltà attribuita dalla direttiva n. 34, parte seconda, al pubblico ministero, « con diritto del difensore di assistere all’interrogatorio ». (79) Sottolinea l’importanza della precisazione R. KOSTORIS, Commento agli artt. 6465 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. I, Utet, Torino, 1990, p. 327; sul tema v. altresì E. AMODIO, La fase anteriore al dibattimento nella nuova legge delega per il codice di procedura penale, in Giust. pen., 1983, III, p. 507; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato, cit., p. 87; P. FERRUA, La difesa nel processo penale, Utet, Torino, 1988, p. 58; V. GREVI, Indagini preliminari ed incidente istruttorio nella progettazione del nuovo processo penale: dal pubblico ministero « giudice » al pub-
— 563 — parte quarta), cui fa da corollario la prescrizione relativa al « diritto dell’imputato di farsi assistere nell’interrogatorio dal difensore » (direttiva 6, parte prima). Al riconosciuto rafforzamento delle garanzie difensive durante le indagini (80) corrisponde peraltro — in termini invero non del tutto equilibrati e coerenti (81) — la soluzione adottata dalla delega in merito alla valenza probatoria degli esiti della fase preliminare, laddove, anziché assegnare agli atti in questione, come ci si sarebbe aspettati in ossequio ai principi, un’efficacia puramente interna e negarne (ad eccezione di quelli assunti con incidente probatorio) ogni influenza sul giudizio, finisce per ammettere, nelle direttive riservate al dibattimento, non solo la « facoltà delle parti di utilizzare, per le opportune contestazioni, gli atti depositati ai sensi del n. 58 del presente articolo » (82) (direttiva 76, parte seconda), ma soprattutto il « potere del giudice di allegare nel fascicolo processuale, tra gli atti utilizzati per le contestazioni, [solo] quelli assunti dal pubblico ministero cui il difensore ha diritto di assistere e le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto » (direttiva 76, parte terza) (83). E mentre la prima indicazione poteva trovare giustificazione proprio nella funzione meramente negativa o critica del mezzo della contestazione (84), l’impiego della seconda formula — oltre a risultare difficilmente comprensibile laddove si riferisce alle « sommarie informazioni » assunte « sul luogo e nell’immediatezza del fatto », altrove dichiarate, come si è visto, non documentabili né utilizzabili se provenienti dall’indagato (85) — lasciava intravedere il rischio di una pesante svalutazione dell’escussione dibattimentale (86). blico ministero « parte », in Cass. pen., 1984, p. 1839; G. LATTANZI e E. LUPO, La nuova delega per il codice di procedura penale: continuità e differenze di sistema, ivi, 1983, p. 186. (80) Mette in rilievo come proprio « l’appartenenza alla categoria degli atti « garantiti » sul piano dell’assistenza difensiva » produca « riflessi importanti nella disciplina delle prove per il dibattimento », M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, 2a ed., Utet, Torino, 1990, p. 107. (81) Come nota P. FERRUA, op. ult. cit., p. 58. (82) Si tratta « degli atti compiuti o ricevuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero diversi da quelli indicati nel [...] numero 57 ». (83) V. la declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata da C. cost. 3 giugno 1992, n. 255, in questa Rivista, 1992, p. 1132 (sulla quale v. infra par. 6). (84) In questo senso P. FERRUA, op. ult. cit., p. 63. (85) La scelta del legislatore delegato è stata, qui, quella di ritenere limitata la previsione alle dichiarazioni assunte, nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto, dal testimone: v. art. 500, comma 4, c.p.p., nella versione antecedente alla declaratoria di illegittimità costituzionale ad opera di C. cost. 3 giugno 1992, n. 255, cit., ed alla successiva modifica apportata dall’art. 7, comma 4, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. nella l. 7 agosto 1992, n. 356. (86) Cfr. ancora P. FERRUA, loc. ult. cit.; nonché, dello stesso A., i rilievi svolti in Studi sul processo penale, Giappichelli, Torino, 1990, p. 97.
— 564 — Ad ogni modo, il sistema delle regole complessivamente delineate forniva al legislatore delegato un preciso quadro di riferimento, dal quale risultava definitivamente bandita la possibilità di recuperare una prassi — apertamente confliggente non solo con le specifiche indicazioni prescrittive, ma più in generale con la stessa impostazione di fondo del nuovo rito penale — quale quella della assunzione, documentazione ed utilizzazione delle dichiarazioni spontaneamente fornite dall’indagato, privo dell’assistenza difensiva, alla polizia giudiziaria. 4. ... e quelle del legislatore delegato. — La scelta dei redattori del codice, sul punto, si è invece orientata diversamente. Accanto, infatti, alla formulazione di una serie di regole mirate a dare piena attuazione al principio secondo cui nemo tenetur se detegere — e, dunque, ad assicurare alla parte la consapevolezza dell’effettiva veste processuale assunta, il diritto al silenzio, e, soprattutto, l’assistenza difensiva — il legislatore delegato ha finito per articolare la disciplina dei rapporti dell’indagato con la polizia giudiziaria in termini più ampi di quelli che sembravano consentiti dalla delega, configurando normativamente, sia pur in termini sensibilmente differenti da quelli che la giurisprudenza era venuta negli anni a disegnare, l’istituto delle dichiarazioni spontanee. Sul primo profilo è sufficiente in questa sede un accenno al quadro d’insieme: all’art. 63, comma 1, c.p.p., nell’enunciare l’obbligo di interrompere l’esame della persona non imputata o non sottoposta alle indagini, per formulare l’avvertimento di rito ed invitarla a nominare un difensore, quando questa renda davanti all’autorità giudiziaria od alla polizia giudiziaria « dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico », si è statuita l’inutilizzabilità contro il dichiarante delle affermazioni fatte; sanzione — peraltro enunciata con diversa locuzione, non limitata all’effetto contra se — che il comma successivo fa discendere anche al caso delle dichiarazioni rese da chi doveva essere sentito « sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini ». Parallelamente, si è sancito, con formula dal carattere inequivocabilmente generale, il divieto di testimonianza sulle « dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall’imputato o dalla persona sottoposta alle indagini » (art. 62 c.p.p.) (87), mentre la disciplina dell’interrogatorio — significativamente collocata non già nell’ambito delle norme sulle prove, ma (87) La formula, accolta in sede di redazione del Progetto definitivo, ha opportunamente sostituito quella contenuta nell’art. 71, comma 4 del Progetto preliminare, dove il divieto di testimonianza era invece riferito alle sole « dichiarazioni comunque rese dall’imputato all’autorità giudiziaria », la cui operatività era limitata ad « ogni stato e grado del processo »; sul punto v. le osservazioni di R. KOSTORIS, Commento all’art. 62 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, Utet, Torino, 1990, p. 318.
— 565 — tra le regole relative alla posizione dell’imputato (88) — fissa una serie di guarentigie, tra le quali quella dell’obbligatorio, preventivo avvertimento circa la facoltà di non rispondere (art. 64, comma 3, c.p.p.). Maggiore attenzione merita invece la normativa relativa all’attività ad iniziativa della polizia giudiziaria, ed in particolare la disposizione in tema di « sommarie informazioni » con la quale il legislatore delegato ha inteso tradurre i principi espressi dalla ricordata direttiva n. 31 (89). Con l’art. 350 c.p.p sono state configurate tre distinte fattispecie: quella delle « sommarie informazioni » che la polizia giudiziaria trae dall’indagato, non in stato di arresto o di fermo, che possono essere assunte solo previo invito a nominare un difensore e con la presenza necessaria dello stesso (o di quello d’ufficio) (commi 1-4); quella delle « notizie e indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini », raccolte dall’indagato, anche se arrestato in flagranza o fermato a norma dell’art. 384 c.p.p., sul luogo o nell’immediatezza dei fatti e privo dell’assistenza del difensore, con divieto di « ogni documentazione e utilizzazione » (commi 5 e 6); ed infine quella delle « dichiarazioni spontanee » (comma 7). Su quest’ultima disposizione — formulata nel senso che « la polizia giudiziaria può altresì ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, ma di esse non è consentita la utilizzazione agli effetti del giudizio, salvo quanto previsto dall’articolo 503 comma 3 » (90) — il dibattito all’interno della Commissione redigente è stato — come testimonia la Relazione al Progetto preliminare del codice — particolarmente acceso. Superata la posizione secondo la quale la delega avrebbe imposto una configurazione dei poteri della polizia strettamente vincolata alla suddivisione temporale delle attività — tale che solo prima dell’intervento delle direttive del pubblico ministero si sarebbe potuta ammettere la possibilità per gli investigatori, nell’ambito delle operazioni finalizzate a « prendere notizia dei reati », « di descrivere i fatti costituenti reato compilando i verbali relativi alle attività compiute nonché di ricevere ‘‘dichiarazioni’’ rese spontaneamente e di riferire al pubblico ministero entro le quarantotto ore, fermo il divieto della loro utilizzazione nel giudizio, anche attraverso la testimonianza della stessa polizia giudiziaria » — si è « ritenuto che la nuova formulazione della direttiva 31 seconda parte privilegiata dal Se(88)
Sottolinea la circostanza R. KOSTORIS, Commento agli artt. 64-65 c.p.p., cit., p.
327. (89) Per un’analisi della normativa in questione, all’indomani del varo del codice, v. G.C. CASELLI, Commento all’art. 350 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. IV, Utet, Torino, 1990, p. 126. (90) È la versione originaria dell’art. 350, comma 7, c.p.p.; circa la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma e la successiva modifica legislativa v. infra, par. 5 e 6.
— 566 — nato » « abbia voluto consentire anche la previsione, accanto alle categorie già enunciate, di un altro tipo di dichiarazioni: quelle cc.dd. spontanee rese dall’indiziato senza il difensore alla polizia giudiziaria ed utilizzabili in giudizio ai fini delle contestazioni » (91). Una conclusione, questa, cui il legislatore delegato è pervenuto « argomentando dal fatto che la direttiva 31 mostra di distinguere le ‘‘informazioni rese’’ (utilizzabili) da quelle ‘‘assunte (e, quindi, ‘provocate’) dalla polizia giudiziaria’’ (direttiva 31 sesta parte) (inutilizzabili) » (92). Quanto alla disciplina della particolare figura, la Relazione precisa ancora che — nonostante il silenzio della norma sul punto — le dichiarazioni in questione possono essere « ricevute anche se l’‘‘indagato’’ si trovi in stato di arresto o di fermo », e che, in ragione del « carattere non ‘‘provocato’’ » dell’atto, questo può essere raccolto anche dagli agenti di polizia, e non solo dagli ufficiali; non senza sottolineare, sul piano della valenza probatoria delle dichiarazioni, che ad esse è stata attribuita una utilizzabilità solo « processuale » (« non come prova ma eventualmente per contestazione ») (93). Il punto, determinante per l’inquadramento del congegno ed espressivo dell’evidente intento mediatorio perseguito dal legislatore (94), è esplicitato dal combinato disposto dell’art. 350, comma 7, c.p.p. (nella versione del 1988: « non è consentita la utilizzazione agli effetti del giudizio ») e del richiamato art. 503, comma 3 c.p.p., in tema di esame delle parti private (« fermi i divieti di lettura e di allegazione, il pubblico ministero e i difensori, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte esaminata e contenute nel fascicolo del pubblico ministero », a condizione che « sui fatti e sulle circostanze da contestare la parte abbia già deposto »). Verbalizzata dalla polizia giudiziaria (in forza dell’espressa previsione di cui all’art. 357, comma 2, lett. b, cp.p.), la dichiarazione spontaneamente resa dall’indagato viene dunque messa a disposizione del pubblico ministero (art. 357, comma 4, cp.p.) ed inserita nel suo fascicolo (art. 433 c.p.p.); ove utilizzata per le contestazioni, « anche se letta dalla parte, non può costituire fonte di prova dei fatti in essa affermati », ma « può essere (91) Così la Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U. 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 85. (92) Relazione al Progetto preliminare, loc. cit. (93) Cfr. ancora la Relazione al Progetto preliminare, cit., p. 87. (94) Come sottolinea F. TERRUSI, Commento all’art. 350 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chiavario, I Aggiornamento, Utet, Torino, 1993, p. 254.
— 567 — valutata dal giudice per stabilire la credibilità della persona esaminata » (art. 500, comma 2, nel testo originario) (95). Non trattandosi, poi, di « dichiarazioni assunte dal pubblico ministero alle quali il difensore aveva il diritto di assistere » (art. 503, comma 5) (96), ne viene esclusa l’acquisizione, ancorché dopo l’eventuale utilizzazione per le contestazioni, nel fascicolo per il dibattimento. 5. Dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 350, comma 7, c.p.p. ... — L’artificiosa distinzione tra informazioni « rese » (spontaneamente) ed informazioni « assunte » (ossia provocate) dalla polizia giudiziaria operata dal legislatore delegato nell’esegesi della direttiva n. 31 non ha peraltro retto all’analisi critica della Corte costituzionale. Chiamato a valutare, in riferimento agli artt. 76, 77 e 24 Cost., la tenuta costituzionale dell’art. 350, comma 7, c.p.p. alla luce dei criteri in proposito espressi dalla legge delega — ed in particolare dell’art. 2, n. 31, parte seconda — il Giudice delle leggi non ha avuto incertezze nel censurare la scelta effettuata dal codificatore del 1988 di ammettere l’utilizzabilità (ancorché limitata alle contestazioni dibattimentali) delle dichiarazioni acquisite senza l’assistenza difensiva (97). La puntualità enunciativa della norma-guida (« tanto analitica da apparire norma di dettaglio ») (98) è tale, per la Corte, da non lasciare spazio a dubbi: « il divieto di utilizzazione espressamente posto dal legislatore delegante si riferisce, infatti, secondo l’univoco significato letterale della direttiva in esame, ... anche alle ‘‘dichiarazioni rese’’ dall’indiziato alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del difensore, e non solo alle ‘‘informazioni assunte’’, alle quali peraltro fa richiamo la stessa direttiva (sesta parte) là dove consente alla polizia giudiziaria ‘‘di assumere sul luogo e nell’immediatezza del fatto, anche senza l’assistenza del difensore, noti(95) Ossia quello antecedente alla modifica apportata dall’art. 7, comma 4, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. nella l. 7 agosto 1992, n. 356, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dei commi 3 e 4 (C. cost. 3 giugno 1992, n. 255, cit.). (96) Anche questo poi modificato: v. art. 8, comma 1 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. nella l. 7 agosto 1992, n. 356. (97) C. cost. 12 giugno 1991, n. 259 (in Cass. pen., 1991, p. 554, ed in Corr. giur., 1991, p. 981, con nota di A. GIARDA, Principi costituzionali e codice di rito penale: il raffronto continua) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, in riferimento alla direttiva n. 31 della legge-delega n. 81 del 1987, l’art. 350 comma 7 c.p.p. « nella parte in cui consente la utilizzazione ai fini delle contestazioni delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del difensore, e cioè limitatamente all’inciso ‘‘ salvo quanto previsto dall’art. 503 comma 3’’ ». (98) La Corte ricorda in questa occasione che « quanto più i principi ed i criteri direttivi impartiti dal legislatore delegante sono analitici e dettagliati, tanto più ridotti risultano i margini di discrezionalità lasciati al legislatore delegato; di conseguenza ancor più rigorosamente deve valutarsi la legittimità della norma delegata, nel senso della sua aderenza ai criteri direttivi predeterminati ».
— 568 — zie e indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini’’; ribadendo però anche in questa sede il divieto, già posto nella seconda parte, di ogni utilizzazione processuale » (99). La conseguenza è evidente: « non c’è spazio per costruire una diversa regolamentazione tra dichiarazioni ‘‘rese’’ e dichiarazioni ‘‘rese spontaneamente’’ »; e proprio il fatto che la nozione di dichiarazione « spontaneamente resa » fosse ben nota nel diritto vigente avvalora l’argomento che porta ad escludere — di fronte alla circostanza che il legislatore delegante non ha ritenuto di operare alcuna distinzione, ma al contrario ha « posto un divieto generale di utilizzabilità per ogni tipo di dichiarazione resa senza l’assistenza della difesa » — che « la lettera della direttiva n. 31 autorizzi un regime differenziato e particolare per la specifica categoria delle dichiarazioni spontanee » (100). Né la scelta dei compilatori del codice di limitare l’impiego delle dichiarazioni alle sole contestazioni induce la Corte a mutare giudizio: nel « divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio » imposto dalla ricordata direttiva — si legge ancora nella citata sentenza — è « certamente compreso anche l’uso di dette dichiarazioni ai fini delle contestazioni; uso che, seppure con l’efficacia probatoria minore stabilita dall’art. 500 comma 3 c.p.p., comporta indubbiamente ‘‘effetti’’ nel giudizio » (101). La prospettiva aperta dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma risultava a questo punto sufficientemente chiara: bandita dal sistema la possibilità di un qualsiasi sfruttamento « agli effetti del giudizio » (102) delle dichiarazioni — ancorché documentate (103) — rilasciate senza l’assistenza del difensore, residuava spazio unicamente per ammettere il recupero — ovviamente sempre nei limiti di quanto previsto dall’art. 503, comma 3 c.p.p. — delle eventuali affermazioni che l’indiziato avesse formulato alla polizia giudiziaria in presenza del proprio legale. 6. ... all’« aggiustamento » legislativo del 1992. — Il processo di trasformazione della fisionomia delle indagini preliminari — in atto sin dai primi anni di applicazione del nuovo codice — ha finito per alterare significativamente lo scenario di fondo disegnato dal legislatore del 1988, (99) Così C. cost. 12 giugno 1991, n. 259, cit. (100) C. cost. 12 giugno 1991, n. 259, cit. (101) Cfr. ancora C. cost. 12 giugno 1991, n. 259, cit. (102) Sull’operare dello specifico limite, con riguardo alle decisioni in tema di misure cautelari, udienza preliminare e riti alternativi, alla luce della decisione della Corte costituzionale che (v. nota che segue) ha respinto la censura di illegittimità dell’art. 357, comma 2, lett. b c.p.p. v. i rilievi di F. TERRUSI, op. cit., p. 256. (103) La Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale mossa dal rimettente (Pret. Lecce, 10 novembre 1990, in G.U., 1a serie spec., 27 febbraio 1991, n. 9) nei confronti dell’art. 357, comma 2, lett. b, c.p.p.
— 569 — incidendo sia sulla relazione funzionale tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, che sullo stesso (già precario) equilibrio su cui si reggeva il confronto tra indagato ed investigatore. È sufficiente, qui, uno sguardo d’insieme: con la decretazione d’urgenza del 1992 (104) — emanata, agendo non a caso al di fuori del meccanismo di adeguamento normativo imposto dall’art. 7 della l. n. 81 del 1987 (105), all’indomani di gravissimi atti criminali che hanno profondamente scosso la pubblica opinione ed indotto il legislatore a fornire una « risposta forte » delle istituzioni (106) — si è inciso con vigore in quella direzione (107), attraverso « una cospicua riacquisizione (anzi, da qualche punto di vista, di una nuova e più ampia acquisizione) di poteri da parte della polizia giudiziaria e del pubblico ministero », tanto da far pensare addirittura che si fosse ridotta « ad un boomerang quella stessa separazione di ruoli tra ‘‘giurisdizione’’ ed ‘‘investigazione’’ nella fase delle indagini, che ormai non si discuteva più e che in sé resta un’importante — e, si spererebbe irreversibile — caratteristica della vigente procedura penale italiana » (108). Dal canto suo, la stessa Corte costituzionale aveva aperto la strada della « controriforma », scardinando il principio, tipico dell’originario assetto del sistema processuale penale adottato nel 1988, della formazione (104) Ci si riferisce al d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella l. 7 agosto 1992, n. 356. (105) Che come è noto imponeva, nel triennio successivo all’entrata in vigore del codice, che le disposizioni integrative e correttive venissero adottate dal Governo mediante decreti, aventi valore di legge, emanati « nel rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dagli articoli 2 e 3 su conforme parere della commissione » bicamerale prevista dall’art. 8. La deroga a tale procedura — attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza — è stata riconosciuta legittima dalla Corte costituzionale sulla scorta dell’affermazione che « la legge delega per l’emanazione del c.p.p. non occupa, nella gerarchia delle fonti, una posizione diversa da quella di ogni altra legge » (C. cost. 25 maggio 1992, n. 225, in Legisl. pen., 1992, p. 538); sull’argomento v. le penetranti osservazioni critiche di G. CONSO, L’esperienza dei principi generali nel nuovo diritto processuale penale, in Giust. pen., 1991, III, p. 587; nonché A. PACE, Sull’uso alternativo del decreto legge, in luogo del decreto delegato, per eludere i principi della delega, in Giur. cost., 1992, p. 1786. (106) L’espressione è di M. CHIAVARIO, Il processo penale dopo la nuova decretazione « d’emergenza »: ancora una volta alla ricerca di una bussola, in Legisl. pen., 1993, p. 339. (107) Significative, in questo senso, soprattutto le modifiche apportate con il capo II (Potenziamento dell’attività di indagine) e, in particolare, dagli artt. 4 (Attività a iniziativa della polizia giudiziaria) e 5 (Attività del pubblico ministero) del d.l. n. 306/1992; per una analisi di dettaglio delle modifiche si rinvia a L. BRESCIANI, Commento all’art. 4 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Legisl. pen., 1993, p. 62; ID., Commento all’art. 5 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, ivi, p. 79; una aggiornata ricostruzione del quadro emergente dalla riforma del 1992 e dal successivo adeguamento giurisprudenziale può leggersi in G. ICHINO, Attività di polizia giudiziaria, in AA.VV., Indagini preliminari ed instaurazione del processo, coordinato da G. Aimonetto, Utet, Torino, 1999, p. 119. (108) M. CHIAVARIO, op. cit., p. 343.
— 570 — della prova in dibattimento. In primo luogo, con l’affermazione — carica di inquietanti significati — della regola della tendenziale completezza delle indagini e della loro finalizzazione al raggiungimento di risultati processualmente rilevanti (109); per altro verso, ammettendo le deposizioni della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni ricevute da testimoni (110) ed aprendo così una « pericolosa breccia sul fronte dell’oralità e del contraddittorio » (111), nel momento stesso in cui si ponevano le premesse per un uso in chiave non meramente critica della « voce captata fuori dal contraddittorio » (112); ed infine consentendo — in ossequio all’inedito quanto discutibile principio della « non dispersione dei mezzi di prova » (113) — l’acquisizione e l’utilizzazione degli atti contenenti le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria ed al pubblico ministero anteriormente al dibattimento (114) in termini addirittura più ampi di quelli per(109) In questo senso si era espressa C. cost., 15 febbraio 1991, n. 88, in Cass. pen., 1991, II, p. 207, annotata de L. GIULIANI, La regola di giudizio in materia di archiviazione (art. 125 disp. att. c.p.p.) all’esame della Corte costituzionale (ivi, 1992, p. 249). (110) Con la sentenza n. 24 del 1992: v. retro, par. 3. (111) Il giudizio è di P. FERRUA, Studi sul processo penale, vol. II, Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 160. (112) Così F. CORDERO, Linee di un processo accusatorio, in Criteri direttivi per una riforma del processo penale (Atti del Convegno di studio « E. De Nicola »), Giuffrè, Milano, 1965, p. 76, le cui pagine sul tema restano particolarmente attuali ed efficaci. (113) Per un inquadramento, sul piano definitorio, del principio e per una puntuale analisi delle sue implicazioni v. le considerazioni svolte da O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri, cit., p. 736. (114) Cfr. C. cost., 3 giugno 1992, n. 255, in questa Rivista, 1992, p. 1132, con note di P. FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: declino del processo accusatorio, ibid., p. 1455 e di P. TONINI, Cade la concezione massimalistica del principio di immediatezza, ibid., p. 1137 (anche in Giur. cost., 1992, p. 1973, con nota di G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della corte costituzionale nella motivazione della sent. n. 255 del 1992; in Cass. pen., 1992, p. 2022, con nota di F.M. IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla corte costituzionale; in Foro it., 1992, I, c. 2012, con nota di G. DI CHIARA, L’inquisizione come « eterno ritorno »: tecnica delle contestazioni e usi dibattimentali delle indagini a seguito della sentenza 255/92 della corte costituzionale e di G. FIANDACA, Modelli di processo e scopi della giustizia penale; in Corriere giur., 1992, p. 981, con nota di A. GIARDA, Ci sono principi e principi: parola della corte costituzionale; in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 329, con nota di P. DUBOLINO, Considerazioni di fondo e prospettive pratiche dopo gli ultimi interventi della corte costituzionale e del legislatore nel codice di procedura penale; in Riv. polizia, 1992, p. 559, con nota dello stesso A., Gli ultimi interventi della corte costituzionale e del legislatore sul c.p.p.: considerazioni e prospettive). Sul tema v. altresì le puntuali e lucide considerazioni di O. DOMINIONI, op. ult. cit., p. 738; P. FERRUA, op. loc. ult. cit.; nonché ID., La testimonianza nel « nuovo » dibattimento: dalla sentenza costituzionale n. 24/1992) alla l. n. 356/1992, in Difesa pen., 1992, fasc. 36, p. 44.
— 571 — messi dal codice Rocco (115), provocando così il completo rovesciamento del rapporto tra attività di indagine e testimonianza resa in giudizio (116). In questo quadro, in cui la fisionomia originaria del codice risulta decisamente sfigurata (117), si è appunto agevolmente inserita anche l’operazione di « restauro » (118) dell’art. 350, comma 7 c.p.p., con la quale lo stesso decreto-legge del 1992, sostituendo l’espressione « agli effetti del giudizio » con quella « nel dibattimento » e lasciando per il resto immutata la formulazione originaria della norma (119), ha dato evidente prova della (notevole) diversità di atteggiamento del legislatore di fronte alle prescrizioni del Giudice delle leggi: qui, come si è detto, la Corte costituzionale si era infatti pronunciata in termini ben diversi, del tutto ignorati dalla riforma. Due le conseguenze dirette dell’interpolazione. Innanzitutto, la reintroduzione della deroga al divieto di utilizzazione delle dichiarazioni — operata attraverso il ripristino del rinvio all’art. 503, comma 3 c.p.p., pur censurato dalla Consulta — consente di nuovo l’impiego delle dichiarazioni spontanee per le contestazioni dibattimentali; e l’assenza di qualsiasi espresso richiamo alla necessità dell’assistenza difensiva in questa sede rende problematica, ancorché non impossibile, come si vedrà, una lettura della disposizione novellata alla luce dei principi di garanzia richiamati nella ricordata decisione dalla Corte costituzionale (120). In secondo luogo, la delimitazione al « dibattimento », anziché al « giudizio », dello sbarramento all’impiego processuale delle dichiarazioni spontaneamente rese alla polizia giudiziaria dall’indagato finisce per rafforzare l’ipotesi — per la verità già avanzata sotto la vigenza della versione precedente della norma (121) — di ampliamento dell’area operativa dell’utilizzazione delle dichiarazioni, rilevante sul piano dell’uso degli elementi, anche contra se, forniti agli inquirenti dal dichiarante, oltre che ai (115) Ammette la circostanza G. LATTANZI, Un processo riformato o rivoluzionato?, in Legisl. pen., 1993, p. 355. (116) Sul punto si rinvia alle penetranti considerazioni di P. FERRUA, op. ult. cit., p. 163. (117) Cfr. ancora P. FERRUA, op. ult. cit., p. 173. (118) L’efficace espressione è di L. BRESCIANI, Commento all’art. 350 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., II Aggiornamento, Utet, Torino, 1993, p. 141. (119) Art. 4, comma 3 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. nella l. 7 agosto 1992, n. 356. (120) Mentre, all’indomani della sentenza n. 259 del 1991, era ritenuta pacifica l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del difensore: in questo senso v. Cass., Sez. V, 12 marzo 1992, Cocchiara, in Riv. pen., 1992, p. 943. (121) Cfr. P. SECHI, op. cit., p. 1523.
— 572 — fini dell’adozione delle misure cautelari, nell’udienza preliminare e nella definizione dei riti alternativi al dibattimento (122). 7. Il problema della valutazione della natura spontanea delle dichiarazioni: « volontarietà » e « libera iniziativa ». — Ancorché, dunque, soggetta all’analisi critica della Corte costituzionale e sottoposta al successivo intervento di modifica, la regolamentazione del particolare istituto continua a destare forti perplessità interpretative, che derivano in egual misura dalla laconicità dell’enunciato normativo e dalla problematicità — invero amplificata dalle riluttanze da subito manifestate in sede giurisprudenziale — di una lettura sistematica e coordinata delle diverse disposizioni dedicate alla tutela dei diritti dell’indagato. Così, ora invocandosi una voluntas legis particolarmente incline a recepire normativamente il portato delle precedenti esperienze applicative, ora argomentandosi sulla marcata autonomia della figura rispetto alle altre ipotesi di approccio tra la polizia giudiziaria e l’indagato, si è forgiata negli anni una serie di regole (dalla non necessità dell’assistenza difensiva all’atto, alla inapplicabilità, nella specie, delle garanzie ex art. 63, comma 2, c.p.p.; dalla piena utilizzabilità delle dichiarazioni, anche autoincriminanti, ai fini cautelari o nei riti alternativi, alla caduta di ogni preclusione probatoria nei confronti dei terzi accusati) che fanno delle « dichiarazioni spontanee » un mezzo decisamente più funzionale alle esigenze dell’accertamento che adeguato alle necessità dialettiche dell’indagato, cui la richiesta « spontaneità » sembrerebbe invece alludere. Non sono mancate, peraltro, voci discordanti: specie in alcune pronunce più recenti, la Corte di legittimità sembra avere in qualche occasione mutato indirizzo, estendendo la portata delle conseguenze sanzionatorie e valorizzando l’operatività del diritto di difesa là dove le carenze denotative della norma non consentono di distinguere con sufficiente sicurezza le ipotesi « fisiologiche » da quelle di impiego patologico dello strumento (123). È del tutto evidente, infatti, che il rischio di un uso distorto del mezzo per eludere le garanzie riservate all’indagato non è affatto teorico: ed è questa la preminente ragione che ha indotto la dottrina a manifestare, da sempre, aperta diffidenza nei confronti dell’istituto, sottolineando la « difficoltà e la delicatezza di un serio accertamento circa la natura ‘‘spontanea’’ delle dichiarazioni » (124) ed avvertendo che proprio (122) V., in tal senso, L. BRESCIANI, op. cit., p. 142. (123) In questo senso v. Cass., Sez. VI, 24 settembre 1998, Ben Mouldi, in Cass. pen., 2000, p. 172, a commento della quale v., eventualmente, M. CERESA-GASTALDO, Sulla non utilizzabilità (neppure) per le contestazioni dibattimentali delle « dichiarazioni spontanee » ex art. 350, comma 7, c.p.p. rese senza l’assistenza del difensore, le cui considerazioni vengono riprese più avanti nel testo (v. infra, § 8). (124) V. GREVI, Le sommarie informazioni, cit., p. 66.
— 573 — « il richiamo alla spontaneità delle dichiarazioni può diventare il comodo espediente per giustificare a posteriori l’inosservanza delle garanzie difensive previste dalla legge per l’interrogatorio di polizia, per legalizzare un abuso delle indagini di polizia giudiziaria, presentando sotto una forma nuova, innocente e credibile un atto sostanzialmente illegittimo » (125). Il primo problema da affrontare per tentare di fornire una lettura dell’art. 350, comma 7, c.p.p. che non presti il fianco ad impieghi strumentali del mezzo appare dunque proprio quello della definizione del concetto di « spontaneità » dell’atto. Sul piano linguistico, l’aggettivo « spontaneo » richiama almeno due contenuti semantici (trascurando quelli che meno si avvicinano alla situazione in esame) (126): quello della « volontarietà » dell’azione e quello, analogo ma non sovrapponibile, di atto che, oltre ad essere riconducibile alla sfera della volontà del soggetto, sia espressione della « libera iniziativa » chi lo pone in essere (127). Spontaneo, per venire alla situazione che qui interessa, può essere dunque il dichiarare volontariamente (il decidere di dichiarare) qualcosa, pur su sollecitazione, insistenza (purché resistibile) o semplice invito dell’interlocutore, così come può intendersi spontanea la dichiarazione di chi, di propria iniziativa e senza alcuna pressione esterna, si sia determinato a pronunciare una data affermazione. La differenza tra i due significati, a ben vedere, non è affatto di poco conto: mentre nel primo caso è sufficiente che l’eventuale interagire dello stimolo esterno non si configuri come limitazione della volontarietà dell’atto (il quale, di fronte alla coercizione, non sarebbe più, nel senso detto, spontaneo), nel secondo caso anche la semplice richiesta del comportamento, ma pure il verificarsi di condizioni che altrimenti, direttamente od indirettamente condizionino l’agire del soggetto, fanno venire meno la caratteristica in discorso, nel momento in cui incidono (non tanto sulla volontà, quanto, appunto) sull’iniziativa (libera ed autonoma) della persona. Nell’uno come nell’altro caso, naturalmente, può influire l’errore sulla doverosità (o necessità, od inevitabilità) dell’azione, a maggior ragione rilevante come vizio se indotto dal soggetto interagente; ma appare evidente come a ritenere la spontaneità espressione di un atteggiamento più circostanziato rispetto al requisito della mera volontarietà, la categoria (125) Sono le parole di P. FERRUA, Dichiarazioni spontanee, cit., p. 1982. (126) Riferibili alla sfera dei comportamenti o degli attributi naturali (impulso spontaneo, ossia istintivo, senza consapevolezza né volontà; grazia, stile spontaneo, ossia naturale, senza artificio): v., ad esempio, sub voce Spontaneo, G. DEVOTO, e G.C. OLI, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1990, p. 1866. (127) Cfr. la voce Spontaneo (« autonoma determinazione di una scelta»), e la voce Spontaneità (« assenza di costrizione o coercizione o di secondi fini»), in G. DEVOTO, e G.C. OLI, Il dizionario, cit.
— 574 — delle situazioni « invalidanti » è destinata ad estendersi in misura considerevole. Ciò premesso, occorre precisare che, nell’ambito della normativa in esame, deve ritenersi del tutto preclusa la possibilità di fare riferimento alla prima delle due accezioni del termine. Nel momento in cui il legislatore ha inteso specificare la caratteristica qualificante e necessaria delle dichiarazioni, il significato dell’aggettivazione impiegata non può essere azzerato ricorrendo ad una categoria concettuale (la volontarietà) che deve ritenersi intrinseca, ed anzi condizione imprescindibile per il realizzarsi della fattispecie qualificata. Come è stato giustamente osservato in dottrina, « va senz’altro escluso che la nota della ‘‘spontaneità’’ possa qui indicare il carattere ‘‘volontario’’ e non ‘‘coercitivo’’ delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria »; « in un sistema che tutela il diritto al silenzio dell’imputato sino a prevedere come obbligatorio l’avviso della facoltà di non rispondere, le dichiarazioni a qualunque titolo rilasciate dall’inquisito non possono che essere ‘‘volontarie’’; inteso in questa accezione, il termine ‘‘spontanee’’ si ridurrebbe ad un aggettivo c.d. di ‘‘essenza’’ o di ‘‘rinforzo’’, che sviluppa sotto una forma modale quanto è già implicito nel nome a cui si accompagna » (128). E qui sta, ad avviso di chi scrive, il nodo essenziale della questione. 8. La conoscenza della posizione processuale, dell’addebito e del diritto al silenzio come elementi distintivi della spontaneità delle dichiarazioni: l’applicabilità dell’art. 63 c.p.p. alla fattispecie di cui all’art. 350 c.p.p. — Il primo e (se non più grave) più subdolo condizionamento al libero determinarsi del soggetto nell’approccio con l’autorità è costituito proprio dalla mancata possibilità per il soggetto di rappresentarsi correttamente il reale contesto in cui la sua azione si svolge; e cioè, la non conoscenza della posizione processuale rivestita, la conseguente incertezza circa l’esercitabilità o meno del diritto al silenzio, l’ignorare se gli sia mosso un qualche addebito in merito alle vicende sulle quali riferisce. Ora, se la dichiarazione ex art. 350, comma 7, c.p.p. è da ritenersi spontanea unicamente quando provenga dalla (libera, autonoma) iniziativa del dichiarante, non solo (e questo sembra quasi ovvio) non potrà (128) Così, con riferimento all’istituto coniato in sede giurisprudenziale sotto la vigenza dell’abrogato codice, ma con argomentazioni la cui validità e mutuabilità restano oggi del tutto immutate, P. FERRUA, Dichiarazioni spontanee, cit., p. 1983, il quale acutamente aggiunge che, tutt’al più, l’ipotesi criticata potrebbe tradire « un significato secondo, d’ordine retorico, che mira a compensare le trascorse delusioni sulla effettiva « spontaneità» di talune confessioni raccolte dalla polizia giudiziaria»; nello stesso senso v. S. BUZZELLI, Diritto al silenzio, cit., p. 815; M. CATALANO, Riflessione breve sul regime di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee, in Cass. pen., 1996, p. 1232.
— 575 — considerarsi tale quella (pur volontariamente) resa su domanda della polizia (129), ma dovrà ritenersi priva dello stesso connotato anche l’affermazione dell’indagato che non sia informato di essere sottoposto alle indagini e non sia stato messo a conoscenza — ad un tempo — dei contenuti dell’accusa e della facoltà di non fornire alcun apporto collaborativo agli investigatori. Il passaggio, apparentemente scontato alla luce delle prescrizioni dettate dall’art. 63 c.p.p. per l’« esame » della persona non imputata ovvero non sottoposta alle indagini (comma 1) e con riferimento alla posizione di chi doveva essere « sentito » sin dall’inizio in qualità di imputato o di indagato (comma 2), merita qualche ulteriore considerazione. Benché non siano mancate in giurisprudenza affermazioni del principio secondo cui anche alle dichiarazioni spontanee ex art. 350, comma 7, c.p.p. sono applicabili le garanzie difensive richiamate dalla norma citata (130), va segnalato come in realtà sia risultata prevalente — almeno sino ad un recente passato — la posizione opposta: la Cassazione, infatti, si è ripetutamente pronunciata nel senso che, ai fini della (sia pur limitata) utilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni in discorso, non solo non è necessario che le affermazioni spontanee dell’indagato alla polizia giudiziaria siano fornite in presenza del legale (131), ma non assumerebbero rilievo neppure le altre forme di tutela poste dall’art. 63 c.p.p. (132); ammettendo al più la rilevanza della mera « previa conoscenza dell’adde(129) Al contrario di quanto, come si è visto, la giurisprudenza di legittimità è arrivata a sostenere in qualche occasione: v., ad esempio, Cass., Sez. I, 11 luglio 1990, Cetraro, Mass. dec. pen., 1991, fasc. 2, p. 30. Sul punto v. M. CATALANO, op. loc. cit. (130) V. Cass., Sez. V, 5 marzo 1997, Monopoli, in Giust. pen., 1998, III, c. 479; Cass., Sez. IV, 24 aprile 1996, Quattrocchi, in CED Cass., n. 205193. (131) Come affermano Cass., Sez. III, 15 marzo 1996, Bombara, in Cass. pen., 1998, p. 1413, n. 857, con nota di D. POTETTI, Note in tema di gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 comma 1 c.p.p.; Cass., Sez. VI, 25 novembre 1994, Crisafulli, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 268; analogamente Cass., Sez. III, 18 gennaio 1995, Lauretta, in Rep. Foro it., 1995, voce Polizia giudiziaria, n. 19; Cass., Sez. I, 11 luglio 1994, Lacerenza, ivi, 1995, voce Imputato, n. 16; Cass., Sez. IV, 1 marzo 1994, Bonanno, ivi, 1995, voce Polizia giudiziaria, n. 17. Sul punto v. però quanto esposto infra, par. 9. (132) Cfr. in tal senso Cass., Sez. VI, 30 aprile 1997, Ventaloro, in CED Cass., n. 208842; Cass., Sez. I, 10 agosto 1995, Calabrese Violetta, in Cass. pen., 1996, p. 2644, con nota di F.M. GRIFANTINI, Sulla inutilizzabilità contra alios delle dichiarazioni indizianti di cui all’art. 63 comma 2 c.p.p.; Cass., Sez. I, 25 febbraio 1997, Giuliani, in Arch. n. proc. pen., 1997, p. 698. Con riferimento alla disciplina del codice abrogato v. Cass., Sez. I, 10 febbraio 1992, De Pasquale, in Giur. it., 1992, II, p. 624; e ancora Cass., Sez. I, 9 giugno 1989, Dell’Olio, in Riv. pen., 1991, p. 206; Cass., Sez. IV, 14 luglio 1989, Cuttano, ivi, 1990, p. 782.
— 576 — bito » (133), sempre che le ammissioni, anche se penalmente significative, ineriscano all’addebito per cui è sorto il procedimento (134). D’altra parte questo orientamento, come si è avuto modo di vedere poc’anzi, non fa che riprodurre le posizioni — peraltro fermamente criticate dalla dottrina — su cui, vigente l’abrogato codice, la giurisprudenza si era attestata proprio nel forgiare l’istituto delle dichiarazioni spontanee sottraendolo alle disposizioni di tutela sulla scorta della ricorrente — ed ancora oggi echeggiante — asserzione secondo cui proprio il ricorso alle cautele difensive finirebbe per « comprimere » od « inquinare » la « spontaneità dell’espressione » del dichiarante (135). Deve tuttavia segnalarsi come di recente la Cassazione abbia dato segno, sul punto, di mutare indirizzo. Con pronuncia davvero meritevole di attenzione la suprema Corte, chiamata a valutare se vi fosse stata violazione degli artt. 62 e 63, comma 2, c.p.p. nell’utilizzazione dibattimentale contra alios di dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria (e dai verbalizzanti confermate in sede testimoniale) da persona non formalmente ma di fatto indagata, ha infatti statuito che le affermazioni acquisite « senza assistenza difensiva da persona che doveva essere sentita come imputata o indagata non possono essere utilizzate nel dibattimento, ai sensi del cpv. dell’art. 63 e del comma 7 dell’art. 350 c.p.p., né sulle stesse possono essere chiamati a testimoniare i verbalizzanti » (136). Il principio di diritto espresso, pur inserendosi (sotto il particolare profilo dei limiti all’utilizzabilità delle dichiarazioni) in una linea interpretativa che dovrebbe ormai ritenersi consolidata dopo la pronuncia delle Sezioni unite del 1996 (137), contiene tuttavia alcuni elementi di forte novità. (133) Così Cass., Sez. III, 20 ottobre 1994, Crescini, in questa Rivista, 1995, p. 98, n. 714, con nota di M. CATALANO, op. cit. (134) Cfr. Cass., Sez. VI, 8 ottobre 1992, Lo Bello, in Mass. dec. pen., 1993, fasc. 8, p. 4. (135) V. Cass., Sez. II, 11 ottobre 1985, Lacirignola, cit. Va peraltro dato atto che, anche in passato, non erano mancate affermazioni più attente al diritto di difesa dell’indagato: v. ad esempio, in tal senso, Cass., Sez. I, 11 luglio 1988, Nicolini, cit.. In dottrina, nel senso che « la tutela del diritto di difesa non può comportare, oltre certi limiti, l’intralcio al legittimo intervento della polizia e la paralisi della sua attività diretta alla ricerca della verità e alla scoperta dei responsabili dei reati», L.D. CERQUA, op. cit., c. 406. (136) Cass. sez. VI, 24 settembre 1998, Ben Mouldi, cit. (137) È la stessa Corte a ricordare — in merito al tema dell’utilizzabilità contra alios delle dichiarazioni rese nelle condizioni descritte dall’art. 63, comma 2, c.p.p. — l’insegnamento impartito da Cass., Sez. un. 9 ottobre 1996, Carpanelli ed altri, in Cass. pen., 1997, p. 2428, n. 1334, con annotazione di G. TOMEI; la sentenza si può leggere anche in Dir. pen. e proc., 1997, p. 600, con nota di A. SANNA, Ristretto l’uso delle dichiarazioni autoindizianti, e in Foro it., 1997, c. 328, con annotazione di A. FERRARO. Per l’inquadramento del tema si rinvia ad O. DOMINIONI, Commento all’art. 63 c.p.p., in Commentario del nuovo co-
— 577 — Il Giudice di legittimità ha in questa occasione chiarito che « il tenore letterale e la ratio della norma di cui all’art. 63, comma 2, c.p.p. e il suo necessario coordinamento con le norme di cui all’art. 350 e all’art. 62 c.p.p. inducono senz’altro a ritenere che la preclusione all’utilizzo dibattimentale diretto o indiretto delle dichiarazioni rese senza assistenza difensiva dall’indiziato alla p.g. ha carattere assoluto e generale e non fa, quindi, distinzione tra dichiarazioni sollecitate e dichiarazioni spontanee, fra dichiarazioni dell’imputato o indagato interessato e dichiarazioni di imputato o indagato in reato connesso, fra dichiarazioni di chi abbia già la veste formale di imputato o indagato e dichiarazioni di chi, pur trovandosi sostanzialmente nella condizione di imputato o indagato, non ne abbia assunto la qualità formale ». Due i punti di maggiore interesse: da un lato, l’esplicita e diretta relazione posta tra la disciplina degli artt. 63, comma 2 e 350, comma 7, c.p.p., e soprattutto la puntualizzazione secondo cui la sanzione prevista dalla prima norma risulterebbe applicabile anche alla situazione descritta dalla seconda, quando la persona (formalmente, ma anche solo « di fatto » indagata) renda spontanee dichiarazioni « senza l’assistenza difensiva ». Dall’altro, e come logica conseguenza, l’operare generalizzato del divieto testimoniale ex art. 62 c.p.p. con riguardo (anche) alle dichiarazioni rilasciate da persona non formalmente indagata. Sul secondo aspetto, la tesi secondo cui la garanzia posta dall’art. 63, comma 2, c.p.p. non sia « aggirabile » surrettiziamente mediante testimonianza dei verbalizzanti non è certamente inedita (138); tuttavia, in presenza di recenti smentite dell’assunto (139), il riaffermare che non è lecito distinguere, ai fini in discorso, tra dichiarazioni di chi abbia già la veste di imputato o indagato e dichiarazioni di chi, pur trovandosi sostanzialmente in quella condizione, non ne abbia ancora ritualmente assunto la qualità, assume un significato comunque rilevante nell’ottica del rafforzamento di dice di procedura penale, diretto da E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, Giuffrè, Milano, 1989, p. 400; R. KOSTORIS, Commento all’art. 63 c.p.p., in Commento al nuovo codice, cit., p. 323. (138) V. ad esempio Cass., Sez. VI, 17 novembre 1997, Simonetti, in Cass. pen., 1999, p. 2249, n. 1091; Cass., Sez. I, 15 maggio 1996, Borello, ivi, 1997, p. 2146, n. 1231; Cass., Sez. I, 20 settembre 1995, Gherardi, in CED Cass., n. 202683; Cass., Sez. II, 4 maggio 1995, Allegretto, in Cass. pen., 1996, p. 3754, n. 2113; Cass., Sez. I, 18 luglio 1994, Bruno, ivi, 1995, p. 2651, n. 1600, con nota di A. BASSI, In tema di divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato; Cass., Sez. I, 21 dicembre 1993, Rodaro, ivi, 1995, p. 2658, n. 1601. (139) V. infatti, di recente, Cass., Sez. III, 27 maggio 1998, Ribatti, in Riv. pen., 1999, p. 116, ove si afferma che « il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato sancito dall’art. 62 c.p.p. è relativo alle dichiarazioni rese da persona che ha già assunto tale qualità nel corso del procedimento, sicché non concerne la fattispecie in cui il verbalizzante riferisce di dichiarazioni spontanee rese dal soggetto prima che assumesse tale veste ».
— 578 — un indirizzo esegetico favorevole ad una lettura non formale della garanzia. Ma ancor più sintomatico di questa tendenza appare il primo profilo evidenziato, dove la Corte sembra essersi spinta oltre le consuete frontiere interpretative, ponendo in posizione decisamente più avanzata la tutela del diritto al silenzio dell’indagato. Nel ritenere ineludibile l’applicazione coordinata delle norme processuali, la tesi riconduce al rigoroso rispetto dell’assistenza difensiva la possibilità di impiegare nel dibattimento l’apporto conoscitivo (spontaneamente) fornito dalla parte. Su quest’ultimo profilo si tornerà tra breve; va, qui, sottolineato come proprio il riconoscimento della necessaria interrelazione tra l’art. 350, comma 7, c.p.p. e l’art. 63 c.p.p. contribuisca a superare l’impasse iniziale circa la verifica della natura spontanea delle dichiarazioni. L’informazione da parte della polizia giudiziaria circa la veste assunta in quel momento dal dichiarante, quella relativa all’eventuale addebito, l’avvertimento sullo ius tacendi e l’interruzione dell’esposizione in caso di ammissioni di responsabilità, assumono in questo contesto un significato particolare ed ulteriore rispetto a quello loro attribuibile nella generalità delle situazioni: costituiscono, infatti, le condizioni essenziali per garantire che le dichiarazioni siano effettivamente « spontanee », ossia frutto dell’autonoma, libera e consapevole scelta di chi le rende. D’altra parte, l’operare di uno spazio applicativo indipendente di una delle due norme, finirebbe inevitabilmente per svuotare di significato l’altra. Si pensi al caso delle dichiarazioni autoincriminanti spontaneamente rese alla polizia giudiziaria — non sul luogo o nell’immediatezza dei fatti — da persona già oggetto di indagini ma non ancora formalmente indagata: se nessuna relazione intercorresse tra l’art. 63, comma 2 (in ipotesi riferito solo alle dichiarazioni « provocate ») e l’art. 350, comma 7, c.p.p. l’utilizzazione di quelle ammissioni — proprio perché spontanee e fornite in circostanze diverse da quelle indicate dall’art. 350, commi 5 e 6 c.p.p. — non risulterebbe affatto vietata, bensì solo soggetta al limite descritto dall’ultimo comma dell’art. 350 c.p.p. E sono le stesse Sezioni unite della Cassazione a ricordare come « la più rigida sanzione di inutilizzabilità dell’art. 63, 2o comma, sia dettata in funzione deterrente rispetto a prassi illiberali di sentire una persona senza le garanzie dell’imputato o dell’indagato al fine di poter continuare a svolgere indagini informali, ignorando deliberatamente l’esistenza di indizi di reità a suo carico », per ottenere « dichiarazioni, compiacenti o negoziate, a carico di terzi » (140). Ma, anche a non riferirsi ai casi, evidentemente patologici — e tutta(140)
In questi termini, risolvendo il precedente contrasto giurisprudenziale insorto
— 579 — via non infrequenti nella prassi — di più o meno strumentali ritardi dell’iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p. e di verbalizzazioni di dichiarazioni spontanee rese in occasione di (illegittime) convocazioni come « persona informata sui fatti » (141), resta il fatto che all’indagato risulterebbe riservato un trattamento profondamente differente sulla scorta di una circostanza (la spontaneità della dichiarazione) a questo punto obiettivamente sfuggente a precise e rigorose classificazioni: caduto lo sbarramento che impone comunque alla polizia giudiziaria di sentire la persona « in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini », si rischierebbe di aprire la via a rapporti (nella migliore delle ipotesi) impropri, i cui esiti potrebbero essere neutralizzati dall’operare della sanzione processuale solo nella misura in cui fosse dimostrabile il carattere « provocato » delle dichiarazioni. 9. Dichiarazioni spontanee e necessità dell’assistenza difensiva: il rapporto regola-eccezione dettato dall’art. 350 c.p.p. con riguardo alle modalità di approccio della polizia giudiziaria con l’indagato. — La regola appena enunciata, a ben vedere, conduce a conclusioni che vanno al di là del riconoscimento del diritto del dichiarante ad essere « consapevole » della posizione rivestita e degli effetti delle affermazioni rilasciate, estendendosi sino al riconoscimento non solo del diritto, ma della necessità dell’assistenza difensiva all’atto. Se nei riguardi di chi doveva essere (e non è stato) sentito « nella qualità » di indagato, opera in tal senso il disposto di cui all’art. 63, comma 2, c.p.p., la previsione della generalizzata necessità della presenza del difensore al momento delle « dichiarazioni spontanee » (pena, appunto, la loro irrecuperabilità ai fini delle contestazioni) sembra infatti emergere dallo stesso art. 350 c.p.p. Si osservi la norma nella sua complessiva articolazione. Non pare, invero, revocabile in dubbio che la disciplina di cui ai commi 5 e 6 si ponga come derogatoria rispetto alla regola imposta nei primi tre commi. La possibilità di assumere informazioni senza l’assistenza del difensore è circoscritta — per evidenti ragioni e con le cautele del caso, ossia il divieto di « ogni documentazione ed utilizzazione » — unicamente all’ambito spazio-temporale indicato: al di fuori di quell’ambito, la fonte interessata può essere sentita solo « con la necessaria assistenza del difensore ». Se questa è la regola — e la mancata riproduzione nel comma 7 dell’inciso che legittima l’esclusione del difensore risulta dirimente per smenin merito alla diversità prescrittiva delle due formule normative (comma 1 e comma 2), Cass., Sez. un. 9 ottobre 1996, Carpanelli ed altri, loc. cit. (141) A proposito dei quali, come si è visto, è intervenuta la pronuncia Cass., Sez. un. 9 ottobre 1996, Carpanelli ed altri, cit.
— 580 — tire l’ipotesi che si possa ravvisare, qui, un’ulteriore eccezione — ne discende che, come le « sommarie informazioni », anche le « dichiarazioni spontanee » dell’indagato possono essere ricevute — ferma la loro limitata utilizzabilità — solo in presenza del difensore. Per concludere in modo diverso bisognerebbe a questo punto dimostrare l’esistenza di una differenza ontologica tra le due categorie di manifestazione del pensiero che ne giustifichi il differente trattamento normativo. Ma un’operazione del genere non sembra condurre a risultati attendibili. Certo, a leggere la Relazione al progetto preliminare del codice, si ha (più che) l’impressione che il legislatore delegato intendesse, con la disciplina in esame, valorizzare quella differenza: pur evidenziando l’alternativa posta dalla direttiva n. 31 (seconda e sesta parte) tra « dichiarazioni ... rese ... dall’indiziato assistito dal difensore, che sono utilizzabili per le ‘‘contestazioni’’ anche in giudizio », e « le ‘‘notizie e indicazioni utili ai fini della prosecuzione delle indagini’’ assunte sul luogo o nell’immediatezza del fatto ... che invece non sono utilizzabili né documentabili se provengono dall’indiziato », la Commissione redigente ha tuttavia ritenuto non preclusa dalla delega la possibilità di « distinguere le ‘‘informazioni rese’’ (utilizzabili) da quelle ‘‘assunte’’ (e, quindi, ‘‘provocate’’) dalla polizia giudiziaria ... (inutilizzabili) » (142). Senonché, come si è avuto modo di sottolineare, questo argomento interpretativo ha perso ogni utile significato all’indomani della sentenza n. 259 del 1991 della Corte costituzionale (143). Nel sancire l’illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 350 c.p.p. « nella parte in cui consente la utilizzazione ai fini delle contestazioni delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria senza l’assistenza del difensore », il Giudice delle leggi ha infatti apertamente dissentito dall’impostazione adottata dal codificatore, giungendo alla risolutiva affermazione che « non c’è spazio per costruire una diversa regolamentazione tra dichiarazioni ‘‘rese’’ e dichiarazioni ‘‘rese spontaneamente’’» (144). È pur vero che proprio il successivo intervento legislativo « d’urgenza » del 1992 (145), di fatto ignorando la reale portata della censura, ha finito per spianare la strada alla tesi oggi dominante. Non a caso, mentre con una sentenza intervenuta nelle more del varo del decreto, la Cassazione si adeguava al dictum della Consulta e asseriva l’inutilizzabilità, anche ai fini delle contestazioni ex art. 503, comma 3, (142) Relazione al progetto preliminare, cit., p. 85. (143) V. retro, par. 5. (144) C. cost., 12 giugno 1991, n. 259, cit., p. 557. (145) V. retro, par. 6.
— 581 — c.p.p., delle dichiarazioni spontanee rese senza l’assistenza del difensore (146), le decisioni successive al d.l. 306/92 sono tornate immediatamente ad attestarsi sul fronte più arretrato (147); e la stessa ricordata pronuncia delle Sezioni unite (148), pur dimostrando una marcata sensibilità al tema delle garanzie dell’indagato, finisce per eludere il problema, ed anzi per avallare — richiamandola espressamente ed acriticamente — proprio la tesi esposta nella Relazione al progetto preliminare del codice. Ma si tratta, a sommesso avviso di chi scrive, di operazioni tanto discutibili sul piano della politica legislativa quanto funamboliche sul versante esegetico. A parte la scontata osservazione che il testo novellato dell’art. 350, comma 7, c.p.p. non offre affatto (né avrebbe potuto) elementi che anche solo indirettamente legittimino la criticata asserzione, non va dimenticato che allo stesso d.l. n. 306 del 1992 è dovuta anche la modifica all’art. 370 c.p.p., con la quale si è consentita al pubblico ministero la delega — prima espressamente esclusa — alla polizia giudiziaria della conduzione dell’interrogatorio: con il risultato di aver eliminato quello sbarramento ai rapporti diretti tra indagato e polizia giudiziaria che, nella logica dell’originaria normativa, sembrava valere quale « contrappeso » proprio alla codificazione delle dichiarazioni spontanee (149). E l’avere in quella sede ribadito la necessaria assistenza del difensore all’atto delegato non fa che confermare, ancora una volta, l’eccezionalità della deroga contenuta all’art. 350, commi 5 e 6, c.p.p. e, di riflesso, l’ineludibilità delle garanzie difensive nelle ipotesi in discorso (150). Certo, si potrà obiettare che la presenza del difensore (o meglio, la necessità di attendere, nei casi in cui non sia lo stesso indagato a presentarsi accompagnato dal legale, che questi venga avvisato e compaia) può produrre sul piano procedimentale qualche appesantimento; si è anzi sottolineato come la frapposizione di una sosta potrebbe addirittura danneggiare l’interessato, dal momento che le sue affermazioni — in ipotesi utili a scagionarlo o addirittura a restituirgli la libertà — non potrebbero a questo punto essere così tempestive ed efficaci come la situazione imporrebbe (151). (146) Cfr. Cass., Sez. V, 12 marzo 1992, Cocchiara, cit. (147) V., emblematicamente, Cass., Sez. VI, 5 febbraio 1993, Maggioni, in Riv. pen., 1994, p. 44. (148) Cass., Sez. un. 9 ottobre 1996, Carpanelli ed altri, cit. (149) Come fa acutamente osservare M. CATALANO, op. cit., p. 1232. (150) Sulla specifica modifica apportata dall’art. 5, comma 3, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, v. L. BRESCIANI, Commento all’art. 370 c.p.p., in Commento al nuovo codice, cit., II Aggiornamento, Utet, Torino, 1993, p. 162. (151) Queste erano state le motivazioni — evidenziate da V. GREVI, Le sommarie informazioni, cit., p. 39 — addotte dai sostenitori dell’introduzione, nel 1978, dell’istituto
— 582 — Si tratta, in realtà, di argomenti che, se da un lato non valgono a confutare l’assunto principale, dall’altro si dimostrano inconferenti. Sotto il primo profilo è sufficiente osservare come la stessa esigenza si ponga, in linea non solo teorica, anche nel caso dell’assunzione da parte della polizia delle sommarie informazioni ex art. 350, commi 1-3, c.p.p., al cui proposito il legislatore non ha dato segno di apprezzare l’obiezione — pur nota ai tempi della redazione della delega e dell’elaborazione del codice — secondo cui il rispetto delle garanzie difensive arrecherebbe nocumento all’indagato; così come ha fatto a proposito dell’appena ricordata previsione in tema di interrogatorio delegato alla polizia. In secondo luogo, e l’occasione consente di evidenziare l’equivoco di fondo sotteso al criticato assunto, deve rilevarsi come la conclusione qui accolta non impedisca affatto all’indagato di rivolgersi direttamente alla polizia giudiziaria laddove ritenga improrogabile l’esigenza di fornire chiarimenti sul fatto od elementi a suo vantaggio, senza attendere l’arrivo del legale; in ogni momento egli sarà libero di colloquiare con l’investigatore e, mentre le cautele (oltretutto per nulla dispendiose in termini organizzativi e temporali) afferenti i profili della consapevolezza e della libertà dell’atto dovranno in ogni caso essere rispettate (152), l’eventuale rinuncia all’assistenza difensiva non potrà non rilevare sul piano dell’utilizzabilità delle eventuali dichiarazioni rilasciate contra se. Ove, infatti, si tratti in concreto di indicazioni vantaggiose alla posizione processuale del dichiarante, è del tutto evidente che la loro mancata rituale assunzione non avrà alcuna incidenza; ma laddove, invece, si risolvessero in ammissioni autoincriminanti, sarebbe preclusa ogni forma di impiego processuale, ancorché circoscritto alle sole contestazioni dibattimentali ex art. 503, comma 3, c.p.p. (153). Questa, infatti, sembra essere la ratio della regola: la collaborazione con l’inquirente — in sede di interrogatorio, di sommarie informazioni o motu proprio — non può essere imposta ma non è certamente vietata; tuttavia, per poterne trarre una qualche utilità per l’accertamento (al di là del mero beneficio alle attività investigative), occorre che l’acquisizione sia avvenuta nel rispetto di quelle prescrizioni che garantiscono (o meglio, delle sommarie informazioni di polizia (art. 225-bis c.p.p. 1930) per giustificare l’esclusione dell’assistenza difensiva in quella sede. (152) Sottolinea, con riferimento all’analoga previsione del codice del 1930, come la ratio della norma che impone di rendere edotto l’interessato del diritto di rifiutare il dialogo con l’autorità emerga non solo con riferimento all’interrogatorio, « bensì in ordine ad ogni situazione caratterizzata da un rapporto dialettico dell’inquisito con l’autorità inquirente, all’interno del quale il primo possa rilasciare dichiarazioni per lui pregiudizievoli», V. GREVI, Le sommarie informazioni, cit., p. 48; nello stesso senso S. BUZZELLI, Diritto al silenzio, cit., p. 816; M.L. MAMMOLI, op. cit., p. 1175. (153) In tal senso v. già, sia pur con riferimento al contesto del codice del 1930, M.L. MAMMOLI, op. loc. ult. cit.
— 583 — che sono dettate per garantire) che l’interessato non abbia subito condizionamenti. Se la scelta del legislatore di attribuire in questi casi alla « presenza fisica » dell’avvocato la funzione di controllore della legalità dell’atto (154) apparisse a qualcuno più che una conquista di civiltà un segno di sfiducia nei confronti della polizia giudiziaria (155), andrà ricordato che proprio negli abusi (magari isolati, ma non per questo meno odiosi) compiuti in occasione dei contatti « informali » tra inquirente ed inquisito ha le sue radici quella scelta. Del resto, non si potrà negare che quella stessa funzione di « controllo » finisce per assumere un significato di garanzia anche nei confronti della polizia giudiziaria, che proprio grazie alla formalità dell’atto viene posta al riparo da eventuali calunniose accuse di violenze fisiche o psicologiche nei confronti del dichiarante. DOTT. MASSIMO CERESA-GASTALDO
(154) Osserva come la funzione difensiva, qui, sia ravvisabile proprio (anche se non solo) nella necessità di assicurare all’indagato, « attraverso la semplice presenza di un terzo, in veste di « garante», la correttezza del comportamento degli organi di polizia », V. GREVI, op. ult. cit., p. 41. (155) Lamentava la circostanza, con riferimento alle garanzie difensive introdotte all’art. 225 cp.p.p. 1930, I. MONTONE, Riforma e controriforma, cit., p. 351.
ERROR AETATIS E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA: UN PERSEVERARE DIABOLICUM?
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive: il complesso rapporto tra minore età e libertà sessuale nella disarmonica legge 15 febbraio 1996, n. 66. — 2. La disciplina dell’error aetatis secondo l’abrogato art. 539 c.p.: gli orientamenti della giurisprudenza e gli interventi della Corte costituzionale. — 3. (Segue): le interpretazioni correttive della dottrina. — 4. Le aspettative generate dalle sentenze costituzionali nn. 364 e 1085 del 1988 sull’attuazione del principio di colpevolezza in rapporto agli elementi ‘‘più significativi’’ di fattispecie. — 5. L’attuale configurazione dell’error aetatis, secondo l’art. 609-sexies c.p., come ipotesi eccezionale di responsabilità oggettiva al di fuori di un versari in re illicita. — 6. Prospettive di evoluzione normativa: attribuzione di rilevanza scusante all’errore inevitabile o configurazione di una distinta fattispecie colposa di atti sessuali con minorenne?
1.
Il nuovo art. 609-sexies c.p. (1), che ripropone, in termini forse
(1) Sull’error aetatis cfr., in generale, BATTAGLINI, Osservazioni sull’error aetatis nei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, in Giust. pen., 1936, II, 600; BERTOLINO, La riforma dei reati di violenza sessuale, in Studium Juris, 1996, 106; ID., Garantismo e scopi di tutela nella nuova disciplina dei reati di violenza sessuale, in Jus, 1997, 69 ss.; BRICOLA, Dolus in re ipsa, 1960, 48, in nota; CADOPPI, Commento all’art. 7 l. violenza sessuale, in AA.VV., Commentario delle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, II ed. 1999, 237 e ss.; ID., Colpevolezza e principi costituzionali: la Corte Suprema canadese ‘‘colpisce ancora’’, in Foro it., 1992, IV, 457 ss.; DE VERO, L’errore sul fatto costitutivo di reato, in Studium Juris, 1999, 503 e ss.; DI MARTINO, Commento all’art. 7 l. 15 febbraio 1996, n. 66, in Legisl. pen., 1996, 456; FIANDACA, Inescusabilità dell’errore sull’età della persona offesa nella violenza carnale e principi costituzionali, in Foro it., 1983, I, 2652; FLORA, voce Errore, in Dig. disc. pen., IV, 1990, 273; LEMME, voce Libertà sessuale (delitti contro), in Enc. dir., XXIV, 555; LEONELLI, Riflessioni sull’art. 539 c.p., in Giust. pen., 1951, II, 437 ss.; MANTOVANI, I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, 1998, 15; MARINI, voce Violenza carnale (dir. pen.), in Nss. dig. it., XX, 1975, 961; MOCCIA, Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale (l. 15 febbraio 1996, n. 66): un esempio praadigmatico di sciatteria legislativa, in questa Rivista, 1997, 416; MULLIRI, in Codice penale, a cura di T. Padovani, 1997, sub art. 609-sexies e 539 c.p.; NAPPI, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di Bricola e Zagrebelsky, V, 1996, 355; PADOVANI, L’intangibilità sessuale del minore degli anni quattordici e l’irrilevanza dell’errore sull’età: una presunzione ragionevole ed una fictio assurda, in questa Rivista, 1984, 429; PAVONCELLO-SABATINI, voce Violenza carnale, in Enc. giur., XXXII, 1994, 1 e ss.; PECORARO ALBANI, voce Atti di libidine violenti, in Enc. dir., IV, 1959, 7 e ss.; PETRONE, voce Moralità pubblica e buon costume (dir. pen.), in Enc. dir., 1977, 69 e ss.; PROVERBIO, in Codice penale, a cura di Marinucci e Dolcini, 1999, 3193 e ss.; PULITANÒ,
— 585 — ancor più rigorosi rispetto all’abrogato art. 539 c.p., l’assoluta irrilevanza dell’errore sull’età infraquattordicenne (2), ben si presta a riassumere icasticamente le non trascurabili contraddizioni ed imprecisioni insite nella recente riforma dei delitti contro la libertà sessuale, attuata con la l. 15 febbraio 1996, n. 66 (3). La nuova disciplina dei delitti sessuali risente in maniera evidente, a dispetto dei tempi biblici che hanno contraddistinto il suo travagliatissimo iter parlamentare (4), dell’assenza di un rigoroso labor limae dogmatico prima ancora che tecnico (5). Beninteso, essa attua una rivoluzione giuvoce Ignoranza (dir. pen.), in Enc. dir., XX, 1970, 46; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, II ed. 1995, sub art. 42, 31; SPAGNOLO, La problematica dei rapporti sessuali tra minori e con minori, in questa Rivista, 1990, 72. (2) Sul rapporto tra la configurazione dell’abrogato art. 539 c.p. e l’attuale portata della presunzione di cui all’art. 609-sexies si fa rinvio a quanto verrà più approfonditamente detto infra, § 5. (3) Sui delitti contro la libertà sessuale prima della riforma, cfr. BERTOLINO, I reati contro la libertà sessuale tra codice e riforma, in questa Rivista, 1983, 1464; ID., Libertà sessuale e tutela penale, Milano, 1993; CONTIERI, La congiunzione carnale, Milano, 1974; FIANDACA, I reati sessuali nel pensiero di Francesco Carrara: un onorevole compromesso tra audacia illuministica e rispetto per la tradizione, in questa Rivista, 1988, 903 e ss.; ID., voce Violenza sessuale, in Enc. dir., XLVI, 1993, 953; LEMME, voce Libertà sessuale (delitti contro), cit., 557; MANTOVANI, I delitti sessuali: normativa vigente e prospettive di riforma, in I delitti sessuali, a cura di Canepa e Lagazzi, Padova, 1988, 253; MARINI, voce Violenza carnale, cit., 953; MONACO, Itinerari e prospettive di riforma del diritto penale sessuale, in Studi Urbinati 1988/89 e 1989/90, 401; PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà, in questa Rivista, 1989, 1301; PANNAIN, Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, Torino, 1952; PAVONCELLO-SABATINI, voce Violenza carnale, cit., 1; PECORARO ALBANI, voce Atti di libidine, cit., 57; PETRONE, voce Moralità pubblica e buon costume, cit., 60; ZAZA, voce Atti di libidine violenti, in Enc. giur., III, 1988. Dopo la riforma del ’96, v. invece AA.VV., Commentario delle norme contro la violenza sessuale, 1996, e Commentario delle norme contro la violenza sessuale e della legge contro la pedofilia, II ed. 1999, a cura di A. Cadoppi, cit.; AA.VV., Commento alle norme contro la violenza sessuale, in Legisl. pen., 1996, 413 e ss.; BERTOLINO, Garantismo e scopi di tutela, cit., 51; ID., La riforma, cit., 405 e ss.; COLLI, La tutela della persona nella recente legge sulla violenza sessuale all’epilogo di un travagliato cammino legislativo, in questa Rivista, 1997, 1163; MANTOVANI, I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., passim; MOCCIA, Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale, cit., 935; MULLIRI, La legge sulla violenza sessuale. Analisi del testo, primi raffronti e considerazioni critiche, in Cass. pen., 1996, 742; PECORARO ALBANI, Violenza sessuale e arbitrio del legislatore, Napoli, 1997; PISA, Commento alle nuove norme contro la violenza sessuale, in Dir. pen. proc., 1996, 288; ID., Giurisprudenza commentata di diritto penale, III ed., Padova, 1999, per un’aggiornata panoramica della giurisprudenza in tema di delitti contro la libertà sessuale. (4) Per una articolata ricognizione del lunghissimo iter legislativo che ha preceduto la l. 66/1996, si fa rinvio a VIRGILIO, Una vicenda dentro e fuori il parlamento. Dalla VII alla XII legislatura, in AA.VV., Commentario delle norme contro la violenza sessuale, I ed., 1996, p. 481 e ss. dell’appendice. (5) Cfr., a riguardo, le pungenti affermazioni di PADOVANI, Commento all’art. 1 l. violenza sessuale, in AA.VV., Commentario, ed. 1999, cit., 4, il quale paventa la nascita della figura del legislatore ‘‘pasticcione’’ in rapporto all’infelice tecnica normativa che contraddi-
— 586 — stamente definita epocale, spostando la collocazione sistematica dei delitti sessuali da quelli contro la moralità pubblica ed il buon costume ai reati contro la persona (6): l’inquadramento dei delitti contro la libertà sessuale all’interno del capo V del titolo IX del codice penale appariva infatti come l’anacronistico retaggio di una concezione funzionale dell’attività sessuale, destinata per tal via ad esplicarsi solo in un contesto ‘‘istituzionale’’, volto ad assicurare la procreazione e la soggezione della donna all’autorità maritale o familiare (7). E tuttavia stupisce non poco che il legislatore del ’96 qualifichi il nuovo delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p. come un delitto contro la libertà personale (quasi un’ipotesi integrativa della fattispecie di ispezione e perquisizione personali arbitrarie di cui all’art. 609 c.p.!) piuttosto che contro la libertà morale dell’individuo: soluzione, quest’ultima, certo più coerente con la natura dei delitti in esame, posto che la fattispecie di violenza carnale non comporta tanto una coazione della libertà di movimento quanto la violazione della libertà di autodeterminazione sessuale (8). Tale ingenuità si riflette, secondo alcuni, anche sulla descrizione della condotta tipica di cui all’art. 609-bis c.p. (9), ancora vinstingue i punti salienti della l. n. 66 del 1996. Estremamente critico nei confronti delle soluzioni adottate per la nuova disciplina dei delitti sessuali è, da ultimo, MOCCIA, Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale, cit., 395 e ss. (6) V. BERTOLINO, La riforma dei reati di violenza sessuale, cit., 402, la quale evidenzia, d’altro canto, come l’impostazione pubblicistica del codice Rocco in tema di delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume non avesse comunque escluso un sia pur secondario spazio di tutela al bene della libertà sessuale in senso stretto. (7) Per un’accurata ricostruzione dell’oggetto della tutela giuridica dei delitti sessuali nell’evoluzione della legislazione penale italiana, cfr. diffusamente PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà, cit., 1304 e ss. (8) Manifesta fondate perplessità sull’incongrua collocazione sistematica delle nuove fattispecie PADOVANI, Commento all’art. 2 l. violenza sessuale, cit., ed. 1999, 20 e ss. Nota l’Autore che la libertà personale costituisce ‘‘un interesse a contenuto essenzialmente negativo, nel senso che in essa è eretta a valore l’autonomia dell’individuo rispetto a misure coercitive arbitrarie suscettibili di intervenire sul suo corpo. La libertà personale non è libertà di agire in questo o quel modo, ma è libertà da limiti indebitamente frapposti a qualsiasi possibile contenuto delle facoltà esercitabili mediante il proprio corpo. Dal canto suo, la ‘‘libertà morale’’ rappresenta invece un bene a contenuto spiccatamente positivo, in quanto garantisce all’individuo la facoltà di determinare spontaneamente il proprio comportamento. Nella tutela della libertà personale si incriminano quindi limitazioni arbitrarie imposte al corpo, in quella della libertà morale si reprimono impulsi indebiti diretti a motivare la condotta dell’individuo; nell’una risalta l’impossibilità di agire, illecitamente imposta, nell’altra la coazione subita nella scelta del proprio atteggiamento esteriore’’. Sul punto, v., da ultimo, i rilievi di BERTOLINO, Libertà sessuale e blue jeans, in questa Rivista, 1999, 695 e ss. (9) E’ ben noto come l’attuale configurazione del delitto di cui all’art. 609-bis c.p. consti dell’unificazione tra le due fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti, sul corretto presupposto dell’unitario disvalore normativo-sociale dei delitti in questione. Tuttavia, la struttura del nuovo delitto di violenza sessuale non può non suscitare quanto
— 587 — colata alle modalità tipiche della violenza o della minaccia subite dalla vittima (infelice traccia di un improprio ‘‘onere di autodifesa’’ gravante sul soggetto passivo dei delitti di stupro) e non, invece, condizionata al mero dissenso di quest’ultima (10). Ma il punto in cui la l. n. 66 del 1996 riesce a creare equilibri fragilissimi ed evidenti antinomie è senz’altro quello relativo alla disciplina dei rapporti sessuali tra minori e con minori (11). Degna di apprezzamento appare, in linea di principio, l’idea di attribuire diversa valenza offensiva (e differente disciplina giuridica) ai rapporti sessuali tra minori rispetto a quelli intercorsi con minori (12), attraverso la creazione, da un lato, della speciale causa di non punibilità di cui meno perplessità, soprattutto nella prospettiva del trattamento sanzionatorio. Sul punto, cfr. PADOVANI, Commento all’art. 2 l. violenza sessuale, cit., 22, secondo il quale, oltretutto, la distinzione tra i due delitti rischia inevitabilmente di riproporsi attraverso la previsione della circostanza attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 609-bis c.p., che, consentendo una significativa riduzione della pena fino ai due terzi, attribuisce al giudice un potere discrezionale confinante con l’arbitrio. E ‘‘non essendo stabilito, nemmeno in termini di riferimento generale, quali debbano essere i ‘‘casi di minore gravità’’, si può legittimamente paventare che la loro identificazione proceda ben oltre i limiti della minore offensività reale, e che essi si plasmino su stereotipi soggettivi (la ‘‘procacità’’ della vittima? Il suo ‘‘atteggiamento provocante’’? Lo ‘‘smarrimento momentaneo’’ dell’agente? L’‘‘equivoco’’ in cui egli è caduto? L’ossequio ad una ‘‘tradizione’’?) che sarebbe doloroso veder riaffiorare, ma che l’incauta confezione legislativa non consente certo di escludere’’. (10) Una riforma cosi programmaticamente intesa a valorizzare l’offesa della persona fallisce quindi, in tal modo, il suo primo e primario obiettivo. Il persistere del requisito costitutivo della violenza o della minaccia evoca quell’onere di resistenza che costituiva il perno di raccordo della libertà sessuale con la moralità pubblica, cfr. PADOVANI, loc. ult. cit., e BERTOLINO, La riforma, cit., 402, secondo la quale la scelta di mantenere tra i requisiti di fattispecie la violenza o la minaccia come elementi tipizzanti la condotta di costrizione all’atto sessuale appare ‘‘non conforme allo scopo di tutela della libertà sessuale come interesse primario della persona’’. Eppure, in ‘‘difesa’’ dell’attuale formulazione dell’art. 609-bis c.p., può richiamarsi l’esigenza di rispetto del carattere frammentario della materia penale: la struttura della fattispecie in esame si presenta, a riguardo, estremamente articolata, vincolando la condotta tipica non solo alla violenza o alla minaccia di cui al comma 1, ma anche all’abuso ed all’inganno di cui al comma 2. Il disvalore insito nella condotta si concretizza, in tal modo, in una valutazione dettagliata ma comunque ampia e probabilmente esaustiva delle più ricorrenti modalità di realizzazione del delitto di violenza sessuale. (11) Per una panoramica della complessa evoluzione della tematica in esame prima della riforma v., per tutti, SPAGNOLO, La problematica dei rapporti sessuali con minori e tra minori, cit., 72. Dopo la riforma, cfr., tra gli altri, BERTOLINO, La riforma, cit., 405 e ss.; COLLI, La tutela della persona nella recente legge sulla violenza sessuale, cit., 1175; VENEZIANI, Commento all’art. 5 l. violenza sessuale, in AA. VV., Commentario delle norme contro la violenza sessuale, cit., 186 e ss. (12) Sul punto, cfr., tra le altre, le osservazioni di COLLI, La tutela della persona nella recente legge sulla violenza sessuale all’epilogo di un travagliato cammino legislativo, cit., 1175 e ss.
— 588 — all’art. 609-quater cpv. c.p. (13) ed il mantenimento, dall’altro, di una soglia di intangibilità sessuale a tutela dei minori infraquattordicenni. Ad un’analisi più approfondita, tuttavia, l’intuizione del legislatore del ’96 si rivela fondata su basi quanto meno discutibili: oltre alle riserve formulabili sulla struttura della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 609-quater, 2o comma, c.p. (che lega il suo ambito di operatività ad un calcolo quasi algebrico della differenza d’età — non superiore a tre anni — tra soggetto attivo e soggetto passivo, riconoscendo comunque in tal modo all’infraquattordicenne una sia pur limitata capacità di autodeterminazione sessuale) (14), non può non suscitare perplessità la scelta politico-criminale di mantenere inalterata, nel suo assoluto rigore, l’irrilevanza dell’error aetatis. La presunzione in esame, certo ‘‘ragionevole’’ in quanto fondata su istanze di difesa sociale del minore meritevoli di significativa considerazione (15), rappresenta, nella sua attuale formulazione, una delle ipotesi più eclatanti di responsabilità oggettiva (16): unanimemente, già sotto il vigore dell’art. 539 c.p., la dottrina qualificava la fictio doli in tema di er(13) Così, esattamente, BERTOLINO, La riforma, cit., 406, secondo la quale l’art. 5 della l. n. 66 del 1996 introduce una causa di non punibilità in senso stretto: ‘‘si tratta di una causa di esclusione della sola pena, dettata da ragioni di opportunità politico-criminale, in considerazione di una condizione o qualità personale del soggetto attivo in relazione alla vittima’’. Nello stesso senso MANTOVANI, I delitti contro la libertà e l’intangibilità sessuale, cit., 57, e COLLI, La tutela della persona, cit., 1178. Contra VENEZIANI, Commento all’art. 5 l. violenza sessuale, in AA.VV., Commentario, cit., 191 e ss., che individua la natura giuridica della fattispecie in questione in una causa di esclusione della colpevolezza. Solo tale soluzione, a detta dell’A., consentirebbe di contemperare la ratio della previsione di cui all’art. 609-quater, comma 2, c.p. con il ribadito divieto di compiere atti sessuali con il minore di anni quattordici. L’esenzione da pena, in questa prospettiva, non sarebbe motivata da una valutazione oggettiva di liceità del fatto, che l’ordinamento continua a disapprovare, bensì da una particolare considerazione dei riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere. (14) Estremamente critico, a riguardo, MANTOVANI, I delitti, cit., 6 e ss. (15) Per tutti, PADOVANI, L’intangibilità sessuale del minore degli anni quattordici, cit., 434. Assodato che la presunzione legale di irrilevanza dell’error aetatis non è censurabile dal punto di vista della sua ragionevolezza, si tratta piuttosto di ‘‘considerare se sia poi plausibile che l’età stabilita come limite si sottragga ad ogni nesso di imputazione soggettiva con l’autore del fatto’’. Cfr. anche p. 437: ‘‘il principio di colpevolezza non rappresenta una sorta di cedimento di fronte alle esigenze di tutela, una concessione revocabile quando esse si presentino ‘‘particolarmente’’ accentuate. Al contrario, tale principio condiziona il senso stesso della tutela, in quanto essa, realizzandosi attraverso la comminazione, l’applicazione e l’esecuzione di una pena, non può che ruotare attorno a quest’asse’’. Più cauto FIANDACA, Inescusabilità dell’errore sull’età, cit., 2653 e ss., a detta del quale la deroga alla rilevanza dell’errore introdotta dall’art. 539 c.p. (ed ora dall’art. 609-sexies c.p.) è tutt’altro che vistosamente arbitraria. Sulla ratio della presunzione in esame, v. più approfonditamente infra, § 2. (16) Per DI MARTINO, Commento all’art. 7 l. 15/2/1996, n. 66, in Legisl. pen., 1996, cit., 457, la violazione del principio di personalità della responsabilità penale appare addirit-
— 589 — ror aetatis come una deroga ai principi generali di cui agli artt. 42, 43 e 47 c.p. (17). L’art. 609-sexies, in piena e sorprendente continuità rispetto all’art. 539, sancisce l’irrilevanza dell’errore su un elemento (l’età del soggetto passivo) da cui dipende l’intera valenza offensiva di un fatto altrimenti lecito (18), estendendo anzi lo stesso severo trattamento anche ai casi in cui l’età infraquattordicenne rappresenti una circostanza aggravante (19). Sotto questo particolare angolo prospettico, l’error aetatis ha una portata ben differente rispetto alle ipotesi di error in persona ed error in obiecto, parimenti ritenuti irrilevanti nel nostro sistema penale: l’errore sulla persona dell’offeso o sull’oggetto materiale della condotta illecita cade su un elemento costitutivo non essenziale della fattispecie delittuosa; l’errore sull’età del soggetto passivo nei delitti contro la libertà sessuale investe invece il nucleo basilare del fatto tipico e comporta, nonostante l’orientamento contrario della Corte costituzionale (20) e della giurisprudenza (21) a riguardo, una vistosa deroga al principio di colpevolezza, non più compatibile con l’accezione che di esso sembrano aver accolto le tura ‘‘scabrosa’’, ed il ‘‘ripescaggio’’ dell’assoluta irrilevanza dell’error aetatis da parte del legislatore del ’96, in questa prospettiva, è quanto meno ‘‘frettoloso e sconsiderato’’. (17) Cfr., ad es., CADOPPI, Commento all’art. 7 l. violenza sessuale, cit., 237 e ss.; FLORA, voce Errore, cit., 272 e ss.; C.F. GROSSO, Responsabilità penale personale e singole ipotesi di responsabilità oggettiva, in AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, a cura di A.M. Stile, 1989, 278; LEMME, voce Libertà sessuale, cit., 558 e ss.; MANTOVANI, I delitti, cit., 15 e ss.; MARINI, voce Violenza carnale, cit., 961; NAPPI, I delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, cit., 354 e ss.; PECORARO ALBANI, voce Atti di libidine violenti, cit., 17 e ss.; PETRONE, voce Moralità pubblica e buon costume, cit., 69 e ss.; ROMANO, Commentario sistematico del c.p., cit., sub art. 42, 31. (18) V., da ultimo, CADOPPI, Commento all’art. 7, cit., 249. Per PADOVANI, L’intangibilità sessuale, cit., 436, l’età del soggetto passivo è l’elemento ‘‘che fonda ed incentra in sé la lesività del fatto: la fonda perché determina il limite di intangibilità sessuale del minore, in cui una parte della dottrina identifica il bene protetto dalla norma; la incentra perché, prescindendo dall’età, il mero fatto di congiungersi carnalmente risulta di per sé privo di qualsiasi connotazione offensiva’’. (19) Nella sua attuale configurazione, dunque, l’art. 609-sexies c.p. rappresenta una deroga anche al principio generale di cui all’art. 59, comma 2, c.p. in tema di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti: sul punto v. quanto verrà più approfonditamente chiarito infra, § 5. (20) Per un rapido excursus sull’infelice rapporto tra giurisprudenza costituzionale e art. 539 c.p. v. sent. n. 107/1957, in Giur. cost., 1967, 1006 con nota di VASSALLI; ord. n. 22/1962, in Giur. cost., 1962, 216; sent. n. 19/1971, in Giust. pen., 1971, I, c. 218; sent. n. 209/1983, in Foro it., 1983, I, 2651 con nota di FIANDACA, e in questa Rivista, cit., 429 con nota di PADOVANI. Si fa rinvio a quanto verrà detto infra, § 2, per un’analisi dettagliata dei punti salienti delle sentenze in esame. (21) Tra le sentenze della S.C. particolarmente significative appaiono Cass., III, 16/1/1981, Carauddo, in Riv. pen., 1981, 431; Cass., III, 29/4/1980, Menestrina, in Cass. pen., 1981, 1986; Cass., I, 2215/1967, Graci, in Giust. pen., 1968, 394, le quali hanno escluso la rilevanza di possibili profili di illegittimità costituzionale dell’art. 539 c.p.
— 590 — sentenze costituzionali nn. 364 (22) e 1085 (23) del 1988. Ben può dirsi, allora, che la fattispecie di cui all’art. 609-sexies c.p. rappresenti un’ipotesi eccezionale di responsabilità oggettiva, in quanto prescinde dallo stesso versari in re illicita (24): dall’elemento, cioè, che storicamente dà corpo e fondamento a questo particolarissimo criterio di imputazione (25). L’obiettivo di questa indagine — destinata a partire dall’art. 539 c.p., di cui l’art. 609-sexies c.p. rappresenta la sostanziale continuazione — è proprio quello di verificare le ragioni della singolare ed ostinata sopravvivenza di una fictio iuris ormai palesemente incompatibile con il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole ribadito dai più recenti orientamenti della Corte costituzionale. Da un esame dei lavori preparatori della l. 66/1996, sorge infatti l’inquietante sospetto che l’art. 609-sexies sia una sorta di ‘‘refuso’’ recuperato nell’economia della nuova disciplina dei delitti sessuali senza convincenti motivazioni e senza attenzione (26): (22) Sterminata è ormai la letteratura sulla sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988. Ricordiamo, tra gli altri, AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, cit., passim; ALESSANDRI, Commento all’art. 27 comma 1 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, 1991, 99 e ss.; FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: ‘‘prima lettura’’ della sent. 364/1988, in Foro it., 1988, I, 1385 ss.; PADOVANI, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art. 5, in Legisl. pen., 1988, 453; PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, 686 e ss.; VASSALLI, L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giur. cost., 1988, II, 3 e ss. (23) Sulla sentenza Corte cost. 1085/1988, cfr. VENEZIANI, Furto d’uso e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1990, 289 e ss. La sentenza è pubblicata anche in Cass. pen., 1989, 758 e ss. (24) Così, acutamente, CADOPPI, Commento all’art. 7, cit., 261. V. più approfonditamente infra, §§ 4 e ss. (25) Particolarmente interessante appare, sotto questo punto di vista, la ricostruzione che PAGLIARO, Colpevolezza e responsabilità oggettiva: aspetti di politica criminale e di elaborazione dogmatica, in AA.VV., Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, cit., 5 e ss., dà della responsabilità da versari in re illicita come responsabilità da rischio totalmente illecito, distinta come tale dalle ipotesi di responsabilità oggettiva pura e non incompatibile, a differenza di queste ultime, con il principio di colpevolezza. Secondo l’A., nella responsabilità obiettiva in senso stretto rientrano ‘‘quei casi eccezionali nei quali il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza di una qualità della persona offesa o di un altro elemento attinente alla dimensione lesiva del reato’’: è il caso, appunto, della fictio iuris in tema di error aetatis, pur riconducibile — ad avviso di Pagliaro — all’alveo della colpevolezza a condizione che si richieda, attraverso un combinato disposto tra l’art. 45 c.p. e l’art. 27 Cost., la possibilità di conoscere l’età della persona offesa. (26) SPAGNOLO, La problematica dei rapporti sessuali con minori e tra minori, cit., 84 e ss., ricorda che l’allora Guardasigilli Giuliano Vassalli, nel dibattito al Senato del 28-30 giugno 1988, aveva sottolineato l’anomalia dell’irrilevanza dell’error aetatis, unica eccezione nel nostro codice al principio di colpevolezza in relazione al fatto costitutivo di reato. L’illustre giurista aveva altresì contestualmente ribadito come tale eccezione non apparisse più tollerabile alla luce dei recenti orientamenti della Corte costituzionale in tema di colpevolezza.
— 591 — che esso sia, cioè, il frutto di una non ben meditata presa di posizione del legislatore piuttosto che la riaffermazione dell’intangibilità sessuale dei minori (27). Estremamente indicativa appare, a riguardo, la recente e contraria scelta legislativa di eliminare dal corpus della l. 8 agosto 1998, n. 269 (relativa alla repressione della c.d. pedofilia), per contrasto insanabile col principio di colpevolezza, una disposizione di contenuto analogo all’art. 609-sexies c.p. ancora presente nei lavori preparatori (28). Un ultimo rilievo preliminare si impone: l’assoluta irrilevanza dell’error aetatis, oltreché con il principio di colpevolezza, risulta collidere con gli stessi principi generali e con la complessiva struttura della l. n. 66 del 1996. È qui sufficiente porre in rilievo uno dei riflessi più bizzarri conseguenti all’applicazione della nuova normativa: il sedicenne che si congiunga con la tredicenne godrà della causa di non punibilità di cui all’art. 609-quater cpv. c.p., mentre il diciassettenne (riconosciuto imputabile) che compia atti sessuali con l’infraquattordicenne incapperà nelle impla(27) Se si eccettuano i pacati ed isolati rilievi dell’on. ANEDDA, in Atti parlamentari — Camera dei Deputati, Seduta 28 settembre 1995, p. 46, nessun elemento consente di giustificare — tra i Lavori preparatori della l. n. 66/1996 nel corso della XII legislatura — il significato della riproposizione sostanziale dell’art. 539 c.p. Cfr., sul punto, VIRGILIO, Una vicenda dentro e fuori il Parlamento, cit., 510 e ss. e, da ultimo, CADOPPI, Commento all’art. 7, cit., 239. L’A. evidenzia, tra l’altro, come la nuova normativa in tema di delitti sessuali manchi di una vera e propria Relazione introduttiva proprio nella proposta da cui di fatto ha preso le mosse l’attuale configurazione (Proposta di legge n. 2576, Amici ed altri, presentata alla Camera dei Deputati il 23 maggio 1995). (28) V. a riguardo, MELCHIONDA, Commento art. 6 l. pedofilia, in AA.VV., Commentario, cit., 617. Durante i lavori parlamentari il problema ha formato oggetto di interventi di diverso tenore: modificando l’originario progetto licenziato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, il dibattito avanti al Senato si concluse con l’introduzione di una norma analoga a quella attualmente prevista, in tema di reati sessuali, dall’art. 609-sexies c.p., e con la quale fu dichiaratamente esclusa, nel caso dei delitti previsti dagli articoli 600bis, comma 1, e 600-ter, ogni possibilità da parte del colpevole di invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa. Tuttavia, il successivo riesame avanti alla Commissione Giustizia della Camera evidenziò inequivocabilmente come si trattasse di ‘‘norma in palese contrasto con la giurisprudenza della Corte costituzionale, che si sta muovendo sempre più verso l’affermazione del principio di soggettività come principio cardine del diritto penale’’. Il testo della legge oggi definitivamente varata non prevede più, di conseguenza, siffatta limitazione di rilevanza dell’errore. Per tali ipotesi, la disciplina normativa dovrà essere ricercata nelle regole generali, ed in particolare nell’attuale disposto dell’art. 59, comma 2, c.p., in correlazione a quanto previsto anche dall’art. 60, ultimo comma, c.p. L’età del soggetto passivo acquista piuttosto un rilievo distinto in seno all’art. 600-sexies c.p., che fissa una circostanza aggravante ad effetto speciale qualora i fatti di cui agli artt. 600-bis, comma 1, 600-ter, comma 1, e 600-quinquies c.p. siano commessi in danno di un minore degli anni quattordici. Sul ruolo, non sempre chiaro, svolto dall’età del soggetto passivo nel quadro della nuova legge sullo sfruttamento della prostituzione minorile e sul c.d. turismo sessuale, cfr. GARGANI, Commento all’art. 6 l. 3/8/1998, n. 269, in Legisl. pen., 1999, 99 e ss. Per una ricognizione dei contenuti della nuova legge sulla ‘‘pedofilia’’, v. ampiamente AA.VV., Commento alla legge 3/8/1998, n. 269, in Legisl. pen., cit., 53 e ss.
— 592 — cabili maglie dell’art. 609-sexies e resterà dunque soggetto alla pena prevista dall’art. 609-bis c.p., pur se attenuata ai sensi dell’art. 98 c.p. 2. Secondo la Corte costituzionale, la disposizione contenuta nell’art. 539 c.p. (29) ed ora puntualmente ribadita dall’art. 609-sexies c.p. (30), ‘‘corrisponde ab antiquo nella legislazione italiana al fine di una accentuata tutela del minore di anni quattordici, ritenuto incapace di consenso valido alla congiunzione carnale’’ (31). Tale ratio sembra doversi desumere anche dal tenore dei Lavori preparatori: la disposizione in questione nasce per prevenire ogni eventuale indebolimento della difesa dei minori, ‘‘specie nei periodi della fanciullezza e della pubertà’’ (32). Attraverso la consapevole scelta dell’assoluta irrilevanza dell’errore sull’età della persona offesa, il Guardasigilli recepisce e privilegia le esigenze repressive da tempo manifestate dalla giurisprudenza, la quale — all’epoca dell’entrata in vigore del codice Rocco — già affermava la possibilità, se non addirittura la necessità, di prescindere nei delitti sessuali dall’indagine sulla scienza dell’età della vittima (33). Se la ratio dell’art. 539 c.p. appare chiara, non altrettanto sembra potersi dire della natura giuridica dell’età del soggetto passivo all’interno dei delitti sessuali, sebbene il Guardasigilli affermi che ‘‘l’età funziona da elemento costitutivo del reato’’ (34). Tre sono essenzialmente gli orientamenti di dottrina e giurisprudenza a riguardo: a) In tempi non recenti, la Corte costituzionale ha qualificato l’età del soggetto passivo come condizione (non obiettiva) di punibilità, ‘‘la cui consapevolezza è estranea al nesso tra azione ed evento’’ (35). La singolare definizione nasce con l’intento di escludere ogni profilo di contrasto tra la disciplina dell’error aetatis ed il principio di personalità della re(29) Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’abrogato art. 539 c.p.: ‘‘Età della persona offesa — Quando i delitti preveduti in questo titolo sono commessi in danno di un minore degli anni quattordici, il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età dell’offeso’’. (30) Onde consentire un immediato raffronto tra la struttura dell’abrogato art. 539 c.p. e l’attuale formulazione dell’art. 609-sexies c.p., si riporta anche il testo di tale nuova fattispecie: ‘‘Ignoranza dell’età della persona offesa — Quando i delitti previsti negli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies sono commessi in danno di persona minore degli anni quattordici, nonché nel caso del delitto di cui all’art. 609-quinquies, il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa’’. (31) Corte cost., sent. 6 luglio 1983, n. 209, in Foro it., cit, 2655. (32) Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, parte II, Roma, 1929, 326 e 327. (33) Relazione del Guardasigilli, loc. ult. cit. (34) Relazione, loc. ult. cit. (35) Corte cost., sent. 6 luglio 1957, n. 107, in Giur. cost., cit., 1008, con nota critica di VASSALLI. V. già, nello stesso senso, MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, V ed., vol. VII, Torino, 1981, 341.
— 593 — sponsabilità penale di cui all’art. 27, comma 1, Cost. Tuttavia, essa suscita immediati motivi di perplessità perché sembra destinata a tradursi in una palese contraddizione in termini: l’istituto delle condizioni non obiettive di punibilità è infatti estraneo alla tradizione penalistica italiana, che riconosce semmai alle condizioni di punibilità natura oggettiva ex art. 44 c.p. (36). Dubbia è inoltre la possibilità, esclusa dagli stessi Lavori preparatori, di ricondurre l’età del soggetto passivo nell’alveo delle condizioni di punibilità (37): l’età del soggetto passivo non si pone in rapporto di estraneità o di ultroneità rispetto agli altri elementi essenziali della fattispecie in esame, ma fonda ed incentra in sé la lesività del fatto. È infine appena il caso di rilevare che la qualificazione dell’età del soggetto passivo come mera condizione di punibilità non contribuirebbe certo a conciliare error aetatis e principio di colpevolezza, dato che le condizioni obiettive di punibilità costituiscono una delle ipotesi più complesse e discusse di responsabilità oggettiva, quanto meno in relazione alla sottospecie, qui in ipotesi prospettabile, delle condizioni c.d. intrinseche, dotate di un contenuto lesivo tale da renderle affini agli elementi essenziali del reato stricto sensu intesi (38). b) Autorevole dottrina ha inquadrato l’età del soggetto passivo come un presupposto del fatto, logicamente preesistente all’azione tipica (39). Come tale, essa deve essere egualmente oggetto di rappresentazione da parte del reo (40): anche secondo la tesi in esame, quindi, l’irrilevanza dell’error aetatis rappresenta un’eccezione ai principi generali in tema di dolo. c) L’orientamento più diffuso in dottrina ritiene, sulla base di (36) V., a riguardo, i rilievi di VASSALLI alla sentenza costituzionale sopra citata e, più di recente, le osservazioni di PADOVANI, L’intangibilità, cit., 436. (37) Cfr. la Relazione del Guardasigilli, loc. ult. cit. (38) Per un’ampia disamina storico-dogmatica dell’eterogenea categoria delle condizioni obiettive di punibilità alla luce del principio di personalità della responsabilità penale v., per tutti, ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 1440 e ss. (39) Così, ad es., FIANDACA, Inescusabilità, cit., 2653, e PADOVANI, L’intangibilità, cit., 437: ‘‘in effetti, l’età inferiore ai quattordici anni sembra doversi ricondurre alla categoria dei presupposti della condotta, in quanto antecedente che logicamente preesiste all’azione, non dipende da questa, e deve peraltro sussistere al momento in cui essa viene realizzata. Da questo punto di vista, è ovvio che, secondo i principi, essa dovrebbe rientrare nell’oggetto del dolo’’. (40) Cfr. PADOVANI, loc. ult. cit. Sulla necessità che anche i presupposti del fatto siano oggetto del dolo v. già DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, 1930, ora in Diritto penale. Raccolta degli scritti, Milano, 1976, 162. Critico sull’utilità dell’inquadramento dell’età infraquattordicenne tra i presupposti del fatto è PETRONE, voce Moralità pubblica e buon costume, cit., 70, secondo il quale la distinzione tra presupposti della condotta ed elementi del fatto ‘‘se proprio non è priva di rilevanza, non può certo valere ad escludere che anche i presupposti della condotta appartengano al fatto di reato e quindi rientrino nell’oggetto del dolo, nel suo momento conoscitivo’’.
— 594 — quanto già desumibile dai Lavori preparatori, che l’età del soggetto passivo sia, nei delitti sessuali, elemento costitutivo essenziale del reato (41). Tale qualificazione non presenta, a ben vedere, sostanziali differenze rispetto alla tesi sub b): sia che la si consideri come presupposto del fatto, sia che la si inquadri nell’ambito degli elementi costitutivi in senso stretto, è proprio l’età a rendere illecito un fatto altrimenti penalmente irrilevante, incentrando in sé sola la ratio dell’incriminazione. Dal momento della sua introduzione nel nostro sistema penale fino a quello della sua riformulazione nell’art. 609-sexies c.p., le vicende dell’art. 539 c.p. rispecchiano fedelmente la dicotomia tra istanze politico-criminali di difesa del minore e rispetto dei principi fondamentali della materia penale. Delle pur apprezzabili istanze di tutela dei minori si è fatta, in varia misura, garante la giurisprudenza di legittimità e della stessa Corte costituzionale (che ha più volte, come tra breve vedremo, ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 539 c.p.). Del rispetto del principio di colpevolezza si è invero preoccupata soprattutto la dottrina più sensibile, la quale con soluzioni eterogenee ed ingegnose, ma fin troppo sottili, ha tentato di circoscrivere l’ambito di operatività della presunzione di conoscenza dell’età infraquattordicenne. È bene, a questo punto, esaminare distintamente seppur sommariamente gli apporti della giurisprudenza e della più significativa dottrina a riguardo. Tale operazione si rivela estremamente importante ai nostri fini: essa, infatti, consente di verificare se la disciplina dell’error aetatis abbia, come spesso è stato sostenuto, un preciso fondamento dogmatico e, soprattutto, se possa ancor oggi conciliarsi con il principio di colpevolezza attraverso un’accorta interpretazione correttiva o non meriti piuttosto, in prospettiva de iure condendo, una drastica riformulazione. La giurisprudenza della Suprema Corte, sino in tempi recenti, si è rivelata compatta nell’escludere il contrasto tra art. 539 c.p. e principio di colpevolezza, in quanto ‘‘la personalità della responsabilità penale si riferisce soltanto alle conseguenze del fatto proprio’’ (42), quale è appunto quello di chi si congiunga carnalmente con un infraquattordicenne. A riguardo, non rilevano né l’errore né tanto meno l’ignoranza (43) incolpevole dell’età del soggetto passivo, ‘‘non solo quando l’ignoranza sia determinata da precoce sviluppo fisico, ma anche quando sia originata da in(41) Per tutti, da ultimo, CADOPPI, Commento all’art. 7, cit, in AA.VV., cit., 241. (42) Cass., sez. I, sent. 761 del 6/11/1967 (ud. 22/05/1967), inedita. (43) Cass., sez. III, sent. 3179 del 31/01/1966 (ud. 22/11/1965), inedita, secondo la quale non può farsi distinzione tra ignoranza ed errore: ‘‘quest’ultimo ha come immancabile presupposto uno stato di ignoranza e ne costituisce la degenerazione attiva. L’una e l’altro si traducono in un difetto di conoscenza privo di giuridica rilevanza, stante la presunzione iuris et de iure di consapevolezza posta dal legislatore al fine di conseguire una più energica difesa dei minori nei periodi della fanciullezza e della pubertà’’.
— 595 — gannevoli atteggiamenti del minore’ (44): la particolare ratio sottesa all’assoluta irrilevanza dell’error aetatis consente di tutelare il minore persino ‘‘contro se stesso’’, in considerazione della sua condizione di immaturità psichica ed emotiva. Per le stesse ragioni, la Corte costituzionale ha, in più occasioni, respinto la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’art. 539 c.p. (45) sia in rapporto al contrasto con l’art. 27, comma 1, Cost. (inteso ancora, sino alla sent. 209/1983, come semplice divieto di responsabilità per fatto altrui) (46), sia sotto il profilo dei rapporti tra error aetatis ed art. 3 Cost. (47), dal momento che la disposizione in esame sottopone al (44) Cass., sez. III, sent. 1247 del 13/01/1971 (ud. 11/11/1970), inedita. Nello stesso senso sez. III, sent. 5918 del 3/08/1973 (ud. 26/03/1973), inedita, secondo cui ‘‘il colpevole del delitto di violenza carnale non può allegare a sua scusante di avere ritenuta una infraquattordicenne maggiore di tale età, sia pure per propria inesperienza, anche se costei dimostri età maggiore per il suo sviluppo fisico e goda della massima libertà di allontanarsi dalla casa dei genitori e di accompagnarsi a giovani per intrattenere rapporti intimi’’, e sez. III, sent. 5535 del 1/06/1985 (ud. 15/04/1985), inedita. (45) Cfr., in ordine cronologico, Corte cost., sent. 8 luglio 1957, n. 107, in Giur. cost., cit., 1005 e ss.; ordinanza 27 marzo 1962, n. 22, in Giur. cost., cit., 216; sent. 11-17 febbraio 1971, n. 19, in Giust. pen., cit., 218, e, da ultimo, sent. 6 luglio 1983, n. 209, in Foro it., cit., 2651. (46) Nella più recente sent. 6 luglio 1983, n. 209, la Corte costituzionale liquida la questione relativa al contrasto tra art. 539 c.p. e principio di colpevolezza limitandosi a richiamare la precedente giurisprudenza della Consulta in materia, che ha dichiarato l’eccezione di incostituzionalità non fondata con le sent. nn. 101/1957 e 20/1971 ed addirittura manifestamente infondata con l’ordinanza n. 22/1962. (47) Il contrasto tra art. 539 c.p. ed art. 3 Cost. è venuto in considerazione, nel corso del tempo, sotto due distinti profili, parimenti ritenuti infondati dalla Corte. Nella sent. n. 19 del 1971 fu discussa la disparità di trattamento tra chi poteva essere ammesso a provare l’ignoranza dell’età o dell’inferiorità fisica o psichica del soggetto passivo (ex art. 519, nn. 2 e 3, c.p.) e chi non può invocare l’ignoranza dell’età dell’offeso (ex art. 519, n. 1, c.p.). La Corte ribadì, in proposito, che le previsioni di cui ai nn. 1, 2 e 3 dell’abrogato art. 519 sono intrinsecamente diverse: ‘‘il divieto d’invocare l’ignoranza dell’età dell’offeso inferiore agli anni quattordici è stabilito dall’art. 539 del codice per tutte le ipotesi comprese nel titolo dei ‘‘delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume’’. Per il delitto previsto dall’art. 519, n. 2 l’età limite è di anni sedici; per quello previsto al n. 1 dello stesso articolo è di anni quattordici. Una più rigorosa tutela è dovuta agli inferiori di anni quattordici, per i quali la legge penale presume l’incapacità d’intendere e di volere (artt. 97 e 85 del codice penale). Tale presunzione non esiste per coloro che sono di età fra i quattordici e i sedici anni. Quanto all’ipotesi prevista dall’art. 519, n. 3 del codice, è chiaro che, mentre l’età inferiore degli anni quattordici è un dato positivo, il più delle volte valutabile anche esteriormente dai terzi, l’inferiorità psichica o fisica talora non si può accertare che con indagini cliniche’’. Nella sent. n. 209 del 1983, viene affrontata e rigettata la questione del conflitto tra art. 539 c.p. ed art. 3 Cost. sotto il più consistente profilo della sottoposizione al medesimo trattamento sanzionatorio dei casi di ignoranza colpevole rispetto alle ipotesi di errore incolpevole sull’età della vittima. Anche sotto questo particolare angolo prospettico, tuttavia, la Corte costituzionale si rivela estremamente rigorosa, chiamando in causa l’assoluta incapacità del minore di prestare validamente il proprio consenso. In tal modo, la Corte si discostava da quanto invece sostenuto dal giudice a quo, il quale aveva individuato nell’art. 12 l.
— 596 — medesimo trattamento sanzionatorio i casi di ignoranza colpevole e quelli di errore incolpevole sull’età della vittima. Tale equiparazione, a detta della Corte, nasce dalla conclamata incapacità del minore a prestare un valido consenso alla congiunzione carnale ed esclude a priori la possibilità di censurare qualsiasi disparità di trattamento tra situazioni eterogenee (quali quelle nascenti, appunto, dalla diversa natura dell’errore sull’età). Nella sua più recente pronunzia sull’art. 539 c.p. (48), la Consulta individua addirittura nell’irrilevanza dell’error aetatis un’applicazione del principio generale sancito dall’ultimo comma dell’art. 60 c.p., a detta del quale le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo ‘‘non si applicano, se si tratta di circostanze che riguardano l’età o altre condizioni, fisiche o psichiche, della persona offesa’’. Per tal via la Corte, non senza una certa disinvoltura, ha attribuito al comma 3 dell’art. 60 il carattere di equivalente ‘‘sistematico’’, in seno alla parte generale del codice penale, della disposizione originariamente contenuta nell’art. 539 c.p. (49). Tale richiamo risulta, ad un’analisi più approfondita, quanto meno incongruo: diversi sono il significato e la portata dell’art. 539 c.p. rispetto a quanto stabilito dall’art. 60, comma 3, c.p. L’ultimo comma della previsione di cui all’art. 60 c.p. rende infatti applicabile la regola dell’imputazione oggettiva delle circostanze — sancita, prima della riforma operata dalla l. 7 febbraio 1990, n. 19, dal primo comma dell’art. 59 c.p. — anche al caso di error in persona per le sole circostanze riguardanti ‘‘l’età o altre condizioni o qualità, fisiche e psichiche, della persona offesa’’. In questa prospettiva, l’età concerne un requisito dell’offeso che non ha efficacia costitutiva dell’illecito, come nell’ipotesi prevista dall’art. 539 c.p., ma possiede semplicemente valenza aggravante di un reato già completo nei suoi elementi essenziali (50). La fattispecie di cui all’art. 60 c.p. circoscrive senza sbavature il suo ambito di operatività alle circostanze, la cui disciplina generale subiva due deroghe (51) in presenza di un fatto comunque 194/1978, che attribuisce alla donna minore di età il diritto di chiedere personalmente l’interruzione della gravidanza, il riconoscimento normativo della naturale capacità di autodeterminazione del minore. Ad avviso della Corte, anzi, analizzando l’ipotesi prevista dall’art. 12 della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, l’insufficienza del consenso dell’infraquattordicenne viene ad essere confermata più che esclusa, posto che la volontà della minore dev’essere necessariamente integrata dai genitori esercenti la potestà o dal giudice. (48) Si tratta della già citata sent. n. 209 del 1983. (49) Cfr. PADOVANI, L’intangibilità, cit., secondo il quale la Corte liquida la questione del fondamento storico-dogmatico dell’art. 539 c.p. in modo ‘‘frettoloso ed approssimativo’’. (50) PADOVANI, L’intangibilità, cit., pp. 435 e 436 e, da ultimo, CADOPPI, Commento all’art. 7, cit., 256: ‘‘comunque, nell’ambito delle circostanze del reato, la presunzione assoluta di conoscenza dell’età non faceva che confermare la più generale regola dell’imputazione oggettiva sancita dall’art. 59; nell’ambito dei delitti sessuali, l’art. 539 andava invece a creare una pesante deroga ai principi sul dolo e sull’errore’’. (51) Dopo la riformulazione in senso conforme al principio di colpevolezza del re-
— 597 — strutturalmente doloso: l’error in persona, nell’ottica dell’art. 60 c.p., non incide in alcun modo sul titolo della responsabilità (52). Per individuare poi correttamente la ratio dell’art. 60, comma 3, c.p., occorre riflettere più attentamente sull’ambito di operatività della norma in esame, la cui rubrica si riferisce ai casi di errore sulla persona dell’offeso, ovvero sull’identità personale della vittima. Se è vero, infatti, che tale espressione può, in alcuni casi, rivelarsi ambivalente (53), è però esatto affermare, come autorevolmente è stato sostenuto, che l’intero corpus dell’art. 60 c.p. contempla una vicenda a tre soggetti (agente, vittima falsamente rappresentata e vittima reale) e non, come nel caso previsto dall’art. 539 c.p. ed ora dall’art. 609-sexies c.p., a due soggetti (agentevittima). Nell’ipotesi di error aetatis, il reo valuta erroneamente una caratteristica personale della vittima da cui dipende per intero il carattere illecito del fatto; nel caso previsto dall’art. 60 c.p., si avrebbe invece uno scambio di persone, che secondo il legislatore pregiudicherebbe o condizionerebbe ogni possibile conoscenza delle circostanze a ciò legate (54). Non potendo quindi l’art. 60, comma 3, c.p. considerarsi la base dogmatica su cui costruire la conformità dell’art. 539 c.p. (e del successivo art. 609-sexies c.p.) ai principi generali del nostro sistema penale, resta da verificare se l’irrilevanza assoluta dell’error aetatis abbia o meno un suo solido fondamento storico. È necessario qui ritornare all’affermazione, ribadita dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza n. 209 del 1983, secondo cui la disciplina sancita dall’art. 539 c.p. ‘‘corrisponde ab antiquo nella legislazione italiana al fine di una accentuata tutela’’ degli infraquattordicenni. Ora, la presunzione in esame si fonda certamente su istanze di tutela particolarmente radicate nella prassi giurisprudenziale (55). Tuttavia, nel gime di imputazione delle circostanze aggravanti, attuata con l. n. 19 del 1990, è dubbio se, ed in quali termini, l’art. 60 c.p. continui a rappresentare una deroga a quanto disposto dall’art. 59 c.p. Com’è noto, infatti, la riforma attuata con la l. 7 febbraio 1990, n. 19 ha modificato solo l’art. 59 c.p., lasciando inalterato l’art. 60 c.p. L’orientamento ormai largamente prevalente in dottrina ritiene comunque che la portata dell’art. 60 c.p. sia rimasta immutata anche dopo la modifica dell’imputazione delle circostanze aggravanti: la nuova regola generale dell’imputazione soggettiva delle aggravanti, con la necessità della conoscenza o della conoscibilità di esse da parte dell’agente, avrebbe lasciato intatta la disciplina evidentemente derogatoria fissata da questa disposizione per le particolari circostanze ivi indicate. Sarebbe, d’altro canto, estremamente singolare che una legge che ha inteso limitare l’imputazione delle aggravanti possa al contrario risolversi, tacendo completamente al riguardo, nell’estensione del loro addebito là dove il codice lo aveva già eccezionalmente escluso: così, tra gli altri, MELCHIONDA, La nuova disciplina di valutazione delle circostanze del reato, in questa Rivista, 1990, 1446 e, di recente, ROMANO, Commentario, cit., sub art. 60, 2. (52) Così, acutamente, ROMANO, Commentario, cit., sub art. 60, 1. (53) V. ROMANO, Commentario, cit., sub art. 60, 2. (54) ROMANO, loc. ult. cit. (55) Cfr. la Relazione del Guardasigilli, cit., pp. 326 e 327.
— 598 — codice Zanardelli del 1889 mancava una disposizione analoga al nostro art. 539 c.p., probabilmente per il fatto che la soglia di intangibilità sessuale veniva fissata, ex art. 331 (56), non a quattordici ma a dodici anni (età, questa, in cui i margini di rilevanza dell’errore sull’età appaiono obiettivamente limitatissimi) (57). Certo è, poi, come è stato efficacemente sottolineato, che non tutte le istanze di tutela meritevoli di apprezzamento sul piano politico-criminale possono, per ciò solo, tradursi in altrettante deroghe ai principi generali sul dolo e sull’errore (58). Con riferimento alla pretesa ‘‘antichità’’ del principio sancito dall’art. 539 c.p., si è infine altrettanto incisivamente replicato che ‘‘la ragionevolezza di una certa disciplina non dipende né punto né poco dalla durata della sua applicazione. Il tempo può senza dubbio consolidare un errore, ma grazie al cielo non può trasformarlo in verità, ed è assai dubbio che una secolare perseveranza nell’errore sia di per sé ragionevole: il detto popolare la vorrebbe addirittura diabolica’’ (59): parole dotate di sorprendente attualità se solo si considera la continuità strutturale e sostanziale tra l’art. 539 c.p. e l’art. 609-sexies c.p. a dispetto dei mutati orientamenti della Corte costituzionale in tema di colpevolezza. 3. La dottrina più attenta ha cercato di temperare l’estremo rigore della giurisprudenza in tema di error aetatis con sofisticate interpretazioni correttive volte ad eludere, più che a circoscrivere, la portata del vecchio art. 539 c.p. (60). Nell’assoluta eterogeneità delle soluzioni proposte, spicca un elemento comune: l’art. 539 c.p., comportando una deroga ai principi generali sul dolo e sull’errore, dev’essere interpretato restrittivamente, attraverso la non semplice valorizzazione della formulazione letterale della di(56) Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 331 codice Zanardelli: ‘‘Chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona dell’uno o dell’altro sesso a congiunzione carnale è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi si congiunge carnalmente con persona dell’uno o dell’altro sesso, la quale al momento del fatto: 1o non abbia compiuto gli anni dodici; 2o non abbia compiuto gli anni quindici, se il colpevole ne sia l’ascendente, il tutore o l’istitutore; 3o essendo arrestata, o condannata, sia affidata al colpevole per ragione di trasporto o di custodia; 4o non sia in grado di resistere, per malattia di mente o di corpo o per altra causa indipendente dal fatto del colpevole, ovvero per effetto dei mezzi fraudolenti da esso adoperati’’. (57) Sul punto, v. CADOPPI, Commento all’art. 7, cit., 255. (58) PADOVANI, L’intangibilità, cit., 435, e CADOPPI, Commento all’art. 7, cit., 256. (59) Così PADOVANI, L’intangibilità, cit, 435. L’affermazione è ripresa anche da CADOPPI, Commento all’art. 7, cit., 256. (60) Per CADOPPI, Commento, cit., 240, la critica della miglior dottrina è sempre velata, mai esplicita.
— 599 — sposizione in questione (61). In questa prospettiva, non stupisce che si sia proposto di riferire il disposto dell’art. 539 c.p. ai soli casi di ignoranza dell’età della persona offesa piuttosto che alle ipotesi di errore in senso stretto su di essa, recuperando così la distinzione — priva di pratica rilevanza per la giurisprudenza — tra ignoranza come assenza di qualunque rappresentazione della realtà esterna ed errore come distorta percezione del mondo fenomenico (62). Secondo l’indirizzo qui in esame, l’art. 539 c.p. avrebbe dovuto applicarsi solo quando l’agente non si sia mai posto, per indifferenza o superficialità, il problema dell’età della vittima, rivelando maggiore riprovevolezza rispetto a ‘‘colui che abbia erroneamente ritenuto di congiungersi con persona di età superiore ai quattordici anni. In quest’ultima eventualità, ben potrebbero applicarsi i principi generali di cui agli artt. 43 e 47 c.p., posto che l’erronea supposizione dell’età della vittima comporta una rappresentazione soggettiva del fatto addirittura antitetica ad una valutazione di illiceità (63). L’affascinante tesi qui sostenuta ha il pregio di valorizzare, sotto il profilo della colpevolezza, l’atteggiamento psicologico dell’agente in rapporto alle diverse ipotesi di errore (colpevole o incolpevole) sull’età. Essa va tuttavia prevedibilmente incontro all’obiezione secondo cui il nostro sistema penale, pur distinguendo concettualmente tra errore ed ignoranza, non attribuisce per ciò solo ai due fenomeni differente disciplina giuridica né differente valenza assiologica. Non solo non è concretamente individuabile l’impalpabile linea di confine tra l’assente e l’erronea rappresentazione della realtà (tant’è che i termini ‘‘ignoranza’’ ed ‘‘errore’’ vengono spesso utilizzati scambievolmente) (64), ma è tutto da dimostrare che l’ignoranza ‘‘pura’’ sia, in linea di principio, più riprovevole dell’errore sull’età: sono infatti configurabili sia forme di ignoranza non rimproverabile, sia d’altro canto ipotesi di errore inescusabile sull’età del soggetto passivo (65). (61) V. a riguardo CADOPPI, Commento, cit., 242, per il quale il dettato dell’art. 539 c.p. non sembrava comunque offirire alcuno spiraglio di interpretazione correttiva, ‘‘essendo paragonabile, nella sua cruda perentorietà, all’art. 5’’ nella sua originaria configurazione. (62) Così PULITANÒ, voce Ignoranza, cit., 46, e LEONELLI, Riflessioni sull’art. 539 c.p., cit., 440. (63) PULITANÒ, voce Ignoranza, cit., 46: ‘‘l’indifferenza verso la (ignorata) età della vittima minore denota, nella presente civiltà, indifferenza verso lo stesso valore tutelato. Applicare per contro l’art. 539 ai casi di autentico (e magari incolpevole) errore sull’età, significa punire là dove la (errata) rappresentazione dell’età della vittima è stata a tutta evidenza assunta a cosciente contenuto della ‘‘forma d’azione’’ compiuta, finendo per dare a questa un significato soggettivo (al limite) addirittura antitetico a quello obiettivo: non di crimine in danno di fanciulli, ma di lecito rapporto sessuale tra adulti’’. (64) CADOPPI, Commento, cit., 243. (65) ID., loc. ult. cit. L’A. prospetta il caso di colui che abbia rapporti sessuali con una persona il cui comportamento ed il cui aspetto esteriore siano oggettivamente tali da non far neppure sorgere il dubbio all’agente sull’età della vittima: ‘‘qui certamente il sog-
— 600 — Un altro orientamento ha tentato di eludere la portata dell’art. 539 c.p. distinguendo le ipotesi in cui l’agente sia spontaneamente caduto in errore sull’età della vittima (destinate a riconfluire nell’implacabile sanzione di irrilevanza di cui alla disposizione in esame) da quelle — forse più frequenti — in cui, invece, sia stato ingannato o da un terzo o dallo stesso infraquattordicenne (66). Qualora il raggiro sull’età sia stato posto in essere da un terzo diverso dalla persona offesa, dovrebbe trovare esclusiva applicazione la disposizione di cui all’art. 48 c.p. in tema di errore sul fatto determinato dall’altrui inganno (67). Nel caso in cui, viceversa, l’errore sia stato indotto dallo stesso minore con false affermazioni sulla propria età anagrafica, la punibilità dell’agente dovrebbe essere esclusa facendo applicazione analogica, sul terreno dei delitti sessuali, del principio civilistico malitia supplet aetatem, sancito in materia contrattuale dall’art. 1426 c.c. Tale norma stabilisce, com’è noto, che ‘‘il contratto non è annullabile, se il minore ha con raggiri occultato la minore età’’, negando tutela al minore quando questi abbia dimostrato, sia pure attraverso l’inganno, una precoce ‘‘capacità di agire’’ (68). L’orientamento qui discusso è certo degno di apprezzamento per l’attenzione alla naturale capacità di autodeterminazione sessuale del minore, che sembra essere stata sia pure solo in parte seguita dal legislatore del ’96 (69), ed alla fonte da cui deriva l’errore sull’età (destinata ad incidere sulla sua stessa rimproverabilità). Tuttavia, esso finisce con l’assimilare impropriamente due realtà del tutto eterogenee, quali appunto lo schema civilistico del contratto ed il particolare contesto dei delitti sessuali (70): l’atto sessuale, frutto della maturità e della capacità di autodeterminazione di entrambi i partners, non potrà mai definirsi un ‘‘contratto’’, né mai, una volta, ‘‘stipulato’’, potrà valutarsi la sua supposta ‘‘invalidità’’. La tesi in esame finisce, inoltre, col trascurare la ratio di rigorosa tutela del minore sottesa all’irrilevanza dell’error aetatis: se l’incapacità dell’infraquattordicenne è stabilita dalla legge senza possibilità di prova contraria, la sua eventuale maturità e persino la sua malizia devono considerarsi giuridicamente irrilevanti (71). getto, pur ‘‘ignorando’’ l’età, non sarebbe rimproverabile per la propria ‘‘indifferenza’’. All’opposto, ‘‘colui che, andando a prendere la ragazza davanti alle scuole medie, si ponesse il problema dell’età e lo risolvesse sbrigativamente in senso a lui favorevole sulla base delle timide asserzioni della vittima, sarebbe indubbiamente rimproverabile’’. (66) Così LEMME, voce Libertà sessuale, cit., 558 e ss. (67) LEMME, op. cit., 559. (68) ID., loc. ult. cit. (69) Cfr. quanto verrà più approfonditamente detto infra, § 5. (70) V. Ie recenti osservazioni di CADOPPI, Commento, cit., 245. (71) Tale è, del resto, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità. Cfr. supra, § 2 e relative note.
— 601 — Assai interessante appare, tra le altre, la tesi di chi (72) ha circoscritto l’ambito di operatività della situazione descritta dal vecchio art. 539 c.p. ai casi di error circa qualitatem personae: di erronea ed inescusabile supposizione, cioè, di una caratteristica personale (l’età ultraquattordicenne) del soggetto passivo in realtà inesistente. Al contrario, la disposizione in questione sarebbe risultata inoperante nella diversa ipotesi di error in persona, la quale si configurerebbe quando il soggetto attivo, ignaro, si congiunga carnalmente con l’infraquattordicenne che si sia subdolamente sostituito (approfittando, ad es., dell’oscurità) a persona di età maggiore: in questo caso, l’agente incorrerebbe in errore di fatto nell’identificazione personale del partner e la sua punibilità, di conseguenza, dovrebbe essere esclusa (73). La tesi in esame contribuisce vieppiù a sottolineare la differenza esistente tra la fattispecie in tema di error aetatis ed i casi di errore sulla persona dell’offeso: nell’esempio sopra descritto, è evidente che siamo di fronte ad una vicenda a tre soggetti, radicalmente diversa da quella contemplata dall’art. 539 c.p. È quindi opportuno ribadire come il vecchio art. 539 c.p. e l’attuale art. 609-sexies c.p. non possano rinvenire il loro fondamento teorico-generale nella previsione di cui all’art. 60 c.p. (74). D’altro canto, i margini di rilevanza scusante prospettati dall’orientamento qui discusso per le ipotesi di error aetatis appaiono obiettivamente ristretti e destinati a risolvere meri casi di scuola o fattispecie-limite di errore sull’età del soggetto passivo (75): ancora una volta, il tentativo di eludere la disciplina dell’art. 539 c.p. rimane sostanzialmente senza esito e la presunzione iuris et de iure da esso stabilita mantiene inalterati rigore e contenuto. Merita infine un accenno, per la raffinata costruzione dogmatica, l’orientamento ermeneutico che, a posteriori, appare più vicino alle recenti affermazioni della Corte costituzionale in tema di colpevolezza. È stato sostenuto (76) che la disciplina dettata dall’art. 539 c.p. si presentava eccezionale rispetto a quella prevista dall’art. 47 c.p. per le ipotesi di errore sul fatto, ma del tutto corrispondente — persino nella formulazione lessi(72) MARINI, voce Violenza carnale, cit., 961. Nello stesso senso, di recente, NAPPI, I delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, cit., 355, e FLORA, voce Errore, cit., 273. Critico CADOPPI, Commento, cit., 245. (73) MARINI, loc. ult. cit.: ‘‘si pensi alla minore di quattordici anni che, sapendo del convegno amoroso fissato da una congiunta o da un’amica si faccia trovare nel luogo fissato, al buio, pronta alla congiunzione, dal soggetto agente. In questi casi trova o non trova applicazione lo schema di disciplina fissato dall’art. 539 Codice Penale? Crederemmo di dover rispondere negativamente, posto che i fatti stessi nella sostanza si presentano non come ipotesi di error circa qualitatem personae ma come vere e proprie ipotesi di error in persona’’. (74) V., a riguardo, le osservazioni svolte supra, § 2. (75) Cfr. i rilievi critici di CADOPPI, Commento, cit., 245. (76) PADOVANI, L’intangibilità, cit., 429 e ss.
— 602 — cale della disposizione — a quella originariamente stabilita dal codice Rocco per l’errore sul divieto. Su questa base, l’elemento descrittivo ‘‘età’’ veniva, per certi aspetti, assimilato ad un vero e proprio elemento normativo di fattispecie (77), sul presupposto della natura anche normativa della valutazione dell’età del soggetto passivo: ‘‘quando l’agente valuta scorrettamente i dati della realtà (limitandosi ad es. a considerare l’aspetto fisico del minore, senza tener conto dei suoi atteggiamenti ancora infantili o riferendosi ad alcuni comportamenti ‘‘spregiudicati’’, senza inquadrarli in un contesto che denunzia una chiara immaturità di fondo), la situazione non è riconducibile propriamente ad un errore sul fatto’’ (78). Su questa base, la situazione descritta dall’art. 539 c.p. si sarebbe presentata in termini del tutto analoghi a quelli dell’errore su un elemento normativo di fattispecie di rilievo determinante nella comprensione del senso del divieto, mettendo ancora una volta in crisi la non sempre lineare distinzione tra errore sul fatto ed errore sul precetto (79). Sarebbe stato, allora, necessario riconoscere l’illegittimità dell’irrilevanza dell’error aetatis negli stessi termini entro cui, prima del 1988, la migliore dottrina auspicava il riconoscimento dell’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p.: nei limiti, cioè, ‘‘in cui essa impedisce d’invocare a propria scusa l’errore assolutamente incolpevole sul limite d’età’’ (80). La suggestiva tesi qui riportata precorre, sia in rapporto alle considerazioni sull’attuazione del principio di colpevolezza che sotto il profilo (77) PADOVANI, L’intangibilità, cit., 438: una tale equiparazione parrebbe, a prima vista, inammissibile, in quanto l’età infraquattordicenne dev’essere ricondotta al novero degli elementi descrittivi del fatto. Tuttavia, ‘‘anche gli elementi descrittivi racchiudono in qualche misura (secondo il ben noto rilievo di Wolf) un nucleo di ‘‘normatività’’: il concetto di ‘‘uomo’’, ad es., postula pur sempre un asse valutativo su cui stimare la natura di una concreta entità vivente’’. (78) PADOVANI, L’intangibilità, cit., 440. (79) ID., loc. ult. cit. Cfr. anche pp. 442 e 443. Contra FLORA, voce Errore, cit., 273, secondo cui il raffinato correttivo proposto da Padovani ‘‘non servirebbe ad instaurare l’applicazione della norma in questione in un senso maggiormente conforme al principio di colpevolezza’’. In realtà, la questione dell’error aetatis dimostra ancora una volta come la pretesa assoluta eterogeneità tra errore sul fatto ed errore sul divieto non sia di per sé né ovvia né scontata. Cfr., per tutti, ROMANO, Commentario, cit., sub art. 47, 4: ‘‘si dice che chi sbaglia su elementi concreti del fatto storico ‘‘non sa ciò che fa’’ e quindi non gli si potrebbe rimproverare (se non sul piano della colpa, se il fatto è previsto come punibile anche a titolo colposo) una conseguente difettosa valutazione; mentre chi sbaglia (solo) sull’illiceità del fatto, in linea di principio ‘‘sa ciò che fa’’ e quindi gli si potrebbe rimproverare la scelta effettuata (questa volta imputando anche a titolo di dolo). Ma è anche vero che chi ignora che la sua condotta è vietata ‘‘non sa ciò che fa’’ (o non sa bene ciò che fa) dal punto di vista del diritto, ciò che non pare trascurabile. Il sistema, invece, anche per ragioni di politica criminale, mostra una maggiore comprensione per chi procede sulla base di valutazioni (pur erronee) oggettivamente sintoniche con quelle dell’ordinamento’’. Sulla labilità della linea discretiva tra errore sul fatto ed errore sul precetto v., da ultimo, gli acuti rilievi di DE VERO, L’errore sul fatto costitutivo di reato, cit., 509. (80) PADOVANI, L’intangibilità, cit., 443.
— 603 — delle prospettive de iure condendo, la sentenza costituzionale 364/1988 (81), che ha manipolato la formulazione lessicale dell’art. 5 c.p. attribuendo rilevanza scusante all’errore inevitabile (e pertanto incolpevole) sul divieto. Ciononostante, essa è stata del tutto disattesa dal legislatore del ’96, il quale, nel riproporre l’assoluta irrilevanza dell’error aetatis, sembra comunque orientato ad attribuire a tale ipotesi di errore la natura di vero e proprio errore (irrilevante) di fatto su elemento essenziale della fattispecie tipica. Riservandoci di riprendere il discorso nella sede più opportuna (82), possiamo qui limitarci a sottolineare come l’attuale configurazione dell’art. 609-sexies c.p. contempli una disciplina addirittura più rigorosa di quella oggi riservata alle ipotesi di errore sul divieto: la riproduzione pura e semplice della medesima formula dell’art. 539 (e dell’art. 5) c.p., senza alcun riferimento al correttivo nel frattempo introdotto per l’errore sul precetto dalla Corte costituzionale, non sembra lasciare adito a diversa soluzione. 4. La riproposizione, da parte del legislatore del ’96, dell’assoluta irrilevanza dell’error aetatis non avrebbe, con ogni probabilità, sollevato scalpore se, con le sentenze nn. 364 (83) e 1085 (84) del 1988, la Corte costituzionale non avesse finalmente e definitivamente riconosciuto nell’art. 27, comma 1 e 3, Cost., il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole, auspicandone una sua piena attuazione sia pure in rapporto agli elementi ‘‘più significativi’’ della fattispecie tipica (85). In particolare, la sentenza n. 364 del 1988 è la prima ad assumere il principio di colpevolezza nella sua accezione più piena a fondamento di una dichiarazione di illegittimità costituzionale (86): la (sin troppo) sintetica formula secondo cui la responsabilità penale è personale (87) non si limita ad escludere la responsabilità per fatto altrui, ma richiede un coefficiente ‘‘minimo’’ di colpevolezza, individuato dalla Corte nella colpa. (81) V. diffusamente infra, § 4. (82) Infra, § 5. (83) Corte cost., sent. n. 364/1988, in Foro it., cit., 1385 e ss., con nota di FIANDACA, ed in questa Rivista, cit., 686 e ss., con nota di PULITANÒ. (84) Corte cost., sent. n. 1085 del 1988, in questa Rivista, cit., 289 e ss., con nota di VENEZIANI. (85) Per la letteratura essenziale sulla sent. 364 del 1988 si fa richiamo agli Autori citati supra, nota 22. (86) V. PULITANÒ, Una sentenza storica, cit., 699: si tratta della ‘‘prima presa di posizione formalmente impegnativa per una interpretazione dell’art. 27 Cost. in chiave di (almeno tendenziale) costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, id est del fondamento soggettivo della responsabilità’’. (87) Secondo ALESSANDRI, Commento all’art. 27 comma 1 Cost., cit., 4 e ss., la formulazione testuale del comma 1 dell’art. 27 Cost. è di ‘‘desolante laconicità’’.
— 604 — Con riferimento alla questione dell’error aetatis, la ‘‘storica’’ (88) sentenza 364/1988 viene in considerazione sotto un duplice angolo prospettico. In primo luogo, essa riformula secondo i dettami della Schuldtheorie (89) la portata del nostro art. 5 c.p., dichiarando tale norma costituzionalmente illegittima nella parte in cui non attribuisce rilevanza scusante all’ignoranza inevitabile della legge penale (90), negli stessi termini in cui, come si è visto, veniva auspicata da tempo una ‘‘correzione’’ dell’art. 539 c.p. (91). Su questa base, nelle more della riforma dei delitti sessuali, la dottrina più sensibile aveva interpretato il disposto dell’art. 539 c.p. in maniera analoga al ‘‘nuovo’’ art. 5, attribuendo all’ignoranza inevitabile dell’età del soggetto passivo la natura di causa di esclusione della colpevolezza (92). In secondo luogo, attraverso l’ormai celebre (ma non univoco) (93) obiter dictum sulla responsabilità oggettiva quale discusso criterio di imputazione, la Corte affronta la questione della possibile sopravvivenza di scorie di versari in re illicita in seno al nostro sistema penale. Il problema, com’è evidente, investe l’art. 539 c.p. e l’error aetatis forse prima ancora delle altre ipotesi superstiti di responsabilità oggettiva (94). (88) L’aggettivo, com’è noto, è di PULITANÒ, Una sentenza, cit, 686 e ss. (89) Sul punto, per tutti, FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale, cit., 1387. Per un’ampia disamina del contrasto tra Vorsatztheorie e Schuldtheorie nella qualificazione giuridica e nell’inquadramento dogmatico della coscienza dell’illiceità, si fa rinvio a PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, 1976. Per una panoramica dei più recenti orientamenti maturati nella dottrina d’oltralpe, v., per tutti, JAa KOBS, Strafrecht. Allgemeiner Teil, 2 Auflage, Berlin, 1991, 540 e ss., e CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, 25a ed., München, 1997, sub § 17. (90) Si è peraltro esattamente rilevato come da parte della Corte costituzionale italiana l’accoglimento della Schuldtheorie a fondamento della rilevanza scusante dell’errore inevitabile sul precetto penale sia stato limitato. La nuova versione dell’art. 5 attribuisce infatti rilevanza scusante all’ignoranza o errore inevitabile sul divieto, senza prevedere alcuna diminuzione facoltativa di pena nell’ipotesi di ignoranza o errore evitabile. La sent. 364/1988, pur ipotizzando, in prospettiva de iure condendo, l’accoglimento in seno al sistema penale italiano di possibili temperamenti al rigore sanzionatorio attualmente previsto per i casi di errore evitabile sul precetto mediante soluzioni analoghe a quelle previste dal § 17 StGB tedesco o dal § 29 c.p. austriaco (testualmente richiamati), rimette la questione ad un futuro intervento del legislatore. Tale intervento viene ritenuto auspicabile, tra gli altri, da ROMANO, Commentario, cit., sub art. 5, 49: la mancanza, pur rimproverabile al soggetto, della coscienza dell’antigiuridicità della condotta può diminuire anche notevolmente la colpevolezza del concreto fatto. Attualmente, invece, chi versa in condizioni di ignoranza inescusabile della legge penale può rispondere del fatto anche a pieno titolo di dolo, senza alcuna diminuzione di pena (salvo il riconoscimento delle attenuanti generiche). (91) V. supra, § 3. (92) Così pare desumersi da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1995, 332. (93) Sull’ambiguità dell’obiter dictum contenuto nella sent. 364/1988, v. PULITANÒ, Una sentenza, cit., 700. (94) PADOVANI, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale, cit., 454, osservava, in un
— 605 — Secondo la sentenza in esame, il nostro sistema costituzionale non contiene un divieto tassativo di responsabilità oggettiva. Cionondimeno, ‘‘il fatto imputabile, perché sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica’’ (95): affermazione di contenuto elastico che, pur sancendo la necessità di un coefficiente minimo di colpevolezza in rapporto al nucleo essenziale del fatto di reato, lascia tuttavia qualche spazio a forme residue di versari, quanto meno in rapporto ai profili ‘‘meno significativi’’ della fattispecie. La fondamentale individuazione dei criteri discretivi di siffatta ‘‘significatività’’ è, in sostanza, rimessa alla prudente valutazione del legislatore e dell’interprete: sul punto, infatti, la Corte è, almeno in un primo momento, laconica, affermando che l’individuazione dev’essere effettuata di volta in volta (96). Di maggiore utilità, nella determinazione — sia pure in negativo — del coefficiente di ‘‘significatività’’, è la successiva sentenza costituzionale 1085/1988 in tema di furto d’uso, laddove vengono definiti ‘‘meno significativi’’ solo gli elementi di fattispecie totalmente estranei alla materia del divieto, come ad es. le condizioni di punibilità estrinseche (97). Indipendentemente dall’accezione che si voglia accogliere della ‘‘significatività’’, certo è che ben pochi dubbi possono residuare sulla necessità di includere l’età del soggetto passivo nei delitti sessuali tra gli elementi essenziali (più che semplicemente significativi) della fattispecie tipica, trattandosi di un dato che addirittura incentra in sé la materia del divieto: esso risulta decisivo nella distinzione del confine tra il delitto di violenza carnale ‘‘presunta’’ da un lecito rapporto sessuale tra persone consenzienti (98). Questa riflessione ci conduce ad un ulteriore approfondimento, legato all’inquadramento dogmatico dell’irrilevanza dell’error aetatis tra le ipotesi di responsabilità oggettiva. Un importante passaggio della sentenza primo commento ‘‘a caldo’’ della sentenza costituzionale 364/1988, come proprio nel caso dell’errore sull’età della persona offesa sembri assurdo e contraddittorio che il soggetto possa, in ipotesi, addurre a scusa l’ignoranza incolpevole della rilevanza penale della c.d. violenza carnale presunta (sancita, prima della riforma del ’96, dall’art. 519 comma 1, n. 1, c.p.), mentre, essendo consapevole del divieto, non possa invece invocare l’errore del tutto incolpevole sull’età della persona. (95) Corsivo nostro. Cfr., in particolare, i §§ 12 e 13 della sentenza supra citata. (96) PULITANÒ, Una sentenza, cit., 701. (97) Dall’esegesi della sentenza in esame, ANGIONI, Condizioni obiettive di punibilità e principio di colpevolezza, cit., 1509 e ss., desume esattamente che le condizioni intrinseche di punibilità non si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27 Cost., vista la loro affinità rispetto agli elementi costitutivi essenziali del reato. (98) Ciò spiega la ragione per cui la migliore dottrina, commentando le sentenze costituzionali in esame, avesse immediatamente pensato al vecchio art. 539 c.p. come ad una norma ormai palesemente illegittima: cfr., tra gli altri, PADOVANI, L’ignoranza, cit., 454; PULITANÒ, Una sentenza, cit., 704; VASSALLI, L’inevitabilità, cit., 15.
— 606 — costituzionale 1085/1988 sancisce con chiarezza il contrasto tra l’art. 27, comma 1, Cost., e la base stessa della responsabilità oggettiva: il versari in re illicita (99). Ora, anche sotto questo punto di vista l’irrilevanza dell’errore sull’età rappresenta un’anomalia del sistema penale italiano. Il versari in re illicita costituisce pur sempre, infatti, un coefficiente autonomo di attribuzione di responsabilità su base causale: a tale pur discutibile ed insufficiente criterio di imputazione fa riferimento l’avverbio ‘‘altrimenti’’ di cui al comma 3 dell’art. 42 c.p. (100). Si tratta di un anomalo ma non inconsistente criterio di attribuzione della responsabilità, che accolla (con l’eccezione del caso fortuito ex art. 45 c.p.) a chi commette un delitto tutte le conseguenze materialmente collegate alla condotta illecita (o, perlomeno, in un’ottica volta ad adeguare la responsabilità oggettiva al principio di colpevolezza, quelle che rappresentino uno sviluppo logicamente prevedibile del fatto illecito di base) (101). Siffatto meccanismo è il nucleo di tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva c.d. ‘‘pura’’ e, ancor di più, dei casi di responsabilità oggettiva ‘‘mista’’ a dolo o colpa (basti pensare alla preterintenzione) (102). In questo contesto, riesce ardua l’individuazione nel vecchio art. 539 c.p. di un nucleo di versari in re illicita distinto dalla condizione personale dell’età del soggetto passivo. Esso può essere, forse, lontanamente rintracciato nella matrice storica dei delitti contro la libertà sessuale, sempre tutelata come bene strumentale alla perpetuazione della specie in seno alla famiglia legittima (103): ciò comportava, com’è noto, la criminalizzazione (99) Corte Cost., sent. 1085/1988, in questa Rivista, cit., § 5. Sul punto, v. diffusamente CADOPPI, Commento, cit., 261 e 262. (100) ROMANO, Commentario, cit., sub art. 42, 23 e 24, ribadisce come l’affermazione diffusa in dottrina ed in giurisprudenza, secondo la quale la responsabilità oggettiva è responsabilità su base meramente causale, ridimensioni senza motivo il concetto stesso di responsabilità oggettiva. (101) Non a caso PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 6a ed., 1998, 324 e ss., tenta di ridimensionare il contrasto tra responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza costruendo le fattispecie riconducibili al criterio di imputazione di cui all’art. 42, comma 3, c.p., come ipotesi di responsabilità da rischio totalmente illecito, temperate dai correttivi della prevedibilità e della prevenibilità dell’evento lesivo. V. anche supra, nota 25. (102) CADOPPI, loc. ult. cit., evidenzia che, se appare incostituzionale la responsabilità da versari, a maggior ragione risalta l’illegittimità della sanzione di irrilevanza dell’error aetatis, dove manca un fatto illecito di partenza. (103) Cfr. PADOVANI, Violenza carnale e tutela della libertà, cit., 1303: ‘‘nel diritto penale dell’ancien régime, l’attività sessuale non costituisce l’oggetto di un diritto della persona, o comunque un’espressione della sua autonomia individuale; essa rappresenta invece una ‘‘funzione’’, e cioè uno strumento finalisticamente orientato ad uno scopo che trascende la persona stessa, e che si identifica con la perpetuazione della specie nell’ambito della famiglia legittima’’.
— 607 — di qualsiasi relazione sessuale, persino con ‘‘persona libera di onesta vita’’ (104), che non fosse finalizzata alla procreazione. La fattispecie di cui all’art. 539 c.p. si presentava allora, dopo il 1988, doppiamente ‘‘anomala’’, poiché, per un verso, contemplava una clamorosa eccezione all’imputazione soggettiva su base almeno colposa degli elementi ‘‘più significativi’’ di fattispecie e, per altro verso, disancorava tale eccezione da una base di versari in re illicita che ne giustificasse, in qualche modo, la sopravvivenza. Il destino dell’irrilevanza dell’error aetatis sembrava ormai segnato. Così, evidentemente, non è stato: ‘‘morto’’ l’art. 539, la medesima disciplina dell’errore sull’età del soggetto passivo ‘‘risorge’’ con l’art. 609-sexies c.p., con una disinvoltura ai limiti dell’arroganza nel misconoscere la complessa e delicata vicenda giuridico-costituzionale di qualche anno prima, che aveva pur trovato eco puntuale, e probabilmente amplificata (105), nella presa di posizione del legislatore in punto di riforma del regime di imputazione delle aggravanti. 5. Nel contesto della legge 15 febbraio ]996, n. 66, l’art. 609-sexies c.p. sembra destinato a coesistere forzosamente con l’attribuzione, sia pur limitata, al minore anche infraquattordicenne di una capacità naturale di autodeterminazione sessuale (106): la ratio stessa di incondizionata tutela dell’intangibilità sessuale del minore sottesa all’irrilevanza dell’errore sull’età del soggetto passivo non è più salda ed incrollabile come sotto il vigore dell’art. 539 c.p. Ciò rende ancor più sorprendente l’attuale assetto dell’art. 609-sexies c.p., che ha, a ben vedere, un ambito di operatività addirittura più ampio rispetto alla norma che lo ha preceduto. A prima vista, la formulazione della disposizione in esame non differisce di molto rispetto al vecchio art. 539 c.p. (107), salvo che per alcune improprietà testuali dovute, con ogni probabilità, alla non brillante tec(104) II riferimento è all’ormai scomparsa fattispecie di c.d. stupro semplice, la cui punibilità era in origine estesa anche alla donna (considerata soggetto attivo di un vero e proprio reato a concorso necessario). Cfr. sempre PADOVANI, Violenza, cit., 1304 e 1305. (105) In quanto accidentalia delicti, poteva invero dubitarsi che le circostanze del reato attenessero al nucleo degli elementi ‘‘più significativi’’ di fattispecie, per i quali soltanto la Corte costituzionale aveva ritenuto assolutamente indispensabile un coefficiente soggettivo di imputazione. (106) Il riferimento è, ovviamente, alla speciale causa di non punibilità attualmente prevista dal capoverso dell’art. 609-quater (pur richiamato dall’art. 609-sexies) per il minorenne che, fuori dalle ipotesi previste dall’art. 609-bis c.p., compia atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, sempre che la differenza di età tra i due soggetti non sia superiore a tre anni. (107) Per DI MARTINO, Commento all’art. 7, cit., 456, l’art. 609-sexies, almeno prima facie, rappresenta ‘‘l’esatto simmetrico, con qualche variazione di lessico e di sintassi, dell’abrogato art. 539 c.p.’’
— 608 — nica legislativa che contraddistingue l’intera legge n. 66/96 (108): il riferimento è all’inclusione, tra le norme richiamate dall’art. 609-sexies, dell’art. 609-ter c.p., il quale non contempla un’autonoma ipotesi delittuosa, ma solo circostanze aggravanti connesse all’art. 609-bis c.p. (109). Tale inclusione, tuttavia, non deve ritenersi casuale. Essa ha — come tra breve vedremo — un obiettivo politico-criminale ben definito: quello di assicurare nel modo più severo l’irrilevanza dell’errore sull’età persino nei casi in cui essa non sia elemento costitutivo essenziale del reato (110). L’art. 609-sexies c.p. stabilisce che quando i delitti previsti negli artt. 609-bis (violenza sessuale), 609-ter (circostanze aggravanti), 609-quater (atti sessuali con minorenne) e 609-octies (violenza sessuale di gruppo) sono commessi in danno di persona minore degli anni quattordici, nonché nel caso del delitto di cui all’art. 609-quinquies (corruzione di minorenne), ‘‘il colpevole non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa’’. Nondimeno, come accennato poc’anzi, per mezzo dell’improprio richiamo all’art 609-ter l’irrilevanza dell’errore sull’età del soggetto passivo assume una portata sistematica parzialmente diversa rispetto a quella espressa dalla corrispondente disposizione abrogata (111): essa, nel suo assetto attuale, si riferisce sia a fattispecie in cui l’età infraquattordicenne funga da elemento costitutivo essenziale del fatto tipico (comportando, come il precedente art. 539 c.p., una deroga ai principi fondamentali in materia di dolo), sia ad ipotesi in cui l’età abbia valenza meramente aggravante: in quest’ultimo caso, l’art. 609-sexies prevede una deroga anche alla regola generale, introdotta dalla l. 7 febbraio 1990, n. 19, dell’imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, sancita dall’art. 59 cpv., (108) V., a riguardo, le efficaci osservazioni di DI MARTINO, Commento all’art. 7, cit., pp. 459-460, e CADOPPI, Commento, cit., 248. Sulle ‘‘ingenuità’’ (dovute ad una inaccettabile disinvoltura o, peggio, superficialità nella stesura del testo normativo) abbondantemente riscontrabili nella l. 15 febbraio 1996, n. 66, si fa rinvio all’ampio lavoro di MOCCIA, Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale, cit., 395 e ss. (109) L’improprietà è sottolineata da DI MARTINO, Commento all’art. 7, cit., 460, MOCCIA, Il sistema delle circostanze, cit., 417 e CADOPPI, Commento, cit., 248, il quale tenta un’interpretazione correttiva in grado di ridimensionare l’apparente lapsus legislativo proponendo di leggere l’art. 609-ter in stretta correlazione con i delitti contemplati dall’art. 609bis. Questa soluzione ermeneutica contribuirebbe, con ogni probabilità, a dare un senso allo stesso, incongruo, richiamo all’art. 609-bis: la disposizione incriminatrice in tema di violenza sessuale rappresenta infatti l’unica fattispecie, tra quelle richiamate dall’art. 609-sexies c.p., in cui non si faccia in alcun modo riferimento all’età del soggetto passivo. (110) PADOVANI, Commento all’art. 2 l. violenza sessuale, in AA.VV., Commentario, cit., 24. (111) Così DI MARTINO, Commento, cit., 460, e PADOVANI, Commento all’art. 2, cit., 24.
— 609 — c.p. (112). In tal modo, la parità di trattamento è assicurata ‘‘al livello più rigoroso’’ (113): l’elemento ‘‘età’’ sfugge, qualunque sia il suo ruolo, ad ogni coefficiente di colpevolezza. Rispetto alle affermazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988 ed ai più recenti interventi legislativi volti a dare piena attuazione al principio di colpevolezza, la l. 15 febbraio ’96 realizza allora un duplice passo indietro: essa continua a trascurare la ‘‘significatività’’ dell’elemento età all’interno dei delitti sessuali, negando rilevanza scusante all’errore incolpevole su di essa, e rinunzia nel contempo al versatile dato della conoscibilità, indicato come criterio minimo di imputazione delle circostanze aggravanti dalla l. 19/1990, quale elemento in grado di contemperare le istanze di difesa del minore con la piena attuazione del principio di colpevolezza (114). Non è tutto: come abbiamo già più volte accennato, l’art. 609-sexies c.p. è avviato ad una difficile coesistenza con la discussa ma ormai riconosciuta capacità di autodeterminazione sessuale dell’infraquattordicenne quanto meno nei rapporti con i (quasi) coetanei (che mette in crisi la ratio politico-criminale da sempre sottesa all’irrilevanza dell’errore sull’età). Ciò rischia di determinare situazioni obiettivamente paradossali e certa(112) V,, esattamente, DI MARTINO, Commento, cit., 460, PADOVANI, Commento all’art. 2, cit., 24 e, da ultimo, DE VERO, L’errore, cit., 504. Contra MOCCIA, Il sistema delle circostanze, cit., 417, CADOPPI, Commento, cit., 264, e PROVERBIO, in Codice penale, a cura di Marinucci e Dolcini, cit., 3195, che ritengono l’art. 609-sexies doppiamente incostituzionale (per contrasto, oltre che con l’art. 27, con l’art. 3 Cost.) riguardo alla pretesa disparità di trattamento predisposta dal legislatore del ’96 per il caso in cui l’età funga da elemento costitutivo del reato rispetto all’ipotesi in cui abbia valenza aggravante (sul presupposto che, in tal caso, dovrebbe trovare applicazione la disciplina di cui al comma 2 dell’art. 59 c.p.). Siffatto orientamento, in realtà, trascura la ratio dell’inserimento dell’art. 609-ter all’interno delle disposizioni richiamate dall’art. 609-sexies: esso non avrebbe infatti alcun senso se, per l’ipotesi in cui l’età funga da circostanza aggravante, dovessero valere i principi generali di cui al cpv. dell’art. 59 c.p. (113) PADOVANI, loc. ult. cit. L’Autore rileva, peraltro, che ‘‘non sarebbe stato certo ragionevole discriminare tra le due ipotesi, conservando la disciplina precedente per le ipotesi di errore sull’età quand’essa è elemento costitutivo del fatto tipico, ed assoggettando alla diversa (più favorevole) disciplina comune l’ipotesi di errore sull’età assunta in termini di rilevanza circostanziale’’. (114) Già DI MARTINO, Commento, cit., 461, all’indomani dell’entrata in vigore della l. 15 febbraio 1956, n. 66, contemplava l’applicazione del criterio di imputazione delle circostanze aggravanti come valida alternativa di disciplina all’attuale configurazione dell’art. 609-sexies c.p. Tale previsione, a detta dell’Autore, avrebbe (o meglio: avrebbe avuto, visto che non è stata attuata dal legislatore del ’96) un duplice pregio: da un lato, ‘‘quello di evitare l’anomalia sistematica comunque rappresentata dall’applicazione della più rigorosa disciplina dell’errore sul divieto all’errore che cade pur sempre su un elemento essenziale del fatto tipico, dall’altro, quello di mantenere le pretese di attenzione alle condizioni del partner di un rapporto sessuale ad un livello particolarmente elevato, evitando le lacune di tutela del minore che con non soverchia difficoltà potrebbero essere aperte attribuendo rilevanza tout court all’errore sul fatto’’. Sul punto, v. più ampiamente infra, § 6.
— 610 — mente inique: il sedicenne che si congiunga con il tredicenne godrà della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 609-quater cpv. (115), mentre il diciassettenne che, incolpevolmente, abbia errato sull’età del partner tredicenne dovrà fare i conti con il rigore dell’art. 609-sexies c.p. (116). Situazione, questa, che pone in evidenza sia la perdurante anomalia sistematica rappresentata dal mantenimento della presunzione assoluta in esame, sia d’altro canto la discutibile scelta dogmatica e politico-criminale di subordinare la causa di non punibilità di cui all’art. 609-quater c.p. ad una valutazione aritmetica della differenza d’età tra i partners, sul presupposto — mai compiutamente dimostrato e forse indimostrabile — che i rapporti sessuali tra quasi coetanei siano compatibili con la condizione di immaturità emotiva del minore (117). La scelta legislativa di riproporre, nel suo inalterato rigore, il vecchio art. 539 c.p. sotto la più articolata veste dell’art. 609-sexies c.p. deve indurci, poi, a ritenere inoperante, salvo che in prospettiva de iure condendo (118), il correttivo, proposto in via interpretativa da parte della dottrina nelle more della riforma dei delitti sessuali, della rilevanza scusante dell’errore inevitabile sull’età (119). Sotto questo punto di vista, l’art. 609-sexies c.p. si discosta dal vecchio art. 539: se la disposizione abrogata si caratterizzava per una indiscutibile somiglianza strutturale e lessicale con l’art. 5 c.p., ciò non vale più per l’art. 609-sexies c.p., il quale possiede ora una portata più rigorosa rispetto al principio ignorantia legis non excusat. Invero, la questione della ‘‘inevitabilità-scusabilità’’ dell’errore sull’età appare oggi scarsamente compatibile se non del tutto inconciliabile con la complessiva disciplina sancita dall’art. 609-sexies. La disposizione in esame, come si è visto, rivendica, in rapporto all’ipotesi in cui l’età infraquattordicenne configura una circostanza aggravante, un significato chiaramente derogatorio rispetto a quanto previsto dal capoverso dell’art. 59 c.p. a proposito dell’origine colposa o meno dell’ignoranza; sarebbe allora strano ipotizzare che il legislatore del ’96 abbia inteso assicurare all’errore inevitabile sull’età come elemento costitutivo (115) Sull’opportunità di qualificare l’esimente di cui al comma 2 dell’art. 609-quater c.p. come una mera causa di non punibilità in senso stretto, si fa rinvio alle considerazioni svolte supra, nota 13. (116) Ove sia ritenuto imputabile, dovrà ‘‘accontentarsi’’ dell’attenuante della minore età. (117) Secondo BERTOLINO, Garantismo e scopi di tutela, cit., 65, la soluzione adottata dalla l. n. 66/1996 attraverso la tormentata predisposizione di un’area di non punibilità per i rapporti sessuali tra minori consenzienti confermerebbe, almeno sul piano assiologico, l’orientamento sostanzialmente sfavorevole del legislatore italiano alla liberalizzazione dei rapporti sessuali tra minori. È pur vero, però, che, per tal via, viene comunque interrotta la tradizione codicistica che sanciva l’assoluta incapacità del minore di anni quattordici di tenere comportamenti di natura sessuale anche con coetanei. (118) Cfr. quanto verà detto infra, § 6. (119) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 332.
— 611 — quella rilevanza scusante che esplicitamente nega all’errore sull’età quale circostanza. L’interpretazione globale più plausibile resta dunque quella della riaffermazione di una disciplina dell’errore rigorosa ed ineludibile, tanto sul versante degli elementi costitutivi, quanto su quello degli elementi accidentali. È certo curioso dover parlare, all’indomani di una ancor recentissima riforma, della necessità di una radicale riformulazione dell’art. 609-sexies c.p. Essa si prospetta, tuttavia, come una scelta obbligata: le interpretazioni ‘‘correttive’’ proposte dalla dottrina meno recente in rapporto all’art. 539 c.p. potrebbero teoricamente adattarsi anche alla disposizione qui commentata (120). Esse, tuttavia, si sono per lo più (121) rivelate soluzioni ermeneutiche deboli, velate, sostanzialmente elusive perché incapaci di intaccare il nucleo di responsabilità oggettiva insito nella perdurante ed ostinata irrilevanza dell’error aetatis. In prospettiva de iure condendo, l’adeguamento dell’art. 609-sexies c.p. al principio di colpevolezza può, come tra breve vedremo, seguire diversi percorsi, ma ha un unico punto di partenza: l’eliminazione, dal nostro sistema penale, di una disciplina che non rappresenta semplicemente un’intollerabile eccezione al principio di colpevolezza proprio in rapporto agli elementi più significativi di fattispecie, ma — nel contempo — un’ipotesi eccezionale (e probabilmente unica nel sistema penale italiano) all’interno della stessa responsabilità oggettiva, perché financo priva di quella base di versari in re illicita che rende non del tutto scandalosa la sopravvivenza delle ipotesi delittuose contraddistinte da tale criterio di imputazione (122). Se — come si è in precedenza accennato (123) — la Consulta ha dichiarato incompatibile il versari in re illicita col principio di colpevolezza (124), le stesse considerazioni debbono valere a fortiori per l’art. 609-sexies c.p., ultima ipotesi di responsabilità oggettiva in senso stretto (sganciata cioè dallo stesso canone del versari) misteriosamente sopravvissuta all’evoluzione del costume, della cultura giuridica e — almeno finora — al vaglio della stessa Corte costituzionale. (120) Cfr. supra, § 3. (121) Con l’eccezione della tesi proposta da PADOVANI, L’intangibilità, cit., 440, che merita di essere presa in considerazione nell’ambito delle possibili prospettive di evoluzione normativa: sul punto, v. più approfonditamente infra, § 6. (122) Persino la fictio in tema di ubriachezza volontaria o colposa di cui all’art. 92, comma 1, c.p., giustamente inclusa da ROMANO, Commentario, cit., sub art. 42, 31 tra le ipotesi di responsabilità oggettiva ‘‘pura’’ accanto al vecchio art. 539 c.p. ed alle fattispecie di cui agli artt. 82, 83 e 116 c.p., presenta un collegamento con una particolare forma di versari, rappresentata dall’avvenuta realizzazione di un fatto costituente reato. In questo caso, tuttavia, la res illicita si presenta come conseguenza e non come presupposto della responsabilità. (123) Supra, § 4. (124) Corte cost., sent. 1085/1988, cit., § 5.
— 612 — 6. Quale il destino della fattispecie in esame? Sembra ovvio e al tempo stesso inutile, vista la non comune ‘‘energia vitale’’ della presunzione originariamente sancita dall’art. 539 c.p., ribadire la necessità di una riformulazione o, al limite, dell’abrogazione dell’art. 609-sexies c.p. Certo è che, nella sua attuale configurazione, la disciplina dell’error aetatis è palesemente incostituzionale per contrasto insanabile col principio di colpevolezza (125). Le linee di evoluzione normativa ipotizzabili in vista dell’adeguamento de iure condendo dell’art. 609-sexies c.p. ai più recenti orientamenti in tema di colpevolezza, devono comunque essere in grado di contemperare l’imprescindibile esigenza del rispetto dell’art. 27 Cost. con le istanze politico-criminali di difesa sociale degli infraquattordicenni. A riguardo, le vie percorribili sono molteplici. Una prima, drastica soluzione potrebbe essere quella di abrogare tout court l’art. 609-sexies c.p., provocando in tal modo una ‘‘reviviscenza’’ dei principi generali in materia di dolo (126). Un intervento normativo di questo tipo consentirebbe alla legislazione italiana di adeguarsi alla disciplina da tempo vigente in materia nei più importanti sistemi penali europei, dove l’error aetatis viene trattato alla stregua di un qualsiasi errore essenziale sul fatto di reato (127). Beninteso, così operando si andrebbe incontro ad un non trascurabile vuoto di tutela: data la natura prettamente dolosa dei delitti sessuali, un qualsiasi errore sull’età, anche se dovuto a (125) In tal senso, non a caso, si pronunzia unanime la dottrina più recente. V., tra gli altri, BERTOLINO, Garantismo e scopi di tutela, cit., 70; CADOPPI, Commento, cit., 265; DI MARTINO, Commento all’art. 7, cit., 457 e ss.; MOCCIA, Il sistema delle circostanze, cit., 416; PADOVANI, Commento all’art. 2, cit., 24. (126) CADOPPI, Commento, cit., 265: ‘‘questa era una delle soluzioni emerse in alcune proposte di legge formulate nel corso della XII Legislatura, e che in precedenza avevano ricevuto l’avallo del Senato, che nel 1989 aveva emendato il testo sulla legge proveniente dalla Camera, tra l’altro, proprio in relazione alla norma sull’ignoranza dell’età’’. (127) Il § 176 StGB reprime il delitto di abuso sessuale di minori infraquattordicenni senza stabilire in merito alcuna presunzione di conoscenza dell’età della vittima. Da ciò deriva l’opinione, radicata nella dottrina prevalente, secondo cui anche l’età del soggetto passivo, ove rappresenti un vero e proprio elemento costitutivo di fattispecie, dev’essere oggetto del dolo: cfr., per tutti, LENCKNER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, cit., sub§ 176, 10. La stessa soluzione è stata, di recente, adottata nei codici penali spagnolo e portoghese nel 1995, dove manca una previsione in qualche modo paragonabile al nostro art. 609-sexies c.p. Particolamente interessante risulta, a riguardo, il raffronto con il nuovo codice penale spagnolo: esso, all’art. 5, sancisce la piena attuazione del principio di colpevolezza vincolando l’irrogazione della pena alla necessaria presenza del dolo o della colpa, contemplando poi una disciplina dei rapporti sessuali con minori simile a quella del nostro codice Zanardelli. Dal capoverso dell’art. 181 in tema di abusi sessuali, si evince infatti che la soglia di intangibilità sessuale è fissata ex lege a dodici anni. L’art. 172 del nuovo codice penale portoghese, in tema di abuso sessuale su minori infraquattordicenni, presenta, dal canto suo, consistenti affinità rispetto al § 176 StGB: per gli essenziali riscontri comparatistici v., tra gli altri, Il codice penale spagnolo, tradotto da G. Naronte, Padova, 1997, e il Còdigo penal português, a cura di A. Domingos Pires Robalo, Lisboa, 1997.
— 613 — colpa, potrebbe inopinatamente giovare al soggetto attivo (128). La tesi qui proposta, pertanto, dev’essere necessariamente integrata da interventi normativi ulteriori, volti ad assicurare in qualche modo una responsabilità a causa di errore inescusabile. La soluzione più vicina alle opzioni ermeneutiche già da tempo prospettate in dottrina (129) è quella di assimilare, ancora una volta, il trattamento sanzionatorio dell’error aetatis alla disciplina dell’errore sul precetto, attribuendo rilevanza scusante all’errore inevitabile sull’età, ferma restando ovviamente l’eventuale responsabilità dolosa dell’agente per le ipotesi di errore evitabile sull’età della vittima. In tal modo, si eviterebbe certo il rischio di una ‘‘caduta’’ generalpreventiva delle istanze di tutela del minore, a scapito però di un trattamento sanzionatorio ancora troppo rigoroso perché poco ‘‘flessibile’’: obiezione che, del resto, viene formulata anche in rapporto all’attuale disciplina dell’art. 5 c.p., che non prevede, a differenza, ad es., del § 17 StGB, la possibilità di una diminuzione di pena per le ipotesi di errore evitabile sul divieto (130). Parte della dottrina, inoltre, ha spesso e non a torto sottolineato come la sussunzione dell’error aetatis nell’alveo dell’error iuris sia quanto meno forzata, visto che la mancata o erronea rappresentazione dell’età del soggetto passivo costituisce un’evidente ipotesi di errore (di fatto) sul fatto: se Tizio ritiene per errore di congiungersi con persona di età superiore ai quattordici anni, egli crede di compiere un fatto diverso (ed assolutamente lecito) rispetto a quello previsto dalla fattispecie incriminatrice (131). Nondimeno, non può qui non notarsi — come attenta dottrina ha in passato rilevato (132) — la natura del tutto peculiare dell’errore sul fatto di reato derivante dall’inesatta o superficiale valutazione dell’età della vittima. Il fatto di congiungersi con un infraquattordicenne, ignorandone colpevolmente l’età, presenta comunque un preciso disvalore di evento, rappresentato dal turbamento dell’ancora instabile sfera affettivo-emotiva del minore in tenera età. In questa prospettiva, appare per certi versi addirittura pretestuoso e certamente riduttivo ricondurre la questione dell’evitabilità o meno dell’error aetatis ai meri casi di ‘‘precoce sviluppo fisico’’ o alle mendaci dichiarazioni dello stesso minore in merito alla propria età anagrafica (133), così come del resto risulta discutibile la scelta di contenere la libertà di autodeterminazione sessuale dei minori entro il calcolo (128) CADOPPI, Commento, cit., 265. (129) V. PADOVANI, L’intangibilità, cit., 440, e FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 332. Accenni anche in CADOPPI, Commento, cit. 266. (130) Cfr. supra, nota 90. (131) Cfr. gli esatti rilievi di CADOPPI, Commento, cit., 266 e 267. (132) PADOVANI, L’intangibilità, cit., 440. (133) Sotto questo particolare punto di vista, appare anzi del tutto plausibile, in nome della difesa dell’intangibilità sessuale del minore, la rigorosa applicazione dell’art. 539 c.p. effettuata dalla giurisprudenza: cfr. quanto detto supra, § 2.
— 614 — aritmetico della differenza d’età tra i partners. A ben vedere, nei casi di ignoranza evitabile in ordine all’età, il disvalore soggettivo della condotta si radica in un contesto ben più ampio rispetto a quello coinvolto dal più o meno ‘‘precoce sviluppo fisico’’ del minore: si tratta della mancata valutazione della complessiva maturità psico-emotiva del partner, del quale si siano ignorati, a prescindere dall’aspetto fisico, gli atteggiamenti infantili e la generale immaturità (134). Se dunque, per un verso, una disciplina riferibile alla costellazione dell’errore sul precetto appare poco consona all’error aetatis, mentre, per altro verso, va ribadita l’esigenza di tutela del minore infraquattordicenne rispetto a manomissioni evitabili della di lui sfera di integrità sessuale, non si vede perché, in prospettiva de iure condendo, la composizione e lo sbocco di tali esigenze politico-criminali non possa cogliersi nella costruzione di un vero e proprio dovere di diligenza inteso a salvaguardare l’intangibilità sessuale del minore di anni quattordici: si tratterebbe insomma di istituire un’autentica responsabilità colposa in capo a chi ignori l’età del minore infraquattordicenne, pur essendo in grado di riconoscerne l’immaturità. La strada dell’introduzione della rilevanza colposa dell’errore sull’età è stata in qualche modo già proposta da coloro che auspicano l’estensione all’error aetatis della disciplina attualmente prevista dall’art. 59, comma 2, c.p. per l’imputazione delle circostanze aggravanti (135). Tuttavia, secondo l’orientamento in esame, il rispetto del principio di colpevolezza sarebbe così garantito con un sorta di ‘‘compromesso’’: attraverso cioè il criterio dell’imputazione colposa dell’errore pur all’interno di fatti esclusivamente dolosi (136), quali appunto i delitti sessuali. Tale conclusione (134) La riconduzione dell’eventuale rilevanza scusante dell’error aetatis ad un onere di attenta verifica della maturità psico-emotiva del partner può ricordare, sotto molti aspetti, la problematica relativa all’incerta linea di confine tra dimensione reale e dimensione putativa delle scriminanti. È noto, infatti, come un diffuso orientamento giurisprudenziale tenda a subordinare la rilevanza putativa delle cause di liceità ad un vaglio dei presupposti di ‘‘ragionevolezza’’, ‘‘logica giustificazione’’ e di ‘‘scusabilità’’ dell’intervenuta supposizione erronea, certo più affini alla problematica dell’errore sul precetto che non alla lettera dell’art. 59, ultimo comma. c.p., assolutamente speculare alla disciplina dell’errore sul fatto. Sul punto, v. l’ampia ricognizione di DE VERO, Le scriminanti putative, in questa Rivista, 1998, 773 e ss. (135) In tal senso si sono pronunziati, ad es., BERTOLINO, Garantismo e scopi di tutela, cit., 70, CADOPPI, Commento, cit., 266, e DI MARTINO, Commento, cit., 460 e ss. (136) BERTOLINO, Garantismo, cit., 70: il legislatore del 1996 avrebbe potuto porre a carico dell’agente un obbligo di informazione e conoscenza circa l’età del minore, prevedendo che la colpevole ignoranza o errata conoscenza dell’età potesse portare ad un’imputazione sostanzialmente colposa dell’elemento dell’età pur all’interno di una fattispecie dolosa. A riguardo, l’Autrice richiama l’art. 187 c.p. svizzero, che prevede un trattamento sanzionatorio meno severo nel caso di errore evitabile sull’età della persona offesa. Per una valorizzazione della natura ontologicamente colposa della responsabilità, pur all’interno di delitti per
— 615 — può essere, però, agevolmente ribaltata, se solo si riflette sulla particolare struttura e natura dell’error aetatis nella prospettiva, già suggerita, dell’incombenza di un dovere di diligenza inteso ad evitare — com’è proprio di ogni fattispecie colposa — che nell’esplicazione di un’attività lecita (nella specie: gli atti sessuali) si producano effetti lesivi (nella specie: il pregiudizio del delicato equilibrio affettivo ed emotivo in fieri del minore). La creazione, in un futuro e quanto mai auspicabile intervento legislativo, di una distinta ipotesi delittuosa che sanzioni adeguatamente, onde evitare le tanto temute cadute generalpreventive, ma pur sempre in misura proporzionata rispetto alla primaria ipotesi dolosa, l’ignoranza dell’età del soggetto passivo dovuta a colpa per inosservanza del dovere di diligenza rivolto a verificarne l’età, darebbe così vita ad un vero e proprio delitto colposo a forma vincolata, affine nella struttura al delitto di atti osceni colposi di cui al cpv. dell’art. 527 c.p., recentemente depenalizzato (137). La particolare natura dell’errore inescusabile sull’età è assolutamente compatibile con un rimprovero a titolo di colpa. La fattispecie delittuosa qui prospettata ben potrebbe essere assimilata, sotto questo punto di vista, a quelle infelicemente definite di ‘‘colpa impropria’’ (138). È un dato ormai acquisito in dottrina che, sotto tale denominazione, non vengano ricompresi fatti dolosi puniti quoad poenam come colposi, ma delitti colposi in senso stretto. Rispetto alle ordinarie ipotesi di colpa, tuttavia, muterebbe in questi casi lo ‘‘spettro preventivo’’ della regola cautelare violata (139): il rimprovero di colpa, cioè, non si incentrerebbe sulla prevedidefinizione dolosi, è altresì DI MARTINO, loc. ult. cit. CADOPPI, Commento, cit., 267, sottolinea invece l’opportunità politico-criminale di ‘‘accontentarsi’’ dell’imputazione colposa, pur nell’ambito di una fattispecie dolosa, laddove — come nel caso dell’error aetatis — sia meno facile del solito per l’agente conoscere con precisione un qualche presupposto del reato. Per un’efficace ricognizione delle prospettive di evoluzione normativa desumibili dall’esperienza comparatistica, v. CADOPPI, Commento, cit., 268 e ss., e Colpevolezza e principi costituzionali: la Corte Suprema canadese ‘‘colpisce ancora’’, cit., 2652. (137) Cfr., a riguardo, l’art. 7, comma 1, lett. c), l. 25 giugno 1999, n. 205, contenente principi e criteri direttivi per la trasformazione in illecito amministrativo, tra gli altri, del reato di cui all’art. 527, 2o comma, c.p. L’art. 609-quater c.p. dovrebbe insomma essere corredato di un ulteriore comma, che preveda una distinta e minore sanzione edittale ‘‘se il fatto avviene per colpa’’. (138) Sulla c.d. ‘‘colpa impropria’’ cfr., per tutti, ROMANO, Commentario, cit., sub art. 43, 107-109, e GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I, 1993, 448. Romano, in particolare, evidenzia l’incongruità della definizione stessa di ‘‘colpa impropria’’, che non può riferirsi alla pretesa volizione di un evento in fattispecie in cui, invece, il fatto è strutturalmente colposo. (139) Ciò spiega la ratio sottesa all’autonoma previsione delle fattispecie di cui all’art. 47, comma 1, 59, comma 4, e 55 c.p. rispetto all’art. 43 c.p. Sul diverso ambito di operatività della tipicità colposa nella c.d. colpa impropria rispetto alle ordinarie ipotesi colpose v. GIUNTA, loc. ult. cit. e, da ultimo, DE VERO, L’errore sul fatto, cit., 503 e ss. Sul raggio d’azione del dovere di diligenza nelle diverse tipologie di delitto colposo v., da ultimo, GIUNTA,
— 616 — bilità e prevenibilità dell’evento lesivo, ma sul mancato riconoscimento per superficialità o leggerezza della situazione tipica (nella specie: il compimento di atti sessuali con minore infraquattordicenne). L’anticipazione della soglia della tipicità colposa e la sua coincidenza con l’inesatto apprezzamento delle circostanze fattuali concomitanti all’azione sembra adattarsi perfettamente alla situazione di chi non abbia del tutto pensato all’età del partner ovvero, pur avendo nutrito un dubbio a riguardo, lo abbia risolto sbrigativamente facendo magari esclusivo (e non del tutto... disinteressato) affidamento sulle mendaci dichiarazioni del minore. Nell’ipotesi qui in esame, è inoltre ravvisabile una specifica connessione di rischio tra la regola precauzionale violata e l’evento lesivo conseguente all’errore colposo sull’età del partner e consistente, come già accennato in precedenza, nel grave turbamento dell’equilibrio psichico ed emotivo del minore (140). Che l’errore evitabile sull’età della vittima abbia natura sostanzialmente colposa è infine dimostrato, ancora una volta e sia pure in negativo, dall’attuale configurazione dell’art. 609-sexies c.p. come fattispecie di responsabilità oggettiva priva di versari in re illicita. La congiunzione carnale e gli atti sessuali non rappresentano, di per sé, un fatto antigiuridico: l’inosservanza dell’onere di controllo dell’età del partner si inserisce, pertanto, in un contesto di azione intrinsecamente lecito, come appunto nelle ordinarie ipotesi di colpa. L’auspicata configurazione di una distinta fattispecie colposa di atti sessuali con minorenni realizzerebbe in tal modo il non trascurabile merito di ristabilire in materia una relazione di congruità tra il sostrato empirico-criminoso e le scelte di tecnica legislativa di tutela. LUCIA RISICATO Ricercatore di Diritto penale nell’Università di Messina
La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in questa Rivista, 1999, 86 e ss. (140) È peraltro da rilevare come con ogni probabilità, nei reati colposi a forma vincolata, quale quello che qui si prospetta, l’ipotesi di ignoranza dell’elemento costitutivo di fattispecie esaurisca i margini di insediamento della responsabilità colposa.
INTERNET E DELITTI CONTRO L’ONORE
SOMMARIO: 1. Manifestazione del pensiero e rilevanza della comunità virtuale. — 2.1. Distinzione fra le due fattispecie: aspetti problematici. - 2.2. Un tentativo di rielaborazione dei concetti di presenza e assenza della persona offesa. - 2.3. Le condotte equiparate alla presenza. Il forum di discussione: distinzione fra ingiuria aggravata dalla presenza di più persone e diffamazione. — 3.1. Consapevolezza di offendere l’altrui onore, decoro o reputazione: l’ambiente virtuale come punto di riferimento. In particolare, la netiquette e i forum moderati. - 3.2. Consapevolezza della presenza dell’offeso, nel caso di ingiuria e volontà della propagazione, nel caso di diffamazione. E-mail e comunicazione con più persone. — 4.1. Aggravante dell’offesa recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità: Internet come mezzo di pubblicità. 4.2. Internet, fra mezzo di pubblicità e condotta avvenuta pubblicamente. Il luogo pubblico o aperto al pubblico e la riunione non privata. — 5. Conclusione.
1. Manifestazione del pensiero e rilevanza della comunità virtuale. — I numerosi casi già verificatisi negli Stati Uniti e nel resto del mondo e la recentissima giurisprudenza che sta nascendo anche nel nostro paese dimostrano come la tutela penale dell’onore attraverso i reati di diffamazione e ingiuria sia indiscutibilmente applicabile anche ad Internet. È tuttavia evidente la necessità di verificare come le nostre regole e principi, sviluppatisi nel corso di anni tecnologicamente meno avanzati, si possano attagliare ad un mezzo, come quello virtuale, che permette a chiunque di proiettare le proprie idee su scala nazionale e mondiale con poco più di un semplice tocco della tastiera. A prescindere dalla questione se diffamazione e ingiuria abbiano natura di reati di danno o di pericolo (1), certamente i due delitti consistono in una manifestazione del pensiero che può essere, com’è ovvio, effettuata mediante ciascuno degli strumenti di comunicazione disponibili on line, (1) Sostiene che si tratti di reati di pericolo, per il fatto che ‘‘l’ingiuria... non esige che il soggetto passivo si sia sentito offeso nel suo onore’’, mentre per la diffamazione ‘‘non è necessario che il biasimo abbia trovato credito presso coloro che lo hanno appreso’’, F. ANa TOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. 1, parte I, 12 ed., Giuffrè, Milano, p. 182; di contrario avviso, nel senso che essi costituiscano reati di danno, F. MANTOVANI, Delitti contro la persona, Padova, 1995, p. 257 e P. NUVOLONE, L’evento e il dolo nella diffamazione, in Riv. it., 1949, p. 573, il quale afferma che, essendo la reputazione un bene immateriale, ben potrà sussistere una lesione ad essa che assumerà i connotati di evento del reato, seppur immateriale.
— 618 — come l’apertura di un sito web, la pubblicazione di un file o il mero scambio di e-mail. Come manifestazioni del pensiero, i due reati potranno dirsi consumati nel momento in cui l’espressione offensiva pervenga a conoscenza di un soggetto, nel caso di ingiuria, e di una pluralità di soggetti, nel caso di diffamazione; non sarà, quindi, punibile chi abbia semplicemente scritto il testo di una e-mail senza averla ancora spedita o chi abbia predisposto sul proprio computer le pagine di un potenziale sito web, senza averlo ancora messo in linea; questo perché l’atto diffamatorio o ingiurioso sarebbe ancora confinato nelle stretta sfera del soggetto attivo, come se lo avesse solo pensato. Non dovrebbe valere invece ad escludere la configurabilità del reato l’avere ad esempio postato un intervento su un forum di discussione poco affollato o addirittura momentaneamente vuoto, in quanto il testo sarebbe comunque ormai reperibile da altri e quindi potenzialmente diffuso; nemmeno, al limite, dovrebbe essere sufficiente l’avere scritto una frase ingiuriosa durante una discussione su un canale di chat, in un transitorio momento di lag (un momento cioè nel quale l’interlocutore non può leggere la frase nell’attimo esatto in cui è stata inviata perché il collegamento ad Internet oppure il server ne permettono la ritrasmissione anche con svariati minuti di ritardo a causa di un ‘‘intasamento’’). Entrambe le fattispecie, infine, sono poste a tutela della personalità sociale dell’individuo, estrinsecazione dell’onore inteso in senso lato, sia dal punto di vista soggettivo, come sentimento del proprio valore sociale, che da quello oggettivo, come stima di cui la persona gode all’interno della società. In ambedue i casi, e con particolare evidenza per ciò che concerne la reputazione, le parole offensive dovranno essere valutate nel loro significato obiettivo e tenendo conto della loro relatività rispetto al momento storico, all’ambiente, al clima serio o festoso di una determinata situazione e allo stato o grado sociale della persona offesa (salvo, ovviamente, quel minimum di onore e decoro ‘‘comune ad ogni persona per il solo fatto di essere uomo’’) (2). Nell’ipotesi di un messaggio postato su un forum di discussione si dovrà fare quindi riferimento agli elementi che lo connotano, al tipo di discussione che in esso è praticata, ai requisiti che eventualmente siano richiesti per farne parte. In un forum professionale, ad esempio, nel quale si svolgono discussioni tecniche e qualificate e nel quale i partecipanti godono di una considerazione che dipende anche dalle rispettive conoscenze o dal modo di esporle, sarà più facile individuare un contenuto diffamatorio che non in un forum aperto a chiunque e magari per sua natura impostato su una discussione più leggera, colorita o anche volgare. Molto di(2)
F. ANTOLISEI, op. cit., p. 183.
— 619 — pende, quindi, dalla soglia di tolleranza che è comunemente accolta per un determinato tipo di discussioni e di argomenti. Da ciò discende anche che la comunità a cui si ha riguardo deve essere quella stessa nella quale si è verificata la condotta offensiva, la comunità virtuale e non quella reale. In relazione a quella comunità e alle sue regole deve essere valutata l’entità della lesione alla reputazione o all’onore che una persona abbia eventualmente subito. Questa precisazione diviene importante se si considera che su Internet le persone assumono facilmente identità diverse da quelle reali (3). Il nickname, il nomignolo, che gli utenti usualmente hanno, può anche costituire uno schermo per nascondere la propria realtà, per fingere di essere di un altro sesso o per assumere nell’ambiente virtuale un comportamento che si discosti, in positivo o in negativo, da quello consueto. È giusto quindi valutare l’entità del discredito in relazione alla reputazione di cui un soggetto gode nella particolare veste che ha deciso di assumere nell’ambiente virtuale, perché è solo quella che gli altri utenti hanno di fronte ed è solo in base a quella che attribuiscono maggiore o minore stima. 2.1. Distinzione fra le due fattispecie: aspetti problematici. — Un importante elemento distintivo delle due fattispecie, e il primo punto che merita qui un approfondimento, attiene all’elemento oggettivo e discende dal testo del codice penale ove si descrive, nell’art. 594, primo comma, un’offesa all’onore o al decoro di una ‘‘persona presente’’, e nell’art. 595, primo comma, un’offesa alla ‘‘altrui reputazione’’ effettuata ‘‘comunicando con più persone’’, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente. Da questo dettato, pacificamente (4) interpretato affermando che solo nel primo caso il soggetto passivo debba essere fisicamente presente, trovarsi cioè nello spazio entro il quale possa essere percepita l’espressione oltraggiosa, si desume la minore gravità dell’ipotesi di ingiuria, data la possibilità di cui dispone una persona presente di replicare immediatamente all’offesa. Si afferma conseguentemente che ai fini della consumazione del reato di ingiuria sia necessaria la mera percezione dell’offesa da parte del soggetto passivo, ove invece la diffamazione richiede la divulgazione dell’offesa stessa, intesa come comunicazione con una pluralità di persone. (3) V. S. SEMINARA, La pirateria su Internet e il diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, p. 71 s., secondo il quale ‘‘il ‘villaggio globale’ creato da Internet trova una delle sue più peculiari caratteristiche proprio nell’anonimato consentito a chiunque si immette in rete’’. Proprio a causa di questa sua diffusione e coessenzialità all’ambiente virtuale, l’anonimato costituisce un serio ostacolo all’individuazione dell’autore dell’illecito. Per ragioni di spazio non potranno essere approfondite in questa sede le notevoli implicazioni che questo tema ha nel dibattito relativo alla responsabilità del provider. (4) E. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974; SPASARI, Diffamazione e ingiuria (dir. pen.), in Enc. dir., XII, 1964, p. 482; F. ANTOLISEI, op. cit., p. 178 s.
— 620 — Ad analoghe conclusioni si giunge analizzando il secondo comma dell’art. 594, ove si equipara alla condotta tipica di ingiuria quella di chi effettua la comunicazione mediante il telegrafo o il telefono oppure con scritti o disegni, che siano diretti alla persona offesa, poiché queste condotte sono assimilabili a quelle che vengano effettuate in presenza della persona offesa. In sostanza, quindi, tenendo presente che fra reputazione e onore o decoro esiste un minimo comune denominatore costituito dall’onore in senso lato, inteso come il complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale di una persona, sarà diffamatorio ogni fatto che se fosse commesso in presenza dell’offeso, alla luce del primo e del secondo comma dell’art. 594, sarebbe ingiurioso. La trasposizione su Internet di questo ragionamento può far sorgere problemi applicativi: innanzi tutto, se la presenza di cui si fa menzione al primo comma dell’art. 594 deve necessariamente essere intesa come presenza ‘‘fisica’’ non sembra che si possa trovare spazio applicativo per questa norma nell’ambiente virtuale ove, quasi per definizione, si mettono in comunicazione soggetti fisicamente ‘‘assenti’’. Si potrebbe quindi sostenere che l’applicazione dell’ingiuria ad Internet sarebbe fatta salva dal secondo comma dell’art. 594 ma, in alcune ipotesi — si pensi al caso delle mailing list, che sarà approfondito in seguito — risulterebbe tutt’altro che agevole definire quando uno scritto fosse ‘‘diretto alla persona offesa’’. Inoltre, anche in quelle ipotesi in cui l’applicazione del secondo comma dell’art. 594, congiuntamente alla clausola di esclusione contenuta al primo comma dell’art. 595, porterebbe inequivocabilmente al rinvenimento di un fatto di diffamazione, come nel caso di uno scritto offensivo comparso su un sito web, potrebbe risultare travisata la logica che tradizionalmente presiede alla differente offensività delle due fattispecie: anche nel caso di comunicazione via web, infatti, il soggetto passivo sarebbe in grado di reagire all’offesa con gli stessi mezzi utilizzati dal soggetto agente (5). (5) Stando a quanto affermato dal ‘‘Green Paper’’ sulla protezione dei minori e sulla dignità umana nei sistemi audiovisivi e d’informazione, approvato dalla Commissione Europea il 16 ottobre 1996, e reperibile all’indirizzo http://www2.echo.lu/legal/en/Internet/content/gpen-toc.html, due sono le principali differenze rilevate rispetto ai comuni media: la prima consta nel passaggio da un modello di tipo editoriale ad un modello di comunicazione nuovo, di tipo interattivo. Nonostante, infatti, il modello editoriale di base permanga, si tratta comunque di materiale pubblicato, edito in un determinato sito, il modello interattivo costituisce un arricchimento, in quanto ‘‘ogni utente diventa un potenziale editore di materiale’’. Il che, in pratica, aumenta esponenzialmente le possibilità non solo di creazione dei testi e delle immagini ma, soprattutto, della loro diffusione nell’ambiente telematico. In secondo luogo si assiste al passaggio da servizi di tipo nazionale a network diffusi in tutto il mondo. Un fenomeno parallelo, in realtà si verifica anche nel settore delle telecomunicazioni
— 621 — 2.2. Un tentativo di rielaborazione dei concetti di presenza e assenza della persona offesa. — Ferme restando le conclusioni raggiunte nel paragrafo precedente, le quali indubitabilmente impongono, in ossequio al dettato normativo, di verificare le possibilità di applicazione del reato di ingiuria ad Internet per mezzo del secondo comma dell’art. 594, ma dalle quali comunque emergono alcune possibili lacune di questa norma se letta alla luce dell’ambiente virtuale, si potrebbe tentare, in un’ottica de jure condendo e per puro spirito di comparazione, una rielaborazione dei concetti di presenza e assenza facendo leva sul dato sostanziale che distingue le fattispecie di ingiuria e di diffamazione e cioè sulla maggiore o minore potenzialità lesiva della condotta, con un procedimento analogo a quello che è stato seguito da una parte della dottrina di area anglosassone. In quest’area del diritto la diffamazione corrisponde ad un concetto unitario, la defamation, che può essere messo in atto con due forme, il libel o lo slander. La comunicazione diffamatoria è definita come una comunicazione che nuoce alla reputazione di un soggetto in modo da ridurre la stima di cui gode nella comunità o da scoraggiare terzi dall’associarsi o mettersi in affari con lui. Quello che qui interessa sono però le due forme dell’atto diffamatorio che ne consentono una graduazione in termini di maggiore o minore offensività: la pubblicazione può avvenire con la forma transitoria e temporanea di un atto orale (slander) oppure con quella permanente e duratura di un atto scritto (libel). Questa seconda forma è maggiormente offensiva non solo perché implica una premeditazione ma anche perché è suscettibile di riproduzione e quindi di ulteriore divulgazione. La dottrina americana che si è interessata alla possibilità di applicare questi concetti ad Internet è pervenuta a soluzioni diverse: secondo un ma, con una grande differenza: Internet, infatti, pur avendo una dimensione definibile ‘‘internazionale’’ gode di una struttura che ne rende l’isolamento in un particolare settore geografico virtualmente impossibile. Correlativamente al cambiamento della struttura dello strumento utilizzato per comunicare cambiano anche le caratteristiche del materiale oggetto di comunicazione: si passa da un modello lineare, tipico del materiale di tipo televisivo, in cui ogni programma è visto dall’inizio alla fine, ad un modello con architettura più complessa nella quale il passaggio da un argomento all’altro è più libero, poiché l’utente stesso può interagire con il documento. Inoltre, da materiali di natura chiaramente definibile, come i film, i documentari, la pubblicità, le notizie di attualità, si passa a forme di materiale ibride, difficilmente catalogabili: uno stesso documento può contenere pubblicità, documentazione ed elementi di svago senza che sia possibile scindere un contenuto dagli altri. Ancora, Internet permette la manipolazione del materiale da parte dell’utente, la sua trasformazione in materiale nuovo e, come detto in precedenza, la sua distribuzione on line con pressappoco le stesse potenzialità di divulgazione di chiunque altro. Infine la capacità tecnica, minima ma indispensabile per accedere alla rete e, soprattutto, ‘‘la necessità di effettuare passi lungo la navigazione per giungere all’argomento desiderato suggeriscono come sia praticamente impossibile imbattersi per caso in materiale indesiderato’’.
— 622 — primo orientamento, avallato da alcune Corti (6), la comunicazione virtuale impone la disapplicazione del concetto di slander e, quindi, il ritorno al concetto unitario di defamation sempre caratterizzato dall’uso della forma scritta. Secondo un’altra tesi (7), più orientata verso il mantenimento della graduazione di offensività offerta dalle due forme, è possibile mantenere la distinzione prescindendo dallo stretto dato letterale e salvandone invece il contenuto sostanziale; si potrebbe, cioè, ancora distinguere tra una forma di offesa che è temporanea ed una che è perdurante, nel nostro caso, tra una lunga o una breve permanenza dell’atto diffamatorio sul web. Avrebbe quindi i connotati di un libel la pubblicazione di un file su un sito Internet oppure la lunga permanenza di un post in un forum di discussione; sarebbe invece uno slander un messaggio comparso isolatamente in un newsgroup (8). Questo secondo orientamento mi sembra condivisibile nei limiti in cui enuclea dal dato prettamente ‘‘legale’’ un concetto sostanziale e lo applica ad Internet: dimostra come anche nel nostro ordinamento si dovrebbe tentare di mantenere una distinta applicazione delle fattispecie di ingiuria e di diffamazione interpretando il concetto di presenza o assenza della persona offesa. Non penso tuttavia che i risultati a cui perviene siano completamente sovrapponibili a quelli ai quali si perverrebbe da noi effettuando un analogo procedimento. Il nostro dato legale sembra orientato verso una distinzione fra diffamazione e ingiuria basato essenzialmente sulla possibilità o meno della divulgazione, intesa come percepibilità dello scritto offensivo da parte di un numero indeterminato di persone e, correlativamente, sulla possibilità o meno che il soggetto passivo reagisca all’offesa che gli è stata inferta. Ma, mentre nella realtà l’utilizzo di mezzi dotati di ampie possibilità di divulgazione è, per lo più, appannaggio di pochi soggetti, su Internet un (6) Ad esempio, Dun & Bradstreet, Inc. v. Greenmoss Builders, Inc. 472 U.S. 749 (1985). (7) D. LOUNDY, E-Law: Computer information systems law and system operator liability revisited, 1994, p. 7 s., ftp://infolib.murdoch.edu.au/pub/subj/law/jnl/elaw/refereed/loundy.txt. (8) Come appena sottolineato, le conclusioni raggiunte da Loundy non sono affatto pacifiche; alcuni, anzi, pur ammettendo che la distinzione fra libel e slander tuttora esista, negano l’applicabilità del concetto di slander al messaggio diffamatorio postato su BBS, anche isolatamente. Secondo J.R. KAHN, Defamation liability of computerized bulletin board operators and problems of proof, 1989, p. 9 s., http://www.eff.org, le quattro caratteristiche che, negli anni, sono state attribuite al libel, come forma di diffamazione scritta, per connotarlo in senso maggiormente offensivo (premeditazione, rilevante impatto sulla persona offesa, permanenza, ampia capacità divulgativa), sono perfettamente rinvenibili nel dialogo via BBS.
— 623 — qualunque utente che sia in possesso delle conoscenze minime di funzionamento della rete può far uso dei mezzi anche più divulgativi. In questo ambiente la presenza fisica o virtuale della persona offesa perde importanza, sfuma, per lasciare posto ad una comunità indefinita e vasta che è indistintamente messa nelle condizioni di ricevere la notizia diffamatoria. Il destinatario potenziale della notizia è diverso e questo suggerisce di valutare, come elemento discriminante fra le due ipotesi, non tanto il fatto che la persona offesa sia immediata destinataria della notizia, quanto la capacità divulgativa stessa di cui gode lo strumento che in Internet è utilizzato per comunicarla. Ragionando in questi termini si ottengono risultati diversi sia da quelli a cui perviene la dottrina statunitense, sia da quelli ai quali si perverrebbe, come si vedrà in seguito, applicando una stretta interpretazione delle norme del nostro codice. Un esempio: la comunicazione in una chat line è del tutto equiparabile, se si ha riguardo a due soli soggetti, ad una chiacchierata fra amici presenti. Non si ha di certo una fisica presenza, ma l’immediatezza e la velocità del dialogo hanno le caratteristiche di uno scambio di opinioni reale. Una frase che offenda l’onore o il decoro dell’interlocutore dovrebbe costituire, secondo l’art. 594, un’ingiuria e, secondo la dottrina americana appena citata, uno slander. Nel caso in cui, però, il canale contenesse contemporaneamente centinaia di persone, la capacità divulgativa di una singola frase aumenterebbe fino a rendere possibile la configurazione della più grave ipotesi di diffamazione (tenendo presenti, ovviamente, le modalità concrete della condotta e il tipo di offesa recata). Il dialogo in sé, tuttavia, conserverebbe comunque un carattere transitorio ed effimero così da rendere impossibile, alla luce del criterio statunitense, la configurazione di un libel. Analogamente nel caso di una pubblicazione su sito web che alla luce delle nostre norme e ragionando in base alla minore o maggiore divulgatività del mezzo di comunicazione utilizzato, costituirebbe una diffamazione anche se le pagine avessero vita breve e fossero, per esempio, rimosse dal sito dopo pochi giorni. Il criterio elaborato dalla dottrina americana potrebbe invece permettere in quest’ultima ipotesi la configurazione di uno slander. 2.3. Le condotte equiparate alla presenza. Il forum di discussione: distinzione fra ingiuria aggravata dalla presenza di più persone e diffamazione. — Il secondo comma dell’art. 594 emerge come norma centrale nell’applicazione del reato di ingiuria ad Internet, data la già evidenziata impossibilità di rinvenire una presenza ‘‘fisica’’ del soggetto passivo in questo ambiente. In generale, la norma, equiparando alla comunicazione fra presenti quella che avviene mediante il telefono o il telegrafo, oppure con scritti o
— 624 — disegni, diretti alla persona offesa, amplia il concetto di presenza permettendo di definirlo ‘‘non necessariamente come contiguità spaziale o come reciproca visione tra soggetto attivo e soggetto passivo’’ (9). È da sottolineare, del resto, come l’inciso, ‘‘diretti alla persona offesa’’, riferito agli scritti e ai disegni ed evidentemente sottinteso con riguardo al telefono e al telegrafo, assuma notevole importanza nell’ambito della comunicazione virtuale. A prescindere dall’ovvia applicabilità della norma alla comunicazione via chat (che per la sua immediatezza e riservatezza riproduce con evidenza alcune delle caratteristiche più peculiari di un dialogo fra presenti) e dalla sua altrettanto ovvia inapplicabilità, almeno nella generalità dei casi, alla comunicazione via web, è infatti possibile che su Internet, facendo uso della posta elettronica e frequentando un gruppo di discussione, uno scritto risulti diretto contemporaneamente alla persona offesa e ad altri destinatari. Con delle precisazioni: una mail spedita ad una mailing list (10) (o ad un newsgroup, la distinzione in questo caso è irrilevante) è diretta alla mailing list, in senso tecnico (l’indirizzo virtuale è quello della mailing list), ma sia tecnicamente, sia sostanzialmente, essa è contemporaneamente diretta a tutti gli iscritti alla mailing list e può essere specificamente rivolta ad uno in particolare di essi a seconda del suo contenuto. La mail infatti, non appena perviene all’indirizzo della mailing list, viene ridestinata automaticamente a tutti gli iscritti, viene cioè rispedita ai loro personali indirizzi, e quindi risulta indubbiamente e sempre diretta ad ognuno di loro. Non si può tuttavia affermare sempre che sia diretta ad uno in particolare di loro, in quanto il dialogo in mailing list è specificamente predisposto per coinvolgere contemporaneamente più persone. Essa può risultare diretta ad uno e non ad altri in conseguenza del suo (9) Cass. pen., Sez. V, 11 dicembre 1975, n. 131429. (10) Penso, del resto, che anche il nostro codice si muova in una interpretazione di tipo sostanziale delle parole scritti o disegni diretti alla persona offesa, non riferendosi, cioè, a scritti spediti o inviati o comunque connotati da un sigillo di forma che ne attesti la destinazione. Avrebbe altrimenti parlato di corrispondenza e in questo caso si sarebbe posto il problema della necessità o meno della sua segretezza, visto che una mail postata in una mailing list o in un newsgroup questo connotato certo non ha. Queste conclusioni sono poi del tutto in linea la dottrina oggi dominante che configura il reato di ingiuria come un reato a forma libera, nel quale la modalità o il mezzo di trasmissione del pensiero non sono considerate elemento costitutivo. Orientamento confortato dal testo stesso del codice penale, al primo e al secondo comma dell’art. 594, il quale evidentemente non distingue, in termini di rilevanza penale, fra ingiuria scritta oppure verbale. Ne discende la sterilità o quanto meno la non rilevanza della discussone in merito alla configurabilità di un’ingiuria scritta o verbale con riferimento all’ambiente virtuale. Si potrebbe infatti discutere se questa o quell’occasione di dialogo su Internet fossero o meno equiparabili ad un dialogo verbale, in particolare per la loro immediatezza ma, risultando le due condotte ugualmente punite dal legislatore, la distinzione risulterebbe priva di rilevanza.
— 625 — contenuto o anche dell’andamento del thread (11): può contenere un riferimento specifico ad un utente o a quello che un utente ha detto. In questo caso potrebbe risultare diretta specificamente a quell’utente e idonea a contenere affermazioni ingiuriose. La questione, com’è ovvio, non è priva di rilevanza poiché la presenza contemporanea di più persone all’interno della mailing list potrebbe implicare non solo l’aggravio di pena previsto nel caso in cui l’ingiuria sia commessa in presenza di più persone, ma anche l’applicabilità della più grave ipotesi di diffamazione. Nell’ipotesi di diffamazione a mezzo di lettera inviata a più persone, la giurisprudenza infatti afferma che ‘‘concorre il reato di ingiuria, qualora la missiva venga inviata anche alla persona offesa’’ (12). Innanzitutto, è evidente che la Cassazione si riferisce al tipo di lettera ‘‘cartacea’’, con due precisazioni relative al caso specifico: essa è inviata distintamente a più persone e quindi costituisce una diffamazione ma, contemporaneamente, è inviata alla persona offesa, e quindi costituisce anche un’ingiuria, assumendo le caratteristiche di uno ‘‘scritto, diretto alla persona offesa’’. I due reati, secondo l’impostazione della Corte, concorrono. Nell’ambito della comunicazione virtuale via e-mail, la forma di invio e di ricezione della missiva non è sempre univoca, come nell’ipotesi suddetta. Possiamo avere infatti ed esemplificando, almeno due casi: uno, in cui l’e-mail sia inviata direttamente al destinatario e contemporaneamente ad altri soggetti, distintamente, oppure un altro in cui l’e-mail sia inviata in un forum di discussione o in una mailing list, con lo stesso risultato di giungere a conoscenza del destinatario e contemporaneamente di altri soggetti, ma con una forma di trasmissione molto diversa. Nel primo caso, e cioè nell’ipotesi di normale scambio di posta elettronica, si potrebbero verificare specularmente le circostanze delineate dalla Cassazione. Si avrebbe quindi un concorso fra diffamazione e ingiuria, a nulla rilevando le modalità di compilazione formale dell’e-mail, e cioè il fatto che essa sia spedita, come nella realtà, distintamente a più soggetti, compresa la persona offesa, oppure agli stessi soggetti ma contemporaneamente, facendo figurare l’indirizzo di ognuno nella mail. In quest’ipotesi sarebbe semplicemente più agevole per la persona offesa giungere a conoscenza della diffamazione ma il dato sostanziale non cambierebbe in quanto l’e-mail sarebbe stata comunque inviata specificamente a soggetti distinti. Nel secondo caso, invece, le circostanze possono essere valutate di(11) Il thread rappresenta la sequenza (il ‘‘filo’’) dei messaggi postati in mailing list o newsgroup che seguono uno stesso argomento. (12) Cass. pen., Sez. V, 6 ottobre 1983, in Giust. pen., 1984, II, 415, 367.
— 626 — versamente. In particolare ci si può chiedere se l’e-mail inviata in un forum possieda ancora le caratteristiche principali di una lettera cartacea, rinvenibili quanto meno nella segretezza, e cioè nella possibilità di escludere terzi dalla lettura, e anche nella formale unicità del destinatario: una lettera cartacea, anche se è inviata contemporaneamente a più soggetti, viene letta da tutti distintamente, perché ciascuno la riceve personalmente. L’e-mail inviata in un forum non possiede invece queste caratteristiche: è leggibile contemporaneamente da tutti gli iscritti ed è destinata contemporaneamente a tutti gli iscritti. Assumendo quindi come punto fermo la non equiparabilità fra e-mail inviata in mailing list e lettera cartacea e volendo comunque fornire una definizione della comunicazione effettuata con questo strumento, si potrebbe concludere per la sua assimilabilità ad un dialogo fra presenti, individuando nella mail inviata al gruppo di discussione uno ‘‘scritto’’ del tipo di quelli citati dal secondo comma dell’art. 594. Con queste conseguenze: se la persona offesa fosse iscritta al forum, e la mail fosse ‘‘diretta’’ ad essa, nelle modalità prima accennate (13), si potrebbe configurare un’ingiuria aggravata dalla presenza di più persone e non un concorso fra diffamazione e ingiuria. La conclusione potrebbe apparire iniqua poiché, a differenza del caso di più lettere offensive inviate al soggetto passivo e contemporaneamente ad altri soggetti, fatto più grave di una semplice ingiuria perché connotato dalla diffusione, la comunicazione dello stesso messaggio in un gruppo di discussione può risultare estremamente più dannosa in ragione, non solo, del numero maggiore di ascoltatori ma anche della possibilità, a causa delle repliche degli altri iscritti, che l’offesa si acuisca e si protragga nel tempo. Peraltro, analizzando il caso concreto, la mail inviata al forum, benché configurata come uno ‘‘scritto’’, potrebbe non risultare ‘‘diretta’’ ad uno specifico destinatario, nel senso del secondo comma dell’art. 594. Nel caso del forum di discussione, infatti, non è evidente quanto lo è nella realtà la distinzione fra uno scritto che sia specificamente indirizzato ad un determinato soggetto e solo incidentalmente letto da altri e uno scritto che sia, al contrario, specificamente diretto ad una pluralità di persone e solo incidentalmente letto dal soggetto interessato. Nel caso di specie, infatti, si potrebbe configurare una diffamazione ove, ad esempio, la mail contenesse un’affermazione offensiva riferita ad un altro iscritto ma non specificamente originata dal suo messaggio o diretta alla sua attenzione. (13) Si era in precedenza affermato che anche una mail postata in gruppo di discussione potesse ritenersi diretta ad uno specifico soggetto e non ad altri in ragione, ad esempio, del suo contenuto o dell’andamento del thread.
— 627 — Anche in questo caso, tuttavia, senza ancora entrare nella questione se Internet, o certi settori di esso, siano inquadrabili nell’ambito di quegli ‘‘altri mezzi di pubblicità’’ che, se utilizzati, aggravano la diffamazione, la pena applicabile sarebbe più lieve di quella che si potrebbe applicare nel caso, a mio avviso meno offensivo, di lettera cartacea inviata al soggetto passivo e contemporaneamente ma distintamente ad altri soggetti, nel quale la giurisprudenza poc’anzi citata rinveniva un’ipotesi di concorso fra diffamazione e ingiuria. 3.1. Consapevolezza di offendere l’altrui onore, decoro o reputazione: l’ambiente virtuale come punto di riferimento. In particolare, la netiquette e i forum moderati. — La dottrina è attestata (14) sulla qualificazione di ingiuria e diffamazione come reati a dolo generico che abbia come elementi integrativi la volontà, com’è ovvio, della condotta, unita alla consapevolezza della capacità offensiva delle parole dette o scritte e della presenza dell’offeso, nel caso di ingiuria o della divulgazione, nel caso di diffamazione (15). La capacità offensiva dovrà essere valutata in relazione allo specifico bene giuridico protetto, l’onore o il decoro, nell’ipotesi di cui all’art. 594, e la reputazione, in quella di cui all’art. 595; nel caso di ingiuria, infine, la necessaria consapevolezza della presenza dell’offeso implica, a contrario e distinguendo dal reato di diffamazione, che il soggetto agente non abbia anche la consapevolezza della divulgabilità delle proprie frasi. Nell’area virtuale il primo di questi elementi (la consapevolezza della capacità offensiva delle proprie parole) potrebbe portare ad una restrizione dell’area punibile sia a titolo di ingiuria che a titolo di diffamazione, in quanto lo schermo offerto dal computer nel dialogo, la lontananza fra le persone, la mancanza di punti di riferimento visivi o sonori spesso inducono ad un’attenuazione della sensibilità alle offese, ad una minore capacità di valutare le conseguenze delle proprie affermazioni; ciò non toglie che si debba cercare di individuare qualche elemento idoneo a ritenere sussistente il dolo, per esempio con riguardo ai forum di discussione e alle regole che gli utenti stessi generalmente si danno per il loro corretto funzionamento. (14) F. ANTOLISEI, op. cit., p. 187 s.; P. NUVOLONE, op. cit.; in senso difforme, a favore della necessità di un animus diffamandi o iniuriandi, FLORIAN, Ingiuria e diffamazione, Milano, 1939. (15) Per la giurisprudenza, ad esempio, Cass. pen., 15 ottobre 1987, in Riv. pen., 1989, 418; Id., Sez. V, 7 novembre 1984, in Giust. pen., 1985, II, 472, 511; Id., 12 maggio 1983, in Riv. pen., 1984, 343; pure a favore del dolo generico ma nel senso che sia sufficiente la ‘‘volontà dell’agente di usare espressioni offensive, con la consapevolezza di offendere l’altrui onore o reputazione’’, Cass. pen., Sez. VI, 14 ottobre 1975, in Giust. pen., 1976, II, 131; contra, nel senso della necessità di uno specifico animus, Cass. pen., 17 marzo 1978, in Riv. pen., 1978, 980.
— 628 — È necessaria a questo riguardo una premessa sulle regole comportamentali vigenti nell’area virtuale, su quello che potrebbe essere denominato il diritto di Internet, nel suo senso più proprio. Queste regole possono assumere varie forme, prima fra tutte la cosiddetta netiquette, per solito riassunta nella forma di un elenco di FAQ (Frequently Asked Questions). Si tratta di un vero e proprio codice di autoregolamentazione a carattere volontario e quindi non legislativamente vincolante ma estremamente diffuso ed osservato nell’ambiente virtuale, il quale detta regole comportamentali idonee a suggerire una condotta educata e rispettosa nella generalità delle attività svolte in rete. È facile e contemporaneamente auspicabile giungere a conoscenza durante la navigazione di documenti che raccolgano regole di netiquette in quanto l’utente, per solito piuttosto spaesato se è al suo primo approccio, ottiene un’indicazione generalmente condivisa su ciò che è considerato scorretto dagli altri utenti. Queste regole, poi, che sono riferite alla rete in generale, sono state integrate da ulteriori ‘‘codici’’, anche con impronta di tipo deontologico, come le AUP, Acceptable Use Policies, spesso elaborate in ambienti più ristretti e specifici, come ad esempio nell’ambito di operatori dello stesso settore e contenenti indicazioni sugli usi che sono considerati ammessi e non sconvenienti. Anche i forum di discussione frequentemente adottano norme di autoregolamentazione specifiche destinate a valere per tutti gli utenti che vi accedono. Sono norme in genere elaborate dai gestori del forum, ma possono anche essere decise a maggioranza fra gli utenti che per primi si sono iscritti, assumendo alla lontana la veste dei fondatori. Queste regole, per solito, contengono un rinvio alla netiquette ed ulteriori norme comportamentali relative allo specifico ambiente, ad esempio sulle modalità di invio dei messaggi o sulla forma che essi devono avere o anche sul loro contenuto. Usualmente contengono anche delle specie di sanzioni che ne garantiscono l’osservanza e che vengono in genere applicate da uno o più soggetti i quali assumono la veste di moderatori della lista. Il moderatore ha il compito di garantire che i toni della discussione si mantengano su livelli accettabili, che i messaggi vengano inviati secondo le modalità prescritte, in pratica che vengano rispettate le regole anzidette le quali, a questo fine, vengono inviate a ciascun utente all’atto della sua richiesta di ingresso nella lista. Se le regole non vengono osservate, il moderatore potrà adottare un rimprovero verbale, oppure decidere di non pubblicare il messaggio spedito, oppure anche escludere l’utente dal forum. Si può quindi ritenere, per quello che qui importa, che se un utente ha ricevuto un file contenente regole comportamentali che comprendano anche l’indicazione di ciò che all’interno dell’ambiente nel quale si sta per inserire verrà qualificato o percepito come una condotta ingiuriosa, l’utente stesso abbia la consapevolezza della portata offensiva che le sue pa-
— 629 — role potranno avere nei confronti degli altri utenti; in modo analogo si potrebbe concludere se l’utente fosse stato avvertito o rimproverato da un moderatore in merito a certe sue affermazioni ed egli le avesse tuttavia reiterate. Quanto meno, il giudice dovrebbe tenere conto dell’esistenza o meno di queste regole e della conoscenza o conoscibilità che l’utente ne aveva, sempre tenendo presente che non tutti i forum hanno delle regole comportamentali, non tutti hanno un moderatore e non tutti hanno il carattere selettivo appena descritto. A parere di alcuni (16), inoltre, le stesse regole di netiquette, benché prive della forza cogente delle norme legislative, potrebbero assumere la qualifica di vere e proprie norme consuetudinarie dell’ambiente virtuale, nei limiti in cui ne fosse riconosciuta l’osservanza generalizzata e se si provasse che esse sono ritenute vincolanti dalla generalità degli utenti. Esse potrebbero quindi divenire un efficace strumento di valutazione per il giudice. Ulteriori elementi idonei a ritenere sussistente il dolo potrebbero discendere, e sempre con riferimento al forum, dalla natura della discussione e dal livello di professionalità richiesta nel dialogo. Anche quando questi elementi non fossero suggeriti al soggetto agente da un insieme di regole, essi dovrebbero comunque risultare con chiarezza all’atto dell’iscrizione, magari sulla pagina del sito che contiene il link al gruppo di discussione, oppure divenire chiari in seguito, dopo la lettura di qualche messaggio. 3.2. Consapevolezza della presenza dell’offeso, nel caso di ingiuria e volontà della propagazione, nel caso di diffamazione. E-mail e comunicazione con più persone. — La seconda componente del dolo, definita, nel caso di ingiuria, come la consapevolezza della presenza dell’offeso o anche, distinguendo dalla diffamazione, come la non consapevolezza dell’attitudine che le affermazioni fatte hanno a propagarsi, potrebbe indurre ad una restrizione dell’ambito applicativo dell’art. 594 e ad un ampliamento di quello dell’art. 595: ogni frase, infatti, anche quelle scambiate su IRC, e cioè con lo strumento che più assomiglia alla comunicazione reale, può essere salvata e successivamente riprodotta e divulgata. Per evitare l’eccessivo abbassamento della soglia di punibilità a titolo di diffamazione bisognerebbe valutare rigorosamente e caso per caso questo aspetto dell’elemento psicologico, assumendo magari come punto di riferimento lo stesso ambiente virtuale: non si può ragionevolmente ritenere che un utente impegnato in un dialogo via IRC sia consapevole, a livello di dolo, che le sue controparti possano dare alle stampe quanto egli sta affermando, in quanto ci si aspetterebbe da lui una valutazione che non coinvolge più solamente l’ambiente virtuale nel quale si sta muo(16)
O. TORRANI e S. PARISE, Internet e diritto, 1998, Il Sole-24 Ore, p. 13.
— 630 — vendo ma anche quello reale. Sarebbe invece più logico ritenere sussistente la consapevolezza di cui si parla se si facesse riferimento ad esempio al numero degli utenti che in quel momento stanno chiacchierando sullo stesso canale di IRC: il soggetto agente è sempre e necessariamente al corrente di questo dato, in quanto gli viene automaticamente comunicato dal programma che sta usando e con estrema precisione (i nomi degli utenti che entrano ed escono dal canale sono sempre visibili nella finestra che è aperta sul dialogo in corso). Come affermato in precedenza, del resto, la stessa capacità divulgativa oggettiva della quale dispone uno strumento di comunicazione via Internet dovrebbe essere valutata con preminente riferimento all’ambiente virtuale. Si dovrebbe cioè porre attenzione alla potenzialità che le frasi hanno di propagarsi su Internet e non nell’ambiente reale, o almeno, non solo nell’ambiente reale. Nel caso di diffamazione, invece, la volontà dell’azione tipica, prevista dalla norma, deve estendersi anche alla consapevolezza della propagabilità delle affermazioni offensive: ‘‘è necessario che l’autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona, ma con tali modalità che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri’’ (17). Su queste basi, si esclude che la comunicazione diretta in busta chiusa integri il delitto di diffamazione, poiché l’eventuale conoscenza da parte di persona diversa dal destinatario non è voluta dallo scrivente (18). Sulla stessa linea si afferma che, nel caso di un reclamo offensivo presentato personalmente ad un’autorità, è indubbia la sussistenza dell’estremo della comunicazione a più persone in quanto il reclamante sa, e non può non sapere, che più persone prenderanno conoscenza del proposto reclamo; non sussiste invece la diffamazione, poiché l’agente non vuole la comunicazione a più persone, quando il ricorso sia diretto personalmente ad un determinato titolare di un ufficio (19). Spostando l’angolo visuale sull’ambiente virtuale, se è indubbio che pubblicare un proprio articolo o un testo o un’immagine su un sito web sottintenda la consapevolezza della comunicazione con più persone e cioè della divulgabilità dello scritto, a queste conclusioni non si può pervenire con lo stesso grado di certezza nel caso di spedizione di un’e-mail con contenuto diffamatorio. La questione coinvolge i problemi relativi ai delitti in tema di inviolabilità della segreti e cioè la questione se l’e-mail sia equiparabile alla co(17) Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 1983, in Giust. pen., 1984, II, 103; Id., 11 novembre 1983, in Giust. pen., 1984, II, 472, 512; Id., 18 maggio 1988, in Riv. pen., 1989, 241; Id., 14 gennaio 1993, in Giust. pen., 1994, II, 28. (18) Cass. pen., 22 novembre 1988, in Riv. pen., 1989, 1077. (19) Cass. pen., 17 febbraio 1989, in Riv. pen., 1990, 116.
— 631 — mune missiva quanto alla sua segretezza (20). Se alla questione si desse risposta positiva, si potrebbe convenire nel senso della non configurabilità del reato di diffamazione per mancanza del dolo, e cioè di quell’aspetto del dolo che coinvolge appunto la consapevolezza della divulgabilità delle proprie offese, la volontà di comunicare con almeno un’altra persona oltre al destinatario della lettera. L’ipotesi dell’e-mail sarebbe cioè sovrapponibile a quella, appena considerata, della busta chiusa ovvero della spedizione di un testo direttamente alla persona del destinatario. Nel soggetto agente si potrebbe, infatti, presupporre la consapevolezza della segretezza della propria lettera e quindi della unidirezionalità e non divulgabilità della propria offesa. Con una diversa impostazione, si potrebbe invece sostenere che l’email non avesse i connotati di una normale missiva, in quanto, nel momento in cui staziona sul server, dopo che è stata spedita e prima di essere scaricata dal destinatario, può essere letta da terzi. Tuttavia, far discendere da ciò qualunque altra conclusione che non si limiti ad affermare la non completa sicurezza dello scambio di informazioni via mail (21) sarebbe, quanto meno, fuorviante: ben diversa dalla consapevolezza della violabilità del proprio messaggio da parte di un hacker dovrebbe essere la volontà della propagazione dei contenuti del messaggio. 4.1. Aggravante dell’offesa recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità: Internet come mezzo di pubblicità. — Data la peculiare importanza che riveste, ai fini della corretta qualificazione dell’elemento oggettivo del reato, il fatto che lo scritto diffamatorio sia stato divulgato, è opportuno puntualizzare sulla rilevanza che la concreta consistenza numerica degli utenti raggiungibili assume ai fine dell’aggravante in questione. A questo riguardo è stato affermato (22) che l’estensione numerica degli utenti raggiungibili dal messaggio diffamatorio potrebbe alternativa(20) La questione se la posta elettronica sia equiparabile a quella cartacea ai fini della sua assoggettabilità al regime previsto dagli artt. 616 e seguenti del codice penale ha rilevanti implicazioni in tema di possibilità o esigibilità di un controllo da parte di terzi (il service provider, ad esempio) sul suo contenuto. L’argomento fondamentale a favore dell’equiparazione è costituito dal terzo comma dell’art. 616, in base al quale ‘‘Agli effetti delle disposizioni di questa sezione, per corrispondenza si intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza’’. La vaghezza della disposizione non permette, tuttavia, di raggiungere conclusioni certe con riguardo alle altre forme di comunicazione via posta elettronica realizzabili via Internet: le mailing list e i newsgroup. È evidente che una puntualizzazione sul tema da parte del legislatore sarebbe auspicabile, considerando che le norme di cui si tratta sono state introdotte nel 1993 quando, se non proprio inesistente, la diffusione di Internet in Italia era pressoché agli albori. (21) Insicurezza confermata dalla proliferazione dei programmi di crittografia. (22) O. TORRANI e S. PARISE, op. cit., p. 25.
— 632 — mente ‘‘incidere in sede di esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena’’, ai sensi degli artt. 132 e 133 del codice penale, oppure costituire un’aggravante in base all’art. 595, terzo comma. In particolare si sostiene che Internet potrebbe assumere i connotati di un mezzo di pubblicità, inteso come un mezzo di trasmissione del pensiero che ‘‘allarga il raggio di diffusione del fatto offensivo ad una sfera sociale molto ampia, amplificandone il carattere lesivo’’, nel caso, ad esempio, di un forum frequentato da un numero molto elevato di partecipanti. Anche intuitivamente, a mio avviso, si può cogliere l’infondatezza di questo assunto relativamente all’aggravante in questione. Data la potenzialità divulgativa che comunque la comunicazione con più persone richiede, non si può infatti ritenere che un elemento concreto e variabile come la consistenza numerica effettiva delle persone raggiunte dal messaggio possa di per sé fungere da elemento di distinzione fra un mezzo normale di comunicazione e un mezzo di pubblicità. La distinzione, infatti, dovrebbe poggiare su un connotato valutabile aprioristicamente, che qualificasse il mezzo divulgativo utilizzato in base alla sua natura e non al risultato che nel concreto ha sortito. Si può facilmente trarre conferma di questo assunto se si sposta la questione sul piano della qualificazione del mezzo di pubblicità, verificando conseguentemente quando e in che termini il mezzo di comunicazione virtuale possa essere definito come tale. Il problema, del resto, non può non toccare anche la distinzione fra mezzo di pubblicità e mezzo di stampa, essendo il secondo una species del primo, come si ricava dal dettato codicistico (il terzo comma dell’art. 595 fa riferimento al mezzo della stampa o a ‘‘qualsiasi altro mezzo di pubblicità’’), ma dotata di sue caratteristiche peculiari. La prima definizione utile è quella ricavabile dall’art. 1 legge sulla stampa, numero 47 del 1948, ove si afferma che ‘‘sono considerate stampe o stampati... tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione’’. In sede giurisprudenziale, del resto, benché sia data in larga parte per scontata la definizione che qui interessa, si possono ricavare alcuni elementi utili dalle pronunce relative alle contravvenzioni concernenti la vigilanza sui mezzi di pubblicità. In merito all’art. 663-bis (Divulgazione di stampa clandestina) si afferma che l’elemento soggettivo dello stampato deve essere individuato nella destinazione alla pubblicazione e cioè nell’accessibilità ad un numero indeterminato di persone (23). Precisato che la disponibilità dello stampato, attuale per un verso e potenziale per un altro, deve essere di una cerchia teoricamente illimitata di persone, si af(23)
Cass. pen., 11 marzo 1976, in Mass. dec. pen., 1976, m. 132.751.
— 633 — ferma ulteriormente che ‘‘è indifferente che più o meno larga sia la cerchia delle persone cui lo stampato è destinato e che tali persone appartengano o meno ad una certa categoria, così come sono indifferenti il modo della diffusione e il numero degli esemplari a questa destinati’’ (24). Combinando insieme le definizioni legislativa e giurisprudenziale si può quindi concludere che elementi peculiari della stampa o dello stampato, rispettivamente soggettivo e oggettivo, sono la destinazione alla pubblicazione e la riproduzione mediante mezzo tipografico o comunque ottenuta con mezzi similari. In particolare si tratta quindi non di un unico esemplare ma di una pluralità, come un quotidiano o un volantino ciclostilato. Dalle pronunce relative all’art. 663 (Vendita, distribuzione o affissione abusiva di scritti o disegni), si può invece ricavare come il mezzo di pubblicità venga alternativamente individuato nell’appariscente iscrizione sul piano stradale, nella pubblicità o nell’affissione, definita, al limite, come una scritta sul muro in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, eseguita con vernice (25). Residua, quindi, nella definizione del mezzo di pubblicità l’elemento della pubblicazione, la conoscibilità da parte di un numero indeterminato di persone, che rende divulgato o potenzialmente divulgabile anche un unico scritto non meccanicamente riprodotto. È evidente, quindi, anche il rapporto di genere a specie che sussiste fra mezzo di stampa e mezzo di pubblicità: un volantino, se affisso in luogo pubblico, risulta destinato alla conoscenza di terzi (alla pubblicazione), e quindi già ricompreso nell’aggravante in oggetto; assumerebbe l’ulteriore connotato dello stampato solo se fosse anche riprodotto con un mezzo tipografico o similare. Da tutto ciò si possono trarre le seguenti conclusioni: in primo luogo, come affermato in precedenza e come esplicitamente confermato dalla giurisprudenza, l’estensione numerica degli utenti raggiungibili dal messaggio diffamatorio è irrilevante o comunque non decisiva ai fini della configurazione dell’aggravante in questione, la quale può essere individuata solo valutando ex ante il mezzo di divulgazione che è stato utilizzato. Non è quindi il numero dei destinatari potenziali che qualifica il mezzo ma, al contrario, è il mezzo di comunicazione che porta in sé la caratteristica di una maggiore o minore capacità di diffondersi. Quanto affermato è, del resto, ovvio se si considera che altrimenti non si avrebbe un termine univoco e sempre valido di distinzione tra la condotta aggravata (24) Cass. pen., Sez. I, 13 giugno 1973, in Cass. pen. Mass., 1975, 443. (25) Cass. pen., Sez. VI, 28 febbraio 1955, in Giust. pen., 1956, II, 49, 4; Id., 23 gennaio 1961, in Mass. pen., 1961, n. 1410; Id., Sez. III, 8 aprile 1984, in Giust. pen., 1975, II, 321; Id., 2 ottobre 1985, in Riv. giur. polizia locale, 1987, 340.
— 634 — di comunicazione con un mezzo di pubblicità e quella base di comunicazione con più persone. Si può quindi al limite ammettere la validità della teoria citata in precedenza solo per quanto riguarda l’applicabilità dell’art. 133 del codice penale: la valutazione dell’estensione numerica degli utenti raggiungibili può essere soggetta, infatti, solo ad un giudizio discrezionale. E in questo senso, ad esempio, il giudice potrebbe aumentare o diminuire la pena, entro i limiti fissati dalla legge, nel caso in cui lo scritto diffamatorio fosse apparso su un sito più o meno visitato o su un forum di discussione più o meno frequentato. In secondo luogo, e relativamente alla distinzione fra mezzo di pubblicità e mezzo di stampa, si può concludere che Internet non costituisca un mezzo di stampa. Non vi è infatti, nemmeno nel caso della comunicazione maggiormente divulgativa, quella effettuata mediante sito web, il connotato peculiare dello stampato, e cioè la sua riproduzione con mezzo tipografico, meccanico o fisico chimico (26) e sussiste, come è noto, in campo penale, il divieto di analogia in malam partem. Più immediata potrebbe invece apparire la somiglianza con le affissioni appena citate, e cioè con quegli scritti che siano apparsi in luogo pubblico, aperto o esposto al pubblico, se si volesse ammettere che Internet, così come una strada cittadina o il muro di un palazzo, possa costituire quel mezzo di pubblicità idoneo ad aggravare il reato. Con qualche precisazione: sarebbe certo una conclusione possibile e anche congrua, se si considera che, sia a livello potenziale (Internet è uno strumento utilizzato e un ambiente sociale vissuto in tutto il mondo), sia a livello di fatto (gli utenti Internet nel mondo erano nel 1996 più di 24 mi(26) Nello stesso senso V. ZENO-ZENCOVICH, La pretesa estensione alla telematica del regime della stampa, 1998, http://www.beta.it/edit/zencovich.html e S. SEMINARA, op. cit., p. 91 s. Nonostante queste ferme obiezioni di carattere formale e sostanziale, la giurisprudenza tende ad assumere una posizione favorevole all’equiparazione fra Internet e mezzo di stampa. Nell’ordinanza del Tribunale di Bari (Sezione del lavoro, n. 5933, 11 giugno 1998), relativa al progetto di testata telematica ‘‘Mondo Italia’’, si parla dell’home page del sito come ‘‘equivalente ala copertina o alla prima pagina di una comune testata giornalistica’’ e, facendo riferimento al progetto di periodico virtuale, lo si definisce come un ‘‘peculiare giornale telematico, destinato a comparire su un proprio c.d. sito del sistema Internet, caratterizzantesi per la possibilità offerta all’utente di accedere, anche attraverso rimandi c.d. ipertestuali, a prescelti servizi... nonché... di partecipare ed interagire individualmente con la redazione del giornale’’. Queste affermazioni non si arrestano, come potrebbe sembrare opportuno, ad un livello descrittivo ma costituiscono il presupposto per l’affermazione, non solo, dell’assoggettabilità del periodico telematico alla disciplina della stampa (ordinanza del Tribunale di Roma del 6 novembre 1997 relativa alla concessione della registrazione alla rivista ‘‘InterLex’’ come periodico telematico ai sensi dell’art. 5 della l. n. 47 del 1948), ma anche, della responsabilità del provider per omissione di controllo sui contenuti ospitati sul suo server alla stessa stregua di un direttore responsabile di periodico cartaceo (v., ad esempio, le due successive ordinanze del Trib. di Napoli del 18 marzo e dell’8 agosto 1997).
— 635 — lioni), Internet è diffuso molto più di qualunque giornale, ma non dovrebbe, a mio avviso, prescindere da una valutazione dei singoli e peculiari strumenti di comunicazione disponibili on line. In secondo luogo, si dovrebbe approfonditamente analizzare il concetto di mezzo di pubblicità per verificare se le uniche definizioni possibili siano quelle appena citate, o ne esistano delle altre. All’interno del codice, infatti, il termine ‘‘mezzo di pubblicità’’ non ricorre meno frequentemente del termine ‘‘pubblicare’’ o ‘‘pubblicazione’’ o, ancora, ‘‘esporre pubblicamente’’. L’esempio più calzante è quello dell’art. 266 (Istigazione di militari a disobbedire alle leggi), ove è possibile reperire un’esplicita definizione del termine ‘‘pubblicamente’’ come una modalità di compimento del reato che si può concretizzare nell’utilizzo di uno fra i ‘‘mezzi’’ citati: il mezzo della stampa o altro mezzo di propaganda, il luogo pubblico o aperto al pubblico in presenza di più persone, la riunione non privata. Se, quindi, il mezzo della stampa e il luogo pubblico o aperto al pubblico corrispondono contemporaneamente (il primo per via legislativa, all’art. 595, terzo comma; il secondo per interpretazione giurisprudenziale, come dalla sentenza citata relativa all’art. 633-bis) sia alla definizione di mezzo di pubblicità, sia a quella di condotta avvenuta pubblicamente, si può ritenere che fra il mezzo di pubblicità dell’art. 595, terzo comma, e l’avverbio pubblicamente, dell’art. 266, quarto comma, esista un parallelo. Del resto, come si vedrà in seguito, sono numerose le pronunce giurisprudenziali che, per definire le modalità di una condotta pubblica, rinviano al dettato dell’art. 266. Si potrebbe quindi, e in conclusione, effettuare un raffronto fra i mezzi di pubblicità elencati nell’art. 266 e i singoli mezzi di comunicazione disponibili via Internet, per vedere se e quando l’utilizzo di uno di questi ultimi possa integrare l’aggravante del terzo comma dell’art. 595. 4.2. Internet, fra mezzo di pubblicità e condotta avvenuta pubblicamente. Il luogo pubblico o aperto al pubblico e la riunione non privata. — Da un’analisi complessiva del quarto comma dell’art. 266 si può desumere che l’elemento unificante delle singole ipotesi di pubblicazione sia quello già accennato in sede di distinzione fra mezzo di pubblicità e mezzo di stampa, cioè la realizzazione di una comunicazione in modalità tali da farla giungere alla conoscibilità da parte di una pluralità di persone. Ora, se si volesse dare solo questa definizione intuitiva e generica del mezzo di pubblicità si incorrerebbe, in particolar modo con riferimento al reato di diffamazione, in una incongruenza. Non sarebbe, cioè, agevole distinguere fra la condotta base della diffamazione, con riferimento all’elemento oggettivo della comunicazione con più persone e la condotta aggravata. Ho detto, infatti, in precedenza, che la comunicazione con più per-
— 636 — sone è definita dalla giurisprudenza come una comunicazione che coinvolga almeno due persone, anche non simultaneamente e mi sembra che questa definizione, più volte etichettata col termine della divulgazione, possa confondersi abbastanza agevolmente con quella appena individuata di messaggio potenzialmente conoscibile da una pluralità di persone. E non è questa, comunque, una conclusione incongrua se si guarda ex post al risultato delle due condotte, in quanto l’effetto di entrambe potrebbe bene essere lo stesso, una divulgazione. Se si analizza invece la situazione ex ante si può rilevare come il fatto che giustifica l’aggravante sia l’utilizzo di un mezzo che in sé contiene la potenzialità di una maggiore diffusione. Non è, quindi, in conclusione, la definizione di divulgazione il discrimine che si può adottare fra condotta base e condotta aggravata, quanto l’analisi del mezzo che nello specifico è stato utilizzato: un mezzo di pubblicità o un mezzo comune di comunicazione, per sua natura potenzialmente meno idoneo a produrre una diffusione del messaggio su ampia scala. Al di là delle possibilità che in futuro Internet o, meglio, certi settori di esso, vengano inseriti autonomamente nell’elenco del quarto comma dell’art. 266, è quindi necessario confrontare i singoli mezzi comunicativi disponibili on line con gli specifici mezzi di pubblicità contenuti nell’articolo in questione (27). Relativamente al numero 1 del quarto comma dell’art. 266, si può rinviare a quanto detto in precedenza in tema di non omogeneità fra Internet e il mezzo di stampa in quanto difetta nella comunicazione virtuale l’elemento della riproduzione con mezzo tipografico o similare. Analogamente, con riguardo al mezzo di propaganda, si può rinviare ai dubbi interpretativi poc’anzi espressi in tema di mezzo di pubblicità: la generica definizione del mezzo di propaganda come ‘‘ogni mezzo di manifestazione del pensiero che, per le circostanze nelle quali è tenuto, è atto ad una generalizzata diffusione’’ dell’offesa (28), non permette, infatti, di distinguere agevolmente la comunicazione avvenuta con questo mezzo dalla divulgazione di cui al primo comma dell’art. 595. Alle stesse conclusioni si può giungere con riguardo al mezzo di propaganda, chiaramente definito come una species del genus, mezzo di (27) V., al riguardo, NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971 e GRASSO, Commento all’art. 266, in Commentario breve al codice penale, a cura di CrespiStella-Zucalà, Padova, 1992, p. 620. (28) VIOLANTE, Istigazione di militari a disobbedire alle leggi, in Enc. dir., XXII, 1972, p. 1009; nel senso che la pubblicità richiesta dal codice penale sia anche una sola pubblicità potenziale e che la nozione di mezzo di propaganda (inteso come ‘‘qualunque mezzo di propagazione, diffusione, divulgazione di idee e concetti’’) coincida perfettamente con quella di mezzo di pubblicità di cui all’art. 595, terzo comma, G. VASSALLI, La nozione di pubblicità in relazione ai mezzi di propaganda, in Giust. pen., 1943, II, 343.
— 637 — stampa (il codice, infatti, parla di mezzo di stampa o ‘‘altro mezzo di propaganda’’). Maggiori problemi suscita invece il numero 2 dello stesso comma, il quale testualmente afferma: ‘‘Agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso... in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone’’. Anche se a prima vista si potrebbe pensare che la presenza di più persone sia alternativa al luogo pubblico o aperto al pubblico, l’analisi del dato letterale e della giurisprudenza in materia porta a ferme conclusioni di segno contrario. Il codice, infatti, dice ‘‘e’’, non ‘‘o’’, come invece nel numero precedente, e le pronunce della Cassazione più volte fanno riferimento alla necessità che il fatto sia commesso ‘‘oltre che in luogo pubblico o aperto al pubblico’’, anche ‘‘in presenza di più persone’’ (29). Detto questo, tuttavia, gli orientamenti non sono unanimi nell’interpretazione generale del testo e, cioè, nella qualificazione del rapporto che deve intercorrere fra il luogo e le persone presenti. In particolare, un primo orientamento fa riferimento alla necessità della mera ‘‘percepibilità da parte di un numero indeterminato di persone’’ (30), mentre un secondo, più aderente al dato testuale, richiede la contestuale presenza, nel luogo pubblico o aperto al pubblico, di almeno due persone (31). La questione non è priva di conseguenze con riguardo ad Internet, soprattutto se si considera che una recente pronuncia a Sezioni unite (32) ha definitivamente propeso per la seconda ipotesi. L’esempio più calzante mi sembra il world wide web. In questo caso, infatti, la presenza solo virtuale delle persone su Internet determina, a mio avviso, un’insanabile discrepanza con la realtà e preclude l’applicazione della norma nella sua interpretazione ormai definitivamente accolta. Mi sembra un caso in cui un’impostazione forse ragionevole in termini ‘‘reali’’ si traduce in conseguenze irragionevoli in termini virtuali. L’interpretazione delle Sezioni unite potrebbe infatti essere giustificata da questo punto di vista: perché la condotta sia avvenuta pubblicamente, non basta il semplice fatto di essersi trovati a comunicare in un luogo accessibile a tutti o ad una determinata categoria di persone; serve anche che almeno due persone (i ‘‘più’’ indicati dal codice) fossero effettivamente presenti. Non basta, cioè, la potenzialità astratta, serve che la presenza di qualche ascoltatore dia ad essa un definitivo riscontro oggettivo. Aderendo a questa impostazione si finirebbe per escludere in pratica dall’applicabilità della norma il world wide web, a meno che non si vo(29) (30) (31) (32)
Cass. pen., Sez. I, 14 luglio 1983, n. 6642. Cass. pen., Sez. I, 16 settembre 1978, n. 419. Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 1988, n. 7827. Cass. pen., Sez. Un., 15 luglio 1992, in Giust. pen., 1993, 295, 231.
— 638 — lesse ammettere che su un sito Internet, accessibile ad una moltitudine di individui, fosse riscontrabile, con un’evidente artificio, la presenza contestuale di almeno due soggetti. La presenza, infatti, in un sito, è un dato estremamente immateriale, essendo il sito composto da immagini, scritti e suoni ai quali non si partecipa, né fisicamente, né virtualmente, come, nella realtà, non si può dire di essere presenti a un quotidiano. A dire il vero, da un punto di vista prettamente tecnico, un certo concetto di presenza esisterebbe; i server, infatti, se correttamente impostati, effettuano una registrazione di tutte le richieste di accesso alle proprie pagine; si tratta dei cosiddetti log degli accessi o log file. Questi file contengono l’indicazione dell’ora della richiesta, dell’indirizzo della macchina richiedente e delle pagine o della pagina alla quale si è avuto accesso. Si potrebbe, quindi, fare uso di questa sorta di controllo ex post per avere oggettive indicazioni di contestuale presenza di alcuni soggetti in un determinato sito, ma non mi sembra che la ratio dell’impostazione giurisprudenziale (come del resto di quella del codice) verrebbe completamente soddisfatta, al di là del fatto che la richiesta di accesso potrebbe anche pervenire da una macchina e non da una persona. Se la ratio dell’aggravio di pena sta, infatti, nell’avere tenuto una condotta in un contesto pubblico non fittizio ma concreto, perché arricchito dall’effettiva presenza di alcuni soggetti, non vedo come questa concretezza si potrebbe ritenere percepita, almeno a livello di colpa in capo al soggetto agente. Ben diversa da una presenza immateriale e verificata successivamente è l’effettiva presenza di ascoltatori richiesta dalla giurisprudenza. Il che sposta il ragionamento sull’opportunità stessa di questo requisito. In poche parole, e ancora considerando l’elemento soggettivo, almeno colposo, previsto per le aggravanti, se il sito web fosse paragonabile al muro di un palazzo, l’avere affisso un manifesto con contenuto diffamatorio sarebbe, a mio avviso, già sintomo della volontà che esso venga a conoscenza di più persone o quanto meno dell’imputabilità a livello di colpa di questo avvenimento, a prescindere dal fatto che ci fossero o meno almeno due persone presenti al momento dell’affissione. Conclusione, del resto, non troppo irragionevole se solo si considerano le altre ipotesi delittuose che implicano una condotta ‘‘pubblica’’ e che non menzionano la presenza di più persone come elemento essenziale (ad esempio, gli atti osceni). Il che introduce un’ulteriore considerazione a favore di un interpretazione, per così dire, sistematica del requisito. In primo luogo, infatti, non si può negare che la norma qui trattata, proprio perché introdotta dalla locuzione ‘‘ai sensi della legge penale’’, al quarto comma dell’art. 266, non valga solo per il reato in rubrica, e cioè per l’istigazione di militari a disobbedire alle legge ma, quantomeno, per tutti quei reati che, alla lettera,
— 639 — richiedono di essere commessi ‘‘pubblicamente’’, segnatamente, tutte le istigazioni previste dal codice. Vi sono tuttavia altri reati che richiedono di essere commessi in contesto pubblico, come gli atti osceni, appena citati, o le molestie alle persone, nella definizione dei quali tuttavia non compare il requisito della pubblicazione, come definita dall’art. 266, ma quello del luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, semplicemente. Come avviene in altri ordinamenti, primo fra tutti quello americano, si potrebbe ritenere che il requisito della contestuale presenza di più persone fosse previsto specificamente solo per il reato di istigazione e non fosse invece astraibile nel più ampio e meno preciso concetto di mezzo di pubblicità. Il che, in pratica, lascia comunque la discussione aperta. Passando ora alla seconda parte del quarto comma, numero 2, dell’art. 266, occorre affrontare la questione se Internet sia definibile come luogo pubblico o aperto al pubblico. Sulla definizione di questi due tipi di luoghi, la giurisprudenza relativa all’art. 266 e a tutte le istigazioni è piuttosto scarsa; mi sembra quindi utile fare riferimento contemporaneamente alle definizioni offerte dalla dottrina pubblicistica e a quelle rinvenibili in sede giurisprudenziale con riferimento al reato di atti osceni. In via generale, il luogo pubblico è definito come un luogo che, per sua natura o per volontà di legge, sia accessibile a tutti (33). Il concetto non è modificato dalle definizioni offerte dalla Cassazione, la quale, infatti, puntualizza preminentemente sulla definizione di luogo aperto al pubblico. In merito ad esso si precisa che la sua qualificazione comporta una preventiva valutazione della situazione di fatto, dalla quale emerga l’inesistenza di interdizioni assolute all’accesso o di divieti di frequenza, anche se occasionale. Più precisamente, quindi, è aperto al pubblico il luogo, anche privato, al quale possa accedere una specifica categoria di persone in possesso di determinati requisiti (34); deve, cioè, sussistere la possibilità giuridica e pratica per un numero indeterminato di soggetti di accedere, senza legittima opposizione di chi, sull’ambiente, eserciti un potere di fatto o di diritto (35). Spostando la discussione in area virtuale e tenendo presente la definizione comune di luogo come uno spazio che sia o possa essere occupato (33) V. CRISAFULLI e L. PALADIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1992, p. 102. (34) Cass. pen., Sez. III, 6 settembre 1984, n. 7227; Id., Sez. III, 13 maggio 1978, n. 5513; alcuni esempi di luoghi considerati aperti al pubblico si possono trarre dalla giurisprudenza relativa all’art. 528, Cass. pen., 10 gennaio 1979, in Riv. pen., 1979, 554; Id., 7 settembre 1989, ivi 1990, 665. (35) Cass. pen., Sez. III, 13 maggio 1978, n. 5513.
— 640 — in senso concreto o in astratto (36), non mi sembra rinvenibile alcuna incompatibilità fra le definizioni appena offerte e i concetti di newsgroup, mailing list e sito web. In primo luogo, infatti, e in generale, non è di ostacolo alla configurabilità del luogo aperto al pubblico il fatto che l’accesso ad Internet non sia indiscriminatamente possibile a chiunque ma sia selezionato, dato che le caratteristiche tecniche o economiche che delimitano la categoria di chi può accedervi sono del tutto paragonabili alle limitazioni che esistono per accedere ad un cinema o ad un teatro (il che, in pratica, imporrebbe sempre e semplicemente di ricorrere al concetto di luogo aperto al pubblico e non a quello di luogo pubblico). Più nel concreto, inoltre, non mi sembra rilevante l’esistenza di forum moderati o con accesso selezionato in base a determinati requisiti, in quanto, in corrispondenza di quei requisiti, la possibilità di accesso è generalmente illimitata. Analoghe considerazioni possono essere svolte con riguardo ai siti web che richiedono una password per accedere alle pagine. Non così, invece, per quanto riguarda i canali chat, nei quali, a mio avviso, si può facilmente instaurare una situazione di fatto simile a quella di un gruppo di amici che si trovano a discutere in un luogo di privata abitazione. È necessario tenere presente le considerazioni già svolte sull’intimità che può assumere un discussione via chat e quindi, si era detto, sulla sua assimilabilità ad una discussione in tempo reale fra persone presenti. Questa caratteristica dei canali ha suggerito di applicare ad essi regole e modalità di gestione che permettano a chi vi dialoga di tutelare, in un certo senso, la propria intimità. Il primo soggetto che entra in un canale, infatti, assume il nome e le funzioni di operator; questo, in primo luogo, lo rende più visibile agli altri soggetti, in quanto viene applicato, a fianco del suo nome, un simbolo, simile alla chioccioletta utilizzata negli indirizzi di posta elettronica e, in secondo luogo, gli conferisce dei poteri, tra i quali quello di ‘‘calciare’’ fuori dal canale un soggetto indesiderato (il comando è kick) o di interdirgli permanentemente l’accesso al canale stesso (con il comando ban), oltre ovviamente al potere di dotare anche altri di queste sue prerogative. È possibile, in pratica, ed è questo che qui più importa, limitare l’accesso ai presenti e precludere a chiunque l’ingresso nella discussione. Il canale chat si presta quindi ad accogliere anche conversazioni estremamente riservate e, di fatto, precluse all’accesso di altri soggetti. In questi casi, tenendo comunque presente che nella generalità delle ipotesi, il canale è liberamente accessibile, non mi sembra che si possa sostenere un parallelo con il luogo aperto al pubblico appena definito; non si tratta, (36) F. PALAZZI, Novissimo dizionario della lingua italiana, Gruppo Editoriale Fabbri.
— 641 — infatti di una situazione simile a quella in cui una maschera costringa un soggetto maleducato a lasciare il teatro, ma piuttosto una situazione paragonabile a quella di un’abitazione privata con la porta ben chiusa a chiave, in modo da precludere a priori l’ingresso di soggetti indesiderati. È infine necessaria una puntualizzazione relativamente al numero 3 del quarto comma dell’art. 266, ove si fa menzione delle riunioni che, per il luogo in cui sono tenute, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di esse, abbiano il carattere di riunioni non private. A questo riguardo e sopperendo alla mancanza di decisioni giurisprudenziali penali utili al fine di qualificare la riunione non privata, mi sembra necessario menzionare il concetto di riunione unanimemente accolto in area pubblicistica, già sufficiente, a mio avviso, ad escludere l’applicabilità di questo concetto nell’ambiente elettronico. La riunione è, infatti, definita come la volontaria compresenza di più persone in uno stesso luogo, anche non specifico, necessariamente intesa come vicinanza materiale che deve sussistere fra le persone. Si precisa, infatti, che l’area di tutela concessa alla riunione e il suo regime giuridico, soprattutto con riguardo ai principi di ordine pubblico, risiedono nel fondamentale interesse dei singoli ad essere fisicamente riuniti (37). Questa puntualizzazione sull’incontro materiale che deve sussistere fra le persone che vogliano dirsi riunite mi sembra elimini in radice la possibilità di un incontro solo virtuale negli ambienti di Internet. Un’ultima considerazione: le conclusioni appena raggiunte sulla possibile configurazione di Internet come mezzo di pubblicità (con le precisazioni e i dubbi già espressi) e, per contro, sulla non applicabilità del concetto di mezzo di stampa portano, a mio avviso, ad una incongruenza. L’ambiente virtuale si sta infatti gradualmente popolando di quotidiani e periodici, editi on line in genere con una formula arricchita rispetto a quella cartacea ma che, nella maggioranza dei casi, comprende anche pagine e articoli disponibili in edicola. È evidente, quindi, come queste conclusioni conducano a problemi giuridici non indifferenti con riguardo, ad esempio, all’applicabilità dell’art. 596-bis, relativo alla responsabilità, fra gli altri, di direttore e vice direttore responsabile. 5. Conclusione. — Assumendo che una possibile distinzione fra i mezzi di comunicazione disponibili on line sia quella basata sulla loro maggiore o minore capacità di diffondere le affermazioni degli utenti, la prima domanda a cui si è tentato di dare risposta è se sia possibile, all’interno di questo panorama, individuare spazi applicativi autonomi per le fattispecie di ingiuria e di diffamazione. La questione non ha sollevato particolari ostacoli sul versante dell’e(37)
V. CRISAFULLI e L. PALADIN, op. cit., p. 107.
— 642 — lemento soggettivo dei due reati, risolvendosi in un problema interpretativo che ha fatto emergere l’importanza delle regole di netiquette come uno dei possibili parametri alla luce dei quali valutare quell’aspetto del dolo che è costituito dalla consapevolezza della capacità offensiva delle proprie parole. Ugualmente si è concluso a favore di una valutazione in termini ‘‘virtuali’’ relativamente al secondo aspetto del dolo costituito dalla consapevolezza della presenza dell’offeso, nel caso di ingiuria, e dalla consapevolezza dell’attitudine che le proprie frasi hanno a propagarsi, nel caso di diffamazione. Dall’analisi dell’elemento oggettivo sono emerse, in primo luogo, le difficoltà nell’applicare il tradizionale criterio di distinzione fra le due fattispecie basato sulla presenza-assenza della persona offesa e, inoltre, nel rinvenire la tradizionale graduazione in termini di offensività, basata sulla possibilità di replica all’offesa da parte del soggetto passivo. La conclusione a favore della centralità del secondo comma dell’art. 594 e non del primo, individuando come elemento discretivo fra diffamazione e ingiuria il fatto che lo scritto sia diretto o meno alla persona offesa, permette di propendere per l’applicabilità dell’ingiuria nel caso di comunicazione via e-mail fra soggetto agente e soggetto passivo (ipotesi indubbia di scritto diretto alla persona offesa) e per l’applicabilità della diffamazione nel caso di comunicazione via web (ipotesi ugualmente incontestabile di comunicazione con più persone) ma è foriera di incongruenze e iniquità se letta alla luce degli altri possibili schemi di comunicazione virtuale. Sarebbe, ad esempio, possibile (come è stato precedentemente dimostrato) qualificare come ingiuria aggravata dalla presenza di più persone l’offesa indirizzata ad uno specifico utente di un’affollata mailing list e come diffamazione la semplice trasmissione di un’offesa riguardante un terzo a due distinti soggetti tramite e-mail (38). Parimenti, un’offesa alla reputazione di un terzo trasmessa via chat potrebbe integrare una diffamazione esattamente come se la stessa offesa fosse divulgata via web. Questi risultati si possono spiegare considerando le differenze che intercorrono fra il tipo di comunicazione sulla base del quale le due norme sono state modellate e il nuovo tipo di comunicazione offerto da Internet: lo scambio di opinioni orale o via telefono o telegrafo o tramite uno scritto sottintende, infatti, a mio avviso, la specificità del destinatario, unico o plurimo, del messaggio. A conferma di ciò, il legislatore ha provveduto a considerare in modo autonomo altri tipi di comunicazione, come ad esempio la stampa, che evidentemente, pur integrando una comunica(38) Come è già stato sottolineato, la Cassazione afferma che la comunicazione con più persone può avvenire anche in momenti diversi, a condizione che il soggetto agente comunichi con un soggetto perché questi, a sua volta, comunichi con altri, ad esempio, Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 1983, cit.
— 643 — zione a più persone, si connotano per la non circoscrivibilità del destinatario. Quindi, se è evidente che nemmeno l’applicazione del secondo comma dell’art. 594 congiuntamente alla clausola di esclusione contenuta nel primo comma dell’art. 595 può risolvere i problemi in materia di distinzione fra ingiuria e diffamazione nella totalità casi i cui un soggetto può trovarsi a comunicare via Internet, bisogna altresì ammettere che Internet si inserisce nella fattispecie di cui all’art. 595, focalizzando l’attenzione sui soli primo e terzo comma, in modo trasversale, avendo i mezzi di comunicazione virtuali elementi da spartire sia con la condotta base, sia con quella aggravata. Infatti, mentre l’invio di un messaggio singolo potrebbe ancora essere inquadrato nel tipo ‘‘tradizionale’’ di comunicazione, la pubblicazione di un file via web possiede sicuramente più elementi in comune col tipo di comunicazione che avviene tramite la stampa, con l’importante differenza costituita dalla possibilità che chiunque pubblichi via web e non solo, semplificando, un giornalista. Da questo punto di vista si può distinguere anche all’interno di quei mezzi che sono stati frequentemente accomunati nel testo sotto il nome di gruppo di discussione: mentre nel caso del newsgroup il messaggio inviato può raggiungere una cerchia teoricamente illimitata di persone, nel caso della mailing list, alla quale, di norma, gli utenti accedono tramite iscrizione, il numero dei lettori è circoscrivibile. Si è quindi cercato di giustificare un inquadramento dell’ambiente virtuale, o di certi settori di esso, nell’aggravante del terzo comma dell’art. 595 ma, anche in questo caso, il problema è rimasto aperto, in attesa di una presa di posizione esplicita da parte del legislatore che qualifichi, ad esempio, il web come mezzo di pubblicità o di propaganda (39). DOTT.SSA LUCIA SCOPINARO
(39) In ragione delle già evidenziate differenze che sussistono fra i singoli mezzi di comunicazione disponibili on line, non sarebbe, invece, equo stabilire che l’intero Internet rientri nelle definizioni di mezzo di pubblicità e di mezzo di propaganda.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
RIFLESSIONI SUL NUOVO SISTEMA PENALE SLOVENO
SOMMARIO: 1. Brevi osservazioni sulla nuova Costituzione. — 2. Linee-guida del nuovo sistema penale. — 3. Concezione formale-materiale del reato. - Nozione di reato. - Fatto di scarsa rilevanza penale. - Cause di giustificazione. — 4. Concezione oggettivo-soggettiva del reato. - Responsabilità penale. - Reato tentato. - Concorso di persone. - Responsabilità penale delle persone giuridiche per i reati. — 5. Sistema sanzionatorio. Considerazioni generali. - Pene principali e pene accessorie. - Commisurazione della pena. a) Cenni generali sulla disciplina relativa alla commisurazione della pena. b) Elementi di riflessione sulla problematica dei criteri finalistici e normativi della commisurazione. — 6. Sanzioni ammonitive. — 7. Misure di sicurezza. 1. Brevi osservazioni sulla nuova Costituzione. — Il nuovo codice penale sloveno rappresenta una tappa significativa del processo di democratizzazione istituzionale avviato in Slovenia nel 1990, le cui radici si possono, però, cogliere in quell’orientamento riformista liberal-democratico emerso già nella Jugoslavia socialista e del quale gli Sloveni sono stati sempre determinati e convinti promotori e sostenitori (1). Nel concepire e nell’edificare l’attuale assetto penalistico, i giuristi sloveni hanno guardato alle principali legislazioni dell’Europa occidentale, in particolare alle codificazioni di Paesi che alla Slovenia sono più vicini per affinità culturale e per tradizione giuridica. Validi ed autorevoli punti di riferimento hanno costituito, dunque, la scienza penalistica tedesca, i modelli giuridici svizzero e svedese, nonché esperienze legislative come quella austriaca, italiana e francese (2). L’impegno di cui sono stati investiti i Redattori del codice e gli operatori giuridici che alla redazione del medesimo hanno contribuito è stato duplice: per un verso si è trattato di riformulare il diritto penale sulla base della più generale riforma istituzionale del Paese; per l’altro verso si è posta la necessità di offrire, sul piano della politica penale, risposte moderne ed efficaci ai numerosi problemi che investono la società civile slovena al pari di altri Paesi europei. Ispiratrice primaria della Commissione che ha redatto il codice è stata la riformata Costituzione; per quanto, infatti, le norme costituzionali in materia penale non siano numerose, tuttavia, l’esistenza di una sorta di tensione ideale tra nuovo sistema penale e nuova Costituzione è innegabile. (1)
Per una ricostruzione storico-politico di questo processo riformista, v. D. FRESCO-
BALDI, Jugoslavia, il suicidio di uno Stato, Firenze, 1991; D. UNGARO, Ethnos e demos. Il
caso degli Slavi del Sud, in Politica ed economia, n. 11/1991, p. 25; ID., Etnonazionalismi, postcomunismo e capitalismo postliberale, in Iter, n. 2-3/1991, p. 169; R. LIZZI, Differenziazione degli interessi e pluralismo politico nel processo di transizione dell’Est Europeo, in Attori del mutamento nell’Est europeo, Milano, 1991, p. 85; J. PIRJEVEC, Il giorno di S. Vito, Jugoslavia 1918-1992 Storia di una tragedia, Torino, 1993; S. BIANCHINI, Il labirinto balcanico, un passato che non passa, in Micro Mega, n. 4/1991, p. 9; V. TAVČAR, Slovenia, il bandolo della matassa, in Politica ed economia, n. 9/1991, p. 22. (2) Cfr. la Motivazione introduttiva al Progetto del Codice (volume non edito).
— 645 — Tale asserto trova riscontro già nella stessa motivazione introduttiva al progetto del codice, laddove, nell’indicare le ragioni che hanno indotto al riordino dell’intera normativa penalistica, la Commissione individuava tra esse, in primo luogo il nuovo ordinamento costituzionale che la Slovenia si è data: da Repubblica socialista (art. 3 Costituzione del 1974) facente parte della Federazione jugoslava a Repubblica democratica (art. 1 Disposizioni generali della Costituzione del 1991), autonoma e indipendente (art. I ‘‘Carta fondamentale sull’autonomia e l’indipendenza’’ premessa alla Costituzione). La codificazione penale odierna è, in altre parole, conseguenza naturale (3) della scelta che ha portato la Slovenia ad optare, sul piano istituzionale, per uno Stato di diritto, aderendo al pluralismo politico ed al sistema parlamentare, tradizionalmente al centro delle democrazie occidentali (4). Se, dunque, sotto il profilo costituzionale, la nuova Carta fondamentale ha abbandonato quella connotazione programmatica che la precedente, invece, manifestava, per aderire a un taglio regolativo (5); sul versante più specificamente penalistico, il Costituente attuale ha ri(3) Tratteggia, in modo molto articolato ed estremamente puntuale, lo strettissimo legame che si può cogliere tra la Costituzione slovena e le previsioni penalistiche del codice, di parte generale e di parte speciale, con riferimenti altrettanto puntuali anche alla Convenzione internazionale dei diritti civili e politici e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, L. BAVCON, in The protection of human rights and fundamental freedoms by criminal law: the case of Slovenia, in Croatian Critical Law Review, vol. 1, nn. 2-3, Zagreb, 1996. Nell’ordinamento italiano, sottolineano la relazione intercorrente tra la struttura del reato prescelta da un dato ordinamento e i principi costituzionali che ‘‘sul terreno dei rapporti tra individuo e autorità, descrivono i tratti salienti dello Stato repubblicano’’, G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di Diritto Penale, 1, Milano, 1995, in particolare, pp. 78-79. L’importanza del rapporto intercorrente tra la Costituzione e il sistema penale è, peraltro, confermata da una copiosa letteratura sull’argomento; si veda M. SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966; ma soprattutto, F. BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Nss.D.I., vol. XIX, Torino, 1973, p. 7 e, in particolare, p. 21 ss.; Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti civili (art. 24-26) e (art. 27-28) nonché Prospettive di riforma del codice penale, Milano, 1996, in cui la riforma del diritto penale viene discussa al Convegno di Saint Vincent del 1994, alla luce dei valori costituzionali dai quali il nuovo codice, frutto della riforma, deve trarre ispirazione e validità; per ‘‘un quadro riassuntivo dei rapporti tra Costituzione e politica legislativa dei beni giuridici, emersi dal dibattito dottrinale e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale’’, significativo, infine, G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, p. 334 ss. (4) Si evince, infatti, dai lavori preparatori, nella motivazione introduttiva del Progetto presentato al Parlamento, che tale opzione è stata determinata dalla ferma decisione di combattere una realtà — quella dissoltasi, assieme ai regimi che la sostenevano, alla fine degli anni ’80 — tormentata da grossolane e vistose violazioni dei più elementari diritti e delle libertà individuali, da attacchi alla dignità umana, dall’abuso del diritto penale a fini ideologici, da uno sproporzionato uso della polizia. Il legislatore sloveno, riferendo, peraltro, queste gravi considerazioni non solo alla situazione della ex-Jugoslavia, ma più in generale a quella del sistema di potere dell’Europa orientale, è venuto, così, a consolidare la convinzione, già radicata da tempo, circa la necessità, improrogabile, di superare, attraverso lo ‘‘strumento’’ della democrazia, lo Stato socialista monopartitico e la grave crisi politica ed economica che da esso è derivata. Obbligata, di conseguenza, anche la revisione del sistema penale. Sul processo di formazione di questo nuovo assetto penale, v. L. BAVCON, La genèse d’un nouveau droit pénal dans les etats post-socialistes. Une revue des principes et de concepts de base, des problèmes et approches, in Crime Policies and the Rule of Law- Problems of Transition (Proceedings of the Pan-European Seminar 17-19 October 1994 Ljubljana), Ljubljana, 1995, p. 81. (5) Scrive S. BARTOLE, in Riforme costituzionali nell’Europa centro-orientale, Bologna, 1993, p. 24, che ‘‘La concentrazione del potere di interpretare la costituzione alla cima della piramide e, di conseguenza, l’identità fra costituzione e decisione dell’organo di vertice privano la normativa costituzionale di quel pluralismo dei destinatari e dei rapporti incisi, in presenza dei quali soltanto può parlarsi di una sua funzione regolativa’’. Sulla necessità
— 646 — nunciato a proclamare postulati penali sostanziali — come, invece, aveva fatto il Costituente socialista, senza, poi, preoccuparsi eccessivamente della loro attuazione concreta (6) — riservando piuttosto una più diffusa trattazione ai principi penalistici di natura processuale (7). I soli principi penali costituzionalizzati espressamente, infatti, sono quelli di legalità e di colpevolezza (8). Il primo ha un riconoscimento esplicito nell’art. 28 — ‘‘principio di legalità nel diritto penale’’ — (9), il secondo è rintracciabile nel testo dell’art. 27, rubricato — ‘‘presunzione di innocenza’’ — (10). La particolare attenzione rivolta alle garanzie del processo trova spiegazione, del resto, nella diffidenza e nei timori generati dai ricorrenti abusi che in passato la magistratura ha commesso, venendo meno, in taluni casi, al rispetto delle libertà fondamentali (11). Non può destare stupore, dunque, che il capitolo centrale della Costituzione, quello disciplinante per l’appunto ‘‘I diritti dell’uomo e le libertà fondamentali’’ sia, tra tutti, il capitolo più ampio, contando ben una cinquantina di articoli — artt. 14/65 — e che le norme poste a tutela dei diritti e delle garanzie che devono accompagnare il cittadino nei procedimenti penali — gli di ribadire il ruolo regolativo della Costituzione, v., inoltre, J. MARKO e T. BORIĆ, in Slowenien - Kroatien - Serbien Die neuen Verfassungen, Böhlau, Wien-Köln-Graz, 1991, pp. 121 e 122, i quali sottolineano che nel nuovo assetto istituzionale sloveno sono stati ripristinati quei meccanismi di diritto costituzionale, riconducibili al concetto di rule of law, finalizzati ad evitare abusi da parte del potere politico e di altri sistemi di potere, o interferenze ingiustificate dei medesimi nella sfera dei singoli cittadini o in quella di altri soggetti di diritto. Sottolineava la pressante necessità di addivenire a un modello di ‘‘Stato di diritto’’ da conciliare con il sitema socialista, L. BAVCON, Načela ustavnosti i zakonitosti (Principi costituzionali e legislativi), in Arhiv, n. 1-3, 1988, Beograd, pp. 411-421. Critica il militante ideologismo nonché l’eccessiva lunghezza del testo costituzionale socialista, A. PERENIČ, La nuova Costituzione slovena, in Quaderni costituzionali, 1994, p. 310, segnalando la svolta della Costituzione attuale rispetto a questi punti. Contrapponeva, invece, la ricchezza di contenuto espressa dalla Costituzione socialista jugoslava rispetto alle costituzioni borghesi classiche, F. BAČIĆ, Državnopravni postulati suvremene države i nji() hovo mjesto u krivičnom pravu (I principi giuridico-statali dello Stato contemporaneo e la loro collocazione nel diritto penale), in Jugoslovenska revija za kriminologiju i krivično pravo, n. 11/1973, pp. 33-53. (6) Mette in risalto l’esagerata enucleazione di principi fondamentali e la conseguente mancanza di effettiva ‘‘operazionalizzazione costituzionale e legale’’ della costituzione socialista previgente, A. PERENIČ, op. loc. cit. (7) Definisce la costituzione ‘‘processualmente orientata’’, Z. FIŠER, La legge di procedura penale slovena (I), in Diritto penale e processo, 1996, p. 774, il quale mette in risalto le più importanti norme costituzionali che influiscono sul processo penale. Per un quadro completo delle linee fondamentali del diritto processuale sloveno, v. anche ID., La legge di procedura penale slovena (II), in Diritto penale e processo, 1996, pp. 884-890. (8) La presenza nella Carta Costituzionale di un così esiguo numero di principi penalistici è, peraltro, comune a molti ordinamenti. Come sottolinea G. FORNASARI, Introduzione ai sistemi penali europei, in Introduzione al sistema penale, vol. I, a cura di G. Insolera, N. Mazzacuva, M. Pavarini, M. Zanotti, Torino, 1997, p. 51, in Germania l’unico principio penalistico ad avere un riferimento diretto nel testo costituzionale è quello di legalità; l’Autore, inoltre, mette in luce che ‘‘una gamma così articolata di principi costituzionali in materia penale come quella contenuta nella Costituzione italiana (art. 25, 2o e 3o comma, art. 27, 1o, 3o e 4o comma) è, può ben dirsi, una sua prerogativa quasi esclusiva in campo europeo, forse con la sola eccezione dell’esperienza portoghese’’. (9) L’art. 28 della Costituzione — Principio di legalità nel diritto penale — statuisce: ‘‘Nessuno può venire punito per un atto considerato punibile dalla legge, della quale non sia prevista alcuna pena prima che l’atto sia commesso. / Gli atti punibili devono essere provati e le pene per essi vengono pronunciate in base alla legge vigente quando l’atto è stato commesso, sempre che non sia stata pronunciata una legge più favorevole nei confronti di chi ha commesso il reato’’ (10) L’art. 27 così recita: ‘‘La persona accusata di un reato si considera innocente fino a che la sua colpevolezza non venga provata mediante sentenza definitiva’’. (11) Cfr. su ciò, J. MARKO e T. BORIĆ, op. cit., pp. 122-125.
— 647 — artt. da 18 a 31 — (12) costituiscano la parte più sostanziosa di esso, a dimostrazione del fatto che un tale tema si sta sviluppando in Slovenia, così come negli altri sistemi politici centro-orientali, fin quasi a divenire ‘‘il connotato di una nuova ideologia’’ (13). 2. Linee-guida del nuovo sistema penale. — Un’attenta lettura della nuova legislazione penale slovena consente, anche alla luce delle considerazioni fin qui svolte, di instaurare una correlazione tra il ruolo prevalentemente regolativo della Costituzione e la funzione garantista del diritto penale. Tra i profili che distinguono quest’ultimo, infatti, figura quello della legalità; condizione irrinunciabile del disegno penale come di quello costituzionale. In nome di un rifiuto della precedente concezione strumentale del diritto penale, si va consolidando, invero, l’orientamento che intende affidare alla sfera penalistica una accentuata funzione di garanzia, in contrapposizione alla quasi esclusiva funzione programmatica che essa ha avuto in passato. L’obiettivo che si intende perseguire, cioè, mira a rimuovere, anche nel settore penalistico, la situazione ‘‘prerivoluzionaria’’, recuperando le regole dello Stato di diritto e imponendole come strategia e prassi corrente del nuovo corso (14). L’incipit del capitolo primo del testo legislativo consiste nell’enunciazione del principio di legalità, accolto solennemente anche dalla Costituzione all’art. 28, come si è già detto. In rapporto ad esso sono necessarie alcune puntualizzazioni. Dopo avere rimarcato il ruolo che esso è andato assumendo nel corso del tempo fino ad essere riconosciuto a livello internazionale tra i diritti e le libertà fondamentali (15), il legi(12) Tra queste previsioni normative ricordiamo alcune delle più significative, come il divieto di infliggere torture e trattamenti contrari al diritto di umanità (art. 18), la tutela della libertà personale (art. 19), la disposizione relativa all’ordine e alla durata della detenzione preventiva (art. 20), il diritto alla tutela giudiziaria (art. 23), la norma che sancisce il carattere pubblico dei procedimenti giudiziari (art. 24), il diritto di impugnazione (art. 25), il disposto che sancisce tutta una serie di garanzie giuridiche che vanno assicurate nel procedimento penale ad ogni persona accusata di reato (art. 29) o il principio del ne bis in idem processuale (art. 31). (13) L’espressione è mutuata da S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1992, p. 31, il quale fa osservare come i diritti dell’uomo dopo essere stati il criterio per valutare la democraticità dei sistemi e il filo conduttore della piattaforma delle relazioni tra Est e Ovest sintetizzata nell’Atto di Helsinki del 1975, finiscano ora per essere posti al di fuori e prima di ogni riconoscimento dello Stato; una sorta di tendenza giusnaturalista, secondo l’Autore, ‘‘che, proprio sul terreno dei diritti, aveva dato corpo alle reazioni alla logica totalitaria dopo la seconda guerra mondiale, segnando profondamente la legge fondamentale della repubblica federale tedesca, e che di nuovo emerge come reazione ai totalitarismi nati nell’Europa centrale e orientale’’. Del resto, come mettono in risalto J. MARKO e T. BORIĆ, in op. cit., p. 127 e ss., tra le nuove funzioni attribuite alla Corte Costituzionale, figura, in particolare, la competenza a decidere sulle impugnazioni costituzionali per la violazione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali mediante atti individuali (cfr. art. 160 Costit.). (14) Come affermano i Redattori del Progetto: ‘‘Zavrnitev instrumentalnega in uveljavitev vrednostnega pojmovanja kazenskega prava je torej narekovala poudarjeno garantno funkcijo tega prava in zmanjšanje njegove pretirane, da ne rečemo skoraj izključno zaščitne funkcije v prejšnji zakonodaji’’. (15) Cfr. il Progetto del codice penale nel commento al capitolo primo e L. BAVCON, Temeljna načela, kaznivo dejanje in krivda v osnutku kazenskega zakona Republike Slovenije (Principi fondamentali, concetto di reato e concetto di colpevolezza nel progetto di legge del nuovo codice penale della Repubblica di Slovenia), in Podjetje in delo n.5-6/1993, p. 390-392, Ljubljana, 1993. Nella letteratura italiana sul principio di legalità, nei suoi vari aspetti, v., fondamentalmente, G. MARINI, voce ‘‘Nullum crimen nulla poena sine lege’’ (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, 1978, 950; F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e
— 648 — slatore ha inteso conferirgli, in sede normativa, una dimensione sostanziale in una triplice articolazione. Viene in rilievo, anzitutto, il suo nucleo più consueto e più tradizionale, costituito dall’espresso principio della riserva di legge. Ora, infatti, la legalità dovrebbe svolgere la sua funzione di garanzia della libertà in modo più compiuto che in passato; non solo, o non tanto, per ciò che concerne la soddisfazione di esigenze di certezza, quanto piuttosto per il fatto che la legge emanata dal Parlamento — unica fonte formale del diritto penale (16) — dovrebbe essere espressione effettiva della sovranità popolare in forza del confronto dialettico assicurato dal pluripartitismo parlamentare. Questa riserva, apparentemente ‘‘assoluta’’, presenta delle sfumature, quanto meno nei termini di una limitata operatività riconosciuta alle leggi di altri settori o di rango inferiore e ai regolamenti, ammessi solo per specificare e perfezionare fattispecie già prestabilite nei loro elementi costitutivi dalla legge formale e da questa munite di un specifica sanzione. Precetto e sanzione devono, dunque, essere rigorosamente formulati dalla legge formale penale. Una breccia a questo sbarramento sembra, tuttavia, aprirsi in rapporto alla contrastata categoria delle norme penali in bianco, nelle quali, per l’appunto, si intuisce che, come per il nostro sistema, il richiamo alla fonte secondaria più che nel mero perfezionamento di un precetto già sufficientemente specificato consiste, piuttosto, in un rinvio totale ad una fonte secondaria, cui è affidato di determinare in toto i contenuti precettivi; emblematico, in tal senso, il disposto normativo contenuto nell’art. 325, che rinvia al regolamento della strada, ma più ancora, gli artt. 205, 207 e 209 contenenti reati in materia di rapporti di lavoro e di previdenza sociale o l’art. 333 nell’ambito dei reati contro il paesaggio, l’ambiente e i beni naturali (17). aspetti costituzionali, Milano, 1965; ID., Commento all’art. 25, 2o e 3o comma, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Art. 24-26 Rapporti civili, Bologna, 1988, p. 227-316; G. VASSALLI, voce ‘‘Nullum crimen sine lege’’, in Nss. Dig. It., vol. XI, Torino, 1968, 493; ID., voce ‘‘Nullum crimen nulla poena sine lege’’, in Dig. Disc. pen., vol. VIII, 1994, 278. (16) Sull’argomento, v. F. PECORARO ALBANI, Riserva di legge, Regolamento. Norma penale in bianco, in Scritti De Marsico, vol. II, Milano, 1960, p. 399; A. TESAURO, Le norme penali in bianco, in Foro pen., 1962, p. 529; F. BRICOLA, La discrezionalità, cit., p. 257 ss.; ID., voce Teoria, cit., p. 42-43; ID., Commentario, cit., p. 241; G. CARBONI, Norme penali in bianco e riserva di legge: a proposito della legittimità costituzionale dell’art. 650 c.p., in questa Rivista, 1971, p. 454; N. MAZZACUVA, Le autorizzazioni amministrative e la loro rilevanza in sede penale, in questa Rivista, 1976, p. 776; G. VICICONTE, Nuovi orientamenti della Corte costituzionale sulla vecchia questione delle ‘‘norme penali in bianco’’, in questa Rivista, 1991, p. 996. (17) Art. 325 (1o comma) — Causazione colposa di un incidente stradale —: ‘‘Chi partecipa alla circolazione stradale e, violandone le norme, causa colposamente un incidente, nel quale taluno riporta lesioni personali gravi, è punito con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a tre anni’’. Qui, un margine di tolleranza è quasi imposto dalla consapevolezza che sussiste una realistica impossibilità di prestabilire nel codice tutte le situazioni rilevanti; senza contare, peraltro, che una siffatta apertura offre, comunque, la possibilità di salvaguardare interessi di grande rilievo per l’ordinamento. Art. 205 — Violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori —: ‘‘Chi consapevolmente non si attiene alle norme che disciplinano l’assunzione o la cessazione del rapporto di lavoro, lo stipendio e le remunerazioni sostitutive, l’orario di lavoro, le pause, il riposo, le ferie o i permessi, la tutela delle donne, dei minori e degli invalidi, il divieto di lavoro straordinario e notturno, privando in tal modo un lavoratore di un suo diritto o limitandoglielo, è punito con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a un anno’’. Art. 207 — Violazione del diritto di partecipare alla gestione —: ‘‘Chi, violando norme o statuti, impedisce in qualunque modo, direttamente o indirettamente, ai lavoratori l’esercizio del diritto di partecipare alla gestione, oppure abusa di tale diritto o ne ostacola l’esercizio, è punito con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a un anno’’. Art. 209 — Violazione dei diritti relativi alla previdenza sociale —: ‘‘Chi consapevol-
— 649 — La resistenza della riserva assoluta opera, invece, nei confronti della consuetudine, alla quale non è riconosciuta alcuna funzione, nemmeno integrativa, nei confronti del precetto. Secondo nodo fondamentale: il rispetto della tassatività nella formulazione delle fattispecie (18). In rapporto a tale implicazione del postulato di legalità, si può osservare che già nei lavori preparatori la Commissione si era espressamente impegnata (19) a costruire ogni singola prescrizione del corpo legislativo, usando una tecnica di formulazione e di descrizione del disposto normativo dettagliata e precisa. Uno sforzo, questo, teso, in primo luogo, a ripristinare un rapporto di fiducia del cittadino con lo Stato e le sue istituzioni e perseguibile attraverso la possibilità offerta al cittadino medesimo di discernere senza ambiguità tra la sfera del lecito e dell’illecito (20); ma teso, contemporaneamente, all’obiettivo, non meno importante, di arginare i temuti pericoli di strumentalizzazione sul fronte della prassi applicativa, emersi così di sovente in passato (21). mente non si attiene alle norme sulla previdenza sociale, negando o limitando così a taluno un diritto, è punito con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a un anno’’. Art. 333 (1o comma) — Danneggiamento e distruzione del paesaggio e dell’ambiente —: ‘‘Chi, in violazione delle normative, causa un inquinamento eccessivo o un deturpamento dell’ambiente o un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, mettendo così in pericolo la vita o la salute di più persone o causando il pericolo di un danno parziale o totale all’ambiente o della distruzione dell’ambiente stesso, è punito con la pena detentiva fino a due anni’’. (18) Nella letteratura italiana sull’argomento v., in particolare, F. BRICOLA, La discrezionalità, cit.; M. RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie nell’ordinamento vigente, Torino, 1979; G. LICCI, Ragionevolezza e significatività come parametri di determinatezza della norma penale, Milano, 1989; F.C. PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1989; ID., Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1991, pp. 25-60; di recente, sul ‘‘principio di precisione’’, come espressione della riserva di legge, si veda G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di Diritto Penale, 1, II ed., 1999, p. 57 ss. (19) Cfr. Motivazione introduttiva al Progetto. (20) Circa gli scopi da raggiungere attraverso le tecniche normative, v. Progetto penale, commento al capitolo primo. (21) Sotto questo profilo, uno dei settori più tormentati nel sistema socialista, com’è intuibile, è stato quello dei delitti politici (ed economici). Numerose erano nel codice penale (qui il riferimento è al codice penale del 1977, quello varato dopo la Costituzione del 1974 e rimasto in vigore, assieme alle novelle del 1984 e del 1990 fino alla separazione della Slovenia dalla Federazione jugoslava) le fattispecie di parte speciale suscettibili di essere utilizzate in funzione repressiva, a causa di una formulazione elastica e imprecisa e di un taglio marcatamente soggettivistico. In proposito è significativo ricordare alcune incriminazioni contenute nel capo XV del c.p. federale, come il reato di minaccia all’integrità territoriale (art. 116) e il reato di minaccia all’indipendenza (art. 117), oppure il reato di assassinio commesso con intenzioni ostili contro la RSFJ (art. 122), la violenza derivante dagli incitamenti contro la RSFJ (art. 123), la resistenza armata (art. 124), il terrorismo (art. 125), il sabotaggio (art. 127), lo spionaggio (art. 128). Tutte ipotesi criminose, la cui previsione era giustificata, ma la cui tecnica di formulazione, invece, destava notevoli perplessità per l’uso strumentale che consentiva. Rilievi, questi, estensibili anche ad un’altra categoria di incriminazioni, formalmente dirette alla tutela dello Stato e del suo ordinamento sociale, di sovente utilizzate in funzione politico-ideologico con evidente intento repressivo: si pensi al disposto normativo dell’art. 114 che contemplava ‘‘l’alto tradimento e la minaccia controrivoluzionaria dell’ordinamento sociale’’, all’art. 131, che penalizzava la ‘‘partecipazione ad attività nemiche’’ e, ancora, al contestatissimo art. 133, che disciplinava ‘‘il delitto di opinione e l’attività di propaganda nemica ed ostile al regime’’ nonché l’art. 134 volto a reprimere le manifestazioni di odio nazionale, razziale e religioso. L’assenza di puntuali criteri di tassatività e di determinatezza ampliava, poi, secondo una valenza ideologica, la sfera di applicazione di altre fattispecie, come l’art. 157, ‘‘Offesa alla RSFJ’’, l’art. 112, ‘‘Diffamazione delle Repubbliche e delle Province’’ e l’art. 113 ‘‘Diffamazione dei popoli e delle nazionalità della Jugosla-
— 650 — Sul piano strettamente tecnico si può notare che spesso il legislatore ha fatto ricorso, nella descrizione del reato, ai concetti di ‘‘specie del danno provocato’’ o ‘‘entità del vantaggio conseguito’’ o ‘‘intenzionalità di ottenere esattamente quel danno o quel vantaggio’’, articolando le figure di reato in sottofattispecie, secondo l’applicazione differenziata emersa, di fatto, sul fronte giurisprudenziale ed inserendo, pertanto, questi dati come elementi necessari ad integrare il reato e, in taluni casi, ad individuarne la soglia quantitativa e qualitativa dell’offesa ai beni, al di sotto della quale possono bastare risposte punitive di natura diversa da quella penalistica. A ciò si aggiunga che, nella parte generale del codice (art. 126, 13o comma ‘‘Significato dei termini contenuti in questo codice’’), il legislatore ha provveduto a specificare il significato di nozioni come ‘‘vantaggio patrimoniale, danno materiale o valore di esigua, di discreta e di grande entità’’, che di solito hanno la natura di clausole generali dal contenuto vago e impreciso, riferendole allo stipendio netto mensile nella Repubblica di Slovenia al tempo del commesso reato. Se al paradigma della tassatività è affidato, come ora si è detto, un ruolo centrale nelle varie fasi dell’intervento repressivo, altrettanta attenzione è stata rivolta alla tassatività nella sua proiezione esterna, vale a dire nel suo significato di divieto di analogia. Istituto tra i più dibattuti nella prima fase dell’era socialista (22), l’analogia (in malam partem) era stata banvia’’. Per non dire, infine, di tutta una serie di ‘‘mezzi di riserva’’ destinati alla repressione penale politica presenti in alcune leggi speciali: emblematiche quelle sulla stampa e sugli altri mezzi di informazione o la legge sulla limitazione delle forme di libera associazione (peraltro, formalmente garantita dall’art. 167 della Costituzione socialista). Sull’argomento, v. il significativo apporto di L. BAVCON, Kritična analiza sistema in vsebine kazenskopravnega varstva države in njene ustavne ureditve v SFRJ (Analisi critica del sistema e contenuti di diritto penale nella difesa dello Stato e dell’ordinamento costituzionale della SFRJ), in Pravnik, n. 5-7, 1988, p. 309, Ljubljana. Qui l’Autore esprimeva la propria posizione decisamente critica circa la presenza nel codice delle fattispecie menzionate; poneva in luce i rischi di arbitrio giudiziario derivanti da formulazioni indeterminate e dall’eccessiva ampiezza della forbice edittale prevista per i reati in parola e metteva in rilievo il rapporto conflittuale del socialismo verso i diritti umani e le libertà personali, segnalando, tuttavia, come il passaggio da una concezione totalitaria del socialismo a una democratica imponesse una svolta anche nella disciplina dei reati politici, della quale auspicava, quindi, una immediata revisione. V. inoltre L. BAVCON, I. BELE, P. KOBE, M. PAVČNIK, Kazenskopravno varstvo države in njene družbene ureditve. Politični delikti (La tutela penale dello Stato e del suo ordinamento costituzionale. I delitti politici.) Zagreb, 1987. In realtà, la pressione (soprattutto) della Slovenia, ma anche una serie di eventi storici di estrema gravità politica accaduti nella ex-Jugoslavia tra il 1989 e il 1990 (in particolare il ‘‘processo dei 4’’ a Lubiana) indussero il Parlamento federale a modificare la parte codicistica relativa ai reati politici e militari (v. Uradni List del 6 luglio del 1990). Su questa novella, di estremo interesse è il contributo di L. LAZAREVIČ, Izmene i dopune krivičnog zakona SFRJ (Modifiche e cambiamenti del codice penale della RSFJ), in Jugoslovenska revija za kriminologiju i krivično pravo, Beograd, april-juni 1990, p. 3 ss. (22) Va detto che tra principi penalistici sovietici recepiti tout-court nel sistema penale jugoslavo del dopoguerra figurava anche quello dell’applicazione analogica; in forza del terzo comma dell’art. 5 del codice penale del 1947, infatti, un soggetto poteva essere chiamato a rispondere penalmente di un fatto che, pur non previsto espressamente dalla legge, avesse a risultare ‘‘affine’’ ad altra fattispecie contemplata nel testo normativo. Era la consacrazione normativa dell’analogia legale. L’accoglimento di questo e di altri istituti di matrice sovietica trovarono, tuttavia, resistenza presso una componente significativa di giuristi, allarmati per gli esiti repressivi e totalitari verso i quali essi avrebbero potuto condurre. Si legge, infatti, in F. BAČIĆ, Razmišljanja u povodu tridesete godišnjice našeg novog krivičnog prava (Riflessioni in occasione del 30o Anniversario del nostro diritto penale), in Naša zakonitost, Zagreb, 1975, fasc. n. 6, p. 3, che talune opzioni giuridiche non erano riconducibili a posizioni di principio, ma erano, invero, determinate dalla situazione di transizione e dalle fisiologiche difficoltà e incertezze che questa comporta. Anche l’analogia fu un’eccezione indesiderata; prova di ciò, sottolinea l’Autore, si ebbe quando, nel codice del 1951, essa venne
— 651 — dita già nel lontano 1951 dal codice federale jugoslavo (23). Ora, perciò, i problemi che sussistono rispetto a questa categoria si pongono nei termini che anche il nostro ordinamento conosce. Per quanto, infatti, un rifiuto dell’analogia in via di principio sia scontato (24) — anche se, normativamente, esso è deducibile solo in via indiretta dall’ordinamento — non ci si può nascondere, invece, come ben possano profilarsi, sul piano applicativo, rischi di sconfinamento della interpretazione estensiva. Concepito anche dalla dottrina slovena più che in funzione di certezza del diritto come presidio delle esigenze garantiste dei cittadini (25), il divieto di analogia dovrebbe venire meno rispetto a norme favorevoli che escludono, attenuano o estinguono la responsabilità penale. Una siffatta posizione si può ricavare a contrariis dal dato normativo penale e da quello costituzionale — tanto l’art. 1 del codice penale quanto l’art. 28 della Costituzione fanno riferimento a leggi penali incriminatrici — nonché da quella particolare tendenza a ridurre l’area penalmente rilevante perseguita dal legislatore, e nella quale ben si inserisce, dunque, anche l’ammissione dell’analogia in bonam partem. La valenza del principio di legalità non si esaurisce, comunque, nei confini fin qui tracciati. Ad essa, infatti, è riconducibile anche la relazione intercorrente con il postulato di irretroattività della legge penale. Contemplato dall’art. 3, 1o comma, del codice penale (26) esso trova riconoscimento anche nell’art. 28, 1o comma della Costituzione. Appare chiaro che aver voluto conferire al principio in parola rilevanza costituzionale rafforza la portata garantista dello stesso, ponendo il cittadino al riparo non soltanto da possibili eccessi punitivi giudiziari ma, prima ancora, da potenziali arbitrii legislativi. L’essenza liberal-garantistica della irretroattività della legge penale incriminatrice, tesa a ritagliare ogni possibile spazio di libertà personale per il singolo, non poteva che trovare compiutezza, anche in seno al sistema sloveno, nella retroattività della legge penale più facancellata senza che si sollevassero voci dissenzienti da parte di taluno. In argomento, v. anche L. BAVCON, Kratek pregled razvoja kazenskopravnih znanosti na Slovenskem (Breve studio sullo sviluppo del diritto penale in Slovenia), in Pravnik, Ljubljana, fasc. 1012, 1975, p. 383. Sull’istituto dell’analogia e, più in generale, sul concetto di legalità sostanziale nei sistemi socialisti, v. S. DE SANCTIS, La nozione materiale del reato e la concezione di ‘‘legalità sostanziale’’ nel sistema penale dei Paesi socialisti. Aspetti problematici e rilievi critici, in questa Rivista, 1986, p. 866. (23) Qui il riferimento è al codice penale federale jugoslavo perché la Slovenia nel 1951 non aveva ancora un suo codice penale; ne avrà uno suo, repubblicano, nel 1977. (24) Raffrontando tra loro alcuni codici comunisti e post-comunisti, si può notare che in quello cinese del 1997 figura un divieto espresso di applicazione analogica; su questo argomento e per un quadro generale della nuova legge penale cinese, si veda C. ZHONGLIN, Una svolta storica nel diritto penale cinese: l’introduzione di un nuovo codice, in questa Rivista, 1998, p. 584 e M. GAO e B. ZHAO, La réforme du nouveau code pénal chinois, in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1998, p. 479. Anche l’art. 3, secondo comma, del nuovo codice penale russo approvato con Legge Federale 13 giugno 1996 n. 63, esclude espressamente l’applicazione per analogia della legge penale; non ha ritenuto, invece, di doverne prevedere esplicitamente l’esclusione il legislatore croato nella riforma del 1997 (cfr. Legge 19 settembre 1997, n. 1668). Del nuovo codice penale croato è stata di recente pubblicata la traduzione in lingua italiana, v. Il codice penale croato, introduzione di B. PAVIŠIĆ, traduzione di E. BACCARINI, D. BERTACCINI, D. BLAŠKOVIC̀, E. MARION, B. PAVIŠIĆ, Casi, Fonti, Studi per il Diritto Penale raccolti da S. Vinciguerra, Padova, 1999. (25) Sul punto v. L. BAVCON-A. ŠELIH, Kazensko Pravo, Splošni Del (Diritto Penale, Parte Generale), III ed., Ljubljana, 1996, pp. 120-122. (26) Art. 3, 1o comma: ‘‘All’autore di un reato si applica la legge vigente al momento della commissione del reato medesimo’’.
— 652 — vorevole, contemplata dal 2o comma dell’art. 3 del codice penale (27) e innalzata anch’essa al rango costituzionale dall’art. 28, 2o comma della Costituzione (28). Se alla legalità è affidato un ruolo centrale nelle varie fasi dell’intervento repressivo, altrettanto vitale è, per il legislatore sloveno, la funzione svolta dall’idea di sussidiarietà; tanto che si è avvertita la necessità non solo di indicarla espressamente tra i cardini fondanti il sistema, ma, persino, di conferirle una posizione, nella gerarchia dei principi, seconda solo al principio di legalità. Già durante i lavori preparatori, la Commissione incaricata di redigere il nuovo disegno legislativo si era prefissata di attenersi scrupolosamente ad essa nella formulazione delle fattispecie di parte speciale, esortando, altresì, il Parlamento ad aderire a tale orientamento (29). E puntualmente nell’art. 2 del codice è stato stabilito che : ‘‘Il ricorso a leggi e a sanzioni penali è giustificato solo quando e in quanto non risulti possibile garantire in altro modo la tutela delle persone e degli altri valori fondamentali’’. Conferendo al diritto penale quel carattere di extrema ratio, che la scienza penalistica contemporanea gli riconosce del resto in modo ormai unanime (30), il legislatore sloveno sembra orientato ad intervenire penalmente solo nei casi in cui abbiano a spezzarsi regole sociali essenziali. Un tale indirizzo ri(27) Art. 3, 2o comma: ‘‘Se, dopo la commissione del reato, la legge viene modificata (una o più volte), si applica la legge più favorevole al reo’’. (28) Se la lettura circa l’irretroattività della legge penale non comporta particolari problemi interpretativi, essendo inequivocabile il riferimento normativo a quella incriminatrice, difficoltà esegetiche, per contro, pone il contenuto concernente la retroattività della norma penale più favorevole. La scarna previsione normativa, infatti, finisce, inevitabilmente, per delegare al momento ermeneutico la specificazione quanto meno di due aspetti fondamentali come quello concernente l’ambito di operatività della efficacia retroattiva e quello relativo al concetto di legge penale più favorevole. In relazione al primo va puntualizzato che si ritengono sempre esclusi da tale sfera i casi giudicati con sentenze divenute irrevocabili; e ciò non solo in rapporto alle ipotesi di successione di leggi, ma anche nei casi di abrogazione. Va, tuttavia, sottolineato come, in dottrina e in giurisprudenza, sia vivo il dibattito — ora come in passato, posto che la disciplina è rimasta invariata —, sulla problematica concernente la possibile sopravvivenza, in presenza di abrogazione, del disvalore penale di un fatto, e le complesse implicazioni che ne derivano. (29) Dell’affermazione si trova conferma nella Motivazione introduttiva alla bozza progettuale. (30) Sul postulato di sussidiarietà, per la penalistica tedesca, v. H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, All. Teil, IV ed., Berlin, 1988, p. 232; G. JAKOBS, Strafrecht, All. Teil, Berlin-New York, 1991, p. 48; M. MAIWALD, Zum fragmentarischen Charakter des Strafrechts, in Festschrift für Maurach, 1972, p. 9 ss. Nel panorama della dottrina italiana, si veda: G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, III ed., 1995, pp. 28-30; C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale, vol. I, Torino, 1993, p. 7; F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte Generale, III ed., Padova, 1992, p. 24; G. MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 463 ss.; mette in risalto i profili costituzionali del carattere sussidiario del diritto penale, F. BRICOLA, Carattere ‘‘sussidiario’’ del diritto penale e oggetto di tutela, in Studi Delitala, vol. I, Milano, 1984, p. 99 ss.; affronta questa tematica, proiettandola nella più ampia prospettiva analitica di un diritto penale minimo e mettendola in relazione ai due principi di necessità e di offensività, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, p. 80 ss., p. 325 ss. e 466 ss. Come ha ricordato, poi, di recente S. FIORE, Il sistema sanzionatorio nello schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in Valori e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, p. 205, ‘‘il grado di penetrazione che l’idea della extrema ratio, nella sua duplice dimensione, garantista, da un lato, funzional-razionalizzatrice, dall’altro’’ manifesta nel pensare penalistico italiano è confermato dalla sua elevazione a criterio di codificazione, seppure, al momento, in un contesto progettuale. Va ricordato, in proposito, che, per quanto fallita nella sua funzione, la Commissione Bicamerale, incaricata di riformare la Carta costituzionale, nel testo del progetto approvato in data 4 novembre 1997 aveva inserito tra le linee direttive della giustizia penale
— 653 — sulta, peraltro, in sintonia con il più generale disegno tracciato dal Costituente, finalizzato a ridimensionare la vecchia tendenza a giuridificare tutti i settori della società (31) e sancisce, altresì, la limitazione della tutela penale ai valori fondamentali della Carta Costituzionale. Una serie di elementi induce a ritenere che i penalisti sloveni abbiano optato per una concezione restrittiva di sussidiarietà. Senza disconoscere, infatti, l’utilità svolta dalla funzione stigmatizzante della pena ai fini di una ferma riprovazione della condotta criminosa e di una energica riaffermazione dei beni giuridici tutelati, essi hanno ribadito (32) che il ricorso allo strumento penale è da considerarsi assolutamente ingiustificato ogniqualvolta la salvaguardia dei beni medesimi sia già conseguibile mediante sanzioni di natura extrapenale. Pur accettando, in sostanza, il ruolo di orientamento culturale connesso alla minaccia della sanzione penale, essi hanno, tuttavia, operato una scelta mirata ad evitare aperture a rischi di eccessiva ingerenza da parte dello Stato nella sfera dei diritti individuali, come è accaduto in passato, quando la sanzione punitiva non di rado ha assunto una forte coloritura etica, se non addirittura ideologica. La filosofia legalitaria e costituzionale sottesa al nuovo sistema penale trova ulteriore conferma in un significativo elemento, questa volta di carattere negativo, se così si può dire, dell’attuale impalcatura penalistica. Non sfugge, invero, ad una attenta analisi di raffronto con la legislazione previgente che tra le ‘‘linee-guida’’ del capitolo primo qui in esame non compare alcun precetto che abbia a definire in qualche modo il ruolo del diritto penale. Nel previgente codice socialista il legislatore esordiva all’art. 1 — Funzione di tutela del diritto penale — affermando che ‘‘La legislazione penale tutela da violenza, arbitrio, abuso, attività controrivoluzionaria, violazione della costituzione e della legalità, nonché da altre azioni socialmente pericolose: i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo e del cittadino, la loro posizione socio-economica, l’ordinamento socialista e autogestito, l’indipendenza e la sicurezza dello Stato, la fratellanza e l’unità, nonché l’eguaglianza fra i popoli e le etnie e l’ordine costituzionale. / Tale tutela si ottiene stabilendo quali condotte socialmente pericolose costituiscono reati così che, per queste, si statuiscono pene e altre sanzioni penali in un processo legale e si infliggono altresì le sanzioni’’. Il legislatore odierno ha, per contro, ritenuto opportuno escludere dal codice una norma di tale natura, facendo osservare (33) come, in un contesto così radicalmente rinnovato, o essa avrebbe coinciso con il postulato di extrema ratio recepito nell’art. 2, nel qual caso sarebbe stata una definizione superflua; oppure, prescrivendo ruoli o giustificazioni circa l’‘‘uso’’ del diritto penale, in quanto tale, sarebbe risultata (art. 129), ivi contemplata, il principio in parola; su ciò si vedano le riflessioni di: F.C. PALAZZO, Le riforme costituzionali proposte dalla commissione bicamerale, B) Diritto penale sostanziale, in Diritto penale e processo, 1997, p. 40 ss. nonché di G. FIANDACA, La giustizia penale in Bicamerale, in Foro it., 1997, V, 167. Sul fronte governativo, poi, va ricordata la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Suppl. ord. G.U. n. 22 del 23 gennaio 1994) relativa ai criteri che devono orientare il legislatore verso la scelta della sanzione penale o di quella amministrativa. (31) Su questa tendenza, tipica di uno Stato sociale interventista del ventesimo secolo, v. G. FIANDACA, Perdita di legittimazione del diritto penale? in questa Rivista, 1994, p. 35. (32) Tale convinzione fu espressa durante i lavori preparatori, come le considerazioni introduttive al progetto confermano, ed è stata altresì ribadita dal legislatore in fase di redazione del codice, come testimoniano le affermazioni contenute nel commento esplicativo che accompagna il codice stesso. Il presidente della commissione incaricata di redigere lo schema della codificazione non ha tralasciato, infine, di ribadire anche recentemente questo indirizzo di politica criminale, v. L. BAVCON, Riflessioni a margine della questione dell’effettività della sanzione penale, in F. GIUNTA-R. ORLANDI-P. PITTARO-A. PRESUTTI, L’effettività della sanzione penale, Milano, 1998, pp. 73-75. (33) V. Commento al Progetto (‘‘Med temeljna načela pa niso bile vnešene določbe o varstveni funkciji kazenske zakonodaje in o namenu kazenskih sankcij,...’’) e L. BAVCON, Uvodna Pojasnila (Prefazione introduttiva), Kazenski Zakonik Republike Slovenije (Codice Penale della Repubblica di Slovenia) Ljubljana, 1994, pp. 23 e 24.
— 654 — decisamente stridente con la prospettiva legalitaria e costituzionale che, come si è detto, al diritto penale si intende riservare. 3.
Concezione formale-materiale del reato.
Nozione di reato. — Sulla base del dato testuale contenuto nell’art. 7 risulta che, nel sistema sloveno, il reato è concepito come ‘‘una condotta antigiuridica che, a causa della sua pericolosità, la legge incrimina come reato, definendone al contempo gli elementi costitutivi e la pena da irrogare’’. Solo una lettura congiunta di tale disposto normativo con l’art. 15 — La responsabilità penale — e con l’art. 14 — Fatto di scarsa rilevanza penale — consente, però, di cogliere la nozione di illecito penale nella sua completezza. Ci si può avvedere, allora, che la concezione di reato prospettata si articola in due componenti: l’una oggettivo-soggettiva, l’altra formale-sostanziale (34). Se il contemperamento tra i due elementi del primo binomio (fatto-colpevolezza) è, ed è stato, obiettivo tendenziale, se pur con sfumature diverse, della maggior parte dei sistemi giuridici che la storia del diritto penale conosca (35), compreso quello sloveno; in quest’ultimo, tuttavia, l’istituto del reato attinge il suo contenuto anche da un’altra contrapposizione dialettica: quella tra elemento formale ed elemento sostanziale. Introducendo nei disposti normativi degli artt. 7 — Il reato — e 14 — Fatto di scarsa rilevanza penale — la categoria della ‘‘pericolosità’’, il legislatore sloveno viene, infatti, ad accogliere, attraverso di essa, una concezione materiale di illecito penale. La necessità di mantenere entro limiti ragionevoli il formalismo della norma e di individuare nell’effettiva lesività uno dei requisiti dell’illecito penale è emersa, si sa, anche in altre realtà giuridiche, come in quella italiana, dove queste tematiche sono state oggetto di attente riflessioni, nonché di sviluppi dottrinali e giurisprudenziali che hanno approdato talora a risultati addirittura antitetici (36). Qui, tuttavia, dopo annosi dibattiti, queste istanze, tese a conferire rilievo, nella nozione di reato, anche alla necessaria lesività del fatto illecito, sono (34) La teorizzazione di un siffatto schema si rinviene nei lavori preparatori e in L. BAVCON, Temeljna načela, cit., pp. 389-390, dove l’Autore sottolinea che una innovazione è intervenuta rispetto al passato, giacché la concezione cui si riferisce la dottrina odierna non è più quella ‘‘sostanziale-formale’’ bensì quella ‘‘formale-sostanziale’’, illustrando le ragioni che hanno portato a tale scelta. (35) Su ciò, ampiamente, F. MANTOVANI, Dir. pen., cit., pp. 133-135; sulla fecondità per la teoria generale del reato del rapporto dialettico tra ‘‘oggettivo e soggettivo’’, v. P. NUVOLONE, Trent’anni di diritto e procedura penale, I, Padova, 1969, p. 159; nonché N. MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, Milano, Giuffrè, 1983. (36) In ambito penalistico italiano, la concezione ‘‘realistica’’ o ‘‘necessariamente lesiva’’ del reato ha interessato, secondo prospettive diverse e talora, appunto, addirittura antitetiche, innumerevoli giuristi; si veda, in particolare, G. NEPPI MODONA, voce Il reato impossibile, in Nss.D.I., vol. XIV, 1967, p. 976; F. BRICOLA, voce Teoria, cit., p. 74 ss.; M. GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 783; ID., I reati di pericolo, in Foro penale, 1969, p. 7 ss.; F. MANTOVANI, Dir. pen., cit., p. 204 ss.; ID., Il problema della offensività del reato nelle prospettive di riforma del codice, in Problemi generali di diritto penale a cura di Vassalli, Milano, 1982, p. 69 ss.; C. FIORE, Il reato impossibile, Napoli, 1959; ID., Principio di tipicità e ‘‘concezione realistica del reato’’, in Problemi generali di diritto penale, cit., p. 58 ss.; ID., Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, p. 275; G. VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti in memoria di U. Pioletti, Milano, 1982, p. 620 ss.; G. MARINI, voce Reato, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXVI, Roma, 1991; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di Diritto Penale, cit., 1995, p. 65. Sulla relazione intercorrente tra il postulato di offensività e il diritto penale inteso come protezione dei beni giuridici in una prospettiva di rifondazione del concetto di bene giuridico, v. F. STELLA, La teoria del bene giuridico e i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 3; secondo questa angolazione, v. anche G. FIANDACA, Note sul principio di offensività e sul ruolo della teoria del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in Le discrasie tra dot-
— 655 — state incanalate secondo una prospettiva liberal-democratica, in forza della quale, ‘‘l’appello al principio di offensività altro non significa se non che non può esservi reato senza la lesione o almeno la messa in pericolo dello specifico interesse tutelato dalla norma incriminatrice’’, con esclusione, invece, della ‘‘possibile rilevanza di ogni circostanza esterna alla realizzazione del tipo descrittivo’’ (37). Attraverso la compenetrazione del principio di offensività nel superiore principio di legalità, il fatto illecito è non solo previsto dalla legge come tale, ma è, altresì, costruito dalla medesima in modo da essere necessariamente offensivo dell’interesse specifico tutelato dalla norma. Appartenendo alla tipicità, l’offesa è elemento costitutivo del reato accanto agli altri elementi strutturali della fattispecie legale. E il giudice deve accertarne l’esistenza in concreto assieme a quelli. Sicché al cittadino è data la duplice garanzia di non essere punito né per una mera disubbidienza, ma neppure per la sola pericolosità sociale del suo agire (38). L’interrogativo che ci poniamo, allora, di fronte al nuovo testo normativo sloveno è se la tensione dialettica tra il ‘‘formale’’ e il ‘‘sostanziale’’, in esso prospettata, esprima un contenuto analogo alla concezione di offensività elaborata dalla dottrina penalistica italiana. L’interrogativo, naturalmente, si fa più consistente perché, secondo la concezione materiale che contraddistingueva il sistema penale jugoslavo, nonché tutti i sistemi penali socialisti (39), ‘‘il fatto punibile, oltre a presentare determinati requisiti, normativamente descritti’’, doveva anche manifestarsi, ‘‘nella sua forma concreta, pericoloso alla società in misura trina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di Stile, Napoli, 1991, p. 63 e, in particolare, pp. 67 e 71 e ss. Di recente, sull’argomento, v. C. TAORMINA, L’irrilevanza penale del fatto tra diritto e processo, in La giustizia penale, 1998, III, c. 257 e A. DIDDI, ‘Irrilevanza penale del fatto’. Inconfigurabilità del reato o autore non punibile?, ivi, c. 267. (37) Così C. FIORE, Il principio di offensività, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 62. (38) Cfr. F. MANTOVANI, Dir. pen., cit., pp. 205 e 206. (39) Sulla concezione comunista del diritto, in generale, v., H. KELSEN, La teoria comunista del diritto, Milano, 1956; H.J. BERMAN, La giustizia nell’U.R.S.S., Milano, Giuffrè, 1965; U. CERRONI, Marx e il diritto moderno, Roma, 1962; ID., Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma, 1969; A. SINAGRA, Il principio di legalità socialista negli ordinamenti giuridici degli Stati a democrazia popolare, in Rivista internazionale di filosofia politica e sociale e di diritto comparato, 1975, p. 69 ss.; sul diritto penale socialista, in particolare, v. M. ANCEL, A.A. PIONTKOWSKY, V.M. TCHKHIKVADZE, Le système pénal soviétique, in Les grands systèmes de droit pénal contemporains, vol. VI, Paris, 1975, pp. 18 ss. e 43 ss.; I. ANDREJEW, Le droit pénal comparé des Pays socialistes, in Les grands systèmes de droit pénal contemporains, Paris, 1981, p. 49; T. NAPOLITANO, Delitti e pene nella società sovietica, Milano, 1981, pp. 154 ss.; L. DURIGATO, Uno studio di diritto penale socialista, Padova, 1976, p. 39 ss.; V. SOLNAŘ, La nozione di pericolo derivante alla società dal reato nel diritto penale socialista, in questa Rivista, 1962, p. 1053; G. DE SANCTIS, La nozione materiale del reato cit., p. 866. Nella letteratura jugoslava, si veda: M. PIJADE, O normalizaciji našeg pravosuda, in Izabrani govori i clanci 1941-1947 (Sul processo di normalizzazione del nostro sistema giudiziario, in Discorsi scelti e saggi 1941-1947), Beograd, 1948; J. DJORDJEVIC, Socijalizam i demokratija (Socialismo e democrazia), Beograd, 1962; ID., Le developpement du droit pénal jugoslave, in Le droit pénal noveau de la Jugoslavie, Parigi, 1962; J.B. TITO, Pedeset godina revolucionarne borbe komunista Jugoslavije (Nel cinquantesimo anniversario della lotta rivoluzionaria e comunista della Jugoslavia), IX congresso della Lega dei Comunisti, Belgrado, 1969; F. BAČIĆ, Državnopravni postulati suvremene, cit., p. 33; ID., Razmišljanja u povodu tridesete, cit., p. 3; N. SRZENTIĆ, Razvoj krivicnog prava (Sviluppo del diritto penale), in Arhiv, fasc. 1/2, 1986, p. 187; L. BAVCON, Kratek pregled, cit., p. 383; ID., Temeljna načela, cit., p. 389, sostiene che la nozione formale-materiale di reato ha suscitato perplessità e discussioni più che per il suo contenuto, per la sua provenienza; per la sua derivazione, cioè, dalle teorie sovietiche ispirate al materialismo filosofico e, soprattutto, per le pericolose storpiature che di essa è stata fatta dalla prassi giurisprudenziale ad uso del regime totalitario bolscevico. Al di fuori, dunque, di queste strumentalizzazioni politico-ideo-
— 656 — rilevante. Di conseguenza non’’ era ‘‘punibile un fatto che, pur presentando quelle note tipiche stabilite nel disposto legislativo, non assumesse — considerate le circostanze concrete — il carattere di ‘atto pericoloso per la collettività’’’ (40). Il disposto trovava, del resto, la sua ratio nel ruolo che i sistemi socialisti proclamavano di affidare al diritto penale: di difesa, cioè, contro le aggressioni agli interessi utili e vantaggiosi per la classe operaia e per l’affermazione del sistema socialista stesso (41). Da una siffatta concezione ne sarebbe derivata una doppia cornice garantistica: l’una di natura formale — la fonte nella disposizione legislativa — e l’altra di natura sostanziale — l’effettiva offensività dell’atto per gli interessi della società socialista — (42). Il termine di paragone, però, per determinare tale attività offensiva della condotta finiva per essere ancorato non già alla legge, ma ai valori sostanziali immanenti nella società, in continua evoluzione, pertanto, e, come tali, contenenti un insopprimibile margine di indeterminatezza e di strumentalizzazione statuale (43). Per le ragioni esposte, in particolare per l’esasperata valenza politica che alla categoria della ‘‘pericolosità sociale’’ è stata assegnata in certi periodi storici e per l’uso strumentale che conseguentemente ne è stato fatto sul piano processuale (44), essa ha rappresentato, dunque, uno dei nodi cruciali del sistema socialista. Ecco perché le formule espressive usate dall’odierno legislatore sloveno e la loro intrinseca equivocità sollecitano ad esplorare i reali contenuti sottesi ai disposti normativi contemplati negli artt. 7 e 14. Poiché è abbastanza improbabile che un’esperienza giuridica durata un cinquantennio si dissolva senza lasciare traccia nella formazione culturale dei giuristi e quindi anche nella produzione normativa da essi espressa, si tratta di appurare se i compilatori del codice abbiano ‘‘fruito’’ del vecchio lessico di matrice socialista per esprimere, però, contenuti nuovi sotto il profilo sostanziale. È in primo luogo esclusa una continuità sostanziale di tipo ideologico: l’accoglimento dei meccanismi propri dello Stato di diritto e del pluralismo politico dissolvono ogni dubbio in tal senso. Il referente, dunque, della categoria della pericolosità che concorre a delineare la nozione di reato dovrebbe potersi individuare nel nuovo ordinamento costituzionale liberal-democratico e nei beni giuridici in esso tutelati. Ma le novità non si limitano a questo aspetto e vengono in rilievo anche in altre direzioni. La dottrina slovena, infatti, smentendo che la nozione di reato attuale sia una riedizione di quella passata, cerca di mettere in luce le innovazioni di maggiore spicco che con tale passato segnerebbero, per contro, la rottura, sottolineando che gli schemi concettuali ereditati dal sistema socialista sono supportati da impostazioni teoriche nuove e originarie. logiche, afferma l’Autore, non c’è alcun dubbio sulla validità dell’indirizzo sostanziale del reato. (40) Così V. SOLNAŘ, La nozione di pericolo, cit., p. 1053. (41) Si veda supra art. 1 cod. pen. federale e I. ANDREJEW, Le droit pénal comparé, cit., pp. 52 e 53 nonché S. DE SANCTIS, Il principio di colpevolezza e l’esclusione della responsabilità oggettiva nel sistema penale socialista, in Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, a cura di Stile, Napoli, Jovene, 1989, p. 112. (42) Così S. DE SANCTIS, Il codice penale della Repubblica socialista del Vietnam nel quadro del sistema penale dei Paesi socialisti, in Archivio penale, 1987, p. 266, v. anche p. 262 ss. (43) V. F. MANTOVANI, Dir. pen., cit., p. 205. (44) Vale la pena, tuttavia, ricordare che nel sistema processuale sloveno esisteva la figura del c.d. accusatore sussidiario, con potere di controllo sull’operato del p.m., soprattutto in relazione a quei i casi di non procedibilità in cui fossero stati presenti tutti i requisiti della fattispecie richiesti dalla legge; anche se, come sottolinea Z. FIŠER, La legge di procedura penale slovena (I), cit., pp. 771 e 772, la figura in parola ‘‘ha funzionato e funziona tutt’ora più sul piano psicologico che’’ su quello ‘‘reale e statistico’’.
— 657 — Anzitutto, viene posto in risalto che nell’odierna definizione di reato, contenuta nell’art. 7, è stato introdotto l’elemento dell’antigiuridicità (45). La categoria, invero, era utilizzata anche in passato, a livello di elaborazione dottrinale, ma non aveva mai avuto una menzione espressa nell’ordinamento positivo socialista. Del resto, la concezione rigorosamente unitaria del reato in esso accolta, escludeva costruzioni logico-sistematiche come quelle di derivazione filosofico-idealistica tendenti a ravvisare nella struttura dell’illecito due o tre elementi (teoria bipartita e tripartita) (46). Nell’attuale sistema penale, invece, l’antigiuridicità è considerata un filtro vincolante, previsto normativamente dal legislatore, in virtù del quale egli opera la selezione della fattispecie punibili, in rapporto, per l’appunto, al carattere di illeceità, ossia di non conformità del fatto tipico all’ordinamento (47). Solo un fatto che abbia a confliggere, perciò, con divieti e con comandi di siffatto ordinamento giuridico potrà considerarsi antigiuridico, e quindi significativo penalmente. Una volta accertati il rilievo penalistico del fatto sotto il profilo della tipicità e la sua conflittualità con l’ordinamento, il legislatore deve, poi, valutare, in forza di una concezione graduabile del reato, il ‘‘grado di rilevanza offensiva’’ della condotta — espresso nella disposizione dell’art. 7 con il termine ‘‘pericolosità’’ — al fine di individuare la soglia di punibilità e, quindi, inserire il fatto — tipico e antigiuridico — tra i reati oppure tra le contravvenzioni o le infrazioni (48), provvedendo a delinearne gli elementi costitutivi e a stabilirne la sanzione. In altre parole, il giudizio di pericolosità (= attitudine offensiva) di un fatto antigiuridico attiene ancora, in un certo senso, alla fase della tipizzazione, svolgendo una funzione selettiva e specificatrice del fatto stesso e fungendo da delimitatore tra l’illecito penale ed illeciti di natura diversa e meno grave. Assente, dunque, questo requisito (del reato), l’intervento sanzionatorio non si legittima, in ottemperanza a quel principio di sussidiarietà enunciato nel capitolo primo del codice, che in tal modo si rivela essere un postulato di natura non solo simbolica ma altresì precettiva. Fatto di scarsa rilevanza penale. — Il rapporto dialettico ‘‘formale-sostanziale’’ non si esaurisce in questo ambito. Dal codice si evince, infatti, che la pericolosità (= attitudine del (45) Lo sottolinea L. BAVCON, Temeljna načela, cit., p. 390. (46) Cfr. S. DE SANCTIS, Il principio di colpevolezza cit., p. 109 ss. (47) V. L. BAVCON, op. loc. ult. cit. (48) Le attuali categorie di reato del sistema sloveno sono i delitti (kaznívo dejánje) e le contravvenzioni (prekršek), queste ultime quasi corrispondenti al concetto che si rinviene nella legislazione italiana; la terza categoria, invece, ‘‘prestópek’’ (infrazioni), non ha corrispondenti nel nostro ordinamento, e sta per essere abolita anche in Slovenia. Puntualizza queste nozioni, L. BAVCON, Introduzione a Il Codice penale sloveno, traduzione a cura di Z. FIŠER, N. FOLLA e M. UKMAR, Casi, Fonti e Studi per il Diritto Penale raccolti da S. Vinciguerra, Padova, 1998, pp. 6-8, il quale, nel delineare il contenuto del ‘‘diritto punitivo’’ della Slovenia, mette in luce come esso sia comprensivo oltre che del diritto penale in senso stretto, quello cioè che ha la sua fonte nel codice penale e nel quale si rinviene la categoria dei delitti (kaznívo dejánje), di altri due settori ai quali attengono altre due categorie: il diritto delle contravvenzioni (prekršek) e il diritto delle violazioni (o infrazioni) economiche (‘‘prestópek’’). L’Autore precisa che queste ultime, ereditate dal sistema jugoslavo (Legge sulle infrazioni economiche, Gazzetta Ufficiale della RSFJ, n. 4/1977), consistono in violazioni di disposizioni sulle attività economiche e finanziarie delle persone giuridiche; la responsabilità e la punibilità della persona giuridica per questo tipo di illecito è fondata sulla condotta colpevole (di norma è sufficiente la colpa) della persona fisica operante all’interno della persona giuridica (la c.d. persona responsabile); da qui il concetto di ‘‘responsabilità parallela’’. Le contravvenzioni, invece, consistenti in quelle violazioni (es.: in materia di ordine pubblico, di quiete pubblica, di ubriachezza, di traffico stradale ecc.) che il sistema tedesco contraddistingue come Ordnungswidrigkeiten e che altri ordinamenti collocano nella sfera del diritto amministrativo, hanno una disciplina a sé, contenuta, appunto, nella Legge sulle contravvenzioni (cfr. Gazzetta Ufficiale della RSS, n. 25/1983).
— 658 — fatto a ledere o a mettere in pericolo il bene giuridico), se è un principio guida per il legislatore, lo è, altresì, per il giudice. E infatti, la disposizione normativa dell’art. 7, destinata principalmente al legislatore, ha, il suo pendant nell’art. 14, rivolto essenzialmente all’autorità giudicante. Appare chiaro come, accanto ad una previsione come quella dell’art. 7, contrassegnata da un carattere statico, e funzionale precipuamente alla fase della normazione, il legislatore sloveno non abbia potuto rinunciare ad una norma come quella dell’art. 14, che dovrebbe assolvere la funzione di verifica di tale corrispondenza nel momento dinamico, ossia sul versante applicativo. Tuttavia, mentre nel disposto dell’art. 7 il giudizio di pericolosità sembra incanalarsi, come abbiamo appurato, in quello di offensività (e quindi di sussidiarietà), con rigoroso rispetto della legalità e senza particolari slabbrature rispetto a quello che è un modello di diritto penale conforme ad uno Stato di diritto, ben più disagevole risulta riportare in questo stesso solco la regola espressa nell’art. 14. In rapporto ad essa, pertanto, sorgono consistenti perplessità. Se l’eliminazione dei contenuti ideologici del passato è fatto anche in questa sede assolutamente scontato, parimenti scontate, però, sono anche le altre insidie che la statuizione, consegnata a una siffatta costruzione normativa, può comportare. I giuristi sloveni (49), invero, osservano come, analizzando attentamente la previsione legislativa in esame, vi si possono scorgere rimarchevoli elementi di novità sostanziali e sistematici che contribuirebbero a differenziare profondamente l’attuale istituto rispetto a quello del sistema socialista. In primis, si mette in evidenza il cambiamento sotto il profilo linguistico: mentre l’art. 8, 2o comma, del codice penale federale contemplava un ‘‘fatto di scarsa pericolosità sociale’’, la formula dell’art. 14 fa riferimento, invece, ad un ‘‘fatto di scarsa rilevanza penale’’. Nell’odierna statuizione, dunque, è stato omesso ogni riferimento a quella socialità, la cui natura era suscettibile di manipolazioni giurisprudenziali fondate su giudizi che traevano legittimazione da parametri extranormativi ed estranee a uno schema liberale e garantista. Altro elemento distintivo di particolare significato consisterebbe, poi, nella collocazione sistematica che all’istituto in parola è stata riservata nel codice: la norma che lo contempla, infatti, figura, topograficamente, dopo lo spazio destinato alle cause di esclusione dell’antigiuridicità e della colpevolezza, e non più, come nel codice precedente, in una posizione contigua alla definizione del reato (50), quasi a sottolineare, in quest’ultimo caso, una parificazione tra il potere legislativo e il potere (indeterminato) del giudice di pronunciare l’insussistenza del reato, e quasi a trasformare la contiguità topografica in una contiguità funzio(49) V. L. BAVCON, Temeljna načela, cit., p. 389-390; ID., Introduzione, cit., pp. 13 e 14; M. DEISINGER, Kazniva dejanja v novem sistemu kaznovalnega prava (I reati nel nuovo sistema sanzionatorio), in Podjetje in delo, n. 5-6, 1994, Ljubljana, 1994, p. 519. (50) L’art. 8 — Il reato — del codice penale federale jugoslavo così statuiva: ‘‘È reato l’azione socialmente pericolosa che la legge definisce come reato, definendone al contempo gli elementi costitutivi./ Non è reato il fatto che, pur presentando gli elementi che la legge definisce come costitutivi di un reato, manifesti per la società un pericolo insignificante per la scarsa rilevanza di esso e perché le conseguenze negative da esso derivanti sono minime o del tutto assenti’’. Raffrontando tra loro le esperienze di tre Paesi post-comunisti che si sono dati un nuovo codice penale, si può osservare che anche il codice croato e quello russo, come quello sloveno, contengono una disposizione che contempla il fatto penalmente irrilevante. Tuttavia, mentre il legislatore croato ha scorporato tale nozione da quella di reato, anzi, per la precisione ha omesso ogni definizione di reato, prevedendo nell’art. 28 del codice del 1997 il ‘‘fatto irrilevante’’; quello russo, invece, si è dimostrato più fedele alla tradizione, mantenendo entrambe le definizioni all’interno dello stesso articolo (cfr. art. 14, primo e secondo comma — Concetto di reato — del codice russo del 1996).
— 659 — nale, elevando l’autorità giudiziaria ad anomala fonte di selezione delle fattispecie incriminatrici (come dire a fonte di produzione del diritto). L’attuale inquadramento dovrebbe, dunque, tracciare, in via di principio, un solco netto tra la competenza del legislatore, al quale spetta in via esclusiva di selezionare, secondo i criteri esposti nell’art. 7, le fattispecie meritevoli di pena, e quella dell’autorità giudicante, alla quale è concesso soltanto di negare la rilevanza penale del fatto secondo regole predeterminate dal legislatore; vale a dire, quando, nel caso concreto, sia ricostruibile la mancanza di antigiuridicità (cfr. gli artt. 11 e 12), o di colpevolezza (cfr. prima parte dell’art. 13) o, appunto, l’assenza di pericolosità (alla stregua dei parametri indicati nell’art. 14). In questo assorbimento sistematico dell’art. 14 nell’orbita delle scriminanti si può cogliere lo sforzo dei giuristi sloveni di conferire, anche attraverso una nuova collocazione topografica, un nuovo ruolo funzionale ad un istituto della legislazione socialista attorno al quale si sono addensati forti dubbi e perplessità (51). Al contempo, però, si può osservare (51) In Italia l’istituto è stato oggetto di un vivo e intenso dibattito dottrinale, anche per i suoi agganci con la concezione realistica del reato prospettata in relazione all’art. 49 cpv.; sull’argomento, v. M. GALLO, voce Dolo, cit., p. 786 ss.; G. NEPPI MODONA, voce Reato impossibile, cit., p. 976. Mette in rilievo l’identità di prospettiva tra l’indirizzo realistico di Neppi Modona e la pericolosità sociale dell’azione delle legislazioni socialiste P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova, 1972, p. 18. Premessa alla ristampa; sottolinea, invece, la sostanziale e netta diversità tra le due teorie, F. BRICOLA, voce Teoria, cit., p. 76, per il quale il giudizio sulla pericolosità sociale dell’azione nei Paesi socialisti esprime una sorta di tensione dialettica tra l’oggetto giuridico specifico tutelato nella singola fattispecie e l’oggetto giuridico generico della società socialista non rinvenibile, ovviamente, nella tesi realistica di Neppi Modona; senza contare, poi, che tra i parametri indicati dal legislatore socialista per il giudizio sulla pericolosità sociale dell’azione figura anche la colpevolezza dell’agente, che non compare, invece, sottolinea Bricola, nell’art. 49, 2o comma del codice italiano. Da notare, peraltro, come già si è messo in evidenza, che tale requisito è richiesto, cumulativamente ai requisiti oggettivi, anche dall’art. 14 del codice sloveno odierno. Su questa specifica tematica, comunque, più diffusamente, v.: L. DURIGATO, Concetto e significato dell’oggetto del reato nel diritto penale socialista cecoslovacco, in questa Rivista, 1959, p. 1197; ID., Uno studio, cit., p. 49 ss.; V. SOLNAŘ, La nozione di pericolo, cit., p. 1060 ss.; S. DE SANCTIS, Il codice penale della Repubblica Socialista del Vietnam cit., p. 262 ss.; P. NUVOLONE, Pericolosità sociale dell’azione, pericolosità sociale del delinquente e problema della legalità, in Indice penale, 1967, p. 3 ss., è interessante sottolineare che l’Autore ricorda come anche ‘‘talune legislazioni occidentali, in base al principio di opportunità, ammettono che l’organo promotore dell’azione penale possa prescindere da ogni iniziativa allorché si tratta di fatti di minima importanza sociale: si è dato a queste fattispecie il nome caratteristico di Bagatellensache. Ma questa prospettiva processuale non si confa al nostro caso, anche se, al fondo, vi può essere una ratio ispiratrice analoga: si tratta, invero, dell’esercizio di un mero potere discrezionale sul piano processuale, che non incide sulla valutazione sostanziale’’. ‘‘Nel nostro caso, invece’’, continua Nuvolone, ‘‘non si tratta di un potere discrezionale, ma di una decisione dovuta perché il fatto non costituisce reato’’. La tematica dei reati bagatellari nei suoi numerosi profili e nelle sue innumerevoli implicazioni è stata ampiamente analizzata nell’interessante ed estremamente articolato lavoro di C.E. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985; nel quale, peraltro, l’Autore, nella ricca sezione dedicata alla disamina comparatistica, ha tratteggiato, in particolare nelle p. 433 e ss., le soluzioni di tipo sostanziale adottate dalle legislazioni dei paesi socialisti in rapporto alla problematica bagatellare; S. DE SANCTIS-F. SCLAFANI, Problematica penalistica e criminologica delle legislazioni penali socialiste, con particolare riferimento a quella della Repubblica Socialista cecoslovacca, Pubblicazioni dell’Istituto Superiore Internazionale di Scienze criminali, Quaderni di diritto penale comparato e di criminologia, I, Siracusa, 1981, p. 73 ss. e 95 ss.; S. DE SANCTIS, Profili della legislazione penale della Repubblica popolare cinese, Pubblicazioni dell’Istituto Superiore Internazionale di Scienze criminali, Quaderni di diritto penale comparato e di criminologia, II, Siracusa, p. 30 ss. e 144 ss.
— 660 — che l’opzione concretizzata nel dettato normativo dell’art. 14 finisce per esibire risultati alquanto contraddittori sotto il profilo della elaborazione teorica e della qualificazione dogmatica dell’istituto. Riemergono, insomma, quelle ambiguità e quelle incertezze che contrassegnavano la clausola liberatoria del codice socialista (52). Pur rimarcando che il legislatore, nell’art. 14, ha puntualmente indicato gli elementi (oggettivi e soggettivi) in riferimento ai quali graduare il disvalore penale (= pericolosità) del fatto, non si può, per contro, omettere di segnalare che l’essenza eterogenea di questi indici impedisce di individuare con esattezza la natura della scriminante ivi disciplinata e, di conseguenza, la sua funzione. È impossibile, cioè, ricondurre dogmaticamente tali criteri regolativi ad una matrice unitaria, a meno che, data la sfera di appartenenza, questa matrice non la si voglia identificare in una sorta di antigiuridicità materiale. Così come la polifunzionalità pratica dell’antigiuridicità materiale consentirebbe, secondo autorevole dottrina (53), la quantificazione dell’illecito, l’interpretazione del Tatbestand e il bilanciamento degli interessi; l’utilizzo dell’art. 14, sul piano applicativo, potrebbe far approdare a risultati analoghi. Riportare, dunque, una molteplicità di elementi eterogenei nell’alveo dell’antigiuridicità materiale o, come nell’art. 14, in quello della scarsa rilevanza penale, evocando, rispettivamente, un contenuto materiale dell’antigiuridicità o un contenuto materiale della pericolosità, può, infatti, servire soltanto per andare alla ricerca di principi sovralegali, ai quali ancorare, per l’appunto, cause di giustificazione non codificate o cause di giustificazione fondate su indici vaghi o elastici, con l’esito di risultati arbitrarii e divergenti (54), nei quali non è dato per certo, ma sicuramente è possibile, uno sconfinamento dall’interesse specifico tutelato dalla norma verso un interesse generico della tutela penale che, per quanto non connotato ideologicamente, può comunque creare serio allarme per la sua inevitabile natura contingente. ‘‘Nessuno’’, infatti, ‘‘può garantire veramente il cittadino’’, anche se si tratta di scriminante, e quindi di discrezionalità in bonam partem, ‘‘una volta che il giudice, sulla (52) Per la dottrina slovena, sull’istituto della ‘‘minima pericolosità sociale del fatto’’ del sistema socialista, si veda, in particolare, L. BAVCON-A. ŠELIH, Kazensko Pravo, Splošni Del (Diritto penale, Parte generale), II ed. Ljubljana, 1987, pp. 138-141; M. FABJANČIČ, Teoretični temelji neznatne družbene nevarnosti in prikaz tujih zakonodaj (Fondamenti teorici della scarsa pericolosità sociale e prospettiva comparatistica), in Pravnik, n. 8-10, Ljubljana, 1985, p. 349-364; ID., Kriteriji za oceno neznatne družbene nevarnosti po cl. 8/2 KZ SFRJ (Criteri fondamentali nella scarsa pericolosità sociale di cui all’art. 8/2 del codice penale SFRJ), in Pravnik, n. 1-2, Ljubljana, 1986, p. 33-54. In relazione al ‘‘fatto di scarsa rilevanza penale’’ di cui all’art. 14 del codice del 1995, v. L. BAVCON-A. ŠELIH, Kazensko Pravo, Splošni Del cit., III ed., p. 138 ss. e D. KOROŠEC, Die Strafrechtliche Relevanz der Opfereinwilligung, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1998, Heft 2, in particolare p. 554 ss. (53) V. C. ROXIN, Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito penale, Napoli, 1996, in particolare i concetti di antigiuridicità formale e materiale tracciati alle pp. 25-30; sulle teorie che si ricollegano all’antigiuridicità materiale v. P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, cit., p. 84 ss. (54) Come insegna G. MARINUCCI, Il reato come ‘azione’, Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 33, ‘‘i punti di vista materiali, [...] utilizzati per elaborare un’antigiuridicità ‘materiale’, in contrapposizione a quella formale e una colpevolezza ‘in senso materiale’ a fronte di quella in senso formale, sono serviti [...] alla dottrina e alla giurisprudenza per andare alla ’scoperta’ di nuove cause di giustificazione o di esclusione della colpevolezza, oltre quelle codificate, al dichiarato scopo di colmare pretese o reali lacune, [...], sotto la spinta di drammatiche e sempre inedite esigenze della prassi’’. V. anche ID., Fatto e scriminanti Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p. 1190, v., in particolare, pp. 1223-1224.
— 661 — scorta di criteri inevitabilmente soggettivi e non verificabili, si rende interprete dei valori sociali che avverte nella sua coscienza’’ (55). Il ricorso ad un istituto come quello prospettato nell’art. 14, così come il ricorso alla categoria dogmatica dell’antigiuridicità materiale, delegando al giudice il potere di individuare il catalogo delle cause di giustificazione, avvia l’interprete verso un percorso ermeneutico che allontana il sistema da quel modello garantista che, in nome di un’esigenza di certezza del diritto penale, non ammette oscillazioni ‘‘al di fuori e al di sopra del diritto positivo’’ (56), ed è altresì marcatamente distante da quella visione realistica (offensiva) del reato che dovrebbe avere come termini di raffronto soltanto due elementi individuati con estremo rigore: ‘‘da un lato il fatto concreto conforme al tipo, con esclusione di tutte le circostanze esterne alla realizzazione del tipo descrittivo, dall’altro, l’interesse specifico tutelato dalla norma incriminatrice, anche se assunto nella sua più precisa dimensione sociale [...]’’ (57). È vero che gli indici di graduazione (esiguità, ma anche assenza) della rilevanza penale nell’art. 14 sono previsti dal legislatore, ma è altresì vero che il loro connotato di genericità alimenta il rischio che l’operatore giudiziario attui delle letture interpretative estremamente personalistiche, fino a giungere a casi-limite (es. quasi stato di necessità, non integrante tutti gli estremi dell’art. 12) o ad applicazioni artificiose, ai confini, quindi, con l’arbitrio (58). Nella necessaria interazione e complementarietà tra il profilo formale e quello sostanziale che la concezione del reato accolta nel sistema sloveno postula, l’istituto disciplinato nell’art. 14 verrebbe a svolgere, dunque, un ruolo di mediazione tra i due momenti, che i giuristi sloveni, però, non sono stati in grado, a nostro avviso, nonostante le innovazioni sistematiche e sostanziali apportate, di precisare adeguatamente e che rievoca piuttosto, come già si è sottolineato, quella clausola liberatoria di altri tempi (59) che sembra decisamente (55) Così P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale cit., p. 18. Premessa alla ristampa. (56) Cfr. G. MARINUCCI, voce Antigiuridicità, in Dig. Disc. pen., vol. I, 1987, Torino, p. 185. Sottolinea F. BRICOLA, voce Teoria, cit., p. 29, come, ‘‘dall’antigiuridicità materiale traggono vita sia il concetto di Tätertyp in funzione scriminante, sia il concetto di azione socialmente adeguata’’. (57) Così, F. BRICOLA, voce Teoria, cit., p. 75. In rapporto a queste problematiche, v., di recente, la posizione di L. PETTOELLO MANTOVANI, Pensieri sulla politica criminale, in questa Rivista, 1998, p. 22 e ss., in particolare pp. 28 e 29. (58) Solo negli artt. 11 — difesa legittima — e 12 — stato di necessità —, dunque, sono rinvenibili quei requisiti che nel nostro sistema penale, secondo autorevole insegnamento, si veda G. MARINUCCI, Antigiuridicità, cit., p. 181, costituiscono il substrato delle autentiche cause di esclusione dell’antigiuridicità, vale a dire il ‘‘dovere’’ o la ‘‘facoltà legittima’’ di compiere il fatto stesso. Di Marinucci si veda, inoltre, voce Cause di giustificazione, in Dig. Disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p.130 ss. (59) Ricordiamo che nel 1953 G. VASSALLI, Il nuovo codice penale jugoslavo, Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, vol. XXIX, 1953, ora in Scritti Giuridici, vol. IV, Milano, 1997, pp. 210-213, indicava la norma contenuta nel secondo comma dell’art. 4 del codice federale jugoslavo (‘‘Non costituisce reato il fatto che, pur contenendo elementi costitutivi d’un reato stabiliti dalla legge, rappresenta un’insignificante pericolosità sociale, data la sua piccola importanza o insignificanza o assenza di evento dannoso’’) come ‘‘una delle disposizioni più interessanti dell’intero testo legislativo e una delle più coraggiose sue originalità’’, mettendone in luce il singolare vantaggio: quello, cioè, che una condotta umana diventa rilevante penalmente solo quando sussista il requisito della sua rilevanza sociale (pericolosità); in altre parole, ‘‘elemento costitutivo imprescindibile di ogni reato’’ è dato dall’effettiva realizzazione o dalla positiva e concreta realizzabilità di un danno; ‘‘col requisito della dannosità o pericolosità sociale del reato’’, come sottolineava l’Autore, ‘‘ci si muove su un piano diverso: sul piano dell’elemento materiale del reato e, meglio, del suo evento in senso giuridico’’. Di recente, in seno alla Commissione Bicamerale, la IV Bozza Boato aveva prospettato una soluzione analoga, nei risvolti concreti, a quella dell’art. 14 sloveno attuale, vale a dire
— 662 — disattendere quelle istanze di certezza del diritto e di uguaglianza fra tutti i consociati, istanze presenti, del resto, nelle intenzioni dei compilatori del codice. Cause di giustificazione. — L’art. 14, con il suo contenuto problematico, la sua natura ambigua e le sue strette correlazioni con la politica deflattiva, ha concentrato decisamente l’attenzione, ponendo in secondo piano le altre cause di giustificazione presenti nel codice. Un brevissimo cenno, però, va riservato anche ad esse. Anzitutto un rilievo di ordine quantitativo: il codice sloveno registra un numero di scriminanti inferiore al nostro. Non compaiono, infatti, il consenso dell’avente diritto, l’uso legittimo delle armi, l’esercizio del diritto o l’adempimento del dovere (60). Le cause di giustificazione contemplate legislativamente e definite tali anche dalla dottrina sono, dunque: la legittima difesa — art. 11 —, lo stato di necessità — art. 12 — e il costringimento fisico o per mezzo di minacce — art. 13 —. Non consentendo l’economia di questo lavoro di scendere in una analisi dettagliata delle singole figure, tenteremo, qui, di mettere in evidenza almeno quei tratti che possono apparire più interessanti al lettore italiano, alla luce di una prospettiva comparatistica. La prima riflessione porta a constatare che, per la legge slovena, l’esistenza di una causa di giustificazione fa venire meno il reato, mentre è nota la formulazione del nostro codice che si esprime in termini di non punibilità (61). In questo catalogo, poi, è ricompresa un’ipotesi che, nel nostro ordinamento, è configurabile come causa che fa venire meno la stessa tipicità: si tratta della previsione di vis absoluta, contemplata nel 1o comma dell’art. 13 — costringimento fisico —; a questo riguardo, poi, si può osservare la mancanza, nella legge penale slovena, della previsione di punibilità dell’autore della violenza, che il nostro codice, invece, statuisce espressamente (art. 46, 2o comma). Le ipotesi, poi, di vis compulsiva, nelle quali residuano, per la vittima, margini di autodeterminazione, vengono ricondotte al regime normativo dello stato di necessità, esattamente come prevede il nostro codice (art. 54, ultimo comma). Per quanto attiene alle esimenti della legittima difesa e dello stato di necessità, la comparazione rivela discipline sostanzialmente coincidenti. Merita, tuttavia, segnalare la presenza di alcuni profili di peculiarità. Tra essi, l’applicazione facoltativa dell’istituto della riduzione e del condono della pena: nella legittima difesa, rispettivamente, quando si verifichi un eccesso dei limiti e quando tale eccesso sia causato da turbamento o paura provocati dall’offesa (cfr. art. 11, 3o comma); nello stato di necessità, rispettivamente, quando il pericolo è provocato colposamente (62) e quando l’eccesso avvenga in circostanze attenuanti di rilevanza particolare (cfr. art. 12, 3o comma). una clausola generale con funzione deflattiva all’interno del modificando art. 112 Cost., che riconosceva al pubblico ministero il potere di chiedere al giudice di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale nei casi in cui l’offensività del fatto ovvero l’interesse pubblico al suo perseguimento risultino insussistenti; in argomento, v. G. FIANDACA, La giustizia penale in Bicamerale, in Foro it., 1997, V, 165. (60) In rapporto a questa figura va segnalato, però, che nella parte speciale del codice sloveno si rinviene un’ipotesi ad essa assimilabile; è la disposizione contenuta nell’art. 283 — Reato commesso per ordine di un superiore —, in materia di reati contro gli obblighi militari — cap. XXVI —, la quale statuisce: ‘‘Il subordinato che commette un reato per ordine di un proprio superiore non è punito, se l’ordine riguarda gli obblighi militari, salvo che si tratti di crimine di guerra o di altro grave reato, o se il subordinato è consapevole che l’esecuzione dell’ordine comporta la commissione di un reato’’. (61) La dottrina italiana è unanime nel ritenere che si tratti di esclusione dell’antigiuridicità. Già nel 1953, G. VASSALLI, Il nuovo codice penale jugoslavo, cit., p. 231, metteva in rilievo, condividendo la scelta, l’acquisizione, da parte del legislatore jugoslavo, del denominatore comune ‘‘non costituisce reato’’ delle cause di giustificazione, contrapponendolo in senso critico a quello ‘‘agnostico’’ della ‘‘non punibilità’’ che compariva, e compare tutt’ora, nel nostro codice. (62) Da notare che l’ipotesi di stato di necessità, in cui il pericolo sia provocato col-
— 663 — Da ultimo, va sottolineato che l’opzione del legislatore sloveno per una figura unica di stato di necessità è stata al centro di un vivo dibattito durante i lavori preparatori (63). Il contrasto verteva sulla alternativa tra una previsione unificata dell’esimente in esame — comprensiva dello stato di necessità giustificante e di quello scusante — e una concepita secondo il modello tedesco, nel quale figurano due norme distinte, disciplinanti l’una — par. 34 StGB — il Rechtfertigender Notstand e l’altra — par. 35 StGB — l’Entschuldigender Notstand. Gli estensori del codice sloveno, pur rilevando la diversità dogmatica esistente tra le due ipotesi — lo stato di necessità giustificante è causa di esclusione dell’antigiuridicità, mentre lo stato di necessità scusante incide sulla colpevolezza —, hanno ritenuto, pragmaticamente, che l’identità delle conseguenze giuridiche scaturenti dalle due situazioni — in entrambi i casi il venir meno del reato — non fosse tale da imporre una trattazione separata (64). 4. Concezione oggettivo-soggettiva del reato. — Accanto alla preoccupazione di circoscrivere l’uso del diritto penale alle sole aggressioni effettivamente offensive (pericolose) di beni giuridici davvero meritevoli di pena, un’altra fondamentale preoccupazione — se non posamente dall’autore, nel nostro ordinamento non prevede attenuazioni di pena, secondo un orientamento suffragato dalla dottrina; si veda C.F. GROSSO, voce Necessità (dir. pen.), in Enc. Dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 888 e G. FIANDACA-E. MUSCO, Dir. pen., cit., p. 261. (63) L. BAVCON, in Introduzione, cit., p. 13, fa espresso riferimento alle discussioni sorte in seno al gruppo di esperti incaricati di redigere lo schema codicistico. (64) La problematica ha riscontro, naturalmente, anche in ambito penalistico italiano, dove, com’è noto, la individuazione della ratio legittimante le due figure, la loro qualificazione dogmatica e le relative conseguenze di carattere giuridico hanno generato in dottrina orientamenti contrapposti, a fronte, comunque di una soluzione normativa indifferenziata. Secondo una parte della dottrina, infatti, L. SCARANO, La non esigibilità nel diritto penale, Napoli, 1948, p. 119 ss.; R. DOLCE, Lineamenti di una teoria generale delle scusanti nel diritto penale, Milano, 1957, p. 27 ss. il fondamento della non punibilità dello stato di necessità andrebbe ricercato nella impossibilità di esigere dall’autore un comportamento conforme al precetto ed eliderebbe, pertanto, la colpevolezza. La dottrina dominante, per contro, ha abbandonato il terreno della colpevolezza, nella convinzione che la ragione giustificatrice non può che risiedere nel bilanciamento degli interessi in conflitto, poiché una ricostruzione unitaria in chiave soggettiva della scriminante sarebbe ostacolata, come fanno notare G. FIANDACA-E. MUSCO, Dir. pen., cit., p. 259, dall’equiparazione di disciplina tra soccorso di necessità e stato di necessità cogente. V. anche E. CONTIERI, Stato di necessità, Milano, 1939, p. 120 ss.; C.F. GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità, Milano, 1964; G.V. DE FRANCESCO, La proporzione nello stato di necessità, Napoli, 1978, p. 42 ss. Secondo C. FIORE, tuttavia, Dir. pen., vol. I, cit., p. 338, l’esigenza di una previsione distinta delle due ipotesi, l’una escludente l’antigiuridicità, l’altra la colpevolezza, emergerebbe, comunque, nonostante l’assunzione del parametro unificante del bilanciamento degli interessi, per la definizione di certi casi controversi. Per l’Autore, ‘‘il fatto commesso in stato di necessità può considerarsi ‘giustificato’, solo quando esso comporti il sacrificio di un bene di minor valore, rispetto a quello da salvare; in tutti gli altri casi esso sarà solamente ‘scusabile’: il che significa che potrà essere legittimamente impedito e che restano impregiudicate le eventuali conseguenze di carattere civilistico derivanti dall’azione necessitata’’, che è poi la distinzione corrispondente a quella accolta, a livello di diritto positivo, nel codice tedesco, menzionata nel testo. Dello stesso avviso M. ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti e cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, p. 62; il quale conferma la sua opinione circa l’opportunità di una previsione autonoma dello stato di necessità scusante facente venire meno la colpevolezza anche in Giustificazione e scusa nella liberazione di particolari situazioni di necessità, in questa Rivista, 1991, pp. 46-47. L’Autore, peraltro, in questa sede, pp. 52-53, sottolinea la rilevanza che, in tale prospettiva, verrebbe ad assumere il concetto di inesigibilità come ‘‘fondamento materiale di specifiche cause scusanti’’, dotato di puntuale aggancio normativo, s’intende, e sganciato, quindi, dal ruolo di causa generale di scusa.
— 664 — addirittura la prima — degli estensori del testo codicistico, come risulta evidente sin dai documenti preparatori (65), è stata quella di conformare il modello penale al principio di colpevolezza. La colpevolezza, come principio giuridico-costituzionale, oltre ad essere contemplata, come si è già avuto modo di sottolineare, nella Costituzione, è stata, altresì, indicata tra i principi generali del capitolo primo ed elevata a caposaldo dell’intero assetto punitivo. E ciò al fine di edificare un sistema che, se per un verso si vuole ancorato saldamente al fatto, per altro verso, in funzione della medesima ratio di garanzia individualistica, si auspica esente da ogni forma di responsabilità oggettiva (66) e teso alla individualizzazione del rimprovero. Nel capitolo secondo del codice, infatti, oltre alle previsioni legislative che danno corpo alla concezione formale-materiale del reato, figurano, altresì, i disposti che traducono sul piano normativo la concezione oggettivo-soggettiva del reato stesso. Responsabilità penale. — Come categoria normativa e sistematica la colpevolezza trova disciplina nell’art. 15, norma con la quale il legislatore introduce la serie di disposizioni che regolano la responsabilità penale. Il concetto di colpevolezza accolto nel sistema penale odierno costituisce senza dubbio una delle novità più significative della riforma del ’95. La prima realtà normativa che deve essere presa in esame è rappresentata dalla rubrica dell’art. 15, che è già di per sé sintomatica del cambiamento: nel disciplinare, dopo fatto e antigiuridicità, il terzo elemento della teoria del reato, il legislatore lo ha, infatti, contrassegnato anziché con l’espressione ‘‘krivda’’ (colpevolezza) con la locuzione ‘‘kazenska odgovornost’’ (responsabilità penale). Tuttavia, l’aspetto di maggior rilievo della norma in esame non si limita al mero dato linguistico ma si coglie nel contenuto ad esso sotteso. L’esordio dell’art. 15, nel quale si afferma che ‘‘l’autore di un reato è responsabile quando è capace di intendere e di volere e colpevole’’, introduce, invero, il primo punto saliente, già in grado di orientare l’interprete nella ricostruzione del concetto. Da esso si deduce, infatti, che alla base della struttura sistematica della colpevolezza, rectius della responsabilità penale, è collocata l’imputabilità — prištevnost — (art. 16). Il codice sloveno, dunque, diversamente dal nostro, non sembra lasciare dubbi circa questa problematica: la capacità di intendere e di volere è il primo imprescindibile presupposto del giudizio di rimprovero mosso al soggetto agente. Normativamente, esistono due sole forme di esclusione della imputabilità: il vizio totale di mente — neprištevnost — e il vizio parziale di mente — bistveno zmanjšana prištevnost —, secondo una articolazione molto meno dettagliata rispetto a quella prevista dal codice italiano. Esiste, poi, una terza tipologia, residuale, di cause di esclusione dell’imputabilità, non prevista espressamente, in forza della quale l’incapacità di intendere e di volere che si (65) Rimarca con decisione la supremazia della colpevolezza, nell’ambito della teoria del reato, rispetto all’elemento oggettivo nonché all’antigiuridicità del fatto, L. BAVCON, Temeljna načela cit., p. 391, fino a sostenere che, svincolatasi dall’influenza di una ‘‘arretratezza giuridica orientale’’, la Slovenia, deve ora coltivare con estrema cura una così preziosa conquista della cultura e della civiltà umana (‘‘...ko smo se na srečo izivili iz objema in pritiska orientalskega primitivizma skrbno gojiti’’). Nel panorama della dottrina italiana, sul principio di colpevolezza, v. per tutti, la trattazione di A. ALESSANDRI, Il Io comma dell’art. 27, in Commentario della Costituzione, Rapporti civili, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1991, pp. 1-161, con ricca bibliografia sull’argomento. (66) Già durante la preparazione del codice, L. BAVCON, Temeljna načela, cit., p. 391, riferendosi al principio ‘‘nulla poena sine culpa’’ affermava: ‘‘Ta določba je izraz poudarka, ki ga je delovna skupina želela dati krivdnemu načelu, poudarka, ki naj pripomore k izgonu objektivne odgovornosti iz naše sodne prakse’’ (Questa norma — l’Autore si riferiva all’art. 4 del progetto contenente il principio di colpevolezza — è una dichiarazione di notevole rilevanza, che il gruppo di lavoro ha voluto riservare al principio di colpevolezza al fine di estromettere ogni forma di responsabilità oggettiva anche dalla prassi giudiziaria).
— 665 — manifesti concretamente in forme diverse da quelle previste legislativamente può, comunque, esplicare una efficacia attenuante generica. Segue la categoria della colpevolezza — krivda —. Nel definirne i confini, il 2o comma dell’art. 15 statuisce che ‘‘l’autore di un reato è colpevole se ha commesso il fatto con dolo o con colpa’’. La previsione consente di rilevare una preziosa indicazione: dolo e colpa, che in passato costituivano il nucleo della nozione psicologica della colpevolezza, ora sono concepiti come frammenti di un giudizio normativo più complesso, definito, per l’appunto, ‘‘responsabilità penale’’ ed hanno la funzione di esprimere la misura dell’intensità del rimprovero mosso al soggetto agente. Se, complessivamente, l’impianto concettuale di dolo e di colpa è ascrivibile a teoriche sostanzialmente classiche, va, per contro, puntualizzato che nell’ambito dell’illecito colposo, il sistema sloveno, in sintonia con gli orientamenti più all’avanguardia in materia, ci consegna un modello che rivela alcuni interessanti aspetti di modernità, tesi a conferire al reato colposo una sua autonomia strutturale sia sul piano della tipicità che su quello della colpevolezza. Non è la parte generale a svelarci il cambiamento, ma quella speciale. In quest’ultimo ambito, infatti, il legislatore sloveno, con la riforma del ’95, ha introdotto una serie di fattispecie che si contraddistinguono per essere essenzialmente colpose. Il classico principio secondo cui il delitto è essenzialmente doloso è stato, così, infranto, seppur cautamente (67), con l’ammissione di una tipologia di illeciti previsti nella sola forma colposa. Evidentemente influenzato dalla dogmatica penalistica tedesca, ma altrettanto fortemente motivato da istanze concrete della prassi interna, egli ha, perciò, rinunciato ad inserire nel corpo normativo fattispecie penali dolose, costantemente disapplicate, per prevederle, invece, nella sola forma colposa, l’unica costantemente applicata, come la statistica giurisprudenziale conferma (es. art. 190 ‘‘Negligenza in prestazioni mediche’’, art. 192 ‘‘Negligenza nello svolgimento di attività farmaceutica’’ o art. 325 ‘‘Causazione colposa di un incidente stradale’’). Il mutamento è significativo sotto vari profili, ma soprattutto rispecchia il ruolo vitale esercitato dalla elaborazione della parte speciale nell’ammodernamento dell’assetto penalistico, denunciando, per contro, la scarsa incisività della parte generale su tale dinamica, data la presenza in essa di una struttura del reato ancorata fondamentalmente al modello doloso (68). Ma è dalla seconda parte dell’art. 15 che traspare il tratto determinante dell’odierna impostazione. Il legislatore, infatti, consente di muovere un rimprovero ad un soggetto imputabile e colpevole, solo se, nel commettere il fatto di reato, questi ‘‘era o avrebbe dovuto e potuto essere consapevole dell’illiceità del fatto’’ medesimo. La nozione di colpevolezza non coincide dunque più, come anticipato, con le due forme psicologiche del dolo e della colpa, che pure mantengono una loro funzione, ma consiste in un giudizio di valore negativo sulla condotta di un soggetto per non avere agito in conformità con le norme di comportamento vigenti, siano esse generali, sociali, morali, nonostante egli conoscesse tali norme o avesse dovuto e potuto conoscerle e quindi agire in conformità con esse. Dall’analisi di queste prime norme codicistiche traspare, dunque, che la nozione di responsabilità penale tratteggiata dal legislatore va oltre quella connotazione ‘‘psicologico-normativa’’ con la quale la dottrina slovena, ha prudentemente (forse per il timore di svolte (67) La stessa dottrina è prudente circa i risvolti dogmatici di questa opzione: ‘‘Boli exsperimentalno kot na splošno je ta tip kaznivega dejanja uveden pri kaznivih dejanjih...’’ afferma, infatti, L. BAVCON, Uvodna pojasnila, cit., p. 40, sottolineandone l’introduzione sperimentale. (68) In una ricognizione dei caratteri d’identità del diritto penale moderno, dal suo provocatorio fronte di osservazione, C.E. PALIERO, Tecniche di tutela e riforma del codice penale, in Valori e principi della codificazione penale, cit., pp. 137-170, tratteggia, con la consueta e stimolante metodologia analitica, la fisionomia del diritto penale attuale, evidenziandone i sofferti e asfissianti limiti, anche in relazione alla impotenza attuale della parte generale di rigenerare il sistema penale. Di grande interesse, per queste problematiche, anche ID., L’autunno del patriarca, in questa Rivista, 1994, p. 1242.
— 666 — troppo radicali) qualificato la categoria in questione (69) e si rivela, di fatto coincidente con quell’idea ‘‘normativa’’ di colpevolezza oggi pressoché dominante nella maggior parte dei sistemi penali (70). Il testo legislativo, infatti, è sufficientemente chiaro al riguardo: non si è, invero, in presenza di una operazione che comporta semplicemente l’innesto di un elemento normativo su uno psicologico, bensì ad una trasformazione dello stesso modo di concepire l’elemento psicologico. In altre parole, nel quadro normativo riformato muta la prospettiva relazionale tra elemento psichico — dolo e colpa — (che nel sistema precedente esauriva la dimensione della colpevolezza) e responabilità penale; ma muta al contempo l’essenza stessa dell’elemento psicologico. Dolo e colpa costituiscono l’elemento fattuale, empirico-descrittivo, che serve a delimitare l’oggetto del rimprovero; non più, quindi, criterio per il rimprovero, ma necessario presupposto di quest’ultimo, da valutarsi alla luce di altri criteri individualizzanti, come la imputabilità o la consapevolezza dell’illiceità o l’esistenza di circostanze particolari o di giustificati motivi o di scusanti che possono avere inciso sul processo motivazionale dell’autore. Sulla scorta di queste considerazioni si può approdare ad una constatazione: il momento centrale di tutta la struttura della responsabilità penale risulta essere proprio questo profilo normativo, caratterizzato dai parametri individualizzanti ora segnalati, e, nel caso della colpa, in particolare, esso è connotato da un elemento ulteriore che è la esigibilità in concreto per il soggetto di uniformarsi alla norma. Va segnalato, infine, come l’accoglimento dell’idea normativa della responsabilità penale ha comportato, com’è intuibile, delle ricadute significative anche nell’approccio alla tematica dell’errore (artt. 20 e 21), ad essa complementare, in rapporto alla quale, per ovvi motivi, in questa sede ci limitiamo a ricordare soltanto l’introduzione, nel codice del ’95, del concetto di errore evitabile (art. 21, 2o comma). Reato tentato. — Se è vero che l’istituto del tentativo rappresenta sempre un ‘‘fondamentale banco di prova del modello di diritto penale fatto proprio da qualsiasi legislatore’’ (71), ebbene si può ben dire che questa sua funzione esso adempie con eccellenza anche nell’ordinamento sloveno, svelando, per l’appunto, alcune delle contraddizioni che, a nostro avviso, la riforma del ’95 ha portato con sé. Il reato tentato ha rappresentato una delle categorie più tormentate e più discusse del diritto penale sloveno nell’esperienza socialista. L’assenza di tassatività caratterizzante la previsione del tentativo contenuta nel codice federale del 1948, nonché la mancanza di criteri normativi atti a definire in modo certo la sfera di punibilità degli atti preparatori si è ripercossa sul piano applicativo, favorendo un’ampia discrezionalità giurisprudenziale e, in taluni casi, soprattutto nel settore dei delitti politici ed economici (72), una utilizzazione dell’istituto a chiari fini repressivi. La previsione attuale del reato tentato si colloca in una prospettiva per alcuni versi difforme dalla precedente, anche se elementi di continuità con quest’ultima sono tuttora riscontrabili. Questo il dato normativo: ‘‘Chi, avendo dato inizio all’esecuzione di un reato doloso, non lo porta a consumazione, è punito per tentativo, quando si tratta di reato per il quale è prevista la pena detentiva pari o superiore nel massimo agli anni tre; tutti gli altri reati san(69) Così L. BAVCON, Temeljna načela, cit., p. 390; ID., Introduzione, cit., p. 14. (70) Sull’evoluzione di tale concetto in Slovenia, v. L. BAVCON, Pomen kazenske odgovornosti in njenega pravilnega ugotavljanja za zakonito, pravilno in pravično sojenje (L’importanza della responsabilità penale e del suo corretto accertamento per un processo legale, regolare e giusto), in Ugotavljanje kazenske odgovornosti (Accertamento della responsabilità penale), 1980, p. 5-22 (volume non edito). (71) Come ricordano G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di Diritto Penale, cit., 1995, p. 163. (72) Per le fonti bibliografiche si rinvia alla nota (21).
— 667 — zionati diversamente sono puniti a titolo di tentativo soltanto se la punibilità è prevista espressamente dalle legge./ Chi compie un tentativo è punito con la pena prevista per il reato consumato, che può anche essere ridotta’’ (art. 22). In un raffronto con la disciplina socialista si può osservare, anzitutto, che l’art. 22 ora citato sottende una chiara opzione a circoscrivere l’area dei fatti punibili a titolo di tentativo. Il disposto in parola, infatti, indica il criterio oggettivo di delimitazione dei confini concernenti l’area suddetta, individuandolo nel regime sanzionatorio e stabilendo, dunque, la configurabilità del tentativo soltanto per i reati puniti con una pena detentiva pari o superiore nel massimo agli anni tre. La ratio che governa tale previsione consiste, perciò, nell’ammettere il reato tentato solo in rapporto ai reati più gravi, come avviene, del resto, pure nel nostro ordinamento; anche se, dopo questa affermazione che consacra la regola generale, lo stesso legislatore introduce un’eccezione, estendendo la punibilità per tentativo anche ad altre fattispecie criminose punite in modo meno grave. In tal caso, però, la punibilità della fattispecie tentata deve essere stabilita espressamente dalla legge. La tendenziale riduzione dell’area punibile trova, poi, conferma nella non incriminazione dell’attività preparatoria. Il silenzio del legislatore al riguardo ci fa ritenere, invero, che questa sia la regola, per quanto tacita (73). La conclusione è avvalorata dalla presenza, nella parte speciale del codice, di alcune fattispecie criminose aventi ad oggetto condotte preparatorie. Ebbene, il numero esiguo di siffatte ipotesi, ma soprattutto la loro previsione espressa ci induce a dedurre che esse costituiscano una eccezione alla tacita regola ora prospettata. Quel che più preme sottolineare è, dunque, il fatto che a seguito della riforma del ’95 la repressione dell’attività preparatoria non è più demandata all’interpretazione giurisprudenziale, come avveniva in passato (74), ma è affidata, e limitata, alla esplicita previsione del legislatore. Legislatore che, per evidenti ragioni general-preventive, ha ritenuto opportuno, in talune ipotesi, anticipare la soglia di tutela di alcuni beni giuridici (75). Sebbene queste novità paiano consegnarci un istituto complessivamente più garantista di quello contemplato nel codice precedente, la struttura dell’art. 22 sembra, per contro, indebolire tale convincimento. E infatti, in primo luogo, non è dato rinvenire nel codice criteri atti ad individuare la (73) Questa linea è, peraltro, rinvenibile nei lavori preparatori. Nella Motivazione introduttiva della bozza progettuale, infatti, si sottolinea come l’incriminazione dell’attività preparatoria in via generale contrasterebbe con il principio di tipicità e di tassatività (si legge, infatti, ‘‘Osnutek ne pozna instituta pripravljalnih dejanj ne kot delictum preparatum, ne kot delikt lotevanja, ker bi to bilo v nasprotju z načelom določenosti kaznivega dejanja v zakonu. Drugače je seveda, če je kako po naravi stvari pripravljalno dejanje inkriminirano kot posebno kaznivo dejanje). (74) Già abbiamo ricordato che nella parte generale del codice della RSFJ vi era una previsione normativa, dal tenore tutt’altro che tassativo, — l’art. 18 — che contemplava la punibilità dell’attività preparatoria e statuiva: ‘‘Chi compie dolosamente atti preparatori di un reato, è punito soltanto se la legge lo prevede, per la particolare pericolosità sociale di tali atti./ La legge può stabilire che gli atti preparatori di un reato costituiscano una fattispecie di reato a sé stante o può prevedere che gli atti preparatori di un determinato reato siano punibili./ Quando la legge prevede la punibilità degli atti preparatori di un reato, gli atti medesimi possono consistere nel procurarsi o apprestare strumenti per il compimento del reato, nell’eliminare ostacoli per il compimento del reato, nel prendere accordi o fare progetti con altri per il compimento del reato oppure nell’organizzare il reato stesso o anche nel compiere altre azioni con le quali crea le condizioni per la commissione immediata di un reato, il che, di per sé non è ancora un’azione commissiva’’. Sottolineava l’‘‘estrema latitudine di apprezzamento’’ concessa al giudice nel sistema socialista jugoslavo, G. VASSALLI, Il nuovo codice penale jugoslavo, cit., p. 231. (75) Si veda: l’art. 251 — Fabbricazione, acquisto e alienazione di mezzi per la contraffazione—; l’art. 298 — Accordo per la commissione di un reato — e l’art. 309 — Fabbricazione ed acquisizione di armi e di strumenti destinati al compimento di un reato —.
— 668 — soglia interna del tentativo, il che, soprattutto ora che l’attività preparatoria non è, in via di principio, punita, sarebbe risultato vitale sotto il profilo garantistico. Il secondo rilievo attiene al regime sanzionatorio: il reato tentato non prevede mitigazioni rispetto a quanto stabilito per la consumazione. L’unico ammorbidimento sul piano punitivo consiste nella possibilità offerta al giudice di procedere, qualora lo ritenga opportuno, ad una riduzione della pena ai sensi dell’art. 22, 2o comma e dell’art. 42. Il giudizio di opportunità, in tal caso, consisterà nella valutazione, svolta in sede di commisurazione della pena, circa la pericolosità estrinsecata dal soggetto nella condotta realizzata. Questo taglio soggettivo è, poi, ribadito anche nella figura contigua al tentativo: il tentativo inidoneo (76), punito nella stessa misura del reato tentato (e quindi del reato consumato), nonché, per quanto in forma più blanda, nell’istituto della desistenza volontaria (77). Non soltanto il tentativo, dunque, è punito come il reato consumato, ma anche il tentativo inidoneo è sottoposto al medesimo regime sanzionatorio, sebbene resti aperta, a giudizio discrezionale, però, dell’autorità giudicante, la strada del condono ex art. 44. I profili ora messi in luce rivelano, dunque, una sostanziale incongruenza con la disciplina dell’art. 22, 1o comma e tradiscono, per contro, un orientamento tendenzialmente illiberale, volto a reprimere fondamentalmente la volontà delittuosa, senza nemmeno attendere, in taluni casi, l’esposizione a pericolo del bene; e in cui oggetto e fondamento stesso della responsabilità finisce per essere la volontà colpevole, completamente affidata al vaglio discrezionale del giudice, con una forte compromissione, quindi, del principio di offensività e, prima ancora, di quello di tipicità. Concorso di persone. — Nodo cruciale nella legislazione socialista analogamente all’istituto del tentativo ora esaminato, la tematica del concorso di persone è stata regolata, nell’ordinamento attuale, in modo complessivamente non dissimile dal passato. L’impianto generale è strutturato secondo uno schema — modello differenziato — che ricalca, per l’appunto, la precedente normativa socialista, la quale, a sua volta, lo aveva ereditato dal codice penale del Regno di Jugoslavia del 1929. Alla luce dello spirito garantista, cui ha dichiarato di volersi decisamente ispirare in questa fase, il legislatore ha rivisitato la disciplina socialista previgente — riformulandone alcuni snodi decisivi —, nell’intento di renderla conforme a due esigenze fondamentali: per un verso il principio di determinatezza e per l’altro verso il principio di colpevolezza. E infatti, dal punto di vista tecnico-giuridico, i due profili essenziali che vengono in rilievo nel concorso di persone sono: la previsione di una apposita disciplina che consenta di incriminare condotte che di per sé non integrerebbero una fattispecie di reato — in ottemperanza al principio di legalità — e, — in attuazione del principio di colpevolezza — la necessità di graduare la responsabilità dei singoli partecipi, in relazione al ruolo svolto da ciascuno nella impresa comune e alla rispettiva misura di colpevolezza individuale. Il testo normativo traccia il profilo del coautore (art. 25) — il concorrente in senso stretto — nonché dell’istigatore (art. 26) e del complice (art. 27) — ossia il partecipe —. Sul piano della elaborazione dogmatica, il fondamento della punibilità delle condotte di partecipazione è stato spiegato dalla dottrina slovena, facendo ricorso alla teoria giuridica dell’accessorietà (78). La connotazione di ‘‘accessorietà’’ costituisce, di regola, una qualifica(76) Art. 23, 1o comma: ‘‘Chi tenta di compiere un reato con un mezzo inidoneo o contro un oggetto inidoneo può avere il condono della pena’’. (77) Art. 24: ‘‘Chi tenta di compiere un reato, ma desiste volontariamente dal portarlo a termine, può avere il condono della pena./ Chi tenta di compiere un reato, ma desiste volontariamente dal portarlo a termine, è punito per gli atti compiuti, se questi costituiscono di per sé reati diversi’’. (78) Sul punto, v. L. BAVCON-A. ŠELIH, Kazensko Pravo, Splošni Del, cit., III ed., pp. 266 e 267. Nella letteratura giuridica italiana, sull’argomento in generale v., per tutti, la trattazione di S. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987,
— 669 — zione imprescindibile e insostituibile per quelle condotte atipiche, la cui tipicità e punibilità non possono essere ricostruite senza il riferimento al fatto tipico principale e che risultano pertanto sempre condizionate alla commissione del reato da parte di altri. Nell’assetto sloveno la teoria dell’accessorietà è da intendersi, tuttavia, ‘‘limitata’’ sotto due profili. La prima ‘‘limitazione’’ si rinviene sul terreno del contenuto: per la repressione della condotta di partecipazione si ritiene, infatti, sufficiente la sua riferibilità ad una azione principale tipica, prescindendo, quindi, dalla sua punibilità in concreto (79). La seconda ‘‘limitazione’’ concerne la sfera di operatività: non tutte le condotte di partecipazione sono governate dalla accessorietà; in taluni casi, infatti, predomina la c.d. teoria principale (80), in forza della quale certi comportamenti concorsuali non richiedono come base di riferimento per l’incriminazione una condotta principale, ma assurgono essi stessi a un siffatto ruolo. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 26, 27, 28 e 29, che disciplinano la partecipazione, nonché in forza dei principi generali dell’ordinamento in materia di responsabilità penale, per la punibilità delle condotte di partecipazione — istigazione e complicità — è necessario che il reato sia realizzato dall’esecutore quanto meno nella forma tentata. Del resto, l’art. 28 in modo diretto ed espresso statuisce che ‘‘qualora l’esecuzione del reato si sia arrestata al tentativo, l’istigatore ed il complice soggiacciono alla pena prevista per il tentativo’’. Il che lascia intendere che non si dovrebbe poter arretrare la soglia di punibilità agli atti preparatori e che in tal senso l’esistenza di un fatto principale commesso dall’autore è condizione indispensabile per la incriminazione del partecipe. Tuttavia, la forte carica di pericolo che la condotta di istigazione rappresenta per il bene tutelato ha indotto il legislatore a riconoscerle, in taluni casi, anche una rilevanza autonoma, nell’ambito delle condotte di partecipazione. In forza di essa, ‘‘chi, dolosamente, istiga taluno a compiere un reato, per il quale è prevista la pena detentiva pari o superiore agli anni tre, soggiace alla pena prevista per il tentativo, anche se il reato non è stato neppure tentato’’ — art. 26, 2o comma —. Il rigore della statuizione, prevedendo la punibilità dell’istigatore anche se il reato non è stato neppure tentato, lascia alquanto sconcertati, poiché in tal modo fa dipendere la punibilità non dall’effettiva influenza esercitata dall’istigatore sull’esecutore del reato — e che dovrebbe rilevare, quindi, solo quando il comportamento di quest’ultimo assume la forma almeno del tentativo —, ma da un dato fluido e soggettivo quale è nonché G. INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Digesto disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 437. A sostegno della teoria dell’accessorietà, in forza della sua ratio garantista, nella dottrina italiana, si veda, in particolare, v. G. BETTIOL-L. PETTOELLO MANTOVANI, Dir. pen., cit., p. 656; G. FIANDACA-E. MUSCO, Dir. pen., cit., p. 443, C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale, vol. II, Torino, 1995, p. 83; C. PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, p. 22 ss. A sostegno della teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale, v. M. GALLO, Appunti delle lezioni, p. 118, secondo il quale dall’‘‘incontro dell’art. 110 e seguenti con ogni singola disposizione di parte speciale si ha la costituzione di nuove fattispecie’’; posizione più estrema quella di A. PAGLIARO, Principi di Diritto Penale, Parte Generale, IV ed., Milano, 1993, p. 552, il quale ritiene che dall’incontro delle norme di parte speciale con le norme sul concorso ne conseguirebbero tante fattispecie plurisoggettive differenziate, una per ogni soggetto concorrente. (79) Nel panorama della dottrina italiana, — v. G. FIANDACA-E. MUSCO, Dir. pen., cit., p. 442 e C. FIORE, Dir. pen., vol. II,, cit., p. 89 —, la teoria della accessorietà ha ricevuto varie elaborazioni, basate sui diversi gradi di rilevanza della condotta principale, che hanno portato ad individuare due e anche tre diverse versioni: l’accessorietà estrema, secondo la quale la punibilità della condotta di partecipazione dipende dalla realizzazione di una condotta principale tipica, antigiuridica e colpevole; l’accessorietà limitata, alla cui stregua è sufficiente che la condotta dell’autore principale sia tipica e antigiuridica e l’accessorietà minima che si accontenta della presenza della fattispecie tipica di reato. (80) V. L. BAVCON-A. ŠELIH, Kazensko Pravo, Splošni Del cit., III ed., p. 266-267 e 275-278; e L. BAVCON, Introduzione, cit., p. 17.
— 670 — la mera volontà; una curvatura soggettivistica, questa, tra le più vistose del corpo normativo, in cui l’anticipazione della punibilità porta, di fatto, a punire l’intenzione criminosa. È vero che anche il nostro ordinamento conosce, in materia, la possibilità di sottoporre un soggetto a misura di sicurezza quando vi sia stata un’istigazione a compiere un delitto, ma questa non sia stata accolta. Tuttavia, come si evince dall’art. 115 del codice penale italiano, in tal caso non solo la sanzione prevista è una misura di sicurezza, ma la sua applicazione è facoltativa. Nell’art. 26 del codice sloveno, invece, il legislatore è categorico: impone la pena prevista per il tentativo; il che significa, peraltro, come sappiamo, una pena pari a quella prevista per il reato consumato; anche se, poi, in virtù dell’art. 22, 2o comma, essa è suscettibile di riduzione. La soluzione ci sembra un grave vulnus al principio di materialità e di offensività e sorprende ancor di più se si pensa che, in forza del regime previgente, la norma diventava operativa quando la pena prevista per il reato (non realizzato) era pari o superiore ai cinque anni, mentre il codice attuale, avendo abbassato il limite a tre anni, comporta, come ben si può ben immaginare, una notevole dilatazione dell’applicabilità della norma. L’opzione ora segnalata, per quanto confliggente con il principio generale di legalità che sempre dovrebbe presiedere un’ipotesi di incriminazione, se osservata sotto altro profilo non è incongruente con la filosofia sottesa alla disciplina concorsuale slovena. Essa rispecchia, infatti, la peculiare struttura che la partecipazione ha nel sistema in esame, ove il legislatore, più che far leva sul disvalore della compartecipazione, come ad esempio il legislatore italiano, pone, per contro, l’accento principalmente sul contenuto (tipico) di ogni singola condotta e sul (diverso) disvalore che ciascuna di esse produce. E ciò anche quando si tratti di condotte che accedono ad una condotta principale. Anche in tali ipotesi, infatti, il significato penale del contributo non deriva in via esclusiva, come nel nostro modello unitario, dal vincolo associativo, né esclusivamente dal fatto principale (81). Dal contesto normativo, infatti, si coglie che la condotta del complice o dell’istigatore (anche nelle ipotesi di accessorietà, e quindi al di là dei casi di autonomia previsti per l’istigazione), per quanto collegata al fatto tipico di un altro, ha tuttavia un suo disvalore penale intrinseco. Il complice, infatti, ai sensi dell’art. 27, 1o comma (e così pure l’istigatore ai sensi dell’art. 26, 1o comma), è punito come se avesse compiuto il reato egli stesso; in altre parole egli non viene punito per avere aiutato altri a commettere il reato, ma per avere compiuto quel dato reato in qualità di complice o per avere determinato altri a commettere il reato in qualità di istigatore. Logica conseguenza di questo regime è che la responsabilità, e quindi la punibilità, sono concepibili solo entro i limiti di ciascuna singola condotta. L’art. 29, infatti, fornisce i canoni normativi dell’imputazione soggettiva concorsuale: da esso evinciamo che, mentre per la coautoria hanno rilievo sia la condotta dolosa che quella colposa; l’istigazione e la complicità, invece, non possono manifestarsi se non nella forma dolosa, come conferma la forma avverbiale — dolosamente — degli artt. 26 e 27 che contemplano, per l’appunto, l’istigazione e la complicità. Ciò a dimostrazione del fatto che l’architettura dogmatica della partecipazione non postula necessariamente, come nel nostro modello unitario, la presenza di condotte causalmente convergenti verso la produzione di un determinato evento, ma richiede, invece, la presenza di un elemento soggettivo, in rapporto al quale viene stabilita la responsabilità individuale di ciascun partecipe. Un cenno merita, infine, la soppressione del disposto contenuto nell’art. 26 del codice previgente. In virtù di esso, chi organizzava associazioni criminose era ritenuto responsabile per tutti i reati addebitabili all’associazione, indipendentemente dalla partecipazione effettiva e a prescindere dal ruolo svolto. Superfluo sottolineare che l’esistenza di una siffatta previsione all’interno di uno (81) Questa regola, tuttavia, subisce una deroga, e il vincolo associativo torna a rivestire un ruolo predominante, nell’ipotesi di una condotta integrante gli estremi di un contributo concorsuale, che non viene punita in quanto il reato non è stato realizzato; in tale ipotesi, dunque, il contributo individuale non ha forza autonoma.
— 671 — schema concorsuale che stabiliva, peraltro, anche la incriminazione dell’attività preparatoria risultava dilatare a dismisura l’area del ‘‘punibile’’ fino a ricomprendere la volontà criminosa e il vincolo cospirativo, e costituiva, perciò, posta anche l’evanescenza del dato oggettivo e materiale, uno dei terreni più inquietanti per la garanzia individuale (82). Ora, però, il primato della personalità della responsabilità penale (consacrato per la materia concorsuale nell’art. 29, 1o comma, dove è stabilito, appunto, che ogni concorrente è responsabile nei limiti della propria condotta senza riguardo a quella degli altri), unitamente al contenuto conferito al principio di colpevolezza hanno reso una tale forma di responsabilità (oggettiva) del tutto ingiustificata, e hanno, perciò, determinato il legislatore ad espungerla dal corpo normativo. Responsabilità penale delle persone giuridiche per i reati. — La necessità di contrastare l’amplificazione dell’attività criminosa di enti imprenditoriali e societari, soprattutto dopo la definitiva instaurazione dell’assetto capitalistico a libero mercato (è nel settore economico, infatti, che si registrano le più numerose e le più preoccupanti forme di criminalità poste in essere da enti collettivi), nonché l’intenzione di uniformare le nuove soluzioni legislative a quelle già presenti in alcuni Paesi dell’Europa occidentale avevano reso assai vivo l’interesse dei giuristi sloveni per la tematica in esame fin dai tempi in cui si andava elaborando il progetto del codice. Nonostante la grande attenzione polarizzatasi attorno a tale categoria, i compilatori della bozza ritennero, tuttavia, più opportuno non formalizzare positivamente una siffatta forma di coercizione punibile. Appariva, infatti, prematuro disciplinare una materia oltremodo ardua e complessa, che aveva ancora bisogno di assestamento e per la quale taluni (83) ritenevano temporaneamente adeguata la già esistente legge speciale sulle trasgressioni economiche, ereditata dall’ordinamento previgente (84). Nel corso del dibattito parlamentare sulla ricodificazione, però, è prevalso l’orientamento dei deputati di segno opposto, i quali, ribaltando l’indirizzo dei lavori preparatori ora menzionato, hanno optato per l’accoglimento dell’istituto in parola. Evidentemente la consapevolezza del progressivo acuirsi della potenzialità offensiva delle condotte illecite di società ed enti, ma forse più ancora l’ansia di sintonizzarsi con le tendenze predominanti negli Stati della Comunità Europea — proprio in quel periodo la Francia varava il nuovo codice penale, in cui accoglieva espressamente il postulato ‘‘societas delinquere et puniri potest’’ — (85), devono aver indotto il legislatore sloveno a rivedere lo schema progettuale presentato al Parlamento, arricchendolo del modello di responsabilità in argomento (86). (82) Non è casuale che la norma abbia trovato frequente applicazione soprattutto nella sfera dei delitti politici. Sull’argomento v. L. BAVCON, I. BELE, P. KOBE, M. PAVČNIK, Kazenskopravno varstvo države in njene družbene ureditve (La tutela penale dello Stato e del suo ordinamento costituzionale), cit. (83) In tal senso, ad esempio, si esprimeva L. Bavcon, al Congresso di Portorose dei giuristi sloveni, il 14 ottobre 1993, in una conversazione con la scrivente. (84) In proposito si veda O. PERIC, La responsabilité pénale des personnes morales: l’exemple du droit yougoslave, in Revue internationale de Criminologie et de police technique, n. 3/1989, pp. 278-289. (85) L’art. 121-2, 1o comma del nuovo codice penale francese così recita: ‘‘Les personnes morales, à l’exclusion de l’Etat, sont responsables pénalement, selon les distinctions des articles 121-4 à 121-7 et dans les cas prévus par la loi ou le règlement, des infractions commises, pour leur compte, par leurs organes ou représentants’’. Sull’argomento, nella letteratura italiana, cfr. G. DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, in particolare pp. 215 ss. È interessante osservare che anche in Cina, con la riforma penale del 1997, è stata introdotta la responsabilità penale delle persone giuridiche. Per un approfondimento sul punto, v. C. ZHONGLIN, Una svolta storica cit., pp. 588-589. Non contemplano, invece, tale forma di responsabilità i nuovi codici croato e russo. (86) Sottolinea, per contro, l’eccessiva fretta dei politici nell’introdurre nel codice la categoria penalistica in parola, vista anche la mancanza di chiarezza che contraddistingue
— 672 — La disposizione normativa che lo contempla è contenuta nell’art. 33 e così statuisce: ‘‘La legge stabilisce la responsabilità di una persona giuridica per un reato commesso in nome, per conto o a favore della persona giuridica medesima./ La legge stabilisce le pene, le sanzioni ammonitive e le misure di sicurezza, nonché le conseguenze giuridiche delle condanne per le persone giuridiche./ La legge stabilisce in rapporto a quali reati può essere responsabile una persona giuridica./ La legge fissa le norme procedurali apposite da applicare nei confronti delle persone giuridiche’’. Essa enuclea le coordinate essenziali della materia, affidando una loro regolamentazione specifica ad un apposito provvedimento che, in virtù del principio di riserva legislativa, non potrà che consistere in una legge formale approvata dalla maggioranza parlamentare. E un disegno di legge, invero, è stato già formulato ed è stato anche già sottoposto ad un primo vaglio parlamentare (87). Un così rapido e sollecito confezionamento palesa il proposito del potere politico di aiutare, con ogni mezzo, il modello istituzionale prescelto a consolidarsi al riparo da quelle insidie, anche di carattere criminale, che lo sviluppo turbinoso della nuova economia di mercato — fisiologico in una fase di transizione — può alimentare (88). Senza esplorare nei dettagli tale proposta normativa, dato il suo carattere di non definitività, ci limitiamo a soffermare rapidamente la nostra attenzione sull’intelaiatura portante dell’istituto che il dettato legislativo dell’art. 33, per quanto scarno e asciutto, tratteggia con sufficiente chiarezza. Ci avvediamo, allora, che la selezione delle fattispecie incriminatrici ascrivibili alle persone giuridiche è di competenza esclusiva del legislatore (art. 33, 3o comma), il quale sarà vincolato, però, in tale operazione, da criteri che egli stesso è chiamato a definire (89). Per quanto attiene al tipo di collegamento richiesto tra la persona fisica agente in concreto e la persona giuridica chiamata a rispondere, la soluzione legislativa sembra rievocare la teoria della rappresentanza, posto che nel 1o comma dell’art. 33 si fa riferimento a reati commessi in nome, per conto della persona giuridica. Il richiamo, però, anche ai reati commessi a favore della medesima implica un legame funzionale, sul piano degli interessi, che presuppone, più verosimilmente, un’idea organicistica tendente a superare la sfera della imancora la tematica, A. ŠELIH, Sistem kazenskega in kaznovalnega prava-izziv moderne države (Il Sistema penale ed il sistema sanzionatorio - sfida dello Stato moderno), in Podjetje in delo, n. 5-6/1994, p. 478-479. (87) Cfr. Poročevalec (Bollettino dei lavori parlamentari) n. 8 del 22 febbraio 1994. (88) In proposito, cfr. M. DEISINGER, Kazniva dejanja cit., pp. 516-521; v. in particolare, pp. 516 e 517, dove l’Autore, nello svolgere una ricognizione dei fattori che hanno influito in modo determinante sulla riformulazione della parte speciale, accanto alla costituzione di uno Stato indipendente e alla introduzione di un sistema parlamentare democratico, indica anche il nuovo sistema economico del libero mercato, il quale ha contribuito a delineare non solo una nuova ottica nella quale i reati economici sono stati ripensati, ma ha determinato altresì un nuovo approccio alla questione della responsabilità penale delle persone giuridiche. (89) Faceva osservare, invero, M. DEISINGER, Kazniva dejanja cit., pp. 520-521 come il testo di legge del ’94, rifiutando le tendenze parlamentari più radicali, miranti ad addebitare a una persona giuridica qualunque reato a partire dall’omicidio — progetto, peraltro, non raro, si sostiene, nell’ambito delle persone giuridiche —, abbia, invece, recepito un indirizzo più moderato, circoscrivendo le tipologie di reati attribuibili a un ente giuridico a quelle ontologicamente realizzabili dalla persona giuridica stessa. Rientrano in questo tassativo elenco, a titolo esemplificativo, tra gli altri, i reati contro l’economia, contro l’ambiente e i beni naturalistici. È interessante notare, dice l’Autore, come, invece, siano stati intenzionalmente esclusi da questo ambito i reti contro l’onore e contro la reputazione compiuti a mezzo stampa. Sebbene qui non osti un problema di carattere ontologico, — l’Autore, infatti, sottolinea come spesso questi illeciti siano realizzati con la partecipazione di una persona giuridica —, la punibilità, in siffatte ipotesi è stata ritenuta inopportuna, comportando costi troppo elevati in termini di libertà di stampa e democraticità dei media.
— 673 — putazione indiretta e in forza della quale l’attività degli organi diventa automaticamente imputabile alla persona giuridica (90). Per quanto concerne, infine, la tipologia delle sanzioni adottate, il legislatore, ha previsto un ventaglio sanzionatorio comprensivo non solo di pene — pecuniarie — ma anche di sanzioni ammonitive nonché di misure di sicurezza (91). Nessun cenno, invece, all’altra complessa problematica emergente in questo ambito, vale a dire la individuazione dei meccanismi sanzionatori. Per quest’ultima tematica così come per l’articolazione dettagliata ed esauriente delle altre bisognerà, dunque, attendere l’approvazione della legge specifica (92). 5.
Sistema sanzionatorio.
Considerazioni generali. — Così come tra i postulati fondamentali che hanno conferito l’imprinting alla nuova codificazione non esiste, per i motivi già segnalati, una dichiarazione di principio sul ruolo del diritto penale, analogamente, nella sezione dedicata alle sanzioni non è dato rinvenire alcuna disposizione legislativa che abbia ad indicare la funzione ad esse assegnata. Fanno eccezione le misure educative per i minori, le cui finalità di educazione e socializzazione risultano esplicitamente dal testo normativo (93). Nel codice previgente, invece, lo stesso legislatore indicava in un’apposita norma — (90) Per una approfondita disamina della questione in oggetto, nella dottrina italiana , v. per tutti, F. BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 951 ss. e A. ALESSANDRI, Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984, il quale, dopo aver dimostrato che l’affermazione ‘‘societas delinquere non potest [...] sul piano giuridico, non costituisce un dogma, ma la conseguenza di una certa strutturazione, storicamente variabile, del sistema penale’’ (p. 38), puntualizza che ‘‘è il complessivo profilo personalistico dell’illecito penale che si oppone al superamento del principio ‘societas puniri non potest’, da considerarsi non più un assioma, ma la conseguenza razionale di un preciso ruolo assegnato dal costituente al magistrato punitivo: quello di rivolgersi alle sole persone fisiche’’ (p. 63). (91) Nella tematica della responsabilità penale delle persone giuridiche, un profilo ampiamente discusso dai penalisti italiani attiene all’individuazione delle sanzioni penali applicabili, in particolare delle misure di sicurezza, la cui valorizzazione fu prospettata in un’ottica de jure condendo in contrapposizione alla sanzione penale stricto sensu da F. BRICOLA, Il costo, cit., p. 1012 ss. L’abbandono della sanzione penale a favore di modelli sanzionatori alternativi sembra, tuttavia, emergere in dottrina: A. ALESSANDRI, Reati d’impresa, cit., p. 65 ss., mette in evidenza, infatti, che l’utilizzo di tecniche sanzionatorie di tipo amministrativo o civilistico nel settore in parola potrebbero rivelare una più spiccata funzionalità rispetto alla sanzione penale; posizione, questa, riconfermata dall’Autore anche in Commento all’art. 27 comma 1, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna, 1991, p. 161. Sul punto si veda anche la recente Relazione della Commissione Grosso per la riforma del codice penale (Min. Giustizia 15 luglio 1999); in particolare, la parte del documento dedicata alla qualificazione delle sanzioni per le persone giuridiche inserite nel sistema penale, dove i Redattori prospettano la possibilità di adottare una ‘‘etichetta neutra, come quella di sanzioni accessorie: accessorie rispetto ad illeciti che potrebbero avere natura sia penale che amministrativa. Verrebbe in tal modo evidenziata’’ proseguono i Compilatori ‘‘la specificità di un diritto sanzionatorio delle persone giuridiche, quasi tertium genus fra il penale e l’amministrativo, e insieme additata la sua possibile connessione con l’uno e l’altro sistema’’. (92) Proprio in chiusura di questo lavoro, apprendiamo che la proposta di legge in parola è stata approvata dal Parlamento sloveno; v. Uradni List (Gazzetta Ufficiale) del 23 luglio 1999. (93) Dispone, infatti, l’art. 73 che ‘‘I provvedimenti educativi per i minorenni autori di reato hanno lo scopo di assicurare, per mezzo della tutela, dell’assistenza, del controllo, dell’abilitazione professionale e dello sviluppo al senso di responsabilità personale, la loro educazione, la loro rieducazione ed il loro corretto sviluppo’’.
— 674 — l’art. 33 —, gli obiettivi perseguiti attraverso la sanzione penale: la retribuzione, la prevenzione generale, la prevenzione speciale e l’evoluzione morale e sociale dell’individuo (94). Riproporre nel nuovo corso una simile previsione, però, avrebbe provocato, secondo i riformatori, uno stridente attrito con l’attuale impostazione di politica criminale, volta, in primo luogo, alla tutela della persona, fine ultimo del sistema penalistico (95). Per quanto ora nessun articolo menzioni in modo esplicito alcuna funzione della pena, la struttura complessiva dell’apparato sanzionatorio consente, comunque, di individuare il sostanziale eclettismo finalistico in esso accolto. Il meccanismo punitivo predisposto dalle disposizioni normative — apparentemente pura tecnica legislativa — si rivela, infatti, indicativo della filosofia sanzionatoria ad esso sottesa. Una filosofia ispirata al contemperamento o, per meglio dire, alla coesistenza di criteri di prevenzione generale e speciale, nonché di retribuzione; tutti vincolati, però, alla misura della responsabilità individuale (96). Ben si può dire, dunque, che i veri tratti peculiari del nuovo assetto sanzionatorio possono venire individuati per un verso nel primato della colpevolezza — soglia invalicabile di ogni finalismo punitivo —, per altro verso nell’uso dello strumento penale come ultima ratio — unica legittimazione dell’intervento sanzionatorio —. Sebbene l’ordine espositivo del codice ci ponga, in primo luogo, dinanzi alla categoria delle pene principali ed accessorie (la cui regolamentazione è scandita nel capitolo terzo), la ricostruzione dell’intero impianto punitivo, e soprattutto la comprensione del suo effettivo contenuto, impongono un riferimento anche alle sanzioni ammonitive (contemplate nel capitolo quarto) nonché alle misure di sicurezza (regolate nel capitolo quinto). Solo un esame congiunto delle tipologie sanzionatorie menzionate dà modo, infatti, di mettere sufficientemente in risalto uno dei tratti più qualificanti dell’attuale linea penalistica, ovverosia quella tendenza al ‘‘pluralismo’’ — per usare un’espressione cara alla dottrina slovena (97) — dei mezzi punitivi, che il legislatore ha instaurato — o per meglio dire consolidato —, nell’intento di fornire valide risposte sanzionatorie, sostitutive della pena carceraria classica. Nonostante, infatti, la pena detentiva figuri, quanto meno sotto il profilo topografico, in posizione primaria, questo suo ruolo risulta di fatto sensibilmente ridimensionato: anzitutto, in forza dell’ampliamento apportato alla sfera di applicabilità della pena pecuniaria, come pena principale; in secondo luogo, in virtù dell’attivazione di moduli alternativi rappresentati dalle sanzioni ammonitive, già presenti nella legislazione precedente, ma la cui disciplina e la cui funzione sono state ora sensibilmente rinnovate. A ciò si aggiunga, infine, il contenimento della sua portata operativa, raggiunto, sul piano commisurativo, attraverso la possibilità di attivare istituti come la riduzione o il condono della pena (contemplati, rispettivamente, negli artt. 42 e 44); sul piano dell’esecuzione, attraverso l’innovazione che prevede la possibilità di sostituire la pena detentiva breve di tre mesi con il lavoro volontario del condannato a favore di una organizzazione umanitaria o di una comunità locale, secondo le disposizioni dell’art. 107, 4o comma del codice. Si può notare, dunque, come il legislatore, pur senza rinunciare alla pena detentiva, per (94) L’art. 33 — Scopo delle sanzioni penali — del codice socialista così recitava: ‘‘Nell’ambito della funzione generale delle sanzioni penali (art. 5, secondo comma) lo scopo della sanzione è il seguente: 1) impedire che il reo commetta nuovamente dei reati e rieducarlo; 2) agire sulla società, educandola a non commettere reati; 3) rafforzare la moralità socialista d’autogestione e incidere sul senso di responsabilità e di disciplina della popolazione’’. Per una disamina sul fine della pena nei Paesi socialisti, v. G. PORZIO, Sistemi punitivi e ideologie, Napoli, 1965. (95) Come si evince dalla Motivazione introduttiva del Progetto di legge del codice. (96) A. ŠELIH, Problemi kasenskih sankcij, cit., p. 475-476, sostiene che un sistema sanzionatorio volto al perseguimento di un unico obiettivo sarebbe inaccettabile e soprattutto incompatibile con le diverse finalità che le varie categorie di reati mirano a soddisfare. (97) L’espressione ricorre, infatti, nei lavori citati di L. Bavcon, di A. Šelih e nella motivazione introduttiva del progetto.
— 675 — ridurre la sua applicazione, abbia messo in atto una serie di meccanismi che vengono così ad arricchire il ventaglio sanzionatorio presente nell’apparato punitivo sloveno. Questo processo di espansione presenta dei profili singolari, sui quali, seppur brevemente, merita svolgere alcune riflessioni. È doveroso, infatti, mettere in luce che gli strumenti apprestati a tal fine non solo risultano collocati, rispetto alla pena detentiva, su piani gerarchicamente non paritari, ma sono, altresì, operanti in momenti distinti della fase sanzionatoria. La sospensione condizionale della pena, ad esempio, il cui ruolo alternativo alla detenzione è spiccatamente evidente sul piano applicativo, è pur sempre una sanzione ammonitiva, la cui natura giuridica, pertanto, differisce necessariamente da quella delle pene principali. Per quanto, dunque, la dottrina — e soprattutto la giurisprudenza — valuti le due categorie in modo sostanzialmente omogeneo, la collocazione sistematica delle sanzioni ammonitive in un capitolo distinto da quello delle pene principali e l’essenza eterogenea delle prime rispetto a queste ultime tradiscono, per contro, una loro dignità ‘‘minore’’; del resto, non si può sottovalutare il fatto che la condanna condizionale prevede pur sempre un nucleo di pena detentiva, assolutamente determinante per la sua applicabilità. Analoga considerazione si può sviluppare in ordine all’applicazione del condono — art. 44 —, istituto che attiene alla dinamica commisurativa. Anch’esso, nell’ottica deflazionistica della pena carceraria progettata dal legislatore, contribuisce a ridurre l’ambito operativo della detenzione, comportando, in concreto, solo la pronuncia di una sentenza dichiarativa di condanna senza l’applicazione della pena; lo stesso risultato si persegue, infine, rimanendo sempre nei confini dell’istituto in parola, attraverso la possibilità concessa al giudice di astenersi dall’infliggere la pena nel caso di reato colposo — art. 45 —, quando le conseguenze pregiudizievoli del reato colpiscono il reo in modo tale da rendere l’applicazione della pena ingiustificata sia sotto il profilo della colpevolezza, sia sotto il profilo special preventivo. Dal quadro sinteticamente delineato si deducono, allora, alcune prime, sommarie costatazioni: se, invero, attraverso il meccanismo della commisurazione, sul versante giudiziale emerge un modello sanzionatorio policentrico, ruotante attorno ai tre perni della condanna condizionale, della pena pecuniaria e della pena detentiva, a conferma, peraltro, di una tendenza consolidatasi in tal senso già nell’assetto previgente; questo stesso modello non ha, per contro, un equivalente riconoscimento nella fase edittale. In altre parole, quella dialettica delle opzioni che pure si coglie in ambito applicativo, dove di fatto le varie sanzioni vengono applicate a prescindere dalla loro natura di pene principali o di misure sostitutive e/o alternative (98), non ha un riscontro sul piano normativo. Su questo fronte, infatti, il legislatore sloveno ha trascurato l’opportunità, che la formulazione di un nuovo codice offriva, di conferire pari ‘‘dignità’’ alle due tipologie di sanzioni — principali e ammonitive — già nella fase edittale. Qui egli avrebbe potuto estendere la previsione legislativa ad una gamma di sanzioni diverse dalla segregazione carceraria per reati non meritevoli di un siffatto trattamento punitivo, evitando con ciò di demandare al giudice il raggiungimento di un tale obiettivo attraverso la fase commisurativa. È vero che il potere del giudice risulta molto ampio in senso deflattivo, e non altrettanto in senso afflittivo (99). Tuttavia, resta pur sempre il fatto che inderogabili principi di garanzia avrebbero imposto al legislatore la previsione del catalogo edittale, quale sua funzione tipica ed esclusiva; mentre, invece, essa risulta — per buona parte — concretamente consegnata all’autorità giudiziaria, generando una sensibile divaricazione tra la pena astrattamente prevista dal legislatore e quella concretamente irrogata dal giudice (100). (98) Un esame della prassi giurisprudenziale rivela, infatti, un orientamento pressoché costante dell’autorità giudiziaria a fare ricorso in primo luogo alla condanna condizionale, quindi alla pena pecuniaria ed infine a quella detentiva. (99) ‘‘Ne pa zvišati’’ afferma, infatti, A. ŠELIH, Problemi kazenskih sankcij, cit., p. 476. (100) La questione relativa alla mancata corrispondenza tra pena edittale e pena irro-
— 676 — Per quanto concerne le singole sanzioni, molto sinteticamente ricordiamo quanto segue: Pene principali e pene accessorie. — Secondo l’art.35 del codice penale sloveno, ‘‘La pena detentiva è esclusivamente pena principale.⁄ La pena pecuniaria può essere sia principale che accessoria.⁄ Il divieto di condurre veicoli a motore e l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato vengono comminati solo come pene accessorie da infliggersi unitamente alle pene detentive o pecuniarie principali e alla condanna condizionale’’. Quindici giorni e quindici anni costituiscono i termini minimo e massimo fissati dal legislatore, entro i quali è consentito irrogare la detenzione (art. 37, 1o comma). La regola può, tuttavia, subire una deroga in presenza di reati dolosi più gravi; in rapporto ai quali, il giudice può optare per la pena della detenzione di venti anni, in forza dell’art. 37, 2o comma (101). Va aggiunto che la linea «morbida» accolta dal legislatore del ’95, la cui approvazione, peraltro, non fu priva di ostacoli, si inserisce in un contesto normativo che non prevede l’ergastolo e nemmeno la pena di morte (102). Per quanto attiene alla pena pecuniaria, è da sottolineare che i giuristi sloveni, esaminate con estrema attenzione le esperienze legislative dei vari Paesi europei che da anni ne stanno valorizzando il ruolo, nonché gli esiti delle esperienze applicative negli stessi conseguiti, hanno riproposto il provvedimento punitivo in parola, rinnovandone, però, significativamente il modello ereditato dal previgente sistema. Un profilo meritevole di rilievo concerne la natura bivalente della pena pecuniaria, concepita sia come pena principale che come pena accessoria (già abbiamo segnalato l’art. 35). Secondo la prima dimensione funzionale essa è destinata, di regola, a soddisfare la risposta punitiva dell’ordinamento nei confronti delle forme di media o piccola criminalità, per le quali la pena detentiva è ritenuta scarsamente efficace sotto ogni profilo. Nel ruolo di pena accessoria, invece, la sua previsione non è infrequente — com’è naturale nella sfera applicativa in questione — per contrastare anche reati di significativo disvalore penalistico. In questa seconda valenza funzionale, la pena in esame è contraddistinta da un taglio decisamente rigoroso, giustificato dallo scopo che la legge in tali casi persegue; volto, come si sa, ad accrescere l’afflittività della pena principale. Ma l’aspetto innovativo forse più apprezzabile dello schema normativo predisposto per la pena pecuniaria consiste nella profonda revisione apportata alla tecnica di previsione editgata rappresenta uno dei segni di crisi della giustizia penale anche nel nostro Paese, dove, il meccanismo sanzionatorio si articola, di fatto, in tre momenti: la fase edittale, la fase giudiziale e quella esecutiva. Sull’argomento v. C.E. PALIERO, Il principio di effettività nel diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 430 ss. e F. GIUNTA, R. ORLANDI, P. PITTARO, A. PRESUTTI, L’effettività della sanzione penale cit. Sulla necessità di restaurare la corrispondenza tra i due (o tre) momenti, nella letteratura più recente, v. L. FERRAJOLI, Quattro proposte di riforma delle pene, in Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, a cura di G. Borrè e G. Palombarini, Milano, 1998, p. 45; ivi, v. anche G. NEPPI MODONA, Crisi della certezza della pena e riforma del sistema sanzionatorio, p. 51 ss. (101) Va messo in luce che la novella pubblicata sull’Uradni List (Gazzetta Ufficiale) dell’8 aprile 1999 ha modificato tale disposizione, innalzando il limite edittale massimo della pena detentiva da venti a trenta anni. La novella manifesta un contenuto piuttosto eterogeneo; trattandosi, comunque, di un provvedimento legislativo di pubblicazione recente e coeva all’ultimazione di questo elaborato, non siamo in grado di fornire al lettore informazioni dettagliate ed approfondite circa la sua portata; possiamo solo osservare che essa si contraddistingue per il taglio repressivo delle previsioni: laddove le pene sono state modificate, la modifica si è sempre tradotta in un inasprimento della sanzione. (102) In Slovenia la pena di morte fu abolita con un emendamento (il n. XLVII) apportato alla Costituzione nell’ottobre 1989, v. Uradni List (Gazzetta Ufficiale) della Repubblica socialista di Slovenia n. 32 del 1989. Questo provvedimento, all’epoca, rappresentò un atto di ‘‘infedeltà’’ della Slovenia nei confronti del governo federale, che allora prevedeva ancora la pena capitale.
— 677 — tale. Abbandonata la determinazione della pena per somma complessiva, il legislatore è pervenuto, secondo quelli che sono gli orientamenti di politica criminale più attuali, ad un sistema a due fasi: la prima, volta alla determinazione dell’ammontare complessivo dei tassi giornalieri — compreso entro i termini edittali prefissati dalla legge —; la seconda tesa ad individuare l’importo del tasso medesimo, sulla base dei criteri indicati nel 2o comma dell’art. 38, e quindi a stabilire l’importo complessivo reale che il soggetto sarà condannato a pagare (103). Delle due pene solo accessorie — il divieto di condurre i veicoli a motore (art. 39) e l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato (art. 40) — la prima viene inflitta dal giudice, a sua discrezione, nei confronti di chi abbia commesso un reato contro la sicurezza nella circolazione pubblica e per questo sia stato punito con una pena principale detentiva o pecuniaria o con la condanna condizionale; la seconda viene irrogata nei confronti di cittadini stranieri che abbiano commesso un reato per il quale siano stati condannati a una pena detentiva o pecuniaria o alla condanna condizionale. Commisurazione della pena. a) Cenni generali sulla disciplina relativa alla commisurazione della pena. Andando a riscrivere il vecchio assetto sanzionatorio, il legislatore sloveno ha apportato delle profonde modifiche anche alla disciplina concernente la commisurazione della pena, avvalendosi dei contributi conoscitivi socio-criminologici acquisiti in varie legislazioni straniere — europee ed extraeuropee — attraverso il processo di rinnovamento che la scienza penalistica ha registrato in questi anni; ma, prima ancora, traendo alimento dai preziosi dati statistici che le indagini empiriche, condotte sul terreno della prassi giurisprudenziale interna nel corso degli ultimi decenni, hanno fornito (104). Connessa al potere discrezionale riconosciuto — se pur implicitamente — all’autorità giudicante, la commisurazione della pena è intesa come determinazione, affidata per l’appunto al giudice, dell’ammontare della sanzione, all’interno del regime edittale fissato dal legislatore per il reato base (cfr. art. 41, 1o comma). Il legislatore sloveno ha introdotto nel codice istituti di grande interesse, già presenti, peraltro, nella legge previgente, perfezionandone o modificandone la fisionomia e la disciplina, al fine di offrire all’autorità giudicante la possibilità di individualizzare la risposta punitiva, come già si è fatto cenno in precedenza. Tra di essi, alcuni — come la riduzione o il condono della pena (artt. 42 e 44) — attengono espressamente all’attività commisurativa; altri — si pensi alle sanzioni ammonitive (artt. 50-61) —, pur non rientrando specificamente nella disciplina della commisurazione, sono, tuttavia, destinati a condizionarla fortemente, come già abbiamo ricordato. Il quadro che ne emerge rivela che, se pur all’interno dei requisiti applicativi predeterminati dalla legge, l’attività discrezionale del giudice si estende dalla determinazione concernente l’ammontare della pena fino alla opzione tra sanzioni di specie diversa, in un contesto normativo che impone sì all’operatore giudicante vincoli rigorosi in rapporto alla discrezionalità «afflittiva», ma lo lascia, per contro, quasi illimitatamente libero in quella ‘‘deflattiva’’. b) Elementi di riflessione sulla problematica dei criteri finalistici e normativi della commisurazione. Sebbene sulla questione in Slovenia non vi sia stato in passato, e non vi sia nemmeno ora, un dibattito particolarmente sviluppato, come invece nell’ambito della scienza penali(103) Non nasconde, tuttavia, le difficoltà create dalla nuova dinamica commisurativa della pena pecuniaria e la conseguente disaffezione che si va sviluppando verso lo strumento punitivo in questione, Z. FIS̆ER, Riflessioni su alcuni problemi delle sanzioni penali nel diritto penale sloveno, in F. GIUNTA, R. ORLANDI, P. PITTARO, A. PRESUTTI, L’effettività della sanzione penale, cit., p. 79. (104) V. Motivazione introduttiva al Progetto.
— 678 — stica italiana (105), va comunque rimarcato che, durante i lavori preparatori (106), l’argomento non è stato affatto trascurato. I documenti relativi alla fase progettuale, infatti, testimoniano che la dottrina ha fornito i suoi suggerimenti circa l’opportunità che l’inevitabile antinomia di scopi scaturente dall’eclettismo finalistico accolto dal sistema sanzionatorio avesse ad essere composto dallo stesso legislatore, per non consegnare al potere giudiziario una situazione di potenziale anarchia. Si auspicava, cioè, che egli fornisse al giudice messaggi chiari che permettessero a quest’ultimo di orientarsi e di filtrare, attraverso i segnali ricevuti, i parametri indicati nelle norme riservate alla commisurazione. Se il legislatore abbia soddisfatto o meno tale aspettativa è difficile, per ora, dire. La sperimentazione applicativa, infatti, è ancora esigua per assurgere ad attendibile banco di prova; al momento, perciò, restano soltanto il dato normativo e la lettura ermeneutica che se ne può ricavare, i quali, però, svelano aspetti tra loro contrastanti. In primis, viene in rilievo, anche sotto questo profilo, l’assunzione della colpevolezza intesa come elemento condizionante l’intero meccanismo commisurativo. Per quanto, dunque, l’art.4, nella sua natura di norma programmatica, sia destinato essenzialmente al legislatore, esso riverbera, tuttavia, la sua influenza anche sul piano giudiziale, orientando l’operatore giudiziario a tenere conto, anzitutto, del binomio reato-colpevolezza. Solo all’interno di questo contesto egli potrà apportare le graduazioni commisurative che l’obiettivo perseguito comporta. L’invalicabilità, da parte del giudice, della colpevolezza soggettiva, dovrebbe, pertanto, escludere dalla operazione commisurativa qualsiasi aggravamento della sanzione — sia in relazione al suo ammontare, sia in ordine alla tipologia — che oltrepassi la soglia suddetta; lasciando spazio, dunque, solo a variazioni di carattere deflattivo, come già si è sottolineato (107). Tali premesse escluderebbero, pertanto, dalla commisurazione criteri finalistici orientati in senso general-preventivo; e tra gli eterogenei obiettivi della prevenzione speciale (intimidazione, risocializzazione o neutralizzazione) sarebbe consentito perseguire solo quelli risocializzanti o intimidativi, con preclusione di propositi finalistici di neutralizzazione (108). Resta, tuttavia, un dato inquietante: la scelta non solo del quantum, ma anche della qualità della pena, differita alla fase giudiziale, non può non far riflettere circa l’alto rischio che il giudice, attraverso queste opzioni della fase commisurativa, possa di fatto perseguire qualsiasi finalità, riducendo, così, sensibilmente la portata del principio di stretta legalità della pena. La classificazione sistematica delle regole codicistiche disciplinanti la commisurazione (105) Sull’argomento, v. G. FIANDACA-E. MUSCO, Dir. pen., cit., p. 703 ss., al quale si rinvia anche per l’ampia documentazione bibliografica, ma soprattutto E. DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979. Di recente, sul tema, si veda: Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, con contributi di G. NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, pp. 181-204; di C.E. PALIERO, La riforma del sistema sanzionatorio: percorsi di metodologia comparata, pp. 205-221 e di D. PULITANÒ, Il sistema sanzionatorio, pp. 223-230; nonché Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, cit., in particolare per gli interventi di G. NEPPI MODONA, Crisi della certezza della pena, cit., pp. 51-71 (in particolare, v. p. 61 ss.) e di C.E. PALIERO, Le alternative alla tutela penale: l’illecito amministrativo, pp. 72-94. (106) Il riferimento è al contributo di A. S̆ELIH, Problemi kazenskih sankcij, cit., in particolare pp. 475 e 476. (107) È ancora la A. ŠELIH, Problemi kazenskih sankcij, cit., pp. 475-476, che afferma la valenza di tale potere discrezionale del giudice. (108) V. Motivazione introduttiva al Progetto, laddove si sostiene che mai può essere accolta una tale finalità. Del resto, varie scelte normative sembrano confermare questa linea; si pensi all’ipotesi della misura di sicurezza delle ‘‘cure psichiatriche obbligatorie con ricovero in istituto di cura’’, nella quale, l’inserimento nel testo normativo del referente privilegiato ed essenziale assegnato alla colpevolezza dal legislatore viene a costituire l’elemento riequilibratore di eventuali letture interpretative eccessivamente sbilanciate verso valutazioni personalistiche, che un primo approccio alla norma sembrerebbe consentire.
— 679 — della pena lascia trasparire un’impostazione tendenzialmente classica (109); abbastanza simile, tra l’altro, a quella presente nel nostro sistema: nella graduazione edittale della sanzione viene in rilievo, anzitutto, il binomio ‘‘gravità del reato-colpevolezza del reo’’ — art. 41, 1o comma —, al quale viene correlato, per l’appunto, il quantum della pena sulla base della valutazione operata dal giudice attraverso i criteri commisurativi indicati dal legislatore — art. 41, 2o comma — (110). La polivalenza degli indici presenti nelle norme richiamate e una elencazione degli stessi priva di un ordine sistematico (finalizzato a obiettivi prestabiliti) nonché una chiusa finale dalla inflessione soggettivistica particolarmente pronunciata (‘‘ogni altra circostanza inerente la personalità del reo’’) rendono palesemente concrete quelle preoccupazioni che sopra si sono abbozzate, dimostrando, peraltro, che la problematicità di questo tema non è una ‘‘piaga’’ soltanto del nostro ordinamento (111). La reale estensione del potere discrezionale del giudice si misura, però, prendendo in considerazione tutte le norme della sezione seconda del capitolo terzo sulle pene, dedicata, per l’appunto, alla commisurazione. Senza entrare nel dettaglio delle singole previsioni, di natura prevalentemente tecnica, conviene, piuttosto, tentare di cogliere quelle sfumature che caratterizzano maggiormente la specificità della disciplina slovena. Si può osservare, anzitutto, che tra i criteri normativi indicati nel 2o comma dell’art. 41 per graduare la pena figura la categoria delle circostanze. Secondo un’impostazione dogmatica che differisce da quella che noi conosciamo, dunque, si può notare che esse non hanno una loro essenza specifica, ma si fondono con gli altri elementi valutativi indicati nella disposizione richiamata. L’unica circostanza che, invero, può vantare una sua natura e una sua collocazione autonome è la recidiva (v. artt. 41, 3o comma, e 46). Essa è la sola valutabile in modo univoco, ovviamente come aggravante; tutte le altre avendo una valenza lasciata decidere interamente al giudice, ‘‘senza alcuna limitazione quantitativa’’ (112). Nella rassegna delle peculiarità che connotano l’istituto della commisurazione meritano, poi, di essere segnalati gli istituti della riduzione — (artt. 42 e 43) — e del condono della pena — (artt. 44 e 45) —, ai quali già si è riservato un cenno ad altro proposito. (109) Anche se A. ŠELIH, Problemi kazenskih sankcij, cit., p. 477, mette in rilievo che il criterio di proporzionalità che presiede alla commisurazione della pena deve essere inteso non in senso classico ma secondo una visione più attuale e moderna del principio stesso, che tenga conto, quindi, della proporzione, ma anche della meritevolezza della pena. (110) Il testo normativo dell’art. 41 — Norme generali sulla commisurazione delle pene — è il seguente: ‘‘Il giudice condanna il reo ad una pena compresa tra il minimo ed il massimo previsti dalla legge per il reato commesso, proporzionandola alla gravità del reato, nonché al grado di colpevolezza del reo. / Ai fini della commisurazione della pena, il giudice valuta tutte le circostanze favorevoli e contrarie al reo (attenuanti ed aggravanti) ed in particolare il grado di responsabilità penale, i motivi che lo hanno spinto a commettere il reato, la misura di esposizione a pericolo o di lesione del bene protetto, le circostanze in cui il fatto è stato commesso, la vita anteatta del reo, le sue condizioni personali ed economiche, nonché la condotta susseguente al reato, in particolare se il reo ha risarcito i danni derivanti dal reato ed infine ogni altra circostanza inerente la personalità del reo. / Nell’infliggere la pena ad un reo che abbia già subito una condanna irrevocabile, che abbia già scontato la pena, ovvero non l’abbia scontata perché prescritta o condonata (recidivo), il giudice valuta soprattutto se il reato commesso è dello stesso genere di quello compiuto precedentemente, se i reati sono stati commessi per il medesimo motivo ed infine egli prende in considerazione il tempo trascorso dalla precedente condanna definitiva, ossia dall’esecuzione, dalla prescrizione o dal condono della pena precedentemente inflitta’’. (111) Sulle perplessità che investono l’art. 133 del nostro codice, v., tra gli altri, G. NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio, cit., p. 181 ss.; ID., v. anche Crisi della certezza della pena, cit, in particolare le pp. 58-60, e G. FIANDACA-E. MUSCO, Dir. pen. cit., p. 709. (112) Così Z. FIŠER, Riflessioni cit., p. 79, v. anche L. BAVCON, Introduzione, cit., p. 18.
— 680 — In forza del primo, il giudice può giungere ad una soglia di punibilità inferiore al minimo prescritto dalla legge o usare il suo potere discrezionale fino a convertire la pena in una di tipo più lieve, quando ciò sia espressamente consentito dalla legge o quando sussistono circostanze attenuanti particolari, che una tale riduzione giustifichino (art. 42), dosando l’operazione secondo le indicazioni fornite dallo stesso legislatore (cfr. art. 43). L’opzione di politica criminale sottesa all’istituto in parola, volta ad elidere gli effetti altamente desocializzanti delle pene detentive brevi, è perseguita anche attraverso il secondo strumento commisurativo in esame, il condono della pena (art. 44). Con esso è data facoltà al giudice, nei casi prestabiliti dalla legge, di infliggere sanzioni che vanno oltre i limiti minimi previsti per la riduzione, con possibilità, persino, di pronunciare anche soltanto una sentenza dichiarativa di condanna, cui non segue, per l’appunto, l’applicazione della pena. Ma è soprattutto nel disposto dell’art. 45 — Motivo speciale per il condono — che si sostanzia la tendenza di fondo del legislatore di attivare l’intervento penale solo nei casi in cui ciò sia realmente necessario e conforme allo scopo. La previsione di condonare la pena all’autore di un reato colposo, quando le conseguenze del reato stesso lo abbiano colpito in modo tale da far ritenere ingiustificata la sua condanna, non solo dà concretezza all’obiettivo di un diritto penale inteso come extrema ratio, ma manifesta, altresì, l’estrinsecazione di quel nuovo approccio della dogmatica slovena al reato colposo, che è già stato messo in luce. Nella sezione dedicata alla commisurazione si rinviene anche la disciplina del concorso di reati. Come si evince dall’art. 47, 1o comma, vi è un regime sanzionatorio unico per entrambe le forme di concorso — formale e materiale —. Questa disciplina unitaria si articola secondo criteri diversi. Secondo il principio dell’assorbimento, ‘‘se per uno dei reati in concorso viene comminata la pena detentiva di anni venti, essa resta l’unica per tutti i reati in concorso’’ inglobando in sé le pene minori (art. 47, 2o comma, punto 1). ‘‘Se per i reati in concorso vengono inflitte pene detentive’’, in forza del princip asperacija (Asperationsprinzip) ‘‘la pena unica deve essere superiore a ciascuna delle pene fissate per ogni singolo reato, ma non deve superare la somma delle singole pene, né deve superare gli anni quindici di detenzione’’ (art. 47, 2o comma, punto 2); ‘‘se tutti i reati in concorso prevedono la pena detentiva fino a tre anni, la pena unica non deve superare gli anni otto di detenzione’’ (art. 47, 2o comma, punto 3). Stesso principio si applica in presenza di più pene pecuniarie. In forza del punto 4 del medesimo articolo, infatti, ‘‘se per tutti i reati in concorso vengono inflitte soltanto pene pecuniarie, la pena unica deve essere superiore a ciascuna delle pene fissate per i singoli reati, ma non deve superare la somma di esse e non deve comunque essere superiore ai trecento sessanta tassi giornalieri; nel caso in cui uno o più reati siano stati commessi a scopo di lucro, la pena unica non deve superare i mille cinquecento tassi giornalieri’’. Nell’ipotesi, invece, di concorso eterogeneo, in cui vengono inflitte pene detentive e pene pecuniarie, ‘‘vengono irrogate una pena unica detentiva ed una unica pecuniaria, secondo le disposizioni contenute nei punti 2), 3) e 4)’’ dell’art. 47 sopra citati. La pluralità, infine, di pene accessorie della stessa specie trova la sua regolamentazione applicativa nell’art. 47, 2o comma, punto 6, secondo il quale ‘‘viene irrogata una pena accessoria unica che non deve superare la somma delle singole pene e non deve comunque superare la misura massima prevista per tali pene’’ (113). Il quadro della commisurazione fin qui sinteticamente delineato non è però esaustivo se non lo si completa con uno sguardo alla disciplina delle sanzioni ammonitive. (113) La disciplina delineata ha evidentemente contribuito a determinare l’assenza, nel codice in esame, di previsioni espresse sul reato continuato o sul reato complesso che, nel nostro sistema, sono fondamentalmente giustificate da una attenuazione del rigore sanzionatorio conseguente al regime del cumulo materiale.
— 681 — 6. Sanzioni ammonitive. — Immediatamente successivo al capitolo della commisurazione figura, infatti, quello contemplante le sanzioni ammonitive. La contiguità delle due sfere ha, invero, una sua ragione oltre che espositiva anche funzionale, data l’incidenza, più volte ormai rimarcata, che tali sanzioni esercitano sull’operazione di graduazione della pena. Esse sono: la condanna condizionale (artt. 50-55); la condanna condizionale con sorveglianza cautelare (artt. 56-60) e l’ammonimento giudiziale (art. 61). Il codice attuale le ha ereditate dal previgente ordinamento socialista, nel quale, tuttavia, esse rivestivano una funzione diversa da quella loro attribuita nel sistema odierno. La condanna condizionale era strutturata tradizionalmente e concepita, nella sua natura giuridica, come una modalità di esecuzione della pena. Ora, invece, essa è una sanzione a tutti gli effetti, la cui applicazione è subordinata, fondamentalmente, a due requisiti. Il primo, di carattere oggettivo, è che sia stata irrogata in concreto una pena detentiva fino a due anni o una pena pecuniaria; con la puntualizzazione che la sua applicazione è, però, sempre esclusa in relazione a quei reati che prevedono una pena detentiva edittale minima di tre anni o superiore (art. 51, 1o e 2o comma). Il secondo, di taglio prevalentemente soggettivo, consiste in un giudizio prognostico emesso dal giudice, attinente alla personalità del reo, alla sua vita anteatta, alla condotta susseguente al reato, al grado di responsabilità penale dello stesso, nonché alle circostanze in cui il fatto è stato commesso (art. 51, 3o comma), il quale faccia ritenere probabile che l’autore dell’illecito in futuro non avrà a commettere altri reati. Nell’impossibilità di esaminare diffusamente in questa sede la categoria in questione, ci limitiamo a ricordare che una delle peculiarità della disciplina in oggetto va senz’altro individuata nella facoltà riconosciuta al giudice di concedere la condanna condizionale più volte, anche, cioè, a seguito della commissione, da parte dello stesso autore, di altri reati, secondo le prescrizioni previste dalla legge (art. 52, 4o comma). Ma uno dei tratti più significativi, e che più di altri rende concreta la funzione special preventiva della condanna condizionale, consiste nella possibilità di accompagnare la sanzione ammonitiva in parola con la sorveglianza cautelare, che si estrinseca in forme di controllo, di assistenza, di aiuto (cfr. art. 56, 2o comma), tese a preservare il reo stesso da potenziali fattori criminogeni, cui altrimenti risulterebbe più facilmente esposto. Se, sul piano applicativo, la condanna condizionale vanta una posizione di grande predominio tra tutti i mezzi punitivi allestiti dal legislatore, va detto che anche l’ammonimento giudiziale (il quale, peraltro, nell’ordinamento previgente, costituiva una categoria sé stante) pur senza vantare primati, ha, tuttavia, una sua discreta operatività. Concepito come soluzione alternativa alla pena detentiva breve, e idoneo soprattutto per reati di tipo bagatellare, esso può essere, però, impiegato pure per illeciti che prevedono la detenzione fino ad un anno, se sono stati commessi in circostanze attenuanti tali da renderli particolarmente lievi; e, solo nei casi espressamene stabiliti dalla legge, anche per reati sanzionati con la pena carceraria fino a tre anni. Il presupposto per la sua applicazione, da ricercarsi, dunque, nella sussistenza di circostanze attenuanti che rendono il fatto di scarso rilievo penale, vale non solo per quei reati cui consegue la detenzione, ma anche per quegli illeciti che prevedono la pena pecuniaria. Un ulteriore requisito, cui è subordinato il ricorso all’ammonimento, è, — anche qui come nelle altre ipotesi sopra esposte — la formulazione, da parte del giudice, di un giudizio prognostico favorevole nei riguardi del soggetto. 7. Misure di sicurezza. — Annoverate tra le sanzioni dallo stesso legislatore (art. 5), le misure di sicurezza (Cure psichiatriche obbligatorie con ricovero in istituto di cura — art. 64 —; Cure psichiatriche obbligatorie senza ricovero — art. 65 —; Cure obbligatorie per alcolisti e tossicodipendenti — art. 66 —; Interdizione dall’esercizio di una professione — art. 67 —; Ritiro della patente di guida — art. 68 — e Confisca — art. 69 —) concorrono, pro-
— 682 — prio in virtù di tale collocazione sistematica, all’affermazione di quel pluralismo sanzionatorio, cui, come più volte ormai abbiamo rimarcato, l’odierna impostazione penalistica tende. Questa configurazione costituisce un profilo di novità rispetto al sistema previgente, nel quale la natura sanzionatoria degli strumenti in esame veniva sì riconosciuta dalla dottrina, ma non aveva, contemporaneamente, una esplicita consacrazione normativa. Dalla disciplina attuale si può, dunque, evincere che, al pari di tutte le altre sanzioni, le misure di sicurezza sono coperte tanto dal principio di legalità, quanto dal principio di colpevolezza e possono essere irrogate solo in presenza di quell’elemento indefettibile che è il reato, cui consegua una pena, alla quale per l’appunto, esse si accompagnano, fatta eccezione per le ipotesi in cui l’autore del fatto illecito sia un incapace di intendere e di volere, non assoggettabile, in quanto tale, a una pena; nel qual caso, la misura di sicurezza verrà applicata in via autonoma. Da queste premesse si desume che il vero tratto distintivo delle misure in parola finisce per essere individuabile nella pericolosità del reo, presupposto applicativo peculiare, quindi, della categoria in questione. Sebbene le scelte di fondo informanti la tipologia sanzionatoria qui esaminata abbiano registrato una sostanziale convergenza di opinioni, va, tuttavia, sottolineato che l’iter formativo della stessa è stato contraddistinto da una viva discussione relativa ad alcuni nodi specifici di nevralgica importanza. Le perplessità maggiori si sono addensate attorno alla problematica del ruolo che le misure di sicurezza sono chiamate a svolgere e, correlato al finalismo funzionale, è venuto, altresì, in rilievo l’interrogativo circa l’opportunità di mantenere nel contesto penalistico misure di carattere medico-terapeutico. Riguardo al primo profilo, va detto che, già durante i lavori preparatori, i compilatori della bozza progettuale, nell’affrontare la tematica in questione, avevano mosso una serie di critiche alla teoria della rieducazione, ispiratrice principale delle misure in oggetto. I rilievi non erano volti, per la verità, a respingere in toto l’indirizzo rieducativo menzionato, quanto piuttosto a rifiutare ogni estremistica ed esasperata inflessione di esso, che prevedesse un uso delle misure di sicurezza in chiave correzionalistica o igienico-sociale o, peggio ancora, di forzata adesione, anche ideologica, ai valori dominanti dell’ordinamento, secondo istanze di mera difesa sociale (114). Proprio in forza di tale convincimento forti dubbi sono stati espressi in ambito giuridico e anche medico sulla opzione di mantenere nel codice misure a forte valenza medico-terapeutica. La loro discutibile appartenenza alla sfera penalistica ha fatto, invero, riflettere a lungo circa l’opportunità della loro collocazione in questa sede (115). Si è comunque messo in risalto che la soluzione finale di accoglierle è stata bilanciata dalla previsione di un corredo di garanzie a tutela dei diritti del soggetto, per un verso, e, per l’altro, di un maggior carico di responsabilità per l’autorità giudiziaria che le irroga o ne esegue l’esecuzione, al fine di arginare eventuali abusi o strumentalizzazioni nella fase applicativa. In tal senso è stato riformulato il provvedimento delle ‘‘Cure psichiatriche obbligatorie con ricovero in istituto di cura’’ (art. 64) destinatato a una persona che ha commesso un fatto illecito in stato di non imputabilità, o di imputabilità sensibilmente diminuita, e la cui pericolosità, accertata in concreto dal giudice (secondo i criteri, cumulativamente considerati, della gravità del fatto illecito e dell’elevato turbamento psichico del reo), possa far ritenere al giudice che egli potrebbe commettere in futuro altri reati di rilevante disvalore pe(114) Per un approfondimento di questa posizione, v. A. ŠELIH, Problemi kazenskih sankcij, cit., p. 477. (115) La forte preoccupazione dei Redattori del progetto circa la previsione di misure medico-terapeutiche si coglie nella intensità delle espressioni usate dagli stessi nella Motivazione introduttiva: ‘‘V dilemi, ali kazenske sankcije medicinske terapevtične narave sodijo v kazensko pravo ali ne, se osnutek odloča za klasično rešitev, vendar z bistvenimi omejitvami, ki naj preprečijo njihovo eventualno zlorabo’’.
— 683 — nale. La sua disciplina, infatti, è stata rinnovata in modo radicale e prevede ora un limite massimo di durata di dieci anni. In passato tale limite era indeterminato; il che consentiva di prolungare l’applicazione della misura per periodi di tempo che non soltanto potevano sfondare il tetto stabilito per la pena detentiva (ricordiamo che la soglia invalicabile della detenzione era fissata in ventiquattro anni), ma potevano persino raggiungere il culmine aberrante della segregazione a vita (non contemplata, tra l’altro, dall’ordinamento previgente). La disposizione attuale, per contro, impone al giudice di accertare la sussistenza della pericolosità allo scadere del primo anno e di ogni (eventuale) anno successivo nonché di pronunciare la revoca anticipata della misura, se non vi sia più ragione di mantenerla. Discussa (116) anche la norma contenuta nell’art. 66. Introducendo la facoltà per il giudice di prescrivere, unitamente alla pena detentiva o alla condanna condizionale, ‘‘Cure obbligatorie per alcolisti e tossicodipendenti’’ che abbiano commesso un reato a causa della loro inclinazione, quando vi sia il pericolo che, sempre per la medesima ragione, ne possano commettere altri, essa fa insorgere, infatti, qualche perplessità circa la legittimità di una strategia tesa ad imporre cure disintossicanti forzate. Meno contrastata, invece, è stata la recezione delle misure di sicurezza a carattere interdittivo o di divieto, consistenti nella ‘‘Interdizione dall’esercizio di una professione’’ (art. 67) e nel ‘‘Ritiro della patente di guida’’ (art. 68), che vengono senza dubbio ad arricchire la gamma di interventi sanzionatori differenziati prospettata dal legislatore, unitamente a quella reale della ‘‘Confisca’’ (art. 69) — l’unica misura a carattere patrimoniale — (117), per quanto nemmeno queste ultime risultino del tutto esenti da profili problematici attinenti alla loro legittimità e configurazione; profili che, in questa sede, tuttavia, non è dato, approfondire. NATALINA FOLLA Tecnico laureato presso la Cattedra di Diritto penale dell’Università di Trieste
(116) Lo sostiene L. BAVCON nella Introduzione, cit., p. 19. (117) Preme ricordare, anche se il richiamo non può che consistere in un sintetico riferimento, che la confisca dell’art. 69 — ‘‘odvzem predmetov’’ — ha una sua autonomia concettuale rispetto ad un altro istituto, apparentemente molto simile, che il legislatore del ’95 ha introdotto nel capitolo VII (artt. 95-98) del codice : ‘‘odvzem premoženjske koristi, pridobljene s kaznivim dejanjem’’ (sottrazione dei vantaggi patrimoniali conseguiti per mezzo del reato), concepito e disciplinato sulla falsariga del ‘‘Verfall’’ tedesco.
IL PATROCINIO PER I NON ABBIENTI NELLA DISCIPLINA ITALIANA E STATUNITENSE: DUE SISTEMI A CONFRONTO
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Evoluzione giurisprudenziale del diritto alla difesa per il non abbiente nel sistema statunitense. - 2.1. Limiti al diritto alla difesa per il non abbiente — 3. Ambito soggettivo di applicazione del beneficio del patrocinio per i non abbienti. 3.1. Richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. — 4. La scelta del difensore. - 4.1. Il ricorso ai consulenti tecnici e agli investigatori privati - 4.2. La liquidazione dei compensi. — 5. Conclusioni. 1. Premessa. — L’inviolabilità del diritto alla difesa è una delle più importanti garanzie riconosciute all’individuo dalla nostra Costituzione (art. 24 comma 2 Cost.). Affinché tale principio non rimanga un vuoto simulacro, occorre che l’ordinamento offra ad ogni persona gli strumenti necessari per potersi difendere adeguatamente e garantisca, quindi, anche a chi è privo di mezzi finanziari il diritto di avvalersi di un difensore (1). Il problema del patrocinio per i non abbienti è presente in ogni società civile ed è stato affrontato e risolto in maniera diversa nei singoli ordinamenti (2). L’analisi che ci si accinge a compiere prenderà in considerazione l’ordinamento italiano e quello statunitense al fine di verificare in quale modo i due sistemi processuali, a livello legislativo o giurisprudenziale, abbiano fornito una risposta al problema in questione. In Italia, l’art. 24, comma 3 Cost. stabilisce che ‘‘sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione’’. Anteriormente alla Costituzione la materia ha ricevuto una completa disciplina grazie al r.d. 30 dicembre 1923, n. 3282 (3), che ha istituito il gratuito patrocinio ‘‘nei giudizi civili, commerciali o d’altra giurisdizione contenziosa, negli affari di volontaria giurisdizione e nei giudizi penali’’ nonché ‘‘per le cause e per i ricorsi da trattarsi innanzi ai tribunali o al Tribunale superiore delle acque pubbliche’’ (art. 2). La norma d’apertura di tale legge, tuttora in vigore nel campo civile, decreta che il gratuito patrocinio è ‘‘un ufficio onorifico ed obbligatorio della classe degli avvocati e dei procuratori’’ (art. 1). Va a questo proposito evidenziata la peculiarità per la quale, ammesso il soggetto al gratuito patrocinio, egli non può scegliersi un avvocato di fiducia, ma gliene viene nominato uno d’ufficio. Le maggiori critiche all’istituto in questione sono dovute al fatto che tale legge si adegua ‘‘a un modello che si può definire caritativo, un modello che fa perno sulla funzione onoraria (1) Cfr. L.P. COMOGLIO, Il 3o comma dell’art. 24 - L’assistenza giudiziaria ai non abbienti, in AA.VV., Commentario della Costituzione (Rapporti civili), a cura di G. Branca, Bologna, Roma, 1981, p. 119, il quale rileva che ‘‘la necessità, oggi così sentita, di rimuovere dal processo gli ostacoli economico-sociali, che si oppongono ad un’effettiva parità dei cittadini dinanzi al giudice, scaturisce da un imperativo ‘sostanziale’ di eguaglianza, ma rischia di rimanere una vana chimera, senza un deciso passo avanti nel patrocinio giudiziale dei non abbienti’’. (2) Cfr. F. CIPRIANI, Il patrocinio dei non abbienti in Italia, in Foro it., 1994, V, p. 89, secondo il quale ‘‘quanto più poveri si è, tanto più aumentano le probabilità di ritrovarsi sul banco degli imputati’’ e che ‘‘se, ipotesi tutt’altro che rara, l’imputato è un non abbiente, il problema è grave e diventa drammatico se si tratta di un imputato innocente’’. (3) R.d. 30 dicembre 1923, n. 3282, in Leggi d’Italia, voce Patrocinio Gratuito, a cura di V. De Martino, 7a ed., Novara, 1982, (con aggiornamenti), p. 1.
— 685 — da parte della libera professione, ma che poi, in definitiva, crea una serie di congegni che sono vere scatole vuote’’ (4)’’. Se tutti hanno diritto ad essere difesi, tuttavia non si vede perché debba essere la classe forense a sopportarne in toto gli oneri finanziari, così come è previsto dall’obsoleto istituto del gratuito patrocinio (5). Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la questione dell’assistenza ai non abbienti è diventata impellente (6). Infatti, in un processo in cui la parola d’ordine è ‘‘parità’’ tra accusa e difesa in ogni stato e grado del procedimento e in cui l’imputato gode di vari poteri e facoltà, è chiaro il ruolo fondamentale svolto dal difensore fin dalle prime battute del procedimento (7). L’art. 98 c.p.p. stabilisce che ‘‘l’imputato, la persona offesa dal reato, il danneggiato che intende costituirsi parte civile e il responsabile civile possono chiedere di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato, secondo le norme della legge sul patrocinio dei non abbienti’’: dopo la riserva di legge contenuta nella Costituzione, un altro rinvio ad una normativa necessaria che ritardava a nascere. Dopo lunghe attese è stata emanata la legge n. 217 del 1990 (8), che ha istituito il patrocinio a spese dello Stato (9). Tale legge trova applicazione nel procedimento penale, penale militare, nonché in quello civile ‘‘relativamente all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno e le restitu(4) E. AMODIO, Il patrocinio statale per i non abbienti nel nuovo processo penale, in Giust. pen., 1980, III, p. 308. Si veda, inoltre, A. CASALINUOVO, Assistenza giudiziaria ai non abbienti - III. Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, vol. III, Roma, 1991, p. 1, secondo il quale ‘‘l’ammissione al gratuito patrocinio... non trovava fondamento nel principio dell’uguaglianza di trattamento di fronte alla legge, bensì in un sentimento di protezione dei più deboli, che traeva origine soprattutto dal cristianesimo, mediato dal diritto canonico: tale legge suscitò vive critiche, che ne indicavano l’inefficienza e l’inadeguatezza, essendosi rivelata soltanto come mezzo formale di assistenza e difesa giudiziaria, non idonea ad assicurare ai meno abbienti una effettiva situazione di parità, di fronte alla giustizia, con i più forti’’. Secondo G. CASCINI, L’assistenza legale dei meno abbienti: una riforma che non può più attendere, in Quest. giust., 1996, n. 3-4, p. 670, ‘‘si tratta di una normativa confusa, macchinosa e ricca di incongruenze, di difficilissima applicazione e, di fatto, quasi mai applicata’’. Oltre alle critiche avanzate dalla dottrina, anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo con la sent. 13 maggio 1980, ARTICO, in Foro it., 1980, IV, p. 141, si è pronunciata in materia di gratuito patrocinio, per rilevare la violazione, nel nostro ordinamento, dell’art. 6, § 3 lett. c) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (legge 4 agosto 1955, n. 848, in G.U., 24 settembre 1955, n. 221, p. 3372) che prevede il diritto per ogni accusato di ‘‘difendersi personalmente o con l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per pagare il difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia’’. (5) Cfr. G. FRANCO, Sul gratuito patrocinio in Italia, in Riv. dir. proc., 1988, p. 800, che evidenzia ‘‘l’iniquità dell’obbligo di prestare un’opera professionale senza diritto a corrispettivo’’. È stato giustamente posto in rilievo da G. CASCINI, L’assistenza legale dei meno abbienti: una riforma che non può più attendere, cit., p. 672, che l’attuale classe forense ‘‘non è più quella dell’inizio secolo. Oggi gli avvocati vivono, spesso con difficoltà, esclusivamente dei proventi della loro attività e non possono in alcun modo permettersi prestazioni onorifiche e gratuite’’. (6) Cfr. E. AMODIO, Il patrocinio statale per i non abbienti, cit., p. 310, il quale evidenzia, in relazione al nuovo processo, che ‘‘c’è una strategia difensiva completamente nuova che rende assolutamente indilazionabile la risoluzione del problema dell’assistenza ai non abbienti perché, veramente, fare questo processo senza risolvere il problema del patrocinio statale significa privare dell’effettività della difesa tutti coloro che oggi non sono assistiti dal difensore di fiducia’’. (7) Cfr. G. FRIGO, sub art. 98, in AA.VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio-O. Dominioni, vol. I, Milano, 1989, p. 633. (8) Legge 30 luglio l990 n. 217, in G.U. 6 agosto 1990, n. 182, p. 3. (9) In precedenza la legge 11 agosto 1973, n. 533, in Legisl. it., 1973, I, p. 1612, ha istituito il patrocinio a spese dello Stato nel campo del diritto del lavoro per quanto riguarda
— 686 — zioni derivanti da reato, sempreché le ragioni del non abbiente risultino non manifestamente infondate’’ (art.1, comma 2) (10). La disciplina introdotta dalla legge n. 217 del 1990 si applica in ogni stato e grado del procedimento (art. 2) e anche ‘‘nella fase dell’esecuzione, nel procedimento di revisione nonché nei procedimenti relativi all’applicazione di misure di sicurezza o di prevenzione o per quelli di competenza del tribunale di sorveglianza, sempreché l’interessato debba o possa essere assistito da un difensore o da un consulente’’ (art. 15). Questa normativa dovrebbe essere temporanea, dal momento che sarà applicata, secondo le intenzioni del legislatore, ‘‘fino alla data di entrata in vigore della disciplina generale del patrocinio dei non abbienti avanti ad ogni giurisdizione’’ (art. 1, comma 7). Se questa è, in sintesi, l’evoluzione legislativa dell’istituto del patrocinio per i non abbienti, si possono già avanzare alcune brevi considerazioni critiche. Innanzitutto, ci si chiede come possa essere stato considerato adeguato il r.d. n. 3282 del 1923 a risolvere il problema della difesa dell’indigente tanto da mantenere tale legge in vigore fino al 1990 (nel campo penale), soprattutto in considerazione del fatto che l’emanazione dell’art. 24 Cost. avrebbe dovuto sollecitare un tempestivo intervento del legislatore per il ruolo fondamentale che tale norma attribuisce al diritto di difesa. Si è mantenuta per quasi settant’anni — e si mantiene tuttora nel campo civile — una legislazione obsoleta, incapace di adeguarsi alla mutata realtà sociale del nostro Paese. Da questo punto di vista è sicuramente da considerare più positivo il sistema statunitense dove, sebbene il diritto di difesa sia garantito dal VI Emendamento della Costituzione federale, è stato grazie all’elaborazione giurisprudenziale ad opera della Corte Suprema, come verrà evidenziato nel prosieguo di questa analisi, che si è giunti a riconoscere in capo all’imputato indigente il diritto ad avere un difensore nominato e retribuito dallo Stato (11). Il lavoro svolto dalla Corte Suprema in primis, ma anche dalle corti inferiori, ha consentito, nel corso dei decenni, non solo di ampliare i casi in cui l’imputato indigente ha diritto al difensore, ma anche di mantenere il concetto di indigenza strettamente ancorato alla realtà, grazie all’analisi operata caso per caso. Al contrario, nel nostro ordinamento, il limite di reddito al di sotto del quale soltanto è possibile essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato è rigidamente fissato dalla legge (art. 3, legge n. 217 del 1990). Tale previsione normativa sarà oggetto di analisi e di critica nel terzo paragrafo di questo lavoro; tuttavia, è bene evidenziare anche la difficoltà nel trovare un punto di equilibrio tra le risorse finanziarie che lo Stato può destinare all’istituto in esame e la sempre maggiore necessità di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato, dovuta anche al dilagare dei reati compiuti da extracomunitari che si trovano, nella quasi totalità dei casi, nella situazione di ‘‘non abbienza’’ stabilita dalla legge n. 217 del 1990. Nel difficile bilanciamento tra le esigenze dello Stato da un lato e il diritto di difesa dall’altro, si ritiene che una possibile soluzione sarebbe quella di permettere, in certi casi, l’autodifesa. La dottrina formatasi sotto la vigenza del c.p.p. 1930 ha, infatti, rilevato ‘‘che l’esigenza di garantire una efficace difesa degli imputati non abbienti comporterebbe oneri finanziari non sopportabili se non fosse possibile limitare l’intervento obbligatorio della difesa tecnica officiosa ai casi di maggior rilievo, nei quali la rilevanza dei ‘beni della vita’ coinvolti nel giudizio davvero lo richieda’’ (12). Tuttavia, nonostante le osservazioni compiute in dot‘‘le controversie di cui agli articoli 409 e 442 del codice di procedura civile e per quelle concernenti il rapporto di lavoro dei dipendenti dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni e degli altri enti pubblici non economici’’ (art.11). Per i rilievi critici a tale disciplina, si veda F. CIPRIANI, Il patrocinio dei non abbienti in Italia, cit., p. 100, secondo cui ‘‘attualmente il patrocinio a spese dello Stato nel processo del lavoro può ben essere considerato un ramo secco dell’ordinamento, un vero e proprio relitto storico’’. (10) Nel prosieguo della presente trattazione non verrà preso in considerazione il caso disciplinato dall’art. 1, comma 2 legge n. 217 del 1990. (11) Cfr. J.H. ISRAEL-W.R. LA FAVE, Criminal Procedure - Constitutional Limitations, 5a ed., West Publishing Co., St. Paul Minnesota, 1993, p. 338, i quali evidenziano che la maggior parte delle decisioni della Corte Suprema, aventi ad oggetto il diritto di difesa contenuto nel VI Emendamento, hanno riguardato la mancata nomina da parte dello Stato di un difensore per assistere l’imputato indigente, piuttosto che il diritto dell’imputato abbiente di farsi assistere da un proprio difensore di fiducia. (12) G. ZAGREBELSKY, L’autodifesa di fronte alla Corte costituzionale, in Giur. cost.,
— 687 — trina sulla necessità di ampliare gli spazi per l’autodifesa (13), tale possibilità, ammessa in certi casi dal codice Rocco (14), è decisamente scomparsa dall’ordinamento attuale. Al contrario, negli Stati Uniti, con il caso Faretta (15), l’autodifesa è stata considerata un vero e proprio diritto, mentre in precedenza, ‘‘se l’accusato aveva il diritto non costituzionale di rinunciare al right to counsel, non godeva però del concomitante diritto costituzionale ad autodifendersi personalmente nel trial, nel senso che egli poteva bensì rinunciare all’assistenza 1979, I, p. 862. Sul rapporto tra autodifesa e patrocinio per i non abbienti, si veda M. CHIAVARIO, Autodifesa sì; ma..., in AA.VV., Il problema dell’autodifesa nel processo penale, a cura di V. Grevi, Bologna, 1977, p. 45, nella parte in cui sostiene che ‘‘le scelte di politica normativa concernenti l’assistenza legale ai non abbienti sono tutt’altro che estranee alla corretta impostazione dell’autodifesa: se non nel senso che per tal via si possa giungere a togliere ogni seria base per il manifestarsi di una ‘domanda di autodifesa’ socialmente rilevante, almeno nel senso che soltanto un equo ed efficiente sistema di ‘legal aid’ appare in grado di bilanciare larga parte dei fattori idonei a stimolare una ‘domanda’ del genere, e quindi di ridurne l’incidenza nell’ambito dei fenomeni eccezionali’’. (13) Cfr. M. SINISCALCO, Diritto all’autodifesa e libertà di scelte difensive dell’imputato, in AA.VV., Il problema dell’autodifesa nel processo penale, cit., p. 142, il quale rileva che ‘‘il diritto di difesa di cui all’art. 24, comma 2 Cost., nella sua formulazione amplissima, non pone alcun ostacolo all’autodifesa; la sua sicura dimensione garantista sembra anzi imporla quando l’imputato ritenga di dover esercitare direttamente questo diritto costituzionalmente garantito’’. (14) L’art. 125 c.p.p. abr. prevedeva che ‘‘nel giudizio l’imputato deve a pena di nullità essere assistito dal difensore, salvo che si tratti di contravvenzione punibile con l’ammenda non superiore a lire tremila o con l’arresto non superiore ad un mese anche se comminati congiuntamente’’. Pronunciandosi su tale norma, la Corte Costituzionale con la sentenza 10 ottobre 1979, n. 125, in Giur. cost., 1979, I, p. 852, ha ritenuto ‘‘non fondata in riferimento agli artt. 2 e 24 Cost. — la questione di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128 c.p.p. nella parte in cui prescrivono che nel giudizio (di primo grado) anche l’imputato che abbia dichiarato di non volersi difendere e di non voler essere difeso, debba, a pena di nullità, essere assistito dal difensore nominato d’ufficio’’. Sempre in tale sentenza si legge che ‘‘poiché il diritto di difesa nel giudizio penale è non soltanto inviolabile, ma altresì irrinunziabile, la obbligatoria presenza in dibattimento del difensore perché presti la propria assistenza all’imputato, prevista a pena di nullità dall’art. 125 c.p.p. non contrasta con l’art. 24, comma 2 Cost.’’. Sul punto si veda, inoltre, Corte Cost., sent. 22 dicembre 1980 n. 188, in Giur. cost., 1980, I, p. 1612. (15) Faretta v. California, 422 U.S. 806 (1975). Faretta fu accusato di grand theft e durante l’arraignment gli fu assegnato un difensore (public defender). Prima della data fissata per il processo, tuttavia, egli chiese l’autorizzazione per difendersi da solo. Risultò che Faretta si era già autodifeso durante un processo e che aveva una buona cultura. Il giudice gli rispose che pensava stesse compiendo un errore, ma accettò il rifiuto dell’imputato di avere un difensore, riservandosi tuttavia il potere di rivedere tale decisione se si fosse accorto che Faretta era incapace di difendersi da solo. Alcune settimane più tardi, prima del processo, il giudice sua sponte tenne un’udienza per verificare le capacità di Faretta nel condurre la sua difesa. Al termine di tale udienza il giudice ritenne che ‘‘Faretta had not made an intelligent and knowing waiver of his right to the assistance of counsel’’ e, inoltre, che egli ‘‘had no consitutional right to conduct his own defense’’: di conseguenza gli nominò un public defender. All’esito del processo fu emesso un verdetto di colpevolezza. La Corte di appello della California confermò la decisione del trial judge ritenendo che Faretta ‘‘had no federal or state constitutional right to represent himself’’. Il caso arrivò infine alla Corte Suprema degli Stati Uniti che ritenne che l’imputato avesse il diritto costituzionale di difendersi da solo (Cfr. Faretta v. California, cit., p. 836, ‘‘in forcing Faretta, under these circumstances, to accept against his will a state-appointed public defender, the California courts deprived him of his constitutional right to conduct his own defense’’).
— 688 — tecnica, ma il giudice conservava il potere discrezionale di accettare o respingere la dichiarazione di rinuncia’’ (16). Da queste prime precisazioni emerge la volontà insita in entrambi gli ordinamenti di garantire a chiunque il fondamentale diritto alla difesa; tuttavia, come verrà evidenziato nel prosieguo di tale analisi comparativa, non si è ancora raggiunta una reale parità tra il soggetto abbiente e l’indigente. È chiaro quindi che, se attualmente nel nostro ordinamento è obbligatoria la presenza del difensore, il problema del patrocinio per i non abbienti diventa di vitale importanza al fine di assicurare a chiunque un ‘‘giusto processo’’. 2. Evoluzione giurisprudenziale del diritto alla difesa per il non abbiente nel sistema statunitense. — Il diritto ad avere un difensore è consacrato, nell’ordinamento statunitense, nel VI Emendamento alla Costituzione federale che così recita: ‘‘in all criminal prosecutions, the accused shall enjoy the right...to have the assistance of counsel for his defense’’. Come si è evidenziato in precedenza, l’imputato può tuttavia rinunciare a tale diritto e difendersi da solo. Il VI Emendamento prevede dunque il diritto al difensore: ma, mentre è sempre stato chiaro che tale Emendamento garantisse il diritto ad avere un difensore ‘‘privately retained’’, non così scontato appariva l’obbligo per lo Stato di nominare un difensore (appointed counsel) all’imputato indigente (17). Emblematico a tale riguardo è il caso Powell (18), che portò alla prima importante decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti sull’argomento in questione: in Alabama un gruppo di giovani neri fu accusato di violenza carnale commessa su due donne bianche e condannato alla pena di morte. Il giudice sostenne di aver nominato ai giovani imputati quali difensori ‘‘ all the members of the bar for the purpose of arraigning’’ (19), ma in realtà gli imputati erano rimasti privi dell’aiuto del difensore dall’arraignment fino all’inizio del processo, quindi in una fase importante che sarebbe dovuta servire alla preparazione del processo stesso. La Corte Suprema rilevò una chiara violazione del due process laddove la trial court non diede agli imputati un tempo ragionevole e l’opportunità di assicurarsi un difensore, considerando sia le qualità personali degli imputati, sia l’ambiente ostile che si era creato attorno agli stessi (20). Sempre a parere della Corte Suprema, anche se fosse stata data agli imputati l’opportunità di scegliersi un difensore, la necessità di un avvocato era di così vitale importanza che ‘‘the failure of the trial court to make an effective appointment of counsel was likewise a denial of due process within the meaning of the Fourteenth Amendment’’ (21). (16) AA.VV., Il processo penale statunitense - Soggetti ed Atti, a cura di R. Gambini Musso, Torino, 1994, p. 273. Per quanto riguarda altri ordinamenti stranieri, V. DENTI, L’avventura del patrocinio per i non abbienti nel processo penale, in Corr. giur., 1990, n. 10. p. 985, rileva che ‘‘in Francia, l’autodifesa esclusiva ha il carattere di regola generale, mentre la nomina di un difensore d’ufficio è disposta soltanto nei giudizi di Corte d’assise e, nei processi avanti il tribunale correzionale, quando l’imputato è affetto da infermità tale da compromettere la sua difesa. (...) Nella Germania Federale, la nomina del difensore d’ufficio all’imputato non ha carattere generale, ma è disposta soltanto in casi di particolare gravità, sia per la natura del reato, sia per le condizioni fisiche o psichiche dell’imputato stesso: in tal caso, la remunerazione del difensore è posta a carico dello Stato’’. (17) Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, 2a ed., West Publishing Co., St. Paul Minnesota, 1992, p. 519. (18) Powell v. Alabama, 287 U.S. 45 (1932). (19) Powell v. Alabama, cit., p. 49. (20) Cfr. Powell v. Alabama, cit , p. 71, in cui si rilevò ‘‘ the ignorance and the illiteracy of the defendants, their youth, the circumstances of public hostility, the imprisonment and the close surveillance of the defendants by the military forces, the fact that their friends and families were all in other states and communication with them necessarily difficult, and above all that they stood in deadly peril of their lives’’. (21) Powell v. Alabama, cit., p. 71. Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 519, secondo cui il caso Po-
— 689 — Successivamente, con il caso Johnson (22), la Corte Suprema ritenne che il diritto all’appointed counsel, così come il diritto al retained counsel, trovava il suo fondamento nel VI Emendamento, non essendovi distinzioni tra i due diritti (23). Il caso in questione riguardava un processo federale in cui ai due imputati indigenti non era stato nominato un difensore, dal momento che nello Stato in cui si era svolto il processo (South Carolina) la Corte assegnava un difensore solo qualora si trattasse di capital crime. La Corte Suprema rilevò che se l’imputato ‘‘ is not represented by counsel and has not competently and intelligently waived his constitutional right, the Sixth Amendment stands as a jurisdictional bar to a valid conviction and sentence depriving him of his life or his liberty’’ (24). Tuttavia, la Corte Suprema non giunse ad applicare tale principio anche ai processl statali. Infatti, con il caso Betts (25), essa ritenne che la garanzia del VI Emendamento si applicasse solo nei processi per reati federali e che la clausola del due process, prevista dal XIV Emendamento, non incorporasse automaticamente le garanzie previste dal VI Emendamento, sebbene il rifiuto da parte di uno Stato di garantire diritti o privilegi contenuti nei primi otto Emendamenti ‘‘may, in certain circumstances, or in connection with other elements, operate, in a given case, to deprive a litigant of due process of law in violation of the Fourteenth’’ (26). La domanda alla quale la Corte doveva rispondere era se il due process richiedesse che in ogni criminal case, qualsiasi fossero le circostanze, lo Stato fosse obbligato a nominare un difensore all’imputato indigente. Al quesito ‘‘is the furnishing of counsel in all cases whatever distated by natural inherent, and fundamental principles of fairness?’’ (27), la Corte Suprema rispose che la garanzia del due process inserita nel XIV Emendamento non obbligava gli Stati ad assegnare un avvocato in ogni caso. Ogni corte era, infatti, libera di nominare il difensore qualora ciò fosse richiesto ‘‘in the interest of fairness’’ (28). Dunque, il due process, secondo il parere della Corte, imponeva la nomina del difensore solo quando le specifiche circostanze del caso concreto indicavano che l’imputato indigente necessitava di un avvocato per ottenere un fair trial (29). Finalmente, con il caso Gideon (30), la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò che il diritto all’assistenza del difensore previsto dal VI Emendamento doveva essere garantito, attraverso il XIV Emendamento, all’imputato indigente anche nei processi statali, riconoscendo dunque al diritto alla difesa il carattere di fundamental and essential to a fair trial (31). Nello stesso anno la Corte Suprema si pronunciò anche sul caso Douglas (32), riconoscendo all’imputato indigente il diritto ad avere un difensore nominato dalla corte nel caso di first appeal as of right, rilevando, nell’ipotesi di mancata nomina, una violazione della equal protection clause (33). Successivamente, la Corte Suprema ritenne che il diritto del non abbiente ad avere un appointed counsel durante il first appeal as of right non si well non fu un ‘‘Sixth Amendment case’’ ma fu risolto ‘‘under the then prevailing ‘fundamental fairness’ interpretation of Fourteenth Amendment due process’’. (22) Johnson v. Zerbst, 304 U.S. 458 (1938). (23) Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 521. (24) Johnson v. Zerbst, cit., p. 468. (25) Betts v. Brady, 316 U.S. 455 (1942). (26) Betts v. Brady, cit., pp. 461-462. (27) Betts v. Brady, cit., p. 464. (28) Betts v. Brady, cit., p. 472. La Corte Suprema così concluse: ‘‘as we have said, the Fourteenth Amendment prohibits the conviction and incarceration of one whose trial is offensive to the common and fundamental ideas of fairness and right, and while want of counsel in a particular case may result in a conviction lacking in such fundamental fairness, we cannot say that the amendment embodies an inexorable command that no trial for any offense, or in any court can be fairly conducted and justice accorded a defendant who is not represented by counsel’’ (Betts. v. Brady, cit., p. 473). (29) Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 521. (30) Gideon v. Wainwright, 372 U.S. 335 (1963). (31) Cfr. Gideon v. Wainwright, cit., p. 344, laddove la Corte rilevò che ‘‘in our adversary system of criminal justice, any person haled into court, who is too poor to hire a lawyer, cannot be assured a fair trial unless counsel is provided for him’’. (32) Douglas v. People of State of California, 372 U.S. 353 (1963). (33) Cfr. Douglas v. People of State of California, cit., pp. 357-358, laddove la Corte Suprema rilevò che ‘‘there is lacking that equality demanded by the Fourteenth Amendment,
— 690 — estendesse al caso di discretionary appeals alla Corte Suprema dello Stato e di richieste per certiorari davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti e che ciò non violava né il due process, né la equal protection clause (34). Il diritto all’appointed counsel è stato codificato nella Rule 44 delle Federal Rules of Criminal Procedure che, alla lettera a) rubricata ‘‘Right to Assigned of Counsel’’, prevede che ‘‘every defendant who is unable to obtain counsel shall be entitled to have counsel assigned to represent that defendant at every stage of the proceedings from initial appearance before the federal magistrate judge or the court through appeal, unless the defendant waives such appointment’’ (35). 2.1. Limiti al diritto alla difesa per il non abbiente. — Una volta verificato il diritto dell’imputato indigente all’assistenza del difensore sia nel processo federale, sia in quello statale, occorre accertare se tale diritto sia garantito o meno in ogni procedimento, indipendentemente dalla gravità del reato (36). I casi in precedenza considerati, presi in esame dalla Corte Suprema, si riferivano tutti a procedimenti per felonies, cioè reati punibili con più di un anno di reclusione (37). Sebbene il VI Emendamento si riferisca a ‘‘all criminal prosecutions’’, molte corti inferiori avevano negato il diritto alla nomina del difensore nei casi di ‘‘petty offenses’’ (misdemeanors punibili con non più di sei mesi di reclusione) (38). Con il caso Argersinger (39) la Corte Suprema stabilì che nessuno potesse essere imprigionato per un qualsiasi reato, fosse esso petty offense, misdemeanor o felony, senza l’assistenza di un difensore durante il processo. Il limite individuato dalla Corte era quello per cui l’imputato aveva diritto al difensore solo nel caso di sentence of imprisonment: è il c.d. ‘‘actual imprisonment standard’’ (40). Con il successivo caso Scott (41), la Corte Suprema non si spinse oltre: infatti, essa ritenne che il VI e il XIV Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti richiedessero solo che nessun imputato indigente potesse essere condannato ad un periodo di reclusione senza che lo Stato gli avesse fornito l’assistenza di un appointed counsel. Al contrario, nel caso in questione, l’imputato era stato condannato ad una multa di 50 dollari, anche se astrattamente il reato commesso dallo stesso poteva essere punito al massimo con una multa di 500 dollari o un anno di jail o con entrambi. La Corte ritenne, dunque, che la ‘‘Federal Constitution does not require a state trial court to appoint counsel for a criminal defendant such as petitioner’’ (42). Il problema connesso a tale interpretazione giurisprudenziale è che in un caso come quello appena esposto il giudice doveva preventivamente essere in grado di stabilire quale sarebbe stato l’esito del processo (43). Nell’ordinamento statunitense esistono, quindi, dei limiti al diritto alla nomina del difensore per l’imputato indigente in relazione alla gravità del reato; occorre dunque verificare se anche nel nostro sistema processuale penale siano contemplate analoghe restrizioni al diritto del non abbiente di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato. La legge n. 217 del 1990, non assicura il beneficio in questione nel caso di procedimenti penali riguardanti contravvenzioni, a meno che gli stessi non siano ‘‘riuniti a procedimenti per delitti’’ oppure siano ‘‘connessi a procedimenti per delitti ancorché non riuniti’’ (art. 1, comma 8), ovvero all’imputato nel caso di ‘‘reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto’’ (art. 1, comma 9). where the rich man, as of right, enjoys the benefit of counsel’s examination into the record, research of the law, and marshalling of arguments of his behalf, while the indigent, already burdened by a preliminary determination that his case is without merit, is forced to shift for himself’’. (34) Cfr. Ross v. Moffitt, 417 U.S. 600 (1974). (35) Si veda, inoltre, U.S. Code, Titolo 18, § 3006A. (36) In ambito federale l’U.S. Code, titolo 18, § 3006A (a) (1) e (2) fornisce un elenco dei reati per i quali è prevista la nomina del difensore all’imputato indigente. (37) I reati si distinguono in felonies e misdemeanors. Su tale distinzione si veda V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale staunitense, Torino, 1987, p. 42. (38) Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 533. (39) Argersinger v. Hamlin, 407 U.S. 25 (1972). (40) W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 534. (41) Scott v. Illinois, 440 U.S. 367 (1979). (42) Scott v. Illinois, cit., p. 369. (43) Cfr. AA.VV., Il processo penale statunitense - Soggetti ed Atti, cit., p. 213.
— 691 — Tali eccezioni appaiono assai criticabili ed, inoltre, ponendo tali limiti, la legge n. 217 del 1990 risulta più arretrata e meno garantista del r.d. n. 3282 del 1923, il cui art. 15 richiede, quale unica condizione per beneficiare del gratuito patrocinio, lo stato di povertà. Per quanto concerne l’impossibilità di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti riguardanti contravvenzioni, occore innanzitutto ribadire come nel nostro ordinamento, a differenza di quanto accade in quello statunitense, non vi sia spazio per l’autodifesa. Ci si chiede cosa possa fare un imputato in un procedimento concernente una contravvenzione se non può difendersi da solo ed essendo privo dei mezzi economici per retribuire il difensore. L’impasse appare insuperabile se si tiene inoltre conto, come osserva la dottrina, che ‘‘l’accertamento dei reati contravvenzionali, particolarmente numerosi nella legislazione speciale, comporta spesso, di per sé, esami ed indagini anche tecniche di particolare complessità’’ (44). Anche il secondo limite posto dal legislatore, concernente la non ammissione al patrocinio a spese dello Stato per gli imputati di reati tributari, appare privo di ogni ragion d’essere. Se la scelta di escludere la possibilità di ricorso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, qualora ci si trovi in presenza di procedimenti riguardanti contravvenzioni, potrebbe essere stata adottata considerando la minore gravità di tali reati e, quindi, delle relative pene (45), al contrario, nessuna giustificazione può essere individuata per l’apposizione del limite riguardante l’imputato di reati tributari che sembra essere stato dettato unicamente partendo da una presunzione di ‘‘ricchezza occulta’’ e, soprattutto, da una presunzione di colpevolezza che si pone in stridente contrasto con la garanzia prevista dall’art. 27, comma 2 Cost. (46). L’art. 1, comma 9 della legge n. 217 del 1990 suscita anche un’ulteriore perplessità, laddove stabilisce che ‘‘la disposizione del comma 1 non si applica nei confronti dell’imputato’’: ci si chiede se un tale limite possa essere configurato anche in capo all’indagato. Sembra potersi dare risposta negativa a tale quesito, dal momento che l’art. 7 della legge n. 217 del 1990 disciplina espressamente la possibilità di essere ammessi al beneficio in questione durante le indagini preliminari e l’art. 1, comma 9 menziona espressamente ‘‘l’imputato’’, a differenza del precedente comma 8 che, indicando ‘‘i procedimenti penali concernenti contravvenzioni’’, sembra riferirsi sia alla fase delle indagini preliminari, sia a quella processuale. Si arriva, dunque, alla aberrante conclusione che un soggetto indagato per un reato tributario può essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato durante le indagini, ma tale beneficio deve cessare non appena esercitata l’azione penale (47). Con le due eccezioni sopra esaminate il legislatore ha aperto un pericoloso varco nella difesa del non abbiente garantita, senza limiti, dalla Costituzione. In tali casi, dunque, l’unica soluzione possibile appare il ricorso al gratuito patrocinio disciplinato dal r.d. n. 3282 del 1923 (48), sempreché sussista lo stato di povertà, oppure alla difesa d’ufficio che risulta, nella prassi, spesso gratuita (49). 3. Ambito soggettivo di applicazione del beneficio del patrocinio per i non abbienti. — La legge n. 217 del 1990 prevede che possono richiedere l’ammissione al patrocinio a spese (44)
V. CAVALLARI, sub art. 1, legge 30 luglio del 1990, n. 217, in Leg. pen., 1992, p.
458. (45) L’art. 17 c.p. prevede quali pene principali, in caso di contravvenzioni, l’arresto e l’ammenda. (46) Cfr. P.A. AIROLDI, La difesa dei non abbienti nel nuovo processo penale, in Quest. Giust., 1991, p. 240; V. CAVALLARI, sub art. 1 legge n. 217 del 1990, cit., p. 459, che avanza dubbi di legittimità costituzionale su tale art. 1, comma 9, rilevando che ‘‘viene operata una distinzione (...) inammissibile con riferimento all’esercizio del diritto di difesa’’. (47) Cfr. V. CAVALLARI, sub art. 1, legge n. 217 del 1990, cit., p. 460. (48) Cfr. F. MANNA, Osservazioni sulla legge di istituzione del patrocinio dello Stato per i non abbienti, in Iustitia, 1991, p. 309. (49) Cfr. A. FIERRO, Il patrocinio a spese dello Stato nel processo penale, in Cass. pen., 1991, 1550, p. 2129, il quale rileva che ‘‘con la difesa del non abbiente concepita come onere pubblico e come garanzia per ogni cittadino di un giusto processo (...) continuerà a convivere la zona grigia della difesa d’ufficio, nei fatti gratuita. Gratuità del resto esplicitamente prevista nei procedimenti per i reati contravvenzionali, laddove non è consentita ammissione al patrocinio’’.
— 692 — dello Stato l’imputato, la persona offesa dal reato, il danneggiato che intende costituirsi parte civile, il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria (art. 1, comma 1), nonché la persona sottoposta alle indagini (art. 7). Dalla formulazione generica contenuta nell’ art. 24 Cost., che si riferisce ai non abbienti che agiscono e si difendono davanti ad ogni giurisdizione, si è passati alla previsione contenuta nell’art. 98 c.p.p., che considera quali soggetti legittimati all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato l’imputato, la persona offesa dal reato, il danneggiato che intende costituirsi parte civile e il responsabile civile. Si è giunti, infine, all’attuale ampia formulazione contenuta nella legge n. 217 del 1990 che, connotata dal carattere dell’esaustività, comprende ogni soggetto privato coinvolto nel processo, dalla fase delle indagini preliminari fino all’esecuzione (50). Negli Stati Uniti è, invece, il defendant indigente l’unico soggetto al quale è garantita la nomina di un difensore, anche perché in tale sistema processuale non vi è spazio per altre parti private. L’art. 3 della legge n. 217 del 1990 prevede che possa essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato colui che è ‘‘titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a lire otto milioni nell’anno 1990 e dal 1991 a lire dieci milioni’’ (comma 1) (51). Ai fini dell’ammissione al beneficio assume rilevanza la composizione del nucleo familiare, dal momento che, se il soggetto ‘‘convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito ai fini del presente articolo è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia ivi compreso l’istante. In tal caso, i limiti indicati al comma 1 sono elevati di lire due milioni per ognuno dei familiari conviventi con l’interessato’’ (art. 3, comma 2) (52). Dal momento che l’ultimo comma di tale norma prevede la possibilità di adeguamento del limite (50) Tali soggetti, secondo l’art. 1, comma 6, possono essere, oltre al cittadino italiano, anche lo straniero e l’apolide residente nello Stato. (51) L’art. 3, comma 3 prevede che ‘‘ai fini della determinazione dei limiti di reddito indicati nel comma 1 si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall’IRPEF o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva’’. Cfr. Corte Cost., sent. 30 marzo 1992, n.144, in Cass. pen., 1992, 1551, p. 2909, in cui la Corte, chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità degli artt. 3 e 4 della legge n. 217 del 1990, pur dichiarando infondata la questione, ha rilevato, tra l’altro, che, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ‘‘rilevano anche redditi che non sono stati assoggettati ad imposta vuoi perché non rientranti nella base imponibile, vuoi perché esenti, vuoi perché di fatto non hanno subito alcuna imposizione. Quindi rilevano anche redditi da attività illecite (...) ovvero redditi per i quali è stata elusa l’imposizione fiscale’’. V. legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 che ha stabilito: ‘‘Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria’’. Cfr. G. LOCATELLI, I redditi da attività illecita ostacolo al gratuito patrocinio, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1326. (52) Secondo l’art. 3, comma 4 ‘‘si tiene conto del solo reddito personale nei procedimenti in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi’’. Cfr. Corte Cost., sent. 25 luglio 1995, n. 382, in Giust. pen., 1995, I, p. 289, che ha dichiarato non fondata una questione di legittimità dell’art. 3, comma 2 legge n. 217 del 1990, ‘‘nella parte in cui limita ai familiari conviventi e non ai familiari che mantengono un collegamento economico, pur nella diversità della residenza anagrafica, la determinazione del reddito per l’ammissione al patrocinio pubblico; e ciò perché la disposizione impugnata appresta un criterio che, per il suo carattere obiettivo e l’agevole riscontrabilità, è certamente funzionale alle esigenze di effettiva solidarietà e alle garanzie della difesa nei confronti del non abbiente, né d’altra parte è causa di una disparità di trattamento, attesa la disomogeneità delle situazioni considerate’’. Secondo Cass., sez. I, c.c. 17 gennaio 1997, in Cass. pen., 1998, n. 269, pp. 525-526, ‘‘in tema di gratuito patrocinio, l’elevazione del limite di reddito per l’ammissione al beneficio, prevista dall’art 3, comma 2 della legge 30 luglio 1990, n. 217 nel caso di soggetto con-
— 693 — del reddito indicato al comma 1 ogni due anni, attualmente il tetto fissato risulta di lire 10.890.000 (53). Il criterio utilizzato dalla norma sopracitata al fine di identificare il soggetto non abbiente appare notevolmente differente da quello utilizzato dal r.d. n. 3282 del 1923, che fa riferimento allo ‘‘stato di povertà’’, intendendo con tale locuzione non ‘‘la nullatenenza, ma uno stato in cui il ricorrente non sia in grado di sopperire alle spese della lite’’ (art.16, comma 1). Il legislatore del 1990 ha, quindi, optato per la fissazione di un preciso limite reddittuale al di sotto del quale, soltanto, è possibile chiedere l’ammissione al beneficio. Tuttavia, tale soluzione desta non poche perplessità. Infatti, il criterio adottato appare troppo rigido e sembra non tenere in considerazione molteplici fattori quali, ad esempio, il costo della vita — che muta sensibilmente secondo le diverse aree geografiche del Paese — nonché la durata del processo, che varia notevolmente nel caso in cui si giunga, in tempi brevi, ad un patteggiamento, oppure si proceda con il rito ordinario, passando dal primo grado all’appello e al ricorso per cassazione e, quindi, richiedendo l’assistenza di un legale per parecchi anni (54). Inoltre, il limite di reddito fissato dalla legge appare troppo basso (55) e consente di escludere dal beneficio, ad esempio, chi gode di un reddito pari a dodici milioni annui, cioè appena al di sopra del tetto previsto dall’art. 3, legge n. 217 del 1990, considerando, quindi, tale soggetto ‘‘abbiente’’ (56). Tuttavia, con tale termine si intende indicare colui ‘‘che ha, che possiede, detto spec. di chi è in condizioni economiche agiate o possiede sicure fonti di vivente con il coniuge o con altri familiari, opera anche nell’ipotesi in cui costoro non siano titolari di alcun reddito proprio’’. (53) Tale adeguamento è stato operato con il D.M. 28 ottobre 1995, in G.U., 30 novembre 1995, Serie gen. n. 280, p. 17. (54) Cfr. C. BOVIO, Perry Mason e il cliente povero, in La dif. pen., 1989, 23-24, p. 133, il quale, commentando il disegno di legge n. 3048 del 1988, predecessore della legge n. 217 del 1990, critica il meccanismo del limite rigoroso rilevando che, in altri Paesi, ‘‘le spese di assistenza legale sono a totale carico dello Stato per i ‘‘veri e propri’’ poveri, mentre per fascie di reddito medio-basso vi è un concorso parziale dello Stato commisurato anche alla complessità della controversia’’. Cfr., inoltre, F. CIPRIANI, Il patrocinio dei non abbienti in Italia, cit., p. 102, il quale rileva che ‘‘il legislatore (...) insiste nel determinare la non abbienza, che è un concetto relativo, con un criterio sostanzialmente rigido e del tutto dimentico dell’effettivo costo della difesa tecnica’’. Secondo G. CASCINI, L’assistenza legale dei meno abbienti: una riforma che non può più attendere, cit., pp. 674-675, ‘‘il concetto di ‘non abbienza’, meglio esplicitato nelle convenzioni internazionali, va infatti riferito alla capacità economica del soggetto di far fronte alle spese legali. La formula, dunque, deve essere intesa in senso eminentemente relativo, e la situazione di non abbienza dovrebbe essere ritenuta in tutte le ipotesi in cui vi sia uno squilibrio tra le capacità economiche di un soggetto e i costi dell’assistenza legale’’. Per ulteriori rilievi critici si veda P. A. AIROLDI, La difesa dei non abbienti nel nuovo processo penale, cit., pp. 242-243; A. OSNATO, sub art. 3, legge n. 217 del 1990, in Leg. pen., 1992, p. 465. (55) Cfr. F. MANNA, Osservazioni sulla legge di istituzione del patrocinio dello Stato per i non abbienti, cit., p. 311, il quale evidenzia che ‘‘si tratta di livelli di reddito esigui, che lasciano prevedere un limitato ricorso al beneficio’’. Cfr., inoltre, F. CIPRIANI, Il patrocinio dei non abbienti in Italia, cit., p. 102, il quale rileva che, ‘‘stante il tetto dei dieci milioni annui di reddito per avere diritto al patrocinio, della nuova legge potranno giovarsi solo coloro che possono contare su non più di 833.000 lire al mese: i quali, nell’Italia di oggi, se si prescinde da una relativamente piccola frangia di cittadini italiani, non possono che essere gli immigrati extracomunitari’’. (56) Secondo M. CANONICO, Diritto alla difesa e tutela dei non abbienti: dal gratuito patrocinio all’assistenza in giudizio a spese dello Stato, in Dir. fam., 1994, p. 1433, con la fissazione di tale limite di reddito il legislatore ‘‘ha evidentemente ritenuto meritevoli di tutela solo certe situazioni e non altre. La circostanza che poi, di fatto, possa risultare escluso dal beneficio il soggetto che possiede una lira di reddito in più, è ben possibile, ma costituisce l’inevitabile conseguenza di ogni limitazione prevista in maniera fissa dal legislatore’’.
— 694 — reddito’’ (57): difficilmente può essere così definito chi dispone di un reddito pari ad un milione al mese. Se, dunque, la legge n. 217 del 1990 sembra aver compiuto un passo in avanti rispetto al r.d. n. 3282 del 1923, prendendo in considerazione la ‘‘non abbienza’’ che è un concetto più ampio rispetto allo ‘‘stato di povertà’’ (58), in realtà, fissando un rigoroso e basso limite di reddito, non lascia all’interprete alcuna discrezionalità nel verificare caso per caso la situazione di ‘‘non abbienza’’ (59). Al contrario, nell’ordinamento statunitense non si trova una definizione rigida del concetto di ‘‘non abbienza’’, analoga a quella prevista nell’ordinamento italiano dall’art. 3, legge n. 217 del 1990, ma è affidato alla giurisprudenza il compito di accertare, nel caso concreto, se un soggetto sia o meno ‘‘indigente’’: tale situazione appare peraltro scontata, dal momento che rispecchia sicuramente il modus operandi di un ordinamento di common law. La Corte Suprema del Minnesota, nel caso Tahash (60), ritenne che l’imputato non dovesse essere totalmente privo di mezzi per essere considerato un indigente. Fin dall’arresto il ricorrente aveva insistentemente chiesto che gli fosse nominato un difensore, ma, dal momento che egli possedeva 25 dollari in contanti, un’automobile di sette anni e ‘‘some equity’’ in 120 acri di terra, la probate court ritenne che egli non fosse indigente. La Corte Suprema dello Stato annullò la decisione, poiché il soggetto doveva essere considerato indigente visto che, dopo aver contattato un difensore, non era stato in grado di ‘‘make satisfactory arrangements with him’’ (61). Dunque, lo standard utilizzato faceva rlferimento alle effettive capacità del soggetto di avvalersi di un difensore. Allo stesso modo, la District Court of Appeal della Florida (Secondo distretto), nel caso Keur (62), sostenne che se un imputato dimostrava esaurientemente con prove idonee che egli era finanziariamente incapace di pagarsi un difensore, la corte era obbligata a giudicarlo insolvent e il public defender doveva rappresentarlo (63). Ad assumere rilevanza non era tanto il fatto che gli amici, la moglie o i parenti dell’imputato potessero o volessero provvedere in proposito, quanto piuttosto la circostanza che l’imputato avesse i mezzi per assumere un avvocato (64). Al contrario, in Losacano (65), la Appellate Court dell’Illinois (Terzo distretto) ritenne che l’imputato non doveva essere considerato indigente, poiché lo stesso non aveva dimostrato di non poter pagare la parcella di un difensore, né di aver parlato con un avvocato a tale proposito e godeva di un reddito mensile sostanzioso (66). Parimenti, non è stato considerato indigente un imputato che aveva un ‘‘taxfree income of $ 1,065 per month, no de(57) Voce Abbiente, in Diz. enc. it. Treccani, vol. I, Roma, 1970, p. 11. (58) Cfr. A. CASALINUOVO, Assistenza giudiziaria ai non abbienti, cit., p. 3. (59) Secondo F. CIPRIANI, Il patrocinio dei non abbienti in Italia, cit., p. 90, ‘‘il r.d. n. 3282/23, pur riferendosi ai ‘‘poveri’’, ha una elasticità (...) che tiene conto della relatività delle cose e che perciò gli consente di essere applicato anche a persone non obiettivamente povere’’. (60) State ex rel. Riendeau v. Tahash, 148 N.W. 2d 557 (1967). (61) State ex rel. Riendeau v. Tahash, cit., p. 559. (62) Keur v. State, 160 So. 2d, 546 (Fla App. 2d) (1964). (63) Keur v. State, cit., p. 549. (64) Keur v. State, cit., p. 549. Cfr. People v. Gustavson, 269 N.E. 2d 517 (1971), in cui l’Appellate Court dell’Illinois (3o distretto) ritenne che ‘‘refusal to appoint counsel for defendants on premises that their parents might have funds with which to hire an attorney was reversible error, where defendants were without funds, parents of one defendant had indicated that they would not provide an attorney for him, widowed mother of other defendant had relied upon impression, which her son had, that the court would appoint counsel for him, and court made no effort to continue the matter so that both parents and defendants could confer and clearly understand status of defendants’’. (65) People v. Losacano, 329 N.E. 2d 835 (Ill App. 3d) (1975). (66) Cfr. People v. Losacano, cit., p. 836, in cui si rilevò che l’imputato aveva compilato un affidavit da cui risultava che egli aveva un reddito mensile di $ 1.200.
— 695 — pendents, and a moderate equity in three rental properties, and who is paying $ 100 per month on his attorney fees’’ (67) e nemmeno chi guadagnava 60 dollari alla settimana (68). 3.1. Richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. — L’art. 2 della legge n. 217 del 1990 prevede che la richiesta per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato deve essere presentata, in sede penale, al giudice che procede, intendendosi anche, con tale locuzione, il g.i.p. durante la fase delle indagini preliminari (69). Sempre tale norma dispone che l’istanza debba essere sottoscritta dall’interessato, autenticata dal difensore ovvero dal funzionario che la riceve ed essere presentata o inviata con raccomandata alla cancelleria del giudice (70). La richiesta può essere presentata dal difen(67) State v. Jensen, 241 N.W. 2d 557, 561 (1976). Nell’Appendice a tale caso, la Corte Suprema del North Dakota ha indicato le guidelines utilizzate per determinare lo stato di indigenza: ‘‘1. FACTFINDING. The determination whether a person is eligible for the appointment of counsel to represent him is a judicial function to be performed by a judge or magistrate. Other officers of the court may be designated to obtain the facts upon which such determination is to be made. Whenever practicable, factfinding should be done prior to the person’s first appearance in court. Any information bearing on the defendant’s financial status should be furnished by him. 2. STANDARDS FOR ELIGIBILITY. A person is ‘‘indigent’’ within the meaning of Rule 44, N.D.R. Crim. P., if his net financial resources and income are sufficient to enable him to obtain qualified counsel. In determining whether such insufficiency exists, consideration should be given to (a) the cost of providing the person and his dependents with the necessities of life, and (b) the cost of a defendant’s bail bond if financial conditions are imposed, or the amount of the cash deposit defendant is required to make to secure his release on bond. Any doubts as to a person’s eligibility should be resolved in his favor; erroneous determinations of eligibility may be corrected at a later time. At the time of determining eligibility, the judge or other officer should inform the person of the penalties for making false statements, and of his obligation to inform the court and his attorney of any change in his financial status. 3. PARTIAL ELIGIBILITY. If a person’s net financial resources and income anticipated prior to trial and within a reasonable time thereafter are in excess of the amount needed to provide him and his dependents with the necessities of life and to provide the defendant’s release on bond, but are insufficient to pay fully for retained counsel, the judicial officer should find the person eligible for the appointment of counsel under the Act and should direct him to pay the available excess funds to the clerk of the court at the time of such appointment or from time to time thereafter. Any funds so deposited shall be disbursed by the clerk by order of the court. The judge or magistrate may impose such other conditions from time to time as may be appropriate. 4. FAMILY RESOURCES. The initial determination of eligibility should be made without regard to the financial ability of the person’s family unless his family indicates willingness and financial ability to retain counsel promptly. At or following the appointment of counsel, the judicial officer may inquire into the financial situation of the person’s spouse (or parents, if he is a juvenile) and if such spouse or parents indicate their willingness to pay all or part of the costs of counsel, or if there is a statutory duty to support the defendant, the judicial officer may direct deposit or reimbursement’’ (State v. Jensen, cit., pp. 561-562). (68) Cfr. State v. Timmons, 545 P. 2d 358 (1976). (69) L’art. 15 della legge n. 217 del 1990 estende l’efficacia delle disposizioni degli articoli precedenti alla fase dell’esecuzione, al procedimento di revisione, ai procedimenti relativi all’applicazione di misure di sicurezza o di prevenzione, ai procedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza, ‘‘sempreché l’interessato debba o possa essere assistito da un difensore o da un consulente’’. In tali casi, ‘‘competente a ricevere l’istanza prevista dall’articolo 2, ad adottare i provvedimenti relativi all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ed a liquidare i compensi è, a seconda dei casi, il giudice dell’esecuzione o l’autorità giudiziaria procedente: tuttavia, se procede la Corte di cassazione, la competenza spetta all’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento impugnato, ovvero, nel caso di revisione, al giudice dell’esecuzione’’ (art. 15 comma 2). (70) Nel caso in cui il richiedente sia detenuto, internato in un istituto, le richieste sono ricevute dal direttore e, ‘‘iscritte in apposito registro, sono immediatamente comunicate
— 696 — sore direttamente in udienza oppure, nel caso in cui procede la Corte di cassazione, al giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. L’art. 5 detta i requisiti sostanziali dell’istanza, nonché gli allegati da presentare unitamente alla stessa (71). Il giudice decide con decreto motivato nei dieci giorni successivi alla presentazione dell’istanza, ovvero immediatamente se la stessa è presentata in udienza, dopo aver verificato la sussistenza delle condizioni di reddito dalle quali dipende l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, nonché la circostanza che il soggetto non sia assistito da più di un difensore (art. 4, comma 3). Se l’istanza viene accolta, l’ammissione al patrocinio ‘‘giova per tutti i gradi del procedimento’’ (art. 1, comma 3). Se, invece, la domanda viene rigettata contro tale provvedimento l’interessato (72), entro venti giorni, ‘‘può proporre ricorso davanti al tribunale o alla corte d’appello ai quali appartiene il giudice che ha emesso il decreto’’ (73) (art. 6, comma 4); nel caso in cui il provvedimento di rigetto sia stato emesso ‘‘dal giudice per le indagini preliminari presso la pretura o dal pretore il ricorso è proposto al tribunale nel cui circondario hanno sede’’ (74) (art. 6, comma 4). Contro l’ordinanza che decide sul ricorso è possibile proporre, entro venti giorni dalla notifica della stessa, ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 6, comma 5). Si segnala altresì anche la predisposizione ad opera della presente legge di un meccanismo di modifica o revoca (75) del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato (artt. 10 e 11). all’autorità competente e hanno efficacia come se fossero ricevute direttamente dall’autorità giudiziaria’’ (art. 123, comma 1 c.p.p.). Nel caso in cui l’imputato sia in stato d’arresto o di detenzione domiciliare ovvero custodito in un luogo di cura, l’istanza può essere presentata ‘‘con atto ricevuto da un ufficiale di polizia giudiziaria, il quale ne cura l’immediata trasmissione all’autorità competente’’ (art. 123, comma 2 c.p.p.); anche in tale caso la richiesta ha efficacia come se fosse stata ricevuta direttamente dall’autorità giudiziaria. (71) La Corte Costituzionale con la sent. 1o giugno 1995, n. 219, in Guida al dir. - Il Sole-24 Ore, 1 luglio 1995, n. 26, p. 46, ha dichiarato ‘‘l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) limitatamente alle parole ‘‘per quanto a conoscenza della predetta autorità’’. A commento di tale sentenza si veda E. SACCHETTINI, Spetta al giudice l’ultima parola sulle verifiche delle autorità diplomatiche, in Guida al dir. - Il Sole-24 Ore, 1 luglio 1995, n. 26, p. 48; A. ALGOSTINO, Il diritto alla difesa dello straniero non abbiente: una legislazione incerta e inadeguata rispetto ai nuovi flussi migratori, in Giur. it., 1996, I, p. 297. (72) Sull’impossibilità di estendere in via analogica la legittimazione anche al difensore, si veda Cass., sez. I, c.c. 31 maggio 1995, in Cass. pen., 1997, 72, p. 101. (73) Cfr. Cass., sez. I, c.c. 16 ottobre 1997, in Cass. pen., 1998, 1330, p. 2383, in cui si rileva che ‘‘in tema di gratuito patrocinio, il ricorso che l’interessato, ai sensi dell’art. 6, comma 4 della legge 30 luglio l990, n. 217, può proporre ‘‘davanti al tribunale o alla corte d’appello ai quali appartiene il giudice che ha emesso il decreto di rigetto dell’istanza’’, deve intendersi come rimedio da proporre avanti allo stesso ufficio giudiziario cui appartiene, organicamente, il giudice che ha rigettato l’istanza. Tale regola è operante anche quando trattasi di provvedimento emesso dal tribunale di sorveglianza in forza di quanto espressamente stabilisce al riguardo l’art. 15 della stessa legge n. 217 del 1990’’. (74) Si evidenzia che il decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 — e successive modificazioni — ha soppresso l’ufficio del pretore, introducendo nell’ordinamento il giudice unico di primo grado. (75) Cfr. Cass., sez., IV, c.c. 12 novembre 1996, in Cass. pen., 1998, 683, p. 1137, in cui si rileva che ‘‘Il provvedimento di ammissione di un soggetto al patrocinio a spese dello Stato in mancanza dei presupposti di legge può essere legittimamente revocato, rientrando la revoca nella generale potestà di autotutela della pubblica amministrazione’’. Secondo Cass., sez. I, 11 novembre 1994, in Giur. it., 1995, II, p. 634, ‘‘In tema di patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, non è ammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che revoca il beneficio erroneamente concesso in relazione a procedimento per contravvenzione’’. Sempre in tema di revoca si veda A. BONSIGNORE, Spunti critici sulla revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, in Giur. it., 1995, II, p. 634.
— 697 — Parallelamente a quanto previsto nel nostro ordinamento, anche negli Stati Uniti spetta al giudice, davanti al quale compare l’imputato indigente, il compito di nominargli un difensore e questa è una competenza esclusiva: come ha rilevato la giurisprudenza, vi è una lesione del diritto costituzionalmente garantito all’assistenza difensiva qualora l’imputato venga rappresentato da un avvocato scelto dal prosecuting attorney (76). Secondo la dottrina un serio problema risulta quello delle richieste infondate al fine di ottenere un difensore gratuito (77). In tutti i casi esaminati in precedenza (78), l’imputato, per dimostrare il proprio stato di non abbienza, ha dovuto compilare un affidavit. Sempre secondo la dottrina un vantaggio di tale pratica è quello per cui l’imputato può essere incriminato per falso giuramento qualora risulti non indigente; in pratica, tuttavia, l’indigenza è un concetto così vago che risulta impossibile convincere una giuria del fatto che l’imputato sia chiaramente non indigente ed abbia volontariamente mentito al riguardo (79). Nella maggior parte dei distretti non viene condotta alcuna indagine approfondita sullo status finanziario dell’imputato che si dichiara privo di mezzi, ma allo stesso vengono semplicemente poste delle domande superficiali da un official, solitamente dal giudice che presiede l’arraignment (80). Un altro sistema per verificare se l’imputato deve essere considerato indigente è quello di utilizzare il bail test, ovvero il giudice può decidere di non nominare un difensore all’imputato che è stato in grado di pagare la cauzione (81). Tuttavia, tale sistema è oggetto di critiche, poiché può essere un terzo a pagare la cauzione e, quindi, il bail test non fa emergere le reali capacità finanziarie dell’imputato, oppure può costringere quest’ultimo a scegliere tra libertà e diritto di difesa (82). 4. La scelta del difensore. — L’effetto più rilevante dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che innova radicalmente rispetto alla disciplina dettata dal r.d. n. 3282 del 1923 (83), consiste nel riconoscimento in capo al soggetto non abbiente della facoltà di scegliersi un difensore di fiducia (84). L’unico limite posto dalla legge alla libera scelta del difensore è costituito dal fatto che quest’ultimo deve essere iscritto ‘‘ad uno degli albi degli av(76) Cfr. State v. Hayes, 135 S.E. 2d 653 (1964) in cui la Corte Suprema del North Carolina sostenne, che ‘‘defendant was denied constitutional right of counsel where he was represented by counsel assigned by prosecuting attorney, not selected and employed by defendant or assigned to defendant by judge, at time when he waived bill of indictment, even though defendant would probably have fared no better had he been represented by an attorney of his own choosing’’. (77) Cfr. Note, The Representation of Indigent Criminal Defendants in the Federal District Courts, in 76 Harvard Law Review 579, 585 (1963). (78) Cfr. supra § 3. (79) Cfr. Note, The Representation of Indigent Criminal Defendants in the Federal District Courts, cit., p. 586. (80) Cfr. Note, The Representation of Indigent Criminal Defendants in the Federal District Courts, cit., p. 585. (81) Cfr. Note, The Representation of Indigent Criminal Defendants in the Federal District Courts, cit., p. 586; si veda, inoltre, AA.VV., Il processo penale statunitense - Soggetti ed Atti, cit., pp. 324-325. (82) Cfr. Note, The Representation of Indigent Criminal Defendants in the Federal District Courts, cit., pp. 586-587. (83) L’art. 29, del r.d. n. 3282 del 1923, prevede infatti che ‘‘Decretata l’ammissione al gratuito patrocinio, ha luogo la destinazione del difensore d’ufficio’’. (84) Il non abbiente può nominare solo un difensore: infatti, ‘‘l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non può essere concessa se il richiedente è assistito da più di un difensore; in ogni caso gli effetti dell’ammissione cessano a partire dal momento in cui la persona alla quale il beneficio è stato concesso nomina un secondo difensore di fiducia’’ (art. 4, comma 3 legge n. 217 del 1990). Cfr. G. UBERTIS, sub art. 9 legge n. 217 del 1990, in Leg. pen., 1992, p. 495, il quale sottolinea che ‘‘riguardo alla nomina del difensore in conseguenza dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, il legislatore mostra, con la disposizione in commento, di voler superare nel senso più favorevole al non abbiente i dubbi relativi alla ricomprensione o no, nel-
— 698 — vocati del distretto di corte di appello nel quale ha sede il giudice davanti al quale pende il procedimento’’ (art.9). La legge n. 217 del 1990 mantiene ferma la distinzione operata dal codice di procedura penale tra difensore di fiducia e d’ufficio: infatti, l’art. 8 prevede che ‘‘nei casi in cui si debba procedere alla nomina di un difensore d’ufficio il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria informano la persona interessata delle disposizioni in materia di patrocinio a spese dello Stato’’. In passato, la scelta di affidare al non abbiente esclusivamente un difensore d’ufficio è stata probabilmente dettata dal timore che, qualora vi fosse stata la possibilità di scelta di un difensore di fiducia, la stessa sarebbe ricaduta sugli avvocati più noti, che avrebbero quindi dovuto lavorare gratuitamente. Tuttavia, la probabilità che si avveri una simile situazione appare scarsa se si pone l’attenzione sul soggetto che ricorre al beneficio in questione: difficilmente egli conosce i nomi degli avvocati più illustri e, nella maggior parte dei casi, si affida all’autorità giudiziaria procedente perché gli venga assegnato un difensore d’ufficio. L’inserimento nella normativa attuale della facoltà di nomina del difensore di fiducia è soprattutto dovuto alla disposizione, contenuta nella legge n. 217 del 1990, relativa alla liquidazione dei compensi al difensore. Infatti, se nel sistema delineato dal r.d. n. 3282 del 1923 la previsione di assegnare al non abbiente un difensore d’ufficio comporta un’equa distribuzione in capo a tutti gli avvocati dell’obbligo di prestare un ufficio gratuito (85), la facoltà di nomina del difensore di fiducia esige come contropartita che gli onorari dell’avvocato vengano sopportati dallo Stato, al fine di evitare il possibile rischio, sopra evidenziato, di addossare ai professionisti più noti l’onere della difesa gratuita. La soluzione adottata dal legislatore dovrebbe dunque essere la seguente: il soggetto economicamente ‘‘capace’’ deve retribuire sia il difensore di fiducia, sia quello d’ufficio, mentre il ‘‘non abbiente’’ ha diritto sia al difensore di fiducia sia a quello d’ufficio gli onorari dei quali sono a carico dello Stato. Il condizionale è tuttavia doveroso, dal momento che, sebbene l’art. 8 della legge n. 217 del 1990 prevede l’obbligo di retribuire il difensore d’ufficio per il soggetto non ammesso al beneficio (86), è prassi consolidata, come già rilevato precedentemente, che tale tipo di difesa sia spesso gratuita. Nell’ordinamento statunitense una rilevante differenza rispetto al nostro sistema processuale emerge nel momento in cui, accertata l’indigenza dell’imputato, il giudice gli nomina un avvocato: salvo eccezioni (87), non è quindi prevista la possibilità di scelta di un difensore di fiducia da parte del non abbiente. L’attribuzione alla trial court del potere di nomina del difensore, senza riguardo alla preferenza dell’imputato per un altro avvocato, si basa, secondo la dottrina statunitense, su tre ordini di motivi. Innanzitutto, i giudici ritengono di poter nominare un difensore migliore rispetto a quello che sceglierebbe l’imputato indigente, dal momento che essi conoscono le capacità degli avvocati locali (88). In secondo luogo, se si permettesse all’imputato di scegliersi il difensore probabilmente si imporrebbe un notevole onere sui difensori con più esperienza e di ciò si avvantaggerebbero soprattutto i delinquenti abituali che è più probabile conoscano e vogliano avvalersi di quegli avvocati (89). In terzo luogo, dal momento che il VI Emendamento garantisce all’imputato il diritto ad essere rappresentato in modo competent e non da chi egli ritenga sia il difensore migliore, la ‘‘trial l’art. 24, comma 3 cost. del potere di scelta del difensore, facendo propria l’opzione più ‘liberale’ già da tempo auspicata in dottrina’’. (85) Cfr. G. FRANCO, Sul gratuito patrocinio in Italia, cit., p. 806, il quale rileva che ‘‘trattandosi di un ufficio obbligatorio, tutt’altro che ambito dalla classe forense (...), nelle nomine dei difensori assegnati al g.p., viene eseguita una rotazione, in modo da evitare che lo stesso legale sia più volte chiamato ad assumere la difesa gratuita’’. (86) Si veda anche l’art. 31 disp. att. c.p.p. (87) Un’eccezione a tale regola si trova nel caso Harris v. Superior Court of Alameda County, 567 P. 2d 570 (1977), in cui la Corte Suprema della California (in Bank) ritenne che ‘‘where the accused had been represented by particular attorneys in a related prosecution, substantial amounts of time and effort would be required of new counsel to attain the necessary factual and legal background, new counsel supported accused’s plea that they not be appointed, and accused had a personal preference based upon trust and confidence developed over substantial period of time, the superior court abused its discretion in denying accused’s request to appoint the attorneys of their choice’’. (88) Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 547. (89) Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 547.
— 699 — court may value over the defendant’s choice the administrative convenience of an appointment system that ignores defendant’s preference’’ (90). Secondo la normativa federale (91) ogni district court degli Stati Uniti, con l’approvazione del judicial council del circuit, deve predisporre in tutto il distretto un plan per fornire l’assistenza difensiva ad ogni persona indigente che si trovi in una delle situazioni indicate dalla stessa legge (92). Il difensore deve essere scelto ‘‘from a panel of attorneys designated or approved by the court, or from a bar association, legal aid agency, or defender organization furnishing representation pursuant to the plan’’ (93). Qualora un soggetto abbia i requisiti richiesti dalla legge e risulti privo di difensore, l’U.S. magistrate o la court, dopo aver condotto una inquiry a seguito della quale risulta l’indigenza della persona e sempre che la stessa non rinunci al diritto al difensore, devono nominargli un avvocato per rappresentarlo (94). La scelta può dunque ricadere su private attorneys, su avvocati forniti da una bar association o da una legal aid agency, oppure fornti da una defender organization (95). A differenza di quanto avviene in Italia, in cui l’unica differenziazione operata dalla legge risulta quella tra difensore di fiducia e d’ufficio, il sistema statunitense risulta piuttosto articolato per quanto concerne i modelli di legal aid vigenti. La distinzione principale è quella tra assigned counsel system e Public Defender system: il primo è ‘‘il modello privatistico di tipo individualistico’’ (96), mentre il secondo è un ‘‘organo coperto da pubblico impiegato dotato di pubblico stipendio, creato a livello di contea o municipio con funzioni di difesa contrapposte a quelle del Public Prosecutor’’ (97). (90) W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 547. (91) Cfr. U.S. Code, titolo 18, § 3006 A (a). (92) Per l’elenco dei requisiti richiesti si veda U.S. Code, titolo 18, § 3006A (a) (1) e (2). (93) U.S. Code, titolo 18, § 3006A (b). (94) Cfr. U.S. Code, titolo 18, § 3006A (b). (95) Cfr. U.S Code, titolo 18, § 3006A (a) (3). Secondo il § 3006A (g) vi sono due tipi di defender organization: la Federal Public Defender organization, la quale ‘‘shall consist of one or more full-time salaried attorneys’’ e la Community Defender organization, che ‘‘shall be a nonprofit defense counsel service established and administered by any group authorized by the plan to provide representation’’. (96) AA.VV., Il processo penale statunitense - Soggetti ed Atti, cit., p. 309. Si veda, inoltre, V. FANCHIOTTI, Processo penale nei paesi di Common Law, in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 163, il quale rileva che il sistema ‘‘tradizionale dell’assigned counsel, presente in tutte le contee e prevalente in poco più di metà’’ consiste ‘‘nel nominare un difensore, scelto per ogni singolo caso dal giudice procedente in un elenco di volontari o ‘‘precettato’’: l’avvocato viene retribuito un tanto per ora (con un tetto massimo) o per procedimento, ma in pratica in una misura sempre inadeguata e spesso irrisoria. In alcuni ordinamenti, poi, la difesa dell’indigente costituisce una funzione pro bono, obbligatoria e completamente gratuita, cui si affianca la difesa pro bono volontaria’’. (97) AA.VV., Il processo penale statunitense - Soggetti ed Atti, cit., p. 310. Secondo V. FANCHIOTTI, Processo penale nei paesi di Common Law, cit., p. 163, ‘‘il sistema più caratteristico, presente quasi nel 40% delle contee, soprattutto in quelle coincidenti con aree metropolitane, è rappresentato dall’ufficio del Public Defender, composto da uno staff di avvocati a tempo pieno o parziale e da personale investigativo, finanziato dall’autorità amministrativa o giudiziaria locale (raramente gestito da enti privati non a scopo di lucro), diretto dal Chief defender, nominato dall’autorità amministrativa, dal foro locale, dall’ente privato o eletto a suffragio universale’’. Lo stesso Autore prosegue rilevando che un terzo meccanismo ‘‘prevalente solo nel 10% circa delle contee è quello del ‘contract’, col quale singoli avvocati, studi o associazioni di categoria si impegnano ad assicurare l’assistenza difensiva in un numero determinato di casi in cambio di un compenso definito (c.d. individual fee contract) oppure in tutti i casi rientranti in una certa categoria (per esempio tutti i felonies) nell’arco di un anno (c.d. global fee contract)’’. Per un’analisi dei meccanismi di legal aid presenti negli Stati Uniti, si veda AA.VV., Il processo penale statunitense - Soggetti ed Atti, cit., p. 308 ss.; Note, Neighborhood Law Offices: the New Wave in Legal Services for the Poor, in 80 Harvard Law Review 805 (1967);
— 700 — 4.1. Il ricorso ai consulenti tecnici e agli investigatori privati. — Oltre agli onorari e alle spese sostenute dall’avvocato, l’art. 4, comma 1 della legge n. 217 del 1990 pone a carico dello Stato, in seguito all’ammissione al patrocinio per i non abbienti, le spese e gli onorari dei ‘‘consulenti tecnici, (...), ausiliari, notai e pubblici ufficiali che abbiano prestato la loro opera nel processo nonché le spese e le indennità necessarie per l’audizione dei testimoni e di quelle da corrispondersi ad imprese editrici di giornali per la pubblicazione di provvedimenti’’. Il comma successivo precisa che ‘‘per i consulenti tecnici gli effetti di cui al comma 1 si producono limitatamente ai casi in cui è disposta perizia’’. A tale riguardo è, tuttavia, intervenuta recentemente la Corte Costituzionale dichiarando l’illegittimità ‘‘dell’art. 4, comma 2, prima parte, della legge 30 luglio l990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) nella parte in cui, per i consulenti tecnici, limita gli effetti della ammissione al patrocinio a spese dello Stato ai casi in cui è disposta perizia’’ (98). Tale decisione è da accogliere molto positivamente e, come rileva la dottrina, ‘‘è indubbiamente destinata ad incidere notevolmente nella gestione, e forse anche nel costume, della difesa penale’’ (99). Inoltre, si sottolinea che ‘‘viene così aperta una strada ai non abbienti che dovrebbe essere battuta soprattutto all’inizio, nella fase delle indagini preliminari’’, poiché ‘‘è proprio quando vengono mosse le prime accuse che si rende necessario accertare, anche sotto l’aspetto tecnico, la situazione con esperti di propria fiducia’’ (100). La seconda parte dell’art. 4, comma 2 dispone che ‘‘gli effetti stessi non si producono relativamente ai soggetti che svolgono investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova di cui all’art. 38 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice dl procedura penale’’. Non è chiaro a chi si riferisca il legislatore indicando i ‘‘soggetti che svolgono investigazioni’’ ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.p.p. Infatti, tale norma prevede la facoltà di svolgere indagini in capo al difensore il quale può procedere direttamente ovvero assegnare l’incarico a sostituti, consulenti tecnici e investigatori privati. Se si fornisce una lettura dell’art. 4, comma 2 slegata dal precedente comma 1 si dovrebbe giungere alla conclusione assurda che le spese e gli onorari del difensore del non abbiente sono a carico dello Stato solo qualora l’avvocato non svolga indagini difensive. Se al contrario si tiene presente che l’art. 4, comma 1 lett. c) e d) prevede ‘‘l’anticipazione da parte dello Stato delle spese effettivamente sostenute dai difensori (e consulenti tecnici)’’ e ‘‘l’annotazione a debito degli onorari dovuti’’ senza indicare alcun limite relativo all’attività svolta dal difensore, non si può fare a meno di concludere che nel novero dei ‘‘soggetti che svolgono investigazioni’’ non rientra il difensore (101). Per quanto concerne il consulente tecnico, valgono le medesime considerazioni appena Note, The Representation of Indigent Criminal Defendants in the Federal District Courts, cit., p. 579 ss.; Note, Structuring the Public Service Efforts of Private Law Firms, in 84 Harvard Law Review 410 (1970); R. ROSSI, Assistenza legale di Stato ai poveri o irregimentazione degli avvocati?, in Giust. pen., 1952, I, p. 185 ss.; E. SILVESTRI, L’assistenza legale ai non abbienti negli Stati Uniti: il caso di New Haven, in Foro it., 1984, V, p. 198 ss.; G. ROSSETTO, Il Legal Aid negli Stati Uniti d’America: profili storici e giurisprudenziali, in Ind. pen., l990, p. 806 ss. (98) Corte Cost., sent. 19 febbraio 1999, n. 33, in Guida al dir. - Il Sole-24 Ore, 6 marzo 1999, n. 9, p. 94. La Corte è giunta a tale conclusione considerando, innanzitutto, una sua precedente decisione (Corte Cost., sent. 4 luglio 1974 n. 199, in Giur. cost., 1974, p. 1681) in cui si rileva che ‘‘il consulente tecnico è (...) pacificamente ritenuto parte integrante dell’ufficio di difesa dell’imputato, nel cui interesse presta la propria opera di apporto tecnico, mediante argomenti, rilievi ed osservazioni che hanno sostanzialmente natura di atti difensionali’’ (p. 1683). A commento di tale sentenza si veda E. SACCHETTINI, Addio alle perizie sollecitate al pm: per la difesa nuovi spazi di autonomia, in Guida al dir. - Il Sole-24 Ore, 6 marzo 1999, n. 9, p. 95; P. SECHI, Commento a Corte Cost., sent. 19 febbraio 1999, n. 33, in Dir. pen., processo, 1999, n. 5, p. 583. (99) E. SACCHETTINI, Addio alle perizie sollecitate al pm: per la difesa nuovi spazi di autonomia, cit , p. 96. (100) E. SACCHETTINI, Addio alle perizie sollecitate al pm: per la difesa nuovi spazi di autonomia, cit., p. 96. (101) Al contrario, P.A. AIROLDI, La difesa dei non abbienti nel nuovo processo pe-
— 701 — effettuate per il difensore e, quindi, si può asserire che con la locuzione ‘‘soggetti che svolgono investigazioni’’ non si può far riferimento nemmeno ai consulenti tecnici. Inoltre, grazie alla sentenza della Corte Costituzionale sopracitata (102), si sottolinea l’importanza della consulenza tecnica extraperitale quale strumento di indagine difensiva. Dunque, in conclusione, rimane il solo ricorso ad investigatori privati ad essere precluso al non abbiente. Tale limite sembra comunque incidere sul diritto alla difesa, soprattutto alla luce della legge n. 332 del 1995 che, aggiungendo due nuovi commi all’art. 38 disp. att. c.p.p., ha disciplinato l’utilizzabilità degli elementi raccolti, oltre che dai difensori e dai consulenti tecnici, anche dagli investigatori privati. Inoltre, l’importanza attribuita alle indagini della difesa risulta anche dalla modifica apportata, sempre dalla legge n. 332 del 1995, in materia di misure cautelari personali, laddove si prevede l’obbligo in capo al giudice di valutare gli atti presentati dalla difesa ex art. 38 disp. att. c.p.p. prima di decidere in ordine all’applicazione della misura. Si potrebbe sostenere che il difensore del non abbiente, pur non potendosi avvalere dell’investigatore privato, possa comunque egli stesso svolgere atti di investigazione (103). Tuttavia, rimane una chiara violazione del principio di uguaglianza dal momento che il non abbiente subisce una ingiustificabile limitazione del proprio diritto di difesa non potendosi avvalere di tutte le risorse che l’ordinamento garantisce, invece, a chi dispone dei mezzi finanziari per farvi ricorso. Nell’ordinamento statunitense oltre al difensore deve essere garantita all’imputato indigente anche l’assistenza di ‘‘investigative, expert, and other services necessary for adequate representation’’ (104): a differenza di quanto previsto nel nostro ordinamento, al defendant è assicurata la possibilità di avvalersi anche di investigatori privati. Con il caso Ake v. Oklahoma (105), la Corte Suprema ha ritenuto che all’imputato indigente debba essere fornita l’assistenza di un consulente tecnico psichiatra, qualora egli abbia dimostrato che il suo stato mentale al momento del reato sia un fattore determinante per l’esito del processo (106). Le corti inferiori hanno utilizzato l’analisi condotta dalla Corte Suprema nel caso Ake per assicurare all’imputato indigente l’assistenza di altri tipi di consulenza tecnica necessaria per garantire una effettiva difesa (107). Infine, i due ordinamenti esaminati prevedono ulteriori benefici per il soggetto non abbiente. In Griffin v. Illinois (108) la Corte Suprema ha riconosciuto all’imputato indigente il diritto di ottenere, a spese dello Stato, il transcript del processo al fine di predisporre l’appello. L’art. 4, legge n. 217 del 1990, prevede per chi è ammesso al beneficio ‘‘l’annotazione a debito dell’imposta di bollo e di registro e di qualsiasi altra tassa o diritto di ogni specie o natura, relativamente ad atti, documenti e provvedimenti concernenti il giudizio’’ (comma 1 lett. a), ‘‘il rilascio gratuito (...) delle copie degli atti processuali strettamente necessarie per l’esercizio della difesa’’ (lett. b) e ‘‘l’esenzione dall’imposta di bollo relativa alle autocertificazioni previste dalla presente legge’’(lett. e). nale, cit., p. 243, ritiene che la legge n. 217 del 1990 escluda ‘‘peraltro espressamente (art. 4/2) l’attribuzione allo Stato delle spese sostenute dai difensori per le investigazioni svolte al fine di esercitare il diritto alla prova in conformità agli artt. 190 del codice e 38 delle relative disposizioni di attuazione’’. (102) Cfr. Corte Cost., sent. 19 febbraio 1999, n. 33, cit., p. 91. (103) Cfr. A. OSNATO, sub art. 4 legge n. 217 del 1990, in Leg. pen., 1992, p. 480, il quale nota che ‘‘ai sensi dell’art. 38.1 n. att. c.p.p. l’attività di investigazione può essere compiuta anche dal difensore e dal consulente di parte, sicché — sotto questo aspetto — non si può affermare che a priori sia escluso l’intervento dello Stato a sostegno degli oneri che il non abbiente deve affrontare per l’attività di investigazione prevista dall’art. 38 cit.’’. (104) U.S. Code, Titolo 18, § 3006 A (a). (105) Ake v. Oklahoma, 470 U.S. 68 (1985). Per un commento a tale sentenza si veda Note, Indigent Criminal Defendant’s Right to a Psychiatrist, in 99 Harvard Law Review 130 (1985). (106) Cfr. Ake v. Oklahoma, cit., p. 74: ‘‘We hold that when a defendant has made a preliminary showing that his sanity at the time of the offense is likely to be a significant factor at trial, the Constitution requires that a State provide access to a psychiatrist’s assistance on this issue if the defendant cannot otherwise afford one’’. (107) Cfr. W.R. LA FAVE-J.H. ISRAEL, Criminal Procedure, cit., p. 541. (108) Griffin v. People of State of Illinois, 351 U.S. 12 (1956).
— 702 — 4.2. La liquidazione dei compensi. — La liquidazione dei compensi al difensore e al consulente tecnico avviene ‘‘al termine di ciascuna fase o grado del procedimento o comunque all’atto della cessazione dell’incarico’’ (art. 12, comma 2) da parte dell’autorità giudiziaria osservando, rispettivamente, la tariffa professionale e le tabelle ed i criteri previsti dalla legge 8 luglio 1980, n. 319, in modo che, in ogni caso, non risultino superiori ai valori medi delle tariffe professionali vigenti relative ad onorari, diritti ed indennità’’ (art.12, comma 1). Parallelamente, l’U.S. Code, titolo 18, § 3006 A(d) disciplina il pagamento dei compensi al difensore dell’imputato indigente che deve avvenire ‘‘at the conclusion of the representation or any segment thereof’’ (109), e fissa anche determinati limiti agli stessi. La richiesta di pagamento deve essere avanzata alla district court, se la difesa è stata svolta davanti ad un U.S. magistrate e alla court, e ad ogni appellate court davanti alla quale il difensore abbia rappresentato l’imputato (110). Ogni richiesta deve essere supportata da una dichiarazione scritta giurata che specifichi il tempo impiegato, i servizi resi, le spese sostenute mentre il caso si trovava davanti all’U.S. magistrate e alla court e ‘‘the compensation and reimbursement applied for or received in the same case from any other source’’ (111). La corte fissa il compenso e il rimborso che devono essere pagati al difensore o alla ‘‘bar association or legal aid agency or community defender organization which provided the appointed attorney’’ (112). In caso di difesa fornita esclusivamente davanti ad un U.S. magistrate la domanda deve essere presentata a quest’ultimo il quale provvede in ordine alla stessa (113). Se la difesa è stata svolta davanti ad un giudice diverso da quelli menzionati, la richiesta deve essere avanzata alla district court che fisserà ‘‘the compensation and reimbursement to be paid’’ (114). 5. Conclusioni. — A conclusione di questa analisi comparativa, si può rilevare come entrambi gli ordinamenti considerati siano sensibili al problema dell’assistenza difensiva ai non abbienti, pur avendo dato allo stesso soluzioni che presentano rilevanti differenze. Innanzitutto, occorre evidenziare la diversa evoluzione — legislativa in Italia, giurisprudenziale negli Stati Uniti — dell’istituto del patrocinio per i non abbienti nei due Paesi. Nel nostro ordinamento il necessario intervento legislativo è stato atteso per molti anni e, dal momento che fino al 1990 l’intera materia era regolata da un regio decreto del 1923, ciò ha comportato una inevitabile incapacità dell’istituto in esame di potersi adeguare alla mutata realtà del nostro Paese. Al contrario, negli Stati Uniti il diritto di origine giurisprudenziale ha portato ad una lenta, ma continua evoluzione del patrocinio per i non abbienti, adattandolo ai tempi e formulando un concetto di ‘‘indigenza’’ flessibile che viene verificato caso per caso. In Italia si è giunti, quindi, solo recentemente all’attuale disciplina che, per certi versi, ha deluso le aspettative. Infatti, appare troppo rigida la definizione di ‘‘non abbienza’’, risultando pure fuorvianti i criteri di calcolo del reddito che non rilevano le reali capacità economiche del soggetto richiedente l’assistenza difensiva a carico dello Stato. Inoltre, occorreva forse differenziare le situazioni di imputato-indagato rispetto a quelle degli altri soggetti (offeso dal reato, danneggiato che intende costituirsi parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria), inserendo diversi limiti di reddito al fine di garantire maggiormente i primi. Tale problema non esiste nell’ordinamento statunitense, dove non vi è spazio per parti processuali private diverse dal defendant. Non si capisce, inoltre, per quale motivo siano stati esclusi alcuni reati dall’ambito di applicazione della legge n. 217 del 1990: se le norme riguardanti il patrocinio a spese dello Stato non si applicano nei procedimenti penali concernenti contravvenzioni, parallelamente dovrebbe essere ripristinata la previsione normativa contenuta nell’art. 125 c.p.p. abr. che permetteva l’autodifesa nei procedimenti per contravvenzioni punibili ‘‘con l’ammenda non superiore a lire tremila o con l’arresto non superiore ad un mese anche se comminati congiuntamente’’. Ancora meno spiegabile risulta poi l’esclusione dell’applicabilità della legge n. (109) (110) (111) (112) (113) (114)
U.S. Code, titolo 18, § 3006A (d) (1). Cfr. U.S. Code, titolo 18, § 3006A (d) (4). U.S. Code, titolo 18, § 3006A (4). U.S. Code, titolo 18, § 3006A (d) (4). Cfr. U.S. Code, titolo 18, § 3006A (d) (4). U.S. Code, titolo 18, § 3006A (d) (4).
— 703 — 217 del 1990 nei confronti di chi è imputato di ‘‘reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto’’ (art.1, comma 9), previsione sulla quale vengono avanzati seri dubbi di legittimità costituzionale in relazione al principio di presunzione di non colpevolezza contenuto nell’art. 27, comma 2 Cost. Inoltre, l’assurdità del disposuo di cui all’art. 1, comma 9 emerge chiaramente laddove si ipotizzi il caso in cui venga ammesso al patrocinio a spese dello Stato il responsabile civile e/o il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e non l’imputato, che è l’unico soggetto a cui la difesa dovrebbe sempre essere garantita. Come nel nostro ordinamento, anche oltreoceano restano esclusi dai benefici del legal aid gli imputati di reati minori: tuttavia, occorre sottolineare che in tali casi l’imputato può difendersi da solo, dal momento che l’autodifesa è considerata un vero e proprio diritto. La legge n. 217 del 1990 ha innovato in maniera molto positiva rispetto al r.d. n. 3282 del 1923, che prevede l’assegnazione all’imputato non abbiente del solo difensore d’ufficio, introducendo la possibilità di scegliersi un difensore di fiducia, equiparando, quindi, la posizione dell’indigente a quella del soggetto abbiente. Al contrario negli Stati Uniti, salvo eccezioni, l’imputato che davanti al giudice dichiari di non avere i mezzi finanziari per assicurarsi un avvocato, non ha alcuna possibilità di scelta dello stesso e questo è un rilevante limite in un sistema che appare più favorevole del nostro laddove consente una determinazione discrezionale, operata caso per caso, dello status di indigente. In sistemi di stampo accusatorio risulta di grande importanza il ruolo affidato alla difesa tecnica che deve essere garantita a chiunque durante l’intero procedimento, quindi anche durante le indagini preliminari. L’art. 7 della legge n. 217 del 1990 prevede la possibilità di essere ammessi al patrocinio per i non abbienti in tale fase procedimentale; tuttavia, il problema è quello della conoscenza da parte dell’indagato dell’apertura di un procedimento a suo carico al fine di avanzare tempestivamente al giudice per le indagini preliminari l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Tale questione non si pone nell’ordinamento statunitense, poiché al momento dell’arresto la polizia rende noti al soggetto quali sono i suoi diritti, tra i quali vi è quello di essere assistito da un difensore a spese dello Stato qualora l’accusato sia indigente (115). Infine, dall’analisi comparativa dei due ordinamenti emerge che, mentre negli Stati Uniti al defendant indigente è garantita l’assistenza non solo del difensore, ma anche di consulenti tecnici, di investigatori privati nonché di altri ‘‘services necessary for an adequate defense’’ (U.S. Code, titolo 18, § 3006 A (a), nel nostro sistema processuale la legge n. 217 del 1990 garantisce al non abbiente il diritto di avvalersi, oltre che del difensore, del consulente tecnico, ma non dell’investigatore privato, nonostante la grande importanza che hanno assunto le indagini difensive, soprattutto successivamente alla legge n. 332 del 1995. Si può quindi concludere evidenziando come in entrambi gli ordinamenti, nonostante gli sforzi e le progressive aperture nei confronti di chi non ha i mezzi economici per poter esercitare in modo pieno il proprio diritto alla difesa, non si sia ancora raggiunta una effettiva parità tra imputato abbiente e indigente. MARIUCCIA GIACCA Dottore di ricerca in Diritto processuale penale comparato Università di Trento
(115)
Cfr. Miranda v. Arizona, 384 U.S. 436 (1966).
RASSEGNE
a) LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE CODICE PENALE
PARTE SPECIALE ART. 323 Abuso d’ufficio Ordinanza 22 maggio 1999, n. 192 Inammissibilità (in G.U., 2 giugno 1999, n. 22) La Corte costituzionale è chiamata a giudicare una questione di costituzionalità avente ad oggetto l’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio), nel testo vigente prima della modifica apportata al medesimo dalla l. n. 234 del 1997, per contrasto con gli artt. 24 (diritto di difesa), 25 (sotto il profilo dell’indeterminatezza della fattispecie penale) e 97 (buon andamento della P.A.) Cost. Pur premettendo che le condotte degli imputati sarebbero astrattamente sussumibili anche nel nuovo art. 323 c.p., i giudici a quibus ritengono comunque rilevante la questione per due ragioni diverse (e, in parte, contraddittorie fra loro): da un lato, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 323 c.p. (vecchia formulazione) condurrebbe ad una pronuncia di proscioglimento perché il fatto non è più previsto come reato, in ossequio al principio di irretroattività della legge penale, il quale impedisce di applicare retroattivamente il nuovo art. 323 c.p.; dall’altro lato, invece, la questione imporrebbe alla Corte di effettuare un raffronto fra le due discipline (e cioè tra gli originari artt. 323 e 324 c.p., come vigenti prima della novella del 1990, e l’attuale art. 323 c.p., come novellato dalla l. n. 234 del 1997)), per individuare la norma applicabile, in ragione dell’art. 2, comma 3, c.p. La Corte costituzionale dichiara inammissibile la quaestio legitimitatis, trattandosi di questione già dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza (cfr. ordd. nn. 252 e 427 del 1998). Secondo la Corte, la presunta indeterminatezza della fattispecie precedente ‘‘non riguarderebbe l’intera area delle condotte punibili ma soltanto quelle connotate da elementi di incerta definizione, come la generica antidoverosità, il contrasto con i fini istituzionali e il vizio di eccesso di potere: non dunque le condotte di abuso connotate da violazioni di specifiche norme di legge o di regolamento e tali da causare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale all’agente o ad altri, ovvero un danno ingiusto ad altri, come quelle descritte nel nuovo testo dell’art. 323 c.p., come modificato dall’art. 1 della l. n. 234 del 1997’’. Pertanto, se le condotte tenute dagli imputati fossero sussumibili tra le condotte ‘‘indeterminate’’ durante la vigenza del vecchio art. 323 c.p., si imporrebbe una sentenza di proscioglimento perché la norma sopravvenuta non punisce più tali condotte, risultando superflua una pronuncia di incostituzionalità, dovendo comunque l’imputato essere assolto (così, ord. n. 427 del 1998). Se, invece, i fatti non risultassero riconducibili alle condotte punibili alla luce di espressioni ‘‘indeterminate’’ contenute nel vecchio art. 323 c.p., la questione sarebbe ugualmente irrilevante in quanto risulterebbe inapplicabile quella parte della norma incriminatrice, ora non più in vigore, sulla quale si appuntano i dubbi di legittimità costituzionale.
— 705 — In ogni caso, la Corte osserva che il raffronto fra norme penali che si succedono temporalmente è operazione logicamente antecedente all’individuazione della norma applicabile, e, quindi, preliminare allo stesso giudizio sulla rilevanza richiesto per sollevare una questione di costituzionalità (ord. n. 252 del 1998). I precedenti citati dalla stessa Corte costituzionale, pur non affrontando il merito delle questioni proposte, contengono importanti affermazioni del giudice costituzionale sul principio di precisione in materia penale e sulla sanzione penale come extrema ratio. In particolare, nella sent. n. 447 del 1998, di fronte a censure sul nuovo testo dell’art. 323 c.p., in quanto troppo limitato rispetto alla gamma di condotte punibili nel testo previgente (e lesivo, quindi, degli artt. 3 e 97 Cost.), la Corte afferma che ‘‘è principio essenziale in campo penale, e garanzia fondamentale della persona, che non si possa addebitare a titolo di reato alcuna condotta diversa ed ulteriore rispetto a quelle in tal senso esplicitamente qualificate da una legge in vigore al momento della commissione del fatto (art. 25 Cost.). Solo il legislatore, dunque, può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali’’, sottolineando che si tratterebbe del ‘‘principio del nullum crimen, nulla poena sine lege, a cui si riconducono sia la riserva di legge in materia penale, sia il principio di determinatezza in materia penale (non essendo tollerabile che l’individuazione della condotta incriminata dipenda da valutazioni discrezionali del giudice, e che, quindi, non sia prevedibile da parte del destinatario della legge penale: sent. n. 364 del 1988), sia il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici’’. Nella stessa decisione, la Corte ricorda che il principio del diritto penale come extrema ratio impone di ritenere la sanzione penale come ‘‘una sola delle soluzioni legislativamente possibili per tutelare beni costituzionali’’, da utilizzare in modo residuale: argomenti questi che, ad avviso del giudice costituzionale, renderebbero inammissibile la richiesta di decisioni volte ad ampliare fattispecie penali, in nome della tutela di beni costituzionali. ART. 341 Oltraggio a pubblico ufficiale Ordinanza 28 luglio 1999, n. 378 Restituzione degli atti al giudice a quo (in G.U., 4 agosto 1999, n. 31) Con riferimento a numerosi parametri costituzionali (artt. 1, 3, 13, 25, 27, 28, 49, 54, 97) viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 341 c.p. (oltraggio a p.u.) ‘‘in quanto configurato come reato autonomo anziché quale aggravante del reato di ingiuria e, subordinatamente, in quanto esso non prevede la pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva ed, infine, in quanto è previsto un regime di procedibilità d’ufficio anziché a querela di parte’’. La Corte restituisce gli atti al giudice a quo dal momento che l’art. 341 c.p., nel frattempo, è stato abrogato dall’art. 18 della l. 25 giugno 1999 n. 205. ARTT. 343 e 598 c.p. Oltraggio a magistrato in udienza - Offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative Sentenza 7 ottobre 1999, n. 380 Infondatezza; Infondatezza ‘‘nei sensi di cui in motivazione’’ (in G.U., 13 ottobre 1999, n. 41) La Corte costituzione è chiamata a decidere due questioni di costituzionalità sollevate entrambe con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.: la prima ha per oggetto l’art. 343 c.p., in relazione all’art. 594 c.p., ‘‘nella parte in cui prevede che le offese, arrecate nel corso di un’udienza, al p.m dal difensore integrino il reato di oltraggio a magistrato in udienza mentre le
— 706 — offese pronunciate dal p.m nei confronti del difensore integrino il meno grave reato di ingiuria’’; la seconda, (sollevata in subordine, cioè da trattarsi soltanto se la ‘‘differenziazione denunciata in via principale si rilevasse legittima’’) riguarda l’art. 598 c.p. ‘‘nella parte in cui non estende la causa di non punibilità ivi prevista alle offese verso il p.m. contenute nei discorsi pronunciati dal difensore nei procedimenti avanti ad un’autorità giudiziaria’’ (identica questione era stata dichiarata ‘‘manifestamente infondata’’ da Trib. Trieste, 16 maggio 1996, in Riv. pen., 1997, 750, con nota di TANDURRA-RESENTERRA). La Corte costituzionale dichiara infondata la prima questione: l’esigenza di salvaguardare la dignità di chi compie atti nei quali si manifesta la giurisdizione (cfr. sent. n. 313 del 1995) rende legittima la configurazione del reato di oltraggio a magistrato in udienza, comprendendo in tale figura anche il pubblico ministero (sulla posizione del p.m. come organo di giustizia, pur nel ruolo di parte, v. sentt. nn. 361 del 1998, 215 del 1997, 415 del 1995, 81 del 1993, 88 del 1991, 249 del 1990). Secondo il giudice costituzionale, la parità fra pubblico ministero e difensore nel processo penale non implica necessariamente che sia identica la qualificazione soggettiva di essi, né impone l’eguaglianza del loro stato e della loro condizione, al di là della ‘‘parità delle armi’’ che è propria del processo (sul principio secondo il quale la parità fra pubblico ministero e difensore dinanzi al giudice ‘‘non implica necessariamente la parità di tutela penale per ciascuno di essi’’, cfr. Cass. pen., Sez. I, 22 dicembre 1983, n. 11068, in Riv. pen., 1984, 641; sulla posizione di accusa e difesa nel processo penale, cfr. ordd. nn. 426 del 1998, 421 del 1997, 96 del 1997, 324 del 1994, 305 del 1992). La seconda questione, invece, non è fondata nei sensi di cui in motivazione (c.d. interpretativa di rigetto): dal momento che la non punibilità per le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori si fonderebbe sull’esigenza di assicurare una libera e piena esplicazione della difesa, senza remore che possano derivare dal rischio di incriminazioni per espressioni offensive usate nel contesto difensivo (v. già sent. n. 128 del 1979 e ord. n. 889 del 1988), la Corte costituzionale ritiene che sia possibile interpretare l’art. 598 c.p. in modo diverso da quello prevalente. Nell’interpretazione dominante veniva infatti valorizzata la collocazione sistematica del reato de quo (delitti contro l’onore), considerando l’esimente in questione inapplicabile alle offese arrecate dal difensore dell’imputato all’onore o al prestigio del p.m. in udienza (la norma veniva quindi applicata soltanto ai delitti di ingiuria e diffamazione, ma non anche a quello di oltraggio a magistrato in udienza). I giudici costituzionali, invece, nell’interpretare la norma in modo conforme alla Costituzione, danno risalto a quell’orientamento minoritario che ‘‘non attribuisce rilievo decisivo alla collocazione della disposizione, ma valorizza elementi che riguardano la struttura del reato e le finalità dell’esimente’’: tale interpretazione comporta che le offese contenute in discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori dinanzi all’autorità giudiziaria e concernenti l’oggetto della causa non vengano valutate in modo diverso, sul solo presupposto che il destinatario di esse sia una parte privata o il pubblico ministero. D’altra parte, la finalità perseguita dal legislatore non potrebbe essere efficacemente realizzata se la portata dell’esimente fosse circoscritta in relazione ai soggetti destinatari delle offese, garantendo in modo irragionevole l’assoluta libertà di espressione ad una sola delle parti in giudizio, il pubblico ministero. A sostegno della propria interpretazione, la Corte cita anche il mutato contesto normativo, richiamando la recente abrogazione del reato di oltraggio a p.u (art. 341 c.p.), ad opera dalla l. 25 giugno 1999, n. 205.
— 707 — ART. 376, comma 1 Ritrattazione Sentenza 30 marzo 1999 n. 101 Illegittimità costituzionale (in G.U., 7 aprile 1999, n. 14) Ordinanza 17 giugno 1999, n. 247 Manifesta inammissibilità (in G.U., 23 giugno 1999, n. 25) La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 376, comma 1, c.p. ‘‘nella parte in cui non prevede la ritrattazione come causa di non punibilità per chi, richiesto dalla polizia giudiziaria, delegata dal pubblico ministero a norma dell’art. 370 c.p.p., di fornire informazioni ai fini delle indagini, abbia reso dichiarazioni false ovvero in tutto o in parte reticenti’’. La ‘‘lacuna’’ sanzionata dal giudice costituzionale nasce da un consolidato orientamento giurisprudenziale (v. Cass., Sez. VI, 8 marzo 1993, Malena; Cass., Sez. VI, 6 maggio 1994, Accavone) che, in ossequio al principio di stretta legalità, negava la possibilità di sussumere la condotta in esame (false dichiarazione rese alla polizia giudiziaria delegata dal p.m) nel reato di cui all’art. 371-bis c.p. (false informazioni al p.m.) — fattispecie criminosa nei cui confronti, operava, e opera tuttora, l’esimente de qua — dovendosi, invece, qualificare il comportamento in oggetto come un’ipotesi di ‘‘favoreggiamento personale’’ (v. Cass., Sez. III, 31 ottobre 1970, Palazzolo; Cass., Sez. II, 15 novembre 1973, Valverde; Cass. pen., Sez. VI, 3 febbraio 1986, Pillitteri; cfr., da ultimo, anche Cass. pen., Sez. VI, 24 ottobre 1997, n. 11984, in Giust. pen., 1999, II, 120, che ha dichiarato ‘‘manifestamente infondata’’, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 376 e 378 c.p., nella parte in cui in cui non prevedono l’estensione della ritrattazione al soggetto imputato di favoreggiamento personale, in quanto, mentre i reati a cui si applica tale causa di non punibilità si commettono tutti per mezzo di dichiarazioni rese all’A.G., per le quali ha senso attribuire rilievo a dichiarazioni contrarie che annullano l’effetto delle prime, tale caratteristica non si rinviene nel reato di favoreggiamento, che è forma libera e non si consuma necessariamente a mezzo di dichiarazioni). La Corte costituzionale ritiene ‘‘irrazionale’’ che l’esimente della ritrattazione operi nel caso di false dichiarazioni rese al p.m. e non anche quando le medesime dichiarazioni siano pronunciate avanti alla p.g., che agisce su delega del primo, in quanto, specifica la Corte, le due modalità investigative ‘‘costituiscono esclusivamente forme diverse della medesima attività, facente sostanzialmente capo comunque al pubblico ministero nell’esercizio dei poteri che a esso spettano quale organo che dirige le indagini preliminari nell’esercizio dell’azione penale’’. Depongono in tal senso non solo l’estensione alle indagini compiute dalla polizia giudiziaria delegata dal p.m. delle garanzie procedurali e delle regole di documentazione previste per le indagini svolte direttamente dal secondo (art. 370, comma 2, c.p.p), ma anche l’equivalente utilizzabilità processuale degli atti diretti e di quelli delegati (per un commento v. Giur. cost., 1999, n. 2, 928, con nota di SANTORIELLO). Analoga questione è stata successivamente dichiarata manifestamente inammissibile da parte della Corte costituzionale, in quanto avente ad oggetto norma già dichiarata incostituzionale (cfr. ord. n. 247 del 1999). È opportuno segnalare che, a seguito della decisione di incostituzionalità, è stata sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale sull’art. 376 c.p.: alcuni giudici, infatti, ritengono che la disposizione citata sia incostituzionale laddove non estende l’esimente della ritrattazione al reato di ‘‘favoreggiamento personale’’ commesso mediante false o reticenti dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria su propria iniziativa (cfr. G.U., 1a serie speciale, 8 settembre 1999, n. 36; G.U., 1a serie speciale, 15 settembre 1999, n. 37).
— 708 — ART. 589, comma 2 Omicidio colposo Ordinanza 14 luglio 1999, n. 376 Manifesta infondatezza (in G.U., 4 agosto 1999, n. 31) La Corte costituzionale ritiene manifestamente infondata una questione di costituzionalità avente ad oggetto l’art. 589, comma 2, c.p. ‘‘limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro’’, sollevata in relazione all’art. 27, comma 3, Cost. Il giudice a quo — rilevando che, nel caso di specie, era stato contestato il reato di omicidio colposo, commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, a causa del ribaltamento di un trattore, sprovvisto delle prescritte protezioni, acquistato dall’imputata e venduto alla vittima circa dieci anni prima del verificarsi dell’evento — riteneva che la norma si sarebbe posta in contrasto con l’art. 27, comma 3, Cost., ‘‘ove il reato si connoti come reato a distanza e le violazioni (alle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) quali reati istantanei’’, non consentendo al giudice stesso ‘‘di ancorare la valutazione del disvalore penale del fatto alla volontà colpevole esteriorizzata nella condotta’’ e imponendogli invece ‘‘di avere riguardo alla verificazione dell’evento’’. Nel pronunciarsi per la manifesta infondatezza della questione, la Corte costituzionale osserva che i profili di legittimità costituzionale prospettati dal giudice in riferimento all’art. 27, comma 2, Cost., in realtà si risolvono in ‘‘problemi di fatto, attinenti alla ricostruzione della fattispecie sottoposta all’esame del giudice stesso’’, come, da un lato, ‘‘l’intervento di eventuali fattori interruttivi del nesso causale, in relazione anche al notevole lasso di tempo tra la condotta omissiva e l’evento’’ e, dall’altro, ‘‘l’incidenza degli obblighi imposti al venditore dall’art. 7, d.P.R. n. 547 del 1955, ai fini dell’accertamento della responsabilità colposa’’. Significativa la circostanza che, nella stessa decisione, la Corte si preoccupi di sottolineare i propri precedenti sul problema della responsabilità penale per l’inadempimento di obblighi connessi a posizioni di garanzia nell’ambito di rapporti od organizzazioni complesse, nei quali si era chiaramente affermato ‘‘che la compatibilità delle relative fattispecie con l’art. 27, comma 1, Cost., è assicurata dal principio della personalità della responsabilità penale, in forza del quale di un fatto costituente reato risponde solo chi lo ha commesso personalmente e colpevolmente, sulla base del nesso di causalità materiale tra l’azione o l’omissione e l’evento e di un nesso spichico sufficiente a conferire alla responsabilità il connotato della personalità, desumibili dalla parte generale del codice penale in tema di rapporto di causalità e di colpa (cfr. ex plurimis, sentt. nn. 192 del 1982 e 173 del 1976)’’. ART. 646, ult. comma Appropriazione indebita aggravata - Procedibilità Ordinanza 22 luglio 1999, n. 354 Manifesta infondatezza (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) La Corte costituzionale è chiamata a decidere due questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’art. 646, ult. comma, c.p. (appropriazione indebita), in relazione all’art. 3 Cost. La norma è censurata, innanzitutto, a causa del privilegio accordato dal legislatore al rapporto fiduciario tutelato dall’art. 61, n. 11, c.p. (‘‘l’aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità’’), in quanto, quando sussiste la citata aggravante comune, il reato de quo risulta procedibile d’ufficio, mentre, ad avviso del remittente, il rispetto del dettato costituzionale comporterebbe l’estensione del ‘‘privilegio’’ in esame ‘‘a tutte le altre situazioni che possono costituire aggravante’’ (v. art. 61 c.p.); in via subordi-
— 709 — nata, la censura è mossa nei confronti della stessa disposizione ‘‘nella parte in cui esclude la possibilità di comparare le circostanze attenuanti con l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p. al fine di escludere la procedibilità d’ufficio del reato di appropriazione indebita’’ (sull’ininfluenza della dichiarazione di equivalenza tra quella aggravante e le attenuanti generiche, cfr. Cass. pen, Sez. II, 9 maggio 1981, n. 4245, Coppi; v. pure Cass. n. 11255 del 1984, Amato; Cass. n. 3318 del 1982, Ninzi; Cass. n. 3171 del 1981, Maragliano). Il giudice costituzionale — ribadito il principio secondo il quale le scelte circa la procedibilità dei reati appartengono alla discrezionalità del legislatore e sono, come tali, insindacabili, salvo il limite della ragionevolezza (cfr. sentt. nn. 274 del 1997, 7 del 1987, 216 del 1974 e ordd. nn. 204 del 1988, 294 del 1987, 135 del 1985) — dichiara manifestamente infondate entrambe le questioni sollevate: la prima, non essendo ravvisabile ‘‘alcuna irragionevolezza nella scelta legislativa di prevedere la procedibilità d’ufficio per il reato di appropriazione indebita aggravato dalla circostanza di cui all’art. 61, n. 11, c.p., in quanto l’interversione del possesso di cose altrui che abbia luogo in violazione del vincolo eminentemente fiduciario scaturente dai rapporti di cui all’art. 61, n. 11, c.p., assume un disvalore sociale particolare’’; la seconda, ‘‘trattandosi di una scelta legislativa dello stesso tipo, quale è quella di escludere che l’influenza del giudizio di comparazione sul regime di procedibilità del reato’’, dovendosi, anche in questo caso, escludere l’arbitrarietà. MARILISA D’AMICO Professore associato di Diritto costituzionale Università dell’Insubria
CODICE DI PROCEDURA PENALE
COMPETENZA ART. 11 Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati Sentenza 7 ottobre 1999, n. 381 Non fondatezza (in G.U., 13 ottobre 1999, n. 41) Con la sentenza n. 381 del 1999 la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, c.p.p., che regola la competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, sollevata in riferimento agli artt. 3, 94, 97, 101 e 107 della Costituzione. Secondo la prospettazione del giudice rimettente la norma sarebbe censurabile nella parte in cui non prevede lo spostamento della competenza territoriale nel caso in cui un magistrato già in servizio nel distretto assuma la qualità di persona offesa o danneggiata dal reato per fatti commessi successivamente al suo trasferimento, ma riferiti unicamente ed immediatamente all’esercizio delle funzioni che egli ha svolto in quel distretto, in quanto anche in questa ipotesi ricorrerebbe il pericolo di condizionamento psicologico e di concreto pregiudizio dell’indipendenza e dell’imparzialità dei giudici, nonché la menomazione del diritto di difesa. La Corte rileva, in primo luogo, che la questione è rilevante, nonostante nel frattempo l’art. 11 c.p.p. sia stato sostituito dall’art. 1 della l. 2 dicembre 1998, n. 420 (in Gazzetta Ufficiale, serie generale, 7 dicembre 1998, n. 286), dal momento che i nuovi criteri si applicano, ai sensi dell’art. 8 della medesima legge, ai procedimenti relativi ai reati commessi successivamente alla sua entrata in vigore. La questione viene, tuttavia, dichiarata non fondata poichè la delimitazione dei casi di spostamento di competenza rientra nella discrezionalità del legislatore. Nel caso in oggetto la scelta operata non appare affatto irragionevole, in quanto le deroghe alle regole ordinarie sulla competenza sono ancorate a elementi oggettivi di luogo e di tempo che richiedono una ricognizione estrinseca del reato, diversamente dall’apprezzamento valutativo o discrezionale che si vorrebbe introdurre, estendendo i casi di spostamento di competenza ‘‘sia in base al nesso tra il fatto oggetto del giudizio e le funzioni esercitate dal magistrato interessato, sia in base alla vicinanza temporale della commissione del fatto rispetto al pregresso esercizio di tali funzioni nell’ufficio giudiziario competente secondo le regole generali’’. Tra l’altro, qualora si dubiti in concreto dell’imparzialità del giudice, in ragione di rapporti personali legati al rapporto d’ufficio, residuano i rimedi costituiti dagli istituti dell’astensione e della ricusazione.
— 711 — INCOMPATIBILITÀ, ASTENSIONE E RICUSAZIONE DEL GIUDICE ART. 34 Incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento Relativamente all’art. 34 c.p.p., ossia alla norma che prevede i casi di incompatibilità del giudice per gli atti compiuti nel procedimento, anche nel corso del 1999 sono state sollevate numerose questioni di legittimità costituzionale. Solo in un caso la questione è stata accolta, mentre in tutte le altre ipotesi, ad eccezione di poche ordinanze di inammissibilità per irrilevanza, la Corte ha rigettato le questioni, approfittando di tali occasioni per ribadire quelli che sono ormai diventati dei punti fermi nella giurisprudenza sull’art. 34 c.p.p. In particolare, è la sentenza n. 371 del 1996 a costituire quasi sempre la base delle argomentazioni dei giudici a quibus al fine di ottenere altri interventi additivi sull’art. 34, comma 2, c.p.p. Quella decisione, infatti, viene letta dai giudici comuni non tanto come un’eccezione alla giurisprudenza precedente della Corte, bensì quale punto di partenza per la sua modificazione in senso estensivo. Nell’analisi delle questioni proposte, la Corte cerca, invece, di precisare il confine tra l’istituto dell’incompatibilità e quelli dell’astensione e della ricusazione. Significativa è l’affermazione contenuta della sentenza n. 241 del 1999 (cfr. infra): ‘‘Benché le varie figure di incompatibilità previste dall’art. 34 siano destinate a risolversi in altrettante cause di astensione e ricusazione, il tratto caratteristico che le accomuna, distinguendole da queste, sta nella loro vocazione ad essere assunte, a ulteriore garanzia contro il rischio di pregiudizio del giudice, come criterio di organizzazione preventiva dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, cosicché il principio di indipendenza abbia uno svolgimento fisiologico e si atteggi, nel sistema processuale penale, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo o come diritto-dovere del giudice a veder assicurata la sua posizione di terzietà, come modo d’essere della giurisdizione’’. Le decisioni aventi ad oggetto l’art. 34 c.p.p. possono essere così raggruppate sulla base di criteri comuni secondo la ratio decidendi adottata dalla Corte (prescindendo dalle classificazioni operate dalla dottrina). A) In primo luogo, la Corte ribadisce che, se i fatti per i quali si procede sono diversi da quelli in relazione ai quali è già stata pronunciata sentenza nei confronti del medesimo imputato, la loro cognizione in successivi giudizi da parte del medesimo giudice non comporta alcuna violazione del principio del ‘‘giusto processo’’. Ordinanza 16 luglio 1999, n. 313 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 luglio 1999, n. 29) Con l’ordinanza n. 313 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato un giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti dello stesso imputato per un reato diverso, nella quale la decisione abbia comportato valutazioni di merito idonee ad incidere sotto il profilo sostanziale nel successivo giudizio. Relativamente al caso concreto che ha dato origine alla questione, la Corte rileva, infatti, ‘‘che in relazione al primo giudizio, riguardante la strage di Capaci, dall’ordinanza di rimessione e dal fascicolo ad essa allegato non risulta esservi stata alcuna imputazione né alcuna condanna per il reato di associazione di tipo mafioso, reato contestato invece nel successivo giudizio unitamente a quello concernente la strage di via D’Amelio, anch’esso ascritto all’imputato a titolo di concorso morale in quanto componente della cosiddetta commissione provinciale di ‘cosa nostra’; che essendo manifestamente autonomi e distinti i due reati di strage, la contestata partecipazione a titolo di concorso morale nell’uno e nell’altro non può non essersi realizzata attraverso determinazioni suscettibili di valuta-
— 712 — zioni a loro volta autonome e distinte, qualunque sia stato il contesto nel quale si assuma che esse siano state adottate; ...’’. Sentenza 17 giugno 1999, n. 241 Incostituzionalità (in G.U., 23 giugno 1999, n. 25) Contrario, rispetto alla decisione precedente, la Corte afferma che è incostituzionale l’art. 34, comma 2, c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., ‘‘nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti dell’imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti di quello stesso imputato per il medesimo fatto’’. Tale è, infatti, il dispositivo della sentenza n. 241 del 1999. Il giudice rimettente aveva chiesto alla Corte di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti del medesimo imputato su reato formalmente concorrente, ai sensi dell’art. 81, comma 1, c.p., con quello sul quale è chiamato a decidere. La Corte accoglie la questione affermando che ‘‘nella fattispecie’’ lo stesso fatto compiuto dallo stesso imputato finisce per essere valutato, in punto di responsabilità penale, dal medesimo giudice. Sul punto la Corte richiama la sentenza n. 371 del 1996, chiarendo che quella decisione non costituisce una deroga alla propria giurisprudenza in base alla quale, se il pregiudizio consegue all’esercizio di funzioni in un diverso procedimento, lo strumento di tutela deve essere cercato negli istituti dell’astensione e della ricusazione, in quanto, pur trattandosi di un procedimento diverso, la fattispecie si presentava sostanzialmente unitaria. Il medesimo ragionamento costituisce la base per il nuovo intervento additivo: ‘‘Se infatti nella sentenza n. 371 del 1996 si è ritenuto che l’incompatibilità debba essere estesa all’ipotesi in cui il giudice abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nella quale, per quello stesso fatto, siano state comunque compiute valutazioni incidenter tantum in ordine alla responsabilità penale di un terzo estraneo al processo, non può non essere affermata, quale garanzia indefettibile della terzietà, l’incompatibilità di un giudice che in una precedente sentenza abbia già valutato o concorso a valutare il medesimo fatto ai fini della responsabilità penale, non di un terzo, ma di quello stesso imputato’’. L’aspetto ‘‘singolare’’ della decisione in oggetto è costituito dal fatto che, mentre il giudice a quo, nel richiedere un intervento di tipo additivo, si riferiva specificamente all’ipotesi del concorso formale di reati, la Corte, nell’accogliere la questione, adotta un dispositivo ‘‘più ampio’’. B) In un secondo gruppo di decisioni la Corte si occupa, invece, del concorso di persone nel reato. B1) La Corte chiarisce che ‘‘nelle ipotesi di concorso di persone nel reato, l’autonomia delle posizioni di ciascun concorrente consente, pur nella naturalistica unitarietà della fattispecie, una segmentazione di processi e la scomposizione del fatto in una pluralità di condotte autonomamente valutabili in processi distinti, senza che la decisione dell’uno possa influenzare quella dell’altro’’. Ordinanza 30 marzo 1999, n. 107 Manifesta infondatezza (in G.U., 7 aprile 1999, n. 14) Con l’ordinanza n. 107 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità per il giudice del dibattimento che, a seguito di separazione dei processi, abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti di uno o più imputati di reato concorsuale, a giudicare gli altri coimputati nella medesima fattispecie concorsuale, anche nell’ipotesi in cui nella sentenza che si assume pregiudicante non vi sia stata alcuna espressa valutazione della responsabilità penale del concorrente estraneo al processo.
— 713 — B2) Al giudice che abbia giudicato uno o più imputati di reato concorsuale non è preclusa in modo assoluto la possibilità di giudicare degli altri coimputati, salvo che la posizione di questi ultimi sia già stata comunque valutata nel procedimento precedente. In questo caso spetta al giudice valutare se la concreta fattispecie sia sussumibile sotto l’art. 34, comma 2, c.p.p., quale esso risulta a seguito della parziale dichiarazione di illegittimità che lo ha investito proprio con la sentenza n. 371 del 1996. Ordinanza 30 marzo 1999, n. 105 Manifesta inammissibilità (in G.U., 7 aprile 1999, n. 14) Ordinanza 30 marzo 1999, n. 106 Manifesta inammissibilità (in G.U., 7 aprile 1999, n. 14) Nelle ordinanze nn. 105 e 106 del 1999 viene dichiarata manifestamente inammissibile, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità, per il giudice del dibattimento che abbia pronunciato sentenza di applicazione della pena nei confronti di un concorrente in reato a concorso necessario, a giudicare gli altri coimputati del medesimo reato. B3) L’aver valutato una prova nei confronti di un imputato non vuole dire necessariamente che è stata espressa una valutazione di responsabilità nei confronti di terzi che non hanno partecipato al giudizio. Ordinanza 16 aprile 1999, n. 135 Manifesta Infondatezza (in G.U., 21 aprile 1999, n. 16) Con l’ordinanza n. 135 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti dell’imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altro soggetto concorrente nel medesimo reato, nella quale, pur non essendo stata valutata la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale, sia stata tuttavia valutata positivamente una prova rilevante per la sua posizione. B4) Più specificamente, la Corte chiarisce che adottare una sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente nel reato non significa necessariamente esprimere valutazioni circa la responsabilità penale degli ulteriori concorrenti estranei al processo. Ordinanza 16 aprile 1999, n. 127 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 aprile 1999, n. 16) Ordinanza 30 giugno 1999, n. 281 Manifesta infondatezza (in G.U., 7 luglio 1999, n. 27) Ordinanza 22 luglio 1999, n. 358 Manifesta infondatezza (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) Richiamando la decisione n. 439 del 1993, con le ordinanze nn. 127, 281 e 358 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice, che abbia pronunciato sentenza di applicazione
— 714 — della pena ex art. 444 c.p.p. nei confronti di uno o più concorrenti nel reato, a giudicare con il rito ordinario altri concorrenti nel medesimo reato. C) La Corte ribadisce che l’imparzialità del giudice non può ritenersi intaccata da una valutazione, anche di merito, compiuta all’interno della medesima fase del procedimento. Ordinanza 19 febbraio 1999, n. 40 Manifesta infondatezza (in G.U., 24 febbraio 1999, n. 8) Con l’ordinanza n. 40 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, 25, comma 1, e 27, comma 2, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34, 431, 566 c.p.p. e 138 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), nella parte in cui non prescrivono che la relazione dell’ufficiale o dell’agente di polizia giudiziaria procedente e le dichiarazioni dell’imputato vengano assunte, in sede di convalida dell’arresto, nel rispetto delle forme dettate per la testimonianza e per l’esame dell’imputato nel dibattimento, nonché nella parte in cui non prevedono l’inserimento di tali atti, acquisiti nelle forme indicate, nel fascicolo per il dibattimento. Ordinanza 11 giugno 1999, n. 232 Manifesta infondatezza (in G.U., 16 giugno 1999, n. 24) Con l’ordinanza n. 232 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, e 76 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità ad esercitare le funzioni di giudice del dibattimento del pretore che non abbia accolto la richiesta di oblazione presentata dall’imputato prima dell’apertura del dibattimento ai sensi dell’art. 162-bis c.p. Mentre nel caso deciso con la sentenza n. 453 del 1994, con cui è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la domanda di oblazione per la ritenuta diversità del fatto sulla base di una valutazione complessiva delle indagini preliminari, si aveva a che fare con una funzione, quella svolta dal g.i.p., riferibile ad una fase diversa rispetto a quella in cui deve essere esercitata la funzione che si assume pregiudicata, nel caso in oggetto la domanda di ammissione all’oblazione è stata rivolta allo stesso giudice del dibattimento, ossia nella medesima fase del procedimento. D) Non è possibile ammettere che l’incompatibilità del giudice investito della causa derivi dal compimento di un atto processuale cui egli è tenuto a seguito dell’istanza di parte. Si finirebbe, infatti, in tal modo con l’attribuire alle parti la potestà di determinare l’incompatibilità nel corso di un giudizio del quale il giudice è investito in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge. Ordinanza 1o dicembre 1999, n. 443 Manifesta inammissibilità (in G.U., 9 dicembre 1999, n. 49) Con l’ordinanza n. 443 del 1999 viene dichiarata manifestamente inammissibile, in relazione agli artt. 3, comma 1, e 24, comma 2, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice che abbia adottato un provvedimento cautelare personale, esaminando il fascicolo del pubblico ministero e valutando gli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari, non possa partecipare al giudizio. E) In due decisioni la Corte ribadisce, invece, come la mera conoscenza degli atti del
— 715 — medesimo procedimento, non accompagnata da una valutazione contenutistica, di merito, sui risultati delle indagini, non abbia effetti pregiudicanti sulla funzione del giudizio. Ordinanza 30 aprile 1999, n. 152 Manifesta infondatezza (in G.U., 5 maggio 1999, n. 18) Con l’ordinanza n. 152 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 97 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità ad esercitare le funzioni di giudice del dibattimento del giudice per le indagini preliminari che abbia in precedenza pronunciato nei confronti dei medesimi imputati decreto di archiviazione ‘‘parziale’’ ai sensi dell’art. 411 c.p.p. in relazione ad alcuni reati concorrenti. Ordinanza 30 aprile 1999, n. 153 Manifesta infondatezza (in G.U., 5 maggio 1999, n. 18) Con l’ordinanza 30 aprile 1999, n. 153 viene dichiarata manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, comma 1, e 24, commi 1 e 2, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34, comma 2, e 37, comma 1, lett. a) e b), c.p.p. (quest’ultimo richiamato solo per relationem), nelle parti in cui tali norme non prevedono l’incompatibilità del giudice per le indagini preliminari che abbia in precedenza emesso decreto di archiviazione ad esercitare funzioni giurisdizionali su medesimo fatto ex art. 409, commi 2, 3, 4 e 5, c.p.p., ovvero nell’udienza preliminare. F) Diversamente dal giudice che si sia pronunciato in materia di misure cautelari personali, per il quale non è ammesso che possa partecipare al giudizio (cfr. sentenza n. 131 del 1996), non si rilevano incompatibilità in tema di misure cautelari reali. La Corte osserva, infatti, che nell’applicazione o nella conferma delle misure cautelari reali manca quell’incisiva valutazione prognostica sulla responsabilità dell’imputato, basata su gravi indizi di colpevolezza, che potrebbe ritenere o far apparire condizionato il successivo giudizio di merito da parte dello stesso giudice, così da violare le garanzie preposte al rispetto dell’imparzialità. Per le due diverse misure cautelari non esiste identità di presupposti tale da comportare un’identica disciplina quanto all’incompatibilità del giudice (cfr. sentenze nn. 48 del 1994 e 66 del 1997). Ordinanza 11 febbraio 1999 n. 29 Manifesta infondatezza (in G.U., 17 febbraio 1999, n. 7) Ordinanza 1o dicembre 1999, n. 444 Manifesta infondatezza (in G.U., 9 dicembre 1999, n. 49) Con le ordinanze nn. 29 e 444 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, comma 1, e 24, commi 1 e 2, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34, comma 2, 37, comma 1, lett. a) e b), e 321, commi 1 e 2, c.p.p., nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare nei confronti dello stesso imputato, nella medesima fase del giudizio, la misura cautelare reale del sequestro preventivo, con un provvedimento nel quale è stata valutata la responsabilità penale dell’imputato. La Corte rileva che, non essendo la valutazione di merito imposta dal tipo di atto, l’eventuale effetto pregiudicante dovrà essere accertato in concreto, ricorrendo piuttosto agli istituti dell’astensione e della ricusazione, ove ne sussistano i presupposti. G) Infine, la Corte ricorda che, se il pregiudizio che si assume lesivo dell’imparzialità del giudice, deriva da attività da questi compiuta al di fuori del giudizio in cui è chiamato a
— 716 — decidere, si verte nell’ambito di applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione (ad eccezione, chiaramente, delle specifiche ipotesi prese in considerazione nella sentenza n. 371 del 1996). Ordinanza 19 novembre 1999, n. 431 Manifesta inammissibilità (in G.U., 24 novembre 1999, n. 47) Con l’ordinanza n. 431 del 1999 viene dichiarata manifestamente inammissibile, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 (in relazione all’art. 2, comma 1, nn. 67 e 103, della l. 16 febbraio 1987, n. 81) della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che abbia, all’esito di un precedente giudizio civile di responsabilità ‘‘riguardante il medesimo fatto storico attribuito all’imputato, già riconosciuto la sussistenza del reato’’. Ordinanza 18 maggio 1999, n. 178 Manifesta inammissibilità (in G.U., 26 maggio 1999, n. 21) Con l’ordinanza n. 178 del 1999 la Corte dichiara manifestamente inammissibile, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio penale nei confronti dell’imputato del delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) il giudice che in precedenza, nell’ambito di un procedimento di prevenzione promosso ai sensi dell’art. 1 della l. 31 marzo 1965, n. 575 (‘‘Disposizioni contro la mafia’’), abbia pronunciato o concorso a pronunciare il decreto di applicazione della misura di prevenzione con la quale, secondo la prospettazione del giudice a quo, ‘‘sia stata comunque affermata, in termini di certezza, l’esistenza della medesima associazione di tipo mafioso e l’appartenenza ad essa della stessa persona imputata’’. H) Richiamando la sentenza n. 331 del 1997 la Corte ribadisce che se il pregiudizio deriva non da una sentenza, ma da una ordinanza adottata in un procedimento diverso lo strumento di tutela deve essere ricercato negli istituti dell’astensione e della ricusazione. Ordinanza 16 aprile 1999, n. 133 Manifesta inammissibilità (in G.U., 21 aprile 1999, n. 16) Con l’ordinanza n. 133 del 1999 viene dichiarata manifestamente inammissibile, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio il giudice che, in sede di riesame (o di appello), pronunciando nei confronti di uno o più concorrenti in ipotesi di reati a concorso necessario, abbia valutato la posizione di altri coindagati. Ordinanza 30 giugno 1999, n. 277 Manifesta inammissibilità (in G.U., 7 luglio 1999, n. 27) Con l’ordinanza n. 277 del 1999 viene dichiarata manifestamente inammissibile, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che, come componente del tribunale del riesame o dell’appello, si sia pronunciato sull’ordinanza che ha disposto su una misura cautelare personale nei confronti di quello stesso imputato in altro procedimento per reato diverso, il cui accertamento sia pregiudizialmente connesso a quello su cui è chiamato a giudicare. I) Tre questioni di legittimità costituzionale in materia di incompatibilità del giudice sono state, infine, dichiarate manifestamente inammissibili per irrilevanza.
— 717 — Ordinanza 19 febbraio 1999, n. 36 Manifesta inammissibilità (in G.U., 24 febbraio 1999, n. 8) Con l’ordinanza n. 36 del 1999 è stata dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all’art. 27 e artt. 3, 24, 25, 101 della Costituzione, sugli artt. 34, comma 2, 2 e 279 c.p.p. La questione di costituzionalità riguardava l’incompatibilità del giudice che, investito del giudizio direttissimo, dopo aver convalidato l’arresto ed emesso un provvedimento di custodia cautelare nei confronti dell’imputato, prosegua il giudizio, eventualmente con la trasformazione del rito nelle forme del giudizio abbreviato. Dal momento che la giurisprudenza di legittimità esclude che le cause di incompatibilità determinino la nullità del provvedimento adottato dal giudice ritenuto incompatibile, la Corte, a fronte di una questione sollevata in un giudizio di appello per una incompatibilità che si sarebbe dovuta verificare nel giudizio di primo grado, rileva come l’ordinanza di rimessione non chiarisca quali sarebbero le conseguenze, ai fini del giudizio di appello, dell’accoglimento della questione concernente l’art. 34, comma 2, c.p.p., ossia dal riconoscimento di una causa di incompatibilità del giudice di primo grado, nonché dell’accoglimento della questione riferita agli artt. 34, 2 e 279 c.p.p., ossia dal superamento della pretesa incompatibilità attraverso l’attribuzione ad altro giudice della competenza ad emettere misure cautelari personali. Ordinanza 20 luglio 1999, n. 335 Manifesta inammissibilità (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) Ordinanza 22 luglio 1999, n. 355 Manifesta inammissibilità (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) Con l’ordinanza n. 335 del 1999 e con l’ordinanza n. 355 del 1999 sono state dichiarate manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 61 c.p.p. del 1930. Nell’ordinanza n. 335 la norma, unitamente all’art. 248 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, viene ritenuta illegittima dal giudice a quo nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice del dibattimento che abbia rigettato la richiesta di applicazione della pena concordata dalle parti a partecipare al giudizio. Con l’ordinanza n. 355 il medesimo art. 61 c.p.p. del 1930 viene ritenuto illegittimo nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti di alcuni imputati, nella quale abbia incidentalmente valutato le posizioni di altri coimputati attualmente sottoposti al suo giudizio. I giudici muovevano dal presupposto che non fosse possibile applicare l’art. 34 c.p.p., nel testo risultante, nel primo caso, dalla sentenza n. 186 del 1992, e, nel secondo caso, dalla sentenza n. 371 del 1996, in quanto l’art. 34 c.p.p. non è espressamente incluso, rispettivamente dagli artt. 248 e 245 disp. trans., tra le disposizioni del nuovo codice applicabili ai procedimenti che proseguono con le norme del codice del 1930. La Corte ritiene invece erroneo questo presupposto interpretativo. Risolvendo la questione prospettata dall’ordinanza n. 335, la Corte afferma che l’art. 248 disp. trans., nel disporre l’applicabilità degli artt. 444 ss. c.p.p. ai procedimenti già in corso, non ha inteso limitarsi ad una meccanicistica trasposizione del nuovo istituto nel corpo del sistema processuale del 1930, ma anticipare una disciplina complessiva, a partire dalle norme che ne consentono una corretta operatività nel codice abrogato e che, pertanto, il carattere di assoluta novità dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti lo rende inconciliabile con l’impianto strutturale del codice del 1930 ed impone l’immediata operatività di tutte le disposizioni del nuovo codice che, pur non essendo espressamente richiamate dall’art. 245 disp. trans., risultano inscindibilmente connesse con l’essenza del
— 718 — nuovo istituto, tra cui, in particolare, la disciplina di cui all’art. 34 c.p.p., come integrata dalla giurisprudenza costituzionale. Analogamente, nell’ordinanza n. 355, la Corte rileva l’erroneità della premessa interpretativa, in quanto, trattandosi di giudizio abbreviato, non rileva solo l’art. 245 disp. trans., bensì anche l’art. 247 disp. trans., che, proprio per il rito abbreviato, ha parzialmente anticipato il nuovo codice con l’effetto di rendere, anche qui, immediatamente applicabili le garanzie dotate di rilievo costituzionale, tra cui il principio di incompatibilità previsto dall’art. 34 c.p.p. ‘‘nel testo che risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, espressiva della garanzia costituzionale del giusto processo e che comprende i principi affermati dalla sentenza n. 371 del 1996’’. L) Relativamente all’art. 34, comma 3, c.p.p., la Corte ha confermato la sentenza n. 330 del 1997, ritenendo che rientri in questa disposizione anche la previsione dell’incompatibilità alla funzione di giudizio per il giudice che, in precedente processo, abbia disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale. Tale provvedimento si risolve, infatti, in una vera e propria denuncia obbligatoria e considerare tale atto come causa di incompatibilità è coerente con un sistema processuale ispirato alla necessaria distinzione tra funzioni requirenti e funzioni giudicanti. Ordinanza 16 aprile 1999, n. 134 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 aprile 1999, n. 16) Con l’ordinanza n. 134 del 1999 viene pertanto dichiarata manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice del dibattimento, che abbia, in precedente processo, già giudicato lo stesso fatto a carico di alcuni imputati con contestuale trasmissione di copia degli atti al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di altri soggetti, a giudicare di questi ultimi per lo stesso reato nel successivo giudizio. ART. 37 Ricusazione Ordinanza 28 maggio 1999, n. 204 Manifesta inammissibilità (in G.U., 2 giugno 1999, n. 22) L’ordinanza n. 204 del 1999, con cui è stata dichiarata manifestamente inammissibile, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevede come motivo di ricusazione del giudice l’ipotesi in cui questi si sia pronunciato sui fatti oggetto dell’imputazione in una sentenza emessa in altro procedimento anche non penale, è interessante, non tanto per la questione di merito, quanto perché l’inammissibilità è motivata sulla base del fatto che il giudice ricusato non può sollevare la questione di costituzionalità. La Corte, riprendendo una decisione emessa durante la vigenza del vecchio codice di procedura penale (si tratta della sentenza n. 183 del 1983), osserva che, ‘‘diversamente opinando, verrebbe stravolto il sistema che attribuisce esclusivamente al giudice superiore la competenza a giudicare sulla ricusazione e lo stesso giudice ricusato verrebbe abilitato a disporre la sospensione del processo principale, che il legislatore ha invece riservato al giudice competente dopo la valutazione dell’ammissibilità dell’atto di ricusazione’’. Ordinanza 29 luglio 1999, n. 366 Manifesta inammissibilità (in G.U., 4 agosto 1999, n. 31) Con l’ordinanza n. 366 del 1999 è stata, invece, dichiarata manifestamente inammissibile, in relazione agli artt. 3, 25 e 101 della Costituzione, la questione di legittimità costitu-
— 719 — zionale dell’art. 37, comma 2, c.p.p., in quanto, anche a seguito della parziale declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 10 del 1997 tale disposizione non precluderebbe la deduzione di nuovi motivi a sostegno della ricusazione, con la conseguente paralisi dell’azione penale e la sottrazione dell’imputato al proprio giudice naturale. La Corte rileva che, in realtà, a seguito della sentenza n. 10 del 1997, non vi è più il divieto per il giudice di pronunciare la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di ricusazione, quando l’istanza viene riproposta sulla base dei medesimi motivi, ossia ‘‘sulla base degli stessi elementi intesi sia in senso formale che materiale (vale a dire, con l’utilizzazione di argomenti speciosi che, privi di un serio raccordo con la realtà fattuale dimostrino la loro totale inconsistenza e vacuità)’’. ART. 43 Sostituzione del giudice astenuto o ricusato Ordinanza 18 maggio 1999, n. 173 Manifesta infondatezza (in G.U., 26 maggio 1999, n. 21) Con ordinanza n. 173 del 1999 è stata dichiarata manifestamente infondata, in riferimento all’art. 25 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, comma 2, c.p.p., ‘‘nella parte in cui non prevede che la rimessione del procedimento ad altro ufficio giudiziario, nel caso in cui non sia possibile la sostituzione del giudice astenuto o ricusato, sia del tutto eccezionale e non esclude che tale rimessione possa essere sistematica e si verifichi in tutti i processi nei quali si siano determinate incompatibilità a seguito di provvedimenti relativi a misure cautelari personali’’. Il giudice rimettente, investito di alcuni processi a seguito della rimessione da parte di altro Tribunale, osserva come l’applicazione delle norme dell’ordinamento giudiziario sulla sostituzione del giudice astenuto o ricusato dovrebbe far fronte a situazioni eccezionali, mentre nei casi sottoposti al suo esame vi è stata un’applicazione impropria dell’istituto di cui all’art. 43, comma 2, c.p.p., in ipotesi in cui, invece, vi sarebbe stata la possibilità di procedere alla sostituzione con altro magistrato dello stesso ufficio e celebrare i dibattimenti nella sede naturale. La Corte, come già in altre precedenti decisioni (cfr. ordinanza n. 439 del 1998), dichiara la manifesta infondatezza della questione, in quanto essa ha origine ‘‘da una situazione denunciata come patologica, mentre solo la corretta applicazione delle norme può essere alla base dello scrutinio di legittimità costituzionale’’. Inoltre, la non corretta applicazione delle norme di cui all’art. 43, comma 2, c.p.p. può essere verificata, secondo le regole di cui all’art. 28 c.p.p., mediante la proposizione, da parte dello stesso giudice cui sia stato rimesso il procedimento, del conflitto di competenza presso la Corte di cassazione.
IMPUTATO ART. 71 Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato ART. 72 Revoca dell’ordinanza di sospensione Ordinanza 5 febbraio 1999, n. 19 Manifesta inammissibilità (in G.U., 10 febbraio 1999, n. 6) Nell’ordinanza n. 19 del 1999 la Corte, in relazione alla denuncia di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, degli artt. 71 e 72 c.p.p., nella parte in cui non consentono al giudice, nell’ipotesi in cui l’incapacità dell’imputato di partecipare co-
— 720 — scientemente al processo sia irreversibile, di definire il processo stesso ‘‘con una pronuncia di mero rito, attestante il difetto, rebus sic stantibus, di una condizione del procedere’’, dichiara la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza. A fronte dell’osservazione del giudice a quo secondo cui non sarebbe possibile pronunciare il proscioglimento per incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, in quanto tale decisione comporta un’implicita affermazione di responsabilità e può indurre a conseguenze sfavorevoli, la Corte rileva come il giudice non abbia indicato le ragioni per le quali, nel caso concreto, non si è proceduto ad assumere le prove in favore dell’imputato che si trova nelle condizioni di non poter partecipare coscientemente al processo (il riferimento è al combinato disposto degli artt. 71, comma 4, e 70, comma 2, c.p.p., nonché allo strumento di cui all’art. 507 c.p.p.), al fine di giungere egualmente ad una pronuncia di assoluzione nel merito o per infermità di mente al momento del fatto. Ordinanza 12 marzo 1999, n. 67 Manifesta inammissibilità (in G.U., 17 marzo 1999, n. 11) Con l’ordinanza n. 67 del 1999 la Corte torna, invece, sulla questione già risolta con la sentenza n. 354 del 1996. Di fronte alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 71 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 97, 112 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la sospensione del procedimento penale in caso di imputato affetto da infermità fisica di natura permanente che non ne consente la partecipazione al dibattimento, la Corte pronuncia una decisione di manifesta inammissibilità, richiamando la sua precedente decisione sul punto. In particolare, si osserva come il caso dell’imputato permanentemente impossibilitato in modo assoluto a comparire per legittimo impedimento dovuto a malattia irreversibile costituisca un’ipotesi ben diversa da quella in cui versa l’imputato che, per infermità mentale, non è in grado di partecipare coscientemente al processo, posto che, nella prima ipotesi, l’impedimento a comparire non necessariamente rappresenta un ostacolo al diritto di difesa, in quanto l’imputato è posto in condizione di rimuovere tale ostacolo esercitando la facoltà di rinuncia a presenziare al dibattimento. Inoltre, una dichiarazione di incostituzionalità del tipo di quella richiesta dal giudice a quo comporterebbe, con la creazione ex novo di un regime eccezionale, un’invasione nelle scelte discrezionali del legislatore e, introducendo un nuovo caso di sospensione della prescrizione del reato, la creazione di conseguenze penali contra reum.
ATTI a) Disposizioni generali ART. 119 Partecipazione del sordo, muto o sordomuto ad atti del procedimento Sentenza 22 luglio 1999, n. 341 Incostituzionalità (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) Con la sentenza n. 341 del 1999 la Corte, con una pronuncia di illegittimità costituzionale di tipo ‘‘additivo’’, ha dichiarato, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, l’incostituzionalità dell’art. 119 c.p.p., ‘‘nella parte in cui non prevede che l’imputato sordo, muto o sordomuto, indipendentemente dal fatto che sappia o meno leggere o scrivere, ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di preferenza fra le persone abituate con lui, al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa’’, ossia colmando la lacuna ‘‘a rime obbligate’’ attraverso l’estensione della forma di tutela già prevista dall’art. 143 c.p.p. per gli stranieri che non conoscono la
— 721 — lingua italiana, ma secondo le modalità già previste nell’art. 119, comma 2, c.p.p. La Corte ha così accolto la censura di incostituzionalità dell’art. 119, comma 2, c.p.p., come prospettata dal giudice a quo, soffermandosi, in particolare, sulla violazione dell’art. 24, comma 2, Cost., in quanto il diritto di difesa comprende l’effettiva possibilità che la partecipazione personale dell’imputato al procedimento avvenga in modo consapevole, specialmente nelle fasi improntate al principio dell’oralità. Diversamente dal caso dell’imputato che non conosce la lingua italiana, al quale l’ordinamento attribuisce il diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete (art. 143, comma 1, c.p.p.), è riscontrabile una lacuna legislativa per le persone che siano impedite di parlare o di ascoltare, ovvero sia di parlare che di ascoltare, da un loro handicap fisico. Quest’ultima situazione è stata presa in considerazione dal legislatore solo nel caso in cui il sordo, il muto o il sordomuto non sappia né leggere, né scrivere, ossia ‘‘non tenendo conto della differenza sostanziale che vi è fra il potere di percepire e di esprimersi immediatamente e direttamente, sia pure con la mediazione dell’interprete, e l’essere messi in grado solo di percepire e di esprimersi attraverso lo scritto’’. Da ciò la necessità di intervenire con una decisione di tipo ‘‘additivo’’.
b) Notificazioni ART. 161 Domicilio dichiarato, eletto o determinato per le notificazioni Ordinanza 19 febbraio 1999, n. 37 Manifesta inammissibilità (in G.U., 24 febbraio 1999, n. 8) Oggetto del giudizio della Corte è l’art. 161, comma 4, c.p.p., nella parte in cui impone di eseguire le notificazioni mediante consegna al difensore qualora non sia possibile eseguirle presso il domicilio dichiarato ed eletto dall’imputato, senza prescrivere alcuna preventiva ricerca volta ad accertare l’attuale domicilio dell’imputato stesso o a verificare se egli si trovi in stato di detenzione. Secondo i giudici a quo tale disposizione sarebbe in contrasto con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, ossia violerebbe la legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81, che, all’art. 2, rinvia ai principi contenuti nelle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, e cioè, nel caso concreto, all’art. 6, comma 3, lett. c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e all’art. 14, comma 3, lett. d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Con l’ordinanza n. 37 del 1999 la Corte, come già nell’ordinanza n. 241 del 1998, dichiara la questione manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto, nelle ordinanze di rimessione, non è chiarito perché il domicilio in precedenza eletto non è stato ritenuto idoneo, né se la persona sottoposta alle indagini era stata avvertita dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio ed avvisata che, in mancanza, le notificazioni sarebbero state eseguite mediante consegna al difensore ex art. 161, comma 1, c.p.p. Inoltre, i giudici a quo non hanno chiarito perché, nella fattispecie, hanno ritenuto applicabile il censurato art. 161, comma 4, c.p.p., e non, invece, l’art. 171, lett. e), l’art. 157 e l’art. 159 c.p.p.
TESTIMONIANZA ART. 197 Incompatibilità con l’ufficio di testimone Ordinanza 17 giugno 1999, n. 251 Manifesta inammissibilità (in G.U., 23 giugno 1999, n. 25) Con ordinanza n. 251 del 1999 la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza della questione di costituzionalità, sollevata in riferi-
— 722 — mento agli artt. 3, 24, 25, comma 2, 102, comma 1, e 112 della Costituzione, dell’art. 197 c.p.p., nella parte in cui parifica la posizione del soggetto già imputato di reato connesso, o già coimputato, nei cui confronti sia stata applicata la pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. con pronuncia diventata irrevocabile, al soggetto già imputato di reato connesso o già coimputato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna divenuta irrevocabile. La Corte rileva infatti come nell’ordinanza di rimessione non risulti individuata alcuna situazione processuale in relazione alla quale assume rilevanza la disposizione censurata: non viene, infatti, chiarito se e quando sia stato esaminato il dichiarante al quale si vorrebbe estendere il trattamento dei testimoni; né se, non avendo egli risposto, vi sia stato dissenso delle parti alla utilizzazione delle sue precedenti valutazioni; e neppure se oggetto della questione concernente le dichiarazioni rese dall’imputato di reato connesso siano le regole per l’acquisizione, ovvero il regime di utilizzazione e di valutazione, di tali dichiarazioni.
MISURE CAUTELARI PERSONALI a) Misure interdittive ART. 289 Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficiale o servizio Ordinanza 18 maggio 1999, n. 174 Manifesta inammissibilità (in G.U., 26 maggio 1999, n. 21) Con l’ordinanza n. 174 del 1999 viene decisa la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 289, comma 2, c.p.p., nel testo modificato dalla l. 16 luglio 1997, n. 234, nella parte in cui la prescrizione dell’interrogatorio, prima di disporre la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, varrebbe solo nel caso in cui il pubblico ministero abbia richiesto l’applicazione della misura medesima, e non anche nel caso in cui il pubblico ministero abbia richiesto misure cautelari solo di tipo coercitivo, ma il giudice ritenga di disporre quella di tipo interdittivo. La Corte dichiara la manifesta inammissibilità della questione per vizi nell’impostazione del thema decidendum, rilevando sia un’insufficiente motivazione sulla rilevanza, sia la mancanza da parte del giudice rimettente della ricerca di ipotesi interpretative che consentano di adeguare la disposizione di legge ai parametri invocati a sostegno del dubbio di costituzionalità, ossia di una interpretazione ‘‘conforme’’ a Costituzione.
b) Forma ed esecuzione dei provvedimenti ART. 291 Procedimento applicativo ART. 292 Ordinanza del giudice Ordinanza 5 febbraio 1999, n. 22 Manifesta inammissibilità (in G.U., 10 febbraio 1999, n. 6) Con l’ordinanza n. 22 del 1999 la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità, sollevata in riferimento agli artt. 24, 111, 112 della Costituzione, degli artt. 291 e 292 c.p.p., in quanto dagli atti emergeva che il giudice rimettente aveva già respinto la richiesta di misura cautelare e ordinato la liberazione dell’indagato e, pertanto, con tale provvedimento, che aveva concluso sia il procedimento di convalida, sia
— 723 — quello relativo alla decisione sulla domanda cautelare, si era esaurito il suo potere decisorio, rendendo irrilevante la questione sottoposta all’esame della Corte. ART. 294 Interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale Sentenza 17 febbraio 1999, n. 32 Incostituzionalità (in G.U., 24 febbraio 1999, n. 8) Una delle pronunce più importanti emesse dalla Corte sul processo penale nel 1999 è sicuramente rappresentata della sentenza n. 32 del 1999, con cui, attraverso una decisione di incostituzionalità di tipo ‘‘additivo’’, si prosegue nell’opera già iniziata con la decisione n. 77 del 1999. Oggetto di censura è l’art. 294, comma 1, c.p.p., relativo all’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare, ma la denuncia viene allargata dalla Corte anche all’art. 302 c.p.p., disciplinante la conseguenza dell’estinzione della misura per omesso interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare, in quanto tutte le ordinanze introduttive del giudizio di costituzionalità erano state emesse a fronte di richieste di scarcerazione per omesso interrogatorio entro i cinque giorni dall’esecuzione della misura. Il thema decidendum risulta, pertanto, costituito dal complesso di queste due disposizioni come risultanti a seguito della sentenza n. 77 del 1997. Successivamente a tale pronuncia, infatti, il giudice per le indagini preliminari è tenuto a procedere all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare immediatamente e comunque entro cinque giorni dalla privazione della libertà personale, non soltanto nel corso delle indagini preliminari, ma anche fino al momento della trasmissione degli atti al giudice del dibattimento, ossia anche quando lo status detentionis ha avuto inizio in epoca successiva alla richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero. I giudici a quibus chiedono ora alla Corte di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 294, comma 1, c.p.p. nella parte in cui non prevede che ‘‘fino all’apertura del dibattimento’’ il giudice proceda all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere. Quali norme parametro vengono evocate l’art. 24 della Costituzione, in alcune ordinanze anche con riferimento alla Convenzione per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata a Roma il 14 novembre 1950, che richiede ‘‘la più tempestiva presa di contatto con il giudice della persona arrestata o detenuta, a prescindere dalla fase procedimentale in cui la privazione della libertà è avvenuta’’, e l’art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento tra imputato che venga privato della libertà personale nella fase in cui gli atti sono ancora nella disponibilità del giudice per le indagini preliminari e imputato che si trovi in stato di custodia cautelare dopo questo momento, ma prima che sia iniziato il dibattimento. In alcune ordinanze di rimessione viene, inoltre, indicato come parametro l’art. 10 della Costituzione, in quanto le norme censurate contrasterebbero con i principi contenuti nella già citata Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nel Patto internazionale per i diritti civili e politici adottato a New York il 16 novembre 1966. La questione viene accolta. Poiché la delimitazione temporale operata dalla sentenza n. 77 del 1997 era stata dettata, come correttamente rilevato in alcune ordinanze di rimessione, dall’impostazione del thema decidendum nel rispetto del requisito della rilevanza, ossia dal fatto che la questione era stata sollevata dal giudice nella fase antecedente la trasmissione degli atti al giudice per il dibattimento, ora la Corte ritiene che, anche relativamente a questa successiva fase processuale, debba essere necessariamente espletato l’interrogatorio di garanzia. L’art. 294, comma 1, c.p.p., viene così dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che fino all’apertura del dibattimento il giudice proceda all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione (non potendo, invece, qui assurgere a parametro di costituzionalità l’art. 10 della Costituzione, trattandosi di norme di diritto internazionale pattizio).
— 724 — Quanto alla richiesta, contenuta in diverse ordinanze di rimessione, di individuare il giudice cui affidare il compito di procedere all’interrogatorio, gli atti da utilizzare a tal fine, il termine congruo entro cui l’interrogatorio deve essere effettuato, nonché le conseguenze connesse all’inosservanza di tale termine, la Corte risponde che l’affermazione costituzionalmente imposta che l’interrogatorio di garanzia costituisca, oltre che un obbligo del giudice, un diritto fondamentale della persona, non comporta di per sé soluzioni necessitate circa le relative modalità attuative, trattandosi di scelte che spettano al legislatore e, nelle more dell’intervento legislativo, all’interpretazione del giudice. Deve, tuttavia, essere segnalato che il Governo, recependo le indicazioni contenute in queste pronunce della Corte, è intervenuto a modificare in alcune sue parti l’art. 294 c.p.p., adottando il d.l. 22 febbraio 1999, n. 29 (‘‘Modifiche al codice di procedura penale sulla competenza della Corte di Assise e sull’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare personale’’), convertito, con modificazioni, dalla l. 21 aprile 1999, n. 109 [rispettivamente in Gazzetta Ufficiale, serie generale, 22 febbraio 1999, n. 43 e in Gazzetta Ufficiale, serie generale, 23 aprile 1999, n. 4]. Attualmente è pertanto previsto che ‘‘il giudice che ha deciso in ordine all’applicazione della misura cautelare’’ proceda all’interrogatorio ‘‘fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento’’. All’art. 294 c.p.p. è stato inoltre aggiunto il comma 4-bis che dispone che ‘‘quando la misura cautelare è stata disposta dalla Corte di assise o dal tribunale, all’interrogatorio procede il presidente del collegio o uno dei componenti da lui delegato’’. Infine, al comma 5 del medesimo articolo si prevede che, relativamente all’interrogatorio da assumere nella circoscrizione di un altro tribunale, in caso di organo collegiale, sia il presidente del collegio ad inoltrare la richiesta al giudice per le indagini preliminari del luogo. Ordinanza 17 giugno 1999, n. 243 Restituzione degli atti (in G.U., 23 giugno 1999, n. 25) Questioni di costituzionalità analoghe a quelle decise con la sentenza n. 32 del 1999 erano state sollevate anche dal Tribunale di Napoli, con ordinanza emessa il 14 ottobre 1999, e dal Tribunale di Bologna, sezione per il riesame, con ordinanza del 13 novembre 1998. Relativamente ad entrambe le questioni la Corte ha disposto, con l’ordinanza n. 243 del 1999, la restituzione degli atti ai giudici a quibus affinché verifichino se, alla stregua della decisione di cui sopra e della novazione normativa successiva, la questione sollevata sia ancora rilevante. Ordinanza 23 marzo 1999, n. 90 Restituzione degli atti (in G.U., 31 marzo 1999, n. 13) Con l’ordinanza n. 90 del 1999 la Corte ha ordinato la restituzione degli atti ai giudici a quibus, affinché, alla luce della sentenza n. 33 del 1999 e delle nuove disposizioni normative (ius superveniens costituito dal d.l. 22 febbraio 1999, n. 29), verifichino se ritengono ancora rilevante per la definizione del giudizio la soluzione delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 469, 294 e 302 c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. Ordinanza 5 febbraio 1999, n. 16 Manifesta infondatezza (in G.U., 10 febbraio 1999, n. 6) L’art. 294, comma 1, c.p.p. è stato oggetto anche di un’altra decisione della Corte, che è stata chiamata a pronunciarsi sulla conformità di tale disposizione agli artt. 3 e 24, comma 2, della Costituzione, nella parte in cui preclude al giudice di procedere all’interrogatorio di garanzia nelle ipotesi in cui abbia già interrogato l’arrestato o il fermato nel corso dell’udienza di convalida. Secondo la prospettazione del giudice rimettente la persona colpita da un’ordinanza di custodia cautelare rende l’interrogatorio di cui all’art. 294, comma 1, c.p.p.,
— 725 — conoscendo gli atti sui quali si fonda la richiesta del pubblico ministero con la possibilità, per il suo difensore, di apprestare una più efficace linea difensiva, mentre tale garanzia è preclusa all’indagato colpito da un’ordinanza di custodia cautelare dopo la convalida del fermo o dell’arresto, il quale viene interrogato in una fase, come l’udienza di convalida, in cui non ha la possibilità di conoscere gli atti su cui la richiesta si fonda. L’equiparazione dell’interrogatorio previsto dall’art. 391, comma 3, c.p.p., all’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. penalizzerebbe dunque la posizione del fermato. Con l’ordinanza n. 16 del 1999 la Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione. In primo luogo, la norma censurata risponde all’esigenza di evitare un’inutile duplicazione di attività processuali (si ricorda che la disposizione denunciata era stata introdotta dall’art. 13 d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, proprio a questo scopo). In secondo luogo, appare inconferente il richiamo effettuato all’art. 293, comma 3, c.p.p., in base al quale gli elementi probatori raccolti dal pubblico ministero e prodotti al giudice con la richiesta di applicazione di una misura cautelare devono essere messi a disposizione della difesa mediante deposito in cancelleria unitamente all’ordinanza cautelare dopo la sua esecuzione. La Corte, forse in modo un po’ frettoloso, prima riconosce l’importanza di tale disposizione (introdotta dalla l. 8 agosto 1995, n. 332) al fine di rendere attuabile un’adeguata e informata assistenza all’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare, subito dopo, però, sottolinea che il deposito di tali atti è preordinato esclusivamente all’esercizio del potere di gravame e che, sotto questo aspetto, vi è una piena equiparazione tra la situazione dell’indagato sottoposto a custodia cautelare e quella dell’indagato sottoposto alla medesima misura dopo la convalida del fermo o dell’arresto. ART. 297 Computo dei termini di durata delle misure Ordinanza 5 febbraio 1999, n. 20 Manifesta infondatezza (in G.U., 10 febbraio 1999, n. 6) Con l’ordinanza n. 20 del 1999 la Corte torna a pronunciarsi sull’art. 297, comma 3, c.p.p., nel testo sostituito dall’art. 12, l. 8 agosto 1995, n. 332, che stabilisce un’eccezione alla regola dell’autonoma decorrenza dei termini cautelari. Si tratta della norma che, per evitare gli effetti perversi di uno spostamento in avanti del momento d’inizio del termine, prodotto dall’emissione di provvedimenti cautelari ‘‘a catena’’ nei confronti dello stesso imputato per il medesimo fatto ovvero per fatti diversi compiuti precedentemente alla prima ordinanza e connessi, ai sensi dell’art. 12 c.p.p., nelle figure di concorso formale, di reato continuato e di reati commessi per eseguirne altri, stabilisce che i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave. La disposizione, invece, non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale non sussiste connessione. Tuttavia, se scopo della norma è quello di disincentivare l’utilizzo delle c.d. ‘‘contestazioni a catena’’, vi è anche chi, da subito, ha notato come il legislatore abbia in tal modo parificato irragionevolmente il caso in cui il pubblico ministero diluisca artificiosamente nel tempo i vari interventi cautelari con la diversa ipotesi in cui il pubblico ministero scopra elementi relativi a taluni reati solo dopo la richiesta di emissione della prima ordinanza cautelare. È proprio questa sorta di ‘‘presunzione di contestazione a catena’’, che innegabilmente penalizza il pubblico ministero, a costituire la censura mossa all’art. 297, comma 3, c.p.p. dal giudice per le indagini preliminari di Milano nel 1995 e ora riproposta dal Tribunale di Lecce. Già in quella prima occasione, con la sentenza n. 89 del 1996, la Corte respinse l’eccezione di incostituzionalità, rilevando come effettivamente il legislatore si fosse spinto ben oltre i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità e come, di conseguenza, la scelte operate potessero generare dubbi e perplessità, ma, nello stesso tempo, dopo aver ripercorso i confini entro i quali deve svolgersi lo scrutinio di ragionevolezza, non ritenne la
— 726 — norma impugnata in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto lo scopo della disciplina con essa introdotta è quello di stabilire garanzie di obbiettività per assicurare il pieno rispetto del principio sancito nell’art. 13, comma 5, della Costituzione. Analogamente, oggi, riproposta la medesima questione senza che siano addotti argomenti nuovi o diversi rispetto a quelli esaminati con la decisione del 1996, la Corte respinge la questione dichiarandone la manifesta infondatezza.
c) Estinzione delle misure ART. 303 Termini di durata massima della custodia cautelare Ordinanza 19 novembre 1999, n. 429 Manifesta infondatezza (in G.U., 24 novembre 1999, n. 47) Con l’ordinanza n. 429 del 1999 la Corte è tornata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 303, comma 4, c.p.p., nella parte in cui non prevede che, oltre al superamento del termine complessivo, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorché si verifichi la situazione descritta nel comma 2 del medesimo articolo, ossia la decorrenza ex novo dei termini di fase in seguito ad ‘‘annullamento con rinvio’’ da parte della Corte di cassazione o ad ‘‘altra causa’’. Identica questione, infatti, era già stata oggetto della sentenza n. 292 del 1998, con cui la Corte, attraverso una decisione di rigetto interpretativa, aveva affermato che l’art. 304, comma 6, c.p.p., quale norma ‘‘autonoma’’ rispetto al corpo dell’articolo nel quale si trova inserita e rappresentando un’evidente attuazione del canone di proporzionalità, costituisce una norma ‘‘di chiusura’’ della disciplina dei termini e si applica anche alle situazioni di regresso del procedimento o di rinvio ad altro giudice di cui al comma 2 dell’art. 303 c.p.p. Con l’ordinanza n. 429 del 1999 dichiara manifestamente infondata la questione proposta, confermando che il superamento di un periodo di custodia cautelare pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione determina la perdita di efficacia della misura cautelare, non solo se quei termini sono stati sospese o prorogati, ma anche quando sono cominciati a decorrere nuovamente a seguito della regressione o del rinvio ad altro giudice.
d) Impugnazioni ART. 309 Riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva Ordinanza 23 giugno 1999, n. 269 Non fondatezza (in G.U., 30 giugno 1999, n. 26) Con l’ordinanza n. 269 del 1999 la Corte è stata nuovamente chiamata a decidere della legittimità dell’art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., in riferimento agli artt. 13 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede un termine perentorio per l’inoltro all’autorità giudiziaria procedente dell’avviso relativo alla presentata richiesta di riesame, né una sanzione processuale in caso di superamento del termine. La Corte di cassazione, sesta sezione penale, quale giudice rimettente, non ritiene, infatti, di condividere l’interpretazione data all’art. 309, comma 5, c.p.p., dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 232 del 1998, secondo la quale il termine di cinque giorni stabilito per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame decorre dal momento in cui la richiesta di riesame perviene alla cancelleria del mede-
— 727 — simo tribunale e non dal momento in cui all’autorità procedente perviene l’avviso dell’avvenuta presentazione di tale richiesta. Come nel caso deciso con la già citata sentenza n. 232 del 1998, la Corte ritiene, tuttavia, non fondata la questione e, nel fare ciò, si richiama al ‘‘diritto vivente’’ formatosi sul punto, in particolare alla recente sentenza 18 gennaio 1999, n. 25, pronunciata dalle sezioni unite della Cassazione, dove si chiarisce che, in tema di procedimento di riesame, il termine di cinque giorni entro il quale l’autorità giudiziaria procedente deve trasmettere, a pena di inefficacia della misura, gli atti previsti dal quinto comma dell’art. 309 c.p.p. al tribunale della libertà, decorre dal giorno della presentazione della richiesta di riesame. Ordinanza 1o dicembre 1999, n. 445 Manifesta infondatezza (in G.U., 9 dicembre 1999, n. 49) Con l’ordinanza n. 445 del 1999 questione analoga a quella di cui sopra viene dichiarata manifestamente infondata, richiamando non solo la sentenza n. 232 del 1998, bensì la stessa ordinanza n. 269 del 1999 e la sentenza 18 gennaio 1999, n. 25, della Corte di cassazione a sezioni unite.
e) Applicazione provvisoria di misure di sicurezza ART. 312 Condizioni di applicabilità ART. 313 Procedimento Sentenza 11 giugno 1999, n. 228 Non fondatezza (in G.U., 16 giugno 1999, n. 24) Con la sentenza n. 228 del 1999 la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale degli artt. 206 e 222, comma 1, c.p., e 312 e 313, c.p.p., in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui riservano ‘‘in sostanza alle insindacabili richieste del pubblico ministero se applicare all’infermo di mente socialmente pericoloso la misura di sicurezza provvisoria del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario oppure la misura cautelare della custodia in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero’’, senza che, inoltre, venga contemplato alcun dovere di motivazione circa la scelta in concreto effettuata, nonostante identici siano i presupposti dell’una e dell’altra ‘‘misura’’, entrambe fondate sul comune requisito della ‘‘pericolosità sociale dell’indagato’’. La Corte, attraverso una decisione interpretativa di rigetto, definisce l’ambito dei poteri e doveri del giudice in presenza di una richiesta di applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, nonché i presupposti della specifica disciplina dettata dall’art. 73 c.p.p.. Premessa la necessità che il legislatore intervenga a riordinare organicamente la disciplina, la Corte chiarisce che il giudice non è vincolato né ai risultati delle perizie, né alla richiesta del pubblico ministero, la quale costituisce presupposto processuale per abilitare il giudice a disporre una misura di sicurezza e non esonera il giudice dal giudizio che gli spetta ex art. 313 c.p.p.. Il giudice ha cioè libertà di valutazione circa il ricorrere di tutti gli elementi che danno luogo alla fattispecie dell’applicazione della misura di sicurezza, sia per quanto attiene allo stato mentale dell’indagato, sia quanto all’esistenza di una sua generica pericolosità sociale e, di conseguenza, ha la possibilità di disattendere la richiesta del pubblico ministero. A conferma di ciò deve essere ricordato che l’art. 312 c.p.p. richiede l’emissione di un’ordinanza ex art. 292 c.p.p., ossia di un provvedimento contenente l’esposizione delle specifiche esigenze, degli indizi, degli elementi di fatto e dei motivi per cui si ritiene opportuno adottare la misura. Erroneo viene, inoltre, ritenuto il presupposto interpretativo circa il ruolo affidato dall’ordinamento all’art. 73 c.p.p.. A proposito la Corte chiarisce che i presupposti per l’appli-
— 728 — cazione di tale istituto e quelli per l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza quando la misura consiste nell’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario non coincidono. Diversamente dalle misure di sicurezza, nelle ipotesi contemplate dall’art. 73 c.p.p. non si esige alcuna pericolosità sociale dell’indagato, ma esclusivamente la valutazione sullo stato mentale e le connesse necessità terapeutiche. La misura cautelare di cui all’art. 286 c.p.p. riposa, cioè, solo sul bisogno di cura in strutture adeguate.
f) Riparazione per l’ingiusta detenzione ART. 314 Presupposti e modalità della decisione Sentenza 2 aprile 1999, n. 109 Incostituzionalità (in G.U., 7 aprile 1999, n. 14) Particolarmente interessante è la decisione contenuta nella sentenza n. 109 del 1999, con cui la Corte prosegue nell’opera di ‘‘riempimento’’ delle lacune contenute nella disciplina dei presupposti della riparazione della detenzione ingiustamente o illegittimamente subita (vedi, in questa direzione, la sentenza n. 310 del 1996, con cui era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 314 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiusta o illegittima patita a causa di erroneo ordine di esecuzione). La sentenza in oggetto decide, infatti, la questione di costituzionalità, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, dell’art. 314 c.p.p. nella parte in cui non prevede il diritto alla riparazione della detenzione ingiustamente subita in conseguenza di arresto illegittimo o non seguito da ordinanza di custodia cautelare in carcere o di arresto domiciliare, ossia nei casi in cui la detenzione si esaurisce nell’ambito della misura precautelare all’arresto. Secondo la prospettazione del giudice a quo vi sarebbe una violazione dell’art. 3 della Costituzione, per il trattamento discriminatorio riservato alla persona soggetta a misura precautelare rispetto alla persona sottoposta a misura cautelare, dato che entrambe le misure comportano la detenzione in carcere; dell’art. 13 della Costituzione, poiché la libertà personale, ‘‘se violata, dovrebbe essere comunque ristorata’’; dell’art. 2 della Costituzione, in quanto l’istituto dell’ingiusta riparazione costituisce espressione del principio solidaristico che ispira l’intera Carta costituzionale; dell’art. 76 della Costituzione, in quanto la direttiva n. 100 dell’art. 2 della l. 16 febbraio 1987, n. 81, nel prevedere la riparazione per l’ingiusta detenzione, non distingue tra misure cautelari e misure precautelari, bensì, prescrivendo, all’art. 2, il rispetto delle convenzioni internazionali relative ai diritti della persona e al processo penale ratificate dall’Italia, richiama di conseguenza l’art. 5, comma 5, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con la l. 4 agosto 1955, n. 848, che prevede che ogni persona vittima di un arresto o di detenzioni ingiuste ha diritto ad un indennizzo. La questione è fondata, con riferimento a tutti i parametri invocati. Anche le misure c.d. precautelari, infatti, realizzando una forma tipica di custodia, esigono il regime riparatorio previsto per le altre misure restrittive. In particolare, la Corte osserva come la piena equiparazione di tali misure detentive debba essere dedotta anche dall’art. 297, comma 1, c.p.p., il quale prevede che il periodo di arresto o fermo è ritenuto computabile nella durata della custodia cautelare riparabile quando il giudice in sede di convalida abbia disposto la prosecuzione della detenzione applicando una misura cautelare personale. FRANCESCA BIONDI Dottoranda di ricerca di Diritto Costituzionale Università degli Studi di Milano
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI CAMERA DI CONSIGLIO Sentenza 13 luglio - 24 settembre 1998 n. 21 Pres. La Torre — Rel. Albamonte P.M. conforme - Fiore — Ricorrente Gallieri Prove - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Acquisizione dei tabulati del traffico telefonico - Mancanza del provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria - Conseguenze - Inutilizzabilità della prova (Cost. 15; C.p.p. artt. 266, 267, 271, 191). Prove - Intercettazioni di conversazioni e comunicazioni - Acquisizione dei tabulati del traffico telefonico - Estensione garanzie - Introduzione nuova disciplina (L. 23 dicembre 1993 n. 547) - Rilevanza dati esteriori conversazioni telefoniche - Sussistenza (Cost. 15; C.p.p. artt. 266, 266-bis, 267). Il principio di libertà e segretezza delle comunicazioni fissato dall’art. 15 Cost. ricomprende e garantisce anche i cd. dati esteriori delle conversazioni telefoniche. Pertanto anche l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico deve essere disposta con il decreto motivato dell’autorità giudiziaria, dovendosi ritenere inutilizzabili i tabulati del traffico telefonico acquisiti direttamente dalla polizia giudiziaria (1). La L. 23 dicembre 1993 n. 547, introducendo l’art. 266-bis c.p.p., ha aggiornato la normativa concernente l’acquisizione dei cd. dati esteriori delle conversazioni telefoniche. L’intervento legislativo, infatti, non si è limitato ad estendere l’ambito delle intercettazioni ai procedimenti aventi ad oggetto i computer crimes ma, consentendo l’intercettazione dei flussi di dati numerici (bit), ha esteso le garanzie previste per le intercettazioni di conversazioni di cui all’art. 266 c.p.p. all’attività acquisitiva dei tabulati del traffico telefonico (2). (Omissis). — OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO. — 1. Con ordinanza pronunciata in data 13 marzo 1998, il Tribunale di Perugia rigettava la richiesta di riesame del provvedimento impositivo di misura cautelare in carcere emesso dal giudice per le indagini preliminari presso quel Tribunale nei confronti di Gallieri Antonio, indagato dei reati di concorso nel traffico illecito di sostanze stupefacenti, e di associazione finalizzata al traffico illecito delle predette sostanze. Con la citata ordinanza, il Tribunale sosteneva la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, desunti dalle dichiarazioni del coindagato Natali Ivaldo, che aveva indicato nel Gallieri un intermediario del traffico di droga; dichiarazioni che
— 730 — avevano trovato riscontro nelle telefonate avvenute tra i due all’epoca dei fatti. Difatti, dai tabulati delle telefonate intercorse tra il ‘‘cellulare’’ del Natali e quello in uso al Gallieri, il cui numero era in possesso del primo, — tabulati utilizzabili, secondo il Tribunale stesso, in quanto richiesti dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 234, comma 1, c.p.p. —, risultava che vi era stata una serie di contatti telefonici tra i due proprio nei periodi in cui sarebbero avvenuti i viaggi del Natali, finalizzati all’acquisto ed al trasporto della droga. Il Tribunale, infine, ravvisava anche la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274, lett. c), c.p.p. Il Gallieri ha proposto ricorso per cassazione, deducendo l’inutilizzabilità dei suddetti tabulati, in quanto l’acquisizione era avvenuta senza l’autorizzazione motivata dell’autorità giudiziaria. Dal che seguiva, ad avviso del ricorrente, la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza a suo carico, essendo questi fondati sulle dichiarazioni (peraltro di contenuto contraddittorio) del coindagato valutate unitamente alle risultanze dei tabulati, che ne andavano così a costituire l’unico riscontro di attendibilità. Il ricorrente lamentava, altresì, la violazione degli artt. 274 e 275 c.p.p., in punto cioè di sussistenza delle ritenute esigenze cautelari, e di adeguatezza della misura cautelare applicata. La sezione quarta penale, alla quale era stato assegnato il ricorso, ha disposto la sua rimessione alle Sezioni Unite penali, ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla questione di diritto: se sia utilizzabile il tabulato contenente l’indicazione dei dati ‘‘esteriori’’ delle conversazioni telefoniche (utenza da cui proviene la telefonata, numero chiamato, data, ora, e durata della conversazione), nella specie avvenute a mezzo di apparecchi di telefonia mobile (‘‘cellulari’’), tutte le volte che sia stato acquisito agli atti senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, ed ha fissato la presente udienza per la decisione in camera di consiglio. 2. In via preliminare, questo Collegio deve rilevare che il ricorrente risulta essere stato posto in libertà in data 19 maggio 1998; dal che consegue che l’interesse all’impugnazione, di cui all’art. 568, comma 4, c.p.p., possa essere ravvisato esclusivamente in vista dell’esercizio dell’azione di riparazione per ingiusta detenzione, di cui agli artt. 314 ss. c.p.p. Difatti, come è stato affermato (Cass., Sez. Un., 8 novembre 1993, Durante, Rv. 195355, l’interesse dell’indagato ad ottenere una pronuncia, in sede di riesame, (di appello o di ricorso per cassazione), dell’ordinanza custodiale permane anche nel caso in cui quest’ultima sia stata revocata nelle more del procedimento. Ma, ciò perché (e nei limiti in cui) la pronuncia inoppugnabile di annullamento della misura suddetta, avvenuta nel procedimento incidentale de libertate, costituisce ‘‘decisione irrevocabile’’, e conferisce quindi, in virtù del disposto dell’art. 314, comma 2, c.p.p., al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato il diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente. Tutte le volte, cioé, che il provvedimento custodiale sia ‘‘stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280’’ (art. 314, comma 2). In termini del tutto corrispondenti alla causa petendi dell’azione di cui all’art.
— 731 — 314 rimane così circoscritto al solo primo motivo del ricorso il thema decidendum del presente giudizio, che concerne appunto la prospettata violazione dell’art. 273 c.p.p. 3. Ora, venendo all’esame della questione di diritto prospettata nell’ordinanza di rimessione, si osserva che effettivamente essa ha dato luogo ad un contrasto di giurisprudenza, per chiarire i cui termini è necessario partire dall’esame della sentenza (interpretativa di rigetto) della Corte costituzionale, n. 81 dell’11 marzo 1993. La suddetta pronuncia concerne proprio l’utilizzazione come mezzo di prova dei tabulati, recanti l’indicazione delle telefonate effettuate, cioé dei numeri dell’abbonato e del chiamato, della data, ora e durata delle stesse, acquisiti senza quelle particolari garanzie previste invece dal codice di rito per l’intercettazione del contenuto delle conversazioni telefoniche (art. 266 c.p.p.). È stato affermato, dalla Corte costituzionale, che, pur in assenza di una normativa specifica volta a tutelare la riservatezza delle informazioni e delle notizie idonee ad identificare i dati esteriori della conversazione telefonica, l’acquisizione di tali dati non possa non avvenire nel più rigoroso rispetto delle regole che la stessa Costituzione pone direttamente, con norma precettiva, a tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni (art. 15). Con la conseguenza che l’acquisizione degli elementi suddetti, contenuti nel tabulato, può legittimamente avvenire ‘‘soltanto sulla base di un atto dell’autorità giudiziaria, sorretto da un’adeguata e specifica motivazione, diretta a dimostrare la sussistenza in concreto di esigenze istruttorie volte al fine, costituzionalmente protetto, della prevenzione e della repressione dei reati’’. 4. Pur condividendo il principio che anche i dati suddetti rientrano nella sfera di tutela dell’art. 15 Cost., le sezioni di questa Corte, che si sono pronunciate sulla questione, hanno fatto derivare dalla sua violazione conseguenze processuali differenti. Così, dopo aver affermato che il provvedimento, con il quale il pubblico ministero disponga l’acquisizione del tabulato relativo alla movimentazione del traffico telefonico di un cellulare debba essere, proprio alla luce della sentenza n. 81 del 1993, motivato, tuttavia è stato ritenuto che l’omessa motivazione del provvedimento non determini l’inutilizzabilità del tabulato a fini probatori. E ciò perché tale sanzione processuale ‘‘non consegue a qualunque violazione di norme che regolano l’atto processuale, ma soltanto a quelle che consistano in un divieto di acquisizione della prova, o a quelle per la cui violazione è espressamente comminata dalla legge tale conseguenza, come avviene per i casi previsti dall’art. 271 c.p.p.’’ (Sez. 4, 29 dicembre 1994, Benelucif, Rv. 200001). Ed è stato anche affermato che sono da considerarsi utilizzabili i tabulati in questione, acquisiti senza neppure la richiesta scritta e motivata del pubblico ministero, perchè attestanti solo dati esteriori alle conversazioni telefoniche. Difatti, l’art. 234, comma 1, c.p.p. (in materia di acquisizione di prova documentale), applicabile a tali ipotesi, non stabilisce formalità alcuna di acquisizione (Sez. 1, 18 luglio 1995, Micic ed altri, Rv. 202909). In conformità, invece, al principio enunciato dalla Corte costituzionale, è stato considerato inutilizzabile il tabulato dove acquisito in assenza del provvedimento, debitamente motivato, dell’autorità giudiziaria (Sez. 1, 3 aprile 1996, D’Aquino, Rv. 204211); e ciò anche nella fase delle indagini preliminari, alla quale
— 732 — deve estendersi il regime di cui all’art. 271, comma 1, c.p.p. (Sez. fer. 28 agosto 1996, Serru, Rv. 205985). In senso più rigoroso, poi, (andando — peraltro — oltre all’avviso espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 81 del 1993), è stato sostenuto che le disposizioni in tema di intercettazione di conversazioni o comunicazioni sono riferibili non solo al contenuto delle conversazioni o comunicazioni intercettate ma anche ai dati, anch’essi oggetto della tutela posta dall’art. 15 Cost., che consentono di identificare i soggetti colloquianti, il tempo ed il luogo della comunicazione (Sez. 6, 10 febbraio 1996, Perrichini, Rv. 203720). Recentemente, infine, la giurisprudenza è tornata ancora una volta sulla tesi opposta, sostenendo cioè che ‘‘l’omessa motivazione del provvedimento con il quale il pubblico ministero disponga l’acquisizione del tabulato relativo al traffico telefonico di un ‘cellulare’ non determina l’inutilizzabilità del tabulato stesso a fini probatori, poiché l’inutilizzabilità non consegue a qualunque violazione di norme che regolano l’atto processuale, ma soltanto a quelle che consistano in un divieto di acquisizione della prova ed a quelle per cui la violazione è espressamente prevista dalla legge’’ (Sez. 1, 21 gennaio 1998, Recchia, Rv. 209502). 5. Nessuna pronuncia dei giudici di questa Corte contrari alla tesi dell’inutilizzabilità — come è dato avvedersi dalla suddetta breve rassegna — sembra perciò porre in discussione il principio base della sentenza n. 81 del 1993, e cioé che ‘‘l’art. 15 Cost., in mancanza delle garanzie ivi previste, preclude la divulgazione o, comunque, la conoscibilità da parte di terzi delle informazioni e delle notizie idonee a identificare i dati esteriori della conversazione telefonica (autori della comunicazione, tempo e luogo della stessa)...’’ (Corte cost. n. 81 del 1993). Principio assolutamente nuovo questo, poiché viene a correlare il divieto stesso non ai contenuti delle comunicazioni ma alle informazioni esterne al messaggio. E costituisce il punto di arrivo dell’evoluzione della giurisprudenza dei giudici costituzionali, formatasi a partire della nota sentenza n. 34 del 1973 in materia di intercettazioni, e seguita dalle pronunce n. 366 del 1991 e n. 10 del 1993, volte, queste ultime, a sottolineare la stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità umana. Estensione della tutela — si potrebbe dire — resa necessaria dalla diffusione che negli ultimi anni ha avuto la tecnica di indagine giudiziaria dell’acquisizione dei dati ‘‘esteriori’’ dei colloqui telefonici, tramite appunto ‘‘i tabulati’’ — perché più agevole, meno rigorosa nella procedura, e maggiormente flessibile rispetto all’intercettazione delle conversazioni —. E ciò a seguito del recente sviluppo della telefonia mobile, la cui tecnica elettronica di trasmissione comprende come funzione connessa il trattamento dei dati relativi all’intero traffico telefonico. Si diceva che, in nessuna delle sentenze che negano l’inutilizzabilità, si pone in discussione la validità del principio suddetto. Ma ciò, però, solo in apparenza, perché l’opzione per strumenti inadeguati di garanzia, al di sotto cioè del livello minimo, non può non avere una ricaduta sull’effettività stessa del valore di cui all’art. 15 Cost., importandone un sacrificio non consentito dalla Costituzione. Difatti, viene disatteso (per tutte, di recente: ric. Recchia, Rv. 209502) proprio il suo irrinunciabile corollario, cioé che, pur in assenza di specifiche norme processuali, ‘‘...tuttavia l’acquisizione come mezzi di prova dei dati medesimi non può non avvenire nel più rigoroso rispetto delle regole che la stessa Costituzione pone
— 733 — direttamente, con norme precettive, a garanzia della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione. ... E, ... (come) la stessa Corte ha più volte ribadito ..., a norma dell’art. 15 Cost., le informazioni o i dati comportanti intromissioni nella sfera privata attinente al diritto inviolabile della libertà e della segretezza della comunicazione possono essere acquisiti soltanto sulla base di un atto dell’autorità giudiziaria, sorretto da un’adeguata e specifica motivazione, diretta a dimostrare la sussistenza in concreto di esigenze istruttorie volte al fine, costituzionalmente protetto, della prevenzione e della repressione dei reati’’ (Corte cost. n. 81 del 1993). Va al riguardo sottolineato che, secondo la Corte costituzionale, il suddetto provvedimento dell’autorità giudiziaria va a costituire ‘‘il livello minimo di garanzie’’ del valore tutelato dall’art. 15 Cost., in assenza di ‘‘più specifiche norme di attuazione dei principi costituzionali’’ in argomento, da predisporsi da parte del legislatore. E il pensiero della Corte viene conclusivamente esplicitato, nella sentenza, con l’affermazione che solo in virtù della tutela che è idoneo ad apprestare direttamente l’art. 15 Cost., — il quale ‘‘esige con norma precettiva tanto il rispetto di requisiti soggettivi di validità in ordine agli interventi nella sfera privata relativa alla libertà di comunicazione (atto dell’autorità giudiziaria, sia questa il pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari o il giudice del dibattimento), quanto il rispetto di requisiti oggettivi (sussistenza e adeguatezza della motivazione in relazione ai fini probatori concretamente perseguiti)...’’ — andava dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266 c.p.p. Disposizione questa che, nell’ambito delle garanzie previste nel Capo IV del Titolo III (Libro III) del codice di rito penale in materia di ‘‘intercettazioni di conversazioni o comunicazioni’’, non è di per sé estensibile — secondo la Corte — ‘‘a differenti forme d’intervento nella sfera di riservatezza delle comunicazioni tra privati, né ad aspetti diversi da quello attinente al contenuto delle comunicazioni medesime (identità dei soggetti, tempo e luogo della conversazione)’’. Sicché solo ‘‘nei sensi di cui in motivazione’’ la Corte costituzionale dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, sollevata in riferimento all’art. 15 Cost., nella parte in cui limita alle sole intercettazioni del contenuto di conversazioni telefoniche le garanzie e le cautele stabilite dalla normativa in argomento. E ciò, peraltro, dopo aver escluso in modo chiaro — contrariamente a qualche opinione espressa in dottrina — qualsiasi rilievo alla garanzia apprestata dall’art. 256 c.p.p. quanto a tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni. È vero, sottolinea la Corte costituzionale, che la disciplina in materia di esibizione di documenti coperti dal segreto professionale o di ufficio è applicabile nei confronti anche dell’ente gestore del servizio pubblico della telefonia e, pertanto, ‘‘... costituisce, per l’aspetto considerato, l’attuazione per via legislativa della tutela connessa al dovere di riserbo, implicitamente contenuto nell’art. 15 Cost., come garanzia istituzionale del diritto della persona alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni. Tuttavia, proprio in ragione della sua natura giuridica, tale garanzia ... non può essere scambiata con la tutela direttamente attribuita ai soggetti della comunicazione in ordine alla segretezza della sfera privata che circonda l’esercizio della relativa libertà ...’’. E ciò, osserva ancora la Corte, ‘‘...se non altro perché oggetto della protezione accordata dall’art. 256 c.p.p. è immediatamente
— 734 — l’interesse sottostante all’attività professionale, e non già quello proprio dei soggetti della comunicazione, cioè degli stessi utenti del servizio professionalmente erogato’’. 6. Ora, venendo alle pronunce che vanno di contrario avviso alla tesi dell’inutilizzabilità dei dati esterni alle comunicazioni telefoniche, in assenza di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, esse non fanno altro che adottare una soluzione interpretativa ritenuta dalla Corte non consentita dalla Costituzione. Ma, così facendo, danno per scontata l’inefficacia tout court delle sentenze c.d. interpretative di rigetto della Corte costituzionale, al di fuori cioè del procedimento nel corso del quale la questione sia stata sollevata. Tesi questa alquanto azzardata giuridicamente. Difatti, pur accogliendosi la tesi, sostenuta in dottrina ed in giurisprudenza, che le sentenze interpretative della Corte costituzionale non siano munite di efficacia erga omnes, facendo sorgere un vincolo solo nel giudizio a quo, non si può mai giungere a sostenere che per gli ‘‘altri’’ giudici la decisione della Corte costituzionale sia da ritenersi inutiliter data. Sicché tali giudici, ove intendano discostarsi dall’interpretazione proposta dalla Corte costituzionale, non hanno altra alternativa che sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale (in tal senso: Cass., Sez. Un., 29 gennaio 1996, Clarke), non potendo mai assegnare alla formula normativa un significato ritenuto incompatibile con la Costituzione. 7. Né, d’altra parte, sembra giuridicamente convincente la ragione, che i sostenitori di detto contrario orientamento, adducono a sostegno dell’impossibilità di dare applicazione, nei casi in specie, alla sanzione processuale dell’inutilizzabilità, in quanto sarebbe riferibile solo alle ipotesi di divieto di acquisizione della prova e di espressa previsione normativa. Al riguardo è stato affermato (Cass., Sez. Un., 16 maggio 1996, Sala) che rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall’inutilizzabilità, non solo le ‘‘prove oggettivamente vietate’’, ma le prove formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla ‘‘legge’’, ed a maggior ragione, quindi, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. Ipotesi quest’ultima sussumibile nella previsione dell’art. 191 c.p.p., proprio perché l’antigiuridicità di prove così formate od acquisite attiene alla lesione di diritti fondamentali, riconosciuti cioé come intangibili dalla Costituzione. E, proprio la sentenza n. 34 del 1973 ha ravvisato l’esistenza di ‘‘divieti’’ probatori ricavabili in modo diretto dal dettato costituzionale, enunciando il principio che ‘‘attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito’’. Il suddetto principio — come è noto — ha consentito, in dottrina, l’elaborazione della categoria delle prove cosiddette incostituzionali, cioè di prove ottenute attraverso modalità, metodi e comportamenti realizzati in spregio dei fondamentali diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione, da considerarsi perciò inutilizzabili nel processo. Con la conseguenza che le acquisizioni così avvenute sono destinate a subire una sorta di ablazione nel momento della valutazione da parte del giudice, rispetto al contesto della trama probatoria. È necessario, però, come è stato fatto osservare in dottrina, che la fattispecie
— 735 — tipica del diritto inviolabile, per poter esercitare un’efficacia immediata nel sistema probatorio, — ed oggi, sotto la vigenza del codice di rito del 1988, tramite la norma ‘‘valvola’’ dell’art. 191, comma 1, c.p.p. (‘‘...prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge...’’) —, sia esattamente definita, come nel caso dell’art. 15, nonché degli artt. 13 e 14 Cost. In tutti questi casi l’inviolabilità attiene situazioni fattuali di libertà assolute che prescindono, e quindi sono indipendenti, dal fenomeno normativo, nel senso cioé che trattasi di valori che non possono essere violati, ma eventualmente solo compressi ‘‘per atto motivato dell’autorità giudiziaria...’’ (art. 15, comma 2). In altri termini, — come è stato sostenuto in dottrina — l’art. 15 Cost. esprime una situazione tipica di inviolabilità da interferenze, e non un diritto alla tutela, secondo le garanzie previste dalla legge: la prima situazione ha una valenza negativa rispetto alle intrusioni (‘‘libertà da ...’’), l’altra si configura con una valenza positiva (‘‘diritto alla ...’’). Pertanto, la norma costituzionale non riserva alla legge di fissare l’intensità e la dimensione dell’intangibilità delle suddette libertà attraverso strumenti di tutela, ma, dopo aver imposto il dovere di ‘‘non violare’’, ne consente una ‘‘limitazione’’, nei casi e modi contemplati dalla legge, ed a maggior ragione tutte le volte che sia concorrente un interesse costituzionalmente tutelato. Limitazione perciò che, in assenza dell’intervento del legislatore, la Corte costituzionale, sia nella sentenza n. 34 del 1973 sia in quella in esame del 1993 n. 81, ritiene possibile solo mediante provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. Motivato in quanto ‘‘diretto a dimostrare la sussistenza in concreto di esigenze istruttorie volte al fine, costituzionalmente protetto, della prevenzione e della repressione dei reati’’ (sent. n. 73 del 1973). In conclusione, come avverte la Corte costituzionale, non è né consentito né necessario estendere il disposto dell’art. 266 e ss. c.p.p. ai dati esteriori delle conversazione telefonica; non è necessario, proprio perché l’art. 15 Cost., nella sua portata precettiva, appresta già di per sé ‘‘il livello minimo di garanzie’’ per evitare intrusioni illegittime nella libertà di comunicazione. Pertanto, secondo questo Collegio, deve essere disatteso l’orientamento giurisprudenziale in discussione, dovendosi affermare, invece, che non è utilizzabile il tabulato contenente l’indicazione dei dati ‘‘esteriori’’ delle conversazioni telefoniche (utenza da cui proviene la telefonata, numero chiamato, data, ora, e durata della conversazione), tutte le volte che sia stato acquisito agli atti senza l’autorizzazione motivata dell’autorità giudiziaria. 8. Ma, vi è di più. Perché la sentenza n. 81 dell’11 marzo 1993 richiede una rilettura, ovvero un aggiornamento della sua portata, alla luce della L. 23 dicembre 1993 n. 547 (dal titolo ‘‘Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica’’), normativa successiva alla sentenza stessa. Finora il rilievo di questa legge con riguardo alla questione in esame è stata trascurata, in giurisprudenza, non essendo stato considerato che la telefonia, in specie mobile, consente il trasporto di segnali non solo relativi alle conversazioni (con codificazione numerica e decodificazione), ma di qualunque tipo, sempre in forma numerica (bit), cioé di dati diversi dal contenuto delle conversazioni telefoniche. E di tali dati deve attualmente ritenersi consentita l’intercettazione in virtù proprio dell’art. 266-bis c.p.p. introdotto dalla nuova normativa.
— 736 — Ad avviso delle Sezioni Unite, la suddetta legge è venuta, così, a completare il quadro di tutela nel senso auspicato dalla Corte Costituzionale, quanto a presupposti, condizioni e modalità di acquisizione anche dei dati esterni alle comunicazioni telefoniche. Non resta, allora, che compiere una breve esegesi di detta normativa, passando poi a definirne l’ambito di operatività rispetto alla questione in esame. Come si diceva, con la L. n. 547 del 1993 è stato introdotto, nel Capo IV del Titolo III (Libro III), l’art. 266-bis, in base al quale la disciplina delle intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni telefoniche è stata estesa alle ‘‘intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche’’, cioè all’‘‘intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici ...’’. Appare evidente che la novità della citata previsione non è rappresentata dall’ammissibilità di intercettare il contenuto di conversazioni tra persone che vengono trasmesse con il sistema elettronico numerico oggi adottato nella telefonia, che già poteva farsi rientrare nell’art. 266, proprio perché detta norma (con il riferimento testuale ‘‘altre forme di telecomunicazione’’) rinviava ad ogni specie di telecomunicazione, idonea di per sé a convogliare le conversazioni tra persone. La novità è rappresentata, invece, ad avviso di questo Collegio, non solo dall’aver esteso l’ambito di ammissibilità delle intercettazioni ai procedimenti aventi ad oggetto i computer crimes, ma dall’aver consentito l’intercettazione dei flussi di dati numerici (bit), nell’ambito dei singoli sistemi oppure intercorrente tra più sistemi. Cioè, l’oggetto della tutela del Capo III concerne a questo punto, a seguito della modifica legislativa, non solo il contenuto delle conversazioni, con qualsiasi forma di telecomunicazione avvenga, ma tutti i dati informatici (sequenza di bit) in movimento nel sistema elettronico della telefonia, dall’ingresso in rete alla destinazione, nelle fasi quindi dell’ingresso, elaborazione, registrazione, comprensivo delle interconnessioni con altre reti o stazioni intermedie di comunicazione. Per intendere meglio la portata delle modifiche introdotte dalla L. n. 547 del 1993 per quanto concerne la problematica in esame, deve essere premesso che negli ultimi venti anni si è assistito ad una evoluzione della telefonia, non solo sotto l’aspetto quantitativo di utenze e di volume delle comunicazioni, ma soprattutto sotto il profilo tecnologico, nella ricerca di nuove prestazioni e nuovi servizi. Lo sviluppo è stato caratterizzato dal prevalere delle tecnologie elettroniche numeriche utilizzate nel trattamento dei segnali telefonici (conversazioni), e dei dati di qualunque tipo convogliati in rete per qualunque servizio, diverso e complementare rispetto alle conversazioni, quali ad esempio messaggi, e fax. In passato le suddette funzioni erano state svolte da un sistema elettromeccanico (i relé), con funzioni più elementari. Il nuovo sistema numerico è stato adottato in modo completo per la telefonia mobile, di recente diffusione; nella telefonia fissa, invece, la sua introduzione è in corso di completamento almeno nel nostro paese, richiedendo essa la sostituzione degli impianti preesistenti. Ora, mentre il sistema di tipo elettromeccanico della telefonia precedente, per le sue caratteristiche tecnologiche, non comportava il trattamento dei dati c.d. esterni alla conversazione, — la cui individuazione era possibile solo con una apposita ‘‘manovra’’ tecnica, definita ‘‘blocco’’ —, il sistema elettronico della telefonia mobile, in particolare, comprende necessariamente il trattamento dei dati con-
— 737 — cernenti: il numero dell’abbonato, l’identificazione della sua stazione e del suo indirizzo, il numero dell’abbonato chiamato, il numero degli scatti, il tipo, l’ora di inizio e la durata delle chiamate, il volume dei dati trasmessi, la data della chiamata o dell’utilizzazione del servizio. Tutti dati numerici questi, esterni alla conversazione, che vengono trattati e registrati ancorché alla chiamata non segua alcun colloquio o conversazione. Ed al riguardo, non può non riconoscersi — a conferma del principio enunciato dalla Corte costituzionale — che l’intento espressivo del chiamante si possa ritenere realizzato già con la scelta di comunicare con un altro soggetto (es. ‘‘squillo’’ telefonico). Senza contare, poi, che sovente il tempo, il luogo della chiamata, e alcune modalità della stessa (ove abbia una convenzionale durata o sia ripetuta con scansioni temporali concordate) possono conferire un contenuto comunicativo alla chiamata stessa. 9. Quanto sopra conduce, perciò, alla conclusione che, se la norma dell’art. 266, unitamente alle altre, comprese nello testo originario del Capo IV definiscono la disciplina delle intercettazioni delle conversazioni telefoniche, cioè concernono, come riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale, il contenuto delle comunicazioni, l’art. 266-bis e le altre correlate disposizioni che la L. n. 547 del 1993 ha introdotto nell’art. 268 c.p.p., attengono al flusso di dati diversi rispetto alla conversazione, e sono comprensivi anche dei dati ‘‘esterni’’ alle conversazioni stesse. E ciò appunto in quanto strumentali alla trattazione del complessivo flusso di dati relativi alla comunicazione, convogliata nel sistema. Il suddetto flusso di bit comprende — come anticipato — anche dati relativi al traffico dei servizi complementari, — alla telefonia mobile —, quali il servizio ‘‘messaggi’’ (es. tipo EMAIL, o Fax), che esulano anch’essi dalla nozione di ‘‘conversazione tra persone’’, nei sensi di cui all’art. 266, e che sono intercettabili solo a seguito della disciplina introdotta dalla L. n. 547 del 1993. Infine, va ricordato che le disposizioni introdotte nell’art. 268 c.p.p. dall’art. 12 L. n. 547 del 1993 contemplano il diritto della difesa ‘‘di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche’’ (comma 6), nonché il dovere del giudice di disporre con le forme e le garanzie della perizia ‘‘la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche ...’’, cioè appunto la formazione di ‘‘tabulati’’ (comma 7). 10. Ora, venendo appunto ai ‘‘tabulati’’, di cui alla questione di diritto in esame, essi costituiscono la documentazione in forma intellegibile del flusso informatico relativo ai dati esterni al contenuto delle conversazioni; stampa che fa parte peraltro, secondo la tecnica informatica, del ‘‘movimento’’ dei dati gestito dall’ente concessionario del servizio, nell’ambito del flusso costituito appunto dall’ingresso-elaborazione-registrazione e stampa. Sicché l’acquisizione del tabulato, rappresentando un momento del trattamento dei dati, non può che soggiacere alla stessa disciplina quanto a garanzie di segretezza e di libertà delle comunicazioni, a mezzo di sistemi informatici. Da quanto sopra deriva che il divieto di utilizzazione, previsto dall’art. 271 c.p.p., sia riferibile anche all’acquisizione dei tabulati tutte le volte che avvenga in violazione dell’art. 267, cioé in assenza del prescritto decreto motivato. Ciò non toglie che all’inutilizzabilità del tabulato, accertata dal giudice, possa far seguito, nello stesso procedimento, l’emissione del previsto decreto motivato
— 738 — per l’acquisizione dei relativi dati (estranei al contenuto della conversazione) presso l’ente gestore del servizio, dal momento che essi sono conservati, per il relativo trattamento, ai sensi dell’art. 4, comma 2, d.l.vo 13 maggio 1998 n. 171. Legittima acquisizione che può essere disposta nel corso delle indagini preliminari dal pubblico ministero e dal giudice che procede (art. 267), o dal giudice del dibattimento o di appello, rispettivamente ai sensi degli artt. 507 e 603 c.p.p. 11. Nel presente procedimento l’acquisizione dei tabulati è avvenuta invece su iniziativa della polizia giudiziaria; con la conseguenza che essi sono da ritenersi inutilizzabili, quali elementi di riscontro delle dichiarazioni del coindagato. Tali dichiarazioni, pertanto, prive di elementi di prova che siano tali da confermarne l’attendibilità (art. 192, comma 3, c.p.p.), non possono essere apprezzate come grave indizio di colpevolezza (art. 273 c.p.p.), non ‘‘presentando una consistenza indiziaria tale da fondare una qualificata probabilità di colpevolezza’’ (Corte cost. 18 luglio 1996 n. 314; Cass. Sez. Un., 1 agosto 1995, Costantino, Rv. 202001). Come premesso, il ricorrente è stato posto in libertà a seguito di revoca della misura custodiale. L’impugnata ordinanza va, pertanto, annullata senza rinvio. P.Q.M. — Annulla senza rinvio l’impugnata ordinanza. Così deciso in Camera di consiglio il 13 luglio 1998. (Omissis).
—————— (1-2)
Ambiguità giurisprudenziali sull’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico.
La questione di diritto sottoposta al vaglio della Suprema Corte giunge a conclusione di un conflitto ermeneutico che, nel corso degli ultimi anni, si era manifestato sia in dottrina che in giurisprudenza. In particolare, aldilà del dibattito tra gli studiosi (1) — che, non sempre, aveva portato a conclusioni univoche — sia gli interventi della giurisprudenza di legittimità che quelli della Corte Costituzionale avevano in effetti reso improcrastinabile una pronuncia delle Sezioni Unite che prendesse atto del contrasto sorto in subiecta materia e lo definisse anche alla luce delle recenti novità legislative. E del resto, la questione riguardante i criteri e le modalità di acquisizione dei (1) Per una panoramica generale sul problema delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, vgs. SPANGHER, La disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in Arch. pen., 1994, 3 e ss.; CAPRIOLI, Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, 143 e ss.; FUMU, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. II, UTET, Torino, 1990, 774 e ss.; UBERTIS-PALTRINIERI, Intercettazioni telefoniche e diritto umano alla privatezza nel processo penale, in questa Rivista, 1979, 593 e ss.; P. G. GROSSO, Intercettazioni telefoniche, in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1971, Vol. XXI, 889 e ss. il quale, già in epoca lontana, riteneva che i dati esteriori alle conversazioni telefoniche, ‘‘incidendo a loro volta sulla libertà e sulla segretezza delle comunicazioni, rientrano indubbiamente nella categoria delle intercettazioni lato sensu, ma per esigenze di chiarezza concettuale sono da tenere distinte dalla intercettazione in senso stretto, che, sulla falsariga del dettato legislativo, si è ritenuto di identificare esclusivamente nell’ascolto delle conversazioni telefoniche’’. Per un’ipotesi particolare, vgs. anche RAMAJOLI, Osservazioni sulla disciplina penale, sostanziale e di rito, delle conversazioni intercettate con l’impiego di apparecchi radioelettrici ricetrasmittenti, in Cass. pen., 1991, 636 e ss.
— 739 — tabulati del traffico telefonico nonché l’eventuale utilizzabilità del materiale probatorio acquisito in violazione di divieti costituzionali, aveva suscitato un considerevole interesse non soltanto a causa dell’attenzione rivolta dal Legislatore in occasione della normativa apportata in tema di criminalità informatica (L. 23 dicembre 1993 n. 547), ma anche a causa dell’elevata frequenza con cui gli uffici del pubblico ministero facevano (e continuano a fare) ricorso a tale mezzo di acquisizione probatoria che, in assenza di stringenti limiti normativi, sembrava ormai essere diventato una costante modalità investigativa. 1. Ciò posto, il quesito sul quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi riguarda la possibilità che, fermi restando i presupposti e le forme del provvedimento dispositivo dell’intercettazione di conversazioni telefoniche, ai sensi degli artt. 15 Cost. e 267 c.p.p., tale regime normativo possa estendersi anche ai casi in cui si proceda all’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico. In particolare, la quaestio iuris affronta il problema se l’acquisizione dei cd. dati esteriori delle conversazioni telefoniche (e, dunque, l’individuazione dell’utenza chiamante, di quella chiamata, della data, dell’ora e durata della conversazione telefonica nonché delle località dalle quali proviene o si riceve la comunicazione telefonica) possa, in qualche modo, godere delle stesse garanzie costituzionali — estrinsecate negli artt. 266 e ss. c.p.p. — che, secondo l’interpretazione più restrittiva, si ritengono appannaggio esclusivo delle intercettazioni del contenuto delle medesime conversazioni. Strettamente connessa alla problematica de qua, risulta, poi, essere quella concernente l’utilizzabilità o meno di tali acquisizioni probatorie in violazione della normativa in questione. 2. Partendo dall’esame dell’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale, appare opportuno ricordare una delle pronunce che ha poi aperto, sia in dottrina che in giurisprudenza, il dibattito sulle modalità di acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche. In effetti, la sentenza interpretativa di rigetto dell’11 marzo 1993 n. 81 (2) — immediatamente richiamata anche nella pronuncia che qui si annota — ha rappresentato il primo importante tentativo di definire la questione giuridica che, già allora, aveva determinato opinioni oscillanti tra il preminente interesse di tutelare il diritto fondamentale della libertà e della segretezza delle comunicazioni e il quotidiano, pressante interesse di acquisire utili elementi di prova attraverso una procedura più agevole, meno rigorosa nelle forme e maggiormente flessibile rispetto all’intercettazione del contenuto delle conversazioni. Orbene, la Consulta, pur prendendo le mosse dall’ampiezza della portata dell’art. 15 Cost. che, apprestando una specifica tutela alla libertà e alla segretezza della comunicazione, certamente ricomprende ‘‘fra i propri oggetti anche i dati esteriori di individuazione di una determinata conversazione telefonica’’, conclude nel senso di limitare la portata della normativa codicistica (artt. 266 - 271 c.p.p.) alle sole intercettazioni del contenuto di conversazioni o comunicazioni. Il Legislatore ordinario, cioè, pur potendosi muovere legittimamente nei margini fissati dalla Carta fondamentale, avrebbe adottato un’interpretazione restrittiva del dettato costituzionale, escludendo dalle cautele approntate dagli artt. 266 e ss. (2)
Corte cost., 26 febbraio-11 marzo 1993 n. 81, in Giur. it., 1993, I, 107 e ss. con nota di DI FI-
LIPPO, Dati esteriori delle comunicazioni e garanzie costituzionali; in Giur. cost., 1993, 731 e ss. con nota
critica di PACE, Nuove frontiere della libertà di ‘comunicare riservatamente’ (o, piuttosto, del diritto alla riservatezza)?, e di DOLSO, Ipotesi sulla possibilità di un diverso esito utilizzando il parametro della ‘ragionevolezza’, 2111 e ss.; in Cass. pen., 1993, 2741 e ss., con nota di POTETTI, Corte costituzionale n. 81 del 1993: la forza espansiva della tutela accordata dall’art. 15, comma 1 della Costituzione.
— 740 — c.p.p. (almeno fino alla L. n. 547 del 1993), l’acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche (3). Tali conclusioni trovavano, peraltro, le proprie giustificazioni anche nel necessario contemperamento di due contrastanti interessi che erano stati già oggetto dell’attenzione della Corte in un’altra importante pronuncia del 1973 (4). In particolare la Consulta — come si riporta nella sentenza n. 81 dell’11 marzo 1993 — aveva ‘‘affermato che ‘nell’art. 15 trovano protezione due distinti interessi: quello inerente alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost., e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale’ (v. anche sentt. nn. 120 del 1975, 98 del 1976, 223 del 1987 e 366 (5) del 1991)’’ (6). 3. La giurisprudenza di legittimità che si è formata a seguito del richiamato intervento del giudice delle leggi, pur dichiarando l’inutilizzabilità di quei tabulati del traffico telefonico acquisiti direttamente dalla polizia giudiziaria, senza il decreto motivato dell’Autorità giudiziaria (7), ciò nondimeno, si è allineata su quanto stabilito dalla Consulta, ritenendo pertanto che sebbene i dati esteriori delle conversazioni telefoniche siano sicuramente coperti dalla tutela accordata dall’art. 15 Cost., la relativa acquisizione non abbisogna di un atto autorizzativo del giudice che procede, bastando il decreto motivato del pubblico ministero. Di più: la minore garanzia apprestata dal codice ai dati esteriori delle conversazioni telefoniche sarebbe ulteriormente giustificata dal fatto che i tabulati, in (3) Sul punto, vgs. DI FILIPPO, op. e loc. citt., il quale ritiene che la Corte, pur non potendo accogliere la richiesta del giudice a quo di una pronuncia additiva, in quanto l’ambito normativo degli artt. 266 c.p.p. e ss. è limitato alle intercettazioni del contenuto delle conversazioni, ha preferito ‘‘invece limitarsi ad un generico riferimento alla possibilità del legislatore di stabilire più specifiche norme di attuazione dei predetti principi costituzionali. Ciò che ad essa interessa è affermare con chiarezza la nuova portata della disposizione costituzionale: l’applicabilità della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 15 Cost. anche nel caso dell’assunzione di informazioni sui dati esteriori di una comunicazione è in sostanza un risultato che la Corte — considerando anche gli effetti che sulla pratica processuale potrà avere una interpretazione costituzionale dotata dall’autorevolezza propria delle sue sentenze — reputa, in questo contesto, sufficiente’’. (4) Corte cost., 4-6 aprile 1973, n. 34, in Giur. cost., 1973, 316 e ss. con nota di GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche. (5) Nella sentenza n. 366 dell’11 luglio-23 luglio 1991, in Giur. cost., 1991, 2914 e ss., si legge che ‘‘in base all’art. 15 Cost.... il diritto a una comunicazione libera e segreta... è inviolabile nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria’’. (6) Corte cost., 26 febbraio-11 marzo 1993, n. 81, loc. cit. (7) Cass. Pen., Sez. feriale (IV), 14 settembre 1996, Serru, n. 2063, in C.E.D. Cass., n. 205985; id., Sez. I, 3 aprile 1996, D’Aquino, n. 1362, in Cass. pen., 1997, 1432; id., Cass. pen., Sez. VI, 10 febbraio 1996, Persichini, n. 2074, in Cass. pen., 1996, 3720, con nota di CAMON, Sulla inutilizzabilità nel processo penale dei tabulati relativi al traffico telefonico degli apparecchi ‘cellulari’ acquisiti dalla polizia senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria. In senso conforme, anche la giurisprudenza di merito che aveva stabilito che l’acquisizione dei dati esteriori dovesse essere motivatamente disposta almeno dal pubblico ministero, quale autorità giudiziaria, restando esclusa una competenza autonoma della polizia giudiziaria (Pretore di Venezia, 11 gennaio 1990, in Giur. merito, 1991, II, p. 614). Contra, Cass. Pen., Sez. I, 18 luglio 1995, Micic, n. 7994, in Cass. pen., 1996, 2624 o in Gius. pen., 1996, III, 600, in cui si riteneva che ‘‘il codice di procedura penale... all’art. 234, comma 1, stabilisce che è consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone, cose mediante la fotografia, la cinematografa, la fonografia o qualsiasi altro mezzo, con la sola esclusione delle ipotesi previste dal comma 3, tra le quali non sono comprese le attestazioni dei soli dati esteriori di conversazioni telefoniche, estranee all’ambito di applicazione dell’art. 15 Cost. e delle norme sulle intercettazioni telefoniche, riguardanti la conoscenza dei relativi contenuti. Il comma 1 dell’art. 234 non stabilisce formalità alcuna di acquisizione; pertanto nel caso in esame deve considerarsi regolare e utilizzabile l’allegazione al fascicolo processuale del tabulato SIP indicato’’.
— 741 — quanto documenti rappresantativi di fatti, ricadrebbero nella disciplina contenuta negli artt. 234 - 256 c.p.p. e non già in quella più specificamente prevista per le intercettazioni telefoniche (artt. 266 e ss. c.p.p.). Si è infatti sostenuto che nella disciplina de qua sono certamente ‘‘comprese le attestazioni dei soli dati esteriori di conversazioni telefoniche, estranee all’ambito di applicazione dell’art. 15 Cost. e delle norme sulle intercettazioni telefoniche, riguardanti la conoscenza dei relativi contenuti. Il comma 1 dell’art. 234 non stabilisce formalità alcuna di acquisizione; pertanto... deve considerarsi regolare e utilizzabile l’allegazione al fascicolo processuale del tabulato SIP...’’ (8). Con particolare riferimento alla sanzione dell’inutilizzabilità, si è poi ritenuto che quest’ultima non consegue a qualsiasi violazione di norme che regolano l’atto processuale, ma soltanto a quelle che consistano ‘‘in un divieto di acquisizione della prova, o a quelle per la cui violazione sia espressamente comminata dalla legge tale conseguenza, come avviene per i casi previsti dall’art. 271 c.p.p. in materia di risultati delle intercettazioni’’ (9), oltre a quelle che importino una violazione dei diritti fondamentali sanciti nella Carta costituzionale (10). 4. Per chiudere la panoramica sulla giurisprudenza che si è interessata alla questione, va infine ricordata l’ultima pronuncia della Corte costituzionale (11) che, solo un paio di mesi prima della sentenza annotata, si era ulteriormente espressa in subiecta materia, respingendo la questione di costituzionalità, per rite(8) Cass. pen., Sez. I, 18 luglio 1995, Micic, n. 7994, loc. cit. La stessa sentenza n. 81/1993 della Corte costituzionale, loc. cit., al riguardo, così stabiliva: ‘‘Oltre agli articoli... 266-271 c.p.p., assume sicuramente rilievo l’art. 256 c.p.p., il quale, nel regolare in via generale l’acquisizione di documenti coperti dal segreto professionale (o dal segreto di Stato), pone una disciplina applicabile anche all’ente gestore del servizio pubblico della telefonia e, pertanto, costituisce, per l’aspetto considerato, l’attuazione per via legislativa della tutela connessa al dovere di riserbo, implicitamente contenuto nell’art. 15 Cost. come garanzia istituzionale del diritto della persona alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni. Tuttavia, proprio in ragione della sua natura giuridica, tale garanzia... non può essere scambiata con la tutela direttamente attribuita ai soggetti della comunicazione in ordine alla segretezza della sfera privata che circonda l’esercizio della relativa libertà, se non altro perché oggetto della protezione accordata dall’art. 256 c.p.p. è immediatamente l’interesse sottostante all’attività professionale, e non già quello proprio dei soggetti della comunicazione, cioè degli utenti del servizio professionalmente erogato’’. Nel dettaglio, il Supremo Collegio di legittimità ha da ultimo affermato che ‘‘i tabulati in questione non sono che una registrazione e quindi una documentazione di un fatto storico (la telefonata come tale; non invece, il suo contenuto) già verificatosi. L’acquisizione dunque dei tabulati telefonici si concretizza nell’acquisizione di una documentazione già in possesso della Telecom. Una documentazione, si sottolinea, che comunque (indipendentemente dalla esistenza o meno di esigenze istruttorie) la Telecom possiede. Tutt’altra cosa è, ovviamente, l’intercettazione telefonica, la quale riguarda la possibilità di registrare ed apprendere il contenuto stesso delle telefonate, quali si verificheranno, e che viene disposta proprio per ragioni istruttorie... — pertanto — ... l’omessa motivazione del provvedimento con il quale il P.M. disponga l’acquisizione del tabulato relativo al traffico telefonico di un telefono cellulare non determina l’inutilizzabilità del tabulato stesso ai fini probatori...’’, Cass. pen., Sez. I, 21 gennaio 1998, Recchia, n. 6767, in Dir. pen. e proc., 1998, n. 4, 537. (9) Cass. pen., Sez. IV, 29 dicembre 1994, Benelucif, n. 1541, in C.E.D. Cass., n. 200001. In senso conforme, Id., Sez. I, 21 gennaio 1998, Recchia, n. 6767, loc. cit. (10) Già la sentenza n. 34/1973 della Corte costituzionale, loc. cit., aveva stabilito che ‘‘attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito’’. Con particolare riferimento ai limiti stabiliti nell’art. 15 Cost. le SS.UU., con la sentenza n. 5021 del 16 maggio 1996, Sala, in Dir. pen. e proc., 1996, n. 9, 1122, avevano precisato che ‘‘il diritto alla riservatezza della corrispondenza e di ogni mezzo di comunicazione non è che un aspetto essenziale della stessa inviolabilità della persona, e perciò è direttamente riconducibile nella categoria dei diritti inviolabili dell’uomo...non a caso infatti, ancor prima dell’entrata in vigore del nuovo codice, è stato proprio in tale specifica materia che si è venuta a delineare, ed in maniera prioritaria ed improcrastinabile, la necessità di affidare alla sanzione della inutilizzabilità il compito di garantire il procedimento acquisitivo della prova, allorquando questo poteva arrecare offesa a quel diritto di libertà che è così indissociabile dal doveroso rispetto della persona’’. (11) Corte cost., 17 luglio 1998 n. 281, in Gius. pen., 1998, 1, 353 con nota adesiva di BERTONI.
— 742 — nuto contrasto con l’art. 3, comma 1, Cost. dell’art. 267, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non estende la necessità del provvedimento autorizzativo del giudice che procede all’ipotesi di acquisizione dei dati esteriori delle comunicazioni telefoniche. In tale ultima occasione, i giudici delle leggi hanno conformemente ritenuto che ‘‘dal complesso delle norme previste negli articoli richiamati emerge — come già evidenziato dalla sentenza n. 81 del 1993 — che la disciplina è modellata con esclusivo riferimento all’intercettazione del contenuto delle conversazioni e comunicazioni e non è pertanto estendibile ad istituti diversi, quale l’acquisizione a fini probatori di notizie riguardanti il mero fatto storico della avvenuta comunicazione telefonica. Invero la disciplina applicabile all’acquisizione dei tabulati, nei cui confronti opera la tutela che l’art. 15 Cost. appresta alla libertà e alla segretezza di ogni forma di comunicazione, va ricercata... nell’art. 256 c.p.p., relativo al dovere di esibizione all’autorità giudiziaria di documenti riservati o segreti; disciplina alla quale sono peraltro sottese le irrinunciabili garanzie stabilite dall’art. 15, comma 2, Cost., secondo cui la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione possono essere limitate solo con atto dell’autorità giudiziaria, sorretto da adeguata e specifica motivazione’’. 5. Volgendo per un attimo lo sguardo anche al dibattito che si è prodotto in dottrina, da qualche anno a questa parte, si può osservare come gli stessi commentatori che più da vicino si sono occupati della questione non sempre hanno avuto opinioni collimanti. Ed infatti mentre per alcuni non appariva calzante un’applicazione analogica delle modalità acquisitive dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche a quelle dell’acquisizione documentale (12), altri autori ritenevano addirittura possibile, in via analogica, applicare all’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico la disciplina riguardante i sequestri (13). 6. Nel suddetto quadro ermeneutico, si inserisce la sentenza delle Sezioni Unite che, pur richiamando le precedenti pronunce, aggiunge indubbiamente alcuni elementi di novità al dibattito concernente i dati esteriori delle conversazioni telefoniche, offrendo un contributo senz’altro originale rispetto alle precedenti interpretazioni. La Suprema Corte, preliminarmente, richiamando le precedenti pronunce delle singole Sezioni, ritiene che non sia utilizzabile ‘‘il tabulato contenente l’indicazione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche ... tutte le volte che sia stato acquisito agli atti senza l’autorizzazione motivata dell’autorità giudiziaria’’. Si considera infatti che il livello minimo di garanzia previsto dall’art. 15 Cost. sia condizione necessaria anche per l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico. ‘‘Ma v’è di più — continua il Supremo Collegio —. Perché la sentenza n. 81 dell’11 marzo 1993 richiede una rilettura, ovvero un aggiornamento della sua portata, alla luce della L. 23 dicembre 1993 n. 547, normativa successiva alla sentenza stessa... E di tali dati diversi dal contenuto delle conversazioni telefoniche deve attualmente ritenersi consentita l’intercettazione in virtù proprio dell’art. 266-bis c.p.p. (14) introdotto dalla nuova normativa. Ad avviso delle Sezioni Unite, la suddetta legge è venuta, così, a completare il quadro di tutela nel senso auspicato dalla Corte costituzionale, quanto a presupposti, condizioni e modalità di acquisizione anche dei dati esterni alle comunicazioni telefoniche... (12) Vgs. FILIPPI, L’intercettazione di comunicazioni, Giuffrè, Milano, 1997, 27 e ss. (13) Vgs. CAMON, Sulla inutilizzabilità nel processo penale dei tabulati relativi al traffico telefonico degli apparecchi cellulari, acquisiti dalla polizia senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, in Cass. Pen., 1996, 3721 e ss. (14) Rubricato ‘‘Intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche’’.
— 743 — ...l’art. 266-bis e le altre correlate disposizioni che la L. n. 547 del 1993 ha introdotto nell’art. 268 c.p.p., attengono al flusso di dati diversi rispetto alla conversazione, e sono comprensivi anche dei dati ‘esterni’ alle conversazioni stesse.... Da quanto sopra deriva che il divieto di utilizzazione, previsto dall’art. 271 c.p.p., sia riferibile anche all’acquisizione dei tabulati tutte le volte che avvenga in violazione dell’art. 267, cioè in assenza del prescritto decreto motivato. ...legittima acquisizione che può essere disposta nel corso delle indagini preliminari dal pubblico ministero e dal giudice che procede (art. 267), o dal giudice del dibattimento o di appello, rispettivamente ai sensi degli artt. 507 e 603 c.p.p.’’. 7. Orbene, ad avviso di chi scrive, per quanto la sentenza in questione giunga a conclusioni senz’altro più condivisibili rispetto a quelle cui erano pervenute le singole Sezioni della Corte di legittimità, ciò nonostante, rivolgendo attenzione alle motivazioni addotte, oltre a ritenere parzialmente inconferenti i presupposti da cui si muove, si ha comunque l’impressione di essere dinanzi ad un’altra pronuncia che, pur nel mirabile intento di estendere le garanzie codicistiche all’attività acquisitiva dei cd. dati esteriori delle comunicazioni, è connotata da aspetti non completamente univoci che impediscono un chiarimento definitivo sulla questione devoluta alle Sezioni Unite. 8. La prima critica che può essere mossa all’impostazione seguita dalle Sezioni Unite riguarda proprio il presupposto da cui si muove: il Supremo collegio, infatti, ritiene che, in ordine all’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico, l’indirizzo interpretativo debba essere mutato in ragione delle integrazioni subite dal codice di procedura penale a seguito della L. 23 dicembre 1993 n. 547. La Corte di legittimità, in particolare, si riferisce all’introduzione dell’art. 266-bis c.p.p. che, quale norma parallela all’art. 266 c.p.p., ha previsto che ‘‘nei procedimenti relativi ai reati indicati nell’art. 266, nonché a quelli commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche, è consentita l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi’’. Con tale norma, sostengono le Sezioni Unite, si è colmata la lacuna normativa che precedentemente impediva l’estensione delle modalità di acquisizione di cui all’art. 267 c.p.p. all’ipotesi di acquisizione dei tabulati del traffico telefonico e che provocava un’evidente disparità di trattamento, in quanto anche l’acquisizione del semplice dato storico delle avvenute conversazioni telefoniche comunque violava il carattere della segretezza delle comunicazioni, che pur godeva della guarentigia costituzionale. Senonché, se si considerano le ragioni che hanno spinto il Legislatore ad emanare la normativa di cui alla L. n. 547 del 1993, si può notare come quest’ultime siano del tutto estranee al problema che più da vicino ci riguarda. Ed infatti, leggendo la Relazione (15) che ha accompagnato il relativo disegno di legge, ci si può accorgere come il Legislatore, nella redazione dell’articolato, abbia perseguito quale unica finalità quella della repressione dei delitti che vengono perpetrati attraverso i sistemi informatici e/o telematici, senza neanche porsi il problema di dover rimediare ad una lacuna legislativa che, a seguito dei disorientanti indirizzi giurisprudenziali, era stata pure indirettamente invocata. In particolare, il disegno di legge muove dalla necessità di disciplinare, sanzionandoli penalmente, l’intrusione e il sabotaggio dei sistemi informatici o tele(15) In Atti Parlamentari, Camera dei Deputati n. 2773, Disegno di Legge presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia (CONSO), Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica.
— 744 — matici (16) che ‘‘possono provocare danni notevoli alla vita economica e sociale del paese’’ (17), mentre, in materia di intercettazioni telefoniche, si avverte l’esclusiva opportunità di coordinare ‘‘le disposizioni della legge processuale... con le nuove figure sostanziali di reato. Ed è quanto, appunto, si è fatto con la proposta di introduzione dell’art. 266-bis e di modifica dell’art. 268 del nuovo codice di procedura penale’’. Nessun riferimento viene pertanto fatto alla necessità di operare un’equiparazione normativa tra l’intercettazione del contenuto delle conversazioni telefoniche e l’acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni stesse (18), badando esclusivamente il Legislatore a disciplinare l’acquisizione di quei mezzi di prova più idonei all’accertamento della commissione di queste nuove figure delittuose. A riprova di quanto dedotto, i primi commentatori della nuova legge, con riferimento alle modifiche apportate al codice di procedura penale, si sono preoccupati di sottolineare soltanto come ‘‘l’art. 266-bis c.p.p. (introdotto dall’art. 11 della L. n. 547 del 1993 citata) consente la intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche non soltanto nei procedimenti relativi ai reati previsti nell’art. 266 c.p.p., ma anche in tutti i procedimenti relativi ai reati commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche’’ (19). Ancora. Gli studiosi che si sono recentemente occupati della pronuncia del Supremo collegio, pur raggiungendo conclusioni non sempre concordanti, hanno unanimemente sottolineato con forza il ‘‘clamoroso equivoco, nel quale le Sezioni Unite sono evidentemente incorse allorquando hanno inteso equiparare le comunicazioni informatizzate (la disciplina delle intercettazioni delle quali è contenuta in quelle disposizioni) con l’informatizzazione dei dati estranei al contenuto riservato delle comunicazioni telefoniche governata dal gestore del servizio pubblico di (16)
Sul significato precipuo di ‘‘informatico’’ o ‘‘telematico’’, vgs. BORRUSO-BUONOMO-CORASA-
NITI-D’AIETTI, Profili penali dell’informatica, Giuffrè, Milano, 1994, 7 e ss. Per un approfondimento più
aggiornato della materia, vgs. PICA, Il diritto penale delle tecnologie informatiche, UTET, Torino, 1999, 22 e ss. (17) Disegno di Legge, pag. 3, loc. cit. (18) Nel corpo della Relazione al Disegno di Legge, e con particolare riferimento agli artt. 11 e 12, si legge che ‘‘L’art. 11 prevede, quanto al primo aspetto, una positiva regolamentazione delle intercettazioni di comunicazione informatiche o telematiche, sancendone l’ammissibilità negli stessi limiti (di pena edittale o per titolo di reato) entro i quali è oggi consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre forme di telecomunicazione, estendendone però l’ambito ad altri illeciti comunque commessi per mezzo di tecnologie informatiche o telematiche. In ordine al secondo profilo, invece, l’art. 12 contiene un’interpolazione dell’art. 268 del codice di procedura penale, intesa a far si che le intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche, allorché consentite dall’introducendo art. 266-bis del codice di procedura penale (e nel pieno rispetto delle garanzie difensive previste nel capo IV del titolo III del libro III dello stesso codice, debitamente integrate in riferimento a questo tipo di intercettazioni), possano essere effettuate, tenuto conto anche di quanto previsto dall’art. 348, comma 4 del codice di procedura penale, mediante impianti appartenenti a privati, allorché ricorra l’esigenza di disporre di peculiari strutture o di speciali apparecchiature’’. (19) BORRUSO ed altri, op. cit., 143 e ss. In senso conforme, PICA, op. cit., passim. Per un approfondito commento dell’art. 11 della legge n. 547 del 1993, vgs. anche UGGOCCIONI, Commento agli artt. 11, 12 e 13 della legge 23 dicembre 1993, n. 547, in Leg. pen., 1996, 140 e ss. Anche recentemente, l’esame del nuovo art. 266-bis c.p.p. non ha suscitato alcun interesse in ordine all’acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche. A tal riguardo, infatti, si è esclusivamente ribadito che ‘‘L’articolo, inserito dall’art. 11, l. 23 dicembre 1993 n. 547, oltre a prevedere l’intercettazione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche nei casi già consentiti dall’art. 266, estende la possibilità di tali intercettazioni anche ai reati commessi mediante l’impiego di tecnologie idonee alla gestione di quelle comunicazioni. Sicché la norma opera su due piani: per un verso estende alle intercettazioni informatiche e telematiche la disciplina generale delle intercettazioni di conversazioni; per altro verso aggiunge a quelle previste dall’art. 266 altre ipotesi di reato che consentono di autorizzare le intercettazioni informatiche o telematiche’’, NAPPI, Art. 266-bis. Intercettazioni di Comunicazioni informatiche o telematiche, in Codice di procedura penale, Atti e Prove, a cura di LATTANZI-LUPO, Vol. II, Giuffrè, Milano, 1998, 804 e s.
— 745 — telefonia secondo i criteri oggi regolati dal d.l.vo del 13 maggio 1998 n. 171 ...’’ (20). Alla stregua di quanto su esposto, il riferimento normativo fatto dalle Sezioni Unite appare non soltanto inconferente in punto di diritto ma, anche qualora si dovesse ritenere corretto sotto il profilo giuridico, sarebbe affatto intempestivo, in quanto arriva a quasi cinque anni dall’emanazione della normativa che avrebbe chiarito l’applicazione della disciplina nella prassi procedurale. 9. Altra critica che può ragionevolmente muoversi alla sentenza annotata riguarda le conclusioni cui pervengono le Sezioni Unite che, per quanto, nelle relative premesse, abbiano opportunamente manifestato l’avviso di una necessaria estensione delle formalità previste dagli artt. 266 e ss. c.p.p. alle modalità di acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche, ciò nonostante, non chiariscono definitivamente se l’attuale sistema normativo consenta una completa equiparazione tra le due attività di ricerca dei mezzi di prova. In particolare, nelle conclusioni del Supremo organo di legittimità, al contrario delle ragionevoli aspettative, non sembra vi sia una presa di posizione netta sulla necessità che l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico debba essere subordinata ad un provvedimento giurisdizionale di autorizzazione di una previa richiesta formulata dal pubblico ministero, così come viene disciplinato, all’art. 267, comma 1, c.p.p., per le intercettazioni telefoniche vere e proprie. Sul punto, infatti, la Suprema Corte, in diversi passaggi della sentenza, gioca ancora sull’ambiguità del termine di decreto motivato dell’‘‘Autorità giudiziaria’’, senza specificare in modo univoco se tale decreto, ai fini della ritualità dell’acquisizione e della conseguente utilizzabilità della prova, debba necessariamente essere emanato, sotto forma di autorizzazione, dal giudice che procede, successivamente ad una apposita richiesta dell’organo della pubblica accusa, ovvero possa essere direttamente emesso dal pubblico ministero, rivestendo anch’esso la qualità di Autorità giudiziaria. Certamente meno ambiguo, ma non del tutto risolutivo sembra essere il breve passaggio conclusivo delle Sezioni Unite in cui si stabilisce che l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico ‘‘...può essere disposta nel corso delle indagini preliminari dal pubblico ministero e dal giudice che procede (art. 267), o dal giudice del dibattimento o di appello, rispettivamente ai sensi degli artt. 507 e 603 c.p.p.’’. Al riguardo, infatti, va sottolineato che sia l’anodina espressione impiegata dalla Suprema Corte (‘‘... dal pubblico ministero e dal giudice che procede...’’) — quasi a voler intendere che entrambi i soggetti processuali possano disporre tale (20) MELILLO, L’acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico fra limiti normativi ed equivoci giurisprudenziali, in Cass. pen. 1999, 156, il quale, pur ritenendo che l’attuale sistema normativo consente esclusivamente una ‘‘puntuale motivazione del decreto di acquisizione ex art. 256 c.p.p.’’, ha peraltro aggiunto come la Corte sembri dimenticare che la possibilità di acquisire i tabulati del traffico telefonico ‘‘potrebbe realizzarsi soltanto nei limiti definiti dal decreto appena citato — d.l.vo. 13 maggio 1998 n. 171 — che (con disposizione opinabilmente condizionante le attività di istruzione penale secondo limiti temporali individuati in forza di istituti di diritto privato), fa obbligo (art. 4 comma 2) all’ente gestore del servizio di distruggere i dati memorizzati alla fine del periodo durante il quale può essere legalmente contestata la fattura o il preteso pagamento e, perciò, una volta decorsi i cinque anni dalla data delle comunicazioni telefoniche ai quali si riferiscono, con intuibili effetti di dispersione della prova già raggiunta nei procedimenti nei quali l’acquisizione sia intervenuta prima di quel termine...’’. In senso conforme vgs. anche ZACCHÉ, Acquisizione di dati esterni ai colloqui telefonici, in Dir. penale e processo, 1999, n. 3, 339, il quale, pur ritenendo giuridicamente non prospettabile un’equiparazione tra l’acquisizione dei dati esteriori delle comunicazioni a quella dei documenti ai sensi degli artt. 254 - 256 c.p.p., ciò nondimeno, conclude senza assumere una netta posizione in ordine ad una più specifica indicazione del necessario decreto motivato dell’‘‘Autorità giudiziaria’’. Anche FILIPPI, op. cit., 82, considera come ‘‘L’interpretazione sistematica degli artt. 266 e 266-bis c.p.p. induce a ritenere che il legislatore abbia voluto riservare l’intercettazione informatica ai soli reati introdotti dalla citata legge 23 dicembre 1993 n. 547’’.
— 746 — mezzo di ricerca di prove — sia la completa omissione di una approfondita motivazione del passaggio conclusivo, sembrano essere dati che non solo non contribuiscono, sul piano teorico, a risolvere la questione in maniera definitiva, ma che non consentono, sul piano pratico, una presa di posizione ferma in ordine all’autonomia comunque esercitata da quegli Uffici del pubblico ministero, che, a dispetto dell’art. 267, comma 1, c.p.p., acquisiscono direttamente i dati esteriori delle conversazioni telefoniche, senza chiedere alcuna autorizzazione al giudice procedente. E purtroppo, posizioni non meno ambigue ed oscillanti, sulla questione, sono state assunte anche dagli studiosi della materia, atteso che se da una parte si è ritenuto che ‘‘una volta riconosciuta la segretezza anche dei dati esteriori della comunicazione, l’art. 15 Cost. impone il rispetto della duplice riserva di legge e di giurisdizione’’ (21), si è d’altra parte considerato che il cd. ‘‘blocco (22) può quindi essere disposto solo da un atto motivato dell’autorità giudiziaria... L’art. 15 Cost. prevede due riserve, di legge e di giurisdizione; la seconda non ha bisogno di essere attuata per mezzo di un intervento normativo apposito (rispetto al principio costituzionale, è sufficiente che, nel caso concreto, intervenga un magistrato)’’ (23). 10. Orbene, venendo ad alcune riflessioni, va considerato che per quanto l’inconferenza del richiamo normativo alla L. n. 547 del 1993 e la non univocità delle conclusioni della pronuncia (24) risultino evidenti, l’indirizzo tracciato dall’organo di legittimità ha senza dubbio avuto il merito di invertire l’approccio er(21) FILIPPI, op. cit., 27. Anzi, ad ulteriore giustificazione di una più netta equiparazione dell’acquisizione dei dati esteriori all’intercettazione del contenuto delle conversazioni telefoniche, l’Autore ha altresì ritenuto che ‘‘L’art. 256 c.p.p., il quale ha ad oggetto ‘atti e documenti’ nonché ‘ogni altra cosa’, mal si presta all’acquisizione di notizie che, per riconoscimento della Corte costituzionale, sono tutelate quanto alla segretezza dall’art. 15 Cost. Infatti la norma non pone alcuna delle ‘garanzie stabilite dalla legge’ prescritte dall’art. 15, comma 2 Cost. Nemmeno i ‘casi e modi’ dell’acquisizione dei dati esteriori della comunicazione, in analogia a quanto gli artt. 13 e 14 Cost. esigono per la libertà personale e per quella domiciliare, sono specificati. L’art. 256 c.p.p. non precisa per quali reati l’acquisizione è ammessa (sicché, nel silenzio della legge, l’acquisizione stessa resta consentita per qualsiasi reato, anche contravvenzionale e pure se punito con pena pecuniaria), né indica il presupposto (ad esempio i ‘gravi indizi di reato’) e le finalità (quanto meno il ‘fondato motivo’ di ritenere che i dati siano utili all’indagine o alla ricerca del latitante), né l’oggetto dell’acquisizione (cioè la specificazione dei periodi di durata del controllo). Infine esso non prevede garanzie difensive, che, a differenza del caso d’intercettazione, potrebbero essere contemporanee all’acquisizione del documento per selezionare le comunicazioni utili alla difesa, oltre che successive (modalità e tempi del deposito dei risultati dell’acquisizione e del successivo ‘stralcio’), né i divieti di acquisizione e utilizzazione (nemmeno per casi estremi di difetto del provvedimento dell’autorità giudiziaria), né forme di controllo sulla legittimità del provvedimento di acquisizione, né infine alcuna tutela della riservatezza sulle comunicazioni non rilevanti per il procedimento. Pertanto l’art. 256, comma 1 c.p.p. si pone in stridente contrasto con la riserva di legge prescritta dall’art. 15, comma 2 Cost. e con il principio di legalità dettato dall’art. 8 della Convenzione europea. Anche la riserva di giurisdizione, intesa come monopolio del giudice e quindi esclusione del pubblico ministero, è violata dall’art. 256, comma 1, c.p.p... È perciò auspicabile un intervento del legislatore che disciplini la materia nel rispetto della duplice riserva prescritta dall’art. 15 comma 2 Cost.’’, ibidem. (22) Così viene definita l’attività di acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche. (23) CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1996, 29. (24) Sul punto, vgs. anche BRICHETTI che sembra concordare sull’ambiguità della decisione delle Sezioni Unite, laddove, dopo aver ritenuto che ‘‘La Corte non lo afferma espressamente, ma sembra del tutto evidente che l’’utilizzabilità presupponga altresì la preventiva autorizzazione del giudice (del Gip, nella fase delle indagini preliminari), prevista dal comma 1 dell’art. 267 c.p.p.’’, aggiunge che, ad ogni modo, ‘‘La parte conclusiva della decisione delle Sezioni Unite non è, comunque, un esempio di chiarezza... La perplessità è strettamente consequenziale all’ermetica sinteticità dei passaggi fondamentali della decisione delle Sezioni Unite e, al tempo stesso, a una valutazione globale della pronuncia’’. L’Autore fa poi riferimento ad un’ordinanza del G.I.P. di Milano del 1o dicembre 1998 (estensore, Pistorelli) che, ritenendo sufficiente il decreto del pubblico ministero, ha dichiarato ‘‘non luogo a provvedere’’ sulla richiesta di autorizzazione avanzata dallo stesso p.m. in ordine all’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico.
— 747 — meneutico finora riscontrato sia nelle decisioni delle singole sezioni (25) sia, principalmente, della Corte costituzionale. Partendo infatti dalle opinioni consolidate, in base alle quali, i dati esteriori delle conversazioni telefoniche rientrano assolutamente nella tutela dell’art. 15 Cost., non sembra revocabile in dubbio che i medesimi possano acquisirsi esclusivamente ‘‘per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge’’. Senonché, se tale genericità è certamente consentita in ambito costituzionale, ovvero nell’ambito in cui ci si deve limitare a tracciare le direttive generali e i margini entro i quali dovrà poi muoversi il Legislatore ordinario, ciò nondimeno, in sede di legislazione ordinaria, tali direttive devono evidentemente estrinsecarsi in una normativa più specifica, che possa applicarsi nel modo più idoneo alle fattispecie concrete. Ciò posto, vi sono più ragioni perché la disciplina contenuta nell’art. 267, comma 1, c.p.p. (che impone la necessità del decreto autorizzativo del giudice), possa e debba applicarsi anche all’ipotesi dell’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico. Al riguardo, infatti, sin dal 1973 (26), la Corte costituzionale — in questo seguita dallo stesso organo di legittimità — aveva sottolineato come la disciplina concernente la libertà e la segretezza delle comunicazioni unitamente alle compressioni del medesimo diritto fondamentale siano il frutto del contemperamento di due contrastanti principi (libertà e segretezza delle comunicazioni, da una parte, ed esigenza di prevenire e reprimere i reati, dall’altra) che, almeno astrattamente, hanno la medesima dignità, in quanto tutelati entrambi dalla Carta costituzionale (27). Ora, a prescindere dal fatto che, nel caso in questione, l’interesse a ‘‘prevenire e reprimere i reati’’ non sarebbe mai realizzabile, in quanto il cd. blocco telefonico consente la mera acquisizione di un dato storico, relativo ad una realtà non attuale ma già trascorsa, ciò nondimeno, se la scelta dell’individuazione dell’Autorità giudiziaria ricadesse sul pubblico ministero, ci troveremmo indubbiamente dinanzi ad una situazione affatto preoccupante se si considera che l’organo della pubblica accusa, cui è certamente devoluto l’obbligo (se non di ‘‘prevenire’’ quanto meno) di perseguire e ‘‘reprimere i reati’’, verrebbe in maniera del tutto arbitraria ad accentrare in sé anche il potere di valutare se le esigenze investigative possano comportare, caso per caso, una violazione della libertà e della segretezza delle comunicazioni. E nell’attuale sistema processuale, si può immaginare quale tipo di tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni possa garantire il pubblico ministero, vincolato, com’è, all’esercizio obbligatorio dell’azione penale. In tale situazione, ad usare un’espressione eufemistica, ci troveremmo dinanzi (25) Al riguardo, onde dimostrare l’ambiguità tenuta dal Supremo organo di legittimità in subiecta materia, vgs. Cass. pen., Sez. I, 3 aprile 1996, D’Aquino, n. 1362, loc. cit., in cui, richiamando la sentenza n. 81/93 della Corte costituzionale, si stabilisce che ‘‘ai fini della legittimità dell’acquisizione di qualsivoglia informazione o dato comportante intromissione nella sfera privata, attinente il diritto inviolabile della libertà e segretezza delle comunicazioni — fra cui anche l’acquisizione di informazioni e notizie idonee ad identificare i dati esteriori delle conversazioni telefoniche (autori della comunicazione, tempo e luogo della stessa) — è necessario un atto dell’autorità giudiziaria (sia esso P.M., GIP o giudice del dibattimento)...’’. (26) Ci si riferisce, ovviamente, alla sentenza n. 34/73, loc. cit. (27) Anche in un’altra pronuncia della Corte costituzionale, la n. 366/1991, loc. cit., si legge che ‘‘in base all’art. 15 Cost.... il diritto a una comunicazione libera e segreta... è inviolabile nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria’’.
— 748 — ad un organo non completamente sereno per valutare le esigenze e l’interesse relativi alla segretezza delle conversazioni dell’indagato o dell’imputato. Già questo giustificherebbe ampiamente la necessità che sull’acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche si esprimesse un giudice terzo che, al contrario dell’organo della pubblica accusa, si trovi in una situazione di equidistanza tra il principio della libertà e della segretezza delle comunicazioni da una parte e quello della persecuzione e repressione dei reati dall’altra (28). Altre motivazioni, tuttavia, potrebbero giustificare quanto sopra dedotto. In particolare, è stato affermato che la tutela ed il rilievo (anche probatorio) del contenuto delle conversazioni telefoniche appaiono senz’altro più delicati e degni di maggiore rigore di quelli del mero dato esteriore delle medesime comunicazioni, così giustificando la mancata estensione delle garanzie di cui all’art. 267 c.p.p. all’ipotesi dell’acquisizione dei dati esteriori. Senonché, a parte il fatto che sotto il profilo probatorio il mero dato esteriore può talvolta avere il medesimo rilievo della conoscenza del contenuto della conversazione (29), non si comprende perché per Autorità giudiziaria debba apoditticamente ritenersi pubblico ministero. Ed infatti, è pur vero che, facendo parte le intercettazioni telefoniche dei mezzi di ricerca della prova, la loro acquisizione dovrebbe pertenere esclusivamente all’organo della pubblica accusa, anche per preservare la naturale terzietà del giudice, tuttavia, allorquando nell’attività di ricerca della prova si debba necessariamente incorrere in limitazioni di diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, l’intervento del giudice appare invero necessario, dovendosi contemperare la coesistenza di due contrastanti interessi di pari dignità. Per lo stesso motivo, dunque, indipendentemente dal fatto che vengano acquisiti semplicemente dati esteriori e non già contenutistici di conversazioni telefoniche, in ossequio ad una più rigorosa osservanza dei ruoli processuali, si ritiene necessario che anche l’acquisizione del tabulato telefonico venga acquisito solo dopo un vaglio giurisdizionale che decida sulla necessità del verificarsi di limitazioni di diritti fondamentali. Poste queste premesse di necessaria equiparazione tra le garanzie costituzionali concernenti le intercettazioni vere e proprie e quelle concernenti i dati esteriori delle stesse, e preso atto, al contrario di quanto ritenuto dalle Sezioni Unite, che la disciplina di cui alla L. n. 547 del 1993 non sana in alcun modo la lacuna codicistica, la risoluzione del problema, in assenza di un auspicabile, espresso dato normativo, potrebbe essere prospettata attraverso il ricorso ad un’interpretazione estensiva o analogica degli artt. 266 e 267 c.p.p. (28) Tale esigenza era stata del resto già intesa dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 34/73, loc. cit., nella quale, senza lasciare adito a dubbi, si stabiliva che ‘‘Nel nostro sistema quindi la compressione del diritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche, che l’intercettazione innegabilmente comporta, non resta affidata all’organo di polizia, ma si attua sotto il diretto controllo del giudice. È al magistrato che la legge riconosce il potere di disporre l’intercettazione e dalla legge stessa sono desumibili i limiti di siffatto potere. La richiesta di provvedimenti autorizzativi della intercettazione va valutata con cautela scrupolosa giacché da provvedimenti del genere deriva una grave limitazione alla libertà e segretezza delle comunicazioni. Nel compiere questa valutazione il giudice deve tendere al contemperamento dei due interessi costituzionali protetti onde impedire che il diritto alla riservatezza delle comunicazioni venga ad essere sproporzionalmente sacrificato dalla necessità di garantire una efficace repressione degli illeciti penali. A tal fine è indispensabile che accerti se ricorrano effettive esigenze, proprie dell’amministrazione della giustizia, che realmente legittimino simile forma di indagine e se sussistano fondati motivi per ritenere che mediante la stessa possano essere acquisiti risultati positivi per le indagini in corso. Del corretto uso del potere attribuitogli il giudice deve dare concreta dimostrazione con una adeguata e specifica motivazione del provvedimento autorizzativo’’. (29) Si prenda, per esempio, in considerazione l’ipotesi di un procedimento per il reato di ‘‘corruzione in atti giudiziari’’: in questo caso, prova senz’altro rilevante per l’ipotesi accusatoria sarebbe rappresentata dal mero dato esteriore della telefonata tra l’utenza intestata all’imputato e quella intestata al giudice.
— 749 — Va peraltro immediatamente sottolineato come i suddetti rimedi, pur rappresentando un approfondimento della questione giuridica in parola, non appaiono completamente risolutivi. Ed infatti, l’adozione di un’interpretazione estensiva degli artt. 266 e 267 c.p.p. (che estenderebbe appunto il significato di ‘‘intercettazione di conversazioni o comunicazioni’’ ai relativi dati esteriori), per quanto prospettabile in punto di diritto, non coglierebbe completamente la voluntas legis che, all’epoca della redazione del nuovo codice di rito, a parere di chi scrive, non si era proprio posta il problema dell’acquisizione dei dati esteriori delle conversazioni telefoniche (30). In tale contesto, sembrerebbe allora preferibile risolvere la questione mediante un’applicazione analogica della disciplina in esame all’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico. Sul punto, la dottrina (31) è intervenuta più volte per definire la questione concernente la possibilità che le disposizioni che regolano un atto processuale penale, espressamente disciplinate dal Legislatore per una particolare fattispecie, possano trovare analogicamente applicazione anche in altre simili fattispecie in cui, pur non essendo specificamente previste, risulterebbero comunque idonee al raggiungimento del fine perseguito (in questo caso, l’acquisizione di un mezzo di prova). La questione, in linea generale, sulla base del disposto dell’art. 12, comma 2, preleggi, è stata sempre risolta nel senso di ammettere (32) l’analogia delle predette disposizioni processuali penali, anche perché un espresso divieto del procedimento analogico è stato previsto soltanto per il diritto sostanziale (33). Lo stesso principio di tassatività delle nullità, fissato dall’art. 177. c.p.p. — secondo cui ‘‘L’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge’’ (34) —, sembrerebbe fornire un ulteriore avallo all’applicabilità dell’analogia. Ciò nondimeno, non sono mancate le interpretazioni che, rispetto alla possi(30) A tal riguardo, la Corte costituzionale, con la richiamata sentenza n. 81/93, loc. cit., aveva in effetti ritenuto che ‘‘...non vi può esser dubbio che, conformemente a quanto afferma la giurisprudenza di merito, la particolare disciplina predisposta dagli artt. 266-271 c.p.p. sulle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni telefoniche si applica soltanto a quelle tecniche che consentono di apprendere, nel momento stesso in cui viene espresso, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, contenuto che, per le modalità con le quali si svolge, sarebbe altrimenti inaccessibile a quanti non siano parti della comunicazione medesima... la riferibilità delle disposizioni indicate esclusivamente all’intercettazione del contenuto di conversazioni telefoniche si deduce con estrema chiarezza dal complesso delle norme previste in quegli articoli, le quali descrivono operazioni e modalità di azione in grado di assumere un qualche significato normativo soltanto ove siano poste in essere in relazione con l’apprensione e l’acquisizione del contenuto di comunicazioni (v. specialmente gli artt. 268 e 269 c.p.p., nonché anche gli artt. 89 e 90 disp. att. c.p.p.)’’. (31) Fondamentali per lo studio dell’analogia sono stati gli scritti di BOBBIO. Per ricordarne solo alcuni: BOBBIO, Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione estensiva e analogia, in Giur. it., 1968, I, 695 e ss.; voce Principi generali di diritto, in Noviss. dig. it., Utet, vol. XIII, 1966, 887; voce Analogia, in Noviss. Dig. It., Utet, vol. I, 1957, 601; Intorno al fondamento del procedimento per analogia, in Giur. it., 1951, I, 229; L’analogia nella logica del diritto, Memorie dell’Istituto giuridico, vol. XXXVI, Torino, 1938. Sul punto vgs. anche: VELLUZZI, Analogia giuridica ed interpretazione estensiva: usi ed abusi in diritto penale, Università degli Studi di Siena, Siena, 1996; ROMEO, Analogia: per un concetto relazionale di verità nel diritto, Cedam, Padova, 1990; BOSCARELLI, Analogia ed interpretazione estensiva nel diritto penale, Palermo, 1955. (32) Sul punto, vgs. VASSALLI, voce Analogia, Digesto - Discipline Penalistiche, Utet, Torino, 1987, vol. I, 171. (33) Il diritto sostanziale peraltro la consente eccezionalmente quando venga applicata in bonam partem. (34) Al riguardo, vgs. LOZZI, op. e loc. citt.; un altro espresso richiamo al procedimento analogico viene fatto da POTETTI, op. e loc. citt., che reputa ‘‘corretto sostenere che le garanzie in questione possano ricavarsi direttamente dall’ordinamento giuridico per virtù del procedimento analogico di cui all’art. 12 delle preleggi (ricorso alla disciplina dei casi simili o materie analoghe nonché ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello stato)’’.
— 750 — bilità di un’applicazione analogica delle norme processuali penali, sono andate di contrario avviso, ritenendo che disciplinando quest’ultime un atto a forma vincolata (35), non possano godere di un’applicazione analogica, a differenza, invece, di quanto accade in ambito processual civilistico in cui, a mente dell’art. 121 c.p.c., ‘‘Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo’’ (36). Senonché, se da una parte non sembra potersi logicamente negare l’efficacia dell’art. 12, comma 2, preleggi, per le norme processuali penali, il rimedio analogico, nel caso di specie, troverebbe comunque un ostacolo pressocché insuperabile nel carattere eccezionale della disciplina concernente l’intercettazione di comunicazioni o conversazioni telefoniche. Alla stregua dell’art. 14 preleggi, infatti, oltre le leggi penali, anche ‘‘quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati’’. Eppure, l’applicazione del procedimento analogico al caso in esame, a prescindere dal disposto dell’art. 14 preleggi, sarebbe indubbiamente giustificata dalla medesimezza della ratio che sottende alla disciplina prevista per le intercettazioni del contenuto delle conversazioni (37). Volendo ricordare un vecchio brocardo: ubi eadem ratio, ibi eadem iuris dispositio. A questo si aggiunga che l’imprescindibile divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali, pur in presenza di un casus che presenta l’eadem ratio — come è stato lucidamente considerato — non di rado conduce a conclusioni illogiche. In particolare, si è avuto riguardo al fatto che ‘‘per spiegare il divieto di estendere le leggi eccezionali oltre i casi e i tempi da esse non considerati, la dottrina corrente... afferma che mentre la legge comune è fondata sulla ratio, ed è quindi assoggettabile ad una interpretazione che ne sviluppi logicamente tutti gli elementi impliciti, il ius singulare, essendo istituito propter aliquam utilitatem, è accolto nell’ordinamento non per una ragione che lo giustifichi, ma solo per l’autorità che l’ha posto, e dunque non può essere sviluppato per via razionale ma solo autoritativa. Ma questa spiegazione non è soddisfacente: si può notare infatti...che anche le leggi eccezionali ubbidiscono ad una ragione, sia pure diversa da quella che ha fatto porre la legge comune... sembra ragionevole che l’estensione a casi non previsti possa avvenire nell’ambito della stessa ratio, vale a dire se ricorrono casi per i quali, per quanto non previsti dalla legge eccezionale, valga lo stesso motivo di eccezionalità che ha fatto dettare la legge’’ (38). Senonché, visto che il disposto dell’art. 14 preleggi non può comunque ignorarsi, a meno che non si voglia negare la natura eccezionale delle norme concernenti l’intercettazione del contenuto delle conversazioni telefoniche, un’interpretazione analogica non appare possibile mentre un intervento legislativo che espressamente estenda la garanzia giurisdizionale all’acquisizione dei cd. dati esteriori, a questo punto, si appalesa quanto meno opportuno. 11. Passando ad altro aspetto, non convincente appare l’equiparazione con la disciplina concernente la prova documentale di cui agli artt. 234 - 256 c.p.p., (35) Per un’ampia panoramica sulla natura dell’atto processuale penale, vgs. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 1997 (2a ed.), 121 e ss. (36) Al riguardo, appare opportuno apprezzare anche il disposto dell’art. 156, comma 3, c.p.c., a norma del quale, qualora l’atto abbia ‘‘raggiunto lo scopo a cui è destinato’’ non può mai essere dichiarato nullo. (37) Oltre all’identità di ratio, volendo fare un parallelo con il diritto sostanziale, l’adozione del procedimento analogico nel caso di specie potrebbe essere ulteriormente giustificata dalla circostanza che l’analogia verrebbe applicata in bonam partem e, dunque, a favore dell’indagato e/o imputato. (38) BOBBIO, voce Analogia, loc. cit.
— 751 — pur ripresa da qualche studioso (39), a commento della sentenza delle Sezioni Unite. Ed infatti, pur potendo essere formalmente equiparata la disciplina in questione all’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico, sulla base del mero dato di fatto che quest’ultimi sono registrati su supporto cartaceo—documentale, appare invero inconferente l’equiparazione, dovendosi invece considerare più opportuna l’applicazione di un principio di specialità, reso necessario — in questo caso — dalla tutela di una garanzia costituzionale. Per tali motivi, conseguentemente, proprio in virtù dei particolari interessi da garantire, la disciplina di cui agli artt. 234 - 256 c.p.p. deve fare spazio a quella contenuta negli artt. 266 e ss. c.p.p., certamente più idonea ad assicurare la tutela del diritto fondamentale alla libertà e segretezza delle comunicazioni. 12. Per quanto concerne, infine, le conseguenze dell’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico eseguita in assenza delle formali garanzie di cui all’art. 267 c.p.p., si ritiene di dovere aderire all’indirizzo già ampiamente tracciato, nella sentenza n. 34 del 1973, dalla Corte Costituzionale in base al quale appare idonea l’applicazione della sanzione processuale dell’inutilizzabilità (40), tutte le volte in cui le formalità di acquisizione probatoria, nel commettere violazioni di diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, non hanno tenuto nel debito conto le limitazioni e le cautele previste dal Legislatore ordinario. Tale indirizzo, peraltro, indipendentemente dal dato del Legislatore delegante che all’art. 2, direttive n. 37 e 41, della L. delega 16 febbraio 1987 n. 81, aveva espressamente previsto un ‘‘divieto a pena di nullità insanabile di utilizzazione di intercettazioni compiute in mancanza di provvedimento convalidato... — nonché la — previsione di sanzioni processuali in caso di intercettazioni compiute in violazione della disciplina di cui alle lettere precedenti’’, ha trovato un favorevole riscontro anche nella dottrina che più da vicino si è occupata della quaestio iuris, essendosi ritenuto ‘‘che la sanzione dell’inutilizzabilità non possa che essere la conseguenza processuale della lesione di valori fondamentali costituzionalmente tutelati e che perciò i divieti probatori dettati espressamente o implicitamente dalla legge ordinaria e, a maggior ragione, siano ricavabili anche indirettamente dalle norme costituzionali’’ (41). Quanto dedotto appare maggiormente apprezzabile se si considera che la giu(39) MELILLO, op. e loc. citt. (40) A tal riguardo, la sentenza n. 34/73 della Corte costituzionale, loc. cit., aveva espressamente stabilito che ‘‘il principio enunciato dal comma 1 della norma costituzionale sarebbe gravemente compromesso se a carico dell’interessato potessero valere, come indizi o come prove, intercettazioni telefoniche assunte illegittimamente senza previa, motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Se ciò avvenisse, un diritto ‘riconosciuto e garantito’ come inviolabile dalla Costituzione sarebbe davvero esposto a gravissima menomazione. A questo proposito la Corte sente il dovere di mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito’’. Al riguardo, vgs. LOZZI, op. cit., 163 e ss. che distingue la prova illegittima a seconda che l’invalidità concerna l’an ovvero il quomodo; nonché, NOBILI, Divieti probatori e sanzioni, in Gius. pen., 1991, III, 641 e ss. (41) FILIPPI, op. cit., 88. Analogicamente vgs. COMOGLIO, Perquisizione illegittima ed inutilizzabilità derivata delle prove acquisite con il susseguente sequestro, in Cass. pen., 1996, 1550; MURONE, Note in tema di utilizzabilità delle registrazioni private di conversazioni tra presenti, in Gius. pen., 1995, III, 67; F.R. DINACCI, L’irrilevanza processuale delle registrazioni di conversazioni tra presenti, in Giur. it., 1994, II, 65; E. GAITO, Vizi procedurali e inutilizzabilità delle intercettazioni a mezzo di microspie, in Giur. it., 1991, II, 430. Nello stesso senso, vgs. anche Cass. pen., Sez. Un., 27 marzo 1996, Sala, loc. cit. in Dir. pen. e proc., 1996, n. 9, 1122, in cui si ritiene che i divieti probatori sono ‘‘non solo quelli espressamente previsti dall’ordinamento processuale... ma possono anche essere desumibili dall’ordinamento, e ciò accade tutte le volte in cui i divieti, in materia probatoria, non sono dissociabili dai presupposti normativi che condizionano la legittimità intrinseca del procedimento formativo o acquisitivo della prova’’.
— 752 — risprudenza di legittimità ha ritenuto inutilizzabili le disposte intercettazioni telefoniche non soltanto quando fossero carenti delle modalità di cui all’art. 267 c.p.p. ma quando lo stesso provvedimento autorizzativo del giudice procedente non era sufficientemente ed adeguatamente motivato (42). dott. NICOLA APA
Per un’ampia panoramica sul problema dei mezzi di prova incostituzionali, vgs. ALLENA, Riflessioni sul concetto di incostituzionalità della prova nel processo penale, in questa Rivista, 1989, 506 e ss. (42) Sulla base di quest’assunto, è stata pertanto dichiarata l’inutilizzabilità delle intercettazioni, disposte con decreto sprovvisto di adeguata motivazione, ritenendosi la sanzione dell’inutilizzabilità sanzione processuale assorbente rispetto a quella della nullità, pur comminata dalla disposizione generale di cui all’art. 125 c.p.p. A tal riguardo, vgs. Cass. Pen., Sez. I, 25 marzo 1991, D’Errico, in Cass. pen., 1992, 141 e Giur. it., 1992, II, 130 con nota di SEGHETTI, Intercettazioni telefoniche illegittime per motivazione insufficiente e nullità della custodia cautelare. In senso conforme, vgs. anche Cass. pen., Sez. V, 12 luglio 1995, Bonacchi, in Cass. pen., 1997, 456; id., Sez. VI, 5 ottobre 1994, Celone, in Cass. pen., 1997, 119.
— 753 — CASSAZIONE PENALE — Sez. V — 15 dicembre 1998 Pres. Marvulli — Rel. Ferrua — P.M. (Conf.) Ric. Borchi A. Incidente probatorio - Casi - Nuova formulazione dell’art. 392 c.p.p. - Disciplina transitoria prevista dall’art. 6 della l. 7 agosto 1997, n. 267 - Possibilità di richiedere l’incidente probatorio al g.i.p. anche dopo la trasmissione degli atti al giudice del dibattimento - Esclusione (Artt. 392 c.p.p.; 6 comma 1 l. 7 agosto 1997, n. 267). La disposizione transitoria prevista dall’art. 6, comma 1, l. 7 agosto 1997, n. 267 attribuisce al pubblico ministero la facoltà di chiedere ‘‘anche dopo l’esercizio dell’azione penale’’ ed entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, l’incidente probatorio ex art. 392, comma 1, lett. c) e d) c.p.p., senza che ricorrano le condizioni di cui alle lett. a) e b). L’incidente probatorio non può tuttavia essere richiesto al giudice per le indagini preliminari dopo la trasmissione degli atti al giudice del dibattimento, ostandovi l’espressa previsione transitoria dettata dal comma 2 del citato art. 6 legge n. 267 del 1997, nonché il generale principio che esclude la regressione del procedimento fuori dei casi di nullità (art. 185, comma 3, c.p.p.) (1). (Omissis). — Con decreto 16 aprile 1997 a seguito dell’udienza preliminare, il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Imperia disponeva il rinvio a giudizio di Borchi Alfredo ed altri (per abuso di ufficio, falso e truffa) fissando l’udienza dinanzi al tribunale per il 13 ottobre 1997. A tale data il dibattimento veniva rinviato al 30 ottobre 1997 ed il 23 ottobre 1997 il pubblico ministero chiedeva al giudice per le indagini preliminari ex art. 6 comma 1 legge n. 267 del 1997 di procedere ad incidente probatorio per sentire tre dei citati soggetti, su fatti concernenti la responsabilità dei coimputati. Con ordinanza 28 ottobre 1997 il giudice adito disponeva l’incombente ed avverso la stessa ha ora proposto ricorso per cassazione il Borchi deducendone l’abnormità, siccome in contrasto con la specifica normativa in materia nonché con il sistema processuale vigente. La censura è fondata osservandosi quanto segue. La disposizione transitoria contenuta nell’art. 6 comma 1 legge n. 267 del 1997 attribuisce al pubblico ministero la facoltà di chiedere ‘‘anche dopo l’esercizio dell’azione penale’’ ed entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, l’incidente probatorio ex art. 392 comma 1 lett. c) e d) (cioè l’esame di persone indagate, o imputate, su fatti concernenti la responsabilità di altri, ovvero delle persone indicate nell’art. 210 c.p.) senza che ricorrano le condizioni di cui alle lett. a) e b) (ossia il fondato timore che le suddette persone non possano essere esaminate nel dibattimento per grave impedimento oppure che esse siano esposte a determinate pressioni per non deporre o deporre il falso). La riportata norma non può essere intesa nel senso che la facoltà in questione sia esercitabile anche dopo il passaggio alla fase del giudizio, che avviene con la ricezione degli atti da parte del giudice del dibattimento. Una siffatta lettura sarebbe in contrasto con l’esplicita previsione transitoria
— 754 — del comma 2 del medesimo articolo che, intendendo regolare la sorte dei procedimenti in corso alla data dell’intervenuta vigenza della novella legislativa, ha espressamente considerato quelli già in fase di giudizio di primo grado stabilendo una particolare disciplina affinché le dichiarazioni rese dai soggetti indicati nell’art. 513 c.p.p., quando ne sia stata data lettura, possano legittimamente essere oggetto di valutazione da parte del giudice del dibattimento. Non sarebbe invece configurabile l’operatività del relativo dettato allorquando, pendente il giudizio di primo grado, non fosse stata ancora effettuata tale lettura: in base alla regola del ‘‘tempus regit actum’’ in questo caso troverebbe necessariamente applicazione la nuova normativa. D’altro canto l’esperibilità dell’incidente probatorio dinanzi al giudice per le indagini preliminari nella fase del giudizio comporterebbe una regressione del procedimento in fase precedente, non conciliabile con il nostro sistema processuale, il quale consente la stessa solo nel caso in cui sia stata dichiarata la nullità di un atto (art. 185 comma 3 c.p.p.). In particolare sarebbe contrario alla adottata impostazione accusatoria di quest’ultimo ammettere che il procedimento, giunto nella fase propria dell’assunzione delle prove con possibilità del loro svolgimento dinanzi al giudice che dovrà valutarle, ritorni per l’esperimento dinanzi al giudice per le indagini preliminari. In altre parole, l’esigenza di riequilibrare la posizione del pubblico ministero, che ebbe a condurre le indagini preliminari confidando sulla pregressa disciplina — esigenza alla quale è ispirato l’istituto di cui all’art. 6 comma 1 legge n. 267 del 1997 — non può spingersi sino a consentire la suddetta regressione perché in tal caso la tutela diverrebbe irrazionale; di converso, alla luce dei principi di cui sopra, si palesa giustificato ed anzi inevitabile un diverso trattamento in relazione alle diverse fasi. Al proposito è significativo che l’art. 467 c.p.p. rimetta, nella fase preliminare al dibattimento, gli atti urgenti (con specifico riferimento all’incidente probatorio) alla gestione del Presidente del tribunale o della corte di assise. In tale ottica potrebbe semmai porsi il problema dell’ammissibilità dell’incidente probatorio, secondo la più ampia portata di cui all’art. 6 comma 1 legge n. 267 del 1997, nella fase predibattimentale, con competenza peraltro del presidente citato e non già del giudice per le indagini preliminari (possibilità in questi termini riconosciuta da Cass. 19 febbraio 1998, n. 748, rv. 209726). L’espressione di cui al comma 2 dell’art. 6 — « nel giudizio di primo grado » — verrebbe così intesa come riferita alla fase propriamente dibattimentale; rimarrebbe comunque indiscutibile l’impossibilità di applicare l’istituto nella fase tipica dibattimentale ed a maggior ragione ogni possibilità di regressione. Né vale il rilievo di cui al provvedimento impugnato secondo cui, avendo la Corte costituzionale (C. cost. n. 77 del 1994) già riconosciuto la possibilità di incidente probatorio anche nell’udienza preliminare e quindi dopo l’esercizio dell’azione penale, il dettato transitorio dell’art. 6 comma 1 legge n. 267 del 1997 risulterebbe ‘‘inutiliter datum’’. Basti considerare che in realtà l’incombente che il pubblico ministero poteva richiedere alla luce della menzionata sentenza era diverso in quanto trattavasi sempre di quello di cui all’art. 392 c.p.p. mentre la normativa transitoria ha soppresso il riferimento alle parole ‘‘quando ricorre una delle circostanze previste dalle lett. a) e b)’’. D’altro canto il richiamo della disposizione predetta a ‘‘dopo l’esercizio dell’azione penale’’ invece che all’udienza preliminare fa salva per l’organo dell’accusa la facoltà in questione anche dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, nel periodo che pre-
— 755 — cede la ricezione degli atti da parte del giudice del dibattimento (ricezione che segna il passaggio alla fase del giudizio) o addirittura, se si volesse addivenire alla più ampia impostazione a cui si è fatto cenno, sino all’esaurimento degli atti preliminari al dibattimento, in questo caso con la competenza prevista dall’art. 466 c.p.p.; e ciò ha rilevanza particolare nel procedimento pretorile ove con il decreto di citazione si concreta l’esercizio dell’azione penale. Concludendo, il provvedimento oggetto del ricorso si palesa abnorme in quanto contrario ai princìpi della non possibilità di regressione del procedimento e della necessità che le prove vengano assunte dallo stesso giudice al quale spetta in base ad esse decidere, principi inderogabili salvo casi tassativi e non essendo pertanto le deroghe ad essi suscettibili di interpretazione estensiva o analogica: s’impone di conseguenza l’annullamento senza rinvio del medesimo. — (Omissis).
——————— (1)
L’ipotesi dell’incidente probatorio ‘‘allargato’’ ex art. 6 comma 1 l. 7 agosto 1997, n. 267: ambito di operatività e difformità interpretative.
1. Prima di affrontare il tema specifico della nostra indagine, urge accennare brevemente al quadro normativo, di cui la previsione de qua costituisce piccolo, ma non marginale dettaglio, in considerazione delle delicate questioni interpretative che ne sono scaturite. Tra le novità introdotte dalla l. 7 agosto 1997, n. 267 (1), altrimenti nota, riduttivamente, quale ‘‘modifica dell’art. 513’’, va annoverata l’ampliata possibilità di ricorso al meccanismo dell’incidente probatorio, in origine concepito all’esclusivo scopo, da un lato, di fronteggiare l’eccezionale ed eventuale rischio di dispersione di prove non rinviabili al dibattimento e, dall’altro, di scongiurare il pericolo di reintroduzione, in via surrettizia, della ‘‘fase istruttoria’’. L’enucleazione in termini troppo rigorosi delle situazioni-presupposto di ammissibilità dell’incidente probatorio, aveva determinato, di fatto, ‘‘l’esclusione dal (1) Inizialmente, nelle varie proposte di legge dalle quali ha preso avvio la riforma, non si faceva menzione dell’incidente probatorio. L’area d’intervento era circoscritta alle disposizioni in tema di letture dibattimentali. Ciò cui si mirava era il ‘‘recupero’’ del principio del contraddittorio nell’assunzione dei mezzi di prova, attraverso un intervento correttivo volto ad escludere che le dichiarazioni assunte unilateralmente fuori del dibattimento entrassero a far parte del materiale utilizzabile per la decisione, senza essere preventivamente filtrate, circa la loro attendibilità, mediante l’esame incrociato delle parti. L’intervento in materia d’incidente probatorio è connesso alla modifica delle norme disciplinanti la formazione della prova: per ovviare agli inconvenienti conseguenti alle nuove ipotesi d’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nelle fasi anteriori al giudizio, il legislatore ha esteso considerevolmente l’esperibilità dell’istituto, a cui ha affidato la tutela del ‘‘principio di non dispersione dei mezzi di prova’’ (la cui costituzionalizzazione, ad opera della Consulta con la sent. n. 255 del 1992, ha portato ad una sostanziale ormosi tra la fase delle indagini preliminari e quella dibattimentale: si v. sul punto P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in ID., Studi sul processo penale. II. Anamorfi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 167 ss.). Per maggiori approfondimenti sulla legge di riforma del 1997 cfr. AA.VV., Le innovazioni in tema di formazione della prova nel processo penale. Commento alla legge 7 agosto 1997, Giuffrè, 1998; G. ILLUMINATI, Uno sguardo unitario alle riforme dell’estate 1997, in Dir. pen. proc., n. 12, 1997; ID., Lineamenti essenziali delle più recenti riforme del codice di procedura penale, in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale. Seconda appendice di aggiornamento, 1998, p. 1 ss.; S. CARNEVALE, Dichiarazioni del coimputato, diritto di difesa ed esigenze di non dispersione della prova: nuovo assetto di un difficile equilibrio, in Cass. pen., 1997, n. 1986; G. LOCATELLI, La riforma dell’art. 513 c.p.p.: profili di incostituzionalità effetti processuali e prime applicazioni giurisprudenziali, in Gazz. hiur., n. 38, 1997, p. 2 ss.
— 756 — sistema processuale’’ (2) dell’istituto stesso: da qui la necessità di un ‘‘rimaneggiamento’’ della disciplina, attuato mediante uno snellimento delle condizioni e modalità d’accesso. In seguito alla soppressione alle lett. c) e d) dell’art. 392, comma 1, c.p.p. dell’inciso ‘‘quando ricorre una delle circostanze di cui alle lett. a) e b)’’, può ora procedersi, con incidente probatorio, all’esame della persona sottoposta alle indagini ‘‘su fatti concernenti la responsabilità altrui’’ o a quello dei soggetti indicati all’art. 210 c.p.p., senza che sia necessario dimostrare che gli stessi non potranno essere esaminati nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento o che, per elementi concreti e specifici, vi è fondato motivo di ritenere che siano esposti a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilità affinché non depongano o depongano il falso. L’ammissibilità dell’assunzione con incidente probatorio dell’esame delle persone anzidette, dunque, non è più condizionata dalla non rinviabilità, per le indicate circostanze, della prova al dibattimento (3). La citata legge reca all’art. 6 un’articolata normativa transitoria, che, derogando al principio del tempus regit actum (4), prevede la parziale retroattività a tutti i procedimenti in corso (5) delle novellate regole di acquisizione e valutazione della prova costituita dalle dichiarazioni predibattimentali dell’imputato e delle persone indicate all’art. 210 c.p.p., subordinandola alla ricorrenza del duplice presupposto di cui alla stessa disciplina intertemporale: la richiesta difensiva e il nuovo esame del dichiarante, la cui rinnovazione non determina, comunque, l’incondizionato dispiegarsi del riformulato testo dell’art. 513 c.p.p. (6); trattasi di (2) M. TERRILE, La controriforma del codice di procedura penale, in Difesa pen., 1992, p. 125; sull’incidente probatorio si v. più ampiamente M. BARGIS, L’incidente probatorio, in Dig. disc. pen., vol. VI, 1992, p. 347; G. GIOSTRA, La riforma dell’incidente probatorio, in questa Rivista, 1995, p. 661. (3) G. BOCHICCHIO, Il giudice dell’incidente probatorio ex art. 6 comma 1 legge n. 267/1997, in Cass. pen, 1998, n. 774: la norma ha prestato attenzione ai processi di criminalità organizzata ‘‘per tutelare quanto più è possibile le potenzialità dell’apporto conoscitivo’’ che può venire dai cosiddetti collaboratori di giustizia. (4) Il rispetto del principio volto a regolare l’efficacia delle leggi processuali nel tempo avrebbe imposto di applicare le norme riformate solo a quei processi instaurati successivamente all’entrata in vigore della legge e non anche a quelli in corso di svolgimento, in questo senso G. GIOSTRA, La riforma dell’art. 513 c.p.p.: evitare forzature discutibili per la disciplina transitoria, in Gazz. giur., n. 21, 1997, p. 1 ss. Cfr. A.A. DALIA, Le disposizioni transitorie, cit., p. 194: ‘‘La regola del tempus regit actum vuole che, intervenuta una nuova legge processuale penale, questa disciplini lo svolgimento del processo dal momento in cui entra in vigore, mentre gli atti compiuti alla stregua della legge abrogata, siano pienamente validi’’. Sui problemi dell’individuazione dell’effettiva portata del principio si v. in proposito G. CONSO, Il problema delle norme transitorie, in Giust. pen., 1989, III, p. 130. (5) A quelli che, invece, alla data di entrata in vigore della legge, si trovino nella fase intercorrente fra il decreto di rinvio a giudizio e lo svolgimento del dibattimento, senza che si sia ancora proceduto all’esame dell’imputato e delle persone di cui all’art. 210 c.p.p., sarà pienamente applicabile la normativa fissata dal novellato art. 513 c.p.p. per il cui commento si rinvia agli Autori citati alle note 1 e 14. (6) La disciplina transitoria è chiaramente diretta a ‘‘salvare il salvabile’’ di ogni procedimento in corso, dall’esercizio dell’azione penale al giudizio di rinvio, che risulti compromesso dall’inutilizzabilità delle prove acquisite in base all’abrogato art. 513; disciplina che, nel tentativo di operare un contemperamento fra l’esigenza primaria di ripristino del principio del contraddittorio nei processi in corso e quella di evitare la totale dispersione delle conoscenze acquisite mediante la già avvenuta lettura di dichiarazioni non confermate in dibattimento, ha previsto varie modalità di recupero, imperniate sulla citazione dei dichiaranti ‘‘per un nuovo esame’’ e, con riguardo alla fase di appello e rinvio, ‘‘previa rinnovazione parziale del dibattimento’’, non senza contemplare gli effetti conseguenti all’esito eventualmente negativo di quella citazione. L’art. 6 tace, invece, con riguardo all’ipotesi di giudizio pendente in Cassazione. A parere della Suprema Corte, intervenuta a Sezioni Unite, in due differenti occasioni (Sez. un., 25 febbraio 1998, Gerina, in Cass. pen., 1998, n. 1115; Sez. un., 13 luglio 1998, Citaristi, in Cass. pen., 1999, n. 11) a risolvere il contrasto interpretativo sorto circa l’applicabilità o meno di tale disciplina anche nel giudizio di legittimità, non ha alcuna rilevanza che in tale disposizione manchi uno specifico riferimento al caso del procedimento pendente davanti alla Corte di Cassazione; in estrema sintesi la Corte così statuisce: l’applicazione della disciplina transitoria anche a tale giudizio scaturisce dalla struttura plurifasica (ammissione, assunzione e valutazione) del procedimento probatorio, che si esaurisce solo con la sentenza irrevocabile, ‘‘ragion per cui la Cassazione... non potrebbe, senza abdicare alla sua funzione istituzionale di giudice
— 757 — disposizioni di non facile lettura, non sempre descritte in maniera lineare e non immuni da alcuni evidenti difetti di coordinamento con la disciplina codicistica interessata (7). Il primo comma di tale articolo attribuisce al pubblico ministero ‘‘nei procedimenti penali in corso’’ la facoltà di chiedere al giudice per le indagini preliminari l’espletamento dell’incidente probatorio ex art. 392 lett. c) e d), come modificate dal testo della presente legge, ‘‘anche dopo l’esercizio dell’azione penale’’ ed entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge. Manca, nel testo della norma, l’espressa previsione dello spazio processuale successivo al promovimento dell’accusa, rispetto al quale l’atipica richiesta di incidente può essere proposta. Sicuramente tale possibilità è esclusa nel caso che, all’entrata in vigore della legge, si sia già proceduto alla lettura ex art. 513 c.p.p., nella versione antecedente alla riforma, rientrando quest’ipotesi nell’ambito applicativo del comma 2. La disposizione fa quindi riferimento a quei processi, in corso di svolgimento, in cui non sia già stato espletato l’esame dell’imputato o delle persone indicate all’art. 210 c.p.p. Si tratta ora di stabilire, nell’ambito dei procedimenti così individuati, rispetto a quale segmento processuale questo potere può essere esercitato. L’equivocità del tenore letterale della disposizione ha dato luogo in dottrina a contrasti interpretativi. Secondo un primo orientamento (8), il dato normativo, attraverso il richiamo ai ‘‘procedimenti in corso’’ e l’ulteriore inciso ‘‘anche dopo l’esercizio dell’azione penale’’, non lascerebbe spazio all’interprete per escludere la legittimazione del pubblico ministero a richiedere l’incidente probatorio per tutto il corso del processo, quale che sia la fase o lo stato in cui, alla data di entrata in vigore della legge, esso si trovi. Anche nel caso, quindi, in cui sia già stato disposto il rinvio a giudizio o, addirittura, sia già in corso il dibattimento, nelle limitate ipotesi in cui sia stato, per qualsiasi causa, sospeso o rinviato e la prova rischi di andare perduta. Si sostiene (9), poi, più estremisticamente, che la necessità della richiesta possa in realtà sorgere in qualunque momento e che, pertanto, la soluzione ermeneutica che ne limita l’esperibilità nel corso del dibattimento alle sole ipotesi di sospensione o rinvio sia troppo riduttiva: la norma transitoria introdurrebbe un’eccezione al principio di non regressione del procedimento attraverso la previsione di una deroga al generale criterio di attribuzione della competenza funzionale, che individua il ‘‘giudice che procede’’ nel giudice che ha la materiale disponibilità dedella legittimità, non interloquire su una prova, le cui regole di valutazione processuale si siano modificate nelle more della discussione del ricorso; diversamente opinando, si porrebbe la parola fine ad un ‘‘processo sulla base’’ di una prova colpita da un sopravvenuto divieto di utilizzazione (nel caso di specie ad opera della legge n. 267 del 1997) ‘‘proprio nel momento in cui il giudizio conclusivo deve essere ancora formulato’’ (G. ROMEO, Nuova pronuncia delle Sezioni Unite sull’art. 513 c.p.p.: proprio inevitabile il bis in idem?, in Cass. pen., 1999, n. 11). In senso critico a tale interpretazione, in riferimento alla prima sentenza cfr. A. NAPPI, Qualche precisazione sul diritto intertemporale delle prove, in Gazz. giur., n. 16, 1998; P. FERRUA, Un errore di diritto della Suprema Corte, in Gazz. giur., n. 17, 1998; O. MAZZA, La pronuncia delle Sezioni Unite sulla norma transitoria della legge n. 267 del 1997, in Dir. pen. proc., n. 5, 1998; D. CARCANO, Una sentenza ‘‘manipolativa’’ delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 1998, n. 1115; in riferimento alla seconda cfr. G. ROMEO, Nuova pronuncia delle Sezioni Unite sull’art. 513 c.p.p., cit. (7) Sugli aspetti problematici del regime transitorio si v. più in dettaglio Cass. 29 settembre 1997, in Guida dir., n. 44, 1997, p. 79 ss., con nota di R. BRICCHETTI, Infondata la questione di costituzionalità ma i problemi interpretativi restano aperti, p. 85; O. MAZZA, La pronuncia delle Sezioni Unite, cit.: attraverso la norma transitoria, il legislatore ‘‘ha deciso ‘prudentemente’ di accompagnare l’entrata in vigore delle importanti modifiche introdotte’’. Cfr. nota precedente. (8) A. NAPPI, Commento alle nuove norme sulla valutazione della prova, in Gazz. giur., n. 33, 1997, p. 9 ss.; R. BRICCHETTI, Infondata la questione di costituzionalità, cit. (9) G. BOCHICCHIO, op. cit.
— 758 — gli atti (10). Tale conclusione è la sola che impedirebbe di ritenere inutiliter data tale previsione e consentirebbe, conseguentemente, di individuarne la ratio: il legislatore ha attribuito la competenza ad assumere l’incidente probatorio al giudice per le indagini preliminari per evitare la pubblicità dell’udienza, avuto riguardo alla natura dei procedimenti ai quali la redazione del testo legislativo ha prestato attenzione, vale a dire ai processi di criminalità organizzata di stampo mafioso (11). D’altra parte, già nel codice abrogato, all’art. 456, era contemplata la possibilità che ad assumere la prova fosse un giudice diverso da quello che aveva la materiale disponibilità degli atti (12). Secondo altra dottrina (13), invece, una simile interpretazione, pur se apparentemente suggestiva, perché mostra di avere il suo punto di forza nel contenuto letterale della norma, è invero smentita da argomenti logici e sistematici. Nell’esegesi della disposizione non può prescindersi dalla duplice constatazione della sua transitorietà e dell’efficacia temporale limitata entro cui la facoltà di attivare la procedura dell’incidente è esercitabile, connotati formali che definiscono l’eccezionalità della previsione. In primo luogo non è casuale la scelta del legislatore di attribuire al solo pubblico ministero tale prerogativa, con la quale si mira a soddisfare l’esigenza di riequilibrare la situazione di svantaggio in cui l’organo dell’accusa, che aveva impostato e condotto le indagini preliminari confidando sulle vecchie regole, può venirsi a trovare in seguito al cambiamento delle norme in tema di acquisizione e valutazione delle prove, che in vario modo sottraggono al processo materiale conoscitivo anteriormente utilizzabile (14). Il mancato riconoscimento anche all’impu(10) Chi scrive è dell’avviso che le regole sulla competenza possano essere modificare solo mediante una disciplina sopravvenuta adottata in via generale, prescindendo dalle singole controversie (si veda, ad esempio, il comma 1 dell’art. 294 c.p.p., in materia di interrogatorio di garanzia, così come sostituito dal decreto legge n. 29 del 1999, convertito nella legge n. 109 del 1999, il quale ora prevede che, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, sia il giudice che ha deciso in ordine all’applicazione della misura cautelare a procedere al suddetto interrogatorio. Nel sistema antecedente, competente per l’interrogatorio era, dopo la trasmissione del fascicolo, il giudice per il dibattimento ex artt. 279 c.p.p. e 91 disp. att.: la trasmissione del fascicolo presso la cancelleria del giudice del dibattimento comporta inesorabilmente la perenzione del potere cautelare del giudice dell’udienza preliminare e lo spostamento della competenza le libertate in capo al giudice che attualmente procede. Ora, fino alla dichiarazione d’apertura del dibattimento, è competente a svolgere l’interrogatorio di garanzia il giudice che ha deciso in ordine all’applicazione della misura cautelare, anziché il giudice competente a decidere sulle misure cautelari). Invero, non potrebbe che suscitare notevoli perplessità il fatto che l’applicabilità o meno di tale disciplina sia lasciata dipendere da un evento del tutto casuale, quale il già avvenuto passaggio del processo alla fase del dibattimento, senza che si sia ancora proceduto alla lettura ex art. 513 c.p.p. (11) In realtà l’assunzione dibattimentale della prova può essere fatta ‘‘a porte chiuse’’, vale a dire con l’esclusione del pubblico, oppure con il mezzo della teleconferenza (art. 147-bis disp. att.) se c’è un problema di tutela del coimputato-collaborante. (12) In base all’art. 456 c.p.p. abr. il giudice del dibattimento, reputata la necessità di una perizia, poteva trasmettere gli atti al giudice istruttore, perché potesse procedere all’assunzione della medesima: cfr. G. BOCHICCHIO, op. cit. (13) G. LOCATELLI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., p. 2 ss.; A.A. DALIA, Le disposizioni transitorie, cit., p. 200 ss. (14) Cfr. R. BRICCHETTI, Incidente probatorio senza ostacoli: così il dibattimento perde terreno, in Guida dir., n. 32, 1997, p. 89; S. CARNEVALE, Dichiarazioni del coimputato, cit., p. 3651; E. ZAPPALÀ, Processo penale ancora in bilico tra sistema inquisitorio, in Dir. pen. proc., n. 7, 1998. Una delicata questione interpretativa ha investito il testo dell’art. 513 ed in particolare del suo comma 2, fin dall’epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del codice del 1988. Sulla tormentata vicenda dell’art. 513 c.p.p. (sul cui commento non ci si può soffermare), dall’entrata in vigore del nuovo codice di rito alla sentenza della Corte Cost., n. 361 del 1998, con la quale e stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo del comma 2 di tale articolo, in relazione al rifiuto di rispondere in dibattimento della persona coimputata nello stesso procedimento o in procedimento connesso o collegato, per cui si sia proceduto o si proceda separatamente, che abbia reso dichiarazioni sul fatto altrui, si rinvia a S. BUZZELLI, L’art. 513 c.p.p. tra esigenze di accertamento e garanzia del contraddittorio, in questa Rivista, 1999, p. 307 ss.; A. FURGIUELE, L’art. 513 c.p.p. tra conflitti ideologici e problemi di struttura, ivi, 1999, p. 918 ss.; A. NAPPI, La decisione della Corte Costituzionale sull’art. 513 c.p.p.: un importante innovazione che la-
— 759 — tato di tale potere rende necessario che il suo esercizio venga circoscritto in uno spazio temporale limitato. In caso contrario, non sarebbe possibile sottrarre tale disposizione al sospetto di illegittimità costituzionale per la violazione del principio della par condicio tra accusa e difesa (15). In secondo luogo, non è pensabile che il legislatore mediante una mera disposizione transitoria abbia voluto estendere il ricorso all’incidente probatorio in ipotesi diverse da quelle in cui, in via ordinaria, è destinato ad operare. Ciò premesso, l’unica ipotesi ermeneutica sostenibile depone per l’inapplicabilità della previsione successivamente al passaggio del processo alla fase del giudizio. 2. Stante l’esiguità dell’efficacia temporale della norma in esame, nelle poche pronunce giurisprudenziali di cui è dato sapere non si registrano orientamenti interpretativi difformi. Nell’interessante sentenza che si annota, il giudice della legittimità prende posizione sul problema dell’individuazione della portata operativa della disposizione, ritenendo, in linea con l’ultima opzione esegetica testé riportata, che la facoltà in questione può essere esercitata dall’organo dell’accusa solo prima del dibattimento. Dichiara, pertanto, l’abnormità (16) dell’ordinanza del giudice per le indagni preliminari, che abbia disposto l’incidente probatorio in accoglimento della richiesta avanzata dal pubblico mistero in pendenza del dibattimento. L’interpretazione che estendesse anche alla fase del giudizio l’esperibilità dell’incidente probatorio, da un lato, sarebbe in aperto contrasto con l’esplicita previsione transitoria di cui al comma 2 del medesimo articolo, destinata a regolare, a parere della Suprema Corte, proprio la sorte dei procedimenti in corso che, alla data di entrata in vigore della legge n. 267 del 1997, siano già passati a tale fase (17); dall’altro, comporterebbe, essendo l’organo destinatario della richiesta individuato dal legislatore nel ‘‘giudice per le indagini preliminari’’, un’anomala regressione del processo dalla fase del dibattimento ad una fase procedimentale, vale à dire alla fase delle indagini preliminari: il principio di non regressione del scia aperti molti problemi, in Gazz. giur., n. 40, 1998; P. TONINI, Una sentenza additiva molto discussa: a) Il diritto di confrontarsi con l’accusatore, in Dir. pen. proc., n. 12, 1998, E. MARZADURI, Una sentenza additiva molto discussa: b) Il diritto al silenzio del coimputato, ivi; G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme, cit., p. 1 ss. Sull’ambito di efficacia della declaratoria d’illegittimità costituzionale nei procedimenti penali in corso si v. O. MAZZA, Illegittimità costituzionale dell’art. 513 c.p.p. e processi pendenti, in Dir. pen. proc., n. 1, 1999. (15) Anche circoscrivendo il più possibile l’ambito di operatività della previsione, la scelta del legislatore di riservare questa facoltà al solo pubblico ministero rimane fonte di una iniqua disparità di trattamento fra accusa e difesa. Così G. GIOSTRA, La riforma dell’art. 513 c.p.p.: evitare forzature discutibili per la disciplina transitoria, in Gazz. giur., n. 21, 1997, p. 2: l’Autore ritiene, infatti, ‘‘molto discutibile se non costituzionalmente censurabile l’aver consentito al solo pubblico ministero l’acquisizione, in via di regime transitorio, di materiale altrimenti precluso per effetto della nuova formulazione dell’art. 513 c.p.p. Non si riesce ad immaginare una sola ragione per negare all’imputato, che abbia interesse a consacrare perentoriamente le dichiarazioni a discarico rilasciate dal coimputato e dalla persona imputata in un procedimento separato, il diritto a richiedere l’incidente probatorio, per cautelarsi dal rischio che il dichiarante si sottragga all’esame dibattimentale’’. (16) La categoria dell’‘‘abnormità’’ è di derivazione pretoria, nata allo scopo di rompere ‘‘il cerchio chiuso dell’impugnabilità oggettiva’’ (DEL POZZO, La disciplina delle impugnazioni di provvedimento abnorme nel nuovo ordinamento processuale, in Giust. pen., 1958, III, p. 606): si tratta di ‘‘invenzione terapeutica’’ (F. CORDERO, Procedura penale, 4a ed., Milano, 1998, p. 984), scaturita dall’esigenza di congegnare mezzi idonei a porre nel nulla atti incompatibili con le logiche del sistema. Cfr. Provvedimento abnorme e termini per impugnare, in Temi di giurisprudenza sul processo penale a cura di G. DI CHIARAS. GIANBRUNO, Giappichelli, 1999, p. 199. (17) Più in particolare, il comma 2 dell’art. 6, si applica a quei processi in cui, all’entrata in vigore della legge, sia già stata disposta la lettura ex art. 513 c.p.p.: la disposizione transitoria prevede che, a determinate condizioni, sia possibile per il giudice disporre la citazione per un nuovo esame di quei soggetti che, sentiti in precedenza, si fossero avvalsi della facoltà di non rispondere.
— 760 — procedimento, ‘‘idoneo a precludere la retrocessione ad un fase antecedente dei processi giunti alla fase dibattimentale’’ (18), può essere disatteso nella sola ipotesi in cui la dichiarazione di nullità di un atto abbia reso invalidi quelli consecutivi che dal primo dipendono (185, comma 3, c.p.p.). La Corte si sofferma anche sulla questione dell’ammissibilità della peculiare ipotesi di incidente probatorio nel corso della fase predibattimentale e, conformemente a quanto stabilito sul punto da altra pronuncia di poco anteriore (19), riconosce che il pubblico ministero possa chiederne l’espletamento in via transitoria, quando il procedimento si trovi in fase di atti preliminari al dibattinnento; in tale ultimo caso, pur facendosi riferimento, nel citato art. 6 comma 1, al ‘‘giudice per le indagini preliminari’’ come organo destinatario della richiesta, questa non può che essere diretta, in applicazione della regola dettata all’art. 467 c.p.p., all’organo indicato come competente in detta ultima disposizione, e cioè al presidente del collegio giudicante, il quale ne valuterà l’ammissibilità e l’accoglibilità, provvedendo quindi con ordinanza motivata. Dovendosi ritenere poco esauriente il tenore letterale della norma, l’unica interpretazione della disposizione aderente al sistema processuale non può essere quella di affermare una competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari anche dopo la celebrazione dell’udienza preliminare, perché una simile interpretazione sarebbe in contrasto con il divieto di regressione del procedimento (20) in una fase già ritualmente esaurita, che il codice vigente consente in ipotesi tassative; divieto, peraltro, già richiamato per escludere anche nel corso del dibattimento l’esperibilità dell’incidente previsto in via transitoria. Si esclude l’applicabilità al caso di specie dell’art. 467 c.p.p., che disciplina il compimento di attività probatorie urgenti anche durante la fase degli atti preliminari al dibattimento, sulla base di un duplice ordine di ragioni. La norma testé richiamata si applica solo per le ‘‘prove non rinviabili’’, mentre tale carattere d’urgenza non è ravvisabile nelle limitate ipotesi in cui la legge di riforma del 1997 prevede il ricorso all’incidente probatorio. L’esplicito riferimento alla non rinviabilità dell’atto, unitamente all’intitolazione della rubrica ‘‘atti urgenti’’, sembrerebbero assumere il significato di una delimitazione supplementare rispetto alle fattispecie elencate nell’art. 392 c.p.p. (21). Inoltre, non solo la normativa sugli atti urgenti si limita a richiamare soltanto i casi ex art. 392 c.p.p., anziché estendere tout court la disciplina dell’incidente probatorio al predibattimento, ma la previsione dell’art. 467 c.p.p. si spiega proprio in relazione alla prossimità del dibattimento già fissato: il procedimento probatorio predibattimentale non rappresenta una deviazione dal momento processuale nel quale è inserito, ma soltanto una mera anticipazione del procedimento ordinario di assunzione delle prove nel dibattimento, cioè di un’anticipazione (limitata) dell’istruzione dibattimentale (22). Da qui la necessità dell’espresso riconoscimento in via transitoria della facoltà di esperire anche in tale fase la disciplina dell’incidente probatorio per le ipotesi di cui alle lett. c) e d) (23). (18) G. LOZZI, Riflessioni sul nuovo processo penale, Giappichelli, 1992, p. 127 ss. (19) Corte di Cass., Sez. I, 6 febbraio 1998, in Arch. n. proc. pen., 1998, p. 222. (20) Menzionato nella Relazione al Progetto Preliminare, in Speciale Documenti Giustizia, 1988, p. 58; G. LOZZI, Riflessioni, cit., p. 127; D. SIRACUSANO, Il giudizio, in AA.VV., Diritto processuale penale, vol. II, Giuffrè, 1996, p. 285; per la dottrina formatasi sulla normativa processuale abrogata G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, Jovene, 1978, p. 504. (21) M. D’ANDRIA, Commento sub art. 467. Atti urgenti, in Il Codice di Procedura Penale a cura di G. LATTANZI-E. LUPO, VII e VIII, Giuffrè, 1997, p. 14 ss. (22) BONETTO, Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, vol. V, p. 39. (23) A. CASELLI LAPESCHI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: un’opinione critica
— 761 — 3. Le conclusioni cui giunge la Corte sono, a parere di chi scrive, condivisibili nella parte in cui escludono l’applicabilità della norma in esame nel corso del dibattimento. Non si può pensare che il legislatore, dettando tale disposizione, abbia voluto snaturare l’istituto dell’incidente probatorio, estendendone il ricorso oltre i limiti della fase suddetta. Le norme transitorie sono sí espressione della discrezionalità del legislatore, loro carattere precipuo è, senz’altro, quello della provvisorietà in rapporto a necessità o bisogni contingenti o straordinari. Da ciò non deriva però la loro ‘‘estraneità’’ rispetto al contesto processuale in cui sono chiamate ad operare; tutt’altro: l’interpretazione di tale normativa non può che essere condizionata dalla ragion d’essere degli istituti ai quali si riferisce, vale a dire dai loro tratti caratteristici e dalla funzione che esplicano in seno all’ordinamento (24). Inoltre, sarebbe davvero irrazionale ritenere che un processo già giunto nella fase propria dell’assunzione delle prove, ritorni per il loro esperimento davanti al giudice per le indagini preliminari, in aperta deroga al già più volte citato divieto di regressione del procedimento. Diversamente opinando, risulterebbe altresì violato il principio di concentrazione processuale (dibattimentale), secondo cui il dibattimento non deve subire battute d’arresto che affievoliscano il ricordo nella memoria del giudice di quanto è avvenuto in sua presenza. In termini più generali, allargare il campo applicativo della disposizione al punto da ricomprendervi anche la fase dibattimentale si porrebbe in netta antitesi rispetto ad un principio fondamentale del processo di tipo accusatorio: il principio dell’immediatezza, a cui vanno ricondotte tutte le disposizioni che in vario modo garantiscono la partecipazione dello stesso ‘‘giudice’’ a tutti gli ‘‘atti’’ del giudizio e di cui le regole della non regressione e della concentrazione processuale costituiscono significativi corollari. Il significato dell’immediatezza è essenzialmente quello di far sì che il giudice chiamato a decidere sia lo stesso che ha assunto le prove (25): tale finalità può venire frustrata solo a fronte di esigenze di non dispersione di elementi conoscitivi, che traggano origine da ipotesi tassativamente fissate, concepite dal legislatore in termini di extrema ratio. Al di fuori di esse altre deroghe non sarebbero ipotizzabili: la prevalenza assegnata dal legislatore a tale principio è infatti idonea ad escludere regressioni del procedimento capaci di ribaltare un impianto normativo, che non consente valide alternative al dibattimento in ordine all’elaborazione della prova. Alla luce di queste considerazioni, risulta apprezzabile quanto deciso dalla Corte in merito all’ordinanza del giudice per le indagini preliminari, che abbia disposto l’incidente probatorio su richiesta del pubblico ministero avanzata nel corso del dibattimento: tale provvedimento comporta una grave violazione della regolamentazione normativa della materia e dà luogo, per questa ragione, ad una statuizione, oltre che illegittima, anche abnorme (26), che viene a collidere con i principi naturali che disciplinano questa fase (27). sull’‘‘apertura’’ della Corte Costituzionale, in Leg. pen., 1995, p. 104. Tale acquisizione probatoria si inserisce nella fase del giudizio, cosicché l’assunzione delle prove non rinviabili avviene ‘‘osservando le forme del dibattimento’’ (art. 467 c.p.p.). (24) O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, Giuffrè, 1999, p. 186: ‘‘La natura dell’istituto condiziona quella della stessa norma che lo regola e non viceversa’’. (25) G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 2a ed., Giappichelli, 1997, p. 421. (26) Sulle varie tipologie di abnormità e per una possibile soluzione ai problemi relativi ai mezzi di impugnazione esperibili contro un provvedimento abnorme, stante l’operatività del principio di tassatività in materia di impugnazione, si v. R. CANTONE, Puntualizzazioni sull’abnormità, in Cass. pen., 1998, n. 1665. (27) D. SIRACUSANO, Il giudizio, cit., p. 261 ss.
— 762 — D’altra parte sembra opinabile, invece, l’affermazione della Corte di Cassazione che l’art. 467 c.p.p. non possa trovare applicazione nell’ipotesi di quelle prove indicate alle lett. e) e d) dell’art. 392 c.p.p., come novellato dalla legge di riforma (28). Invero, tale articolo si riallaccia direttamente all’art. 392 c.p.p., in quanto opera ‘‘nei casi previsti’’ da tale norma. Da ciò discende che l’art. 392 comma 1 c.p.p., così come modificato dall’art. 4 della legge n. 267 del 1997, si applica anche quando le parti richiedano la pre-assunzione probatoria nella fase precedente al vero e proprio dibattimento. L’ammissibilità dell’acquisizione con incidente probatorio dell’esame delle persone sottoposte alle indagini su atti concernenti la responsabilità di altri e quello dei soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. non è, dunque, più condizionata dalla ricorrenza delle circostanze previste dalle lett. a) e b) dell’art. 392, comma 1, c.p.p., perché si possa procedere all’assunzione anticipata della testimonianza e del confronto tra persone che in altro incidente probatorio o al pubblico ministero abbiano reso dichiarazioni discordanti. La ‘‘non rinviabilità’’ per questi mezzi di prova è presunta iuris et de iure dalla legge e, pertanto, non deve essere provata dal richiedente (29). Secondo altra dottrina (30), invece, il nuovo art. 392 c.p.p., con riguardo all’esame dell’imputato e delle persone indicate all’art. 210, invero non presuppone in via assoluta, ma esclude la necessità del requisito della non rinviabilità. La ratio dell’art. 467 persegue la finalità di impedire il pericolo di dispersione probatoria di quegli elementi utili per la decisione, la cui assunzione per svariati motivi si rende improcrastinabile: l’acquisizione probatoria ai sensi di tale articolo non può, pertanto, prescindere dalla sussistenza di condizioni di indifferibilità ed urgenza. Inoltre, proprio il mancato rinvio alle forme previste per l’incidente probatorio per l’assunzione delle prove non rinviabili ex art. 467 vale quale ulteriore e chiaro segno della diversità intercorrente fra il medesimo ed il procedimento probatorio predibattimentale. Anche a non voler ritenere applicabile l’art. 467 c.p.p. e, quindi, non completo il rinvio da esso operato all’art. 392 c.p.p., un dato testuale è certo: la richiesta di incidente probatorio, in via transitoria, va rivolta al giudice per le indagini preliminari. L’organo giurisdizionale non è individuato genericamente come ‘‘giudice’’: ‘‘La previsione normativa del giudice per le indagini preliminari quale destinatario della richiesta di assunzione della prova formulata ai sensi dell’art. 392 (28) A.A. DALIA, Le disposizioni transitorie, cit., p. 204: rispetto all’art. 467 c.p.p. la disposizione transitoria è inutiliter data. Cfr. A. MACCHIA, Incidente probatorio e udienza preliminare: un matrimonio con qualche ombra, in Cass. pen., 1994, n. 1065: non rientra nella sfera applicativa di tale articolo il solo caso della perizia che, ‘‘se disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni’’ (art. 392, comma 2, c.p.p.). (29) L’eliminazione delle condizioni che per tali ipotesi giustificavano, nell’originaria formulazione legislativa, il ricorso all’incidente probatorio, non avrebbe comportato la perdita del connotato della non rinviabilità; il legislatore avrebbe solo svincolato il richiedente dall’onere di dimostrare l’esistenza della situazione di pericolo: il fondato motivo di ritenere sussistente l’inquinamento o la dispersione della fonte di prova sarebbe presunto, in via assoluta, per legge, in considerazione della gravità del reato per cui si procede (cfr. M. MASTROGIOVANNI, Le nuove regole, cit., p. 15 ss.). (30) R. BRICCHETTI, Infondata la questione di costituzionalità, cit., p. 88: l’Autore esclude la ricomprensione delle ipotesi ex art. 392 c.p.p. lett. c) e d) nel novero dei mezzi di prova suscettibili di preassunzione a norma dell’art. 467 c.p.p. sulla base delle stesse considerazioni dalla Corte formulate nella pronuncia in epigrafe. Da ciò l’esigenza di una previsione che stabilisca l’esperibilità anche nel corso del predibattimento dell’incidente probatorio per l’esame dell’imputato e dei soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. L’Autore ritiene inoltre che il pubblico ministero possa fare richiesta di incidente probatorio, in via transitoria, non solo nel corso della fase predibattimentale, ma anche successivamente nell’ipotesi in cui non sia ancora stata disposta la lettura ex art. 513 c.p.p., ‘‘nella previsione di poter così ‘compensare’ il rischio che nel giudizio l’imputato e le persone indicate all’art. 210 si avvalgano della facoltà di non rispondere’’.
— 763 — c.p.p., fa ritenere che la pendenza del procedimento davanti a quell’ufficio, costituisca presupposto di ammissibilità della richiesta probatoria’’ (31). 4. Resta ancora aperto il problema circa la reale portata della norma transitoria. Alla luce di quanto già detto non si può che concludere per la non applicabilità della stessa nei procedimenti penali che, all’entrata in vigore della legge, si trovino già nella fase del giudizio, ivi compresa, dunque, la fase degli atti preliminari al dibattimento: l’art. 6 è applicabile solo al di quà di tale soglia. Si tratta ora di stabilire se il legislatore abbia inteso riferirsi a fasi precedenti e, se sì, a quali. La norma transitoria è da ritenersi inutiliter data rispetto a quei procedimenti che si trovino nella fase delle indagini preliminari, alla data di entrata in vigore della legge: stante l’immediata operatività della riforma, sia il magistrato del pubblico ministero sia la persona sottoposta alle indagini possono accedere alla procedura di incidente probatorio, così come modificata quanto alle condizioni di accesso. Secondo parte della dottrina (32) il legislatore nel dettare la norma ha, molto probabilmente, tenuto conto dell’eventualità che, all’entrata in vigore della legge, il pubblico ministero avesse già esercitato l’azione penale mediante la richiesta di rinvio a giudizio o di giudizio immediato, senza aver potuto attivare, nel corso delle indagni preliminari, la procedura di incidente probatorio per la mancata sussistenza di quei presupposti di indifferibilità ed urgenza, cui il testo originario dell’art. 392 condizionava l’ammissibilità della domanda (33): attraverso la previsione di cui al citato art. 6, comma 1, si è consentito al pubblico ministero di procedere alla pre-assunzione dell’esame delle parti nell’ipotesi che il lungo lasso di (31) G. LOCATELLI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., p. 5. Contra R. BRICCHETTI, Infondata la questione di costituzionalità, cit., p. 85: l’interpretazione sistematicamente più convincente è quella di consentire al pubblico ministero di esperire l’incidente probatorio presso il giudice per le indagini preliminari, anche nella fase degli atti preliminari al dibattimento. Viene attribuita in via temporanea allo stesso giudice una competenza nuova e atipica, che non si sovrappone a quella per gli atti urgenti di cui all’art. 467 c.p.p., in quanto questi ultimi presuppongono la non rinviabilità della prova (si v. nota precedente). (32) Cfr. sul punto A.A. DALIA, op. cit., p. 200 ss. (33) È da sottolineare come, secondo alcuni Autori, la sent. Corte Cost. n. 361 del 1998 (con la quale, com’è noto, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2 c.p.p., ‘‘nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti od ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità altrui già oggetto di sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500, commi 2-bis e 4 c.p.p.’’) ha svuotato di pregnanza l’intervento in materia di incidente probatorio operato dalla legge n. 267 del 1997 mediante l’estensione della praticabilità dell’istituto con riguardo all’esame su fatto altrui della persona sottoposta alle indagini e dei soggetti di cui all’art. 210, volta a garantire in costanza di contraddittorio l’acquisizione anticipata di materiale conoscitivo altrimenti destinato ad andare perduto di fronte all’esercito in dibattimento dello jus tacenti da parte del dichiarante, e ciò per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, appare ora improbabile che il pubblico mistero si risolva a chiedere l’espletamento dell’incidente probatorio ex art. 392 lett. c) e d), potendo, in seguito a tale declaratoria d’incostituzionalità, acquisire comunque le dichiarazioni precedentemente rese attraverso il meccanismo delle contestazioni ex art. 500, comma 2-bis e 4 c.p.p. ‘‘Molto più semplice e vantaggioso evitare la necessaria discovery, che inevitabilmente riduce l’efficacia dell’investigazione, per differire la sua audizione ed attendere che al silenzio dibattimentale consegua l’acquisizione di quanto in segreto riferito’’: I. FRIONI, Equilibrismi ed improbabili simmetrie nella sentenza n. 361/98 della Corte Costituzionale, in Cass. pen., 1999, n. 154, p. 440. In secondo luogo, tale decisione, facendo sostanzialmente cadere i limiti previsti nella nuova disciplina dell’utilizzabilità in dibattimento delle predette dichiarazioni, a cui, come si è già osservato, la modifica apportata al meccanismo di assunzione anticipata della prova era funzionalmente collegata, avrebbe reso problematico il reperimento di una razionale giustificazione del diverso trattamento in punto di ammissibilità dell’incidente probatorio tra assunzione della testimonianza ed esame delle parti (in questi termini è stata recentemente sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 392, comma 1, lett. c) e d) c.p.p., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dai Giudici per le indagini preliminari di Marsala e di Genova, dalla Corte dichiarata infondata con sent. n. 428 del 1999, in Guida dir., n. 47, 1999, p. 68 ss.).
— 764 — tempo intercorrente tra la richiesta di rinvio a giudizio o di giudizio immediato (34) e la data di celebrazione dell’udienza (35) o di emissione del decreto che dispone il giudizio immediato, potesse esporre la prova a rischi di inquinamento o dispersione (36). Non osterebbe ad una simile conclusione il rilievo, pur opportuno, che dalla preclusione dell’incidente probatorio dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio o di gudizio immediato, discende l’inidoneità della norma transitoria ad evitare il pregiudizio derivante all’accusa dall’immediata applicabilità delle nuove regole di acquisizione e valutazione a quei processi in corso che, alla data in vigore della legge, si trovino nella fase dibattimentale, senza che si sia ancora proceduto all’esame delle parti. Tale tesi, che pure ha il pregio di voler fornire un’interpretazione sistematicamente coerente della disposizione in esame, non può, però, essere condivisa: la norma che, nell’impianto originario del codice, prevedeva come termine ultimo di presentazione della richiesta la conclusione delle indagini preliminari (37), salva la possibilità di proroga di cui all’art. 393, comma 4, c.p.p., è stata integrata dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimi gli artt. 392 e 393 ‘‘nella parte in cui non consentono che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente possa essere richiesto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare’’ (38). L’estensione dell’incidente probatorio all’udienza preliminare operata dal giudice delle leggi (39) non può non intendersi riferita anche allo spazio processuale intercorrente tra il deposito della richiesta di rinvio a giudizio e l’effettivo svolgi(34) G. BOCHICCHIO, op. cit.: anche se, in quest’ultima ipotesi, appare contraddittorio il comportamento di un pubblico ministero che, reputata la prova di apparenza evidente sì da richiedere il giudizio immediato, avverta poi la necessità di esperire l’incidente probatorio. (35) Atteso il carattere ordinario dei termini compresi tra la richiesta del pubblico ministero e l’effettiva celebrazione: cfr. G. FRIGO, sub art. 418 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Utet, 1990, IV, p. 583. Proprio la mancanza di sanzioni processuali ha fatto registrare slittamenti enormi tra la richiesta di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare: cfr. R.E. KOSTORIS, sub art. 418 c.p.p., in Codice di procedura penale, a cura di A. GIARDA-G. SPANGHER, Ipsoa, 1998, p. 1734 ss. (36) Si veda in tal senso G. LOCATELLI, La riforma dell’art. 513 c.p.p., cit., p. 6. (37) Si veda l’isolata decisione del Giudice per le indagini preliminari Tribunale Roma, 2 novembre 1992, in Cass. pen., 1993, n. 1307 (con nota di P. RENON, L’incidente probatorio oltre la fase delle indagini preliminari: un’ipotesi non consentita), che dichiara con ordinanza l’ammissibilità, per interpretazione analogica dell’art. 393 comma 4 c.p.p., della richiesta d’incidente probatorio, nel caso in cui — presentata la domanda nel corso delle indagini preliminari — queste si concludano, con l’esercizio dell’azione penale, prima che il Giudice per le indagini preliminari abbia potuto disporre l’assunzione anticipata. (38) Sent. Corte Cost., n. 77 del 1994, in Giur. cost., 1994, n. 776; la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 c.p.p. traeva origine dal caso non infrequente in cui l’indagato venisse a conoscenza dell’esistenza di un procedimento a suo carico solo dopo la notifica della richiesta di rinvio a giudizio: in tali ipotesi, stante il limite cronologico a cui era soggetta la richiesta di incidente probatorio, costui risultava ormai decaduto dalla possibilità di accedere al meccanismo di formazione anticipata della prova. Sottolineano le difficoltà applicative, derivanti dalla sovrapposizione dell’incidente probatorio all’udienza preliminare: A. MACCHIA, Incidente probatorio e udienza preliminare, cit.; A. VIRGILIO, Proponibilità dell’incidente probatorio nell’udienza preliminare: riflessioni, in Giust. pen., 1994, I, p. 129. Esprime una valutazione favorevole sull’intervento della Consulta, arrivando a sostenere l’opportunità di estendere l’incidente probatorio in altre udienze: P. TONINI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: nuove prospettive per il diritto di difesa, in Cass. pen., 1994, n. 1251. (39) È opportuno ricordare che nelle due ordinanze di remissione, la questione di legittimità costituzionale era stata incentrata non sulla mancanza di operatività di tutto l’art. 392 c.p.p. nel corso dell’udienza preliminare, ma solo di quella particolare ipotesi di perizia disciplinata dall’art. 392 cpv. che, ‘‘se disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni’’. La Corte, in violazione del principio di ‘‘corrispondenza tra chiesto e pronunciato’’, ha poi esteso la questione di costituzionalità all’art. 392 c.p.p. tout court. Si è osservato che se la Corte avesse limitato questione al solo comma 2, questa sarebbe risultata, presumibilmente, o inammissibile per carenza di motivazione sulla sussistenza dei presupposti circa la necessità della perizia, oppure infondata per la non conciliabilità dell’estensione dell’incidente con i tempi ristretti dell’udienza preliminare e soprattutto per la non
— 765 — mento dell’udienza stessa (40): l’operatività dell’istituto rispetto a tale segmento processuale, oltre a trovare conforto in argomenti di carattere normativo (41), si riallaccia al principio di continuità investigativa, che si estrinseca nella facoltà per l’organo della accusa di svolgere indagini anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, comma 3, c.p.p.) ed altresì dopo il decreto che dispone il giudizio (art. 430 c.p.p.), ‘‘ben potendo darsi che per taluno degli elementi in tal modo acquisti insorgano le situazioni di non differibilità della prova previste dall’art. 392 c.p.p.’’ (42). Per quanto concerne, poi, l’attività d’indagine integrativa della difesa non vi sono ragioni per escluderne la configurabilità ed ammissibilità (43): tale legittimazione, pur non desumendosi direttamente dagli articoli sopra richiamati, trova fondamento sistematico nel principio di eguaglianza tra le parti processuali ricavabile dall’art. 3 Cost. e nel diritto di difesa garantito in ogni stato e grado del procedimento dall’art. 24 Cost. In conclusione, sembrerebbe che la norma transitoria non abbia un vero e proprio ambito di operatività e sia quindi difficile sottrarla ad un giudizio di superfluità, ‘‘dal momento che... copre tutte le possibili eventualità di ricorso alla procedura incidentale, tanto nella fase delle indagini preliminari, quanto in quella dell’udienza preliminare e di atti preliminari al dibattimento’’ (44). Un’opzione esegetica, tesa a salvare la norma e a non considerarla, dunque, tamquam non esset (45), potrebbe essere quella di ritenere che il legislatore, attraverso la disposizione de qua, abbia voluto fugare ogni dubbio in merito alla questione della riconducibilità o meno delle fattispecie contemplate all’art. 392 lett. c) e d), così come modificate dalla legge n. 267 del 1997, all’elenco dei vari casi, in cui è ammesso il ricorso all’incidente probatorio durante l’udienza preliminare o consentita l’attivazione del procedimento probatorio predibattimentale, legittimando espressamente il pubblico ministero a richiedere la pre-assunzione dell’esame delle parti, per un periodo di soli sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge. Come si è già osservato nel corso del presente lavoro, non è pacifico se la sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 1994 e l’art. 467 c.p.p. abbiano recepito o meno la riforma dell’art. 392 c.p.p. e se sia, quindi, possibile considerare attratta nella loro sfera applicativa l’intera rassegna delle prove operata da tale articolo. A questo riguardo, riassumendo brevemente la linea interpretativa che si è inteso seguire, si è notato, da un lato, che l’art. 467 c.p.p., pur richiamando i casi previsti dall’art. 392 c.p.p., ha puntualizzato che deve trattarsi di prove non ‘‘rinviabili’’ e che è indubbio che a tale espressione debba riconoscersi un valore rafforzativo, nel senso che deve trattarsi di prove ‘‘naturalmente’’ non rinviabili; dall’altro, che questo rilievo non impedisce, comunque, di ricomprendere le ipotesi di incidente probatorio summenzionate nel novero delle prove suscettibili di pre-assunzione: il legislatore non ha escluso la necessità della sussistenza del requisito conciliabilità con la ratio dello stesso art. 392, comma 2, c.p.p. (cfr. A. CASELLI LAPESCHI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare, cit., p. 109 ss.). (40) In senso conforme A. DI MAIO, Attività integrativa di indagine, Cedam, 1999, p. 157; G. BOCHICCHIO, op. cit. (41) Il Titolo IX del libro V del c.p.p., dedicato all’udienza preliminare, esordisce con la norma che definisce le modalità di presentazione della richiesta di rinvio a giudizio, da ciò deriva che tale fase non può essere costituita dalla sola udienza in senso stretto: ctr., G. BOCHICCHIO, op. cit. (42) Sent. Corte Cost., n. 77 del 1994, cit. (43) A. DI MAIO, Attività integrative di indagine, cit., p. 70. (44) A.A. DALIA, Le disposizioni transitorie, cit., p. 204 e ss. (45) G. BOCHICCHIO, op. cit.: ‘‘L’interprete è tenuto alla conservazione dei valori normativi’’.
— 766 — della ‘‘non rinviabilità’’ perché nella fase degli atti preliminari al dibattimento si possa procedere all’acquisizione anticipata dell’esame delle parti, ma ha solo dispensato il richiedente dall’onere di provarlo attraverso una presunzione, in via assoluta, di indifferibilità della prova suddetta. Le medesime osservazioni possono essere evocate anche a proposito della problematica dell’ambito applicativo della citata sentenza n. 77 del 1994: in tale pronuncia, infatti, si parla di prove ‘‘non rinviabili al dibattimento’’, come presupposto di ammissibilità della richiesta di assunzione anticipata delle stesse a norma dell’art. 392 c.p.p. anche nel corso dell’udienza preliminare (46). In realtà, chi scrive è dell’avviso che l’intenzione del legislatore non fosse quella di fare chiarezza su un punto tanto dibattuto attraverso una norma transitoria, che conferisse, senza possibilità di equivoci, all’organo dell’accusa la facoltà di richiedere, con incidente probatorio, l’esame delle parti sia nell’udienza preliminare sia nel predibattimento: la finalità perseguita non è stata quella di voler stabilire l’espressa praticabilità dell’istituto per l’assunzione della prova suddetta rispetto a tali due momenti, ma, più semplicemente, estenderne l’ambito applicativo ben oltre le fasi processuali in cui, in via ordinaria, è destinato ad operare, come corrispettivo della inutilizzabilità delle dichiarazioni precedenti sancita dal nuovo art. 513 c.p.p. In definitiva, stante l’immediata operatività del riformulato testo del citato articolo nei procedimenti penali che, all’entrata in vigore della legge, si trovino nella fase dibattimentale, senza che si sia ancora proceduto all’esame dell’imputato e delle persone di cui all’art. 210 c.p.p., si è inteso compensare il rischio per il pubblico ministero che nel giudizio tali soggetti si avvalgano della facoltà di non rispondere, attraverso la previsione, in sede di disciplina transitoria, di un’ipotesi di ‘‘rimessione in termini’’ per la richiesta di incidente probatorio, lasciando poi all’interprete la soluzione dello spinoso problema della compatibilità della portata concettuale dell’istituto con il suo momento attuativo. Tale lettura estensiva della norma incontra, come già osservato, insuperabili ostacoli di ordine logico e sistematico dalla Corte stessa ribaditi nella sentenza in epigrafe: non può attribuirsi ad una norma transitoria (47) un effetto sì dirompente da sovvertire un sistema processuale fondato sulla centralità del dibattimento come luogo esclusivo di formazione della prova e, quindi, ammettere, nel corso del suo svolgimento, l’esperibilità di uno strumento, l’incidente probatorio, la cui natura eccezionale non ha altro scopo di ribadire proprio l’accusatorietà di quel sistema in tema di elaborazione probatoria. Alla luce di queste ultime considerazioni, non ci si può, pertanto, esimere dal criticare il frequente fenomeno del ‘‘pendolarismo legislativo’’, di cui la norma transitoria costituisce un esempio, fondato sull’esigenza di interventi contingenti o dettato da singoli casi, che dà luogo a discipline normative scoordinate tra loro, fonte di dubbi interpretativi all’origine di applicazioni inevitabilmente contrastanti della stessa disposizione (48). (46) R. BRICCHETTI, Il meccanismo, delle contestazioni salva il principio del contraddittorio, nota a sent. Corte Cost. n. 428 del 1999, cit., p. 74: l’Autore è dell’avviso che la sentenza Corte Cost. n. 77 del 1994 era imperniata sul rilievo che l’incidente probatorio fosse previsto solo per ovviare a concrete e non presunte ‘‘situazioni di indifferibilità della prova’’ e sulla possibilità dell’insorgenza di dette situazioni nella fase dell’udienza preliminare. (47) G. ILLUMINATI, Lineamenti essenziali delle più recenti riforme, cit., p. 13: la disciplina transitoria, ‘‘dovrebbe avere solo la funzione di chiarire i dubbi residui’’. (48) N. GALANTINI, Considerazioni sul principio della legalità processuale, in Cass. pen., 1998, n. 978, spec. p. 1992; M. NOBILI, Principio di legalità, processo, diritto sostanziale, in ID., Scenari e trasformazioni del processo penale, Cedam, 1998, p. 181 ss. Si rinvia a tali Autori per un analisi approfondita sulle conseguenze della ‘‘crisi della legalità’’ nel processo penale.
— 767 — A tale tecnica legislativa la responsabilità di aver trasformato il nostro codice in ‘‘un informe coacervo di norme’’ (49). GWENDOLINE GUCCIONE Università degli Studi di Bologna
(49)
G. GIOSTRA, cit., p. 664.
— 768 — c) Giudizi di merito
I PRETURA DI VERBANIA — Sez. dist. di Arona — 15 novembre 1994 Pret. Mattei — Imp. Raspanti Lesioni colpose - Infortunio sul lavoro - Affidamento circa la conformità alle misure di sicurezza di un’autogrù munita di certificato di omologazione ISPESL - Irrilevanza - Sussistenza della colpa. Ove un macchinario si presenti non conforme alle misure di sicurezza contemplate dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro ha l’obbligo o di adeguarlo alla normativa o di inibirne l’uso. L’avvenuta omologazione di un’autogrù, eseguita previa verifica di un funzionario dell’ISPESL (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) non è esaustiva in ordine ai sistemi di sicurezza, limitandosi a riferire che l’accesso alla cabina di manovra è ‘‘diretto’’, ma senza pronunciarsi sulla sicurezza del sistema di cui alla lettera a) dell’art. 182 del d.P.R. n. 547, del 1955. In ogni caso, se è pur vero che l’atto della p.a. può costituire un elemento su cui fondare un erroneo convincimento, è altresi vero che non per il solo fatto che vi sia stata una pronuncia amministrativa per ciò solo il privato è esonerato da una particolare diligenza e obbligo di verifica. Ciò a maggior ragione nel caso in cui l’agente sia dotato di esperienza professionale specifica. Del resto, ove si accedesse ad una tesi diversa, le norme sulla sicurezza dei macchinari diverrebbero sostanzialmente lettera morta (1). II CORTE DI APPELLO DI TORINO — III sez. — 22 maggio 1998 Pres. Aragona — Est. Grasso — Imp. Raspanti Lesioni colpose - Infortunio sul lavoro - Ragionevole opinione della sicurezza di un’autogrù munita di certificato di omologazione ISPESL - Esclusione della responsabilità penale. Il legale rappresentante di una s.c.r.l. che — mantenendo in esercizio un’autogrù munita di sistema di accesso alla cabina non conforme ai requisiti previsti dall’art. 182 lett. a) d.P.R. n. 547 del 1955 — cagiona lesioni ad un lavoratore, scivolato nella discesa dalla cabina effettuata con modalità difformi da quelle impartitegli, non risponde del reato di cui all’art. 589, comma 2 c.p., qualora versi nella ragionevole opinione della sicurezza della suddetta autogrù, desunta da apposito certificato di omologazione rilasciato dall’ISPESL, comprensivo dell’attestazione della conformità dell’autogrù ‘‘ai fini della sicurezza’’ (2). I (Omissis). — Il 6 marzo 1992, Martinelli Enzo operaio di 4o livello alle dipen-
— 769 — denze della Trafori di Stresa s.c.r.l. scendeva dalla cabina della grù, agganciandosi con la mano destra al corrimano. Prima di ultimare la discesa, lasciava il corrimano, ma scivolava (forse a causa di macchie d’olio sui gradini) e si causava le lesioni di cui al capo di imputazione (cfr. teste Martinelli). La macchina dalla quale cadeva il Martinelli era un autogrù con una cabina di guida posta a mt. 1,30 da terra cui si accedeva attraverso tre gradini della larghezza di cm. 10 (cfr. teste Della Valle). L’espletata istruttoria ha permesso di raggiungere la prova della responsabilità penale dell’imputato in ordine al reato ascritto. Quanto all’elemento oggettivo del reato in esame, la condotta contestata e provata è consistita nel mantenere in esercizio una autogrù non conforme alle prescrizioni di legge in materia di sicurezza di accesso. L’art. 4 comma 3 d.P.R. n. 547 del 1955 impone ai datori di lavoro di attuare le misure di sicurezza previste nel menzionato decreto, tra le quali rientrano indubbiamente quelle relative alla sicurezza dei macchinari e in particolare alle modalità di accesso, di manovra e alla visibilità. Pertanto, ove un macchinario si presenti non conforme alle misure di sicurezza contemplate dalla normativa antiinfortunistica, il datore di lavoro ha l’obbligo o di adeguarlo alla normativa o di inibirne l’uso. Nel caso in esame pertanto deve in primis valutarsi se il macchinario era conforme a sistemi di sicurezza. Deve in primo luogo rilevarsi che per omologazione di un prodotto industriale si intende la procedura tecnico amministrativa con la quale viene provata la rispondenza del tipo di prodotto a specifici requisiti prefissati a fini prevenzionali dalla legge n. 833 del 1978, e precisati quindi da singoli decreti ministeriali di attuazione. Giova in proposito rilevare che l’avvenuta omologazione dell’autogrù in esame, eseguita previa verifica di un funzionario dell’ISPESL non è esaustiva in ordine ai sistemi di sicurezza per l’accesso ai posti di manovra, limitandosi a riferire che l’accesso è ‘‘diretto’’, ma senza pronunciarsi sulla sicurezza del sistema [di cui al punto a) dell’art. 182 d P.R. n. 547 del 1955], come invece a proposito dei sistemi di cui alle lett. c) e b) della medesima norma. Dall’altro canto, deve ritenersi che proprio l’impossibilità o estrema difficoltà nel definire un corretto modo di discesa (cioè se con il piede posto frontalmente alla macchina o lateralmente) dovrebbero suggerire di creare un sistema di accesso che garantisca comunque la sicurezza del lavoratore. Nel caso in esame, la esigua larghezza delle mensole di appoggio non può ritenersi consenta un tranquillo raggiungimento del posto di manovra. Infatti, sia che si acceda ponendo il piede lateralmente, sia frontalmente, comunque la base di appoggio è scarsa e facilita eventuali cadute e slittamenti. Dall’altro canto questo Pretore ritiene che la discesa con poggiata laterale del piede non sia razionale considerando la posizione delle manopole di sostegno e del corrimano. È difficile, infatti, ipotizzare una discesa laterale con entrambe le mani ancorate ai sostegni che appaiono sulle fotografie, comportando la manovra una innaturale torsione del busto con conseguente maggiore instabilità. Tanto premesso in ordine alle intrinsiche condizioni di sicurezza della macchina e al suo utilizzo nel cantiere ove operava il Martinelli sotto la direzione dell’odierno imputato, il problema succesivo è verificare se vi sia un nesso di casualità tra la condotta dell’imputato e l’evento dannoso. In proposito non sembra pos-
— 770 — sano sussistere dubbi, atteso che per dichiarazione del Martinelli la caduta e le conseguenti lesioni sono state determinate dall’essere scivolato dai gradini. Il nesso eziologico è pertanto indiscutibile. Ulteriore problema è se sia configurabile un profilo di colpa in capo al Raspanti. Sussiste — anche alla luce di quanto abbiamo testé esposto — un profilo di colpa specifica costituita dalla inosservanza della normativa sulla prevenzione infortuni, avendo egli consentito l’utilizzo di un macchinario il cui posto di manovra non è raggiungibile senza pericolo. A parere di questo il Pretore è poi configurabile anche un profilo di colpa generica, sub specie di negligenza ed imprudenza, in quanto il Raspanti, nonostante la sua qualifica professionale e l’esperienza maturata, non ha verificato la rispondenza della macchina ai sistemi di sicurezza, accontentandosi del certificato di omologazione dell’ISPESL, che taceva propio sul punto in questione. Ciò che tuttavia maggiormente rileva è se sussistano i due ulteriori profili necessari per integrare la colpa e cioè la prevedibilità ed evitabilità dell’evento valutati secondo il principio della maggior scienza ed esperienza. Questo Pretore ritiena che l’esperienza e la qualifica professionale del Raspanti avrebbero consentito di prevedere la possibilità del verificarsi di un infortunio del genere di quello occorso al Martinelli essendo piuttosto evidente — anche ad un profano — la scomodità dell’accesso. D’altro canto, facilmente evitabile era il verificarsi dell’evento dannoso essendo possibile fornire al lavoratore un diverso macchinario rispondente alla normativa per la prevenzione infortuni. Solo un’ultima considerazione per quanto attiene alla tesi difensiva basata sull’ignoranza scusabile della legge penale e specificatamente sull’interpretazione dell’art. 5 c. p., alla luce della sentenza della Corte Costituzionale. Questo Pretore deve rilevare che se pure è vero che l’atto della p.a. può costituire un elemento su cui fondare un erroneo convincimento, è altresì vero che non è per il solo fatto che vi è stata una pronuncia amministrativa per ciò solo il privato è esonerato da una particolare diligenza e obbligo di verifica. Nel caso in esame, la considerazione vale a fortiori, essendo il Raspanti un tecnico dotato di esperienza professionale specifica. D’altro canto, ove si accedesse ad una tesi diversa, diverrebbero sostanzialmente lettera morta le norme sulla sicurezza dei macchinari. (Omissis). Alla luce di quanto esposto, sussiste sia l’elemento oggettivo, sia quello soggettivo dei reati contestati, i quali devono ritenersi unificati dal vincolo della continuazione. (Omissis). II (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — Ritiene questa Corte, in conformità alle conclusioni assunte all’odierna udienza dal P.G. e dalla Difesa, che l’appello debba essere accolto. (Omissis). Per il delitto, la Difesa, nell’atto di appello, ha riproposto la problematica circa la certificazione di piena conformità di quella autogrù alle misure di sicurezza prescritte dalla normativa antiinfortunistica, da parte dell’ing. Francesco Gagiotti, dell’ISPESL (Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), nei termini che in precedenza si sono già evidenziati. Del pari, e in sostanziale convergenza, la stessa Difesa appellante ha ripreso
— 771 — la problematica delle modalità di discesa adottate qui dall’infortunato, come dallo stesso ammesso nel verbale di esame sopra riprodotto. Ritiene la Corte che, nell’attuale ricostruzione dell’infortunio, non si debba e non si possa allontanarsi dalle due problematiche di cui sopra. E ciò, esattamente nei termini fatti propri dallo stesso P.G., nelle proprie conclusioni all’odierno giudizio di appello, e cioé con uno sbocco assolutorio per l’attuale appellante. Insegna la S.C., al riguardo che in tema di responsabilità per infortuni sul lavoro, il responsabile della sicurezza ha l’obbligo di consegnare al dipendente macchinari provvisti di ogni opportuno dispositivo antinfortunistico; tuttavia il diretto e principale destinatario della regola che impone l’adozione delle necessarie cautele è il costruttore della medesima, sicché non è attribuibile alla responsabilità del datore un incidente verificatosi nonostante la piena corrispondenza del macchinario, come fornito dal costruttore, alle regole della prevenzione antinfortunistica, secondo le prescrizioni delle norme in materia (Cass. Sez. III, 14 marzo 1997, Barreri). Sempre in materia, la S.C., insegna che ‘‘va ritenuto esente da responsabilità per difetto dell’elemento psicologico, il destinatario delle norme antinfortunistiche il quale, in epoca precedente a riscontrate irregolarità della macchina da parte dell’Isp. del lavoro, si preoccupò di verificare la piena osservanza delle norme di sicurezza, facendo a tal fine eseguire sulla macchina una verifica’’ (Cass., Sez. III, 31 ottobre 1984, Castagnola). Nella specie, e sulla base delle indicazioni contenute nella suddetta certificazione di conformità, l’imputato versava nella ragionevole opinione della sicurezza della autogrù; al sinistro, nel caso in esame, come ammesso dallo stesso infortunato, ha contribuito il modo in cui è stata effettuata la discesa, secondo quanto riprodotto nella narrativa dell’atto di appello, in aderenza alle risultanze acquisite. Non vi è dubbio che per addebitare la omissione a titolo di colpa, ex art. 40, cpv. c.p., occorre verificare comunque se detta omissione di cautele sia rimproverabile sotto il profilo colposo al ‘‘garante’’. Addossare, nel caso in esame, alla luce di quanto sopra, una responsabilità al prevenuto, equivarrebbe fargli carico di una colpa in forza di una semplice ‘‘posizione’’, in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale, di cui agli artt. 25 e 27 Cost. Consegue l’assoluzione dell’imputato dal delitto sub B), perché il fatto non costituisce reato. (Omissis). —————— (1-2)
Principio di affidamento e certificato di omologazione.
SOMMARIO: 1. Il fatto. — 2. La vicenda processuale. — 3. Il problema. - 3.1. (Segue): la soluzione del giudice di primo grado. - 3.2. (Segue): la soluzione del giudice d’appello. — 4. Funzione dell’ISPESL e individuazione di una posizione di garanzia in capo ai suoi funzionari preposti al rilascio del certificato di omologazione. — 5. Collocazione dogmatica del problema e sue posslbili soluzioni. — 6. Profili processuali. — 7. Conclusioni.
1. Il fatto: un operaio, scendendo dalla cabina di guida di un’autogrù, appoggia il piede sulla mensola sottostante, larga circa dieci centimetri, e non trovando sufficiente appoggio, anche per la presenza di grasso sulle suole delle scarpe, cade a terra e si frattura un femore. 2. Il legale rappresentante dell’impresa per la quale l’operaio lavora viene quindi tratto a giudizio per il reato previsto dall’art. 182, d.P.R. n. 547 del 1955,
— 772 — ‘‘perché... manteneva in esercizio l’autogrù... senza che la stessa consentisse di raggiungere senza pericoli il posto di manovra, poiché il sistema di accesso alla cabina di guida era inadeguato perché costituito da un insieme di tre piani di appoggio, ciascuno della larghezza di 10 centimetri, e pertanto inidoneo ad offrire ai piedi una completa ed adeguata base di appoggio’’, e per il reato previsto dall’art. 590 c.p., avendo cagionato lesioni gravi ad un dipendente ‘‘per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e nella violazione dell’art. 182 lett., a) d.P.R. n. 547, 1955’’. L’imputato si difende sostenendo di aver fatto affidamento sulla sicurezza dell’autogrù: tale macchina, infatti, era munita di apposito certificato di omologazione rilasciato dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (d’ora in poi ISPESL), comprensivo di attestazione della conformità dell’autogrù ‘‘ai fini della sicurezza’’. Il giudice di primo grado condanna l’imputato, rigettando la tesi del ragionevole affidamento nella conformità dell’autogrù alle norme antiinfortunistiche ingenerato dal predetto certificato di omologazione. Secondo il Pretore di Domodossola, infatti, ‘‘se è pur vero che l’atto della p.a., può costituire un elemento su cui fondare un erroneo convincimento, è altresì vero che non per il solo fatto che vi sia stata una pronuncia amministrativa per ciò solo il privato è esonerato da una particolare diligenza e obbligo di verifica. Nel caso in esame la considerazione vale a fortiori, essendo [l’imputato] un tecnico dotato di esperienza professionale specifica’’, ed essendo ‘‘piuttosto evidente — anche ad un profano — la scomodità dell’accesso’’ alla cabina di guida dell’autogrù. Il giudice di secondo grado, pur non contestando il giudizio di intrinseca insicurezza dell’autogrù formulato dal Pretore, assolve invece l’imputato che ‘‘sulla base delle indicazioni contenute nella... certificazione di conformità [ai fini della sicurezza]... versava nella ragionevole opinione della sicurezza della autogrù’’. 3. Le sentenze che si annotano pongono due questioni di particolare interesse. In primo luogo, ci si chiede se (ed eventualmente in quali limiti) vada esente da responsabilità penale il datore di lavoro che faccia affidamento nel certificato di omologazione di un’autogrù rilasciato dall’ISPESL, comprensivo dell’attestazione della sua conformità ‘‘ai fini della sicurezza’’, laddove di fatto la macchina omologata si riveli insicura, e il suo impiego contribuisca a cagionare un infortunio sul lavoro. In secondo luogo, ove si acceda alla tesi dell’efficacia lato sensu scusante dell’omologazione, occorre soffermarsi sul suo inquadramento dogmatico: errore indotto da un atto della pubblica amministrazione (1); ovvero, in applicazione del principio di affidamento (2), limite alla misura di diligenza esigibile dall’agente, e conseguentemente, trattandosi di reato omissivo improprio colposo (3), — in cui (1) Eventualmente riconducibile alla disciplina dell’art. 5 c.p. secondo quanto prospettato nelle sentenze annotate; ovvero, più correttamente alla disciplina dell’art. 47 co. 1 c.p. (cfr. infra, § 5 e ivi nota 26). (2) Sul quale si vedano, tra gli altri, MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 199 s.; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, in particolare p. 242 e p. 273 ss., nonché, da ultimo, e nell’ambito dell’unica monografia sinora pubblicata sul tema nella letteratura italiana, M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, cui si rinvia (p. 4, nota n. 5) anche per l’ulteriore bibliografia. Sul (limitato) ruolo svolto finora dal principio di affidamento nello specifico settore del diritto penale del lavoro, VOLPE, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 102 ss. (3) Invero, solo nella sentenza d’appello si configura esplicitamente il reato come omissivo; viceversa, nel capo d’imputazione si contestava all’imputato di aver cagionato lesioni alla persona offesa ‘‘... per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e nella violazione dell’art. 182 d.P.R. n. 547 del
— 773 — conforme al tipo è soltanto l’omissione della condotta richiesta dalle regole di diligenza oggettiva destinate al titolare dell’obbligo di attivarsi (4), — limite interno alla tipicità del fatto colposo? Il problema di inquadramento non è solo teorico: investe anche i profili processuali (per la diversità dell’eventuale formula di proscioglimento) e, conseguentemente, gli eventuali riflessi civilistici concernenti le pretese risarcitorie (5). Prima di approfondire le due questioni segnalate sembra utile ripercorre i passaggi argomentativi più significativi delle due pronunce, a partire da quella pretorile, richiamata in diversi punti dalla concisa sentenza del giudice d’appello. 3.1. All’imputato si contestava, quale profilo di colpa specifica — e in aggiunta alla contestata colpa generica —, la violazione dell’art 182, comma 1 lett. a) del d.P.R. n. 547 del 1955, ai sensi del quale ‘‘[i] posti di manovra dei mezzi ed apparecchi di sollevamento e di trasporto devono... potersi raggiungere senza pericolo’’ (6). Il giudice di primo grado individua nella condotta dell’imputato sia profili di colpa specifica che di colpa generica. Quanto ai primi, egli ritiene che ‘‘l’avvenuta omologazione dell’autogrù in esame, eseguita previa verifica di un funzionario dell’ISPESL non è esaustiva in ordine ai sistemi di sicurezza per l’accesso ai posti di manovra, limitandosi a riferire che l’accesso è ‘diretto’, ma senza pronunciarsi sulla sicurezza del sistema di cui alla lettera a) dell’art. 182 del d.P.R. n. 547 del 1955’’. L’affermazione del Pretore sul punto non persuade: il funzionario dell’ISPESL, dopo aver verificato minutamente le caratteristiche tecniche della macchina — tra le quali l’accesso ‘‘diretto’’ alla cabina, senza ulteriori specificazioni sulla sua intrinseca ‘‘sicurezza’’ — conclude sottoscrivendo la formula prestam1955 mantenendo in esercizio l’autogrù... non conforme alle prescrizioni dell’art. 182, comma 1 lett. a) d.P.R. n. 547 del 1955...’’. Del pari, nella sentenza di condanna in primo grado non compare alcun riferimento all’art. 40, cpv., c.p. né compaiono altri riferimenti espressi al concetto di condotta omissiva. È peraltro sufficientemente chiaro, soprattutto dal tenore della sentenza di primo grado, che all’imputato si rimproverava una condotta omissiva, consistente nel non aver inibito l’uso dell’autogrù ritenuta intrinsecamente pericolosa o, perlomeno, nel non averla adeguata ai più severi standard di sicurezza ritenuti doverosi. Nel caso di specie, sembra trovare applicazione il criterio solitamente utilizzato in dottrina (cfr. da ultimo DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione per ‘‘l’aumento del rischio’’, in questa Rivista, 1999, p. 58) per risolvere la (spesso problematica) questione della distinzione tra condotta commissiva colposa (violazione di un divieto) e condotta omissiva colposa (violazione di un comando): il datore di lavoro, all’epoca dei fatti, era infatti destinatario sia di un comando di contenuto più ‘‘generico’’ — attuare le misure di sicurezza previste dal d.P.R. n. 547/1955, ai sensi dell’art. 4 del medesimo —, sia di un comando di contenuto più specifico (‘‘i posti di manovra dei mezzi ed apparecchi di sollevamento e di trasporto devono...potersi raggiungere senza pericolo’’: art. 182 comma 1 lett. a) d.P.R. n. 547/1955). (4) Si tratta di un dato da tempo acquisito in dottrina: afferma che ‘‘la tipicità delle omissioni improprie dipende, integralmente, dalla loro ‘colpevolezza’’’, MARINUCCI, La colpa, cit., p. 101 s. Da ultimo, nello stesso senso, M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento, in questa Rivista, 1997, p. 1059. In senso parzialmente difforme, nega, nei reati omissivi impropri colposi, la coincidenza tra obbligo di garanzia e obbligo di diligenza, sottolineando che la loro distinzione, sul terreno logico e sistematico, ‘‘è già richiesta dal fatto che il dovere di garanzia fonda (meglio, concorre a fondare) l’omissione, mentre il dovere di diligenza segnala quando l’omissione è (oggettivamente) colposa’’, M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 2a ed., Milano, 1995, sub art. 43, p. 435. (5) M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1060. (6) Si tratta di di una disposizione riconducibile alla classe delle c.d. norme ‘‘elastiche’’, le quali, secondo una nota definizione (MARINUCCI, La colpa, cit., p. 237; nello stesso senso FORTI, p. 485 ss., con numerose esemplificazioni riferite proprio al d.P.R. n. 547/1955) abbisognano, per essere applicate, ‘‘di un legame più o meno profondo, e più o meno esteso, con le circostanze del caso concreto’’; a tale classe di norme si contrappongono, come noto, le c.d. norme ‘‘rigide’’, ‘‘il cui schema di comportamento è stato fissato con assoluta nettezza’’ (MARINUCCI, La colpa, cit., p. 236 s.). La norma in esame, secondo la terminologia utilizzata da FORTI (Colpa ed evento, cit., p. 488 ss.) mira ad impedire il ‘‘sotto-evento’’, o ‘‘evento intermedio’’ rappresentato dalla caduta del lavoratore, e dunque ad evitare l’evento finale primario (lesioni o morte del lavoratore).
— 774 — pata apposta in calce al certificato di omologazione, secondo cui ‘‘in base a quanto rilevato ed al risultato delle prove eseguite, la grù n... di matricola, risulta adeguata ai fini della sicurezza’’. Sembra dunque che il giudizio ‘‘globale’’ sulla adeguatezza ai fini della sicurezza tout court incorpori ed assorba l’omesso giudizio ‘‘particolare’’ sulla sicurezza dell’accesso al posto di manovra richiesta dall’art. 182 comma 1 lett. a) del d.P.R. n. 547 del 1955. Tuttavia, quest’ultima precisazione non appare idonea ad inficiare il ragionamento del giudice di primo grado il quale, più radicalmente, opera un’autonoma valutazione delle condizioni di sicurezza della macchina, del tutto indipendente dalle risultanze tecniche — non importa se analitiche o sintetiche — cristallizzate nel certificato di omologazione. Ciò risulta chiaramente dalle cadenze argomentative attraverso le quali si snoda la pronuncia pretorile: dapprima si contesta — su un piano ‘‘formale’’ — la non esaustività dell’attestazione di conformità ai sistemi di sicurezza, quindi si passa a contestare nel ‘‘merito’’ la corrispondenza del sistema di accesso alle misure di sicurezza prescritte dalla normativa antiinfortunistica, indipedentemente dai criteri di valutazione utilizzati dal funzionario dell’ISPESL. Afferma infatti il Pretore: ‘‘deve ritenersi che proprio la impossibilità o estrema difficoltà nel definire un corretto modo di discesa (cioè se con il piede posto frontalmente alla macchina o lateralmente) dovrebbero suggerire di creare un sistema di accesso che garantisca comunque la sicurezza del lavoratore. Nel caso in esame, l’esigua larghezza delle mensole di appoggio non può ritenersi consenta un tranquillo raggiungimento del posto di manovra... [d]’altro canto... [si] ritiene che la discesa con poggiata laterale del piede non sia razionale considerando la posizione delle manopole di sostegno e del corrimano’’. Il Pretore individua inoltre un profilo di colpa generica (negligenza ed imprudenza) per non avere l’imputato — pur dotato di specifica qualifica professionale ed esperienza nel settore — verificato la rispondenza della macchina ai sistemi di sicurezza, ‘‘accontentandosi del certificato di omologazione dell’ISPESL, che taceva proprio sul punto in questione [la sicurezza o meno dell’accesso]’’. Il giudice di primo grado passa quindi a valutare la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, ritenendole entrambe sussistenti: la prima in quanto il modello di agente dotato dell’esperienza e qualifica professionale equivalenti a quelle dell’imputato ben avrebbe potuto prevedere il verificarsi di un evento del tipo di quello effettivamente occorso, ‘‘essendo piuttosto evidente — anche ad un profano — la scomodità dell’accesso’’; la seconda in quanto l’evento era ‘‘facilmente evitabile... essendo possibile fornire al lavoratore un diverso macchinario rispondente alla normativa per la prevenzione infortuni’’. Infine, il giudice a quo enuncia la massima riportata in apertura, e che costituirà oggetto del primo approfondimento: ‘‘se è pur vero che l’atto della p.a., può costituire un elemento su cui fondare un erroneo convincimento, è altresì vero che non per il solo fatto che vi sia stata una pronuncia amministrativa per ciò solo il privato è esonerato da una particolare diligenza e obbligo di verifica. Nel caso in esame la considerazione vale a fortiori, essendo [l’imputato] un tecnico dotato di esperienza professionale specifica. D’altro canto, ove si accedesse ad una tesi diversa, diverrebbero sostanzialmente lettera morta le norme sulla sicurezza dei macchinari’’. Tale passaggio costituisce l’ultimo anello di un’interpretazione alquanto restrittiva, fondata sui seguenti assunti: l’omologazione non era in concreto esaustiva circa la sicurezza dell’accesso; quand’anche la si ritenesse tale, residuerebbe comunque un ulteriore e autonomo dovere di diligenza in capo al datore di lavoro volto a verificare la conformità della macchina ai sistemi di sicurezza prescritti dalla normativa antiinfortunistica, discendente tra l’altro dalla posizione di garanzia scolpita dall’art. 4 comma 1 lett. a) del d.P.R. n. 547 del 1955. Quale riflesso soggettivo di tale ultima cadenza argomentativa, si sostiene l’ir-
— 775 — rilevanza dell’eventuale erroneo convincimento circa la liceità della propria condotta indotto ‘‘positivamente’’ d’apposito atto proveniente dalla pubblica amministrazione, laddove, come anzidetto, sussista in capo al destinatario della normativa antiinfortunistica un autonomo e ulteriore dovere di (diligente) verifica della conformità della macchina alla normativa antiinfortunistica. 3.2. Il Giudice d’appello ha implicitamente condiviso il giudizio di intrinseca insicurezza dell’autogrù formulato dal giudice di primo grado (7), sottolineando peraltro il contributo causale rappresentato dalla condotta colposa della persona offesa, che avrebbe aggravato nel caso concreto la ‘‘congenita’’ pericolosità dell’automezzo, adottando modalità improprie di discesa dalla cabina di guida verso terra: aveva omesso, infatti, di conformarsi alle prescrizioni contenute nel libretto di istruzioni dell’automezzo, aggrappandosi con una sola mano al corrimano e utilizzando scarpe da lavoro sporche di grasso. Nondimeno, ha finito con l’escludere la responsabilità per colpa dell’agente, il quale ‘‘versava nella ragionevole opinione della sicurezza della autogrù’’, ingenerata dal certificato di conformità della stessa alle misure di sicurezza prescritte dalla normativa antiinfortunistica, rilasciato, come sopra ricordato, da un Istituto di diritto pubblico dotato di specifiche competenze in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro. Ciò premesso, dovrebbero ora risultare più chiari i contorni fattuali e processuali nei quali si inscrivono le due questioni anticipate in apertura: quella dei limiti d’efficacia esimente da riconoscersi (eventualmente) al certificato di omologazione (cfr. infra, 4); quella, ove si risponda affermativamente alla prima, della sua collocazione dogmatica (cfr. infra, 5). 4. Sembra opportuno, anzitutto, approfondire la funzione dell’ISPESL (8), verificandone poteri e doveri, nonché la natura dei certificati di omologazione da esso rilasciati e la loro rilevanza giuridica, alla luce delle diverse normative succedutesi nel tempo (si allude, in particolare, al d.P.R. 31 luglio 1980 n. 619, e al decreto legge 30 giugno 1982 n. 390, conv. con modificazioni dalla legge 12 agosto 1982 n. 597, in parte abrogati dal decreto legislativo 30 giugno 1993 n. 268). L’ISPESL è Istituto di diritto pubblico che costituisce ‘‘organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale e dipende dal Ministro della sanità’’, ed è dotato, tra l’altro, ‘‘di autonomia scientifica, organizzativa, amministrativa e contabile’’ (art. 1 del decreto legislativo 30 giugno 1993, n. 268, recante ‘‘riordinamento dell’istituto superiore di prevenzione e sicurezza del lavoro, a norma dell’art. 1, comma 1, lett. h) della legge 23 ottobre 1992 n. 421). All’ISPESL spettano, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 619 del 1980: a) la ricerca, lo studio, la sperimentazione e l’elaborazione dei criteri e delle metodologie per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali... b) la individuazione, in via esclusiva, dei criteri di sicurezza e dei relativi metodi di rilevazione ai fini della omologazione di macchine, componenti...’’. L’ISPESL svolge inoltre, conformemente all’art. 1 del d.lgs. 30 giugno 1993 n. 268, attività di ‘‘standardizzazione tecnicoscientifica delle metodiche e delle procedure di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori’’ (lett.b), ‘‘certificazione o accreditamento dei labora(7) Sul punto la motivazione appare invero non priva di ambiguità, posto che essa richiama due sentenze della Suprema Corte, l’una che presuppone la piena conformità di una macchina alle regole della prevenzione antiinfortunistica, l’altra, al contrario, la difformità da dette regole. Tuttavia, l’assenza di censure espresse alla sentenza impugnata, che affermava apertis verbis l’insicurezza dell’autogrù, induce a ritenere che il giudice d’appello condivida sul punto le affermazioni del giudice a quo. (8) Sulla natura, finalità e organizzazione dell’ISPESL v. SALERNO-BERNARDINI, Prevenzione e sicurezza sul lavoro. Le innovazioni introdotte dal decreti legislativi n. 626 del 1994 e n. 242 del 1996, Padova, 1996, pp. 37-42.
— 776 — tori e degli organismi di certificazione previsti da norme comunitarie e da trattati internazionali’’ (lett. e), ‘‘consulenza tecnico-scientifica al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato per la vigilanza della conformità dei prodotti alle esigenze di sicurezza’’ (lett. f) e ‘‘consulenza di propria iniziativa o su richiesta del Ministro dell’industia, del commercio e dell’artigianato, sulle procedure di certificazione e di prova, ai fini dell’unificazione delle metodiche a livello nazionale e comuinitario’’ (lett. g). L’alto livello delle competenze proprio dell’ISPESL può inoltre desumersi dalla composizione del suo Comitato tecnico-scientifico, cui partecipano, tra gli altri, sei esperti scelti dal Ministro della sanità, un esperto designato dall’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro e un esperto prescelto dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale (art. 4 d.P.R. 18 aprile 1994 n. 441). La funzione dell’ISPESL è poi specificata nel decreto legge 30 giugno 1982 n. 390, convertito con modificazioni dalla legge 12 agosto 1982 n. 597, intitolato [D]isciplina delle funzioni prevenzionali e omologative delle unità sanitarie locali e dell’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, il cui art. 2 comma 1 statuisce che...è attribuita... all’ISPESL la funzione statale di omologazione dei prodotti industriali... nonchè il controllo di conformità dei prodotti industriali di serie al tipo omologato. Per omologazione di un prodotto industriale si intende la procedura tecnico-amministrativa con la quale viene provata e certificata la rispondenza del tipo o del prototipo di prodotto prima della riproduzione e immissione sul mercato, ovvero del primo o nuovo impianto, a specifici requisiti tecnici prefissati ai sensi e per i fini prevenzionali della legge 23 dicembre 1978 n. 833...’’ (9). Da ultimo, il d.P.R. 24 luglio 1996 n. 459, (10), (c.d. Regolamento macchine) ha disciplinato taluni poteri di certificazione e di vigilanza sulla conformità a sicurezza delle macchine in capo all’ISPESL. In particolare, tale normativa stabilisce che ‘‘le macchine o i componenti di sicurezza già immessi sul mercato o messi in servizio, per i quali, nel periodo compreso fra il 1o gennaio 1993 e la data di entrata in vigore del presente decreto, è stata presentata all’ISPESL domanda di omologazione non ancora respinta, si intendono legittimamente immessi sul mercato o messi in servizio se: a) l’ISPESL conclude positivamente il procedimento di omologazione; b) l’interessato trasmette la dichiarazione di conformità ed il fascicolo tecnico di cui al presente regolamento, nel termine di sessanta giorni dalla entrata in vigore del regolamento stesso, all’ISPESL, che provvede all’archiviazione della istanza di omologazione, previa verifica della sussistenza dei requisiti di cui all’allegato I...’’ (art. 11, comma 2). L’ISPESL, infine, riveste un ruolo tecnico assai significativo nella verifica della conformità delle macchine ai requisiti essenziali di sicurezza contenuti nell’allegato I del d.P.R. n. 459/1996. Tale controllo di conformità, infatti, è operato, ai sensi dell’art. 7 del d.P.R. citato, ‘‘dal Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato e dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, attraverso i propri organi ispettivi in coordinamento permanente tra loro al fine di evitare duplicazioni dei controlli’’ (comma 1). Nondimeno, le ‘‘amministrazioni di cui al comma 1, possono avvalersi, in conformità della legislazione vigente, per gli accer(9) Sostengono peraltro che all’attribuzione all’ISPESL di poteri formali in ordine, tra l’altro, alle attività di omologazione dei macchinari non abbia ‘‘fatto seguito alcun concreto esercizio di esse’’, poiché difetterebbe la definizione legislativa delle procedure e metodologie per i controlli di conformità dei prodotti ai tipi omologati, CULOTTA-DI LECCE-COSTAGLIOLA, Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, V ed., Milano, 1998, p. 16, nota 5. (10) Recante ‘‘Regolamento per l’attuazione delle direttive n. 89/392/CEE, n. 91/368/CEE, n. 93/44/CEE e 93/68/CEE concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine.’’
— 777 — tamenti tecnici, dell’Istituto superiore di prevenzione e sicurezza del lavoro (ISPESL) e degli altri uffici tecnici dello Stato’’ (comma 2). Il Ministero dell’industria, all’esito di tale controllo tecnico di conformità, ‘‘qualora sia constatato che una macchina o un componente di sicurezza, pur non accompagnati dalla dichiarazione di conformità ed utilizzati conformemente alla loro destinazione, rischiano di pregiudicare la sicurezza delle persone..., previa verifica dell’esistenza dei rischi segnalati, ne ordina il ritiro temporaneo dal mercato ed il divieto di utilizzazione...’’ (art. 7 d.P.R. n. 459/1996). Questa digressione sulla normativa che interessa l’ISPESL è parsa necessaria per dare conto della pienezza dei poteri di controllo attribuiti allo Stato a tale Istituto in materia di prevenzione degli infortuni e di omologazione delle macchine industriali, nonché dell’alto livello delle competenze rivestite dai componenti di alcuni suoi organi. Ciò premesso, occorre chiedersi se, ed eventualmente in quali limiti, tale pienezza di poteri di controllo attribuiti dallo Stato all’ISPESL (in particolare attraverso il decreto legge 30 giugno 1982 n. 390, conv. dalla legge n. 597 del 1982) circoscriva il generale dovere di controllo attribuito in materia di sicurezza sul lavoro [ad esempio dagli artt. 4, comma 1 lett. a) e 5 comma 3 del d.P.R. n. 547 del 1955] (11) ad un privato — nel nostro caso il datore di lavoro — sui beni, di rango primario, dell’integrità fisica e della vita dei lavoratori, minacciati da determinate fonti di pericolo (nel nostro caso, il sistema di accesso alla cabina dell’autogrù). Il giudice di primo grado, dopo aver affermato — correttamente — che l’atto della p.a., non può di per sé esonerare il privato ‘‘da una particolare diligenza e obbligo di verifica’’, finisce peraltro per negare qualsiasi efficacia esimente all’erroneo convincimento della liceità della condotta, indotto dalla p.a., paventando il rischio di vuoti di tutela in una materia tanto delicata. A nostro avviso, tale impostazione va ribaltata. I rischi connessi ad attività lavorative di per sé pericolose, come quella in esame, esistono da sempre. Con la legge istitutiva dell’ISPESL (di venticinque anni successiva al d.P.R. n. 547 del 1955) il legislatore si è limitato ad allocare diversamente i doveri di controllo su (determinati) fattori di rischio, o se si vuole, su determinate fonti di pericolo, sottraendoli — almeno in prima battuta — al privato, per delegarli ad un Istituto di diritto pubblico dotato di specifici poteri e specifiche competenze. Si può anzi probabilmente dire che dalle normative citate emerga una vera e propria posizione di garanzia (di controllo) in capo al funzionario dell’ISPESL (12), la cui attività è espressamente indirizzata dal legislatore a ‘‘fini prevenzionali’’. Tale interpreta(11) Ci si limita qui a considerare gli obblighi del datore di lavoro vigenti al momento del fatto (risalente al marzo 1992); resta inteso che, oggi, tali obblighi sono sostituiti da quelli contenuti nel d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, in particolare negli artt. 4 e 35. Come è noto, il citato d.lgs. non ha abrogato in toto le normative preesistenti, limitandosi a statuire, all’art. 98, che ‘‘[r]estano in vigore, in quanto non specificatamente modificate... le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro.’’ La dottrina non ha mancato di segnalare che, tra le norme preesistenti tacitamente abrogate, va annoverata quella contenuta nell’art. 4 del d.P.R. n. 547 del 1955, sostituita dall’art. 4 del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che elenca una serie di obblighi facenti capo al datore di lavoro, al dirigente e al preposto più ampi e penetranti di quelli precedentemente previsti dall’art. 4 del d.P.R. n. 547 del 1955: cfr. PADALINO, Vecchie e nuove disposizioni in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in Cass. pen., 1996, 383. (12) Occorre sottolineare che parte della dottrina (COSTAGLIOLA-CULOTTA-DI LECCE, Le norme di prevenzione per la sicurezza sul lavoro, Milano, 1980, p. 87 s.; SMURAGLIA, Diritto penale del lavoro, Padova, 1980, p. 54 nota 15), anteriormente all’istituzione dell’ISPESL, nel negare efficacia esimente ai collaudi e ai relativi certificati rilasciati dall’ENPI, sottolineava la diversa portata dell’omologazione prevista dall’art. 24 della legge n. 833 del 1978 (c.d. legge sanitaria), che in effetti, si sosteneva, avrebbe dovuto ‘‘rappresentare una garanzia assai maggiore di quella prevista dall’art. 7’’ del d.P.R. n. 547/1955 (SMURAGLIA, Ibidem).
— 778 — zione assume maggior consistenza se posta in collegamento con l’art. 4 comma 1 del d.P.R. n. 547 del 1955, ai sensi del quale i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti devono attuare le misure di sicurezza previste ivi indicate, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze (13). Orbene, tale norma, fondante la posizione di garanzia del datore di lavoro, offre una preziosa indicazione di massima, proprio in quanto collocata nelle ‘‘disposizioni generali’’ della normativa citata: la posizione di garanzia del datore di lavoro è delimitata dalle concorrenti posizioni di garanzia rivestite da altri soggetti (dirigenti, preposti), nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze. Se ciò è vero, nulla vieta di ritenere che la legge disciplinante l’ISPESL abbia introdotto nell’ambito del diritto penale del lavoro un’ulteriore posizione di controllo, facente capo ai funzionari preposti al rilascio del certificato d’omologazione, nel solco della filosofia della distribuzione (della misura) delle posizioni di garanzia già normativizzata dall’art. 4 comma 1 del d.P.R. n. 547 del 1955, in ragione delle rispettive attribuzioni e competenze. Tale posizione di garanzia è ovviamente limitata alla fonte di pericolo costituita dalla commercializzazione di macchine pericolose perché non conformi alle misure di sicurezza prescritte, e circoscrive corrispondentemente l’ambito di operatività delle più generali posizioni di garanzia proprie dei destinatari ‘‘classici’’ delle normative antiinfortunistiche. Del resto, ricorrono le due condizioni fattuali sottese ad ogni posizione di garanzia (14): a) il titolare del bene (il lavoratore) si trova nell’impossibilità di proteggere il bene, non avendo titolo per interferire nell’organizzazione del lavoro (15); b) il funzionario dell’ISPESL tiene per un certo periodo sotto la sua sfera di signoria l’oggetto — la macchina ‘‘insicura’’ — fonte di pericolo, nel senso che egli ha tutto il tempo e le competenze necessarie per verificarne la conformità alle norme di sicurezza. Egli può dunque ‘‘prosciugare’’ tale fonte di pericolo meglio e prima di ogni altro eventuale e secondario destinatario delle norme antiinfortunistiche, negando l’omologazione della macchina e impedendone quindi la commercializzazione. Sotto un profilo più latamente politico l’ISPESL, al pari di altri istituti di diritto pubblico, costituisce una delle tante estrinsecazioni dello Stato sociale di diritto, che non si limita a riconoscere libertà e garanzie ai cittadini, ma si sforza altresì di promuoverne l’effettività, intervenendo, per così dire, in prima persona. È tipico di tale forma di Stato sottrarre spazi all’autotutela del cittadino (16), attraverso l’istituzione di organismi pubblici dotati di specifici compiti di tutela (si pensi all’INPS in materia previdenziale, all’INAIL in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ecc.) (17). A questo proposito, torna utile la distinzione bobbiana tra ordinamento protettivo-repressivo, propria dello stato liberale classico, da un lato, e ordinamento promozionale, propria dello stato sociale (Welfare (13) Analoga disposizione è stata ribadita dall’art. 1, co. 4-bis, del d.lgs. n. 626/1994. (14) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., 1995, p. 555. (15) Va peraltro sottolineato come, ai sensi del successivo decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, i lavoratori segnalano immediatamente al datore di lavoro o al dirigente o al preposto qualsiasi difetto o inconveniente da essi rilevato nelle attrezzature di lavoro messe a loro disposizione [art. 39, comma 2, lett. c), sanzionato con pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda dall’art. 93 del medesimo testo normativo]. (16) Si noti come alla base del principio di affidamento la dottrina la dottrina più autorevole individui il principio di responsabilità: cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 499; raccorda tale fondamento con il principio costituzionale di uguaglianza, M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1057. (17) Non è un caso che la funzione promozionale del diritto, ricavabile da molte norme (art. 4 comma 1; art. 5; art. 9 comma 1; art. 35, comma 3; art. 45, comma 1; art. 31, comma 1; art. 44, comma 2; art. 47. comma 1 e comma 2), della nostra Costituzione, fondata sul lavoro, sia stata particolarmente perseguita nel settore del diritto (anche penale) del lavoro.
— 779 — State), dall’altro: ‘‘al primo interessano soprattutto i comportamenti socialmente non desiderati, onde il suo fine precipuo è di impedirne quanto più possibile il compimento; al secondo interessano soprattutto i comportamenti socialmente desiderati, onde il suo fine è di provocarne il compimento anche nei confronti dei recalcitranti’’ (18). Bobbio aggiunge che ‘‘[p]er raggiungere il proprio fine un ordinamento repressivo compie operazioni di tre tipi e gradi in quanto vi sono tre modi tipici di impedire un’azione non voluta: renderla impossibile, renderla difficile, renderla svantaggiosa. Simmetricamente, si può dire che un ordinamento promozionale cerca di raggiungere il proprio fine attraverso le tre operazioni contrarie, cioè cercando di rendere necessaria, agevole, vantaggiosa l’azione voluta. Il primo tipo di operazione, consistente nel far sì che il destinatario della norma sia messo in condizione o di non poterla (materialmente) violare o di non potersi (materialmente) sottrarre alla sua esecuzione, rientra nel novero delle misure dirette, cioè delle misure che l’ordinamento adotta per ottenere la conformità alle norme, o impedendo preventivamente la violazione o forzando preventivamente l’esecuzione. Sono misure dirette le varie forme di vigilanza (che può essere passiva o attiva) e il ricorso all’uso della forza...’’ (19). Riportando tale schema al caso di specie, l’azione voluta dal legislatore, da parte del datore di lavoro, è l’impiego di macchine sicure e, in particolare, per quel che ci interessa, l’impiego di mezzi ed apparecchi i cui posti di manovra possano raggiungersi senza pericolo (art. 182 d.P.R. n. 547 del 1955). Il legislatore, con l’istituzione dell’ISPESL, ha varato una misura diretta ad ottenere la conformità alle norme di sicurezza, attraverso una forma di vigilanza preventiva (ma anche successiva, posto che a detto Istituto spettano verifiche periodiche delle macchine già precedentemente omologate) sui macchinari industriali. In sostanza, l’ISPESL adempie ad una doppia funzione, una negativa (corrispondente alla funzione repressiva) ed una positiva (corrispondente alla funzione promozionale); nella misura in cui neghi l’omologazione della macchina, rende impossibile l’azione non voluta, perché impedendo la commercializzazione della macchina pericolosa ne impedisce l’impiego da parte del datore di lavoro; d’altro canto, attraverso l’attività di studio, ricerca ed elaborazione dei criteri e delle metodologie per la prevenzione degli infortuni sopra esaminata orienta i destinatari all’osservanza della normativa antinfortunistica. Conseguentemente, il datore di lavoro che impieghi (o consenta che si impieghi) una determinata macchina munita di certificazione ISPESL, e che ragionevolmente faccia affidamento (20) sulla conformità della stessa alle misure di sicurezza prescritte dalla legge, è in linea di principio esonerato da responsabilità conseguenti ad eventuali vizi o inadeguatezze che cagionino o contribuiscano a cagionare infortuni sul lavoro (21), salvo, beninteso, la presenza di indizi contrari all’altrimenti plausibile affidamento. Indizi che dovranno essere tanto più evi(18) BOBBIO, La funzione promozionale del diritto, in Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano, 1977, p. 26 s. (19) BOBBIO, La funzione, cit., p.27. (20) Ritiene che la responsabilità a titolo di colpa del datore di lavoro — in concorso con quella del costruttore — dovrebbe essere subordinata ‘‘...ai normali criteri di esigibilità, che, nel caso specifico, si esprimeranno soprattutto in funzione della ragionevolezza dell’affidamento e della concreta possibilità di valutare la difformità dell’apparecchio o dell’impianto ai requisiti legali di sicurezza...’’, PADOVANI, Infortuni sul lavoro. III) Prevenzione degli infortuni sul lavoro — Dir. pen., Enciclopedia Giuridica Treccani, XVII, Roma, 1989, p. 4. (21) Contra CANESTRARI, Osservazioni sulla responsabilità colposa concorrente del datore di lavoro e del costruttore di macchine non conformi ai requisiti di sicurezza, nota a Pret. Brescia 24 giugno 1981, Plati, in Riv. giur. lav. 1983, IV, p. 634 s., con ampi richiami giurisprudenziali e dottrinali in nota 18, peraltro anteriori alla specificazione degli obblighi prevenzionali ed omologativi attribuiti all’ISPESL dal d.l. 30 giugno 1982, n. 390, conv. con modificazioni dalla legge 12 agosto 1982, n. 597.
— 780 — denti (22), quanto più ampio è il dovere di diligenza attribuito al soggetto la cui condotta si ponga ‘‘a monte’’ di quella in discussione, e quanto più penetrante è l’eventuale posizione di co-garanzia da questi rivestita. 5. Con ciò ci siamo avvicinati alla seconda questione oggetto di approfondimento: quella della collocazione dogmatica da attribuirsi al certificato di omologazione (rectius: agli effetti giuridico-penali da esso prodotti). La soluzione del problema dipende, ci sembra, dall’angolo prospettico dal quale si osservi la vicenda del rilascio del certificato di omologazione. Se si incentra l’attenzione sulla attività di controllo e di verifica della confor(22) Già anteriormente all’istituzione dell’ISPESL, sostenevano che ‘‘quando l’utilizzatore ha assolto pienamente al suo dovere di effettuare un’adeguata manutenzione preventiva, periodica e programmata dei beni strumentali impiegati nell’azienda, gli eventuali vizi occulti degli stessi, che determinino una situazione di pericolo per i lavoratori..., non possono che far carico in maniera esclusiva ai costruttori’’ poiché, ‘‘diversamente opinando... si finirebbe per sanzionare una forma di responsabilità oggettiva’’ del datore di lavoro, COSTAGLIOLA-CULOTTA-DI LECCE, Le norme di prevenzione, cit., p. 101. Tuttavia, laddove i vizi non siano occulti, il datore di lavoro non potrebbe validamente invocare ‘‘come esimente, la condotta illecita del costruttore, venditore’’ ecc., giacché egli ‘‘ha, comunque, il dovere di scegliere sul mercato macchine idonee all’attività lavorativa cui intende destinarle e di verificare, prima di metterle a disposizione dei propri dipendenti, la loro conformità alle norme della disciplina aninfortunistica’’ (COSTAGLIOLA-CULOTTA-DI LECCE, op. ult. cit., 105, con, ivi, riferimenti giurisprudenziali in nota 46). In riferimento ad un vizio occulto riscontrato in una braca metallica, afferma l’efficacia esimente dell’affidamento serbato dal datore di lavoro sulle garanzie di conformità fornite dalla ditta costruttrice, già autrice di precedenti forniture andate a buon fine, Cass., 25 maggio 1984, Bernardini, CED 166296 in Cass. pen., 1985, p. 1910, n. 1252; nello stesso senso Cass. 11 novembre 1983, Anceschi in Riv. giur. lav. 1984, n. 9, IV, p. 717 e in Cass. pen., 1985, p. 469. Per l’affermazione secondo cui non può farsi carico al direttore tecnico di un’azienda di notevoli dimensioni dell’impiego di tute ignifughe, regolarmente collaudate dall’ENPI, di fatto rivelatesi inidonee a proteggere i lavoratori, rimasti ustionati da fiammate sprigionatesi da un forno, Trib. Torino, 18 maggio 1984, Porro, in Riv. giur. lav. 1985, IV, p. 289 ss. In senso contrario, per l’irrilevanza dell’affidamento in un collaudo di impianto operato dall’Ente regionale per lo sviluppo dell’agricoltura con la partecipazione dell’ENPI e dei vigili del fuoco, laddove l’impianto si sia poi rivelato non conforme alle norme di prevenzione, Cass. 23 novembre 1990, Tescaro, in Cass. pen., 1991, p. 736 ss. Per un’approfondita disamina della giurisprudenza degli anni ’60 e ’70 sull’art. 7 del d.P.R. n. 547 del 1955, compatta nel ritenere sussistente la responsabilità del datore di lavoro che impieghi machinari costruiti (e venduti) in difformità dalle misure prescritte dalle norme per la prevenzione degli infortuni, sul presupposto che il datore di lavoro ha un autonomo obbligo di verificare la corrispondenza dei macchinari impiegati alle norme suddette, FRANCIOSI, Spunti per una rassegna di giurisprudenza sull’art. 7 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, Riv. giur. lav. 1978, IV, p. 283 ss. Più di recente, nello stesso senso, ritiene che sia ‘‘precipuo obbligo del datore di lavoro, quale principale destinatario delle prescrizioni contro gli infortuni, verificare in ogni caso che le varie apparecchiature rimangano adeguate alle misure di prevenzione e non costituiscano fonte di pericoli... di tal che la responsabilità del datore di lavoro non può ritenersi esclusa neppure da eventuali ‘inesatti affidamenti’ forniti dal venditore’’, Cass. 13 settembre 1994, Asti, Riv. pen., 1995, p.1391. La Corte costituzionale, con sentenza n. 271 del 16 luglio 1987 (in Mass. giur. del lav. 1988, p. 27 ss., con nota di LORUSSO. A., Responsabilità penale per omessa verifica della conformità degli strumenti lavorativi alle norme di prevenzione infortuni), ha dichiarato non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7, 41, 115, 389 lett. a), c) e 390 d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, nelle parti in cui prevedono la responsabilità del datore di lavoro, del noleggiatore e del commerciante di macchine, di attrezzature, di utensili, di apparecchi in genere, per la violazione delle dette norme in tutti quei casi in cui la non conformità dipenda da fatto esclusivo del costruttore e non sia direttamente rilevabile; la questione di costituzionalità prospettata sarebbe priva di fondamento ‘‘perché non sono identiche le posizioni degli operatori economoci di cui alla normativa impugnata... e pertanto non è violato l’art. 3 , Cost. Né sussiste violazione dell’art. 27, perché le cautele predisposte dalla normativa sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro non escludono la responsabilità penale degli operatori, con riferimento ai quali è stato sollevato l’incidente di costituzionalita’’. Secondo LORUSSO. A., Responsabilità penale, cit., p. 28 s., la Corte cost., ‘‘si è limitata a riaffermare l’indiscusso principio che le cautele predisposte dalla normativa sulla prevenzione degli infortuni, ove disattese, non escludono una responsabilità plurima (oltre che del costruttore anche del datore del lavoro, del venditore...), ma non ha inteso sostenere, né poteva pretendere di farlo, che dette responsabilità debbano necessariamente concorrere, in quanto un concorso necessario non può essere desunto in alcun modo dalla normativa specifica in discussione’’. In sostanza, spetta al giudice di fatto, in applicazione del principio della personalità della responsabilità penale, valutare se la non conforrnità del macchinario sia o meno rimproverabile ai soggetti (datore di lavoro, venditore, noleggiatore) diversi dal costruttore.
— 781 — mità a sicurezza svolta dal funzionario dell’ISPESL preliminarmente al rilascio del certificato, e se, soprattutto, si ritiene che egli rivesta una posizione di controllo, allora il problema si pone in termini di affidamento nell’altrui condotta diligente e perita. In questa ipotesi, infatti, l’obbligo di controllo del datore di lavoro interagisce con quello preventivamente affidato dal legislatore ai funzionari dell’ISPESL. In tal modo, si viene a configurare una suddivisione di competenze e di obblighi di diligenza concorrenti, seppure cronologicamente distinti, finalizzati a prevenire un medesimo rischio (l’impiego di macchine pericolose per l’incolumità dei lavoratori). In primis il dovere di (diligente) controllo spetta al funzionario dell’ISPESL, successivamente al costruttore e agli altri soggetti indicati nell’art. 7 del d.P.R. 547/1955, (venditore, noleggiatore ecc.) (23), e, infine, al datore di lavoro. Così inquadrata, la vicenda si lascia accostare al tema dell’affidamento nell’ambito dell’attività lavorativa comune ‘‘suddivisa’’ tra più soggetti (secondo la terminologia tedesca, c.d. arbeitsteiliges Zusammenwirken (24), come, tipicamente, l’attività medico-chirurgica in équipe, ovvero al tema dell’affidamento nella diligente condotta altrui nell’ambito della circolazione stradale, dove diversi soggetti (automobilisti, pedoni, ciclisti ecc.) hanno determinati e interferenti obblighi di diligenza risultanti in particolare dalle norme contenute nel c.d. Codice della strada. Settori entrambi classici, riflettendo sui quali dottrina e giurisprudenza hanno elaborato il concetto dell’affidamento (25). Se invece si incentra l’attenzione sul certificato di omologazione come atto della pubblica amministrazione in sé considerato, escludendosi che il funzionario preposto al suo rilascio rivesta una posizione di controllo concorrente con il datore di lavoro, e dunque escludendo che il dovere di (diligente) controllo del primo interferisca direttamente con quello del secondo, allora il problema si pone nei termini tradizionali dell’errore indotto dalla pubblica amministrazione. In particolare si tratterebbe d’errore sul fatto che costituisce reato: non invece di errore su norma incriminatrice, secondo quanto prospettato dal giudice di primo grado (26). (23) Su tali soggetti, anche per le possibili condotte concorsuali colpose, v. PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), Digesto delle discipline penalistiche, VI, 1992, p. 114. L’art. 7 del d.P.R. n. 547 del 1955 è da considerarsi tacitamente abrogato a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 626 del 1994 il quale, all’art. 6, ha aggiunto il progettista nel novero dei soggetti sanzionati penalmente; tali soggetti, inoltre, in base alla nuova disposizione sono tenuti — sotto minaccia di pena — all’osservanza di tutte le disposizioni legislative prevenzionali (anche di quelle di natura regolamentare) e non più, come in passato, all’osservanza della sola normativa che li menzionava (cfr. CULOTTA-DI LECCE-COSTAGLIOLA, Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 249 ss.). L’art. 6 del d.lgs. n. 626 del 1994, secondo gli Autori appena citati (op. ult. cit., p. 253) operando come detto un rinvio ‘‘generico’’ a tutte le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, è idoneo a richiamare, tra l’altro, il c.d. ‘‘Regolamento Macchine’’, ovvero lo schema in materia di omologazione prevenzionale di macchinari elaborato in sede comunitaria e recepito nel nostro ordinamento con d.P.R. 24 luglio 1996, n. 459, e, suo tramite, a modificare i reciproci livelli di responsabilità tra utilizzatori costruttori, ‘‘nel senso di spostare sui secondi alcuni obblighi di sicurezza che in precedenza finivano per gravare prevalentemente sui primi’’ (ibidem). (24) Secondo la terminologia utilizzata da ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil. Band I. Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre. 3. Auflage, München, 1997, p. 928. (25) Cfr. ROXIN, Strafrecht, cit., che menziona altresì il problema dell’affidamento in relazione al (non impedimento) del comportamento doloso del terzo e, in nota n. 34, al settore della Produkthaftung, op. ult. cit., rispettivamente pp. 899 e 898. Peraltro, il principio di affidamento non è circoscritto a tali pur importanti settori della criminalità colposa, ma viene considerato ‘‘una vera e propria pietra angolare della tipicità colposa’’ (FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 282), in quanto ‘‘criterio generale di cui occorre tenere conto per la ricostruzione della colpa, e, dunque, per la individuazione della misura di diligenza’’ (op. ult. cit., p. 289) (26) Va sottolineato che nei reati colposi si assiste, secondo parte della dottrina, ad ‘‘una insolubile commistione della dimensione del fatto e di quella della sua illiceità’’ (cfr. gli Autori richiamati da FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 174 ss.). Nel caso di specie, l’imputato non lamentava l’ignoranza inevitabile della norma incriminatrice [la contravvenzione prevista dall’art. 182 lett. a) d.P.R. n. 547/1955, la cui violazione è posta a fondamento del rimprovero di colpa specifica riferito al reato di lesioni], bensì
— 782 — Tale seconda via è stata percorsa coerentemente dal solo giudice di primo grado, laddove ha ritenuto che l’imputato, tenuto conto della specifica professionalità ed esperienza, non avrebbe dovuto ‘‘accontentarsi’’ del rilascio del certificato di omologazione, essendo ‘‘piuttosto evidente’’ anche ad un profano, e a maggior ragione dovendo esserlo ad un esperto del settore (27), l’intrinseca pericolosità di un accesso alla cabina formato da gradini larghi solo 10 cm. Viceversa il giudice d’appello — pur richiamandosi ad analoga problematica come si desume dalla menzione dell’art. 5 del c.p., così come ‘‘reinterpretato’’ alla luce della sent. n. 364/1988, della Corte costituzionale — non ha approfondito la questione della concreta riconoscibilità, da parte dell’imputato, della intrinseca pericolosità della macchina nonostante l’apposito certificato di omologazione. Egli, piuttosto, ha verosimilmente ritenenuto che un ulteriore e autonomo controllo relativo alla sicurezza della macchina non fosse doveroso, perché già compiuto dal funzionario dell’ISPESL (28). Ma, così interpretando, il giudice di secondo grado si è sostanzialmente posto sul piano dell’affidamento nell’altrui condotta conforme ai doveri di diligenza, e cioè sul piano dei limiti della colpa conseguenti al dispiegarsi del principio dell’affidamento, anziché sul piano della scusabilità o meno dell’errore, e quindi della conoscibilità o meno (delle condizioni in base alle quali possa formarsi nel soggetto la coscienza) della illiceità del comportamento tenuto (29). Peraltro, l’incoerenza argomentativa ravvisabile nella pronuncia d’appello l’impossibilità di (ragionevolmente) ricondurre la concreta situazione di fatto (un determinato sistema di accesso alla cabina dell’autogrù) all’ambito di applicazione della citata norma cautelare (che obbliga il datore di lavoro a far sì che ‘‘i posti di manovra dei mezzi ed apparecchi di sollevamento e di trasporto’’ possano raggiungersi ‘‘senza pericolo’’), stante la precedente positiva valutazione circa la conformità a sicurezza della macchina operata da parte del funzionario dell’’ISPESL. La ‘‘pericolosità’’ dell’accesso al mezzo di trasporto menzionata nell’art. 182 lett. a) d.P.R. n. 547/1955 rientra, più precisamente nella categoria dei c.d. ‘‘elementi di giudizio cognitivo’’ (sulla quale cfr. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria generale del reato, Milano, 1976, 218). Tali elementi avrebbero in comune con i concetti normativi ‘‘la caratteristica di non designare dalle realtà sensibili’’, mentre si discosterebbero da questi ultimi ‘‘in quanto presuppongono non già delle norme, ma delle massime di esperienza o di scienza’’ (loc. ult. cit.). Vero è — si aggiunge — che gli elementi in parola ‘‘non sono direttamente ‘descrittivi’ di dati di fatto, che piuttosto l’individuazione dei dati cui si riferiscono implica confronti o giudizi di relazione o qualificazioni complesse; ma muovendosi sul piano ‘cognitivo’, della determinazione di fatti e di relazioni empiriche, per definizione si resta fuori dal campo ‘normativo’ in senso proprio’’ (loc. ult. cit.). (27) Favorevoli alla applicabilità del parametro dell’homo eiusdem professionis et concidicionis tra i criteri soggettivi su cui fondare il giudizio di evitabilità dell’ignoranza o dell’errore, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte Generale, cit., p. 356; MUCCIARELLI, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte costituzionale 364/1988, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 285. In giurisprudenza, si è di recente ribadito che ‘‘il concetto di inevitabile ignoranza della legge penale non può essere strumentalizzato per coprire omissioni o atteggiamenti indifferenti di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale o tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi di obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali,’’ (Cass. sez. III, 22 gennaio 1998, Regis, in Guida al diritto, 1998, n. 31 p. 75 s). In base a tale massima, si è escluso che l’esercente la professione di geometra progettista non fosse in grado di conoscere esattamente la normativa edilizia attinente alla professione esercitata. (28) La motivazione è sul punto assai scarna; tuttavia, in assenza di censure mosse al giudice a quo sulla ritenuta evidenza della pericolosità della macchina, è verosimile ritenere che il giudice d’appello abbia ritenuto sufficiente, in capo al datore di lavoro, il controllo ‘‘formale’’ sulla esistenza del certificato, senza richiedere ulteriori controlli ‘‘nel merito’’. (29) Analogamente, sottolinea come nel caso di rilascio di concessione (poi risultata) illegittima ‘‘l’errore non interessa in modo inescusabile la formale antigiuridicità della condotta, ma cade sulle condizioni stesse sulle quali possa formarsi nel soggetto una positiva coscienza di tale antigiuridicità, Cass. 25 novembre 1981, in Giust. pen., 1982, II, p. 476; per l’affermazione — anteriore alla sent. n. 364/1988 della Corte cost. sull’art. 5 — relativa al rilascio di concessione edilizia formalmente (ma non sostanzialmente) legittima, secondo cui l’affidamento che il privato abbia fatto della legittimità del suo operato, sul presupposto dell’autorizzazione rilasciata dalla pubblica amministrazione, è del tutto improduttivo di effetti, in quanto si traduce in errore su norme integrative del precetto penale’’, v. Cass. 22 aprile 1980, Raineri, con nota critica di MONTI, In tema di concessione edilizia illegittima e ‘‘buona fede’’ nelle contravvenzioni, in Cass. pen., 1982, p. 82 ss.
— 783 — può forse comprendersi alla luce di un elemento comune ai piani dell’errore ingenerato da atto della p.a., da una parte, e affidamento colposo, dall’altra. In entrambi i casi, infatti, si tratta di giudicare della rispondenza del comportamento dell’agente in ‘‘carne ed ossa’’ agli standard di diligenza dell’agente modello: laddove l’imputato eccepisca l’inevitabilità dell’errore, si tratterà di verificarne la plausibilità alla luce delle conoscenze e competenze dell’homo eiusdem professionis et condicionis (30). In senso parzialmente analogo, la ragionevolezza (e dunque l’efficiacia scusante) dell’affidamento nell’altrui condotta diligente dipenderà in larga misura dalle conoscenze e competenze dell’homo eiusdem professionis et condicionis (31). La diversa soluzione data nelle due pronunce al problema della rilevanza del certificato di omologazione è dipesa allora, ci sembra, dall’estensione rispettivamente attribuita alla misura di diligenza propria del datore di lavoro, a sua volta dipendente (in forma inversamente proporzionale) dalla ritenuta sussistenza o meno di una posizione di garanzia in capo al funzionario dell’ISPESL, e tramite essa al grado di diligenza e perizia che può legittimamente aspettarsi dal primo (co)garante. In altre parole, se è vero che i piani dell’errore sul fatto ingenerato dalla p.a. e dell’affidamento nell’altrui diligente e perita valutazione tecnica sono concettualmente distinti, è altrettanto vero che essi trovano un punto d’intersezione nel dovere di diligenza commisurato al parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis. La differenza è allora essenzialmente quantitativa, incentrandosi sulla misura di tale dovere di diligenza: nel caso di specie, maggiore laddove si consideri il datore di lavoro destinatario ‘‘primo’’ della norma antiinfortunistica di cui all’art. 182 del d.P.R. n. 547 del 1955; ovviamente minore, laddove si ritenga che tale dovere di (diligente) controllo spetti al datore di lavoro solo in terza battuta, seguendo a quello del funzionario dell’ISPESL, quindi a quello del costruttore della macchina ed eventualmente agli altri soggetti menzionati nell’art. 7 del d.P.R. n. 547 del 1955 (32). (30) Rilevano che tra le circostanze di natura ‘‘soggettiva’’ da valutarsi ai fini dell’accertamento della inevitabilità dell’ignoranza debbano considerarsi il ‘‘livello di socializzazione e differenziazione culturale, nonché il ruolo sociale e la cerchia professionale di appartenenza dell’agente’’, cosicché in tema di inevitabilità dell’error iuris sarebbe sostanzialmente applicabile il criterio dell’homo eiusdem professionis et condicionis, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 356. (31) In questo senso, premessa in astratto la configurabilità di ipotesi di concorso colposo tra fornitore (costruttore, venditore ecc.) e utilizzatore di macchine non conformi alle norme prevenzionali, rileva che la responsabilità dell’utilizzatore sarà affermata nella misura in cui ‘‘i vizi della macchina fossero riconoscibili mediante la diligenza dovuta ed esigibile in sede di controllo’’, ed esclusa, invece, ove non vi sia ‘‘un ragionevole affidamento nella qualità del bene fornito’’, PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro, cit., p. 114. (32) Va ricordato che né il Pretore né il giudice d’appello si sono posti il problema dell’eventuale posizione di garanzia rivestita dal funzionario dell’ISPESL; inoltre, solo nella pronuncia d’appello si menziona il ruolo del costruttore quale primo destinatario delle norme sulla prevenzione degli infortuni causati da macchine ‘‘pericolose’’, rinviandosi a Cass. 14 marzo 1997, Barreri, CED 208104, ove si è affermato che ‘‘il datore di lavoro o il responsabile della sicurezza hanno l’obbligo di consegnare ai dipendenti macchinari e utensili provvisti di ogni opportuno ed efficace dispositivo antiinfortunistico... tuttavia il diretto e principale destinatario della regola che impone l’adozione delle necessarie cautele è il costruttore delle medesime, sicché non è imputabile alla responsabilità del datore di lavoro un incidente verificatosi nonostante la perfetta corrispondenza del macchinario, così come fornito dal costruttore, alle regole di prevenzione antiinfortunistica secondo le prescrizioni di sicurezza delle norme comunitarie in materia’’. La massima riportata è stata elaborata in relazione ad un caso di infortunio sul lavoro causato da un trapano a turbina, al quale solo dopo il verificarsi dell’incidente era stato aggiunto un meccanismo a pedale come dispositivo di consenso per la sua messa in funzione. In linea generale, se il grado di affidamento nel rispetto della normativa antiinfortunistica da parte di costruttori, venditori, noleggiatori ecc. non può considerarsi particolarmente elevato (stante i possibili interessi confliggenti, dovuti per esempio agli eccessivi costi di progettazione di un determinato disposi-
— 784 — A ben vedere, il meccanismo psicologico sottostante alle due ipotesi prospettate (rispettivamente errore indotto dalla p.a. e affidamento) è qualitativamente identico: l’agente, in ambedue i casi, ripone la propria fiducia (33) nella condotta conforme altrui. La valutazione giuridica di tale affidamento comune dipenderà allora dall’essere o non essere tale condotta attesa co-destinata ai medesimi fini cautelari e, nel reato omissivo improprio colposo, dall’essere l’agente che tiene la condotta ‘‘a monte’’ co-garante o meno del medesimo bene tutelato dall’ordinamento. Nel caso di specie, se, come abbiamo cercato di dimostrare, la legge istitutiva dell’ISPESL e le successive novelle, nel disciplinare l’attività di omologazione, fissano doveri cautelari e prevenzionali in capo ai suoi funzionari, addirittura rivestendoli di una posizione di garanzia, allora il certificato di omologazione attestante la sicurezza della macchina ‘‘ai fini prevenzionali’’ giustifica in linea di massima l’omesso ulteriore controllo ‘‘nel merito’’ da parte del datore di lavoro, salvo, beninteso, la presenza di appariscenti, evidenti (34) indizi contrari (35) che facciano dubitare della fondatezza del giudizio di conformità alle norme prevenzionali contenuto nel certificato di omologazione. Indizi contrari che il giudice di primo grado ha ritenuto sussistere, individuandoli nella ‘‘esigua larghezza delle mensole di appoggio’’, che non consentirebbero ‘‘un tranquillo raggiungimento tivo di sicurezza, o alla mancanza di tecnologia adeguata, nel caso del costruttore) ciò non può ragionevolmente sostenersi in rapporto al grado di affidamento che può essere riposto nel certificato di omologazione redatto da un istituto pubblico. Infatti, la cennata ridistribuzione dei doveri di controllo su determinate fonti di pericolo, operata dalla legge istitutiva dell’ISPESL, integra una scelta di politica legislativa che non solo non rischia di affossare l’effettività della normativa antiinfortunistica, ma che al contrario appare rafforzarla, anticipando il controllo sulla sicurezza dei macchinari al momento anteriore alla loro commercializzazione, e delegandolo a tecnici specializzati super partes. Minore appare invece il grado di affidamento che può ragionevolmente riporsi nella c.d. autocertificazione di conformità alle norme prevenzionali di sicurezza rilasciata dal costruttore o da un suo mandatario residente nell’Unione Europea, secondo il modello omologativo comunitario introdotto con il c.d. Regolamento Macchine, recepito nel nostro Paese con d.P.R. n. 459 del 1996. Ciò perché, se è pur vero che tale auto-asseverazione è fatta sotto la propria responsabilità (come sottolineano CULOTTA-DI LECCE-COSTAGLIOLA, Prevenzione, cit., p. 254, i quali, diversamente da noi, ritengono che l’affidamento nell’autocertificazione di matrice comunitaria escluda la responsabilità dell’acquirente utilizzatore in caso di infortuni cionondimeno causati dalla macchina), è parimenti vero che questa proviene da una parte privata che può avere interessi economici confliggenti con le spesso costose misure di sicurezza imposte dalle norme comunitarie o nazionali. Parzialmente diverso è invece il caso nel quale all’autocertificazione di conformità si aggiunge la sottoposizione della macchina al controllo dei c.d. organismi notificati, che, in quanto soggetti terzi, dovrebbero garantire maggiore neutralità di valutazione. (33) Merita di ricordare come la formula tedesca ‘‘Vertrauesgrundsastzt,’’ significhi letteralmente, in primo luogo, principio della fiducia. Sottolinea che l’affidamento meriti particolare tutela ove concerne informazioni provenienti da organi della pubblica amministrazione, e cioè nei casi di affidamento verticale (Stato-cittadino), diversamente che nei casi di affidamento orizzontale (cittadino-cittadino), tipici del diritto civile, E. LORÉ, Aspekte des Vertrauensschutzes im Strafrecht, Frankfurt a.M., 1997, 14; 315. (34) CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 25a ed., 1997, sub § 15, n. 213, p. 275. Ritengono che ‘‘anche quando la macchina sia dal fabbricante dichiarata conforme a norme di buona tecnica diverse da quelle armonizzate e ne venga certificata la rispondenza ai requisiti essenziali di sicurezza, chi la ponga in uso possa legittimamente fare affidamento su tale attestazione, salvo che non emergano palesemente e senza bisogno di accurati controlli e verifiche macroscopici difetti e carenze di protezione, rilevabili ictu oculi, CULOTTA-DI LECCE-COSTAGLIOLA, Prevenzione, cit., p. 266. (35) Il tema dei limiti all’operatività del principio di affidamento è certamente assai delicato e di difficile inquadramento astratto: occorrerà verificare in concreto, caso per caso (v. M. MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., p. 160), se, alla luce dei dati conoscibili o comunque conosciuti, l’agente modello avrebbe fatto affidamento sull’altrui agire conforme a diligenza. In questo senso, per esempio, la giurisprudenza tedesca ritiene che il generale affidamento che l’automobilista può riporre nella condotta diligente del pedone viene meno laddove il pedone sia impersonificato da bambini o anziani (così CRAMER, op. ult. cit., n. 213, p. 276). Sottolinea la necessità di riferirsi, per la delimitazione dei limiti posti al dispiegarsi del principio di affidamento, ai singoli settori di disciplina che vengono di volta in volta in considerazione (per es. Codice della Strada), JACOBS, Strafrecht. Allgemeiner Teil, 2a ed., Berlin — New York, 1991, sub 55, p. 211. Sui limiti connessi al dispiegarsi del principio dell’affidamento nell’attività medica di équipe, v. da ultimo MANTOVANI, Sui limiti del principio di affidamento, nota critica, sul punto, a P. Verbania 11 marzo 1998, Govoni, Indice penale, 1999, p. 1195 ss.
— 785 — del posto di manovra’’: la scomodità dell’accesso — si aggiunge —, sarebbe ‘‘piuttosto evidente anche ad un profano’’. Il giudice d’appello, viceversa, pur omettendo di soppesare espressamente tali indizi, li ha verosimilmente ritenuti insussistenti, tenuto conto anche del consistente contributo causale offerto dalla persona offesa — che tenne una condotta imprudente — alla verificazione dell’evento lesivo. In caso contrario, ovvero laddove si ritenga che la condotta di controllo sottesa al rilascio del certificato non sia richiesta dal legislatore ai medesimi fini cautelari perseguiti dalle norme che impongono determinate cautele al datore di lavoro, e a fortiori laddove si escluda che il funzionario dell’ISPESL rivesta una posizione di co-garanzia — come desumibile dalla sentenza di primo grado —, allora è chiaro che al datore di lavoro rimane un penetrante dovere di controllo, non certo ‘‘assorbito’’ da un giudizio (sulla ‘‘sicurezza’’ della macchina) proveniente da soggetti ritenuti destinatari di doveri di controllo non strumentali rispetto a quelli gravanti sul datore di lavoro, nè ritenuti garanti degli stessi beni (36). Nell’ottica di questa interpretazione — da noi non condivisa — è dunque corretta la decisione del giudice di primo grado. Viceversa, la sentenza d’appello appare condivisibile limitatamente alla decisione assolutoria adottata, ma non persuade in relazione alle argomentazioni addotte nè alla formula di proscioglimento adottata. Come si è già anticipato (cfr. supra, 1.) e successivamente approfondito (cfr. supra, 3.2.), la motivazione di detta sentenza, pur partendo erroneamente dal problema della applicabilità o meno al caso in esame dell’art. 5, c.p., in conseguenza del lamentato error iuris indotto dalla p.a., risulta — a nostro parere — giuridicamente fondata solo se la si ritenga radicata diversamente dalle premesse ivi addotte — sul principio di affidamento. Infatti, l’applicazione del criterio della buona fede nelle contravvenzioni (37), relativo, soprattutto dopo la sent. n. 364 del 1988, al parametro oggettivo dell’homo eiusdem professionis et condicionis, avrebbe verosimilmente dovuto portare alla condanna dell’imputato, come ben motivato nella sentenza di primo grado, e come non contestato in quella d’appello, stante l’elevata competenza professionale esigibile dal datore di lavoro in materia antiinfortunistica e, in concreto, stante l’esperienza e la competenza riconosciute all’imputato. L’assoluzione, a nostro avviso, può fondarsi solo su di un diverso profilo: quello, sostanzialmente ignorato dal giudice d’appello, della presenza di diversi, concorrenti (38) e prioritari doveri di diligenza e obblighi di garanzia facenti capo ad altri soggetti (costruttore delle macchine, venditore, e, soprattutto, funzionari (36) Ritengono che, tra i limiti al dispiegarsi del principio di affidamento, rientrino le ipotesi nelle quali ‘‘l’obbligo di diligenza si innesta su di una posizione di garanzia nei confronti di un terzo incapace di provvedere a se stesso’’, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 499. Diversamente, ritiene che la mera (posizione di) garanzia rivestita da un soggetto nei confronti di altri non escluda la responsabilità del primo, almeno laddove la condotta (negligente) del secondo nella quale egli ha fatto erroneamente affidamento non si discosti drasticamente dal socialmente adeguato, poiché in tali ipotesi il primo agente ‘‘rimarrebbe nel suo ruolo’’, mentre il secondo dovrebbe accettare l’erroneità dell’affidamento del primo, JAKOBS, Strafrecht, cit., sub. 55, p. 210. Esemplificando, JAKOBS, ivi, si riferisce all’ipotesi nella quale un automobilista compie un’operazione di sorpasso di un ciclista; il primo non può mettere in conto repentini sbandamenti del ciclista, ma deve peraltro calcolare possibili lievi oscillazioni; d’altra parte, il ciclista non deve fare conto sul fatto che l’automobilista in sorpasso lasci solo pochi centimetri di sicurezza, ma non può neppure basarsi sull’ultimo centimetro utile rispetto alla prescritta distanza di sicurezza. (37) Si noti che nel caso in esame, pur riguardante un delitto di lesioni colpose, il profilo di colpa specifica riguardava la violazione di una norma cautelare di natura contravvenzionale (l’art. 182, del d.P.R. n. 547 del 1955). (38) Diversamente, ritiene che, in presenza di uno stesso obbligo di garanzia facente capo a più persone, ciascuna di esse è tenuta al comportamento doveroso ‘‘come se fosse l’unica destinataria del comportamento richiesto’’, e che, laddove l’agente abbia capacità tecniche per rendersi conto dei limiti e
— 786 — dell’ISPESL preposti all’omologazione delle macchine). Solo dall’esame analitico di tali rispettivi doveri di diligenza e obblighi di garanzia possono circoscriversi i limiti della colpa in concreto rimproverabili a colui che presti affidamento nella condotta diligente altrui (39). Solo in questo modo può sventarsi il pericolo, segnalato dalla Corte d’appello di Torino, che il garante risponda a titolo di colpa unicamente in virtù della posizione di garanzia rivestita, con buona pace del principio di colpevolezza. Un ulteriore argomento a sostegno della tesi in parola poggia sulla natura della norma cautelare in esame. L’art. 182 del d.P.R. n. 547/1955 contempla infatti una norma cautelare elastica il cui contenuto, per definizione, va arricchito in relazione alla concreta situazione di fatto. Tale operazione di ‘riempimento’ dello standard di diligenza, in assenza di parametri predefiniti in modo certo — come viceversa accade per le norme cautelari c.d. rigide — riveste inevitabilmente margini di discrezionalità. Il certificato di omologazione contiene una valutazione — di natura tecnica — circa la conformità della macchina all’intera normativa antinfortunistica (e dunque anche alle norme cautelari elastiche). Tale valutazione tecnica appare meritevole di affidamento — salvo vizi palesi della macchina — proprio rispetto a queste ultime norme: in assenza di parametri quantitativi o comunque ‘rigidi’ fissati una volta per tutte dalla legge, solo il certificato di omologazione — unicamente all’esperienza e competenza maturate — funge da parametro di riferimento per il datore di lavoro chiamato a riempire di contenuti la regola che gli impone di fornire macchine i cui accessi siano raggiungibili senza pericolo. L’argomento in parola non vale, viceversa, per ipotetici affidamenti in certificati di omologazione che (infondatamente) attestassero la conformità della macchina al rispetto di determinate regole cautelari rigide. Se, ad esempio, l’art. 182 del d.P.R. n. 547/1955 richiedesse al datore di lavoro di impiegare mezzi di trasporto muniti di scalini larghi 50 centimetri, e di fatto venisse omologata una macchina con scalini larghi 10 centimetri, è ovvio che il dovere di conoscenza della legge penale che mette capo al datore di lavoro non farebbe ritenere ragionevole l’affidamento che quest’ultimo abbia riposto nel certificato di omologazione. 6. Dall’inquadramento della vicenda nello schema del principio dell’affidamento, anziché nello schema dell’errore indotto dalla pubblica amministrazione, conseguono importanti implicazioni processuali. Posto che nel reato omissivo improprio colposo, come si è sottolineato in dottrina, ‘‘è tipica soltanto l’omissione della condotta richiesta dalle regole di diligenza oggettiva che si rivolgono al titoinsufficienze dell’intervento antecedente del co-garante, il primo non possa legittimamente confidare nell’efficacia dell’intervento del secondo, Cass. 6 dicembre 1990, Bonetti, in Foro it., 1992, II, 36 ss. e 57. (39) In questo senso, ritiene che i limiti dell’affidamento siano da ricercare nelle concrete, diverse forme di divisione del lavoro, ROXIN, Strafrecht, cit., p. 928; l’autore ivi indica quale debba essere la lineaguida comune ai diversi campi di applicazione del principio di affidamento: ‘‘anche al più competente dei cooperatori possono essere accollati solo quei doveri di controllo che egli possa adempiere senza pericolo di trascurare la parte del lavoro a lui assegnata’’. Si tratta di una soluzione assai restrittiva, già problematica in relazione alle ipotesi di lavoro in équipe governato dal principio di gerarchia e dalla complementarietà, ma non equivalenza, delle competenze reciproche, ed ancor di più nelle ipotesi, come quella in esame, ove si assiste ad una stratificazione di uguali obblighi di controllo (e delle relative competenze tecniche) che intervengono in tempi diversi. Esemplificando: la soluzione prospettata da Roxin, che porterebbe verosimilmente alla condanna del chirurgo capo-équipe allontanatosi poco prima della chiusura dell’operazione, laddove in tale momento intervenga una condotta colposa non prevedibile da parte di altri medici (urologo ed ostetrico) che dia causa alla morte del paziente, salvo che la causa di tale allontanamento non consista nella necessità di compiere urgentemente altre operazioni (cfr., in senso critico, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 499 s.) appare ancora meno persuasiva laddove altri soggetti ‘‘a monte’’ siano investiti della stessa (anzi maggiore) competenza e di identico obbligo di controllo.
— 787 — lare dell’obbligo di attivarsi, per la parte ‘‘coperta’’ dall’applicazione del principio di affidamento la relativa omissione non potrà che definirsi atipica (40)’’. Di conseguenza, la formula assolutoria adottata dal giudice d’appello (‘‘perché il fatto non costituisce reato’’), peraltro coerente con l’apparente riconduzione della vicenda al tema della ‘‘buona fede’’ scusante —, se da una parte parrebbe idonea a mettere in rilievo l’assenza di colpa, non appare tuttavia esatta, dovendo l’omissione atipica (in quanto non più colposa a seguito del ragionevole affidamento prestato) essere ricondotta alla formula ‘‘per non aver commesso il fatto’’ (41). Da tale diverso inquadramento sistematico, e da tale diverso ‘‘sbocco’’ processuale, discendono importanti effetti in ordine alle pretese risarcitorie: infatti, mentre la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile, viceversa ai sensi dell’art. 652, comma 1 c.p.p. ‘‘[l]a sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso... nel giudizio civile... per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale, salvo che il danneggiato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2’’. 7. Infine, la vicenda esaminata suggerisce una considerazione critica sul rapporto tra giudice penale e autorità amministrative. Appare infatti chiaro che, nella sentenza di primo grado, il giudice penale ha formulato un proprio autonomo giudizio sulla conformità della macchina alle misure di sicurezza prescritte, disattendendo il giudizio espresso dall’autorità amministrativa a ciò specificamente preposta. A tal proposito, sembra opportuno domandarsi se e in quali limiti in uno Stato sociale di diritto, informato al principio della divisione dei poteri, possa tollerarsi una tale sostituzione di poteri e di valutazioni. È ovvio che il giudice penale non possa tollerare abusi o eccessive inerzie da parte degli organi della p.a., anch’essi evidentemente sottoposti alla legge penale (di qui, rispettivamente, l’ormai consolidata giurisprudenza in materia di violazioni edilizie commesse dall’agente che abbia ottenuto apposita — ma illegittima — concessione edilizia; ovvero la possibilità per il giudice penale di ordinare la demolizione dell’opera edilizia abusiva in caso di persistente inerzia dell’autorità amministrativa). Tuttavia, assai meno ovvio è che il giudice penale possa ‘‘disattendere’’ un provvedimento amministrativo (il certificato di omologazione) e il sottostante giudizio prettamente tecnico, non in quanto illegittimo, ma in quanto ritenuto ‘‘errato’’ nel merito, in base cioè ad una valutazione largamente discrezionale (42). Se mai, sarebbe forse opportuno che a ‘‘pagare’’ il prezzo di un eventuale (ritenuto) errore di valutazione fossero i destinatari primi (e dotati verosimilmente di maggiori competenze tecniche) della normativa antinfortuistica sul punto: il costruttore (ex art. 7 del d.P.R. n. 547 del 1955) e il funzionario dell’ISPESL (ex art. 2, d.l. 30 giugno 1982 n. 390, conv. con modif. dalla 1. 12 agosto 1982 n. 597), eventualmente a titolo di cooperazione colposa. La colpa in capo al datore di lavoro (e quindi l’ulteriore dovere di controllo, in qualità di garante dell’integrità fisica dei lavoratori) potrebbe (40) Così M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1059. (41) Per la medesima conclusione in relazione ad un caso analogo cfr. M. MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni, cit., p. 1060. (42) In certa misura, la discrezionalità connessa alla valutazione in esame dipende, come visto, dalla natura ‘‘elastica’’ della norma cautelare contenuta nell’art. 182 lett. a) d.P.R. n. 547 del 1955, il cui contenuto va arricchito in relazione alla concreta situazione di fatto.
— 788 — residuare soltanto in casi eccezionali di macroscopica pericolosità della macchina, tali da riespandere la quota di diligenza altrimenti disciolta nell’affidamento nella diligenza altrui: casi peraltro improbabili, data la presenza dei due suddetti ‘‘filtri’’ di controllo (43). CARLO RUGA RIVA Dottore di ricerca in Diritto penale italiano e comparato, Università dell’Insubria
(43) Tra gli indizi idonei a vincere il ragionevole affidamento nella attendibilità del giudizio di intrinseca conformità ai fini prevenzionali rientrano, a titolo esemplificativo, le precedenti segnalazioni da parte degli operatori interessati di lacune nei sistemi di sicurezza e di conseguenti pericoli per l’incolumità delle persone, ovvero precedenti incidenti o infortuni riconducibili in tutto o in parte all’intrinseca pericolosità della macchina. Nel caso di specie, l’imputato assolto non potrebbe in un futuro caso analogo invocare utilmente il principio dell’affidamento, posto che le due sentenze in esame (la prima esplicitamente, la seconda implicitamente) hanno comunque posto in risalto l’intrinseca pericolosità dell’autogrù con ciò cancellando la presunzione di affidabilità riposta (in ipotesi a torto) nella certificazione dell’ISPESL. Nella più benigna delle ipotesi, in definitiva, l’agente potrebbe in futuro eccepire, al più, di versare in uno stato di dubbio sulla intrinseca sicurezza o meno dell’autogrù. A titolo di curiosità, si segnala che pochi mesi dopo l’infortunio, e ben prima delle due pronunce in commento, un funzionario dell’USSL ha compiuto una verifica periodica dell’autogrù, ritenendola a sua volta ‘‘adeguata ai fini della sicurezza’’.
— 789 — TRIBUNALE DI MILANO — 21 ottobre 1998 (dep. 17 dicembre 1998) Pres. Cerqua — Rel. Greco — Est. Liuzzo Abuso d’ufficio - Disciplina sulle perquisizioni - Mancanza della violazione di legge - Il fatto non sussiste (c.p., art. 323; c.p.p., art. 352). Abuso d’ufficio - Disciplina sulla documentazione dell’attività di polizia giudiziaria - Violazione - Mancanza del danno ingiusto — Il fatto non sussiste (c.p., art. 323; c.p.p., art. 357). Abuso d’ufficio - Sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini - Assenza di dichiarazioni confessorie — Mancanza del danno ingiusto - Configurabilità del tentativo - Difetto dell’elemento soggettivo - Il fatto non costituisce reato (c.p., art. 323; c.p.p., art. 350). Abuso d’ufficio - Violazione di norme di legge penale - Possibiltà di configurare il reato - Mancanza del danno ingiusto - Il fatto non sussiste (c.p., artt. 323, 582, 594). Alla luce della novella legislativa la condotta ascritta all’imputato non integra gli elementi costitutivi del « nuovo » abuso d’ufficio, difettando invero sia la violazione di legge, attesa la legittimità della perquisizione, sia l’ingiustizia del danno, in quanto l’omessa verbalizzazione non poteva arrecare alcun ingiusto pregiudizio. Quanto alla violazione dell’art. 350 c.p.p. è configurabile l’ipotesi tentata di abuso d’ufficio, perché nonostante le inequivocabili sollecitazioni la persona sottoposta ad indagini non aveva reso alcuna dichiarazione confessoria, dalla quale sarebbe sicuramente per lei derivato un danno ingiusto. Tuttavia, ai fini dell’accertamento del dolo richiesto dal nuovo art. 323 c.p. si deve escludere che nella situazione concreta che si era creata l’imputato si rappresentasse tutti gli elementi del fatto, e cioè che fosse consapevole, non solo dell’illegittimità della sua condotta e della violazione di precise disposizioni processuali, ma anche del carattere ulteriormente ingiusto del danno. Va ricordato, al riguardo, che l’estremo dell’ingiustizia del danno, assume un ruolo di rilievo all’interno della fattispecie, rappresentando proprio quella nota di disvalore che consente di distinguere l’illecito penale dall’illegittimità amministrativa. Infatti una volta accertata la violazione di legge è proprio l’ingiustizia del risultato conseguito, o che si voleva conseguire, ad attribuire rilevanza penale al comportamento dell’agente. Non si può escludere che nell’ampio concetto di violazione di legge, comprensivo della legge formale e di qualunque altro atto normativo riconducibile al concetto di legge in senso materiale, rientri pure la legge penale; tuttavia il danno ingiusto richiesto dall’art. 323 c.p. per la sussistenza dell’illecito in esame, deve essere diverso ed ulteriore rispetto a quello che deriva direttamente al soggetto passivo dalla violazione di una norma penale. MOTIVI DELLA DECISIONE. — All’esito dell’istruzione dibattimentale risulta acclarata la penale responsabilità del prevenuto Franco Scudieri in ordine al reato contestatogli al capo B) dell’imputazione, dovendosi invece assolvere il predetto
— 790 — dal reato di cui al capo A), stante anche l’intervenuta L. 16 Luglio 1997, la quale ha modificato, riformulandolo, l’art. 323 c.p. Invero all’imputato è stato contestato di avere, nella qualità di brigadiere dei Carabinieri, abusato del proprio ufficio ai danni di Lorenzo Marinoni, sospettato di essere autore di una rapina di cui era rimasto vittima tale Mario Vastano, per aver disposto, fuori dei casi di flagranza e senza autorizzazione, una perquisizione, non convalidata, presso il domicilio di Andrea Zampatti, altro sospetto autore della rapina, e per aver altresì trattenuto presso la caserma il predetto Marinoni, rivolgendogli, in assenza del difensore, pressanti domande tese a fargli confessare il delitto, percuotendolo ed insultandolo con gli epiteti riportati nel capo A) dell’imputazione. Il Tribunale ritiene veritiera la dianzi descritta ricostruzione dei fatti occorsi il 28 marzo 1995 nell’ufficio dell’imputato, all’interno della Caserma di Via Moscova in Milano, atteso che la riferita dinamica degli accadimenti ha trovato completa conferma e riscontro nel corso dell’istruzione dibattimentale. Invero, ritiene il Collegio intrinsecamente attendibili le dichiarazioni rese da Lorenzo Marinoni, il quale, benché portatore di un personale interesse nella qualità di persona offesa dal reato costituita parte civile nel presente giudizio, egualmente ha esposto, con estrema dovizia di particolari e precisi dettagli, gli accadimenti occorsi il 28 marzo 1995 nell’ufficio dell’allora brigadiere Franco Scudieri, ove era stato condotto dagli operanti intervenuti su segnalazione di Mario Vastato, che asseriva di averlo con certezza riconosciuto quale autore della rapina aggravata dall’uso delle armi, consumata ai suoi danni il giorno prima. Il Marinoni ha dichiarato che la mattina del 28 marzo 1995, verso le ore nove e trenta, mentre si trovava in un locale pubblico in compagnia di Andrea Zampatti, veniva avvicinato da una signora, apparentemente in compagnia di un uomo rimasto più defilato, la quale lo tratteneva con un pretesto fino al sopraggiungere degli operanti e che, di seguito, veniva condotto, unitamente al predetto Andrea Zampatti, presso la Caserma di Via Moscova. Ivi, in assenza di difensore, veniva sottoposto a pressanti domande dall’allora brigadiere dei Carabinieri Franco Scudieri, che gli rivelava che era stato riconosciuto quale autore di una rapina aggravata dall’uso delle armi consumata il giorno prima ai danni dell’accompagnatore della donna, successivamente identificato come Mario Vastano e, reiteratamente, lo incitava a confessare il reato del quale era stato accusato, intimandogli altresì di restituire i preziosi ed i gioielii sottratti alla vittima, apostrofandolo anche con diversi epiteti, tra i quali « ladro, criminale, faccia di culo ». Il Marinoni ha riferito inoltre che, rispondendo alle pressanti domande e sollecitazioni rivoltegli dall’imputato, aveva fornito chiarimenti in ordine ai suoi spostamenti del giorno prima, indicando altresì le generalità ed il recapito telefonico dell’amico Massimiliano Bertini, con il quale si era recato presso una concessionaria di motocicli, verosimilmente all’ora della rapina, e che costui ben avrebbe potuto fornire conferma alle sue dichiarazioni senza tuttavia che gli operanti procedessero all’indicato riscontro. La dianzi descritta circostanza risulta peraltro espressamente confermata dallo stesso Franco Scudieri, il quale, nel corso dell’esame reso il 21 ottobre 1997, pur avendo dapprima negato di aver rivolto alcuna domanda alla persona nei confronti della quale stava svolgendo indagini, nel rispondere ai quesiti del proprio di-
— 791 — fensore, ha affermato che Lorenzo Marinoni aveva reso precise dichiarazioni in ordine ai suoi spostamenti del giorno precedente, indicando altresì le generalità di una persona che avrebbe potuto fornire riscontri in ordine ai suoi movimenti. Il Marinoni ha altresì dichiarato che, successivamente, in seguito a precisa disposizione dell’imputato, gli operanti avevano proceduto, contestualmente, a perquisizione sia presso la sua abitazione sia presso quella di Andrea Zampatti, in un primo momento sospettato di essere suo complice nella rapina, poiché proprietario di un motociclo del tutto analogo a quello utilizzato dai rapinatori, ed altresì che, mentre egli si trovava presso l’abitazione in compagnia dell’appuntato Angelo Tavilla e del Brigadiere Sebastiano Vinci, incaricati di eseguire il descritto atto d’indagine, sopraggiungeva sua madre, la quale veniva edotta dai militi presenti, ed in particolare dall’appuntato Tavilla, sia del reato di cui era sospettato, sia dell’opportunità di ritrovare i preziosi sottratti nel corso della rapina o, comunque, di provvedere al risarcimento. La perquisizione, iniziata dopo le ore dodici, aveva dato esito negativo quanto alla ricercata refurtiva, pur portando al rinvenimento di una pistola giocattolo, modello Beretta 92, sprovvista del relativo tappo rosso, che, ritenuta cosa pertinente al reato contestato, veniva sottoposta a sequestro. Il Marinoni ha dichiarato inoltre che all’esito del descritto atto di indagine veniva ricondotto presso la caserma di via Moscova, ove giungeva, all’incirca verso le ore tredici, di poco preceduto da Andrea Zampatti e dagli operanti che avevano proceduto alla perquisizione, con esito negativo, presso il domicilio di costui. Il Marinoni ha specificato, altresì, di essere stato accompagnato nell’ufficio del brigadiere Scudieri unitamente allo Zampatti e che, alla vista della pistola, il prevenuto, dopo avergli nuovamente intimato di dichiararsi colpevole del reato e restituire la refurtiva, a fronte della sua protesta di innocenza, lo aveva aggredito fisicamente, percuotendolo al volto con un ceffone, così da fargli roteare parzialmente il viso, mandandolo a sbattere con il capo contro un armadietto di ferro che si trovava alle sue spalle e che, subito dopo, lo Zampatti, il quale istintivamente, aveva cercato di sorreggerlo, veniva fatto allontanare dalla stanza e, di seguito, veniva definitivamente congedato, all’incirca tra le ore tredici e trenta e le quattordici. Il Marinoni ha altresì riferito che successivamente a tale episodio ed all’allontanamento dello Zampatti, l’imputato si era assentato dalla stanza per alcuni minuti, lasciandolo alla vigilanza dei militi ivi presenti — i quali peraltro avevano continuato ad entrare ed uscire dal locale per tutto il tempo degli accadimenti descritti, impegnati nella redazione dei verbali relativi alla sua identificazione ed al sequestro dell’arma giocattolo, oltre al disbrigo di ulteriori e diverse incombenze — e che, di seguito, lo Scudieri era rientrato nel suo ufficio, mostrando un atteggiamento ben più distensivo, fino a condurlo presso il bar della caserma, insistendo nell’atto di offrirgli un caffè, senza tuttavia cessare di incitarlo a dichiararsi colpevole della rapina consumata ai danni di Mario Vastano ed a restituire i preziosi sottratti in quell’occasione. Lorenzo Marinoni ha dichiarato inoltre di essere stato trattenuto per un significativo lasso di tempo e che, solo dopo le ore quattordici e trenta, gli veniva consentito di lasciare quell’ufficio per fare ritorno a casa, ove, poco dopo il suo rientro, la madre, che lo aveva seguito in caserma con un taxi al termine della perqui-
— 792 — sizione domiciliare, aveva modo di constatare le lesioni che presentava al volto in conseguenza delle subite percosse. Le dichiarazioni particolareggiate e precise di Lorenzo Marinoni, consentono di ricostruire in modo dettagliato e logico la successione degli avvenimenti occorsi il 25 marzo 1995 nell’ufficio dello Scudieri, tanto più ove si consideri che il ceffone risulta essere stato dato successivamente al rinvenimento dell’arma giocattolo, quindi quando estremamente significativi parevano essere gli indizi di colpevolezza a carico della persona sottoposta ad indagini, la quale invece insisteva nel negare ogni responsabilità nell’attribuita rapina. La difesa dell’imputato ha ritenuto inattendibili le dichiarazioni del Marinoni; sennonché tali argomentazioni difensive paiono destituite di logico fondamento. Ed invero, osserva il Tribunale, dalla calunnia non poteva derivare alcun vantaggio al Marinoni e nessun motivo di astio poteva avere questi nei confronti dell’imputato se non fosse stato vero quanto lo stesso Marinoni ha sostenuto e dichiarato. Per la precisione, le false accuse nei confronti dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria non avrebbero potuto sortire alcun effetto favorevole per la sua posizione, dopo il riconoscimento ad opera del Vastano ed il ritrovamento dell’arma; né d’altra parte sarebbe ravvisabile alcun serio motivo di rancore nei confronti del brigadiere Scudieri se i fatti si fossero svolti come sostenuto dallo stesso imputato. Inoltre, come dianzi detto, le riportate affermazioni di Lorenzo Marinoni hanno trovato concreti e molteplici riscontri nel corso dell’istruzione dibattimentale. Sotto questo profilo rilevano le dichiarazioni rese da Andrea Zampatti, il quale ha confermato in ogni suo elemento la successione degli accadimenti dianzi descritta, affermando di essere stato condotto presso la caserma di via Moscova unitamente al Marinoni e che ivi il predetto, informato dall’imputato di essere stato riconosciuto con certezza come autore di una rapina aggravata dall’uso delle armi avvenuta il giorno prima, commessa da due giovani che si trovavano su un motorino del tutto simile a quello di cui egli era proprietario, veniva sottoposto, in assenza del difensore, alle pressanti domande del prevenuto, il quale financo lo apostrofava con gli epiteti di cui al capo A) dell’imputazione. Andrea Zampatti ha riferito quindi che il brigadiere Scudieri disponeva una perquisizione presso l’abitazione del Marinoni e presso il suo domicilio e che allo scopo veniva condotto da due carabinieri presso la propria abitazione, dove gli operanti, richiesto alla portiera se egli avesse la disponibilità di altri immobili, procedevano alla perquisizione del suo domicilio e della cantina nella quale era solito custodire il motorino, mettendo a soqquadro ogni cosa. Andrea Zampatti ha riferito altresì che la perquisizione aveva dato esito negativo; che di tale attività non veniva redatto alcun verbale attestante le operazioni compiute; che, di seguito, veniva ricondotto in caserma ove giungeva poco prima del Marinoni con il quale veniva fatto entrare nell’ufficio del prevenuto, ove aveva modo di assistere al ceffone che l’imputato dava al Marinoni ed, inoltre, ha dichiarato che, dopo aver tentato di sorreggere l’amico, andato ad urtare con il capo contro l’armadietto di ferro posto alle loro spalle, veniva dapprima fatto uscire dalla stanza e, successivamente, fatto allontanare dalla caserma all’incirca tra le ore tredici e trenta e le quattordici. Andrea Zampatti ha riferito ancora che all’episodio sopra descritto presenzia-
— 793 — vano alcuni commilitoni dell’imputato, ricordando con certezza in particolare la presenza dell’appuntato Angelo Tavilla, del quale ha descritto le fattezze fisiche e l’abbigliamento, indicandolo altresì come uno degli operanti che aveva proceduto alla perquisizione presso il domicilio del Marinoni. Nonostante il rapporto di amicizia intercorrente tra Lorenzo Marinoni ed Andrea Zampatti, rileva il Collegio l’assoluta mancanza di interesse dello Zampatti ad accusare falsamente l’imputato di aver colpito il Marinoni e di aver dato disposizione di procedere ad una perquisizione, non verbalizzata né autorizzata o successivamente convalidata, presso il proprio domicilio, tanto più ove si consideri che, dopo gli iniziali sospetti, lo Zampatti era stato immediatamente riconosciuto del tutto estraneo al reato in quel momento attribuito al Marinoni e congedato senza ulteriori conseguenze, né risulta essere stato direttamente coinvolto nel successivo procedimento penale per rapina, instauratosi a carico del Marinoni e conclusosi comunque con il suo proscioglimento. Rileva inoltre il Collegio la sostanziale convergenza della ricostruzione dei fatti offerta da quest’ultimo teste con quella resa dal Marinoni, né le eventuali lievi discrepanze, sottolineate dalla difesa dell’imputato, soprattutto con riferimento alle concrete modalità con cui è stato inferto il ceffone, possono valere ad inficiare la sostanziale attendibilità della descritta ricostruzione dei fatti occorsi, atteso che esse paiono veramente lievi e da attribuirsi piuttosto alla soggettiva e diversa percezione degli accadimenti, evidentemente ravvisabile tra la persona che, colpita cercava di difendersi, fissando la propria attenzione sull’aggressore per prevenire eventuali, ulteriori, colpi e quella che, assistendo all’altrui violenza, aveva modo di guardarsi intorno alla ricerca di aiuto, registrando così la presenza degli astanti. Pare invece corretto al Tribunale sottolineare l’illogicità e l’assoluta inverosimiglianza della diversa e contraria versione degli accadimenti fornita dall’imputato, sostenuta dalle univoche deposizioni dei suoi commilitoni Angelo Tavilla, Costantino Leoni, Vito Bono, Vincenzo Vitale e Sebastiano Vinci, troppo uniformemente concordi e precisi nel ricordare tutti i medesimi, specifici, dettagli per essere ritenuti effettivamente sinceri, atteso che costoro hanno dichiarato che lo Zampatti sarebbe stato congedato quasi immediatamente, così da essersi allontanato dagli uffici della caserma ben prima che si procedesse alla perquisizione presso l’abitazione del Marinoni, il quale non sarebbe stato in alcun modo colpito durante la permanenza in caserma e che, comunque, nessuna perquisizione domiciliare sarebbe stata eseguita, da alcuno di essi, presso l’abitazione del predetto Zampatti. Dette affermazioni, incompatibili con le ulteriori e più significative risultanze istruttorie, paiono inverosimili, soprattutto ove si consideri che lo Zampatti, a carico del quale nell’immediatezza dei riscontri erano emersi anche precedenti penali, era gravemente indiziato di essere complice del Marinoni, in quanto proprietario del motorino SI Piaggio identificato, con ogni certezza da Mario Vastano, come quello usato per compiere il reato, circostanza peraltro confermata dalla « Relazione di servizio inerente l’intervento effettuato il 28 marzo 1995 » in atti, a firma dell’imputato e del brigadiere Costantino Leoni, ed atteso inoltre che uno dei rapinatori, appunto quello che conduceva lo scooter, aveva agito con il volto coperto dal casco, così rendendo comunque doverose ulteriori indagini sulla persona dello Zampatti oltre che indispensabile la perquisizione domiciliare a carico
— 794 — del predetto, nonché il trattenimento dello stesso in caserma, quanto meno in attesa dell’esito della perquisizione a carico del Marinoni. Pertanto il Collegio, vista anche la richiesta del pubblico ministero ritiene di dover disporre la trasmissione di copia degli atti alla Procura della Repubblica presso questo Tribunale a norma dell’art. 207 c.p.p., per le determinazioni ritenute di competenza di quell’ufficio in ordine ai reati di falsa testimonianza. Ulteriori riscontri alle dichiarazioni rese dal Marinoni e dallo Zampatti si evincono dalla documentazione medica in atti, ed in particoiare dal referto all’Autorità Giudiziaria in data 29 marzo 1995, redatto presso l’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano, riguardante la persona di Lorenzo Marinoni, nel quale vengono evidenziati: « contusione della regione temporale destra ed abrasione fronte », con prognosi di giorni cinque, lesioni attribuite dal paziente alle percosse subite presso la caserma di via Moscova; nonchè dalle fotografie, scattate il successivo 30 marzo 1995, prodotte dalla parte civile, che rammostrano la fronte tumefatta di Lorenzo Marinoni. In proposito, osserva il Collegio, la tesi della difesa dell’imputato, secondo la quale il Marinoni ben avrebbe potuto procurarsi in altro modo le lesioni riscontrate, è risultata priva di qualsiasi supporto probatorio e di riscontri oggettivi, risultando così solo una mera ipotesi, tra l’altro del tutto inverosimile, stante il ridottissimo lasso di tempo intercorso tra il momento in cui il Marinoni è stato rilasciato dalla caserma, dopo le ore quattordici e trenta, e l’incontro con la madre nella propria abitazione, avvenuto circa alle ore quindici. Altresì significativi e rilevanti riscontri alle affermazioni rese da Lorenzo Marinoni provengono dalle dichiarazioni di Emilia Nicolosi, madre del predetto, la quale ha avuto modo di presenziare a parte della perquisizione effettuata presso il proprio domicilio e di parlare con Angelo Tavilla, uno degli operanti che procedevano a quell’atto di indagine, il quale la informava che la situazione del figlio era ulteriormente precipitata in seguito al rinvenimento della pistola giocattolo ed altresì che Mario Vastano si era rivolto al brigadiere Scudieri proprio perché lo conosceva, sicché, avendo quest’ultimo un « carattere difficile », le consigliava di recarsi presso la caserma di via Moscova, pur insistendo sulla circostanza che non vi fosse necessità di far intervenire un avvocato. Emilia Nicolosi ha altresì precisato che, ivi giunta, aveva tre successivi colloqui con il prevenuto, il quale le confermava che, seppure con il predetto Mario Vastano non intercorresse effettivamente un rapporto di amicizia, bensì piuttosto un rapporto di conoscenza, egli lo riteneva persona attendibile e credibile, sicchè le accuse da questi rivolte al figlio gli parevano fondate, tanto più considerando che il ragazzo era risultato frequentare abitualmente altra persona, lo Zampatti, con precedenti penali. Emilia Nicolosi inoltre ha aggiunto che il Brigadiere Scudieri le aveva precisato di conoscere anche la figlia di Mario Vastano, impiegata alla Sip, circostanza quest’ultima che la predetta Nicolosi non avrebbe potuto riferire se non per averla appresa da persona che effettivamente intrattenesse rapporti con il Vastano, atteso che nel corso dell’ulteriore attività istruttoria è stato acclarato che la figlia di costui aveva iniziato a lavorare presso il palazzo della Sip solo due giorni prima della rapina. La Nicolosi ha riferito da ultimo, circostanza peraltro pacifica, che nel corso della perquisizione domiciliare il figlio Lorenzo non mostrava alcuna lesione al
— 795 — volto e che, diversamente, al suo rientro dalla caserma di via Moscova ove era rimasta ad attenderne vanamente l’uscita, aveva avuto modo di constatare le tumefazioni al volto del ragazzo, attribuite immediatamente allo schiaffo subito. La presenza delle lesioni è stata confermata anche da Erminio Marinoni, padre di Lorenzo, il quale ha dichiarato di essere rientrato precipitosamente, nel tardo pomeriggio, da Follonica, ove si trovava per impegni personali non appena aveva appreso degli eventi che vedevano coinvolto il figlio. Erminio Marinoni ha dichiarato altresì di essere stato contattato il 31 marzo 1995, all’incirca tra le dodici e le dodici e venti, da una persona di sesso maschile che si era qualificata come brigadiere Scudieri, la quale lo aveva invitato a far andare urgentemente Lorenzo in caserma; che aveva risposto a tale interlocutore che prima si sarebbe consultato con l’avvocato, nominato nel frattempo, circa l’opportunità del richiesto incontro; che l’interlocutore si era allora lamentato per la nomina del legale, giudicata un comportamento ostruzionistico e non aveva più dato seguito alla richiesta di colloquio. Tale circostanza, confermata anche dalle dichiarazioni di Lorenzo Marinoni, il quale ha dichiarato di aver avuto modo di ascoltare le risposte che il padre dava all’interlocutore telefonico, non può non essere messa in relazione all’ammissione del prevenuto, il quale ha affermato nel corso dell’esame, di aver successivamente appreso dal Maggiore Scassa, suo superiore, che nei suoi confronti Lorenzo Marinoni aveva sporto denuncia-querela per la subita aggressione fisica, sicché all’esito dell’istruzione dibattimentale, si evince con ogni evidenza una precisa evoluzione del comportamento del prevenuto nei confronti del predetto Marinoni atteso che all’iniziale aggressiva condotta, culminata nel ceffone dato alla presenza di Andrea Zampatti, è seguito, dopo i primi due incontri con Emilia Nicolosi nell’androne della caserma, un comportamento più cauto e prudente, teso a creare un clima più disteso, che ha portato l’imputato a condurre il Marinoni al bar per offrirgli un caffè, fino alla successiva richiesta telefonica di poter avere un colloquio con il ragazzo, verosimilmente dopo aver appreso della denuncia-querela da questi sporta presso un Commissariato di Polizia. Non è parsa convincente né verosimile infatti la tesi difensiva di Franco Scudieri, il quale ha negato la telefonata ed ha sostenuto essere suo costume offrire, per ragioni umanitarie, verso l’ora di pranzo un caffè od un panino a tutte le persone sottoposte ad indagini; né l’imputato è parso credibile quando ha dichiarato che il Marinoni era stato congedato dalla caserma sicuramente entro le tredici e quindici e le tredici e venti, atteso che in atti vi è il verbale di indentificazione, che risulta iniziato alle tredici e trenta. Si pone a questo punto un’alternativa: o è vera la versione del Marinoni, così come reputa il Collegio sulla base di una attenta analisi delle risultanza processuali; ovvero si deve ritenere sussistente non solo la calunnia da parte del Marinoni (già esclusa per le ragioni dianzi esposte), bensì addirittura un « complotto » di quattro persone (lo stesso Marinoni, la madre, il padre e lo Zampatti) per calunniare lo Scudieri. Si deve rilevare infatti che è stato il padre del Marinoni a parlare spontaneamente della telefonata ricevuta, che è stata la madre a riferire dei colloqui avuti in caserma con il brigadiere Scudieri e delle notizie apprese dallo stesso e dall’appuntato Tavilla sul conto del Vastano e che, infine, lo Zampatti ha confermato autonomamente la versione dell’amico.
— 796 — A ben considerare, dunque, risulta sfornita di qualsiasi logico fondamento la tesi, rappresentata dalla difesa del prevenuto, di un comportamento calunnioso delle persone su indicate: in particolare non si comprende per quale ragione la madre ed il padre del Marinoni avrebbero dovuto rilasciare quelle dichiarazioni se il contenuto delle stesse non fosse stato vero. La riprova della veridicità delle dichiarazioni rese dai predetti è fornita da un elemento di indubbia efficacia dimostrativa: Emilia Nicolosi, infatti, ha riferito sul conto del Vastano e di sua figlia circostanze che non poteva aver appreso che dallo stesso Scudieri, rendendo così dichiarazioni sicuramente veritiere. Si deve inoltre segnalare l’assoluta inverosimiglianza della tesi che l’imputato e Mario Vastano hanno cercato di accreditare, relativamente al fatto che tra di essi non intercorresse alcun pregresso rapporto di conoscenza, non solo con riferimento alle già descritte circostanze che Emilia Nicolosi ha dichiarato esserle state comunicate dall’appuntato Angelo Tavilla e dallo stesso Franco Scudieri, bensì anche in relazione ad un altro elemento che si evince dalla richiamata « Relazione di servizio inerente l’intervento effettuato in data 28 marzo 1995 », dalla quale risulta che la segnalazione per fermare i due pretesi autori della rapina non era stata rivolta da Mario Vastano al centralino del Pronto Intervento od a quello della Stazione dei Carabinieri di Milano-Porta Garibaldi, ove questi aveva sporto la denuncia per la subita rapina, bensì direttamente all’utenza n. 02/62764257, numero corrispondente all’interno del brigadiere Scudieri, utenza alla quale solo il predetto rispondeva come egli stesso ha ammesso in sede di esame, numero quindi noto evidentemente solo a coloro cui fosse stato specificatamente comunicato in precedenza. Del resto lo stesso Mario Vastano ha dapprima negato di aver effettuato alcuna chiamata, salvo di seguito ripetutamente contraddirsi, insistendo nel negare di aver conosciuto il numero di quell’utenza. Ritiene quindi il Collegio che il teste non voglia ammettere di aver avuto pregressi rapporti con lo Scudieri e di averlo chiamato a quel numero telefonico, circostanza dalla quale consegue ulteriormente l’inattendibilità delle sue dichiarazioni ed altresì l’assenza di credibilità della tesi difensiva sostenuta dall’imputato. Come dianzi accertati gli accadimenti del 28 marzo 1995, occorre ora statuire se essi siano idonei a configurare la penale responsabilità dell’imputato, in relazione ai reati ascritti in entrambi i capi di imputazione. Quanto alla contestata violazione dell’art. 323 c.p. non può prescindersi dall’esame del recente intervento del Legislatore, che con la novella del 1997 ha inteso rimodellare, per esigenze di tassatività o sufficiente determinatezza delle fattispecie penali, gli elementi costitutivi della condotta penalmente rilevante. Invero nella primigenia versione del codice Rocco, all’art. 323 era attribuita una funzione meramente sussidiaria, potendo essere applicato solo allorché l’abuso del pubblico ufficiale non risultasse punibile da altra, più specifica, norma sostanziale. Di seguito, con la riforma di cui all’art. 13 della L. 26 aprile 1990 n. 86, recante modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il Legislatore ha inteso modificare profondamente la fattispecie in parola, estendendo l’ambito di applicazione della nuova normativa sull’abuso d’ufficio, sino a ricomprendervi le condotte che integravano, prima della riforma, i delitti di interesse privato in atti di ufficio e di peculato per distrazione.
— 797 — In seguito a numerose osservazioni critiche, espresse da più parti, in ordine alla formulazione della norma ed alle conseguenze che dalla sua applicazione derivavano (o potevano derivare) sull’attività della pubblica amministrazione, il Legislatore è intervenuto nuovamente, descrivendo la fattispecie in modo più tassativo, statuendo che « salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé od ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni ». Sicché, già la semplice lettura della norma consente di constatare che il Legislatore ha inteso perseguire l’obiettivo di limitare il controllo penale sull’operato dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, descrivendo forme e modalità tipiche, attraverso le quali la condotta incriminatrice deve produrre l’evento di danno o di vantaggio, modificando altresì la struttura oggettiva del reato, trasformato in una fattispecie tipica di reato di danno. Orbene, risulta pacificamente ammesso che i fatti punibili ai sensi del previgente testo dell’art. 323 c.p. possano essere oggetto di sanzione anche ai sensi della nuova norma, qualora gli elementi costitutivi del reato siano contenuti nella fattispecie modificata e siano stati chiaramente indicati nel capo di imputazione contestato. Invero la modifica normativa ha comportato un fenomeno di successione di leggi penali, introducendo così una norma incriminatrice che, rispetto alla pregressa disciplina, ha escluso la rilevanza penale di alcune ipotesi già punite come reato, mantenendo però tale rilevanza rispetto ad altre, maggiormente tipizzate. Altresì il nuovo testo dell’art. 323 c.p., nel sottolineare l’esigenza che la condotta descritta nella norma, per assumere rilevanza penale, debba essere realizzata — sotto il profilo dell’atteggiamento psicologico — intenzionalmente, ha voluto prescrivere espressamente che la condotta vietata debba essere eseguita dall’agente perseguendo, come scopo finale di essa, quello di procurare a sé oppure ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero di arrecare ad altri un danno ingiusto. In sostanza, per la sussistenza del reato è richiesta ora la presenza del dolo intenzionale, configurabile tutte le volte in cui l’evento tipico costituisca lo scopo finale in vista del quale il soggetto è indotto ad agire. Tanto premesso, passando all’esame della concreta fattispecie in esame ed ai reati ascritti all’imputato occorre dapprima prendere atto che il pubblico ministero, stante appunto le modifiche di cui all’intervenuta novella legislativa, ha provveduto, nel corso dell’udienza del 26 febbraio 1998, a riqualificare nei termini già descritti l’originaria formulazione dell’imputazione. In particolare, dunque, all’imputato è stato contestato di aver abusato del proprio ufficio in danno di Andrea Zampatti, per aver violato gli artt. 352 e 357, II co. lett. d), c.p.p., concernenti, rispettivamente, la disciplina delle perquisizioni nonché la loro verbalizzazione. Pare indubbio, tuttavia che, stante le evidenze della concreta fattispecie in esame, legittimamente l’imputato abbia disposto la perquisizione presso l’abitazione di Andrea Zampatti, atteso che questi era risultato essere proprietario del
— 798 — motorino SI Piaggio, riconosciuto con sicurezza come quello utilizzato per l’esecuzione della rapina aggravata dall’uso delle armi ed era quindi gravemente indiziato di essere il complice di Lorenzo Marinoni, individuato con certezza da Mario Vastano come l’autore di quel reato. Pertanto, atteso che ai sensi dell’art. 41 T.U.L.P.S. — norma ancora in vigore ex art. 225 del D. L.vo 28 luglio 1989 n. 271 — è consentito agli Ufficiali ed agli Agenti di Polizia Giudiziaria, qualora abbiano notizia, anche se per indizio, dell’esistenza, in qualsiasi locale, pubblico o privato od in qualsiasi abitazione di armi, munizioni o materie esplosive non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, di procedere immediatamente a perquisizione o sequestro, la disposizione impartita dall’imputato ai suoi sottoposti di eseguire la perquisizione del domicilio dello Zampatti deve considerarsi del tutto legittima, come del resto quella effettuata presso l’abitazione del Marinoni. Con riferimento alla perquisizione presso il domicilio dello Zampatti, non risulta essere stato redatto alcun verbale. Tuttavia, alla luce della novella legislativa, la condotta ascritta all’imputato non integra gli elementi costitutivi del « nuovo » abuso d’ufficio, difettando invero sia la violazione di legge, attesa la legittimità della perquisizione, sia l’ingiustizia del danno, in quanto l’omessa verbalizzazione non poteva arrecare allo Zampatti alcun ingiusto pregiudizio. Consegue, a quanto dianzi esposto, che in ordine all’illustrato capo di imputazione, il prevenuto dovrà essere mandato assolto, perché il fatto non sussiste. All’imputato è stato inoltre contestato di aver abusato del proprio ufficio in danno di Lorenzo Marinoni, per aver violato la norma di cui all’art. 350 c.p.p., disciplinante le sommarie informazioni rese dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini. Quanto a tale violazione, è stato accertato che il prevenuto aveva rivolto pressanti domande al Marinoni, persona sottoposta ad indagini, in assenza di un difensore, sollecitandolo a confessare il reato di rapina ai danni del Vastano ed a consegnare la refurtiva. Ciò posto, si deve osservare, anzitutto, che il Marinoni, nonostante le inequivoche sollecitazioni, non aveva reso alcuna dichiarazione confessoria, dalla quale sarebbe sicuramente per lui derivato un danno ingiusto. Ne consegue, sotto il profilo oggettivo, la configurabilità dell’ipotesi tentata: ed invero, per effetto della trasformazione del reato in esame in illecito di evento, il tentativo deve ritenersi senz’altro configurabile tutte le volte in cui vengano compiuti da parte dell’agente atti idonei diretti in modo non equivoco alla realizzazione di un danno ingiusto e questo, per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente, non si verifichi. In secondo luogo, ai fini dell’accertamento della sussistenza del dolo richiesto dal nuovo art. 323 c.p., si deve escludere che nella situazione concreta che si era creata, conseguente al sicuro riconoscimento del Marinoni da parte del Vastano ed al ritrovamento di un’arma presso l’abitazione del Marinoni stesso, lo Scudieri si rappresentasse tutti gli elementi del fatto, e cioè che fosse consapevole, non solo dell’illegittimità della sua condotta e della violazione di precise disposizioni processuali, ma anche del carattere ulteriormente ingiusto del danno. Va ricordato, al riguardo, che l’estremo dell’ingiustizia del danno assume un ruolo di rilievo all’interno della fattispecie, rappresentando proprio quella nota di
— 799 — disvalore che consente di distinguere l’illecito penale dall’illegittimità amministrativa. Infatti una volta accertata la violazione di legge (in questo caso: l’art. 350 c.p.p.) è proprio l’ingiustizia del risultato conseguito o, che si voleva conseguire, ad attribuire rilevanza penale al comportamento dell’agente. Del requisito dell’ingiustizia del danno, che deve costituire oggetto di un ulteriore, distinto ed autonomo accertamento, rispetto a quello che investe la condotta, lo Scudieri non poteva avere consapevolezza, giacche gli elementi di prova in quel momento a sua disposizione indicavano nel Marinoni uno dei responsabili della rapina commessa ai danni del Vastano. Alla stregua di tali considerazioni, Franco Scudieri deve essere assolto dal reato di abuso d’ufficio commesso ai danni di Lorenzo Marinoni, con violazione dell’art. 350 c.p.p., perche, ravvisata l’ipotesi tentata, il fatto non costituisce reato. Ritiene infine il Collegio che non sia configurabile l’ultima ipotesi di abuso di ufficio in danno del Marinoni, contestata allo Scudieri e consistente nella violazione delle norme di cui agli artt. 582 e 594 c.p. Senza indugiare sulla clausola di consunzione contenuta nell’art. 323 c.p., per la quale l’operatività della norma resta esclusa soltanto nel caso in cui il fatto commesso costituisca al tempo un più grave reato, clausola che qui non rileva per difetto dei presupposti della sua applicazione, trattandosi di condotte non riconducibili a due diverse fattispecie, non si può escludere che nell’ampio concetto di violazione di legge, comprensivo della legge formale e di qualunque altro atto normativo riconducibile al concetto di legge in senso materiale, rientri pure la legge penale. Ed invero, per esplicitare il pensiero con un esempio, non sembra si possa negare il concorso formale tra il reato de quo e quello di falsità materiale in atto pubblico previsto dall’art. 476 c.p., nel caso in cui un pubblico ufficiale, formando nell’esercizio delle sue funzioni un atto falso od alterando un atto vero, procuri intenzionalmente ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale od un danno ingiusto. Non si rinviene, infatti, nella norma e nel sistema alcuna indicazione contraria a tale interpretazione. Ben diverso, però, è il caso in esame. Qui, con la violazione degli artt. 582 e 594 c.p. non si è verificato un ulteriore danno ingiusto, necessario per la configurabilità dell’abuso d’ufficio, rispetto a quello derivante dai reati di lesioni personali e di ingiuria. In sostanza, il danno ingiusto richiesto dall’art. 323 c.p. per la sussistenza dell’illecito in esame, deve essere diverso ed ulteriore rispetto a quello che deriva direttamente al soggetto passivo dalla violazione di una norma penale. In caso contrario non è dato ravvisare alcun abuso d’ufficio. Ne consegue l’assoluzione dello Scudieri, perché il fatto non sussiste. Lo Scudieri, invece, deve essere dichiarato colpevole, dei reati ascrittigli al capo B) per aver provocato a Lorenzo Marinoni lesioni personali consistite in contusioni ed abrasioni al volto, oltre a dolori di testa e per averlo ingiuriato con gli epiteti « ladro, criminale, faccia di culo », così offendendone la reputazione, con l’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 c.p., atteso che l’imputato ha agito nella qualità di brigadiere dei Carabinieri, nell’esercizio delle funzioni di Polizia Giudiziaria, quindi con abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione.
— 800 — La personale responsabilità dell’imputato appare evidente dalle argomentazioni svolte. I due reati possono essere unificati a norma dell’art. 81 cpv. c.p., apparendo espressione di un unico disegno criminoso. Tenuto conto della concitazione del momento e della sicura convinzione di trovarsi di fronte ad un rapinatore, possono riconoscersi all’imputato le circostanze attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza rispetto alla contestata aggravante. Pertanto, considerati i criteri di commisurazione della pena di cui all’art. 133 c.p., reputa il Collegio di dover infliggere all’imputato la pena di mesi sei e giorni quindici di reclusione (pena-base, per il più grave reato di lesioni volontarie: mesi sei), trattandosi di pena che viene ritenuta equa e proporzionata al fatto colpevole. Non va infatti dimenticato al riguardo che la sanzione penale, come ha ricordato anche la Corte Costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990, nonostante il finalismo rieducativo (art. 27, comma 3, Cost.) deve essere proporzionata alla gravità del reato e dell’offesa e non può perdere quei profili di afflittività e retribuitività che riflettono quelle condizioni minime, in mancanza delle quali la sanzione penale cesserebbe di essere tale. L’affermazione di penale responsabilità comporta (art. 513 c.p.p.) la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali. Allo Scudieri può essere concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, essendo possibile formulare, alla luce di tutti gli atti processuali, un giudizio prognostico favorevole sulla sua futura condotta di vita. L’imputato inoltre deve essere condannato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile Lorenzo Marinoni, da liquidarsi in separato giudizio; con provvisionale immediatamente esecutiva, di lire cinque milioni, apparendo sicuramente provato, alla stregua delle considerazioni che precedono, l’esistenza di un danno subito dal Marinoni ad opera dello Scudieri. Infine deve essere pronunciata condanna nei confronti dello Scudieri al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile che si liquidano in L. 5.080.000, oltre ad I.V.A. e C.P.A., come per legge. P.Q.M.. — Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. DICHIARA Scudieri Franco colpevole del delitto ascritto al capo B) e riconosciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulla contestata aggravante, lo CONDANNA alla pena di mesi sei e giorni quindici di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Concede all’imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena. Visto gli artt. 538 e segg. c.p.p.
— 801 — CONDANNA l’imputato al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile Lorenzo Marinoni, da liquidarsi in separato giudizio, accordando al predetto una provvisionale immediatamente esecutiva, di L. 5.000.000, oltre al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile che si liquidano in L. 5.080.000, oltre ad I.V.A. e C.P.A., come per legge. Visto l’art. 530 c.p.p. ASSOLVE Scudieri Franco a) dal reato di abuso d’ufficio commesso in danno di Zampatti Andrea, di cui al capo A) perché il fatto non sussiste; b) dal reato di abuso d’ufficio di cui al capo A), commesso ai danni di Marinoni Lorenzo, con violazione dell’art. 350 c.p.p., ravvisata l’ipotesi tentata, perché il fatto non costituisce reato; c) dal reato di abuso d’ufficio di cui al capo A) commesso ai danni di Marinoni Lorenzo, con violazione delle norme previste dagli artt. 582 e 594 c.p., perché il fatto non sussiste. DISPONE la trasmissione in copia degli atti alla Procura della Repubblica presso questo Tribunale, a norma dell’art. 207 c.p.p., per le determinazioni di competenza in ordine ai reati di falsa testimonianza. Visto l’art. 544, 3 comma, c.p.p. FISSA il deposito della sentenza nel termine di giorni sessanta.
—————— (1)
Alcune annotazioni sul delitto di abuso di ufficio: il danno ingiusto, il dolo, la clausola di riserva.
1.
Premessa.
Un giudice di merito è chiamato a pronunciarsi sull’applicabilità dell’art. 323 c.p. in relazione ad alcuni comportamenti posti in essere da un ufficiale di polizia giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni. In particolare, si tratta di valutare se costituiscano abuso d’ufficio i fatti del pubblico ufficiale che, nell’attività di indagine finalizzata alla ricerca dell’autore di un reato, compia una perquisizione in assenza dei presupposti che la legittimano; non osservi l’obbligo di verbalizzazione legato a tale operazione; assuma sommarie informazioni dall’indagato senza la presenza del difensore; cagioni all’indagato stesso — fermo nel negare gli addebiti mossigli — delle lesioni personali e lo offenda profferendo nei suoi confronti frasi ingiuriose.
— 802 — Al di là dei problemi probatori e assumendo come accertati tali accadimenti, la vicenda offre l’occasione di svolgere alcuni rilievi sulla nuova fattispecie di abuso d’ufficio. Questa, nella versione introdotta dalla l. 16 luglio 1997, n. 234, presenta alcune novità che, prima di affrontare questioni più specifiche, pare opportuno richiamare in breve. Sul piano oggettivo, in considerazione dei dubbi di indeterminatezza ripetutamente sollevati (1) con riguardo alla versione dell’art. 323 introdotta dalla l. 26 aprile 1990, n. 86 (2), la condotta viene descritta in maniera più analitica e il delitto viene trasformato da reato di mera condotta in reato di evento: non più semplicemente ‘‘abusa del suo ufficio’’, ma ‘‘nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto’’. Sul piano soggettivo, il chiaro riferimento al dolo specifico di cui alla norma previgente (‘‘al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto’’ nel primo comma, e ‘‘per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale’’ nel secondo comma) viene sostituito dall’avverbio ‘‘intenzionalmente’’: è pertanto sufficiente un dolo generico, che sembra presentare i caratteri del dolo intenzionale (3). Scopo delle presenti note è quello di soffermarsi, traendo spunto dai problemi d’ordine pratico sopra ricordati, sull’interpretazione del nuovo abuso d’ufficio. In particolare, gli aspetti dell’art. 323 c.p. cui verranno dedicate alcune considerazioni sono il danno ingiusto, l’elemento soggettivo e la clausola di riserva: quest’ultima, come si vedrà, richiederà qualche riflessione anche sul significato del requisito della violazione di norme di legge o di regolamento. 2. Il danno ingiusto come evento naturalistico dell’art. 323 c.p. Gli eventi naturalistici introdotti nella fattispecie dal legislatore del 1997 non sono altro che la trasformazione in elementi della struttura oggettiva delle specifiche finalità soggettive presenti nella precedente versione dell’art. 323 c.p. (‘‘per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale’’; ‘‘per arrecare ad altri un danno ingiusto’’). Con questa novità, già auspicata più volte dalla dottrina (4), il legislatore ha inteso senza dubbio connotare in maniera più significativa e precisa il disvalore del fatto (5). Pur dando atto che non sono mancate varie letture volte a contrastare le possibili censure contro la formulazione non ineccepibile del vecchio art. 323 c.p. (6), di fatto avveniva che — a causa della mancanza di precisi fattori di differenziazione sotto il profilo oggettivo, quale appunto un evento naturalistico (1) Per tutti SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, in COPPI (a cura di), Reati contro la Pubblica Amministrazione, 1993, 210. (2) La prima legge di riforma già intendeva, peraltro, ridurre l’eccesso di genericità della fattispecie: cfr. SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 216. (3) Per una sintesi dell’evoluzione legislativa concernente l’art. 323 c.p., STORTONI, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, 1998, 133 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, I, 1997, 235 ss. (4) SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 201, 204; SEMINARA, Artt. 323-324, in PADOVANI (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, 1996, 289, con ulteriori riferimenti. (5) Sulle ragioni della riforma, PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la pubblica amministrazione, 1998, 235 s. (6) Con la nuova fattispecie dell’abuso di ufficio tali interpretazioni sembrano superate: esse intendevano sostanzialmente porre in evidenza che la condotta abusiva e la condotta meramente illegittima
— 803 — — l’elemento che, prima di altri, finiva per ricoprire il compito di distinguere la mera illegittimità amministrativa (7) (disciplinare, contabile o in genere extrapenale) della condotta del pubblico ufficiale dalla integrazione del fatto di reato fosse la finalità soggettiva specifica (8). Se allora l’antigiuridicità penale finiva per dipendere non da una particolare carica di offensività, da un particolare disvalore oggettivo, ma dalla presenza del dolo specifico, era inevitabile porsi il problema del contrasto della disposizione in parola con i dettami costituzionali della determinatezza e del principio di offensività (9). non si distinguono per la semplice presenza della finalità di danno o di vantaggio, quanto piuttosto per una loro diversa struttura già al livello oggettivo. Particolarmente diffuso appare il ricorso al concetto di deviazione della condotta dai fini istituzionali della funzione o del servizio, oppure di strumentalizzazione oggettiva dell’ufficio: come dire, che sarebbe possibile riscontrare nella condotta materiale un’oggettiva deviazione della stessa dalla sua funzione tipica indipendentemente dalle intenzioni soggettive dell’agente. In giurisprudenza ad esempio Cass., 18 agosto 1993, in Riv. pen., 1994, 390; in dottrina si veda IADECOLA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione dopo le leggi di riforma, 1998, 129 s.; RAMPIONI, L’abuso di ufficio, in COPPI (a cura di), Reati contro la Pubblica Amministrazione, cit., 116; FIANDACA-MUSCO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, in Diritto penale. Parte speciale. - Appendice, 1991, 30 s.; SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, in questa Rivista, 1992, 592 s.; PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo d’insieme, in questa Rivista, 1990, 830. Per una rassegna delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali sulla determinazione del concetto di abuso si può confrontare anche D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, 1995, 123 ss. e SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, 1995, 489 ss. Queste tesi sono sicuramente animate dalle migliori intenzioni di fronte alla carente formulazione dell’art. 323 c.p. prima della riforma del 1997; tuttavia, anche trascurando le difficoltà legate all’applicazione pratica dei criteri elaborati (RAMPIONI, L’abuso di ufficio, cit., 116 s.), lo sforzo esegetico volto a dare spessore oggettivo all’abuso d’ufficio nei termini indicati forse appare pure sul piano teorico non immune da rilievi: si utilizza, infatti, per contrassegnare il sostrato oggettivo dell’abuso un concetto (la strumentalizzazione dell’ufficio o l’utilizzo dello stesso per scopi diversi da quelli tipici) che tipicamente corrisponde in diritto amministrativo al vizio di legittimità dell’eccesso di potere (MAZZAROLLI-PERICU-ROMANO-ROVERSI MONACO-SCOCA, Diritto amministrativo, 1998, 1474, e anche SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, cit., 494, 502). Ciò significa che si prende a mutuo una qualificazione propria del concetto di specie (l’eccesso di potere) per estenderla non solo al concetto di genere in senso stretto (l’illegittimità degli atti amministrativi, che com’è noto discende anche dalla incompetenza e dalla violazione di legge), ma ad uno ancora più ampio (l’abuso, che è riferibile non solo agli atti amministrativi, ma anche ai meri comportamenti materiali riconducibili alla pubblica amministrazione). A fronte di ciò può pertanto sorgere il dubbio, che almeno con riguardo ai fatti abusivi alla cui base si trova un atto viziato da incompetenza o da violazione di legge, o un comportamento materiale, la strumentalizzazione dell’ufficio — la quale dovrebbe comunque sussistere, secondo quanto si è sostenuto — non sia sempre oggettivamente valutabile, ma sia piuttosto un concetto ricavato dall’interprete tenendo in considerazione i profili di finalità specifica ugualmente richiesti dalla fattispecie. Sulla necessaria connotazione anche soggettiva dell’espressione ‘‘abuso dell’ufficio’’ già nel linguaggio comune, per cui l’abuso stesso non può essere percepito sul piano solo fenomenico, cfr. SEMINARA, Artt. 323-324, cit., 237. Da ricordare anche il tentativo di valorizzazione dei riflessi oggettivi del dolo specifico di PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli ‘‘elementi finalistici’’ delle fattispecie penali, 1993, 281 ss., in particolare 303 ss. Questo autore, nel contesto di un’ampia analisi dell’art. 323 c.p., sostiene che il fine specifico contribuisce a determinare la tipicità dell’abuso, motivando tale assunto, tra l’altro, sia con l’affermazione che una tale conclusione si pone in continuità con i lavori preparatori della legge n. 86/1990, sia con un recupero dell’impostazione liberale e garantista che caratterizzava la corrispondente previsione del codice Zanardelli (dove rilevava la lesione dei diritti altrui) superata dal codice Rocco. Per un richiamo di questa posizione anche dopo la riforma del 1997, DE FRANCESCO, La fattispecie dell’abuso di ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, in Cass. pen., 1999, 1641. (7) Pur potendo coincidere il fatto di abuso penalmente rilevante con un atto amministrativo illegittimo, ciò non è necessario, in quanto l’attività abusiva può essere costituita anche da un’attività materiale, che pure oggettivamente contrasti con le finalità istituzionali che l’agente dovrebbe perseguire, ma che dunque non può essere affetta dai vizi che inficiano tipicamente gli atti amministrativi: ad esempio GROSSO, L’abuso d’ufficio, in questa Rivista, 1991, 320. (8) Per tutti SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 201, 207, 216 s. Sulla distinzione tra illecito penale e illecito disciplinare si veda anche STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, 1976, 269 s. (9) SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 194, 216 s.; PICOTTI, Il dolo specifico, cit.; 293 s.; SEMINARA, Artt. 323-324, cit., 258, 296 s. Sulle riserve suscitate dall’affidamento al dolo specifico della funzione di ‘‘colorare’’ l’offensività del reato, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 1995, art. 43/33, anche per ulteriori riferimenti.
— 804 — 2.1. Il significato dell’‘‘ingiustizia’’ del danno o del vantaggio. L’ingiustizia del danno o del vantaggio rappresenta una delle questioni su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione dei commentatori. Già a far tempo dalla riforma del 1990, che tale requisito ha introdotto nella fattispecie (10), si è assistito grosso modo alla contrapposizione tra due schieramenti, sia in dottrina che in giurisprudenza: contrapposizione che è rimasta sostanzialmente inalterata anche dopo l’intervento del legislatore del 1997, benché ora l’ingiustizia sia riferita all’evento e non più al dolo specifico. Da un lato vi è chi ritiene che l’aggettivo ingiusto si limiti a ribadire il dato, già espresso nella fattispecie, che la condotta dell’agente sia illegittima, rectius abusiva (11); dall’altro lato si ha la tesi di coloro i quali propendono invece per riconoscere al requisito in questione un’autonoma funzione, respingendo così l’idea della pleonasticità. Questi ultimi, a loro volta, non danno vita ad un gruppo del tutto omogeneo, in quanto varie appaiono le sfumature con cui il ruolo autonomo dell’ingiustizia viene valutato all’interno della fattispecie (12). Detto diversamente: per i primi una condotta abusiva non può non dare luogo che a un danno o ad un vantaggio ingiusti; per i secondi, invece, l’illegittimità del mezzo non comporta automaticamente il carattere ingiusto dell’evento. Ad una prima lettura della norma sembrerebbe preferibile prendere posizione (10) Anche prima della modifica introdotta dalla legge n. 86/1990, comunque, vi era ampio accordo sull’opinione che la qualificazione come ingiusto del vantaggio o del danno era già sottintesa nell’art. 323 c.p.: SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 572. (11) IADECOLA, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, 1992, 70 s. (successivamente però lo stesso IADECOLA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione dopo le leggi di riforma, cit., 76, 130 s. ha preso posizione per l’orientamento opposto); PADOVANI, L’abuso di ufficio e il sindacato del giudice penale, in questa Rivista, 1989, 90; SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 572 ss. e Artt. 323-324, cit. 269 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, cit., 239 s. (12) Vi sono così alcuni autori (SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 220; D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, cit., 215 ss.) che parlano expressis verbis di un requisito di illiceità speciale (sul punto, PULITANÒ, Illiceità espressa e illiceità speciale, in questa Rivista, 1967, 65 ss.), facente riferimento a norme di tipo extrapenale, con conseguente funzione di tipizzazione. Nello stesso senso può intendersi anche PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 237, il quale parla di una ‘‘valutazione di ingiustizia, che sia autonoma rispetto a quella che investe il mezzo impiegato’’. Altri, invece, tendono ad assegnare all’elemento in questione, piuttosto che un vero e proprio ruolo di tipizzazione, un’autonoma funzione di richiamo di tipo ermeneutico. Così, GROSSO, L’abuso d’ufficio, cit., 322, sostiene che l’aggettivo ingiusto acquista il ‘‘significato di un importante segnale interpretativo’’, nel senso che l’ingiustizia del danno o del vantaggio non ha altro scopo che quello di richiamare l’attenzione dell’interprete a compiere una verifica rigorosa dell’illegittimità della condotta. Secondo PREZIOSI, La riforma della fattispecie incriminatrice di abuso d’ufficio, in COPPI (a cura di), Reati contro la Pubblica Amministrazione, cit., 164, l’ingiustizia del danno o del vantaggio ‘‘non aggiunge nulla alla specifica qualità giuridica del comportamento penalmente rilevante’’, ma ha la funzione di anticipare ‘‘in chiave motivazionale di dolo specifico la natura del danno o del vantaggio ancora da realizzare’’. Per RAMPIONI, L’abuso di ufficio, cit., 122, il requisito dell’ingiustizia rientra in linea di principio nell’area dell’illiceità espressa; tuttavia, in conformità allo scopo perseguito dal legislatore di escludere la rilevanza penale delle ipotesi di coincidenza tra interesse pubblico e privato, il danno o vantaggio sarà giusto se conseguente all’esercizio di un potere discrezionale finalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico, anche se nel comportamento dell’agente è rintracciabile una finalità ‘‘privata’’, in qualche maniera compresente. A favore dell’autonomia dell’ingiustizia anche STORTONI, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 140; PICOTTI, Il dolo specifico, cit., 310 ss.; PARODI GIUSINO, voce Abuso di ufficio, in Dig. disc. pen., VIII, 1994, Appendice, 592; SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, cit., 537 ss.; LEONI, Il nuovo reato di abuso d’ufficio, 1998, 104 s.; BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, 1998, 130 ss.; PITTARO, La nuova disciplina dell’abuso d’ufficio, in AA.VV., Le nuove leggi penali, 1998, 18, 29; SCARPETTA, Il danno ingiusto, in DALIA-FERRAIOLI, La modifica dell’abuso di ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, 1997, 132 s. Per le posizioni in giurisprudenza, dove sembra preferita l’idea della ‘‘doppia ingiustizia’’, si rinvia alle numerose sentenze citate da BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 130 ss. Da ultimo G.u.p. Trib. Catania, 15 luglio 1998, in Cass. pen., 1999, 722; Cass., 11 febbraio 1999, n. 1687, in Riv. pen., 1999, 348. Per un’altrettanto recente presa di posizione da parte del giudice di legittimità contraria all’autonomia dell’ingiustizia, Cass., 7 maggio 1998, in Cass. pen., 1999, 2134.
— 805 — per la necessità di un autonomo accertamento del requisito in questione, e ciò per la semplice considerazione che, altrimenti, si dovrebbe concludere che il legislatore ha fatto inutilmente ricorso ad un aggettivo ridondante (13). Tuttavia, le tesi volte a riconoscere l’autonomia funzionale dell’aggettivo ingiusto sotto il profilo della determinazione di un ulteriore elemento del fatto tipico sembrano avere un punto debole, dato dalla mancata individuazione di parametri normativi precisi (14) — ulteriori rispetto a quelli che presiedono allo svolgimento dell’attività amministrativa — in base ai quali si possa stabilire quando si sia in presenza di un danno ingiusto e quando invece di un danno giusto. Senza tale individuazione sussisterebbe il concreto rischio di lasciare ai giudici un ampio e non controllabile spazio di discrezionalità, con irrimediabile perdita di certezza per i destinatari della norma (15). Allo stato attuale, pur dando atto che l’esigenza di concretizzazione delle norme extrapenali è stata avvertita in dottrina (16), non pare che nel complesso si sia riusciti a conferire alla materia dei margini di sicurezza tali da rendere tollerabili i rischi legati alla concessione agli organi giudicanti di un così consistente ambito di sostanziale libertà (17). (13) Quest’opzione ermeneutica sembra avvalorata anche da un argomento di tipo sistematico. Infatti, nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, alcuni dei quali contemplano nella fattispecie soggettiva o in quella oggettiva l’elemento del ‘‘profitto ingiusto’’, la lettura dominante riconosce all’ingiustizia un significato autonomo con funzione selettiva dei fatti penalmente rilevanti (BACCAREDDA BOY, in DOLCINIMARINUCCI, a cura di, Codice penale commentato, 1999, art. 628/27, art. 629/29, art. 630/14; VASCIAVEO, ibidem, art. 640/44). In questo senso anche BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 134. (14) I gravi pericoli legati al ricorso a criteri di carattere etico, politico, sociale, equitativo sono ben avvertiti in dottrina (ad esempio RAMPIONI, L’abuso di ufficio, cit., 122; GROSSO, L’abuso d’ufficio, cit., 322), anche tra i sostenitori della c.d. ‘‘doppia ingiustizia’’ (DELLA MONICA, L’ingiusto vantaggio patrimoniale, in DALIA-FERRAIOLI, La modifica dell’abuso di ufficio,cit., 99). (15) Per tutti SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 575 ss. e Artt. 323-324, cit., 272 ss., il quale, dopo un’approfondita analisi, conclude che mancano non solo autonomi criteri di valutazione, ma anche di raffronto e che sussistono inoltre ragioni di ordine sistematico a conferma della soluzione proposta. Cfr. anche SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 220, il quale afferma con decisione che il legislatore ha voluto collegare l’illiceità penale dell’abuso a norme extrapenali — peraltro non indicandole, né fornendo esempi di tale integrazione — ma non nasconde che si tratta di una etero-integrazione ‘‘malsicura’’, pericolosa per le garanzie del diritto. (16) Per BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 136, deve ‘‘trattarsi di un criterio normativo caratterizzato dalla necessaria precisione’’, senza alcuna limitazione, per cui tale parametro può essere costituito anche da ‘‘un piano regolatore generale’’, da ‘‘un contratto di appalto stipulato con la pubblica amministrazione’’, oppure da ‘‘una concessione-contratto per la costruzione e la gestione di un’opera pubblica’’ ecc... (17) In ogni caso, anche laddove si ha l’impressione che la giustizia del danno o del vantaggio sia commisurabile a parametri normativi diversi da quelli attinenti alla legittimità della condotta, trattasi di criteri che non possono venire in considerazione. Si veda così, ad esempio, il caso deciso da Trib. Pescara, 4-26 maggio 1998, in Giur. merito, 1999, II, 84 ss., dove un incaricato di pubblico servizio (nella fattispecie l’addetto all’obitorio di un ospedale) è stato accusato di avere abusato del suo ufficio, poiché, giovandosi dello svolgimento delle sue mansioni, avvertiva il titolare di un’impresa di pompe funebri dei decessi, in modo da consentire all’impresa stessa di ottenere l’incarico delle esequie: la circostanza che la ditta avvertita abbia allestito i funerali e sia stata per ciò retribuita in maniera adeguata al servizio reso, cioè ‘‘giusta’’, non è sembrata sufficiente ad escludere che il vantaggio procurato al terzo rimanesse ingiusto. Infatti il riferimento alla corretta formazione del contratto (liberamente stipulato) e all’equilibrio delle prestazioni (il vantaggio patrimoniale dell’impresa funebre è il corrispettivo di una prestazione eseguita) non gioca nel caso di specie alcun ruolo, poiché il divieto di abusare dell’ufficio è volto ad impedire non lo squilibrio tra le prestazioni, ma l’intervento della P.A. nel meccanismo della libera concorrenza. Ancora, ma su di un piano diverso, si pensi all’ipotesi in cui degli amministratori comunali non rispettino le graduatorie per l’assegnazione di alloggi popolari al fine di avvantaggiare delle famiglie in stato di bisogno ed eroghino dei contributi per l’allacciamento di abitazioni private (situate a notevole distanza) alla fognatura comunale, in contrasto con le previsioni del regolamento comunale (Cass., 19 aprile 1995, n. 4183, in PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, II, 1997, 137 ss.). Qui la Corte fa propria la teoria della ‘‘doppia ingiustizia’’, ma escludendo, a ragione, il ricorso a valutazioni di antigiuridicità materiale secondo criteri immediatamente politici o sociali; essa afferma pertanto che il danno e il vantaggio vanno valutati alla stregua del diritto oggettivo ma, in conclusione, identifica il diritto oggettivo stesso con le norme vigenti che regolano l’attività dei pubblici amministratori: ‘‘Va, a tal fine, precisato che detta valutazione di ‘‘ingiustizia’’ o di ‘‘giustizia’’ va effettuata in relazione al singolo caso concreto, intesa come fat-
— 806 — Sic stantibus rebus, sembra dunque più opportuno privilegiare le istanze di certezza, anche scontando (forse) una maggiore rigidità nell’applicazione della fattispecie, e pertanto ritenere ingiusto ogni danno o vantaggio conseguente ad un comportamento posto in essere già in violazione di regole comportamentali dell’azione amministrativa. Sempre nel quadro dei significati attribuibili all’ingiustizia, vi è stato anche chi ha suggerito di utilizzare la qualificazione normativa come dato positivo per dare ingresso in via interpretativa alla non punibilità, rectius non tipicità di ipotesi particolari di abuso, in quanto commesso a vantaggio della pubblica amministrazione (18). Anche quest’opzione interpretativa non pare condivisibile. La mancanza di indici testuali univoci e la ‘‘storia’’ dell’iter di formazione del provvedimento legislativo, infatti, sono argomenti che depongono entrambi in senso nettamente contrario all’opinione ora prospettata: sembra dunque preferibile il rilievo che il fatto, se abusivo, rimane comunque tipico, e lesivo del bene giuridico protetto dalla norma, anche se a vantaggio della P.A. (19). In sintesi: data l’incertezza sui parametri di riferimento dell’ingiustizia autonomi da quelli del carattere abusivo della condotta, ogni comportamento posto in essere in violazione di norme di legge o di regolamento determina, ove si verifichi un evento naturalistico vantaggioso o dannoso, un vantaggio o un danno sempre ingiusti. L’‘‘automaticità’’ (in questo senso) della qualificazione normativa di ingiustizia non deve però far dimenticare che, comunque, occorrerà ogni volta il puntuale e scrupoloso accertamento della presenza di un danno o di un vantaggio: proprio questo, infatti, costituisce uno dei punti nevralgici dell’ultima riforma. Prima del 1997, l’identificazione dell’ingiustizia con l’illegittimità poteva avere anche un inconveniente non secondario: nella considerazione di istanze di ‘‘giustizia sostanziale’’ l’interprete disponeva di uno strumento in meno con cui circoscrivere l’applicabilità dell’art. 323 c.p. ai soli fatti ritenuti meritevoli di una sanzione penale. Infatti, si poteva sempre argomentare sostenendo che il fine perseguito dall’agente non era per l’ordinamento ingiusto, benché fosse illegittimo il mezzo utilizzato. Con la nuova versione della norma, invece, che richiede il verificarsi di un danno o di un vantaggio, sembra potersi dire, almeno a priori, che la menzionata esigenza di ridimensionare nei singoli casi l’ampiezza applicativa dell’art. 323 c.p. tispecie attuale inserita in un contesto e non come categoria astratta. In altri termini, e con riferimento al caso in esame, non vi è dubbio che esista un diritto all’abitazione..., nonché un interesse generale alla salubrità dell’ambiente...., ma ciò non è sufficiente per escludere l’ingiustizia del vantaggio. Infatti non è sufficiente che il soggetto destinatario della condotta abusiva sia titolare di una posizione giuridica astrattamente tutelabile (diritto all’abitazione, al lavoro, alla salubrità dell’ambiente, ecc.), ma occorre che essa sia tutelabile nel contesto concreto, cioè avuto riguardo alle condizioni normativamente previste, anche per le ipotesi di concorso per la posizione di altri titolari di diritti analoghi’’. Si consideri, infine, con SEMINARA, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, in Studium iuris, 1997, 1259, che ‘‘mai la giurisprudenza ha avuto occasione di pronunciarsi in favore della giustizia di un vantaggio o di un danno conseguente ad un abuso’’. (18) In particolare SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 229 s., 238 s., secondo cui la qualificazione del vantaggio come ingiusto e la causa di non punibilità sarebbero strumenti alternativi in vista di un medesimo scopo, e l’indicata qualificazione servirebbe dunque ad escludere dalla fattispecie anche i vantaggi a favore della P.A. quando da questi non possa derivare un pregiudizio per i diritti altrui. Sullo stesso ordine di idee anche D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, cit., 219 e L’abuso d’ufficio, in D’AVIRRO (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, 1999, 324. (19) Proprio la storia dei lavori preparatori, come opportunamente rilevato da SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, cit., 535, sta a dimostrare che alla fine il legislatore, nonostante la pluralità delle occasioni avute, ha (intenzionalmente e consapevolmente) optato per il non inserimento della causa di non punibilità: pertanto l’operazione interpretativa volta a reintrodurla per il tramite dell’aggettivo ingiusto appare arbitraria. Nello stesso senso del testo si veda SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 582 ss., e Artt. 323-324, cit., 282 ss. con ampie considerazioni; PARODI GIUSINO, voce Abuso di ufficio, cit., 594 s.; GROSSO, L’abuso d’ufficio, cit., 323; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 239.
— 807 — sia meno pressante, avendo il legislatore arricchito la fattispecie sotto il profilo oggettivo (20). 2.2.
La nozione di danno.
Se molto è stato l’interesse di dottrina e giurisprudenza intorno alla qualificazione di ingiustizia, non si può proprio dire che i concetti di danno e di vantaggio siano stati ritenuti meritevoli di analoga attenzione. Ciò si spiega forse con la nota circostanza che nel vecchio 323 c.p. tali elementi costituivano l’oggetto del dolo specifico, ed essendo pertanto la loro presenza irrilevante ai fini della integrazione della fattispecie, meno urgente era per l’interprete l’esigenza di fissarne con precisione la nozione, la quale, rilevando solo in termini di ‘‘proiezione psicologica’’, tollerava margini maggiori di incertezza. Con lo spostamento del danno e del vantaggio dall’elemento soggettivo al fatto tipico, invece, le cose sono cambiate. Infatti un conto è affermare la sussistenza di una pur specifica finalità soggettiva di danneggiare o avvantaggiare qualcuno, un conto è invece dover fare i conti con la necessaria effettiva presenza di un danno o di un vantaggio. Pertanto, anche se tanto il danno quanto il vantaggio sono concetti sovente di rapida, comune comprensione, appare imprescindibile per l’interprete tentare di elaborare parametri, possibilmente di ordine generale, in grado di guidare anche alla soluzione di casi in cui si riscontrino profili di dannosità di non immediata percezione (21). Secondo un autorevole orientamento, il danno andrebbe inteso come un peggioramento della posizione del soggetto nei confronti del quale esplica i suoi effetti l’attività del pubblico ufficiale, peggioramento consistente nella differenza tra la posizione venutasi a creare nel soggetto stesso a seguito della condotta abusiva e quella che si sarebbe avuta in capo a lui, se fosse stata posta in essere un’attività (20) Il pensiero va soprattutto a certi esempi prospettati da quella dottrina che privilegia una lettura più elastica dell’aggettivo ‘‘ingiusto’’. Con l’attuale formulazione dell’art. 323 c.p., si è comunque già in grado di evitare soluzioni eccessivamente rigorose. Così, ad esempio, nel ‘‘caso del sindaco che rilasci una concessione edilizia senza il parere della commissione edilizia in favore di un soggetto che effettivamente ne aveva diritto nei termini di cui alla concessione, ovvero che ordini lo sgombero di un fabbricato pericolante senza i preventivi accertamenti tecnici, ma in una fattispecie in cui effettivamente l’ordine andava dato’’ (SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, cit., 538), non c’è abuso perché non si è verificato alcun danno o vantaggio. Analogamente può dirsi nelle ipotesi di c.d. eccesso di zelo: si pensi all’amministratore di un ente pubblico che, nell’esercizio di un centro di addestramento professionale finanziato con fondi pubblici di un altro ente pubblico, in attesa dell’imminente perfezionamento della relativa convenzione (presupposto per la formale autorizzazione all’avviamento della attività), raccolga le rette di frequenza degli alunni e paghi con esse le forniture di gasolio e gli altri costi immediati, necessari al funzionamento della scuola, in violazione delle regole contabili e amministrative: PICOTTI, Il dolo specifico, cit., 316. Per concludere, in termini di principio andrebbe qui ribadito che l’affermazione di autonomia dell’ingiustizia dall’abuso affievolirebbe fortemente le salvaguardie di uno stato di diritto, in quanto il compito di concretizzare di volta in volta il pubblico interesse verrebbe rimesso all’arbitrio dei funzionari, e pertanto nei casi (rari) in cui sembri emergere un’antinomia tra diritto ed equità, questa dovrà essere risolta col ricorso allo schema delle cause di giustificazione o delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 n. 1 c.p. o art. 323-bis c.p. (SEMINARA, Artt. 323-324, cit., 275, 281). (21) Come si può facilmente intuire, i problemi interpretativi maggiori si pongono con riguardo ai danni e ai vantaggi non patrimoniali, essendo sicuramente meglio identificabili quelli suscettibili di valutazione economica. Ai fini della nuova fattispecie sull’abuso di ufficio, peraltro, non sono più rilevanti le condotte che realizzano un vantaggio di tipo non patrimoniale: mostrano perplessità su questa scelta del legislatore SEMINARA, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 1258; DE FRANCESCO, La fattispecie dell’abuso di ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, cit., 1636 s.; PADOVANI, Commento all’art. 1 l. 16/7/1997 n. 234 — Modifica dell’articolo 323 del codice penale, in La legislazione penale, 1997, 748. Chiamata a pronunciarsi intorno a tale novità normativa, la Corte costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile, non potendo la Corte stessa estendere la portata di una norma incriminatrice, che si assume troppo restrittiva nell’individuazione delle condotte punite: Corte cost., 28 dicembre 1998, n. 447, in Cass. pen., 1999, 1373.
— 808 — non abusiva (22), o — si potrebbe anche aggiungere — non vi fosse stata alcuna condotta da parte del pubblico ufficiale (23). In quest’ottica, poi, il concetto di vantaggio si delineerebbe in termini del tutto analoghi, ma invertiti. Questo criterio — già ex ante non molto preciso, legato com’è ad una situazione genericamente ‘‘migliore’’ o ‘‘peggiore’’, non sempre di univoca determinazione — sembra avere il pregio di una notevole duttilità, poiché con riguardo ad ogni ipotesi di abuso l’interprete potrà chiedersi che diverso tipo di situazione si sarebbe avuta, se la condotta dell’agente fosse stata diversa da quella effettivamente tenuta. E rispondendo a tale quesito si dovrebbe poter verificare se si è realizzato l’evento del reato: così, ad esempio, nel valutare se la commissione giudicatrice di un concorso pubblico abbia compiuto degli abusi, abbassando le valutazioni dei candidati non ‘‘raccomandati’’ e alzando invece quelle di altri concorrenti, in modo da assicurare a questi ultimi l’assegnazione di un posto, si potrà ben dedurre che ove tali ‘‘aggiustamenti’’ non vi fossero stati, i concorrenti vittoriosi non avrebbero goduto dei benefici legati all’esito manovrato della selezione (24). Per tornare ai problemi specifici ricordati all’inizio, il criterio ora detto può costituire un utile punto di partenza. 2.2.1. Danno e violazione dell’art. 352 c.p.p. Il compimento di una perquisizione rappresenta sempre — indipendentemente dalla sua legittimità o meno — di per sé, un fatto dannoso, poiché essa implica necessariamente un’intrusione, fenomenologicamente rilevabile, nella sfera soggettiva (personale o domiciliare). In questo senso quindi l’ingerenza in cui consiste la perquisizione può identificarsi senz’altro con un’alterazione in peius della posizione della persona soggetta all’atto di indagine, alterazione che, in assenza della perquisizione, non si sarebbe avuta (25). Qualificando questa situazione di fatto in termini normativi, ad ogni perquisizione è connaturale la violazione della libertà personale o del domicilio riconosciuti dalla Costituzione agli artt. 13 e 14 (26). Proprio in considerazione della fondamentale importanza di questi diritti, (22) PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 237; analogamente SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, cit., 535. (23) Questa eventualità sembrerebbe ricorrere soprattutto nei casi in cui l’abuso sia legato a condotte dalle quali il pubblico ufficiale avrebbe dovuto completamente astenersi. Si pensi ad esempio alle pressioni e all’ ‘‘attivarsi’’ da parte di un pubblico amministratore, affinché l’organo competente addivenga all’approvazione di un provvedimento per sé o per altri vantaggioso, o affinché determinati soggetti vengano posti nella condizione di beneficiare di un provvedimento amministrativo: per quest’ultima ipotesi, ad esempio, C. App. Firenze, 10 dicembre 1997, in Cass. pen., 1999, 2374. (24) Cass., 16 aprile 1991, in Cass. pen., 1992, 3020; Cass., 18 maggio 1995, in Riv. pen., 1996, 223. (25) Già con riguardo a quest’ipotesi occorre precisare che sembrerebbe non sufficiente l’applicazione del criterio, proposto dalla dottrina ricordata alla nota 22, da cui l’indagine ha preso le mosse per identificare il danno o il vantaggio eventi dell’abuso d’ufficio. Infatti la perquisizione illegittima non determina una situazione che sia più favorevole o, nel nostro caso, più svantaggiosa della perquisizione legittima. Entrambe sono, dal punto di vista materiale, vale a dire delle conseguenze nel mondo esterno, parimenti dannose: la differenza tra loro sta nell’osservanza o meno dei requisiti previsti dalla legge. E tale differenza rileva appunto, come subito si vedrà, ai fini dell’accertamento dell’ingiustizia. Il danno emerge allora dalla constatazione che l’integrità della sfera di libertà del singolo è stata compromessa a seguito della perquisizione: il ‘‘peggioramento’’ di cui è questione, quindi, va posto in relazione, come si è cercato di anticipare accennando ad un’integrazione del criterio della posizione meno favorevole del soggetto, con la situazione che avrebbe fatto capo all’individuo se la condotta del pubblico ufficiale non fosse stata affatto posta in essere. (26) Il carattere ‘‘dannoso’’ di una condotta lesiva dei menzionati diritti non può essere fondatamente posto in dubbio per la ragione decisiva che l’ordinamento (Delitti contro la libertà personale, artt. 605 ss. c.p. e Delitti contro la inviolabilità del domicilio, artt. 614 ss. c.p.) riconosce alla violazione di queste situazioni soggettive addirittura la natura di ‘‘danno criminale’’: su tale concetto si veda per tutti ROMANO, in ROMANO-GRASSO-PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, III, 1994, art. 185/12.
— 809 — la Costituzione esige che la loro limitazione sia sottoposta a severe condizioni, le quali intendono assicurare un adeguato contemperamento tra la salvaguardia di dette libertà e la tutela di altri interessi pure riconosciuti dall’ordinamento meritevoli di protezione, anzi prevalenti. È invece evidente che se la restrizione delle menzionate posizioni soggettive fondamentali si verifica fuori dei casi e dei modi previsti, senza dunque quell’adeguato contemperamento consacrato nelle disposizioni di legge, la lesione del diritto implica un danno, il quale non viene dall’ordinamento accettato come una conseguenza inevitabile, poiché non risulta controbilanciato dal perseguimento di altri interessi da privilegiare (27). Una lesione in senso stretto dei diritti ora menzionati, dunque, sussiste sempre, ogni volta che si verifichi una ‘‘manomissione’’ della sfera di libertà personale o domiciliare degli individui. Solo che in alcuni casi il soggetto coinvolto è costretto a subire la manomissione medesima senza potere ricorrere ad alcuna forma di protezione, essendo la legge stessa, con il concorso di particolari circostanze, ad autorizzare o imporre la violazione delle posizioni soggettive a lui facenti capo; in altri casi, invece, la lesione non viene tollerata dall’ordinamento ed è anzi alla base di sanzioni nei confronti di chi di essa sia ritenuto responsabile (in più settori: penale appunto, civile, disciplinare ecc...). Esprimendo questa situazione con i termini propri dell’art. 323 c.p., nel primo caso si avrà un danno giusto (o giustificato); nel secondo caso, invece, un danno ingiusto (28). 2.2.2. Danno e violazione dell’art. 357 c.p.p. Qualora un pubblico ufficiale non verbalizzi una perquisizione, per accertare l’eventuale presenza di un danno in base al nostro parametro di partenza occorrerebbe chiedersi se a seguito di tale omissione la persona, nei cui confronti è stato compiuto l’atto di indagine, si trovi in una posizione più sfavorevole rispetto a quella in cui si sarebbe trovata se il verbale fosse stato redatto. Un quesito del genere non appare di agevole soluzione, in quanto, escludendo l’ipotesi in cui il soggetto indagato sia subito e definitivamente uscito dalla vicenda investigativa (nel qual caso la documentazione dell’atto non avrebbe comunque determinato una diversa situazione, avendo la documentazione stessa efficacia solo endoprocedimentale o endoprocessuale), l’interprete dovrebbe valutare in che modo il verbale avrebbe potuto incidere in melius sul soggetto, vale a dire contribuire al più esatto chiarimento della sua posizione processuale, e dunque ad un più ‘‘giusto’’ trattamento in sede di giudizio (29). Il che, come si può (27) V. Cass., 27 marzo 1996, in Cass. pen., 1996, 3268 ss., che allude testualmente ad un’incompatibilità tra la perquisizione illegittima e la tutela del diritto di libertà del cittadino. A conferma, ove ce ne fosse bisogno, del carattere dannoso di operazioni di perquisizione poste in essere al di là dei presupposti previsti nella legge, basterebbe richiamare il fatto che il legislatore ha previsto al riguardo due norme incriminatrici specifiche (artt. 609 e 615 c.p.). Sulle conseguenze disciplinari ed eventualmente penali legate ad atti di perquisizione non convalidati, CORDERO, Procedura penale, 1998, 760. (28) L’ingiustizia assumerebbe dunque in queste ipotesi, nelle quali l’esercizio di un potere, subordinato a precise condizioni, implica il pregiudizio di determinate situazioni soggettive, le caratteristiche di un requisito di illiceità espressa, volto a richiamare l’interprete alla verifica della mancanza di cause di giustificazione, rectius (nel caso di specie) della causa di giustificazione dell’esercizio di quel diritto descritto nelle norme del c.p.p. che sono state violate. Qui si ha anche una conferma che l’ingiustizia non esprime un quid pluris rispetto al carattere abusivo della condotta. (29) Nella presente situazione, il danno ipotizzabile consisterebbe in un più severo o più lungo assoggettamento alla vicenda processuale, che non corrisponda al reale coinvolgimento dell’indagato nel fatto sul quale si stanno svolgendo le indagini. Il tutto, chiaramente, sul presupposto implicito che la perquisizione non verbalizzata abbia dato esito negativo e dunque si sia rivelata un atto di indagine a favore del perquisito. Nell’ipotesi opposta, invece, e cioè immaginando che la perquisizione abbia avuto un esito positivo, non sarebbe ipotizzabile la penale rilevanza della mancata verbalizzazione: in tal caso, infatti, l’abuso potrebbe determinare un vantaggio ingiusto, ma non patrimoniale, dell’indagato, facendo cioè apparire la sua posizione processuale migliore rispetto a quella che effettivamente sarebbe.
— 810 — facilmente intuire, è tutt’altro che semplice, per non dire che trattasi di quesito cui non pare proprio possibile rispondere. A queste conclusioni sembra doversi pervenire anche tenendo presente la ratio delle norme in tema di documentazione degli atti processuali (30). Poiché la finalità del verbale è quella di rappresentare il compimento delle attività svolte, è di primaria importanza che esso venga redatto con criteri di ‘‘imparzialità’’. Infatti, gli atti di indagine riprodotti nel verbale possono servire — oltre che all’organo giudicante — non solo ad una parte (nella specie all’organo dell’accusa, da cui pure provengono gli impulsi alla prosecuzione dell’attività investigativa), ma a tutte le parti, le quali si richiamano all’attività documentata quando questa si riveli utile per le loro esigenze di volta in volta emergenti nel corso del procedimento. Di qui, allora, l’importanza della fedele e completa riproduzione dell’attività svolta, anche ove questa non serva nella prospettiva seguita da chi sta svolgendo le indagini (31). In ogni caso, anche prescindendo dalle conseguenze sul piano penale della violazione delle norme ora dette, questa dovrebbe rilevare nell’ambito delle invalidità processuali e delle sanzioni disciplinari (32). 2.2.3. Danno e violazione dell’art. 350 c.p.p. È ora la volta di chiedersi se sia dannoso il fatto di assumere delle sommarie informazioni dalla persona sottoposta alle indagini senza la presenza del difensore, obbligatoriamente prevista dalla legge. Anche in questa circostanza le variabili da considerare, sulla base delle quali formulare il giudizio sul danno (come posizione meno favorevole del soggetto), appaiono, già ex ante, numerose e di incerta valutazione. Pur non essendo questa la sede per una dettagliata esposizione delle circostanze di fatto che potrebbero rilevare al fine di risolvere la questione del danno con il criterio indicato, alcune osservazioni sembrano opportune onde raggiungere una maggiore chiarezza sulle potenzialità applicative del criterio stesso. Il dato di partenza è costituito dalla ratio della presenza obbligatoria del difensore: essa va ricondotta all’inviolabile diritto di difesa spettante ad ogni indivi(30) Per MOSCARINI, voce Processo verbale (diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, XXIV, 1991, 1, ‘‘ il verbale risponde ad una basilare esigenza di garanzia, quella cioè del controllo sugli atti del procedimento ad opera delle parti’’. Secondo NAPPI, voce Documentazione degli atti processuali, in Dig. disc. pen., IV, 1990, 165 e DI FEDERICO-NICOLI, voce Verbalizzazione (diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, XXXII, 1994, 1, la funzione ordinaria della documentazione processuale è rappresentativa e conservativa degli atti compiuti. (31) Sull’importanza di un fedele rispetto delle disposizioni dettate dal legislatore in tema di documentazione degli atti nel caso in cui si procede ad una documentazione in forma diversa da quella prescritta, LO VECCHIO, Spunti brevi in tema di diortosi processuale degli atti irritualmente acquisiti dalla polizia giudiziaria, in Cass. pen.,1995, 628 s.: ‘‘pertanto, solo il processo verbale, per la sua peculiare ‘‘imparzialità’’ può sopperire a tale imperfezione ontologica (data dalla mancanza delle garanzie tipiche della fase del giudizio), sia garantendo successivamente, al giudice e alle parti, un adeguato controllo, tra l’altro, sull’espletamento delle formalità e/o sulla sussistenza di specifici presupposti che di volta in volta devono accompagnare il compimento dell’atto; sia offrendo ai contradictores processuali una pari opportunità di utilizzabilità delle dichiarazioni illo tempore raccolte dalla p.g.’’ Analogamente ICHINO, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, in UBERTIS (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, 1992, 153. Si comprende quindi, a fortiori, come ancora più rilevante possa essere la violazione delle norme sulla documentazione quando ha luogo la totale omissione di quest’ultima. (32) Il mancato rispetto dell’art. 357 c.p.p. non è assoggettato ad alcun tipo di sanzione processuale espressa. La dottrina tuttavia propende — anche se non si nascondono perplessità per il fatto che è difficile inquadrare l’obbligo di verbalizzazione delle attività di polizia giudiziaria in un divieto probatorio di cui all’art. 191 c.p.p. — per il riconoscimento nell’ipotesi in esame di un caso di inutilizzabilità: GALANTINI, voce Vizi degli atti processuali penali, in Dig. disc. pen., XV, 1999, 364 s. L’osservanza delle norme dettate dal codice di rito è comunque sempre obbligatoria e può dare origine a conseguenze di tipo disciplinare (art. 124 c.p.p. e, con specifico riguardo agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, art. 16 disp. att. coord. trans. c.p.p.).
— 811 — duo. L’ordinamento parte dal presupposto che la migliore difesa sia quella cui contribuisce anche un soggetto, il quale dispone al riguardo di una specifica preparazione tecnica (33). Ciò non toglie però che, in concreto, la presenza del difensore non sia sempre determinante per ottenere effettivamente la migliore difesa, nel senso che questa migliore difesa potrebbe ben essere realizzata dal soggetto interessato in prima persona. Così come pure, d’altro lato, non è detto che la supposizione del legislatore — secondo cui l’interesse della persona indagata sarebbe al meglio tutelato dalla presenza di un difensore — sia sempre corretta: si pensi, a parte il caso di un difensore poco capace od esperto, ai difensori nominati d’ufficio, che potrebbero, ad esempio, non disporre del tempo necessario per una strategia difensiva adeguata. Quanto poi al tipo di danno ipotizzabile da collegare alla violazione del diritto di difesa dell’indagato, si dovrebbe argomentare nel modo seguente: sul presupposto che la persona sottoposta alle indagini sia estranea all’accadimento delittuoso, si avrebbe danno, ove fosse possibile affermare che il mancato rispetto della norma sulla presenza del difensore abbia determinato un più lungo o più severo assoggettamento della persona stessa alla vicenda penale; nel caso opposto, invece, la violazione del diritto di difesa — verrebbe da dire — non sarebbe dannosa, non potendosi considerare dannoso un risultato conforme a giustizia. Ma la critica di quanto ora detto risulta agevole. Da un lato parrebbe incongruo trattare diversamente in sede penale la violazione dell’art. 350 c.p.p. — pur rimanendo impregiudicate le conseguenze in ambito disciplinare e processuale — a seconda della condizione soggettiva della persona contro il cui interesse si pone la violazione della norma. Dall’altro lato, e proprio perché la legge riconosce il diritto di difesa indistintamente a tutti coloro che sono comunque sottoposti ad un procedimento penale, pare che con i ragionamenti ora detti si finisca per cadere in una vistosa inversione logica. Lascia infatti molto perplessi il far dipendere l’esistenza del danno da un dato (la colpevolezza o meno della persona indagata), che è il risultato di una vicenda processuale, la quale a sua volta esige e consta anche del rispetto di quella norma, nella cui violazione si ipotizza il danno in discussione. In altre parole: pare improprio prendere come punto di riferimento un esito processuale cui si è giunti senza l’integrale osservanza delle norme che ne regolano la formazione. Concludendo sul punto, questa digressione sembra aver reso chiaro che il ricorso al criterio della posizione più o meno favorevole del soggetto implica, (anche) con riguardo alla violazione del diritto di difesa, il compimento di valutazioni per l’interprete molto precarie e ‘‘artificiali’’, sul cui esito residuano oltre tutto margini eccessivi di incertezza. Per di più esse appaiono viziate da un’anomalia logica di fondo, che mina la loro stessa attendibilità. Di fronte a queste gravi difficoltà applicative si è pertanto sollecitati a riflettere sul parametro di riferimento iniziale, chiedendosi piuttosto se la nozione del danno non vada riferita alla lesione di un altro fondamentale diritto dell’individuo, indipendentemente dal fatto che tale lesione si manifesti come una modificazione rilevabile nel mondo fenomenico. In effetti, pare difficile negare che subisca ipso facto un danno colui che veda non integralmente rispettato un suo diritto inviolabile come il diritto di difesa. 2.2.4.
Il danno come lesione di una posizione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento. Questa breve indagine ha fatto emergere che il criterio di identificazione del danno con la posizione meno favorevole del soggetto non è in grado di funzionare (33)
MARTINES, Diritto costituzionale, 1990, 633.
— 812 — sempre. Ciò spinge l’interprete a ricorrere a parametri diversi, essendo egli comunque tenuto ad accertare e motivare la presenza del danno medesimo. L’alternativa che l’analisi delle questioni darebbe modo di ipotizzare è quella — occasionata dal fatto che, tanto nel caso della perquisizione, quanto in quello dell’interrogatorio senza difensore, si trattava di diritti soggettivi espressamente riconosciuti a livello costituzionale — di concepire il danno di cui all’art. 323 c.p. come lesione di una posizione giuridica soggettiva che trovi riconoscimento e tutela nell’ordinamento (34) (35). Tale tesi sembra richiamare la nozione di danno nel senso civilistico del ter(34) Attraverso l’indicata lettura del danno all’interno dell’art. 323 c.p., questa norma viene posta in stretta contiguità con l’art. 175 del codice Zanardelli, il quale assoggettava a sanzione penale solamente l’uso abusivo del potere pubblico, che pregiudicasse nello stesso tempo la sfera degli interessi degli amministrati: ‘‘il pubblico ufficiale che, abusando del suo ufficio, ordina o commette contro gli altrui diritti qualsiasi atto arbitrario non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge...’’. STORTONI, L’abuso di potere, cit., 277 s., ricorda, tuttavia, che l’interpretazione dominante indeboliva fortemente l’ancoraggio della fattispecie alla lesione dei diritti individuali. Con riguardo al previgente art. 323 c.p., SCORDAMAGLIA, L’abuso di ufficio, cit., 204, 222 ss., ha sostenuto la possibilità di ‘‘recuperare’’ lo spirito liberale del codice Zanardelli facendo leva sull’aggettivo ‘‘ingiusto’’. Quest’ultimo, infatti, starebbe a significare che l’intenzione dell’agente deve perseguire un risultato consistente nella violazione di posizioni giuridiche tutelate dal diritto: ciò è, secondo questo autore, anche in piena armonia con l’art. 28 della Costituzione, il quale prevede una diretta responsabilità, anche penale, a carico dei funzionari che si siano resi autori di ‘‘atti compiuti in violazione di diritti’’. Analogamente PICOTTI, Il dolo specifico, cit., 312. Cfr. anche STORTONI, L’abuso di potere, cit., 171 s., 264 s., il quale propone di interpretare l’art. 323 nella sua versione originaria richiedendo sia il compimento di un atto obiettivamente viziato, sia l’idoneità dell’azione ad incidere ‘‘esternamente’’, cioè nelle sfere soggettive altrui. In giurisprudenza si veda Cass., 2 ottobre 1998, in Cass. pen.,1999, 1436 ss. In tale sentenza si sostiene che il danno ‘‘non corrisponde solo a situazioni soggettive di carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi perfetti, ma riguarda anche l’aggressione ingiusta della sfera della personalità, ai sensi della tutela prevista dalle norme costituzionali’’; si aggiunge poi che ‘‘ansie, preoccupazioni, perdita di prestigio e di decoro sono eventi legati con stretto nesso di causalità all’apertura di indagini a proprio carico, nonostante il loro carattere interno, conoscitivo e informativo’’. Circa quest’ultima osservazione, si dovrebbe far presente che la derivazione ad un soggetto di eventi del tipo ora menzionato, civilmente rilevanti (come danno non patrimoniale), dall’apertura di indagini a suo carico non è automatica, ma solo ‘‘tendenziale’’, e che in ogni caso tali conseguenze negative devono essere oggetto di autonomo accertamento, solo sulla base del quale esse assumono rilevanza. (35) In questa sede non è il caso di nemmeno accennare al complesso tema delle situazioni giuridiche soggettive. Si può tuttavia forse richiamare la fondamentale distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi (su cui si veda MARTINES, Diritto costituzionale, cit., 136 ss.), in presenza dei quali l’ordinamento riconosce in capo ad un soggetto la titolarità di un interesse e il connesso potere di far valere e tutelare l’interesse stesso nei confronti di altri soggetti e dei poteri pubblici. Alcuni esempi tratti dalla giurisprudenza possono aiutare per una migliore comprensione. Se un sindaco, disponendo sistematicamente la riunione del consiglio comunale in unica convocazione, senza fissare per la seconda convocazione un diverso giorno, e rendendo in tal modo sempre applicabile il più elevato quorum di presenze richiesto per la validità della prima convocazione, impedisce mediante l’allontanamento dei consiglieri di maggioranza il raggiungimento di detto quorum e dunque la discussione di argomenti posti dalla minoranza all’ordine del giorno, pone in essere una condotta lesiva del diritto in regime di democrazia al confronto tra le forze politiche (Cass., 19 febbraio 1999, n. 2173, in Riv. pen., 1999, 342). Analogamente viene violato il diritto delle forze politiche di minoranza di manifestare il dissenso sull’operato dell’amministrazione comunale se un sindaco nega illegittimamente l’autorizzazione all’affissione di manifesti contenenti critiche verso il gruppo politico al governo (Cass., 20 luglio 1998, n. 8466, in Riv. pen., 1999, 495). Ancora, tanto nel caso di un primario ospedaliero che esclude per dissapori personali due aiuti dalla sala operatoria e dalla normale attività del reparto destinandoli ad altro servizio (Cass., 16 marzo 1995, in Riv. pen., 1996, 93), quanto in quello di un dirigente del settore legale di una regione che sistematicamente attesta la necessità di fare ricorso alla collaborazione di professionisti esterni per l’eccessivo carico di lavoro, pur disponendo invece l’ufficio legale di dipendenti dotati della necessaria qualifica professionale (Cass., 16 marzo 1995, n. 2769, in Riv. pen., 1996, 97), può ravvisarsi la lesione del diritto dei lavoratori a svolgere le mansioni corrispondenti alle qualifiche possedute. Sembra di potere individuare un danno rilevante anche nella condotta di un preside di una scuola, che provveda all’assegnazione dei docenti alle classi ed alle attività incentivate in maniera arbitraria, in quanto sussiste sicuramente un interesse qualificato a che le decisioni concernenti gli insegnanti di un istituto scolastico vengano prese nel rispetto delle competenze degli organi collegiali e nel rispetto di determinati criteri di indirizzo (Cass., 27 maggio 1993, in Cass. pen., 1994, 2975; Cass., 29 aprile 1999, n. 5488, in Riv. pen., 1999, 549).
— 813 — mine (36). Sarebbe tuttavia troppo restrittivo richiedere che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 323, la condotta abusiva abbia comportato delle conseguenze pregiudizievoli, patrimoniali e non, o comunque la lesione di una situazione giuridica soggettiva protetta dal divieto del neminem ledere, in presenza delle quali l’ordinamento riconosca il diritto ad ottenere dall’autore del fatto illecito una prestazione risarcitoria (37). Infatti, condizionando la tipicità dell’abuso d’ufficio al prodursi di un danno risarcibile ex art. 2043 c.c., si corre il rischio che, fatta eccezione per il danno patrimoniale, in numerose ipotesi, dove la condotta abusiva abbia delle conseguenze non economicamente valutabili, si neghi l’integrazione della fattispecie per la presenza di un danno non risarcibile. Si pensi, per non andare troppo lontano, al danno legato ad una perquisizione illegittima, che non sia all’origine né di pregiudizi alle cose, né di particolari ansie, paure, sofferenze, oppure ancora, appunto, al danno conseguente alla violazione del diritto di difesa. Non è difficile convenire sul fatto che, seguendo quest’impostazione, la norma penale risulterebbe inammissibilmente ristretta entro limiti civilistici e, considerando soprattutto le angustie dell’art. 2059 c.c., vedrebbe fortemente (ed eccessivamente) ridimensionata la sua operatività nei confronti delle condotte abusive dei pubblici funzionari (38). Quanto detto, in altri termini, sta a significare che ai fini del 323 c.p. possono venire in questione anche, e forse soprattutto, posizioni giuridiche prese in considerazione dall’ordinamento sotto profili diversi dalla tutela risarcitoria. L’importante è, però, che il fatto abusivo non abbia inciso negativamente su di un mero interesse di fatto, per il quale non sia previsto alcun tipo di protezione (39). (36) Sulla questione generale della definizione del danno in diritto privato, SALVI, voce Danno, in Dig. disc. privatistiche. Sez. civile, 1989, 63 ss, e in particolare 67, sull’evoluzione, a partire dalla figura del danno biologico, di un’idea di danno al quale è estraneo il profilo del tipo di conseguenze del fatto lesivo, e che invece consiste nella lesione in sé del bene protetto. Più di recente per la definizione del danno come ‘‘la semplice lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile, e tutelato dall’ordinamento’’ ALPABESSONE-ZENO-ZENCOVICH, in RESCIGNO (diretto da), Trattato di diritto privato, XIV, 1995, 413 e GAZZONI, Manuale di diritto privato, 1996, 673. In giurisprudenza si veda da ultimo, sulla problematica del danno ingiusto, Cass., 26 marzo-22 luglio 1999, n. 500/99, in Guida al diritto. Il sole 24 Ore, n. 31 del 7 agosto 1999, 36 ss., la quale ha fissato il principio della risarcibilità ai sensi del 2043 c.c. dei danni conseguenti anche alla lesione di interessi legittimi. (37) Ciò equivarrebbe a fare del danno civile un elemento costitutivo del reato: sui rapporti tra reato e danno civile, si veda ROMANO, in ROMANO-GRASSO-PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, cit., art. 185/13. (38) A proposito del rapporto tra danno civile e danno ex art. 323 c.p. si veda D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, in D’AVIRRO (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 322 s., il quale richiama l’insegnamento della dottrina civilistica per sostenere che la nozione di danno nei reati contro la pubblica amministrazione è diversa da quella propria dei reati contro il patrimonio, nei quali il danno è legato esclusivamente alla dimensione economica. Per LEONI, Il nuovo reato di abuso d’ufficio, cit., 109 s., il danno è da intendersi secondo i principi del neminem ledere del diritto civile, e, rientrando ora il danno nell’elemento materiale del reato, deve essere accertato dal giudice, anche se la liquidazione dello stesso non è possibile in termini esatti: così dicendo, però, sembra che si dia per scontato che ogni danno sia liquidabile, dunque risarcibile, e dunque non si ammette che si verifichi un danno ex art 323 c.p., il quale non sia nello stesso tempo anche un danno rilevante secondo i principi della responsabilità civile. BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 139 ss., rinvia alle elaborazioni civilistiche per quanto concerne i danni patrimoniali, mentre identifica il danno non patrimoniale con tutti i casi ‘‘in cui l’abuso d’ufficio assume la veste della prevaricazione, vuoi per motivi di vendetta, vuoi di ritorsione, di inimicizia personale, di discriminazione, di ostilità religiosa o politica ecc...’’, finendo così, come è evidente, per adottare un concetto di danno non patrimoniale estremamente ampio e, soprattutto, fortemente connotato sotto il profilo soggettivo. (39) Sulla nozione di interesse di fatto, GALLI, Corso di diritto amministrativo, 1996, 99 s. In questa maniera sembra di potere risolvere anche i dubbi sollevati da DE FRANCESCO, La fattispecie dell’abuso di ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, cit., 1639, circa ‘‘un’estensione dell’illecito oltre i confini segnati da una rigorosa e tassativa demarcazione dei fenomeni di abuso meritevoli di una sanzione penale’’. Infatti, tanto nel caso del privato costretto a subire dei fastidi e una perdita di tempo per dovere tornare una seconda volta presso un ufficio, quanto in quello dell’impiegato delle poste, il quale al fine di rendere più gravoso il lavoro di un suo collega, allontani gli utenti dal proprio sportello
— 814 — Pur sembrando l’idea di intendere il danno come lesione di una posizione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento la soluzione meglio in grado di soddisfare le esigenze repressive di cui la norma è espressione, non ci si può qui esimere dal manifestare il dubbio che anche questa teoria non si presenti scevra di inconvenienti. Anzitutto, a questo modo di concepire il danno si accompagna il rischio di una ‘‘erosione’’ del carattere di evento naturalistico del reato, carattere che il danno si vede esplicitamente riconosciuto dalla legge. Infatti, la lesione della situazione giuridica soggettiva non sempre si distingue, in termini spazio-temporali e di derivazione causale, dal mancato rispetto della disposizione normativa (cioè la condotta), con il quale, anzi, specie quando sono in questione degli interessi legittimi, pare tendenzialmente identificarsi: com’è noto, l’interesse legittimo è per definizione leso dall’emanazione di un atto viziato. La seconda perplessità riguarda la circostanza che il criterio è stato elaborato con esclusivo riguardo al danno: su questo punto potrebbe però replicarsi che, rilevando soltanto il vantaggio patrimoniale, la sua individuazione si presenta decisamente più semplice (40). 3. Il dolo. Una delle innovazioni della riforma del 1997 è quella secondo cui l’ingiusto vantaggio patrimoniale o l’ingiusto danno devono essere arrecati ‘‘intenzionalmente’’. Questo avverbio richiama la categoria talvolta riconosciuta del dolo intenzionale (41), il quale è stato giustamente considerato, sul piano del dolo generico, come il corrispondente del dolo specifico (42). Il ricorso del legislatore a questa caratterizzazione del dolo non ha mancato di sollevare dissensi (43). A tale propocon il pretesto della necessità di rivolgersi al proprio compagno di lavoro, non sembrano ravvisabili delle posizioni giuridiche tutelate. (40) Pensando ad un’eventuale rilevanza de iure condendo del vantaggio non patrimoniale, ora escluso dal 323 c.p., si può avanzare l’ipotesi — tutta da verificare — che indirettamente valga anche per questo evento lo stesso criterio della lesione della posizione giuridica soggettiva. In altre parole, il vantaggio rileverebbe nei casi e nei limiti in cui ad esso corrisponda, in capo evidentemente a soggetti diversi, una situazione di danno. Sulla relazione reciproca tra danno e vantaggio, cfr. PICOTTI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, 297 e Continua il dibattito sull’abuso d’ufficio, in Dir. pen. proc., 1997, 350. (41) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale,1995, 320 s. Questa forma di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della volontà, nel senso che la realizzazione del fatto illecito costituisce lo scopo in vista del quale l’autore agisce. L’art. 323 c.p. rappresenta il primo caso in cui il legislatore ha ritenuto di subordinare espressamente la punibilità di un determinato fatto di reato alla forma più intensa di dolo: PADOVANI, Commento all’art. 1 l. 16/7/1997 n. 234, cit., 748; MANNA, Luci ed ombre nella nuova fattispecie d’abuso d’ufficio, in Ind. pen., 1998, 27; D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, in D’AVIRRO (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 309. (42) PADOVANI, Commento all’art. 1 l. 16/7/1997 n. 234, cit., 748. (43) Con tale novità normativa il legislatore avrebbe inteso escludere dal campo di applicazione della norma sull’abuso di ufficio gli abusi commessi con dolo eventuale, per evitare un eccessivo ampliamento della punibilità: FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, cit., 245; D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, in D’AVIRRO (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 312; IADECOLA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione dopo le leggi di riforma, cit., 134; BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 154. A seconda poi della diversa lettura che può essere data al rapporto tra le forme del dolo diretto e del dolo intenzionale (SEMINARA, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 1257), si può giungere nell’interpretazione della norma alla conclusione che l’avverbio ‘‘intenzionalmente’’ abbia voluto escludere solo il dolo eventuale (così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, cit., 245), oppure anche il dolo diretto (in questo senso sembra orientata la maggior parte dei commentatori: PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 258; BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 154; LEONI, Il nuovo reato di abuso d’ufficio, cit., 94; D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, in D’AVIRRO, a cura di, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 312. Così anche, con rilievi critici, PADOVANI, Commento all’art. 1 l. 16/7/1997 n. 234, cit., 748; PICOTTI, Continua il dibattito sull’abuso d’ufficio, cit., 350; SEMINARA, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 1257 s.; STORTONI, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 140 s.; MANNA, Luci ed ombre nella nuova fattispecie d’abuso d’ufficio, cit., 28). Lamenta l’inadeguatezza della qualificazione dell’elemento soggettivo in termini di ‘‘intenzionalità’’, ancora PICOTTI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, cit., 298 ss.,
— 815 — sito si può aggiungere che pare discutibile il fatto che il legislatore abbia voluto riproporre nella nuova fattispecie, seppure sotto diverse ‘‘sembianze’’, un particolare requisito di tipo soggettivo, quando la maggiore ricchezza di contenuti sul piano oggettivo della nuova versione dell’art. 323 c.p. esprime sicuramente un più definito disvalore penale. Pertanto, anche muovendo dalla convinzione che la finalità specifica possa contribuire al disvalore della fattispecie, essa si rivelerebbe in tale contesto superflua (44). Pare dunque da condividere la tesi, secondo cui la figura del dolo intenzionale si presenta eccessiva, perché troppo restrittiva dell’area della punibilità. I rischi di una troppo ampia penalizzazione, con conseguente pericolo di paralisi della pubblica amministrazione, costituiscono sicuramente un problema reale (45); tuttavia, se il fatto è in sé sufficientemente connotato in termini di disvalore, pare una limitazione ingiustificata la scelta del legislatore di escludere dall’applicazione della norma anche casi in cui l’agente si rappresenti con certezza la realizzazione del fatto abusivo e lo voglia, anche se solo strumentalmente al perseguimento di un’altra finalità. Per tornare ai comportamenti posti in essere dal pubblico ufficiale da cui si è preso spunto per queste annotazioni, il richiedere che il danno o il vantaggio siano lo scopo finale della condotta tenuta nel compimento della funzione significa, con ogni probabilità, negare quasi sempre la sussistenza del dolo. Pur non potendosi escludere l’eventualità che il pubblico ufficiale violi alcune norme regolanti lo svolgimento della propria attività con la precisa intenzione di danneggiare o avvantaggiare qualcuno, sembra più probabile che il danno e il vantaggio si producano nel contesto di un (ritenuto) più rapido o efficiente espletamento dei doveri dell’ufficio: con la conseguenza di dover negare, allora, la presenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma. 4.
La clausola di riserva e la violazione di norme di legge.
L’episodio nel quale il pubblico ufficiale avrebbe cagionato all’indagato delle lesioni personali, contestualmente ingiuriandolo, sembra porre il problema dell’osia perché l’arricchimento della fattispecie sotto il profilo oggettivo ha dato sufficiente spessore al contenuto della rappresentazione e volizione che deve avere l’agente, sia perché in tale maniera la decisione sulla punibilità o meno del fatto rimane affidata alla valutazione del giudice da farsi sullo ‘‘scivoloso terreno di categorie concettuali interne all’elemento soggettivo’’. (44) Il contributo che l’evento di vantaggio o di danno dà allo ‘‘spessore’’ del bene giuridico protetto dalla norma, e dunque alla conformità della fattispecie in questione al principio di offensività avviene, per così dire, anche in termini mediati. La norma, cioè, oltre a contemplare eventi che possono considerarsi ‘‘concretizzazione’’ della lesione dell’imparzialità (il riferimento è anzitutto ai fatti dannosi di tipo non patrimoniale, i quali, ad ogni modo, finiscono sempre per intaccare anche la sfera giuridica di terzi), dà rilievo a fatti lesivi di beni giuridici diversi (patrimonio dell’amministrazione, ma anche dei consociati), i quali dunque contribuiscono alla descrizione della complessiva offensività del fatto in maniera non molto dissimile, mutatis mutandis, da quanto avviene con determinati delitti a condotta vincolata (in primis i delitti contro il patrimonio), dove al disvalore di evento si va ad aggiungere un disvalore della condotta, il quale esprime un’attitudine offensiva verso un diverso bene giuridico (sul punto MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, 1, 1999, 387 ss.; STORTONI, L’abuso di potere, cit., passim). In generale, sulle esigenze di tutela di cui è espressione l’art. 323 c.p., si veda PICOTTI, Continua il dibattito sull’abuso d’ufficio, cit., 348 ss. e Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, cit., 286 ss.; su tale problematica dopo la riforma cfr. anche PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 230 ss.; PITTARO, La nuova disciplina dell’abuso d’ufficio, cit., 23; BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio,cit., 17 ss. Da ultimo, sul carattere plurioffensivo del reato di abuso d’ufficio ‘‘in quanto è idoneo a ledere, a cagione dell’illecito, o comunque, ingiusto comportamento del pubblico ufficiale, non solo l’interesse pubblico al buon funzionamento e alla correttezza della pubblica amministrazione, ma anche il concorrente interesse del privato che venga a subire una lesione personale o patrimoniale del detto comportamento’’, Cass., 9 marzo 1999, n. 477, in Arch. nuova proc. pen., 1999, 281. (45) D’AVIRRO, L’abuso d’ufficio, in D’AVIRRO (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 314.
— 816 — peratività della clausola di riserva iniziale dell’art. 323 (46). Presupposto perché una clausola di questo tipo possa operare è che un fatto concreto sia sussumibile in più norme penali, che si sia in presenza, cioè, di un concorso di norme (47). A seconda poi che, con l’ausilio dei criteri offerti dall’ordinamento, si concluda per l’applicabilità di una sola o di tutte le norme in questione, si avrà un concorso apparente o un concorso reale, vale a dire, in quest’ultima ipotesi, un concorso di reati. Nel caso dell’art. 323, in particolare, la convergenza di più norme incriminatrici può prospettarsi secondo due diverse modalità. Da un lato le trasgressioni delle norme penali con il medesimo accadimento possono avvenire in maniera per così dire ‘‘autonoma’’ l’una dall’altra: si pensi al pubblico ufficiale che esegue una perquisizione senza il rispetto dei presupposti che la legittimano, fatto tipico ai sensi tanto dell’art. 609 o 615, che dell’art. 323 c.p. Dall’altro lato, poiché l’espressione ‘‘le norme di legge’’, la cui violazione è addebitata al pubblico ufficiale, non esclude che le norme stesse abbiano natura penale, esse potrebbero rilevare sia come fattispecie autonome di reato, sia come elemento costitutivo del reato di abuso di ufficio. Questo è il caso, per esempio, del pubblico ufficiale che, formando nell’esercizio delle sue funzioni un atto falso o alterando un atto vero (art. 476 c.p.), procuri intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto. Ma sul punto è necessario precisare che benché la formulazione letterale dell’art. 323 c.p. non ponga alcuna limitazione espressa al tipo di disposizioni normative alla base dell’abuso di ufficio, non pare accettabile concludere che la violazione di qualsiasi norma di legge sia di per sé idonea a dare origine a tale reato (48). Tenendo presente il contesto e la ratio della fattispecie in esame, infatti, sembra di dover dire che l’espressione ‘‘in violazione di norme di legge o di regolamento’’ vada intesa con esclusivo riguardo alle disposizioni concernenti specificamente la funzione o il servizio, in mancanza delle quali risulterebbe difficile (46) Sulla qualificazione di tale clausola in dottrina si veda, ad esempio, PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 262; BENUSSI, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, cit., 188. Essa, similmente a clausole dalla formulazione analoga (‘‘salvo che il fatto costituisca più grave reato’’: ad es. artt. 374 bis, 420, 600 bis c.p.; ‘‘se il fatto non costituisce un più grave reato’’: ad es. artt. 246, 266, 351, 460 c.p.; ‘‘qualora il fatto non costituisca un più grave reato’’: ad es. artt. 381, 508 c.p.), vuole esprimere il carattere vicario della norma sull’abuso d’ufficio: l’art. 323, cioè, non si applica se al fatto concreto sia applicabile anche un’altra disposizione la quale preveda un reato più grave. (47) Sul fenomeno della confluenza di più norme incriminatrici sulla medesima condotta si vedano, ad esempio, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., 593 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., art. 15/9 e 20. (48) L’espressione ‘‘in violazione di norme di legge o di regolamento’’, presa puramente e semplicemente, in effetti, oltre ad avere talvolta sollevato il problema di esatta identificazione della fonte normativa le cui disposizioni rilevano ai fini dell’integrazione della fattispecie — per citare un solo esempio, sulla natura regolamentare o meno degli strumenti urbanistici, si veda Cass., 16 ottobre 1998, n. 1354, in Cass. pen., 1999, 2109; Cass., 9 luglio 1998, n. 1078, ibidem, 2112; Cass., 2 ottobre 1998, ibidem, 2114, con nota di TANDA, Abuso d’ufficio: eccesso di potere e violazione di norme di legge o regolamento, in particolare 2128 ss. —, è apparsa a molti troppo ampia. La giurisprudenza, dal canto suo, già in una delle prime pronunce sul riformato art. 323 c.p. ha operato una restrizione interpretativa del requisito in parola, statuendo che la norma violata non deve essere genericamente strumentale alla regolarità della attività amministrativa, ma deve vietare puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, e che pertanto sono irrilevanti le violazioni di norme di carattere meramente procedimentale e di quelle generalissime e di principio, come l’art. 97 Cost. (Cass., 4 dicembre 1997, Tosches, in Cass. pen., 1998, 2332). Anche in dottrina non sono mancate opinioni critiche circa i risultati effettivamente raggiunti dal legislatore, sotto il profilo della determinatezza, con la scelta di specificare le modalità della condotta abusiva: ad esempio PADOVANI, Commento all’art. 1 l. 16/7/1997 n. 234, cit., 744 ss.; DE FRANCESCO, La fattispecie dell’abuso di ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, cit., 1634 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, cit., 241 ss.; STORTONI, I delitti contro la Pubblica Amministrazione,cit., 137; PIEMONTESE, Un nuovo caso di successione di leggi nella turbolenta esistenza dell’art. 323 c.p., in Cass. pen.,1999, 2380. Contra ad es. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 93 s. (la norma viene giudicata in armonia col principio di ‘‘precisione’’); TANDA, Abuso d’ufficio: eccesso di potere e violazione di norme di legge o regolamento, cit., 2133 s.
— 817 — riferire propriamente l’abuso, come richiede la norma, all’ufficio esercitato (49). Poiché dunque la violazione di norme che con la funzione o il servizio nulla hanno a che vedere non rientra nel campo di applicazione dell’art. 323 c.p., questo reato in tale caso non si realizza, prescindendosi in radice dalla presenza o meno di un danno o di un vantaggio (50). Riguardo allora ad un eventuale problema di concorso di norme evocato dalla condotta consistente nel profferire parole ingiuriose e nel cagionare lesioni personali da parte di un pubblico ufficiale durante lo svolgimento della funzione, le considerazioni ora svolte inducono alla conclusione che, non realizzandosi l’abuso d’ufficio di cui all’art. 323, non abbia luogo alcuna ‘‘confluenza’’ di tale norma con gli artt. 582 e 594 c.p. Conseguentemente mancherà ogni spazio per un’effettiva operatività della clausola di riserva iniziale e residueranno solamente gli estremi della punibilità ai sensi delle norme di parte speciale ora richiamate (51). Quanto detto non pare escludere tuttavia — in parziale recupero sotto il profilo sanzionatorio del disvalore legato alla pur sussistente qualifica pubblicistica dell’autore delle violazioni comuni — che la responsabilità per lesioni e ingiurie possa essere aggravata per ‘‘avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio’’ (52). Secondo un’interpretazione rigorosa di questa norma, dovrebbero risultare estranee al suo campo di applicazione le ipotesi nelle quali non si abbia in senso stretto né un abuso di poteri, né una violazione di doveri, bensì un abuso della qualità o della posizione: ipotesi che si realizza, come nel caso qui in considerazione, quando il pubblico ufficiale si rende autore di un reato comune con condotte accessorie o concomitanti all’ufficio, e non esplicazione dello stesso (53). (49) La circostanza che il nuovo art. 323 c.p. non richiami nel testo l’‘‘abuso d’ufficio’’ (comunque presente, anche se solo nella rubrica) non deve far dimenticare che l’espressione ‘‘violazione di norme di legge o di regolamento’’ non va intesa in termini generici, ma sempre con riguardo ai poteri e ai doveri relativi in maniera specifica all’ufficio. In questo senso PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 236, 248; CARMONA, La nuova figura di abuso di ufficio: aspetti di diritto intertemporale, in Cass. pen., 1998, 1848 ss. In giurisprudenza si veda ad esempio Cass., 9 febbraio 1998, in Cass. pen., 1999, 1761, con nota adesiva sul punto di MASULLO, L’abuso d’ufficio nell’ultima giurisprudenza di legittimità, tra esigenze repressive e determinatezza della fattispecie: ‘‘la violazione di norme di legge’’, ibidem, 1769 e Cass., 2 ottobre 1998, cit., 2114 ‘‘violazione dei doveri inerenti lo svolgimento del munus pubblico’’. Così, se al pubblico ufficiale sono addebitabili delle violazioni di legge penale commesse in occasione dell’ufficio, ma che possono essere parimenti realizzate dai privati, poiché nulla hanno a che vedere con le attribuzioni dell’ufficio stesso, non si avrà l’abuso di ufficio, quanto piuttosto, come si vedrà in seguito, il reato comune aggravato ex art. 61 n. 9 c.p. Per queste conclusioni con riguardo alla vecchia norma, e pertanto con un diverso argomentare, si veda SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 563 ss., 603 s., secondo cui, sul presupposto che l’abuso di ufficio vada inteso restrittivamente come abuso di poteri, esclude a priori la possibilità di un concorso di norme con tutti quei reati propri o comuni aggravati ex art. 61 n. 9 c.p. commessi con violazione dei doveri o con abuso della qualità da parte del pubblico ufficiale. (50) La necessità che si tratti di disposizioni specificamente dettate dal legislatore in vista della disciplina della funzione o del servizio vale, s’intende, per tutte le violazioni di ‘‘norme di legge o di regolamento’’ cui si riferisce l’art. 323 c.p. Si pensi ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio che ‘‘nello svolgimento delle funzioni o del servizio’’ violi una norma del codice della strada, causando un incidente con conseguenze (dannose) solo sulle cose, da cui origini una pretesa al risarcimento del danno: in questo caso l’abuso di ufficio non risulta integrato, prima ancora che per la mancanza del prescritto elemento soggettivo, per la non tipicità del fatto, dato che le norme del codice stradale, avendo la funzione di regolamentare il traffico, non riguardano in alcuna maniera l’esplicazione della funzione o del servizio. (51) In senso parzialmente difforme PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, cit., 262, secondo cui in forza della clausola di consunzione l’art. 323 c.p. risulta inapplicabile ‘‘anche quando il fatto commesso costituisce reato a causa di un diverso contenuto di illecito (per es. ingiuria, percosse, lesioni personali) aggravato per l’abuso di ufficio, il quale abuso può venire in rilievo come circostanza comune (art. 61 n. 9 c.p.) o come circostanza speciale (es. art. 605 n. 2 c.p.)’’. (52) Il discorso, infatti, chiaramente proponibile de iure condendo, sembrerebbe conciliabile anche con l’attuale formulazione dell’art. 61 n. 9 c.p. (53) Così ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., art. 61/11.
— 818 — Vi sono tuttavia argomenti che suggeriscono un’alternativa forse preferibile. Oltre alla difficoltà di distinguere nettamente in concreto le tre figure e all’estrema ampiezza di cui è suscettibile la categoria della ‘‘violazione dei doveri’’ (54), un’estensione dell’art. 61 n. 9 c.p. anche alle ipotesi di abuso di qualità sembrerebbe da considerare con attenzione per la seguente ragione: è proprio con riferimento ai reati comuni commessi appunto con abuso di qualità che più opportuno si presenta l’aumento della pena, in modo da dare rilievo, in fase di commisurazione, ad un elemento non contemplato nella fattispecie. Nei casi in cui invece si verifica un abuso di poteri o una violazione di doveri, questi sono per lo più previsti in specifiche fattispecie di reati propri (55), per cui sarebbe anzi ultroneo addivenire ad un aumento di pena per elementi già oggetto di considerazione normativa nel fatto tipico (56). 5.
Conclusioni.
Non rimane a questo punto che riepilogare in breve i punti salienti delle osservazioni qui svolte. Se l’introduzione nell’art. 323 di un evento naturalistico può avere contribuito a dare al reato un più significativo disvalore, essa ha nello stesso tempo posto il problema di definire il danno e il vantaggio, dalla cui nozione sembra dipendere in maniera rilevante il raggiungimento dello scopo che il legislatore della riforma si era prefisso (57). Constatata l’inadeguatezza del ricorso al criterio della posizione più o meno favorevole, ed essendo preferibile utilizzare parametri maggiormente formalizzati, si è proposto di considerare dannoso il fatto lesivo di posizioni giuridiche riconosciute e tutelate dall’ordinamento. Circa l’elemento soggettivo, si è osservato che la trasformazione in reato di evento pare aver reso superflua la necessità di una qualificazione particolare del dolo, quale risulta dall’avverbio ‘‘intenzionalmente’’. Inoltre, tale forma particolarmente intensa di dolo diretto presenta forse l’inconveniente di restringere eccessivamente l’ambito della sanzione penale. Per quanto concerne infine la clausola di riserva iniziale, la sua operatività è condizionata all’esatta identificazione della ‘‘violazione di norme di legge o di regolamento’’. Quest’ultima espressione, diretta nelle intenzioni del legislatore a conferire maggiore determinatezza alla fattispecie, andrebbe letta in maniera restrittiva. Non si dovrà concludere, cioè, per la sussistenza dell’abuso, ogni volta che un pubblico ufficiale violi una qualsiasi disposizione contenuta nelle fonti normative espressamente indicate, ma solo quando la disposizione stessa riguardi lo svolgimento della funzione o del servizio. GABRIELE MAZZINI Dottorando di ricerca presso l’Università di Pavia
(54) SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 564. (55) Ancora SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 604 s. (56) Propendono per questa lettura ‘‘più elastica’’ dell’aggravante FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., 391; SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., 604. (57) Per una negativa valutazione delle scelte di campo del legislatore a proposito tanto della trasformazione in reato di evento, quanto della specificazione delle modalità di lesione, al punto da ritenere preferibile il vecchio schema legato al dolo specifico, DE FRANCESCO, La fattispecie dell’abuso di ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, cit., 1638 ss.
— 819 — CORTE DI ASSISE DI ROMA — Sezione penale — 13 settembre 1999 Pres. Amato — Rel. Cataldo Caso ‘‘Marta Russo’’ Reati contro la persona - Omicidio volontario - Omicidio colposo - Equivalenza degli elementi probatori a sostegno dell’una e dall’altra ipotesi di reato - Principio del favor rei - Configurabilità dell’omicidio colposo. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Favoreggiamento personale - Reiterata menzognera negazione, da parte dell’imputato di concorso in omicidio volontario, della propria presenza sul luogo del delitto - Favoreggiamento personale nei confronti del coimputato - Configurabilità. Qualora non sia stata provata la volontà omicida, e sussistano tuttavia elementi (ritenuti equivalenti) a sostegno sia dell’ipotesi dolosa sia di quella colposa, il canone della scelta più favorevole all’imputato comporta che questi dev’essere condannato per il meno grave delitto di omicidio colposo (1). Si configura il delitto di favoreggiamento personale a carico dell’imputato prosciolto dall’accusa di concorso in un reato, il quale negando la propria presenza sul luogo del delitto e inducendo con minacce un teste a dire il falso, abbia svolto un’attività di collaborazione post delictum in favore del coimputato condannato quale autore del reato (2). (Omissis). — Il probabile impiego di un silenziatore; la condotta processuale dei prevenuti, ostinatamente impegnati a negare la propria presenza sul luogo del delitto; il fatto che sia stato esploso un colpo di pistola indirizzato verso un luogo pubblico, e di fatto frequentato, in quel momento, da più soggetti: tutti questi elementi indurrebbero a condividere la tesi accusatoria... Si trattò di un omicidio volontario sorretto dal dolo eventuale: S. e F. (secondo l’accusa) esplosero un colpo accettando il rischio di attingere un passante. Se viceversa avessero voluto elidere questo rischio, l’arma sarebbe stata puntata verso l’interno della stanza, ovvero contro un muro o comunque scaricata verso l’alto... Il fondamento della tesi riposava sulla gestione, da parte... (degli imputati), di alcuni seminari di logica giuridica, seminari che sarebbero stati improntati alla precostituzione delle modalità esecutive del delitto ‘‘perfetto’’. ... (Omissis). Da tutto questo... non può certo desumersi un serio e valido movente. Ma non si può nemmeno sostenere che, caduto il movente, vi sia la preclusione di qualificare il fatto come omicidio colposo. Del resto, la tesi della esplosione accidentale di un colpo fu presente fin dalle primissime battute dell’indagine, e costituì uno dei fili conduttori seguiti dagli inquirenti. Si considerino... (le risultanze delle indagini): si pencolava tra l’ipotesi colposa e quella volontaria. La stessa alternativa si ripropone all’esito del dibattimento. Posto che... (S.) esplose un colpo di pistola, vi era, da parte sua, coscienza e volontà nell’accettare il rischio di attingere qualcuno?... Possibile che... (l’imputato) abbia con coscienza e volontà, agendo con dolo, premuto il grilletto dell’arma per uccidere o accettando il rischio di uccidere alla presenza di numerosi testimoni? La risposta è negativa perché le risultanze processuali non danno la prova dell’accordo scellerato tra lo sparatore, ... (e gli altri presenti). Da tutti questi elementi, considerati in se e nella loro globalità, si inferisce la
— 820 — possibilità che S. non fosse consapevole di maneggiare un’arma carica... (anzi sembra desumersi) che maneggiò con imprudenza, negligenza, imperizia un’arma, ma senza sapere che era carica. Si potrebbe replicare che S., il quale aveva prestato validamente servizio nell’Arma dei Carabinieri, segnalandosi come discreto tiratore, ben era in grado di rendersi conto se l’arma era carica o non, nonché di valutare il pericolo della pistola, regolandosi di conseguenza. Secondo parametri di diligenza rafforzata dalle qualità personali. Ma in questo, appunto, risiede l’essenza dell’addebito colposo che si muove all’imputato. In definitiva, gli elementi a sostegno dell’una e dell’altra ipotesi finiscono per equivalersi: in tal caso opera il canone della scelta più favorevole all’imputato. Per questo motivo va affermata la responsabilità di S. in ordine al reato di omicidio colposo in danno di Marta Russo. * * * Il gesto di F. immediatamente dopo il colpo di pistola (si noti che l’imputato, dalla posizione in cui si trovava, non aveva la visuale della zona dove cadde mortalmente ferita Marta) esprime sgomento e non certo partecipazione al delitto doloso o cooperazione nel delitto colposo... (Il) comportamento ‘‘post delictum perpetratum’’ di F., ... (le) minacce rivolte a L. realizza(no), nei suoi estremi soggettivo ed oggettivo, il reato di favoreggiamento personale. (Omissis)... Il precetto dell’art. 378 c.p. è stato violato anche da L. e da A. Le situazioni in cui versavano (il primo aveva subito minacce di ritorsione ove avesse ‘‘parlato’’ - cfr. cap. VII; la seconda temeva concretamente, dicendo la verità, di patire grave e inevitabile pregiudizio alla propria incolumità fisica e al proprio onore - cfr. cap. VI) configurano per entrambi una causa di non punibilità. (Omissis)... mentre il p.m. riconduce la presenza di F., da lui negata, nella Sala Assistenti, all’ambito del concorso in omicidio, in realtà tale presenza, o meglio la reiterata menzognera negazione di essa da parte dell’imputato, sta ad indicare, nel delineato contesto probatorio, un’attività di collaborazione in favore dell’autore del delitto dopo la sua commissione... Lo stesso dicasi per quanto concerne L. — come riconosciuto dalla Pubblica Accusa —, rispetto al quale opera la norma dell’art. 54 c.p.
—————— (1-2) Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità. SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari e delimitazione del campo d’indagine. — 2.1. Prova del dolo e prassi applicativa: la rilevanza del rischio nell’individuazione delle ‘‘massime di esperienza’’. - 2.2. Le perenni difficoltà di inquadramento del dolo eventuale nell’ambito dell’art. 43 c.p.: una sostanziale svalutazione del momento volontaristico. - 2.3. Analisi del concetto di volizione: il ruolo normativo attribuito al dolo eventuale. - 2.4. Alcuni spunti di diritto comparato e in prospettiva de jure condendo: il ‘‘progetto Grosso’’. - 2.5. Conclusioni. Brevi riflessioni in tema di derubricazione da omicidio doloso ad omicidio colposo. — 3. Inammissibilità di una condotta di favoreggiamento nel quadro di operatività del principio del nemo tenetur se detegere.
1. Considerazioni preliminari e delimitazione del campo di indagine. — La sentenza in commento rappresenta un primo punto fermo di una fin troppo nota vicenda giudiziaria, assurta ai clamori della cronaca, che ha visto protagonisti S. e
— 821 — F. coinvolti nell’omicidio di Marta Russo e conclusasi in primo grado con la condanna di entrambi: il primo per omicidio colposo, il secondo per favoreggiamento personale (1). In specie la Corte di Assise di Roma, ritenendo di non accogliere le richieste avanzate dall’accusa (2), optava per la derubricazione dei reati ascritti nei capi d’accusa in base alle risultanze probatorie dalle quali, a parere della stessa, traspariva una qualificazione giuridica dei fatti diversa. Ad una prima lettura la decisione in commento sembra destare ragionevoli perplessità. Rispetto alla posizione di S. potrebbe ad esempio dubitarsi della correttezza nell’applicazione del giudizio di imputazione soggettiva del fatto a titolo di colpa (3). Effettivamente, essendo egli soggetto dotato di esperienza nel campo delle armi da sparo di uso comune (come è dimostrato dalla prestazione del servizio di leva presso l’Arma dei C.C.) sembrerebbe prospettarsi un’ipotesi di condotta contraria agli standard di diligenza: tale punto meritava però una maggiore, sia pur semplice, considerazione, specie se si tiene presente che la decisione va ben oltre le richieste formulate dall’accusa. Rispetto a quella di F. sorge, invece, spontaneo un interrogativo: è compatibile la condanna di un soggetto a titolo di favoreggiamento allorché la sua condotta s’inserisca in un quadro psicologico di difesa personale? (4) Se F., nella veste di imputato, ha negato la propria presenza nell’Aula Assistenti da cui è partito il colpo tenendo un atteggiamento diretto a non far emergere eventuali suoi coinvolgimenti nell’omicidio, non sembra forse più corretto collocare tale attività nel quadro di operatività del principio del nemo tenetur se detegere? La Corte sembra invece non essersi posto il problema: lo dimostra, d’altro canto, il fatto che un comportamento sicuramente più riprovevole (una serie di minacce perpetrate nei confronti di L.) è stato analizzato solo superficialmente senza neppure ipotizzarsi un possibile concorso formale di reati. Forse si era più impegnati a sviluppare le argomentazioni giuridiche per ritenere illecita una condotta che, sostanzialmente, si era risolta in un’ipotesi di ‘‘auto-favoreggiamento’’. Non è certamente nostra intenzione entrare nel merito della questione di responsabilità dei due imputati; ci si occuperà così di quelle questioni che non travalicano il campo strettamente giuridico. Una di queste certamente è quella che coinvolge i rapporti di coimplicazione tra favoreggiamento personale e principio del nemo tenetur se detegere. Essendo esso argomento, certamente degno di attenzione e foriero di interessanti sviluppi problematici, che travalica quello che è lo scopo della nostra indagine, sarà trattato soltanto in via incidentale. È nostra cura invece svolgere in modo più diretto ed approfondito il tema dell’imputazione soggettiva a titolo di dolo eventuale. In particolare s’intende verificare se quella forma di colpevolezza comunemente defi(1) La sentenza è pubblicata nei suoi punti essenziali in Guida al diritto, Dossier mensile, I grandi processi. Il ‘‘caso Marta Russo’’. Le motivazioni e l’analisi tecnica della sentenza della Corte d’Assise di Roma, n. 9, ottobre 1999. (2) Il capo di imputazione prevedeva in particolare per S. la condanna per omicidio volontario sorretto dal dolo eventuale, per F. la condanna per concorso in omicidio. (3) Nello stesso senso cfr. PATALANO — La motivazione non cancella le perplessità sulla qualificazione giuridica dei fatti, in Guida al diritto, Dossier mensile, n. 9, ottobre 1999, p. 90 ss. — il quale , non sembra aderire alle conclusioni della Corte: ‘‘Resta l’impressione, nettissima, di una motivazione intimamente perplessa, fondata su ‘intuizioni’, e tuttavia sostanzialmente incapace di fornire una ricostruzione dei fatti giuridicamente convincente’’. (4) Precisa PATALANO — La motivazione non cancella le perplessità sulla qualificazione giuridica dei fatti, cit., pp. 93-94 — che la sussistenza del reato di favoreggiamento personale debba escludersi dal momento che la condotta di F. era soggettivamente ‘‘polarizzata verso l’auto-favoreggiamento’’, ciò perché egli agì nel contesto di operatività di un legittimo esercizio del diritto di difesa, mentre il favoreggiamento di altri rappresentava una mera conseguenza necessitata della condotta stessa, stante la comunanza delle situazioni e delle circostanze da provare.
— 822 — nita ‘‘dolo eventuale’’ effettivamente rappresenti una figura riconducibile al dolo. Certamente, un tale obiettivo potrebbe suscitare meraviglia se si tenga presente che nessuno ha mai dubitato — pur se non poche sono state le difficoltà incontrate per inquadrarne l’esatta dimensione — che tale figura rappresenti la forma meno grave del dolo. A questo occorre però obiettare che il dato normativo non sembra deporre a favore di una tale, seppur incontroversa, idea. Molto chiaramente l’art. 43, 1o comma, c.p. incentra la distinzione tra dolo e colpa riferendola alla ‘‘volizione’’ dell’evento dannoso o pericoloso (5): quindi dovrebbe, a ragione, negarsi che possano rappresentare forme del dolo tutte quelle manifestazioni soggettive che prescindono da un autentico ed effettivo contenuto volitivo e che si concretano in surrogati di esso. E questo è, a nostro sommesso parere, il caso del c.d. dolo eventuale, cioè di quella ritenuta forma del dolo che, qual che sia il raffinato criterio di individuazione dei relativi confini con la colpa cosciente, difetta di un’autentica volontà intesa in senso psicologico quale appunto richiesta dall’art. 43 c.p. (6). Già la genesi storica di tale figura ci dice, d’altronde, come essa sia stata teorizzata per soddisfare esigenze di imputazione soggettiva tutt’altro che riferibili al dolo (7). A questo si aggiunga che non sono mancate voci, sia pur isolate, che hanno mostrato riserve nei confronti di tale figura (8). (5) Si afferma chiaramente in dottrina (v. fra gli altri MANTOVANI, Diritto penale, pt. gen., Padova, 1993, p. 339) come la colpa rappresenti l’esatto simmetrico negativo del dolo in quanto essa, seppur possa condividere col dolo l’elemento rappresentativo, difetta di un’autentica volizione: la colpa consiste, infatti, in una non-volontà del fatto materiale tipico. (6) Per tali considerazioni sia consentito il rinvio a G. FORTE, Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in questa Rivista, 1999, p. 228 ss. e, quivi, spec. p. 276 ss. (7) È particolarmente interessante notare come la figura del dolo eventuale affondi le proprie radici in quegli ambiti caratterizzati dal versari in re illicita, e come, un poco alla volta, dalla mera responsabilità oggettiva per l’evento non voluto cagionato nel quadro di un’attività dolosa, essa abbia finito col rappresentare la responsabilità per l’evento ulteriore oggettivamente probabile, finendo in tal modo coll’incentrarsi in un minimo di colpevolezza. Tale coefficiente di colpevolezza non è mai consistito in un’autentica forma di dolo, in quanto l’uso che è stato fatto del dolo eventuale in epoca recente è giustificato da esigenze tutt’altro che relative all’imputazione soggettiva dell’evento. Con tali ultime affermazioni si intende far riferimento a quella prassi giudiziaria che tendeva a ravvisare, nei casi di lesioni gravissime, un tentato omicidio accompagnato dal dolo eventuale: è evidente come si è inteso soddisfare esigenze di carattere squisitamente repressivo finendo in tal modo per strumentalizzare la libertà personale in un’autentica politica giudiziaria. Per l’analisi storica del dolo eventuale v. DELITALA, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Raccolta degli scritti, I, Milano, 1972, p. 436 ss. (8) L’idea che il c.d. dolo eventuale non costituisca un’autentica forma di dolo, oltre che essere confortata dalle esperienze comparatistiche di Francia e Inghilterra (su cui v. infra), era stata già anticipata autorevolmente da L. VON BAR, Dolus eventualis?, in ZStW, 1898, p. 584 ss. Critica nei confronti del dolo eventuale era anche la posizione di VON LISZT, Die Behandlung des dolus eventualis im Strafrecht und Strafprozess, in Strafrechtliche Aufsätze und Vorrträge von Liszt, II, Berlin, 1905, p. 281 ss. (citazione ripresa da JOSÉ DE FARIA COSTA, Le definizioni legali del dolo e della colpa quali semplificazioni delle norme definitorie nel diritto penale, in AA.VV., a cura di CADOPPI, Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Padova, 1996, p. 268) — come si evince chiaramente dalle parole dell’A.: ‘‘(il dolo eventuale) è una invenzione dei giuristi addottrinatori e reazionari ’’ —. Essa è stata successivamente ripresa da PANNAIN, Manuale di diritto penale, 4a ed., Torino, 1967, p. 376, in base alla considerazione che se il codice Rocco, tra la teoria della rappresentazione e quella della volontà, ha accolto quest’ultima ciò significa la sostanziale incompatibilità di tale forma di colpevolezza con quegli atteggiamenti psichici in cui è fortemente dubbio la sussistenza di un effettivo coefficiente volitivo. Tale posizione sembra, d’altronde, rifarsi a quella precedentemente sostenuta da DE MARSICO, Coscienza e volontà nella nozione di dolo, Napoli, 1930, p. 153, secondo cui i casi tipicamente ricondotti al paradigma del dolo eventuale rappresentano in realtà un tipico ‘‘atteggiamento subiettivo ... (di) imprudenza o temerarietà non dolo’’. Ed infatti, i caratteristici casi di dolo eventuale che illustri autori tedeschi (l’A. fa riferimento alle teorie di Von Hippel e Löffler) hanno individuato, realizzano una svalutazione del concetto di dolo ora ridotto a mera rappresentazione ora a dolo per indifferenza delittuosa. Il concetto di volontà presuppone ‘‘un legame diretto (che) la stringe all’evento previsto’’. Si tratta, a ben vedere, di un’opinione che non è rimasta isolata alla posizione di coloro che sostenevano la teoria della volontà. Deve infatti rilevarsi come anche di recente si è affermato un punto di vista in base al quale la definizione di cui all’art. 43, 1o comma, c.p. non sia estensibile alla figura del dolo eventuale. In particolare ANGIONI — Le norme definitorie ed il progetto di legge delega per un nuovo codice pe-
— 823 — Certo è che, nell’attuale dimensione del fenomeno, non possiamo non prefiggerci il compito di individuarne l’esatta consistenza — il nostro, si badi bene, è comunque un tentativo che terrà conto, oltre che dei brillanti risultati cui è pervenuta la dottrina in decenni di faticose e difficili elaborazioni interpretative del dato normativo, comunque imprescindibile, anche dei reali atteggiamenti psicologici che hanno caratterizzato coloro che, nella prassi applicativa, sono stati ritenuti dalla giurisprudenza agire in dolo eventuale —, questo anche al fine di trovare una giusta collocazione normativa di tale figura atteso che nel nostro ordinamento, stante lo sbarramento sancito dal principio di legalità, l’imputazione soggettiva del reato non può non avere un preciso referente normativo (9). Per fare ciò si è ritenuto di prendere le mosse da un clamoroso caso giudiziario. La particolarità della decisione in commento sta nel fatto che essa, pur inserendosi in una situazione in cui normalmente si sarebbe posta l’alternativa tra dolo eventuale e colpa cosciente, ha ritenuto invece la sussistenza della colpa semplice, in altre parole non aggravata dalla previsione dell’evento. Sembra allora che si sia posta l’alternativa tra dolo eventuale, da una parte, e colpa incosciente, dall’altra, quasi a voler colmare quello scarto tradizionalmente ‘‘occupato’’ dalla colpa con previsione. Con ciò si è forse voluto, da parte dei giudici della Corte, aderire all’idea che il dolo eventuale possa rappresentare una forma di colpa aggravata intuendone una similarità di struttura con la semplice colpa? Potrebbe in senso negativo rispondersi che, pur se in maniera superficiale, si è aderito alla posizione tradizionale secondo cui il dolo eventuale consiste nell’accettazione del rischio. A questo occorre però obiettare che la cosiddetta colpevolezza per accettazione del rischio rappresenta un tipico atteggiamento qualificato dalla violazione di regole di diligenza (10). In effetti, occorre chiarire, a scanso di equivoci, che la sentenza non ha mai dubitato che il dolo eventuale individui una forma di dolo dal momento che ha ricondotto tale forma di colpevolezza nella sfera di applicazione dell’omicidio volontario. Non può però disconoscersi la singolarità del ragionamento seguito dai giudici della Corte quasi a condividere l’idea che il dolo eventuale possa non rappresentare una forma di dolo: l’accostamento di tale figura alla colpa incosciente sembra dirci dell’intento, certamente inconsapevole, di dimostrare le analogie di struttura che accomunano tali due forme di colpevolezza. La sentenza in commento si è comunque mossa da una base argomentativa nale, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio. Atti del Convegno in ricordo di Franco Bricola (Bologna, 18-20 maggio 1995), Torino, 1998, p. 189 ss, e quivi spec. p. 193 — ritiene che l’inciso ‘‘secondo l’intenzione’’ cui fa riferimento la summenzionata norma tende ad escludere il dolo eventuale e a far residuare il solo dolo diretto. Nessuna ‘‘acrobazia concettuale’’ infatti, continua l’A., può nascondere il fatto che tra dolo eventuale e colpa cosciente, sul piano contenutistico, ci siano più similitudini che tra dolo eventuale e dolo diretto. Ciò a conferma della nostra posizione secondo cui il dolo eventuale rappresenta ‘‘il doppione mascherato’’ della colpa aggravata. (9) Se è vero che il principio di legalità guida in maniera pregnante, non solo l’attività di creazione e modificazione della norma penale, ma anche il momento applicativo della stessa ad opera del giudice — in tal senso molto chiaramente v., fra gli altri, BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale. Nozioni ed aspetti costituzionali, I, Milano, 1965; VASSALLI, voce Nullum crimen sine lege, in Nuoviss. Dig. it., XI, Torino, 1965, p. 493 ss.; ID., voce Nullum crimen, nulla pena sine lege, in Dig. Disc. pen., VIII, Torino, 1994, p. 307 ss.; GRASSO, Il principio ‘‘nullum crimen, nulla pena sine lege’’ nella Costituzione italiana, Milano, 1972; MARINI, voce Nullum crimen, nulla pena sine lege, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 950; PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979; TRAPANI, voce Legge penale, in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990 —, quest’ultimo, nel procedere alla verifica della sussistenza della colpevolezza, non può non tenere conto del sostrato normativo che regola l’elemento soggettivo del reato procedendo ad una interpretazione dello stesso individuando l’esatto significato della specifica norma senza mai superare i confini di significanza di ogni singolo termine. (10) Molto chiaramente afferma PAGLIARO, Discrasie tra dottrina e giurisprudenza?, in Cass. pen., 1991, p. 322, che la colpevolezza per accettazione del rischio corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo.
— 824 — diversa da quella che verrà sviluppata qui di seguito in quanto, posta l’alternativa tra dolo eventuale e colpa incosciente si è optato per la seconda in base alle ambiguità delle risultanze probatorie e all’applicazione del fondamentale canone dell’in dubio pro reo. Con ciò si è voluto asserire che se non è provata con certezza la sussistenza dell’accettazione del rischio deve escludersi che ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di dolo eventuale. Con tale ultima affermazione la Corte prescinde in toto dall’affrontare la problematica della distinzione tra dolo e colpa. Il motivo per cui si evita di aggiungere ulteriori ‘‘stille’’ ai fiumi di parole già spese nel ‘‘vano’’ tentativo di trovare un discrimine certo ed indiscutibile tra dolo (eventuale) e colpa (cosciente), è dovuto alla ritenuta particolarità del caso concreto dove è dubbia non la sussistenza dell’accettazione del rischio ma della stessa previsione dell’evento. Tanto ciò è vero che si è affermata l’esistenza della colpa semplice, cioè non aggravata dalla previsione dell’evento. Sembrerebbe allora di trovarsi in un caso in cui il problema di individuare un discrimine tra dolo e colpa non si pone: mancando, infatti, la prova certa che l’imputato abbia prevista la possibilità di realizzare l’evento non si radica neppure l’esigenza di ricorrere a quegli espedienti probatori con cui di frequente la giurisprudenza prescinde dal provare la concreta sussistenza della volizione del fatto. Indipendentemente dalla prospettiva di analisi presa in riferimento deve, comunque, ammettersi che la sentenza commentata si rivela di notevole interesse, più che nei passaggi giuridici argomentativi, nei risultati cui essi hanno portato. Se normalmente la giurisprudenza ritiene la sussistenza del dolo (nella forma eventuale), spinta da ben evidenti ragioni di politica criminale, dall’esame del contesto obiettivo in cui il soggetto ha agito o in riferimento all’elevata pericolosità della condotta, in ciò, evidentemente, mostrando una tutt’altro che marginale attenzione nei confronti del parametro del ‘‘rischio’’, nel caso in esame la Corte, pur se la condotta si presentava con tali connotati, ha ritenuto di escludere la sussistenza del dolo eventuale in tal modo dimostrando di non ricorrere ad alcun metodo di tipo presuntivo basato sull’analisi del contesto oggettivo per sopperire alle carenze processuali. Anzi, ritenuta la generale operatività del principio dell’in dubio pro reo (11), ha optato per la semplice sussistenza della colpa (12). (11) Come precisa la dottrina che si è occupata del tema — si veda, per tutti, G. LOZZI, voce Favor rei, in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, p. 10 ss. — al favor rei, inteso come principio ispiratore di vari istituti sia nel momento della loro normativizzazione che in quello della loro concreta applicazione ad opera del giudice, si fa riferimento sia nel diritto penale sostanziale che in quello processuale. Esso rappresenta, come molto efficacemente ha sostenuto autorevole dottrina — BETTIOL, Istituzioni di diritto e procedura penale, Padova, 1966, p. 213 —, ‘‘principio basilare di tutta la legislazione penale processuale di uno Stato ispirato... a un criterio superiore di libertà’’. Esso sembra, d’altronde, trovare un preciso referente costituzionale nell’art. 27, 2o comma, Cost. dove si afferma che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, ciò implicando che solo allorché sia intervenuta una decisione del giudice, supportata da un preciso e completo quadro probatorio, potrà addivenirsi alla condanna dell’imputato (nello stesso senso cfr. DOMINIONI, Presunzione di innocenza, in ID., Le parti nel processo penale. Profili sistematici e problemi, Milano, 1985, p. 254). Ed è con riferimento al principio del favor rei che trovano spiegazione istituti processuali quali quello che la sentenza in commento ha ritenuto di applicare nel caso di specie: si fa qui riferimento all’art. 530, 2o comma, c.p.p. in base al quale ‘‘il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando... è insufficiente la prova che il fatto... costituisce reato...’’. Detta norma in altri termini individua nel favor rei una regola di giudizio da applicare nel caso di prova mancante o insufficiente e che si concretizza appunto nella specifica regola in dubio pro reo. Sul dibattito che più direttamente si è sviluppato sul tema dell’assoluzione per insufficienza di prove si veda: MARZADURI, Sentenza di assoluzione, in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di Chiavario, V, Torino, 1992, p. 520 ss.; RIGANTI, L’assoluzione per insufficienza di prove nell’itinerario della riforma, in Ind. pen., 1987, p. 169; ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, pp. 122, 129; CONSO, È da rivedere, non da eliminare, l’assoluzione per insufficienza di prove, in Giur. it., IV, 1967, p. 111. (12) Ritiene che il principio del favor rei debba governare il metodo di diversificazione tra dolo eventuale e colpa cosciente nell’indagine probatoria diretta a verificare la loro sussistenza MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983, pp. 286-
— 825 — 2.1. Prova del dolo e prassi applicativa: la rilevanza del rischio nell’individuazione delle ‘‘massime di esperienza’’. — Primo passo e di rilevante importanza della nostra analisi è senz’altro la disamina della tematica della prova del dolo. Essendo infatti il dolo caratterizzato da una natura prevalentemente psicologica (13), diviene allorquando difficoltoso, se non proprio impossibile, provare, con i mezzi messi a disposizione delle parti nel processo penale, i complessi meccanismi psicologici che caratterizzano la volontà di agire e di realizzare il fatto di reato (14). Di qui si spiega l’individuazione di ‘‘scorciatoie probatorie’’ che risultano senz’altro legittime allorché consistono nella teorizzazione di ‘‘indici di esperienza’’ (15) idonei ad inferire con grado di rilevante certezza, sia pur sintomaticamente, l’esistenza del dolo. Occorre però precisare come il limine rispetto ad inammissibili processi di presunzione sia molto labile. Con tali affermazioni si vuole dirigere lo sguardo del lettore verso la non nuova pratica, invalsa soprattutto nella prassi di qualche decennio fa, consistente nel ritenere provato il dolo (nella specie eventuale), allorché la complessità del caso concreto o, al contrario, la estrema semplicità dello stesso inducano a ritenerlo sussistente in base a meri passaggi logici di tipo squisitamente presuntivo. Sembrerebbe allora dedursi che, se il dolo lo si ritiene sussistente (provato) nel caso concreto, nella forma eventuale, pur quando non si sia raggiunta la piena prova — lo stesso vale anche se ci si limiti alla prova di una mera rappresentazione o alla individuazione di un dovere di rappresentazione, allorché, in base alle modalità della condotta o alla consistenza della situazione in cui essa si è sviluppata, il soggetto agente non può non essersi rappresentato la realizzazione dell’evento — (16) tale figura viene allora ad 287. Afferma in particolare l’A. che una fondamentale esigenza di garanzia ed una corretta applicazione del favor rei, dovrebbero far confluire, in mancanza di validi criteri distintivi, le ipotesi sospette di dolo eventuale nell’ambito della colpa cosciente. Tale soluzione si spiega in base all’osservazione che solo operando in tal modo si riesce a salvaguardare le importanti prerogative che all’evento competono sul versante soggettivo, e che un indiscriminato ampliamento del dolo eventuale finirebbe col frustrare. Nello stesso senso sembra porsi anche DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Padova, 1996, p. 330, il quale parla di onere di una scelta più favorevole nei casi soggettivamente dubbi. (13) In tal senso cfr. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’ ‘‘imputazione oggettiva dell’evento’’ e sua trasfigurazione nella colpevolezza, in questa Rivista, 1991, p. 3 ss. (14) Non per nulla BRICOLA, nel suo acuto e fondamentale saggio monografico in tema di dolo — Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di oggetto e accertamento del dolo, Milano, 1960, spec. p. 4 ss. — illustrando la prassi giurisprudenziale in tema di prova del dolo designa quest’ultima come una ‘‘probatio diabolica’’. (15) È comune in dottrina e in giurisprudenza — v., tra gli altri, GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. dir., Milano, 1964, XIII, p. 802; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 1995, p. 326; EUSEBI, Il dolo come volontà, Bologna, 1993, p. 116 ss.; GROSSO, voce Dolo, in Enc. giur. Treccani, XII, Roma, 1989, p. 10; PROSDOCIMI, voce Reato doloso, in Dig. Disc. pen., XI, Torino, 1996, p. 258 ss.; per la giurisprudenza si veda, oltre a TASSI, Il dolo, Padova, 1992, p. 145 ss., nonché DE SIMONE, L’elemento soggettivo del reato: il dolo, in BRICOLA ZAGREBELSKY, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Torino, 1996, p. 483 ss. Cass. pen., Sez. I, 24 giugno 1991, in Giust. pen., 1992, II, 134; Cass. pen., Sez. I, 27 novembre 1991, in Cass. pen., 1993, 313 (s.m.); Cass. pen., Sez. I, 18 novembre 1987, ivi, 1989, 1243 (s.m.); Cass. pen., Sez. II, 22 gennaio 1985, in Giust. pen., 1986, II, 31 (s.m.); Cass. pen., Sez. I, 26 gennaio 1985, ivi, 1985, II, 669 (s.m.). — l’opinione secondo cui per superare le difficoltà di accertamento di una realtà interiore qual è, appunto, il dolo occorre fare ricorso a c.d. ‘‘regole di esperienza’’. In altre parole, riprendendo le chiare parole di un illustre Autore (GALLO, voce Dolo, cit., p. 751) che molto efficacemente ha spiegato il meccanismo induttivo attraverso cui il giudice dovrebbe desumere la sussistenza di coefficienti psicologici partendo da dati esteriori e facilmente riscontrabili, può dirsi che ‘‘per determinare, insomma, se una persona abbia effettivamente voluto o previsto un possibile risultato della sua azione, sarà sempre necessario affidarsi ad una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali, ove non sussistano circostanze che lascino ragionevolmente supporre una deviazione dal modo con cui di solito vanno le cose materiali ed umane, è sufficiente per ritenere dimostrato il fatto psicologico da provare’’. Ciò sta a significare che l’esistenza della volizione o della rappresentazione può desumersi soltanto da circostanze esteriori che, normalmente, costituiscono l’espressione, o accompagnano o, comunque, sono collegate a quegli stati psicologici. (16) Critica rispetto a tale pratica giurisprudenziale tendente a ritenere provato il dolo in base al discostarsi della condotta rispetto alla sfera del doveroso è la posizione di EUSEBI, In tema di accerta-
— 826 — incentrarsi in un autentico dolus in re ipsa (17). Questa ultima conclusione viene ancor più avvalorata allorché, come si cercherà di dimostrare in prosieguo di analisi, si ponga mente all’assenza nel dolo eventuale di un autentico contenuto volitivo. Sembra quasi che la forma eventuale rappresenti un estremo tentativo di considerare doloso ciò che non si riesce a provare come tale. Tali considerazioni sembrano ancor più chiare allorché il processo probatorio di individuazione del dolo si innesta in un contesto ab origine illecito (18): quasi a voler affermare che nei casi in cui il reo si sia effettivamente rappresentato l’esito offensivo nello svolgimento della condotta delittuosa, sarà difficilmente prospettabile la mancata configurazione di un rimprovero a titolo di dolo eventuale (19). Parrebbe allora che entri in gioco ai fini della prova del dolo non l’atteggiamento con cui il soggetto si è posto rispetto al risultato quanto l’oggettiva riconoscibilità della concreta situazione di pericolo esistente, questo perché l’elevato livello di rischio nonché la frequente impossibilità di predisporre in ambito delittuoso sistemi di neutralizzazione del decorso causale lesivo non possono fondare una seria fiducia del soggetto in ordine al non verificarsi dell’evento lesivo (20). Dalle premesse qui sopra evidenziate sorge spontaneo l’interrogativo su quale sia il ruolo che il rischio assume nel processo logico-induttivo attraverso cui il giudice, in base all’id quod plerumque accidit, ritiene l’esistenza del dolo. Deve infatti notarsi come sia invalsa in giurisprudenza una tendenza diretta a dare la massima estensione al dolo, appunto attraverso la forma eventuale, deducendone la prova dalla consistenza del rischio in cui o con cui la condotta del reo interagisce (21). Il motivo per cui il fattore del rischio assume notevole se non esclusiva rilevanza nella prova del dolo eventuale deriva dalla considerazione che se soltanto dei dati esteriori possono dirci, attraverso il meccanismo delle ‘‘massime di esperienza’’, della sussistenza di coefficienti psichici quali la volontà e la rappresentazione, tali dati non possono che incentrarsi nelle modalità della condotta, nelle circostanze che la precedono, accompagnano o la seguono. Se però il dolo, come massima mento del dolo: confusione tra dolo e colpa, in questa Rivista, 1987, p. 1068 ss., il quale chiarisce come tale non corretto modus procedendi rinunciatario di una più attenta ed approfondita analisi dei dati interiori finisca con l’estendere le zone di ambiguità fra dolo e colpa fino a ricomprendere le stesse ipotesi di colpa incosciente e dolo intenzionale. (17) L’uso del termine dolus in re ipsa è qui effettuato in un significato parzialmente analogo a BRICOLA, Dolus, cit., p. 3 ss. L’A. in particolare si riferisce a quelle situazioni probatorie di svalutazione della rilevanza soggettiva dell’elemento psicologico con riferimento alla concezione personalistica della responsabilità penale specie in quei casi in cui la costruzione delle fattispecie denota la presenza di fattispecie soggettivamente orientate: quelle fattispecie, cioè, in cui la consistente univocità soggettiva renderebbe evidente la sussistenza anche della componente psicologica. In questa sede, con il termine dolus in re ipsa si fa più genericamente riferimento ad una qualsiasi pratica elusiva della prova del dolo (quindi anche al caso in cui ci si limiti a provare la semplice rappresentazione) che spesso viene ricavato da componenti di rischio o di pericolosità della condotta o, ancora, dalla direzione illecita in cui essa converge. (18) Esprimono molto chiaramente quello che è il pensiero comune le parole di CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999, p. 131: ‘‘in un contesto ab origine illecito il problema dell’individuazione della linea di confine tra dolo eventuale e colpa con previsione può dirsi, per certi versi, « semplificato »’’. Non può non rilevarsi come tale punto di vista finisce col riproporre l’ottica del versari in re illicita. (19) CANESTRARI, op. e loc. ult. cit. (20) In questa direzione sembra porsi DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, p. 145; ID., Opus illicitum. Tensioni innovatrici e pregiudizi dommatici in materia di delitti qualificati dall’evento, ivi, 1993, p. 1014 ss. (21) Cass. pen., 30 maggio 1980, in Cass. pen. Mass., 1981, 2010; Cass. pen., 25 maggio 1981, in Cass. pen., 1982, 1535; Cass. pen., 24 maggio 1984, in ivi, 1986, p. 467. Sono comunque riscontrabili massime giurisprudenziali in cui traspare la preoccupazione derivante da un eccessivo dilatamento del dolo eventuale: Cass. pen., 11 luglio 1988, in Cass. pen., 1990, 233. In dottrina fa riferimento a tale prassi ‘‘fortemente influenzata dalla prevalenza di assorbenti profili rappresentativi e di rischio nella ricostruzione del dolo’’, DONINI, Teoria, cit., p. 319, nt. 64. Per un’analisi più approfondita della stessa v. DE SIMONE, L’elemento soggettivo del reato: il dolo, cit., p. 337 ss.; PULITANÒ, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1999, p. 163 ss.
— 827 — espressione della violazione del comando penale, non può che consistere nella piena e completa partecipazione soggettiva del reo alla realizzazione del fatto tipico vietato, come appunto ci denota l’essenziale natura volontaristica di tale forma di colpevolezza, non può allora non rilevarsi la necessità di superare le presunzioni che dall’agire in una situazione di significativo pericolo ‘‘inferiscono grossolanamente l’esistenza di un dolo ‘ex re’ o ‘in re ipsa’, cioè di un dolo presunto nel fatto, in quel fatto pericoloso’’ (22). Si chiarisce in tali termini che ciò che rileva in modo determinante ai fini della prova del dolo eventuale non sia il livello del rischio con cui la condotta del soggetto si estrinseca né, tanto meno, il raffronto ad un soggetto medio posto nella stessa situazione del soggetto agente (23), quanto, piuttosto, l’effettiva percezione di ‘segnali d’allarme’ concretamente capaci di avvertire del possibile accadimento di un determinato risultato (24). Deve però comunque constatarsi come neppure la prova di un’effettiva percezione del rischio sia in grado di chiarire come l’agire del soggetto possa qualificarsi doloso. L’ancoraggio del dolo al concetto di volontà (25) attesta come solo tale termine sia l’unico capace di risolvere i casi dubbi laddove anche la percezione del rischio ‘‘è aspetto ancipite sempre compatibile con la colpa’’ (26). Se ciò è vero — non può d’altronde che essere così stante la chiara ed univoca opzione legislativa —, diviene allora fondamentale nella prova del dolo il rapportarsi dell’elemento volontaristico al parametro del rischio in cui la condotta del soggetto si inserisce. In questa prospettiva appaiono sembrano inquadrarsi quei tentativi, operati soprattutto dalla dottrina d’oltralpe e che hanno trovato larghi consensi nella dottrina italiana, consistenti nel ricondurre il reato doloso ad un livello di rischio comune all’agire colposo cui si accompagna la volizione del risultato (27). Essi, infatti, non si soffermano alla mera consistenza esteriore del rischio chiarendo invece come è la volontà ciò che rende doloso un reato che altrimenti è e resta colposo. Che la dimensione esterna del rischio assume notevole importanza nella prova del dolo deve comunque ammettersi specie se si tiene presente come ciò che (22) In tal senso DONINI, Teoria, cit., p. 319. Chiarisce l’A. come ciò che debba interessare il giudice non è la mera prova del coefficiente di rischiosità della condotta quanto la ‘‘prova certa della percezione del rischio da parte del soggetto agente’’. (23) Il risultato è quello di una tendenziale assimilazione tra il dolo eventuale e la colpa incosciente quasi a volersi provare in termini pur sempre ipotetici una situazione psicologica in effetti assente nel soggetto al momento dell’azione. Ciò sta a significare che non possono che ritenersi illegittimi quei tentativi, invalsi soprattutto in tema di diritto penale dell’economia — per i cui riferimenti v. CANESTRARI, Dolo eventuale colpa cosciente, cit., p. 261 ss. —, attraverso cui la giurisprudenza ha ritenuto di desumere il dolo eventuale dal modello formale dei parametri di diligenza. (24) STELLA-PULITANÒ, La responsabilità penale dei sindaci di società per azioni, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1990, p. 570 ss. Nello stesso senso, da ultimo, CANESTRARI, op. e loc. ult. cit. (25) Per un recente tentativo diretto a rivilitalizzare l’elemento volontaristico quale effettivo distinguo del dolo rispetto alla colpa v. EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., passim. (26) DONINI, Teoria, cit., p. 329. (27) Questo tipo di prospettiva tende ad affermare che il dolo finirebbe per inglobare la colpa con riferimento al piano oggettivo del rischio — requisito quest’ultimo che unificherebbe l’azione dolosa e quella colposa —. Rispetto a tale base comune diverrebbe allora elemento distintivo fondamentale la volizione del risultato. In tale ordine d’idee la sussistenza del dolo può desumersi allorché, oltre ad elementi tipici caratterizzanti — appunto la volontà — siano presenti rispetto al medesimo fatto gli estremi della colpa. Siffatta impostazione si propone pertanto di esaltare la comunanza dei requisiti oggettivi di imputazione dei reati dolosi e colposi, demandando l’autentico discrimen tra dolo e colpa alla sfera volitiva dell’agente. In argomento v. JAKOBS, Strafrecht, AT. Die Grundlagen und die Zurechnungslehre, Berlin-New York, 1991, 2a ed., pp. 7-39 ss.; FRISH, Vorsatz und Risiko, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, p. 119 ss.; nella letteratura italiana v. DONINI, Lettura sistematica delle teorie dell’imputazione oggettiva dell’evento, in questa Rivista, 1989, p. 1127; ID., Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, pp. 74 ss., 350 ss.; CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., p. 90 ss. Si chiarisce da parte della dottrina che tale impostazione non si sovrappone alla c.d. ‘‘caccia alla colpa nel dolo’’ (per cui v., per tutti, MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, cit., 1991, p. 3 ss.) in quanto ciò che accomuna l’esecuzione dolosa a quella colposa non è la trasgressione di una regola cautelare, ma la concreta ‘‘rischiosità’’ della condotta.
— 828 — distingue il dolo dalla colpa non sia solo un dato interiore ma lo stesso svilupparsi e concretizzarsi del rischio (28); la volontà, cioè non assume una mera rilevanza interiore ma si pone quale base dell’agire illecito del soggetto finendo per conformare l’esteriorità della condotta (29). In effetti la situazione di malessere che caratterizza la prova del dolo e che con diversi espedienti probatori si cerca di superare nell’ostinato tentativo di provare il dolo laddove manca è dovuta, evidentemente, a difficoltà che si sviluppano ben più a monte. Se infatti ancor evanescente e magmatico è il limine esterno tra imputazione dolosa e imputazione colposa già a livello teorico, come può pretendersi di risolvere la questione in un campo limitato, qual è appunto il processo, per ciò stesso incapace di sondare i momenti soggettivi che caratterizzano l’agire umano? Se invece si riuscisse ad illuminare la vera essenza del dolo diverrebbe certamente meno complicato provarne la sussistenza. Occorre a questo punto effettuare alcuni chiarimenti: ogni tentativo diretto a provare un coefficiente volontaristico nell’agire per dolo eventuale non può non denotare un deficit di prospettiva atteso che ciò che realmente caratterizza il dolo eventuale è la consapevolezza dell’agire in un contesto pericoloso i cui coefficienti di rischiosità sono in parte presenti al soggetto. Mancando un’intenzionalità nel dirigere l’evolversi del rischio nel contesto dato, o la consapevolezza che i risultati con alta probabilità o con certezza si produrranno, al soggetto il risultato viene imputato non perché egli era in grado di dirigere e determinare l’evolversi causale, né tanto meno non può non muoversi un rimprovero per colpa dal momento che egli, resosi conto della concreta rischiosità del proprio agire, non si è determinato diversamente: in altre parole ciò nonostante ha agito formula questa che, molto chiaramente, l’art. 61 n. 3 ha riferito alla colpa aggravata non, invece, al dolo. Se al giudice interessa provare il ‘‘dolo eventuale’’ quale forma di dolo i risultati cui perverrà non potranno che ridursi a mere presunzioni non potendo pretendersi di provare un quid in realtà assente. Ciò, d’altronde, non significa neppure convalidare quella prassi applicativa che al contrario, in una sorta di ‘‘ostinata rassegnazione’’, tende a ritenere la sussistenza del dolo eventuale in base all’analisi (28) In tali termini si scongiura da parte della dottrina — v. DONINI, Illecito, cit., p. 312 ss.; ID. Teoria, cit., p. 255 ss. — il pericolo di ascrivere all’agente doloso un trattamento più rigoroso esclusivamente in ragione del diverso atteggiamento interiore. (29) È soprattutto nella dottrina d’oltralpe che risulta dominante l’indirizzo secondo cui il dolo non si riduce ad una mera manifestazione della colpevolezza ma assume un ruolo determinante a livello di fatto tipico. Si segnalano, fra i tanti, JESHECK, Lehrbuch des Strafrechts, AT, 4a ed., Berlin, 1989, p. 218 ss.; JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 307 ss.; HIRSCH, Der Streit um Handlungs- und Unrechtslehre, insbesondere im Spiegel der ZStW, II, in ZStW, 1982, p. 257 ss.; GALLAS, Sullo stato attuale della teoria del reato, in Scuola pos., 1963, p. 35 ss.; WESSELS, Strafrecht, AT, XXIV, Heidelberg, 1994, p. 142 ss. Tale punto di vista è attualmente condiviso da ampi strati della nostra dottrina come dimostra l’ampia diffusione a livello di manualistica di una sistematica del reato che vede la trattazione del fatto tipico in base alla c.d. ‘‘costruzione separata dei reati’’. Per tale posizione si veda: MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’. Critica ad un dogma, Milano, 1971, p. 153 ss.; ID., Non c’è dolo senza colpa, cit., p. 32 ss.; DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., p. 547 ss.; ID., Teoria, cit., p. 292 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pt. gen., p. 183. Sembra inscriversi in questo orientamento una recente posizione (CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., spec. 183 ss.) secondo cui il limine tra dolus eventualis e colpa con previsione debba avvenire anche sul piano oggettivo del rischio in tal modo evitando di affidarsi esclusivamente all’esegesi o parafrasi del concetto di ‘‘accettazione del rischio’’. Contrari al riconoscimento di una doppia dimensione del dolo v. PROSDOCIMI, Reato doloso, cit., p. 237; PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli ‘‘elementi finalistici’’ delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 578 ss. A tali orientamenti non può non farsi presente il pericolo che con essi tendenzialmente si accompagnerebbe (evidenzia tale rischio EUSEBI, Il dolo, cit., p. 4 ss.): ‘‘la (pura) riconduzione del dolo alla sfera del fatto tipico ne implicherebbe una tendenziale ‘oggettivizzazione’, in quanto il suo contenuto finirebbe per essere definito, in una prospettiva tutta incentrata sulla tutela del bene giuridico’’. Ciò allora ci dice che è essenzialmente da un punto di vista psicologico che vanno ricercati i caratteri distintivi del dolo senza con questo volerne svalutare una sia pur minima dimensione ‘‘tipica’’.
— 829 — del contesto illecito in cui la condotta dell’agente si inserisce, o in base all’analisi delle caratteristiche altamente pericolose della condotta eludendo ogni elemento che possa dirci del momento soggettivo che ha accompagnato l’agire. Tale prassi sembra in parte rifarsi a quei tentativi, invalsi soprattutto nella dottrina tedesca, intesi a distinguere la dimensione dolosa da quella colposa in base a criteri di tipo tendenzialmente oggettivo (30), quasi a voler ammettere la propria sfiducia nei confronti degli strumenti processualistici allorché occorre provare le componenti psicologiche che governano l’agire umano doloso. Questo per ribadire che il tipo di rischio preso in considerazione (se cioè esso sia doloso o colposo) non può non influire sul diverso atteggiamento soggettivo dell’agente. Quasi a voler punire in maniera più rigorosa il soggetto che si è determinato ad agire in un contesto illecito o che non sia stato in grado di mantenere sotto il suo controllo il divenire causale o, ancora, che non possa non aver fatta propria la produzione dell’evento in base a criteri di normalità. Se tali criteri di carattere oggettivo sono certamente dotati di un’innegabile validità sociologica, riuscendo essi a descrivere molto bene i diversi contesti in cui il soggetto si muove, alto è il rischio di giungere ad inammissibili presunzioni di volontà (31) radicantesi sul dato che la prova del contesto materiale di base in cui si innesta l’agire del reo non può che dimostrare la sussistenza di un atteggiamento psicologico. Si spiega in tal modo perché i tentativi di definizione del dolo eventuale, a ragione, si sono sviluppati soprattutto sul versante soggettivo in un perenne sforzo di individuazione di un momento volitivo anche in tale figura (32). 2.2. Le perenni difficoltà di inquadramento del dolo eventuale nell’ambito dell’art. 43 c.p.: una sostanziale svalutazione del momento volontaristico. — Il codice penale italiano ha decisamente optato per una concezione del dolo come (30) Le teorie che, su diverse prospettive, cercano di distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente sotto il profilo obiettivo della fattispecie sono riconducibili a vari filoni. In una dimensione prettamente obiettiva si pone HERZBERG, Die Abgrenzung von Vorsatz und bewusster Fahrlässigkeit - ein Problem des objektiven Tatbestandes, in Jus, 1986, p. 249 ss.; ID., Das Wollen beim Vorsatzdelikt und dessen Unterscheidung vom bewussten fahrlässigen Verhalten, in JZ, 1988, p. 573; ID., AIDS: Herausforderung und Prüfstein des Strafrechts, ivi, 1989, p. 470 ss. Detto Autore in particolare attribuisce significato decisivo alla qualificazione normativa della situazione pericolosa: si trascura completamente il dato psicologico. È allora la fisionomia del rischio che, a parere dell’illustre A., determina la scelta a favore del dolo eventuale o della colpa cosciente, cioè il carattere ‘‘schermato’’ o meno dello stesso. Nello stesso senso si pone anche PUPPE, Der Vorstellungsinhalt des dolus eventualis, in ZStW, 1991, p. 1 ss.; ID., Vorsatz und Zurechnung, Heidelberg, 1992, p. 32 ss., la quale tende ad enucleare l’intrinseca natura del rischio doloso e colposo senza però dare rilievo a fattori esterni che si frappongono al rischio stesso. Altro filone si pone in una prospettiva parzialmente diversa — FRISCH, Vorsatz und Risiko, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, p. 341; ID., Offene Fragen des dolus eventualis, in NStZ, 1991, p. 23 ss. —; individuando la qualità dolosa del reato allorché il soggetto attribuisca ‘‘alla sua azione una dimensione di rischio che, secondo la valutazione dell’ordinamento giuridico, è da qualificarsi come non più tollerata creazione del rischio nei confronti del bene giuridico. Per un’analisi critica di tali posizioni si veda CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., pp. 62 ss., 118 ss., 126 ss., 201; nonché EUSEBI, Il dolo, cit., pp. 71 ss., 86 ss. (31) Chiarisce molto bene EUSEBI, Il dolo, cit., p. 192, che individuare condotte espressive della tipicità dell’agire con dolo eventuale implica seri rischi di scivolamento ‘‘sulla china di inespresse constatazioni in re ipsa del dolo’’. Si finisce, insomma, per assimilare ‘‘sul gradino più grave il criterio di imputazione soggettiva riferibile ad agenti con atteggiamenti psicologici in realtà molto diversi rispetto all’evento’’ (p. 103). (32) In tal senso v. CANESTRARI, op. cit., p. 19: ‘‘per individuare il dolo eventuale occorre un accertamento di tipo soggettivo, dove non si può prescindere da una valutazione di sussistenza del momento volitivo’’. Nello stesso senso v. DONINI, Teoria, cit., p. 322, il quale occupandosi della tematica del dolo eventuale, descrivendo lo stato della dottrina tradizionale chiarisce come i tratti distintivi del dolo eventuale sono stati effettuati in termini essenzialmente soggettivistici.
— 830 — volontà e rappresentazione (33). Ed infatti a rigore incentra l’essenza di tale forma di colpevolezza in un atteggiamento psichico, appunto la volontà, che descrive la massima partecipazione soggettiva al fatto. La conferma di ciò si ricava, d’altronde, in negativo dalla stessa definizione di colpa (34) dove il rimprovero per colpa si basa sulla violazione di quei canoni di diligenza predisposti per mantenere al di sotto di un livello di tollerabilità il rischio insito nell’agire umano (35). Se infatti la previsione dell’evento è stato psicologico compatibile con un rimprovero per colpa (36), ciò significa che per poter muovere un rimprovero per dolo occorre un quid pluris. Tale elemento ulteriore è stato individuato nella ‘‘volizione’’. Si tratta in effetti di una chiara opzione con cui il legislatore del ’30 ha voluto, ai fini della sussistenza della forma più grave di colpevolezza, la piena partecipazione soggettiva al fatto. Lo dimostra d’altronde la circostanza che oggetto del dolo non è la semplice condotta (37), né tantomeno il rischio di cagionare l’evento, quanto piuttosto l’evento cioè il maggior indice di valore in rapporto al bene giuridico (38). Non meraviglia affatto allora che è il dolo intenzionale quella forma base su (33) Basti qui ricordare quanto dice DONINI, Teoria, cit., pp. 318-319: ‘‘l’effettiva esistenza di una ‘volizione dell’evento’, invero, è rappresentazione concettuale che risponde perfettamente al senso comune’’. (34) Sottolinea FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, pp. 117, 118, come la definizione ‘‘negativa’’ della colpa presente nel primo inciso dell’art. 43, 3o comma, c.p. ‘‘mira a precisare la posizione di quest’ultima rispetto al dolo’’. (35) Nella dottrina che si è occupata dei rapporti tra rischio e responsabilità colposa molto diffusa è l’opinione secondo cui la funzione delle norme cautelari è quella di determinare le modalità di condotta cui deve attenersi l’agente allo scopo di evitare che l’agire concretizzi in lesione il rischio in esso insito. Cfr., in tal senso, MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 216; MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 190 ss.; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I, La fattispecie, Padova, 1993, p. 187; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 353; PAGLIARO, Fatto, condotta illecita e responsabilità obiettiva nella teoria del reato, in questa Rivista, 1988, p. 623; FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 467 ss., spec. p. 469. (36) Il problema naturalmente si pone solo per la previsione del possibile realizzarsi del risultato. Se invece vi è una previsione in termini di certezza o di alta probabilità un problema di sussistenza del dolo neppure si pone. In tale situazione infatti è ben presente quel momento di intensa partecipazione soggettiva cui fa riferimento l’art. 43 c.p. pur se nel soggetto manca l’intenzione di perseguire il risultato. In questi termini si afferma — DE MARSICO, Coscienza, cit., p. 50 — che è voluto il risultato che è preso di mira, ma è altrettanto voluto anche quello non preso di mira, ma previsto come certo. Esso rappresenta, in altre parole, un’estensione dello stesso dolo intenzionale (EUSEBI, Il dolo, cit., p. 56). (37) È decisamente datata — risalente in particolare alla teoria della rappresentazione di cui più grande assertore era FRANK, Vorstellung und Wille in der modernen Doluslehre, in ZStW, 1890, p. 169 ss. — l’opinione secondo cui solo la condotta può essere oggetto di reale volontà: le conseguenze ulteriori sarebbero oggetto soltanto di rappresentazione allo stesso modo delle circostanze preesistenti e concomitanti alla condotta. In arg. v. DE MARSICO, Coscienza e volontà, cit., p. 15 ss.; PECORARO-ALBANI, Il dolo, Napoli, 1955, p. 130 ss. Sembra porsi su di una direzione analoga GALLO, Dolo, cit., p. 755 ss., laddove afferma che solo la condotta può essere oggetto di una autentica volizione nel suo contenuto più strettamente psicologico. In realtà l’Autore arricchisce il contenuto dell’oggetto del dolo con altri elementi di valore (coscienza dell’offesa) su cui però è richiesto il focalizzarsi del solo momento rappresentativo. (38) Se oggetto del dolo debba essere il semplice evento naturalistico o se invece esso debba coincidere con l’evento in senso giuridico è questione che tende ormai a sopirsi specie a seguito della sentenza 364/88 con cui la Corte costituzionale sembra aver risolto la questione nel primo senso allorché ha statuito che ogni falsa rappresentazione di un momento di valore rappresentato nella norma penale è indifferente ai fini della sussistenza del dolo salvo che sia intervenuto un errore invincibile in base a criteri di tipo soggettivo o quanto meno misto. Ben chiaro è come la soluzione prospettata dalla Corte imponga un obbligo di competenza qualificata specie in quei settori in cui sono elementi normativi a qualificare l’illiceità del fatto sanzionando la violazione di un tale obbligo, pur se dovuto a negligenza, con la fictio di una qualificazione dolosa — nello stesso senso v., da ultimo, DONINI, Dolo e prevenzione generale nei reati economici. Un contributo all’analisi dei rapporti fra errore di diritto e analogia nei reati in un contesto illecito di base, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 6 . Per l’A. sembra quasi che il singolo divenga ‘‘strumento per l’implementazione dei precetti giuridici nei confronti della generalità’’ —.
— 831 — cui debba modellarsi ogni sua manifestazione (39). Certo questo non significa punire a titolo di dolo esclusivamente quelle manifestazioni criminose connotate in termini di intenzionalità: ciò significherebbe la completa paralisi del sistema penale punitivo con conseguente frustrazione di fondamentali esigenze di prevenzione. Neppure, però, è legittimo svalutare il momento volitivo del dolo quasi ad affermare che esso rappresenti un mero requisito ‘‘ad pompam’’ (40). La definizione di cui all’art. 43 c.p. deve avere un autentico significato di disciplina laddove impone che caratterizzante del dolo è appunto la volizione. Se invece si prescinde da tale elemento si violano i connotati tipici della fattispecie con palese violazione dell’art. 25 Cost., norma quest’ultima, che si riferisce non solo alle singole fattispecie penali ma anche alla parte generale del codice. L’esattezza di tali affermazioni trova d’altronde conferma nella diversa situazione normativa che caratterizza il Codice Penale Tedesco. In effetti nello Strafgesetzbuch (41) manca una puntuale definizione di dolo e colpa, potendola semmai ricavare dal § 15, dove si afferma l’eccezionalità della responsabilità colposa rispetto a quella dolosa, e § 16, dove è definito il concetto di errore su circostanze di fatto (Irrtum über Tatumstände) (42). Questo vuoto legislativo deve spiegarsi, molto probabilmente, in base alla circostanza che il legislatore tedesco ha preferito non cristallizzare in una formula rigida gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza (43). Mancando — è più che evidente — nella sistematica generale del codice un qualche riferimento all’elemento volontaristico nella determinazione della nozione di dolo, non stupisce che è proprio in tale contesto che si è sviluppata una corrente di pensiero tendente a ridurre la forma più grave di colpevolezza alla coscienza del fatto (Tatbewußtsein) ovvero nella consapevolezza da parte dell’autore di tutti i momenti che nel loro concatenarsi ed interagire realizzano l’offesa al bene giuridico o ancora alla coscienza dell’illiceità o che il fatto non trovi approvazione per la comunità: in altre parole al solo momento intellettivo (44). In effetti (39) Individua il dolo intenzionale quale forma base del dolo EUSEBI, Il dolo, cit., p. 176. Ritiene infatti l’A. che l’individuazione di una forma del dolo, quindi anche quella eventuale, debba effettuarsi su parametri assai rigorosi e strettamente riferiti al modello dell’intenzionalità. (40) Si afferma da parte di più autori che la definizione di cui all’art. 43 c.p. rappresenti una scelta di compromesso con cui si cercò di conciliare le due teorie che allora si contendevano il campo: la teoria della rappresentazione e la teoria della volontà (v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pt. gen., p. 171). E in questo sembra fondarsi l’idea su cui poi costruire interpretazioni dell’elemento soggettivo poco vincolanti (cfr. GROSSO, Dolo, cit., p. 7). (41) Per l’esame del testo normativo del codice si v. DE SIMONE, FOFFANI, FORNASARI, SFORZI (traduzione di), Il codice penale tedesco, in Casi, fonti e studi per il diritto penale, raccolta a cura di Vinciguerra, Padova, 1994. (42) In assenza quindi di un riferimento diretto, la dottrina è indotta a dedurre a contrario i requisiti del dolo proprio da quelle disposizioni la cui ricorrenza hanno come effetto quello di escludere il dolo. Di qui la tendenza — evidenziata da FORNASARI, Principi di diritto penale tedesco, in Casi, cit., Padova, 1993, p. 179 — a vedere nell’errore sul fatto il necessario pendant concettuale del dolo e la diffusa consuetudine manualistica a trattare i due istituti nel medesimo settore. (43) Questa prassi legislativa sembra in pieno accogliere quell’orientamento dottrinale — JESCHECK, La riforma del diritto penale in Germania, in Ind. pen., 1976, p. 415 — secondo cui ‘‘la chiarificazione definitoria di elementi generali del reato non è compito del legislatore bensì della scienza, poiché brevi paragrafi della legge non possono regolare la complicata materia, e, secondo tutte le esperienze, suscitano ulteriori problemi, piuttosto che risolverli’’. Sembra quasi che il mito della strutture ontologiche incomba sull’attività del legislatore tedesco e lo orienti verso ‘‘la natura delle cose’’ anziché verso dogmi precostituiti (JESCHECK, Die weltanschaulichen und politischen Grundlagen des Entwurf eines Strafgesetzbuch, in ZStW, 1963, p. 2). Più in generale si veda FRISCH, Le definizioni legali nel diritto penale tedesco, in AA.VV., Omnis definitio in iure periculosa?, a cura di A. Cadoppi, Padova, 1996, p. 191 ss. (44) In tal senso si v. FRISCH, Vorsatz und Risiko, cit., p. 255 ss.; HERZBERG, Die Abgrenzung, cit., p. 249 ss.; KINDHÄUSER, Der Vorsatz als Zurechnungskriterium, in ZStW, 1984, p. 1 ss.; HRUSCHKA, Stra-
— 832 — ci si trova di fronte ad una visione riduttiva del dolo che sconta una ‘‘strutturale problematicità di accertamento relativa a quanto effettivamente l’agente si raffiguri ‘in cuor suo’ e finisce dunque, quasi automaticamente, per essere valutato secondo criteri di scarsa individualizzazione del giudizio’’ (45): si tratta però, è bene chiarirlo, di una prospettiva che non va al di là dei margini legali delle definizioni normative dal momento che essa si muove pur sempre nei ‘‘generici’’ confini di significanza dettati dal legislatore tedesco (46). Al contrario nel nostro ordinamento ogni tentativo di svalutazione del momento volitivo nella individuazione del concetto di dolo non può che risultare arbitrario. In effetti una tale soluzione non è stata neppure prospettata dal momento che è chiaro come essa violerebbe in modo esplicito il dettato costituzionale (47). Il problema è invece ben più complesso di quanto possa apparire ictu oculi ed è strettamente connesso all’individuazione del margine minimo del dolo oltre il quale ogni agire illecito non può essere rimproverato se non a titolo di colpa. Se infatti la mescolanza tra fatto soggettivo e prova è talmente omogenea da risultare inscindibile (48) i problemi di accertamento connessi alla natura psicologica del dolo determinano difficoltà in ordine alla stessa comprensione dell’esatta dimensione del dolo. Risultato ne è la teorizzazione di una forma del dolo (quella eventuale o indiretta) che sconta la sua incapacità di essere sussunta nella definizione del dolo individuata con precisione nell’art. 43 c.p. La situazione si complica ultefrecht nach logisch-analytischer Methode, II Aufl., 1987, p. 434 ss, il quale ritiene che rappresentazione e volontà sarebbero concetti necessariamente coincidenti. Per un’analisi critica di tale orientamento v. EUSEBI, Il dolo, cit., p. 61 ss. (45) In tal senso EUSEBI, op. ult. cit., p. 78. Deve precisarsi che l’opinione dominante in Germania è nel senso che il dolo consiste nella ‘‘decisione contro il bene giuridico’’. Per tale punto di vista si veda, per tutti, HASSEMER, Caratteristiche del dolo, trad. it., in Ind. pen., 1991, p. 488 ss. (46) Mancando una qualche direttiva in ordine all’individuazione dell’elemento psicologico del reato potrebbe tutt’al più porsi un diverso problema di tassatività. (47) Sembra ridurre al solo momento rappresentativo la nozione di dolo PIOLETTI, Ridefinire colpa e dolo?, in Ind. pen., p. 438 ss, e, quivi, p. 448 spec. nt. 27 (pubblicato anche in AA.VV., Omnis definitio, cit., p. 467 ss.), nel momento in cui si afferma, in tema di disamina della definizione di colpa ex art. 43, 3o comma, c.p., che ove ‘‘la rappresentazione — la ‘coscienza’ — si estende fino a investire tutto il fatto tipico (e, qualora in esso sia compreso un evento, l’evento) non si ha più colpa ma dolo’’. A conferma di ciò si sostiene che la presenza del concetto di volontà accanto a quello di rappresentazione è da ritenersi ‘‘più un omaggio dovuto ad una risalente formula definitoria che come espressione fornita di autonoma ‘forza’ normativa’’. Seppur tale soluzione risolverebbe in maniera definitiva ogni problema di distinzione tra dolo e colpa e con molta facilità permetterebbe di sostenere la riconducibilità del dolo eventuale alla nozione di dolo, essa presenta una profonda incongruenza rispetto al dato normativo rispetto al quale si pone in aperto contrasto. Se infatti con tali affermazioni ci si riferisce al dolo diretto dove, in base alla opinione tradizionale, vi è una preminenza del momento rappresentativo occorre obiettare che tale forma di dolo è pur sempre caratterizzata da un’intensa partecipazione psichica del soggetto rispetto al fatto che sola giustifica un maggior rimprovero a titolo di dolo ed in quanto compendiata nel concetto di volizione; se invece ci si riferisce ad una rappresentazione in termini di bassa probabilità o mera possibilità occorre allora ricordare che mancando un momento decisionale in ordine alla realizzazione del fatto non sarà configurabile una responsabilità dolosa bensì la più blanda responsabilità colposa, tutt’al più aggravata ex art. 63, n. 3, c.p. (48) In tal senso si veda DONINI, Teoria, cit., p. 325. Ritiene infatti l’Autore che le difficoltà emergenti in ambito processuale non possono non ripercuotersi anche nella dimensione sostanziale. Non possiamo che essere concordi rispetto a un tale punto di vista specie se si tiene presente quanto ha statuito la Corte costituzionale nella sentenza 8 giugno 1981, n. 96, in tema di plagio, — in Giur. cost., 1981, p. 806 ss., con nota di GRASSO, Controllo sulla rispondenza alla realtà empirica delle previsioni legali di reato —: la norma penale (quindi anche quella in tema di elemento soggettivo) deve fare riferimento a fenomeni la cui realizzazione possa essere accertata in base a criteri verificabili. Si tratta di quello che recentemente autorevole dottrina ha specificato come ‘‘principio di determinatezza’’ cioè quel principio che concentra in se ‘‘l’esigenza che le norme penali descrivano fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo attraverso i criteri messi a disposizione dalla scienza e dall’esperienza’’ (MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, Le fonti. Il reato: nozione struttura e sistematica, 2a ed., Milano, 1999, p. 99 ss.).
— 833 — riormente allorché si individua in tale ‘‘eccezionale’’ forma del dolo la base su cui poi ricostruire le altre e ben più pregnanti forme di dolo (49). Che la volontà sia richiesta sempre, anche se talvolta una connotazione esterna e sociale dell’azione dolosa possa mancare, è di chiara evidenza. Pertanto quei coefficienti psicologici che difettano di un autentico momento volitivo o, ancora, quelle condotte all’apparenza dolose su cui il giudice è chiamato a giudicare ma che di tale carattere difetta una piena prova — e in questo non può non condividersi il ragionamento con cui la decisione in commento ha escluso la sussistenza dell’omicidio volontario — non possono ritenersi dolo potendo tutt’al più, sempre che risulti la violazione di regole di diligenza, qualificarsi come colpa. Se ormai datati sono i tentativi di individuazione della nozione di dolo eventuale incentrandola sul solo momento rappresentativo (50) non sono mancati gli sforzi di ricercare un momento volitivo anche in tale forma di dolo. Si è parlato così di indifferenza (51), di speranza, di desiderio, di fiducia (52). Si parla ancora di accettazione del rischio di cagionare l’evento (53). Pur se ci si muove in un campo di carattere soggettivo — si è cercato infatti di individuare nel dolo eventuale un surplus di carattere psicologico che andrebbe ad aggiungersi alla semplice rappresentazione connotando in termini di divergenza tale figura dalla colpa cosciente — tali tentativi finiscono pur sempre col negare (49) Tale è, ad es., la prospettiva di DE FRANCESCO, Dolo eventuale, cit., p. 149, secondo cui il dolo eventuale rappresenta la figura base dell’imputazione dolosa in quanto in esso sono presenti i coefficienti del dolo nella forma essenziale. Contra v. BRICOLA, Dolus, cit., p. 27, nt. 45; sia inoltre consentito il rinvio a FORTE, Ai confini, cit., p. 241. (50) Per approfondimenti v. CANESTRARI, Dolo eventuale, cit. p. 33 ss. (51) V. ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, Berlin, 1930, p. 233 ss. (52) Si veda in argomento, VON HIPPEL — Die Grenze von Vorsatz und Fahrlässigkeit, 1903, p. 498 ss. — il quale ritiene che vi è dolo eventuale se l’agente preferisce la realizzazione dell’evento alla rinunzia del perseguimento del proprio interesse; mentre vi è colpa cosciente quando la speranza del non verificarsi dell’evento antigiuridico fu decisiva ad intraprendere l’azione. Hanno adottato fra gli altri il criterio degli stati affettivi: CARRARA, Programma di diritto criminale, vol. I, 1877, p. 83; LISZT, Lehrbuch des deutschen Strafrecht, Berlin-Leipzig, 1911, p. 177 ss.; LIEPMANN, Einleitung in das Strafrecht, Berlin, 1900, p. 149; NOWAKOWSKI, Zu Welzels Lehre von der Fahrlässigkeit, in JZ, 1958, p. 338. Afferma l’affinità di tali teoriche con la teoria dell’indifferenza, secondo la quale si avrebbe dolo eventuale quando il soggetto agente ha mostrato indifferenza al verificarsi dell’evento, DI LORENZO, I limiti, cit., p. 90 ss. È interessante notare come la giurisprudenza non molto recente (v. ad es. Cass., Sez. II, 18 luglio 1934, in Giust. pen., 1935, 730; Cass., Sez. III, 29 marzo 1968, in Cass. pen., 1969, 211; Cass., Sez. I, 20 novembre 1970, in Giust. pen., 1972, II, 271) abbia basato la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente su elementi di carattere essenzialmente emotivo. (53) Quella dell’accettazione del rischio è sicuramente la teorica maggiormente accolta in dottrina e in giurisprudenza. Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano, 1989, p. 323; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 321; PECORARO-ALBANI, Il dolo, cit., p. 394 ss.; TASSI, Il dolo, cit., p. 5 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., cit., p. 323, i quali, pur se ammettono che si tratta ‘‘del punto di vista finora preferibile’’, non mancano di rilevare le insufficienze che esso sconta allorché il soggetto, pur se accetta il rischio di cagionare l’evento non lo prende troppo sul serio: in tal modo si evidenzia come dovrebbe darsi maggior rilevanza al momento decisionale. Sembra rifarsi all’accettazione del rischio il criterio individuato da PROSDOCIMI (Dolus eventualis, cit., p. 45 ss.; Reato doloso, cit., p. 244 ss.) il quale concentra l’attenzione dell’interprete sul momento decisionale che ha spinto il soggetto ad accettare il rischio. In giurisprudenza v., di recente, Cass. pen., Sez. VI, 15 aprile 1998, n. 6880, in Ced Cassazione, 1998; Cass. pen., Sez. V, 25 marzo 1997, n. 4892, in Cass. pen., 1998, 1781 (s.m.); Trib. Forlì, 26 maggio 1997, in Giur. merito, 1998, 301, con nota di RESTA; Trib. Forlì, 26 maggio 1997, ivi, 1998, 301, con nota di RESTA; Cass. pen., Sez. V, 25 marzo 1997, n. 4892, in Ced Cassazione, 1997; Cass. pen., Sez. IV, 10 ottobre 1996, n. 11024, in Cass. pen., 1998, 808 (s.m.); Cass. pen., Sez. I, 27 settembre 1996, n. 9487, in Giust. pen., 1997, II, 507 (s.m.); Cass. pen., Sez. I, 29 gennaio 1996, n. 3277, in Cass. pen., 1997, 996 (s.m.).
— 834 — o col trascurare la dovuta considerazione ed attenzione che molto chiaramente il dato normativo ha attribuito alla volontà nella definizione del dolo (54). Consapevole di tali limiti una parte della dottrina afferma che ‘‘sul piano strettamente psicologico è indubbio che solo la c.d. (prima) formula di Frank assicuri una ‘equivalenza’ del dolo indiretto a quello intenzionale... o a quello diretto’’ (55). Si è cosi parlato di ‘‘ineguagliata incisività’’ della stessa (56), quasi a voler ribadire come essa rappresenti l’unico parametro di sicura persuasività psicologica che ad un tempo è dotato di una notevole praticabilità processuale. Che il risultato cui conduce tale formula possa definirsi volontà deve dubitarsi specie alla luce dei rilievi critici difficilmente superabili ad essa mossi (57). Se infatti il dolo si identifica in un relazione effettiva tra agente e fatto essa non può essere accertata con un procedimento avente come termini elementi ipotetici e non reali: si tiene conto infatti non dell’effettivo atteggiamento psicologico del soggetto ma di quello che avrebbe potuto prodursi (58). In altre parole ciò che interessa provare al giudice ai fini dell’accertamento del dolo ‘‘non è il modo in cui una persona si sarebbe comportata in condizioni diverse da quelle che hanno effettivamente accompagnato la sua azione, ma il modo in cui essa ha preso concretamente posizione di fronte alle circostanze che le erano presenti al momento della decisione’’ (59). Un tale tipo di soluzione importa l’introduzione nell’ambito del dolo di (54) Rileva PAGLIARO, Principi di diritto penale, pt. gen., 5a ed., 1996, p. 277, come non sia chiaro come mai si possa definire il dolo come volontà criminosa e poi ammetterlo sulla base di entità psichiche diverse, presentando in tal modo una definizione contraddittoria del dolo. Così, l’ ‘‘indifferenza’’ e il ‘‘non-disvolere’’ le conseguenze previste come possibili sono condizioni psichiche che si esauriscono in una mancanza di attività della sfera volitiva quando, invece, la colpevolezza dolosa implica un atto della volontà stessa che, illuminata dalla conoscenza, si dirige verso la realizzazione dell’evento (DI LORENZO, I limiti, cit., p. 85). Lo stesso vale per la ‘‘fiducia’’ o per la ‘‘speranza’’ cioè stati affettivi o emotivi che possono entrare in considerazione con riferimento ai motivi dell’agire ma che certo rappresentano un ‘‘surrogato’’ della volontà che, oltre tutto, come rileva giustamente DE MARSICO, Coscienza, cit., p. 154, sconta dell’impenetrabilità del foro interiore dell’agente e che finisce per incentrare il rimprovero penale in un giudizio di tipo eticizzante. Neppure l’accettazione del rischio può essere qualificata come volontà dell’evento, questo perché con essa, oltre che spostare il fulcro del momento oggettivo del dolo dall’evento al rischio di cagionare l’evento, si dovrebbe, a ragione, far riferimento alla semplice decisione di agire ‘‘rischiando’’ cioè di comportamento che si deve qualificare nell’ambito dell’imprudenza o della temerarietà (cfr. DE MARSICO, op. ult. cit., p. 152): la colpevolezza per accettazione del rischio corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo (in tal senso PAGLIARO, Discrasie, cit., p. 322; ID., Principi, cit., p. 270). Neppure incentrando il giudizio di imputazione soggettivo sulla ‘‘fisionomia e struttura di tale accettazione’’ si riesce a ricondurre il dolo eventuale nell’alveo della volontà. Se infatti si incentra il dolo eventuale — come fa Prosdocimi — sul deliberato sacrificio quale ‘‘prezzo’’ per il raggiungimento di uno specifico risultato intenzionalmente perseguito, o si tratta di sacrificio strettamente connesso col risultato perseguito — verrà allora in considerazione un’ipotesi di dolo diretto — o esso rientra nella psiche del soggetto quale obiettivo intermedio — si tratterà allora di dolo intenzionale —: negli altri casi la deliberata decisione di agire allorché vi è solo una previsione in termini di possibilità individua una volontà di agire cui si accompagna una ‘‘tenue’’ rappresentazione dell’evento mancando quel momento di intensa partecipazione soggettiva cui fa riferimento l’art. 43 c.p. parlando di volontà. (55) Cfr. DONINI, Teoria, cit., p. 321 ss. Si fa in particolare riferimento al noto criterio proposto da FRANK, Das Strafgesetzbuch für das deutsche Reich, 18a ed., Tübingen, 1931, § 59, Anm. V, p. 190 in base al quale allorquando l’agente si sia rappresentato la possibilità del verificarsi di un evento non desiderato, si ha dolo eventuale se egli, prevedendo come sicuro il verificarsi dell’evento stesso, avrebbe agito ugualmente. Sulla ‘‘formula di Frank’’, nelle sue due versioni, si è occupato in Italia, fra gli altri, PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 12 ss.; CANESTRARI, Dolo eventuale, p. 47 ss. cui si rinvia per approfondimenti. (56) In tal senso EUSEBI, Il dolo, cit., p. 175 ss. Fa proprio tale criterio PAGLIARO, Principi, cit., p. 273; BETTIOL, Diritto penale, 10a ed., p. 449 ss.; CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 1989, p. 378. (57) Per la disamina di essi si v., da ultimo, CANESTRARI, op. cit., pp. 47-48. (58) Cfr. v., GALLO, Dolo, cit., p. 219; PECORARO-ALBANI, Il dolo, cit., p. 336; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 12. (59) In tal senso GALLO, op. ult. cit.
— 835 — un elemento privo di obiettiva consistenza coinvolgendo ‘‘un velo di impenetrabile subiettivismo’’ (60). In effetti il momento volitivo cui fa riferimento la definizione del dolo ex art. 43 c.p. non può non essere inteso che in termini psicologici quale dato di riferimento della realtà che sintetizza quel momento di massima partecipazione psichica del soggetto agente rispetto al fatto e che come tale merita il maggior rimprovero della colpevolezza dolosa. Sembra, almeno all’apparenza, cogliere tale significato un recente tentativo che individua il momento volitivo del dolo eventuale nella ‘‘decisione personale a favore della (possibile) lesione del bene giuridico’’ basata su un’effettiva consapevolezza dei rischi eziologici verso una direzione non socialmente prevedibile (61). Tale criterio in particolare individua una sfera di agire soggettivo connotata in termini di maggior rimprovero rispetto all’agire tipico colposo in tal modo finendo per restringere gli ampi confini che sono stati tradizionalmente affidati al dolo eventuale. Resta però pur sempre il rilievo che la decisione in termini di possibilità, oltre che caratterizzata da non trascurabili incertezze, non può essere equiparata ad una decisione in senso proprio. Né può colmarsi questo minus di volontà attraverso l’esame delle caratteristiche oggettive della condotta: si rischierebbe infatti di oggettivizzare un giudizio che è e resta preminentemente soggettivo. 2.3. Analisi del concetto di volizione: il ruolo normativo attribuito al dolo eventuale. — In effetti le opinioni da ultimo esaminate hanno tutte l’innegabile pregio di chiarire come il giudizio soggettivo non possa appiattirsi in maniera radicale su due fronti opposti. Vi è infatti una costellazione di casi, multiforme nella (60)
DI LORENZO, op. cit., p. 94. In effetti, come ha avuto modo di chiarire la dottrina — FIAN-
DACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pt. gen., 322; PROSDOCIMI, op. cit., p. 14 —, ricostruendo decisioni e
scelte non verificatesi nella realtà, la formula di Frank individua il discrimine tra dolo e colpa essenzialmente sopra una valutazione della personalità del reo, dalla quale evincere sin dove il reo è disposto ad arrivare per soddisfare i propri interessi e, quindi, quale sia il suo livello di capacità a delinquere o di insensibilità rispetto al bene offeso dall’evento non intenzionale. In altre parole vi è un alto rischio di volgere il giudizio di colpevolezza in un dolo d’autore. (61) CANESTRARI, op. cit., p. 152 ss. In particolare l’A. individua le caratteristiche specifiche del dolo eventuale rispetto alla colpa cosciente in un elemento volitivo ‘‘attenuato’’ e in una condotta particolarmente ‘‘qualificata’’ sul piano del rischio. Si dà in altre parole rilievo più che alla rappresentazione e alla volontà del soggetto alla qualità esteriore del pericolo valorizzando in tal modo i contrassegni sociali. Ciò premesso si afferma che sussiste un ‘‘pericolo doloso’’ quale componente normativa della peculiare struttura del dolo eventuale allorquando un osservatore avveduto — posto al tempo e nel luogo in cui si trovava il soggetto concreto ed in possesso delle sue eventuali cognizioni superiori e speciali capacità psicofisiche — non avrebbe mai potuto ‘‘prendere seriamente in considerazione di assumere’’ quel determinato rischio nelle vesti dell’homo eiusdem professionis et condicionis dell’agente. Con tali affermazioni l’A. vuole evidenziare come esista una costellazione di rischi tipicamente connessi all’azione di colui che agisce con dolo eventuale e che non possono qualificarsi colposi stante la loro inascrivibilità nel giudizio normativo dell’homo eiusdem. Tale criterio, certamente molto raffinato, pur se non trascura la dimensione oggettiva del rischio in cui agisce il soggetto, tenendo adeguatamente in conto la natura dolosa del dolo eventuale (si richiede la decisione a favore della possibile lesione del bene giuridico), finisce però con lo svalutare quest’ultimo elemento. Ritagliandosi infatti una cerchia di rischio tipicamente doloso si finisce col trascurare la reale dimensione del dolo che si distingue dalla colpa non per il tipo di rischio preso in considerazione, né per la mancanza di un giudizio normativo di ascrizione dell’evento: bensì per l’esistenza di una reale volizione (che non può essere surrogata da una ‘‘decisione contro la possibile lesione del bene giuridico’’ dal momento che tale formula non fa altro che riproporre l’accettazione del rischio tenendo conto delle nuove teorizzazioni in tema di dolo). Tale teorica, in conclusione, porta con se l’alto rischio di presumere la volizione allorché risulti provato, in base ad un giudizio di tipo generalizzante, che il rischio preso in considerazione non risulti compatibile col parametro dell’homo eiusdem finendo per oggettivizzare il giudizio di imputazione dolosa. Per analoghe considerazioni, con riferimento al dubbio sui presupposti, sia consentito il rinvio a G. FORTE, L’elemento soggettivo nel riciclaggio, in MANNA (a cura di), Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, p. 188, nt. 106
— 836 — sua espressione, che evidenzia come è su diversi stadi che il giudizio di rimprovero di colpevolezza debba condursi. Quasi ad esprimere come quest’ultimo debba basarsi su un rapporto scalare non solo nella graduazione della pena ma anche nella stessa imputazione soggettiva del fatto. Certo, ogni valutazione del fatto così come ogni giudizio di sussunzione non può non essere condotto alla luce del dato normativo che con molta chiarezza ha distinto in maniera netta la responsabilità dolosa da quella colposa basando tale diversità sul diverso modo di atteggiarsi della psiche del soggetto: da una parte produzione di quell’evento effettivamente voluto, dall’altra produzione dell’evento per condotta non conforme alle regole di diligenza pur se sia riscontrabile un quid di partecipazione psichica in termini di volontà della condotta o di mera rappresentazione del possibile verificarsi dell’evento (62). Questo per ribadire che pur se una data situazione possa caratterizzarsi per la presenza di un momento di partecipazione psichica maggiormente riprovevole rispetto alla semplice colpa, se essa non presenta i connotati richiesti dal dato normativo nell’individuazione del dolo non può ricondursi a tale più grave forma di colpevolezza. Diversamente si finirebbe per violare l’art. 25 Cost. laddove vieta l’interpretazione analogica della legge penale (63). Equiparare a volizione stati soggettivi che, come visto, da essa si differenziano significa estendere la disciplina più rigorosa del dolo oltre i casi espressamente previsti al solo fine (tale è l’eadem ratio) di attuare in senso più rigoroso il trattamento di quella costellazione di casi caratterizzati da una maggiore riprovevolezza soggettiva dell’agire rispetto alla semplice colpa ma che neppure possono ritenersi dolo in senso proprio. Si tratta in altre parole di un’interpretazione analogica in malam partem (64). Se infatti l’agire doloso è caratterizzato da un controllo attuale della causalità, da un dominio del fatto assente nella colpa (65) esprimendo esso il più ‘‘stretto legame possibile tra chi agisce e le conseguenze della propria condotta’’ (66), in altre parole un momento decisionale che dirige la condotta verso la lesione del bene giuridico (67), equiparare ad esso situazioni in cui il risultato non è perseguito ma solo previsto in termini di possibilità, pur se è individuabile un momento decisionale ‘‘attenuato’’, significa estendere la portata normativa espressa dall’art. 43 (62) Sul diverso modo di atteggiarsi del giudizio di rimprovero di colpevolezza dolosa da quella colposa sia consentito il rinvio a FORTE, op. cit., p. 267 ss. (63) Non potrebbe neppure obiettarsi che il dolo eventuale rientrerebbe nell’ambito dell’art. 43 c.p., 1o comma, dal momento che esso sembra condividere della natura del dolo diretto basata sulla semplice rappresentazione (in Germania fa riferimento alla similarità di struttura tra dolo diretto e dolo eventuale basata sulla pregnanza del ruolo della rappresentazione PUPPE, Der Vorstelluginhalt, cit., p. 13). Tali argomenti non terrebbero infatti conto del fatto che solo in senso lato può ritenersi che nel dolo diretto mancherebbe un autentico momento volitivo: esso infatti esprime in pieno quel momento di autentica partecipazione psicologica tra autore e ‘‘fatto’’ cui fa riferimento la nozione di volontà e che, come tale, manca nel dolo eventuale. (64) Come chiariscono efficacemente MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 103 ss. il divieto di interpretazione analogica si rivolge oltre che al legislatore come divieto di creare fattispecie ed analogia esplicita anche al giudice vietandogli di applicare ad un caso in cui è presente un vuoto normativo la disciplina di un caso simile in base alla medesima ratio, finendo per divenire egli stesso fonte di produzione del divieto penale. Sul punto si veda, inoltre, VASSALLI, voce Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig. Disc. pen., VIII, Torino, 1994, p. 307 ss. (65) Cfr. DONINI, Teoria, cit., p. 358. (66) In tal senso GALLO, op. cit., p. 767. (67) Per la definizione del dolo come ‘‘decisione contro il bene giuridico’’, ricorrente nella dottrina tedesca, v. ROXIN, Zur Abgrezung von bedingtem Vorsatz und bewusster Fahrlässigkeit, in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin-New York, 1973, p. 224; HASSEMER, Kennzeichen des Vorsatzes, in Gedächtnisschrift Arm Kaufmann, Köln-Berlin-Bonn-München, 1989, p. 295 ss.
— 837 — c.p., 1o comma, oltre i casi cui essa fa riferimento, quasi a voler colmare un vuoto normativo attuando in tal modo una palese violazione del dato costituzionale. A ben vedere neppure sarebbe in generale ammissibile un’interpretazione analogica. Se infatti in base al disposto di cui all’art. 12 delle preleggi il giudice può ricorrere ad un’estensione analogica per colmare un vuoto normativo, nel caso del dolo eventuale una c.d. ‘‘lacuna’’ neppure sarebbe ipotizzabile dal momento che quei casi che comunemente ad esso si riconducono sono stati presi in considerazione dal legislatore allorché definiva all’art. 61, n. 3, la colpa aggravata dalla previsione dell’evento. Tale norma prende infatti espressamente in considerazione quei casi caratterizzati dall’agire del soggetto nella consapevolezza della rischiosità del proprio comportamento. L’atteggiamento soggettivo di chi agisce in dolo eventuale presenta una rimproverabilità che avvicina tale situazione a quella di chi agisce con colpa (68). Tale equiparazione viene sempre disconosciuta perché la previsione della possibilità del verificarsi dell’evento, la consapevolezza che la propria condotta è altamente rischiosa, l’opzione del soggetto di agire comunque, denotano un coefficiente di rimproverabilità maggiore rispetto a colui che semplicemente si rappresenta l’astratta possibilità di realizzare l’evento (69). Ma tale maggiore rimproverabilità è in effetti presa in considerazione dal legislatore all’art. 61, n. 3, dove il termine previsione dell’evento individua la consapevolezza del soggetto che dalla propria condotta potrebbe verificarsi un evento lesivo, e l’altra dizione, ‘‘nonostante... agisce’’ (70), individua l’opzione del soggetto di agire comunque (egli, si badi bene, vuole agire non vuole l’evento). Se infatti tale norma dispone l’aggrava(68) Che il dolo eventuale sia qualificato da un comportamento negligente è stato ammesso anche da coloro che hanno ricondotto tale figura nell’ambito del dolo: v. in particolare PROSDOCIMI, Dolus, p. 90 il quale ha evidenziato come anche per la sussistenza del dolo eventuale dovrà provarsi da parte del giudice la violazione di regole di diligenza. In ciò è chiaro che l’A. accoglie la diffusa teorica secondo cui non può esserci dolo se non si pone allo stesso tempo un comportamento obiettivamente colposo. (69) Si tenga presente che l’opinione attualmente dominante in dottrina e in giurisprudenza afferma che si ha colpa cosciente allorché l’agente prevede in termini di possibilità la realizzazione dell’evento ma nel momento decisivo dell’agire nega in concreto tale possibilità nella sua coscienza di modo che la colposità del suo agire si risolve in un errore di valutazione (SCHMIDHÄUSER, Strafrechtlicher Vorsatzbegriff und Alltagssprachgebrauch, in Festschrift für Oehler, Köln-Berlin-Bonn-München, 1985, p. 159 ss.). Per le critiche sviluppate a tale opinione v. EUSEBI, In tema, cit., p. 1073; PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 26; ID, Reato doloso, cit., p. 240; PADOVANI, Il grado della colpa, in questa Rivista, 1969, p. 850, il quale rileva che in tal modo si finisce col punire più gravemente il soggetto ‘‘dotato di un alto grado di fantasia’’; MEZGER, Ein Lehrbuch, 3 Aufl., Berlin-München, 1949, p. 362 ss., il quale ne evidenzia l’incapacità di spiegare come mai chi, prima di agire, si soffermi a valutare le conseguenze dei propri atti sia alla fine trattato più severamente di chi, avventatamente, non si è posto alcun interrogativo o problema; DE FRANCESCO, Dolo eventuale, cit., p. 140. (70) La dizione ‘‘nonostante... agisce’’ è normalmente svalutata dalle posizioni tradizionali in quanto esse incentrano la maggiore gravità della colpa cosciente nella previsione dell’evento cui si accompagna la convinzione del soggetto che esso non si realizzerà: v. GALLO, Dolo, cit., p. 792; ID., voce Colpa penale, in Enc. dir., Milano, 1960, VII, p. 97. In realtà se già l’art. 43 nella definizione generale della colpa afferma che questa possa essere con previsione, ammette implicitamente la compatibilità tra il concetto di colpa e quello di previsione: ma ciò non comporta che tale nozione debba coincidere con quella di cui all’art. 61, n. 3 dal momento che quest’ultima norma incentra la maggior pena sul maggior rimprovero soggettivo che deve essere mosso al reo. Non certo la previsione negativa in ordine al realizzarsi dell’evento quanto, piuttosto, la decisione di agire (si badi bene, non volontà dell’evento) benché siano presenti al soggetto i risultati che da tale decisione possano derivare (come possibilità). Tale consapevolezza può derivare solo allorché egli si renda conto della rischiosità della propria condotta che per tale sua caratteristica è in grado di realizzare l’evento che non è voluto. Il carattere comunque colposo di tale atteggiamento deriva dal fatto che al soggetto si rimprovera, non di aver voluto il fatto tipico dal momento che una tale volizione manca, quanto la causazione dell’evento per aver violato norme di diligenza che gli imponevano di non agire o di agire tenendo una condotta diversa in modo da ridurre le possibilità di realizzare l’evento.
— 838 — mento di pena in considerazione del maggior rimprovero che si deve muovere al soggetto nei confronti del quale neppure la rappresentazione del pericolo di realizzare l’evento ha costituito richiamo più incisivo all’impiego della diligenza non può allora non ammettersi che il dolo eventuale rappresenti non altro che la colpa aggravata dall’evento (71). 2.4. Alcuni spunti di diritto comparato e in prospettiva de jure condendo: il ‘‘progetto Grosso’’. — Da quanto sopra detto è proprio alla luce del dato normativo che deve ribadirsi come il c.d. ‘‘dolo eventuale’’ non rappresenti una forma del dolo riconducibile all’art. 43, 1o comma, c.p. ma costituisca invece la forma aggravata della colpa cui si riferisce l’art. 61, n. 3 c.p. In particolare la ratio del maggior aggravamento di pena disposto da quest’ultima norma va ravvisata nel ritenuto più riprovevole comportamento del soggetto che non si è astenuto dall’azione, o non ha preso maggiori cautele, nonostante abbia percepito il rischio (in termini di possibilità o bassa probabilità) connesso al proprio agire (72). Tale forma di colpa aggravata, in effetti, corrisponde all’istituto anglo-americano della Recklessness (73) ed al pari di esso si pone quale figura di confine tra dolo (intention — direct od oblique —) e colpa (negligence). Se, infatti, ci si riporta alla definizione che il Model Penale Code dà di tale istituto (74) non può non notarsi un’affinità di struttura rispetto a quella forma di colpevolezza comunemente definita dolo eventuale e che abbiamo visto sussumibile nella previsione di cui all’art. 61, n. 3 c.p.: se poi a ciò si aggiunga che in base all’opinione prevalente nella dottrina di lingua inglese la Recklessness è stata estromessa dal campo del dolo ed individuata quale categoria corrispondente ed alternativa a quella europeo-continentale della colpa con previsione (75) non può non concludersi a favore di tale soluzione. Non convincono, perciò, quelle proposte avanzate da parte della dottrina (76) dirette all’introduzione di un tertium genus di colpevolezza che, al pari della Recklessness inglese, si ponga quale figura di confine tra dolo e colpa: si tratterebbe, infatti, di una soluzione inutile dal momento che in Italia una tale figura già esiste e corrisponde a quella comunemente definita dolo eventuale ma da noi ricondotta nell’ambito della colpa aggravata. Per risolvere le problematiche in ordine alla distinzione tra dolo e colpa nep(71) Non può pertanto applicarsi il trattamento più severo a quei casi tradizionalmente riportati come ipotesi di ‘‘colpa cosciente’’ o ‘‘con previsione’’ dove, il confidare sulla non verificabilità dell’evento farebbe dubitare della stessa sussistenza di un’autentica previsione (cfr., in senso analogo, DE FRANCESCO, op. e loc. ult. cit.). (72) Per tale soluzione, anche con riferimento a motivazioni differenti, sia consentito il rinvio a FORTE, op. cit., p. 276 ss. (73) In argomento v. PROSDOCIMI, Dolus, cit., p. 101 ss.; VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese. I principi, Padova; 1992, p. 187 ss.; CADOPPI, voce Mens rea, in Dig. Disc. pen., VII, 1995, p. 636 ss.; CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., p. 279 ss.; IAN DENNIS, Funzioni ed ambito delle definizioni nel progetto di codice penale inglese, in AA.VV., Omnis definitio, cit., p. 361 ss. e, quivi, p. 377 ss.; CURI, L’istituto della recklessness nel sistema penale inglese, in questa Rivista, 1998, p. 975 ss. (74) La section 2.02(2) (c) del Model Penal Code afferma in particolare che ‘‘un soggetto agisce con indifferenza (recklessly) in rapporto ad un elemento costitutivo del reato allorché egli consapevolmente non si cura del considerevole ed ingiustificabile rischio che l’elemento sussista o derivi dalla sua condotta. Il rischio deve essere di indole e grado tale che, considerando la natura e lo scopo della condotta del soggetto e le circostanze a lui note, il suo sprezzo del rischio implichi una grossa deviazione dal tipo di comportamento che una persona fedele all’ordinamento avrebbe osservato nella situazione dell’agente’’. (75) In tal senso v. G.P. FLETCHER, Rethinking criminal law, Boston-Toronto, 1978, p. 443. (76) Sul punto, per approfondimenti, v. CANESTRARI, op. cit., p. 281 ss. il quale non manca di mostrare le proprie riserve rispetto ad una tale soluzione.
— 839 — pure può ritenersi che basti introdurre in modo esplicito la figura del dolo eventuale. In Italia è presente, infatti, sin dal ’30, pur se non se ne è avveduti, quella che, introdotta in Francia solo nel ’92 nell’ambito del nuovo codice penale, ponendosi come figura di confine tra dolo e colpa, rappresenta la mise en danger délibérée de la personne d’autrui (77) Si tratta, in particolare, della responsabilità per volontaria creazione del pericolo che viene in considerazione soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge. Anche suddetta figura più che porsi come ‘‘terza modalità psicologica’’ è stata qualificata un’ipotesi aggravata di colpa (78). A favore di tale soluzione milita il rilievo della specialità di tale figura — occorre, infatti, un espresso richiamo legislativo —: se invece si fosse trattato di una forma di dolo non avrebbe avuto senso una tale disciplina. Occorre però ricordare come in Francia un problema di distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente non si pone affatto dal momento che tanto la prevalente dottrina quanto la giurisprudenza ritiene che tali figure siano riconducibili alla violazione consapevole di una regola precauzionale (79). Se allora ciò che distingue il nostro ordinamento da quello francese non è tanto il sistema normativo quanto la difformità di interpretazione dello stesso non è certo riportandosi ad esso normativamente che si risolverebbero le perenni difficoltà di distinzione tra dolo e colpa. Potrebbe tutt’al più proporsi al legislatore di far chiarezza: a tal proposito sarebbe opportuna una semplice ‘‘interpretazione autentica’’ dell’art. 43 c.p. per ribadirne la vincolatività di definizione e dell’art. 61, n. 3, onde chiarirne il significato. Certo è che quello che coinvolge la distinzione tra dolo e colpa è un problema che sta molto a cuore al legislatore italiano. Lo dimostra il fatto che uno dei più recenti progetti di riforma del codice penale italiano — il c.d. ‘‘Progetto Grosso’’ (80) — pone quale fulcro della riforma della colpevolezza dolosa l’individuazione del concetto di dolo eventuale, in ciò dimostrando la precisa opzione di ritenere dolo tale forma di colpevolezza (81). Che tale risultato sia ben possibile lo dimostra il fatto che il potere normativo di individuazione dei concetti di dolo e (77) In argomento v. CANESTRARI, op. cit., p. 288 ss. (78) Cfr. COUVRAT, Les infractions contre les personnes dans le nouveau code pénal, in Rev. sc. cr. dr. pén. comp., 1993, p. 475. (79) Sul punto v. CANESTRARI, op. cit., p. 290 e AA. ivi citati; nonché DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, p. 201, nt. 72; PRADEL, Il nuovo codice penale francese: alcune note sulla sua parte generale, in Ind. pen., 1994, p. 11 ss. (80) Relazione della Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale istituita con d.m. 1o ottobre 1998, in questa Rivista, 1999, p. 603 ss. (81) Si riportano qui di seguito i passi della Relazione che si occupano specificamente del dolo eventuale: ‘‘L’ambito problematico, nella teoria e nella prassi, è il c.d. dolo eventuale. Lo schema Pagliaro, con il richiedere (art. 12) una definizione di dolo ‘univocamente comprensiva del dolo eventuale’, si limita ad esprimere l’esigenza che l’imputazione per dolo sia estesa a fatti che l’agente si è rappresentato non in termini di certezza, come conseguenza della propria condotta. In realtà l’esigenza di fondo, in sede di riforma, non è quella di consolidare il già incontroverso ancoraggio normativo della figura del dolo eventuale, ma, al contrario, quella di precisare i limiti di tale forma di dolo: la formula corrente della ‘accettazione del rischio’ ha carattere essenzialmente retorico, e la prassi applicativa evidenzia il pericolo di slabbramenti della figura del dolo, sia sotto il profilo definitorio, sia sotto il profilo probatorio e applicativo. Si tratta allora di determinare le condizioni minime in presenza delle quali resti fondato il rimprovero di volontaria realizzazione del fatto illecito, ancorché la previsione dell’evento o (più in generale) la rappresentazione del fatto non siano in termini di certezza. Alla luce dell’esperienza, il legislatore potrebbe utilmente stabilire: a) che occorre comunque, per l’imputazione per dolo, una rappresentazione della realizzazione del fatto tipico in termini di alta probabilità, e non di generica possibilità; b) che l’og-
— 840 — colpa incontra solo i limiti del dettato costituzionale e della coerenza sistematica (82). In tal senso limite specifico è quello sancito dall’art. 25 Cost.: occorre quindi una definizione chiara ed intelligibile che risulti inoltre tassativa e riferita a termini riscontrabili nella realtà. Altro limite è quello sancito dall’art. 3 Cost. secondo cui non possono qualificarsi come dolose quelle forme di colpevolezza che hanno invece i caratteri della colpa. Se allora da parte del ‘‘Progetto Grosso’’ si ribadisce come il dolo si incentra sulla volontà del fatto criminoso (83) non possono ricondursi nella sua orbita quei comportamenti che sono in realtà privi di un tale requisito. Occorre allora, per individuare il dolo eventuale quale forma di dolo, disancorare la nozione di dolo dal concetto di volontà incentrandolo su un momento psicologico meno pregnante. Tale risultato risulterebbe certamente coerente sistematicamente e conforme al dettato di cui all’art. 3 della Costituzione, ma porrebbe non pochi problemi in ordine all’individuazione di tale elemento. Occorre comunque precisare che nel progetto manca una precisa opzione sul punto riscontrandosi invece l’intento di ritrovare anche nel dolo eventuale quell’elemento volontaristico che caratterizza la forma più grave della colpevolezza e che non può ridursi nella ‘‘retorica accettazione del rischio’’. Ciò dimostra allora che l’ancoraggio della nozione del dolo al concetto di volontà implica la sostanziale impossibilità di ricomprendere nella sua orbita quei momenti psicologici che tradizionalmente si ascrivono al dolo eventuale. 2.5. Conclusioni. Brevi riflessioni in tema di derubricazione da omicidio doloso ad omicidio colposo. — Una volta illustrata la nostra posizione secondo cui il dolo eventuale non rappresenterebbe una forma di dolo ma soltanto l’ipotesi aggravata della colpa occorre confrontare tali risultati con quelli raggiunti dalla Corte. Che nel caso preso in considerazione dalla decisione in commento ci si trovi in un contesto oggettivo simile a quelli in cui da più parti si è ritenuta la sussistenza del dolo eventuale è ben evidente. Lo dimostra il fatto che una valutazione astratta (84) di esso denota la previsione da parte dell’agente della rischiosità della propria condotta. Consapevole di ciò è anche la Corte laddove afferma che il probabile impiego di un silenziatore; la condotta processuale dei prevenuti, ostinatamente impegnati a negare la propria presenza sul luogo del delitto; il fatto che sia stato esploso un colpo di pistola indirizzato verso un luogo pubblico, e di fatto frequentato, in quel momento, da più soggetti sono tutti elementi che indurrebbero ragionevolmente a condividere la tesi accusatoria in ordine alla sussistenza dell’omicidio volontario sorretto dal dolo nella forma eventuale. Risultato che sembrerebbe ancor più condivisibile allorché ci si riporti alla precedente esperienza che getto della rappresentazione, sia pure in termini di probabilità e non di certezza, deve essere il fatto realizzato in concreto, e non una generica rappresentazione di qualcosa d’illecito’’. (82) Ritiene in dottrina che il legislatore, nel definire il dolo, pur avendo un certo margine di manovrabilità, non sia del tutto libero MEZGER, Niederschriften über die Sitzungen der Großen Strafrechtkommission, XII, p. 102 ss. (83) ‘‘Relativamente al dolo (forma più grave di colpevolezza e criterio normale di imputazione soggettiva dei delitti) v’è sostanziale concordia sui tratti fondamentali: dolo significa volontà consapevole di realizzazione del fatto illecito; la consapevolezza deve abbracciare tutti gli aspetti da cui dipende la tipicità penale del fatto commesso’’. (84) Si tenga presente che nel caso concreto, in base alle risultanze probatorie, si è negata la sussistenza della ‘‘percezione del rischio’’ dal momento che si è ritenuto che S. non fosse consapevole del fatto che quella maneggiata era, in effetti, un’arma carica.
— 841 — S. ha avuto nell’Arma dei Carabinieri e che farebbe presumere una sua sia pur minima perizia nell’uso delle armi. Perché allora si è optato a favore della colpa semplice? Nel momento in cui si è posta l’alternativa tra dolo eventuale da un lato e colpa semplice dall’altro non si dimostra forse di aver sviluppato e seguito un ragionamento differente rispetto a quello che si fa tradizionalmente da parte della giurisprudenza e della dottrina? Se infatti la Corte avesse voluto aderire alla posizione tradizionale avrebbe dovuto porre l’alternativa tra dolo eventuale e colpa cosciente o ancora tra colpa semplice e colpa aggravata. Il salto di un passaggio sembrerebbe invece dimostrare l’ammissione di un rapporto scalare tra dolo eventuale e semplice colpa quasi a voler riconoscere la natura colposa del primo. In effetti, in diversi passaggi la decisione, allorché si occupa del dolo eventuale, sembra qualificarlo quale forma di dolo. Nello sostanza però forte è l’impressione di un intima riserva rispetto ad una tale opzione. Sembra allora potersi cogliere in tale sentenza quello stato emotivo di chi spesso è chiamato a comporre opposte e fondamentali esigenze che vedono contrapporsi da una parte le istanze di repressione impersonate dalla teoria del dolo eventuale, dall’altra le preoccupazioni della dottrina attenta a chiarire come molto spesso il dolo eventuale tenda a coprire degli spazi che in realtà appartengono alla colpa. In un tale complesso e difficile bilanciamento ruolo fondamentale nella scelta è assunto dal canone del favor rei, principio questo che vieta, in ogni caso, che il singolo divenga mero strumento di una politica giudiziaria. In tali termini la qualificazione di una condotta nell’ambito della colpevolezza dolosa deve essere supportata da elementi probatori che con certezza palesino quell’intenso legame psicologico tra soggetto ed evento così come espresso dalla nozione di volontà: se un tale risultato non è raggiunto non può teorizzarsi una ‘‘spuria’’ forma di dolo in grado di abbracciare variegate situazioni psicologiche tutte accomunate dall’incapacità del processo di palesare una volontà mancante. Con ciò si vuole manifestare l’impressione che i giudici della Corte, sviluppando delle argomentazioni differenti, se non opposte, rispetto a quelle tradizionalmente svolte da chi ritiene il dolo eventuale una forma di dolo, hanno nella sostanza — sia pur inconsapevolmente — negato che il dolo eventuale configuri una forma di dolo. Il fatto allora che non sia stata ritenuta la sussistenza dell’omicidio volontario perché non si è raggiunta la prova dell’elemento soggettivo richiesto per tale reato non può non essere condiviso anche alla luce della normativa processuale laddove prevede l’obbligo del giudice di adottare la soluzione più favorevole al reo. Questo basta però per ritenere automaticamente la sussistenza della colpa e quindi dell’omicidio colposo? Davvero il dubbio è stato risolto a favore del reo nel momento in cui ci si è ‘‘dimenticati’’ di motivare la presenza della colpa con riferimento ad elementi che palesassero la violazione di regole precauzionali? Non si vuole qui disconoscere il carattere colposo della condotta tenuta da S. (85) quanto rilevare (85) Anche applicando la più garantista teoria della c.d. ‘‘doppia misura della diligenza’’ — su cui v. G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi urbinati, 1977-78, p. 275 ss. e ampia letteratura, anche di lingua tedesca, ivi citata — non può non ammettersi la colposità della condotta tenuta dall’imputato. In effetti il carattere incosciente della colpa deriva dalla circostanza che il soggetto agente non fosse consapevole che la pistola maneggiata era in effetti carica. Una basilare esigenza di prudenza obbligava però il soggetto ad accertarsi, prima di puntare la pistola verso un luogo affollato premendo, conseguentemente, il grilletto, se in canna fosse presente un proiettile. Riferendosi al modello di agente obiettivo, non ci si può non rapportare ad un soggetto in grado di maneggiare le armi del tipo di
— 842 — che il favor rei imponendo la scelta più favorevole al reo obbliga comunque il giudice a supportare con un adeguato e completo ragionamento logico il motivo per cui la scelta più favorevole non si sia risolta in un’assoluzione. In altre parole allorché la scelta più favorevole consiste nella ritenuta sussistenza di un reato meno grave essa deve essere supportata da congrui elementi che fondino una tale opzione. Ma se fosse stata raggiunta la piena prova del reato meno grave non sarebbe stato necessario neppure ricorrere al canone dell’in dubio pro reo dal momento che un dubbio neppure si sarebbe posto. D’altronde, neppure è permesso al giudice, di fronte ad una chiara richiesta dell’accusa, ritenere la sussistenza della corrispondente ipotesi colposa. Non si vuole qui analizzare quegli aspetti del problema che hanno una natura più strettamente processuale (86) quanto, piuttosto, rilevare come la sentenza, nel momento in cui afferma che ‘‘doverosamente si è proceduto a una diversa definizione del fatto perpetrato da S... dato che le contestazioni accusatorie a loro carico considerate con riferimento all’iter del processo, alle emergenze probatorie sulle quali gli stessi sono stati sentiti, interrogati ed esaminati contengono gli elementi costitutivi dell’omicidio colposo...’’ sembra aderire a quell’impostazione, variamente diffusa in dottrina, che vede il reato doloso ed il reato colposo accomunati da un identico ‘‘fatto oggettivo’’ (87). In tal modo verrebbe spontaneo ritenere la sussistenza dell’imputazione colposa allorché il ‘‘quid differens’’ che caratterizza il dolo (cioè la volontà) non sia provato. Infatti, se tanto il reato doloso quanto il reato colposo hanno in comune la violazione obiettiva (88) delle regole di diligenza, nel momento in cui il giudice nega la sussistenza del primo perché non è quella usata nell’omicidio di Marta Russo e in grado di valutare se l’Arma fosse oppure no carica. Individualizzando il giudizio con riferimento al caso specifico, la precedente esperienza di S. nell’arma dei C.C. non può non indicarci una sua sia pur basilare esperienza nel campo delle armi comuni da sparo. (86) Sui rapporti di correlazione tra imputazione e sentenza in riferimento al nuovo codice cfr. MARINI, Nuove contestazioni (artt. 516-522), in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990. Più in generale in argomento v. BETTIOL, La correlazione tra accusa e sentenza, Milano, 1936, passim. (87) Si fa qui riferimento a quella teorica secondo cui non può esserci reato doloso se non sia stata posta in essere la violazione della c.d. misura oggettiva della colpa: insomma ‘‘non c’è dolo senza colpa’’. Si tratta di una posizione, molto diffusa in Germania — v., tra gli altri, ENGHISCH, Der Unrechtstatbestand im Strafrecht. Eine kritische Betrachtung zum heutigen Stand der Lehre von der Rechtswidrigkeit im Strafrecht, in HundertJahre Deutsches Rechtsleben. Festschrift zum 100 jährigen Bestehn des deutschen Juristentages, Bd. I, Karlsruhe, 1960, p. 401 ss. e, quivi, spec. p. 417 ss.; KAUFMANN, ‘‘Objektive Zurechnung’’ beim Vorsatzdelikt?, in Festschrift für Jescheck, I, 1985, p. 258; STRATENWERTH, Strafrecht, AT. I, 3a ed., Köln-Berlin-Bonn-München, 1981, nn. 337 ss. —, con la quale si vuole rivalutare la pericolosità oggettiva che deve caratterizzare il reato doloso evitando in tal modo di ridurlo ad una mera dimensione tutta psichica ed interiore. In Italia tale teoria è stata rivalutata da MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, cit., p. 26, il quale autorevolmente afferma: ‘‘un fatto antigiuridico può essere commesso con dolo sempreché — in assenza di dolo — siano presenti, rispetto allo stesso fatto, gli estremi della colpa’’. In particolare l’A. pur riconoscendo una differenza strutturale tra agire doloso ed agire colposo (cfr. Il reato come azione, cit., pp. 98, 120) individua un ‘‘nucleo comune’’ tra fatto doloso e fatto colposo. Aderiscono a tale posizione PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 90 ss., il quale non manca di chiarire che ‘‘Ciò che solitamente si ritiene essenza della colpa riguarda anche il dolo’’ (p. 98); FORTI, Colpa, cit., p. 386 ss., il quale puntualizza come affermare che la violazione delle regole di diligenza sia elemento caratteristico del reato colposo non significa che un tale requisito sia assente o non svolga alcun ruolo dogmatico nell’ambito del delitto doloso; nonché MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, cit., p. 210. Anche EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., p. 194, sembra aderire a tale posizione nel momento in cui afferma che non può parlarsi di reato doloso ove l’intenzione si concretizzi nello sfruttamento di un rischio consentito. (88) Rileva DONINI, Teoria, cit., p. 168, nt. 120, come gli AA. italiani che variamente si occupano di tale posizione non distinguono chiaramente che debba trattarsi di violazione ‘‘oggettiva’’ delle regole di diligenza come se ‘‘il dolo presupponesse la ‘colpevolezza’ della colpa’’ (si pensi ad es. alla posizione di MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., p. 34 il quale, per sottolineare come dolo e colpa appartengono, innanzitutto, alla colpevolezza, afferma: ‘‘non vi potrà essere colpevolezza dolosa senza colpevolezza colposa’’.
— 843 — stata raggiunta la prova piena dell’elemento soggettivo per esso richiesto, automaticamente dovrà ritenersi la sussistenza del fatto colposo in quanto esso sarebbe inglobato nel fatto doloso (89). Ciò sta a significare che consisterà in una riqualificazione del fatto, come tale ammissibile, la derubricazione da omicidio doloso a omicidio colposo appunto perché essi sarebbero caratterizzati da un identico fatto obiettivo o comunque da un nucleo comune: la violazione di regole di diligenza. A ben vedere però tali risultati devono considerarsi inammissibili nel momento in cui si nega la sussistenza di una ‘‘comune base normativa’’ tra dolo e colpa: il distinguo tra reato doloso e reato colposo va infatti individuato non solo nel mero rapportarsi della volontà rispetto all’evento ma, anche, in un diverso svilupparsi del fatto nel contesto oggettivo (90). Da ciò deve allora arguirsi che nel momento in cui si ammetta la diversità di funzione che la regola di diligenza può assumere nel giudizio di imputazione del fatto a seconda che il reato in considerazione sia doloso o colposo, il giudice, se non ritiene raggiunta la prova del dolo, non potrà automaticamente condannare per la corrispondente ipotesi colposa: si tratta a ben vedere di fatti diversi (91). 3. Inammissibilità di una condotta di favoreggiamento nel quadro di operatività del principio del nemo tenetur se detegere. — È nostro interesse, a questo punto, esaminare la parte della decisione in commento in cui si chiarisce la posizione di F. In particolare tale soggetto, all’evidente scopo di non far emergere alcun possibile suo coinvolgimento nell’omicidio di Marta Russo, ha posto in essere (89) Se infatti in positivo si afferma che per aversi reato doloso occorre la prova della violazione obiettiva delle regole di diligenza o, il che è lo stesso — in tal senso MARINUCCI, op. ult. cit., p. 28 —, di ‘‘un comportamento caratterizzato da un rischio non consentito’’ — entrambi infatti individuano, a parere dell’A., la ‘‘misura normativa’’ della violazione delle regole di diligenza — cui si accompagni, per il necessario giudizio di ascrizione soggettiva dell’evento, la prova del dolo, allorché tale ultimo elemento manchi la condotta posta in essere sarà caratterizzata da un connotato di colpa. Chiarisce però l’A. (p. 37) che devono ritenersi inammissibili — in quanto dolo e colpa sono l’uno rispetto all’altro, pur sempre, un aliud — quella tendenza, allorché non si possa provare il dolo, ritenere automaticamente presente la colpa, ‘‘riducendo le fattispecie colpose a meri « bacini di raccolta » delle corrispondenti fattispecie dolose’’. (90) In particolare si è affermato che ritenere che ‘‘non c’è dolo senza colpa’’ rivela un ‘‘autentico’’ errore dogmatico — PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, p. 779 ss., il quale chiarisce come nel reato doloso assume basilare importanza la realizzazione del volere. In tali termini ciò che qualifica il reato doloso è la realizzazione del risultato cui il soggetto mirava —. Pur se tale opinione ha incontrato obiezioni fondate nelle parole di chi — DONINI, Illecito, cit., p. 326 — ha ritenuto che una tale opzione finisce col dare una lettura troppo soggettivistica del dolo, non può non ribadirsi una diversità strutturale tra fatto doloso e fatto colposo. Se, infatti, si fa riferimento alla funzione che la regola cautelare assume nella struttura del fatto colposo — quale tecnica di descrizione legislativa della condotta (GIUNTA, Illiceità, cit., p. 357) — e come nell’illecito doloso la diligenza potrebbe tutt’al più assumere la qualifica di mera modalità di aggressione al bene giuridico, si palesa la diversità oggettiva del reato colposo rispetto a quello doloso: essa consiste appunto in ciò che solo nel fatto colposo la regola di diligenza ha la specifica funzione di descrivere l’illiceità della condotta. Si tenga inoltre presente che il pieno dominio sul fatto è presente solo nel reato doloso, tanto è vero che il legislatore ha previsto la violazione delle regole di diligenza per individuare le sole condotte colpose dove appunto manca una tale signoria. In tal senso, sia pure con argomenti parzialmente differenti, v. CANESTRARI, L’illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989, p. 121 ss.; ID., Dolo eventuale, cit., p. 109 ss.; PAGLIARO, Imputazione, cit., p. 796; FORTE, op. cit., p. 235 ss. (91) Sembra però doversi negare che la sentenza in commento aderisca alla teoria che afferma ‘‘non c’è dolo senza colpa’’, questo non perché si riconosce la diversa funzione che le regole di diligenza assumono nei due diversi tipi di reato quanto nel fatto che essa giunge a risultati opposti: se infatti la sentenza in commento ha ritenuto di condannare S. per omicidio colposo prescindendo da una precisa prova della violazione di regole precauzionali, ritenendo invece di desumerla dallo stesso evolversi dei fatti, la posizione su menzionata ritiene di ricercare la sussistenza della violazione di una regola di diligenza anche laddove un tale obiettivo non sia necessario.
— 844 — una serie di minacce perpetrandole nei confronti di L., nonché, sentito nelle vesti di coimputato, ha negato ripetutamente la propria presenza nell’Aula Assistenti (cioè l’aula da dove è partito il colpo di pistola). La Corte ha ritenuto di sussumere tale condotta nell’ambito di operatività del delitto di favoreggiamento personale: ‘‘la reiterata menzognera negazione di essa (presenza) da parte dell’imputato, sta ad indicare, nel delineato contesto probatorio, un’attività di collaborazione in favore dell’autore del delitto dopo la sua commissione’’. Tale decisione non può mancare di suscitare notevoli perplessità nel lettore dal momento che il caso in esame rappresenta una tipica ipotesi di auto-favoreggiamento cioè quella forma di condotta ausiliatrice che si muove obiettivamente e soggettivamente in un contesto di estrinsecazione del diritto di difesa (92). Quelle tenute da F. costituiscono, a ben vedere, due diverse tipologie di condotte ‘‘criminose’’ che, a nostro avviso, necessitano di una distinta analisi dal momento che è diverso il contesto in cui esse si esplicano. La menzognera reiterata negazione della propria presenza in Aula assistenti rappresenta una tipica condotta di ‘‘negazione del vero’’ cui fa riferimento l’art. 372 c.p. (93). Manca però di tale norma un elemento presupposto di fondamentale importanza: la qualità di testimone (94). Il motivo per cui colui che è sentito come imputato in un processo non possa essere condannato allorché neghi il vero è di chiara evidenza: non può infatti pretendersi l’obbligo di dire la verità da chi in tal modo finirebbe col pregiudicare la propria posizione: esso si concreterebbe in un dovere di auto-incriminazione (95). Una norma che disponesse diversamente sarebbe certamente in contrasto con l’art. 24 Cost. (96). Essendo F. stato sentito nella veste di imputato, in specie come partecipe nel delitto di omicidio, si sarebbero quindi concretati — a parere della Corte — tutti (92) L’orientamento della prevalente dottrina moderna ritiene infatti la non punibilità dell’auto-favoreggiamento in base alla inesigibilità della collaborazione con la giustizia: PULITANÒ, Il favoreggiamento personale fra diritto e processo penale, Milano, 1984, p. 199; ZANOTTI, Studi in tema di favoreggiamento personale, Padova, 1984, p. 122 ss.; DINACCI, Favoreggiamento personale e tipologia delle attività investigative tra vecchio e nuovo, Padova, 1989, p. 95 ss.; GELARDI, L’oggetto giuridico del favoreggiamento come dover essere del processo, Padova, 1993, p. 119. Anche l’orientamento della S.C. è nel senso della non punibilità dell’auto-favoreggiamento: Cass., Sez. I, 13 novembre 1971, in Mass. uff. Cass. pen., 1972, m. 120, pp. 240-241; Cass., Sez. VI, 3 marzo, 1993, n. 2007, rv. 193276. (93) Sui rapporti tra favoreggiamento e falsa testimonianza v. COLACCI, Favoreggiamento personale e falsa testimonianza, in Scuola positiva, 1967, pg. 314 ss.; GELARDI, L’oggetto giuridico, cit., pp. 136-137; DINACCI, Favoreggiamento personale, cit., p. 52; PULITANÒ, Il favoreggiamento, cit., p. 55 ss. Risolve il problema del concorso dei due reati in base alla differente oggettività giuridica della falsa testimonianza rispetto al favoreggiamento personale (processualità dell’una in contrapposizione alla preprocessualità dell’altra) sent. Corte. cost. n. 228/82, in Foro it., 1983, I, p. 2103 ss. (94) La Corte non sembra affatto porsi un problema di concorso fra i reati di cui agli artt. 372 e 378 c.p. dal momento che manca, come precisato nel testo, un elemento essenziale ai fini dell’applicazione del delitto di falsa testimonianza. Si è ritenuto pertanto, essendo F. stato sentito come imputato pur se la sua posizione è stata risolta in senso opposto nella sentenza di condanna, di applicare il delitto di favoreggiamento. (95) Per considerazioni analoghe, con riferimento al diritto al silenzio dell’imputato, v. CORSO, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere, in Ind. pen., 1999, p. 1077 ss. (96) Ritiene ZANOTTI, Nemo tenetur se detegere: profili sostanziali, in questa Rivista, 1989, p. 196 nota, che se al legislatore fosse possibile procedere ad una proliferazione di fattispecie omissive concernenti un obbligo di veridica dichiarazione contra se, la garanzia di cui all’art. 24 Cost. sarebbe sostanzialmente elusa
— 845 — gli estremi soggettivi (97) ed oggettivi (98) di imputazione del reato di favoreggiamento personale: si è ritenuta, cioè, la sussistenza di una tipica condotta di aiuto ad eludere le investigazioni cui fa riferimento l’art. 378 c.p. A parte il rilievo che non possa ritenersi realmente favoreggiatore colui che nel processo ha la veste di imputato concorrente, appare più corretto escludere che sia penalmente rilevante la condotta dichiarativa di colui che agevola, sia pur in via indiretta, la posizione processuale del coimputato allorché essa si inserisca nel quadro di operatività del nemo tenetur se detegere (99). Affermando infatti che il coimputato il quale, reiteratamente, neghi il vero su circostanze importanti ai fini del processo realizzi una tipica condotta di favoreggiamento post-delictum si sancisce non altro che un obbligo di auto-incriminazione: questa interpretazione collide però in maniera diretta ed inevitabile con il diritto di difesa, quel diritto cioè, di natura costituzionale, che ammette in maniera piena ed in ogni forma la tutela dei propri diritti (primo fra tutti quello della libertà personale) innanzi all’autorità giudiziaria (100). Nel momento in cui venga imposto l’obbligo di verità al coimputato si finirebbe col violare tale fondamentale diritto. Da tali premesse deve senz’altro concludersi che esorbiti dall’ambito di applicazione dell’art. 378 c.p. quella costellazione di casi in cui l’atteggiamento del soggetto si inquadri nell’esercizio del diritto di difesa nel senso che la sua condotta sia diretta esplicazione (97) Con riferimento all’elemento soggettivo del reato controversa è la natura del dolo: si dubita cioè se il favoreggiamento personale sia un reato a dolo specifico. Che debba ritenersi preferibile la tesi della negazione del dolo specifico nel caso di specie lo si desume dalla circostanza che la norma non fa riferimento ad uno specifico fine cui deve dirigersi la condotta (in tale senso vedi PULITANÒ, Il favoreggiamento personale, cit., p. 140 ss. il quale spiega i tentativi di ritenere la sussistenza di un dolo specifico come ‘‘fuga nel soggettivo’’: si cercherebbe in tal modo — secondo l’A. — di risolvere attraverso soluzioni insoddisfacenti problematiche che riguardano lo stretto ambito dell’elemento oggettivo del reato). (98) Fondamentale importanza, ai fini della sussistenza oggettiva del fatto, è l’idoneità oggettiva della condotta, indipendentemente dall’intento di aiutare, ad intralciare il corso della giustizia. In tal senso v. fra gli altri: PULITANÒ, Il favoreggiamento, cit., p. 117 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. spec., vol. I, Bologna 1997, p. 393; ZANOTTI, Studi in tema di favoreggiamento, cit., p. 20 ss., i quali ritengono che si tratti di reato di pericolo. (99) Su tale principio e sul significato che esso assume in campo processuale si veda GREVI, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972. Ritengono che tale principio non abbia un ambito applicativo limitato al campo strettamente processuale divenendo esso causa generale di non punibilità: ZANOTTI, Nemo tenetur se detegere, cit., p. 174 ss., spec. p. 196 ss.; BRUNELLI, Il falso nel bilancio di gruppo: un problema sottovalutato, in Ind. pen., 1999, p. 57 ss.; MUSCATIELLO, Falso in bilancio e reati connessi: una moderna disapplicazione del nemo tenetur se detegere, in MANNA (a cura di), Falso in bilancio, corruzione, concussione: esperienze a confronto, Bari, 1998, p. 144; ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1989, p. 754; MAZZACUVA, Il falso in bilancio, Padova, 1996, p. 176; FOGLIA MANZILLO, Nemo tenetur se detegere: un limite all’applicazione del reato di falso in bilancio?, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 237; INFANTE, Tra il dire e il fare...: permangono le aporie esegetiche sul dolo ed il bene protetto del falso in bilancio, in Ind. pen., 1999, p. 346 ss.; ID., Partecipazione al capitale e tutela dell’attività di vigilanza, (artt. 169 e 171 d.lgs. n. 58/1998, in MANNA (a cura di), Riciclaggio, cit.. p. 248 ss. e, quivi, 304 ss., il quale, da ultimo, ribadisce come il principio del nemo tenetur se detergere non possa essere riferito solo ai reati contro l’amministrazione della giustizia (in tal senso v. NAPOLEONI, I reati societari, III, Falsità nelle comunicazioni sociali e aggiotaggio societario, Milano, 1996, p. 292) ma valga in riferimento ad ogni obbligo legale di informazione dal cui adempimento possa desumersi il pregresso opus illecitum. Su diversa posizione si è posta invece la Corte cost. la quale, nella nota decisione del 3 luglio 1984, pubblicata in Cass. pen. Mass. ann., 1985, p. 4 ss., ha dato un’interpretazione ristretta del principio del nemo tenetur se detegere, attribuendo ad esso valenza esclusivamente endoprocessuale. Aderendo a tale ultimo orientamento, ponendosi su posizioni argomentative più ampie e sviluppantesi sul carattere eccezionale di tale principio v. PEDRAZZI, voce Società commerciali (disciplina penale), in Dig. Disc. pen., XIII, Torino, 1997, p. 361; NAPOLEONI, Reati societari, cit., p. 289; nonché, da ultimo, PERINI, Ai margini dell’esigibilità: nemo tenetur se detegere e false comunicazioni sociali, in questa Rivista, 1999, p. 538 ss. (100) Sul diritto di difesa v., tra gli altri, FERRUA, voce Difesa (diritto di), in Dig. Disc. pen., Torino, 1994, p. 466.
— 846 — di tale diritto fondamentale (101). L’esattezza di tali affermazioni è desumibile dall’analisi del contesto tipico della fattispecie di favoreggiamento: sono infatti presenti due elementi che, già a livello di tipicità, affermano la non punibilità dell’auto-favoreggiamento. L’art. 378 c.p. infatti esclude l’operatività della norma nel caso di concorso nel delitto presupposto: pertanto allorché la condotta del soggetto si inquadri nel paradigma di cui agli artt. 110 ss. c.p. deve escludersi la ricorrenza del reato di favoreggiamento (102). Di tale requisito la Suprema Corte ha però effettuato un’interpretatio abrogans finendo per sostenere che esso non vada valutato in astratto bensì in concreto in tal modo punendo per favoreggiamento colui che nel capo di accusa era stato qualificato coimputato (103). Tali ultime affermazioni, elidendo la fondamentale funzione di difesa che svolge l’imputazione (104), non possono non sollevare fondate perplessità dal momento che ciò comporta un’interpretazione dell’art. 378 c.p. apertamente in contrasto con l’art. 24 Cost., interpretazione che finirebbe poi col determinare la inapplicabilità dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. Affinché possa sussistere il reato di favoreggiamento personale occorre inoltre che l’aiuto sia rivolto nei confronti di ‘‘taluno’’, termine questo riferito a persona diversa dal soggetto che appresta la condotta favoreggiatrice. In effetti che l’aiuto di se stessi non ponga problemi di penale rilevanza non è stato mai posto in dubbio (105): il problema assume una portata ben più grave allorché tale condotta de(101) Cfr. Cass., 22 febbraio 1982, in Giust. pen., 1983, II, 66: ‘‘secondo il principio ‘nemo tenetur se detegere’ non è punibile l’auto-favoreggiamento personale cioè la condotta di colui che — dopo aver commesso un reato — cerca l’impunità’’. (102) Precisa molto chiaramente PANNAIN, voce Favoreggiamento personale e reale, in Nss. Dig. it., VII, Torino, 1957, p. 148 che la dizione ‘‘fuori dei casi di concorso nel reato’’ significa che ‘‘non può essere ritenuto autore del favoreggiamento colui il quale aiuta il complice, ma significa anche che tale non può essere l’autore del reato che spiega attività in proprio favore’’. (103) Se il soggetto avesse realmente contribuito alla realizzazione del delitto presupposto attraverso una condotta che si inquadra nell’ambito di un accordo o in una complicità antecedente deve senz’altro negarsi la sussistenza del delitto di favoreggiamento (in tal senso v. MANZINI, Trattato di diritto penale, Torino, 1987, V, p. 845; nonché PISA, voce Favoreggiamento personale e reale, in Dig. Disc. pen., 1994, Torino, p. 160 ss.). Dal momento che una reale condotta di concorso è stata negata dalla Corte ma ritenuta dall’accusa si pone il diverso problema di valutazione del requisito del ‘‘mancato concorso nel reato precedente’’: se esso debba essere inteso in astratto od in concreto. Nel secondo senso si muove un pregresso e diffuso orientamento della giurisprudenza della Cassazione la quale, in diverse occasioni, ha ribadito che il requisito del mancato concorso nel delitto precedente va considerato con riferimento all’esito del processo, non rilevando l’accusa rivolta all’agente bensì la definizione giuridica della sua posizione (v. Cass., 12 dicembre 1978, in Cass. pen. Mass. ann., 1980, 370; Cass., 19 gennaio 1973, ivi, 1974, 634; Cass., 21 aprile 1988, in Cass. pen., 1989, p. 1055. Ritiene in dottrina che tale requisito vada valutato in concreto PISA, voce Favoreggiamento personale e reale, cit., p. 163.). Ed appunto in tale direzione si è posta la decisione in commento dal momento che si è ritenuto di qualificare la posizione processuale di F. non in riferimento al capo d’accusa, bensì tenendo conto delle risultanze dibattimentali nell’evolversi dell’istruttoria. Sembra porsi invece su diversa posizione Cass., Sez. III penale, 14 ottobre 1977, Barni, in Cass. pen., 1979, p. 818. Si afferma in particolare in tale ultima pronuncia che occorre fare riferimento alla qualifica di concorrente così come individuata dall’accusa dal momento che la condotta successiva tenuta da chi reputa, in base alla formulazione del capo di imputazione, di essere perseguito quale concorrente vada ascritta nella sfera di operatività della comune difesa. Accoglie in dottrina tale secondo orientamento: PATALANO, La motivazione, cit., p. 93. (104) Si chiarisce in dottrina come la contestazione del reato, così come effettuata nel capo di imputazione, assume un fondamentale ruolo di concretizzazione del diritto di difesa (v LA MARCA-SANLORENZO, voce Contestazioni, in Dig. Disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 520). Con essa, infatti, si permette all’imputato di conoscere l’accusa e di svolgere le proprie difese in maniera conseguenziale. Se l’atto di accusa rappresenta quello che è l’oggetto del processo (BETTIOL, La correlazione, cit., p. 87) come è possibile ritenere che un soggetto è coimputato non se è tale per il capo d’accusa quanto per la sentenza conclusiva del giudizio? (105) Si veda in dottrina PANNAIN, op. cit., p. 148: ‘‘... la locuzione ‘aiuta taluno’ (precisa) che non
— 847 — termini effetti favorevoli anche nei confronti di chi ha commesso un precedente reato. In effetti il ‘‘dilemma’’ è stato già risolto dalla S.C. in base alla direzione della condotta di aiuto: ‘‘non è configurabile l’auto-favoreggiamento allorché il Giudice accerti che l’imputato abbia agito al fine esclusivo di favorire il terzo responsabile del reato’’ (106). A tale forma di auto-favoreggiamento è stata affiancata un’ulteriore forma denominata ‘‘auto-favoreggiamento mediato’’: ‘‘l’aiuto prestato dal concorrente quando il favoreggiamento costituisce il mezzo esclusivo e la conseguenza automatica del favoreggiamento di se stessi’’ (107). Anche alla luce di tale orientamento giurisprudenziale sembra dedursi l’insussistenza del reato non solo allorché l’aiuto non sia rivolto in modo esclusivo a favore di ‘‘taluno’’ ma anche nel diverso caso in cui l’aiuto di se stessi sia inevitabilmente collegato col miglioramento abusivo della posizione processuale di un diverso soggetto. Tale termine ci dice infatti che intanto si avrà una condotta di favoreggiamento punibile allorché l’aiuto sia diretto in modo esclusivo a favore di una diversa persona o che il suo aiuto non rappresenti conseguenza inevitabile di una condotta di semplice auto-favoreggiamento. A tali argomentazioni si aggiunga che una specifica norma, l’art. 384, 1o comma, c.p. (108), dispone la non punibilità di colui che ha commesso il fatto di favoreggiamento per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore (109). Ciò sta a significare che lo stesso legislatore ha ritenuto di escludere dall’ambito di operatività di cui all’art. 378 c.p. quelle condotte che sono emanazione della necessità di salvare se medesimo da una possibile condanna, conseguenza quest’ultima che senz’altro determina un grave ed inevitabile nocumento nella libertà. Da ciò si desume che la condotta del coimputato consistente nella negazione di fatti attinenti è ammissibile auto-favoreggiamento, cioè aiuto prestato a se stesso, autore o non autore, sospettato o non sospettato del reato per cui vengono in considerazione le investigazioni...’’. Nello stesso senso v. PAGLIARO, voce Favoreggiamento (dir. pen.), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, p. 40, il quale chiarisce come il termine ‘‘aiutare’’ indica una condotta diretta a realizzare interessi altrui prima che interessi propri. Se allora — ritiene l’A. — l’aiuto deve essere prestato a persona diversa dall’agente nello stesso senso si spiega il perché i partecipanti al reato principale non rispondano finendo essi per aiutare se stessi. (106) Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 262 del 17 gennaio 1997, rv. 206688. (107) Cass., 14 dicembre 1992, in Cass. pen., 1994, 933. (108) Su tale causa speciale di non punibilità v. FORNASARI, Inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, passim; SCARANO, La non esigibilità nel diritto penale, Napoli, 1948, p. 66 ss.; FLICK, L’esimente speciale dell’art. 384, 1o comma, c.p. e l’aggravante generale dell’art. 61, n. 2, c.p. nel delitto di falsa testimonianza, in questa Rivista, 1964, p. 221 ss.; BOSCARELLI, Sulla scriminante prevista dall’art. 384 c.p. in rapporto alla falsa testimonianza, in Giust. pen., 1952, II, c. 965; MAZZONE, Lineamenti della non punibilità ai sensi dell’art. 384 c.p., Napoli, 1992. (109) Molto dibattuta è la questione dell’ambito di operatività dell’art. 384 c.p. Da una parte si sostiene che tale articolo abbia una portata limitata ed eccezionale, nel senso che riguarderebbe esclusivamente quei reati in esso richiamati, militando in tal senso quelle argomentazioni in base alle quali esisterebbe nel codice penale una disposizione di carattere generale, l’art. 61, n. 2, che palesa la eccezionalità nel nostro ordinamento di disposizioni normative quali, appunto, l’art. 384 c.p. configuranti ipotesi di inesigibilità — in tal senso v., fra gli altri, FLICK, L’esimente speciale dell’art. 384 c.p., cit., p. 223; in giurisprudenza v., da ultimo, Cass., Sez. V, 21 gennaio 1998, Pres. Consoli, Rel. Nappi, Cusani, in Ind. pen., 1999, p. 309 (solo massima), con nota critica sul punto di INFANTE, Tra il dire e il fare, cit., p. 346 ss. —. A tali argomentazioni è stato efficacemente obiettato — da parte di ZANOTTI, Nemo tenetur se detegere, cit., p. 182 — che tra le disposizioni di cui agli artt. 61, n. 2 e 384 c.p. non è possibile individuare un rapporto di regola-eccezione, essendo ben diversi i quadri di operatività delle due norme. Mentre l’aggravante si riferisce a quelle situazioni in cui l’agire del soggetto sarebbe motivato da scelte opportunistiche dettate dall’interesse all’impunità dell’agente, l’esimente si riferisce invece a quel conflitto psicologico motivazionale che rende inesigibile un comportamento conforme a quello prescritto. In argomento si veda, inoltre, MANNA, L’art. 384 c.p. e ‘‘la famiglia di fatto’’: ancora un ingiustificato ‘‘diniego di giustizia’’ da parte della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1996, p. 90 ss.
— 848 — al processo rappresenta, in base al suo convincimento, l’unico modo per evitare un grave ed inevitabile nocumento alla propria libertà. Deve allora senz’altro riconoscersi la ricorrenza di quel conflitto motivazionale nella scelta tra azione lecita ed azione illecita cui fa riferimento l’art. 384 c.p. che si giustifica in base all’istinto di conservazione che spinge ciascun individuo ad evitare di accusare se medesimo (110). L’altra condotta posta in essere da F., qualificata dalla Corte come favoreggiamento, consiste in una serie di minacce perpetrate nei confronti di L. per influire sulla sua deposizione (111). Che tale comportamento sia ascrivibile nell’ambito di operatività dell’art. 378 c.p. deriva dalla forma ‘‘incolore’’ dell’ ‘‘aiuto’’ designando il verbo aiutare non ‘‘una tipologia comportamentale, piuttosto una congerie indistinta di comportamenti che si caratterizzano per un determinato finalismo’’ (112). Che pure tale forma criminosa debba andare esente da pena lo si può argomentare dalla generale operatività dell’art. 384 c.p. che, nel momento in cui richiama l’art. 378 c.p. fra i reati non punibili allorché il soggetto agisca in un contesto di ‘‘inesigibilità’’, si riferisce a tutte le possibili forme con cui il reato di favoreggiamento possa manifestarsi. Se realmente la Corte di Assise di Roma avesse voluto escludere l’operatività di tale ‘‘causa di non punibilità’’ in riferimento ad una condotta di tale gravità avrebbe dovuto ritenere la sussistenza di un concorso formale di reati prospettando, ad esempio, la sussistenza del delitto di cui all’art. 611 c.p. (113). In conclusione deve senz’altro escludersi che quella di F. costituisca tipica condotta di favoreggiamento post-delictum ciò, come si è detto, per due ordini di motivi: il primo perché essa non è altro che estrinsecazione dell’esercizio del diritto di difesa, il secondo perché non si poteva pretendere da tale soggetto un comportamento conforme alla legge dal momento che esso sarebbe risultato inesigibile. GIACOMO FORTE Cultore di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Foggia
(110)
Affermano che la ratio di tale disposizione coincida con un istinto di conservazione FIAN-
DACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pt. spec., p. 496. In giurisprudenza ritengono che la norma di cui all’art.
384 c.p. concretizzi il fondamentale principio del nemo tenetur se accusare finendo in tal modo per ribadire l’istinto di conservazione che caratterizza coloro che agiscono nell’ambito di operatività di detta norma: Cass., 19 ottobre 1973, in Cass. pen. Mass., 1975, 758; Cass., Sez. III, 10 marzo 1979, n. 2351, rv. 141322; Cass., 11 febbraio 1987, in Cass. pen., 1989, 371. (111) Molto correttamente la Corte ha escluso la punibilità di L. a titolo di favoreggiamento personale dato che, pur essendo la sua condotta tipica rispetto alla norma di cui all’art. 378 c.p. essa risultava ‘‘non punibile’’ stante l’operatività della ‘‘coazione morale’’. (112) Si esprime in tali termini GELARDI, L’oggetto giuridico, cit., pp. 49, 50, 159. Si chiarisce infatti da parte dell’A. che ben è possibile che la condotta di aiuto possa identificarsi con la condotta tipica di un altro reato. Più comunemente nella dottrina si parla di reato a forma libera: v., per tutti, PULIANÒ, Il favoreggiamento, cit., pp. 6, 147 ss. (113) Pur se la sentenza commentata non sembra affatto porsi il problema della sussistenza di un concorso di reati in base alla ritenuta prevalenza del reato di favoreggiamento rispetto ad altro reato intuendo un concorso apparente di norme, ritiene in dottrina di risolvere a favore dell’operatività di un concorso formale di reati in base alla diversa oggettività giuridica tutelata dalla norme incriminatrici GELARDI, L’oggetto giuridico, cit., pp. 158-159. In senso opposto v. BOSCARELLI, La tutela penale del processo, I, Milano, 1951, pp. 251-252, il quale ritiene che è ben possibile che la condotta favoreggiatrice possa ‘‘identificarsi’’ anche con una fattispecie criminosa diversa da quella di cui all’art. 378.
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Italia-Spagna: estradizione e ‘‘specialità’’ in tema di ergastolo (il caso Puntorieri). 1. Il cittadino italiano Giuseppe Puntorieri era stato fatto oggetto, sulla base di una decisione del giudice per le indagini preliminari di Milano, di una prima domanda di estradizione dalla Spagna, in ordine ai seguenti e gravi addebiti: concorso in omicidio premeditato, per aver ordinato a terzi di uccidere una persona; detenzione e porto illecito di armi da fuoco; ricettazione. Avendo l’interessato, nel corso del procedimento di estradizione, espresso il suo generico assenso alla consegna all’Italia, accompagnato peraltro dalla considerazione che, ‘‘esistendo in Italia l’ergastolo’’ egli non intendeva morire in carcere, il difensore chiedeva che la consegna fosse condizionata al fatto che non venisse imposta (dall’Italia) una pena perpetua, o che almeno la condanna venisse limitata nel tempo, così da non superare ‘‘los maximos temporales de la legislación española’’ (1). Con ordinanza 1o dicembre 1997 (n. 36/97), la sezione II penale dell’Audiencia Nacional, mentre rimetteva al Governo spagnolo la decisione definitiva in ordine alla consegna dell’estradabile, subordinava la consegna medesima alla condizione che la pena imposta non avesse ‘‘durata illimitata’’. Insomma: una sorta di nuovo criterio di ‘‘specialità’’ — in base alla determinazione giudiziaria di un’autorità straniera — applicato non al reato, come di consueto, e in linea generale, ma alla pena; anzi al limite massimo della sua quantificazione temporale. Successivamente, il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria emetteva, nei confronti dello stesso Puntorieri, cinque ordinanze di custodia cautelare, tutte incentrate sui molteplici ruoli criminosi da lui dispiegati nell’ambito di un certo ‘‘clan Latella’’ (associazione a delinquere di stampo mafioso). Tra i nuovi elementi di addebito figuravano tra l’altro, e in particolare, episodi diversi di estorsione; episodi di omicidio, per aver causato o concorso a causare — nel corso di diversi scontri — la morte di ben nove persone, e lesioni personali varie a danno di altre; traffico di stupefacenti (‘‘In una occasione si trattò di venti quintali di hashish’’). Su quella base, veniva richiesta dall’Italia l’estensione dell’estradizione già concessa. Nell’udienza estradizionale del 2 giugno 1998 l’estradabile e la sua difesa limitavano sostanzialmente la loro opposizione alla richiesta della garanzia della non applicazione, da parte dei tribunali italiani, di una pena perpetua. Sia pure in composizione diversa la stessa sezione II dell’Audiencia Nacional, con ordinanza 29 giugno 1998 (n. 31/98) decideva in conformità a quanto statuito nell’ordinanza antecedente, del dicembre 1997. Su tale premessa il Consiglio dei ministri spagnolo deliberava l’estensione dell’estradizione.
(*) A cura di MARIO PISANI. (1) A tale riguardo, è il caso di ricordare che, se pure la Costituzione si limita ad abolire (art. 11) la pena di morte, la legislazione spagnola non prevede la pena detentiva a vita (v. artt. 36, 140, 572 c.p. 1995).
— 850 — 2. Dalla documentazione ufficiale delle autorità spagnole pervenuta all’autorità giudiziaria milanese procedente a seguito dell’estradizione (oltre che della messa a disposizione dell’estradato), non risulta se il governo spagnolo avesse formulato in modo espresso la condizione, o le condizioni, enunciate dall’Audiencia Nacional. E non risulta neanche, per tale ipotesi, che il ministro della giustizia italiano le abbia effettivamente accettate. Una tale circostanza non può non rilevare, posto che, alla stregua della vigente disciplina, ‘‘competente a decidere in ordine all’accettazione delle condizioni eventualmente poste da parte dello Stato estero per concedere l’estradizione’’ è — entro i limiti di cui all’art. 720 comma 4 — il ministro della giustizia. 3. Il Puntorieri veniva sottoposto a giudizio avanti la 1a Corte d’assise di Milano, nel quadro della c.d. associazione Paviglianiti (finalizzata al traffico di stupefacenti), ed a seguito delle procedure di stralcio e riunione effettuate nei procedimenti denominati Wall Street e Count down. Nell’accingersi ad affrontare le questioni preliminari, con sentenza 21 gennaio 2000 la Corte (presid. Cerqua, est. Fontanella), così si esprime: ‘‘L’imputato risulta arrestato da funzionari della Brigata provinciale di Polizia Giudiziaria di Barcellona, il 21 novembre 1996, in Barcellona in virtù di ordine internazionale di arresto conseguente alle ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal GIP del Tribunale di Milano il 27 maggio 1994 per i reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione al fine di spaccio e spaccio di ingenti quantitativi di stupefacente, ed il 3 giugno 1995 per concorso nell’omicidio di Enzo Pirrone, porto e detenzione illegale di armi e ricettazione. Come risulta dalla nota del Ministero della Giustizia del 31 marzo 1998, l’Audiencia Nacional Spagnola con ordinanza 36/97 del 1o dicembre 1997 ha dichiarato ammissibile l’estradizione del Puntorieri con riferimento alla sola ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP il 3 giugno 1995 relativa all’omicidio Pirrone, e con la condizione che la pena eventualmente imposta non abbia durata illimitata, e il Consiglio dei ministri ha conseguentemente concesso la consegna dell’imputato alle autorità italiane, alle condizioni e con i limiti posti dalla Audiencia Nacional. Con nota del 12 gennaio 2000 il Presidente di questa Corte d’assise ha interpellato il Ministro della Giustizia per verificare l’avvenuta accettazione delle condizioni poste dalle autorità spagnole all’estradizione dell’imputato, ma non è stata fornita alcuna risposta fino alla data della decisione. Il tenore del provvedimento estradizionale ha posto alla Corte due ordini di problemi: — la legittimità dell’estensione della giurisdizione anche ai reati associativi contestati all’imputato, per i quali non risulta concessa l’estradizione; — la vincolatività, nel caso di condanna dell’imputato per i reati a lui ascritti, del limite di pena imposto dal governo spagnolo’’. Affrontato e superato il primo problema, sulla base della giurisprudenza di legittimità, costantemente orientata, ‘‘a decorrere dalla sentenza S.U. del 28 febbraio 1989, ric. Nigro, nel senso che il principio di specialità di cui all’art. 14 della Convenzione europea di estradizione di Parigi del 13 dicembre 1957 non preclude in modo assoluto l’esercizio della giurisdizione da parte dello Stato richiesto, ma vi pone solo delle limitazioni imposte dalla necessità di impedire che si tragga occasione dalla presenza fisica dell’estradato nel territorio nazionale per sottoporlo a provvedimenti restrittivi della libertà personale diversi da quelli per i quali l’estradizione è stata concessa ed anteriore alla consegna’’, la Corte passa ad affrontare l’altra questione, osservando quanto segue: ‘‘In relazione alla seconda questione trova applicazione l’art. 720 comma 4 c.p.p. in base al quale il Ministro della giustizia è competente a decidere in ordine all’accettazione delle condizioni poste dallo stato estero per concedere l’estradizione. Ebbene, nel silenzio delle competenti autorità nazionali interpellate, ritiene questa Corte che l’accettazione delle condizioni poste dal governo spagnolo all’estradizione del Puntorieri
— 851 — per i capi d’imputazione di cui ai nn. 5-6-7 (già indicati con i numeri 83-84-85 del decreto che dispone il giudizio del 23 settembre 1995) debba desumersi per comportamento concludente, qual’è l’avvenuta presa in consegna dell’estradato senza riserve ed eccezioni da parte delle autorità italiane competenti: il Puntorieri risulta infatti essere stato rimpatriato proveniente da Madrid da parte di personale del Ministero dell’interno italiano, e qui giunto, arrestato e associato alla casa circondariale romana a disposizione dell’A.G. Deve ritenersi così implicitamente accettata dal governo italiano la condizione della non applicabilità all’estradato della pena perpetua, per cui trova applicazione il disposto dell’art. 720, comma 4 c.p.p in base al quale l’autorità giudiziaria procedente è vincolata al rispetto delle condizioni accettate. La norma, ispirata al perseguimento di interessi sovranazionali evidentemente valutati preminenti, quali il promovimento e l’impulso alla cooperazione ed alle relazioni internazionali, concreta una ipotesi di delimitazione dell’ambito di esercizio della giurisdizione da parte di organi politico-amministrativi, sulla base di valutazioni discrezionali degli stessi, senza ammettere deroghe ed eccezioni. Pertanto questa Corte non può che prendere atto del limite imposto dall’autorità spagnola e della sua vincolatività per effetto dell’avvenuta accettazione’’. 3. Esaurite le questioni preliminari, la Corte procedeva all’esame del merito, alla fine del quale giudicava il Puntorieri colpevole in ordine a sei su sette dei capi di addebito e, ritenuto il vincolo della continuazione, quanto alla pena detentiva condannava l’imputato ad anni trenta di reclusione (artt. 78 e 81 c.p.). L’art. 25 della nuova Costituzione della Confederazione elvetica. 1. Con la votazione popolare del 18 aprile 1999 è stata ‘‘accettata’’ la nuova Costituzione federale della Confederazione Svizzera, di cui era stata prevista l’entrata in vigore con decorrenza 1o gennaio 2000. È stata quindi abrogata la Costituzione federale del 1874. A differenza di quello previgente, il nuovo testo normativo è suddiviso in titoli, capitoli e sezioni, ed ogni articolo reca una propria ‘‘rubrica’’ esplicativa. 2. Per quanto riguarda la tematica della nostra rubrica, merita una particolare segnalazione — nell’ambito del capitolo 1 (Diritti fondamentali) del titolo secondo (Diritti fondamentali, diritti civici e obiettivi sociali) — l’art. 25, dedicato alla Protezione dall’espulsione, dall’estradizione e dal rinvio forzato. Esso risulta composto di tre paragrafi: ‘‘(1) Le persone di cittadinanza svizzera non possono essere espulse dal Paese; possono essere estradate a un’autorità estera soltanto se vi acconsentono. (2) I rifugiati non possono essere rinviati né estradati in uno Stato in cui sono perseguitati. (3) Nessuno può essere rinviato in uno Stato in cui rischia la tortura o un altro genere di trattamento o punizione crudele o inumano’’. (Il § 2 dell’art. 121 prevede che possono essere espulsi gli stranieri ‘‘che compromettono la sicurezza del Paese’’). 3. Piace leggere nel nuovo testo — ma è considerazione di carattere assai più generale — che ‘‘organi dello Stato, autorità e privati agiscono secondo il principio della buona fede’’ (art. 5, § 3) e che ‘‘ognuno ha diritto d’essere trattato senza arbitrio e secondo il principio della buona fede da parte degli organi dello Stato’’ (art. 9). Con tale tipo di previsioni — per tornare alla nostra tematica — ben si armonizza la disciplina contenuta nell’art. 22 della legge federale sull’assistenza internazionale in materia penale (1981), laddove, anche nella nuova versione conseguente alle modifiche del 4 ottobre 1996, si stabilisce che le decisioni e le pronunce rese in materia dalle autorità federali e can-
— 852 — tonali devono indicare il rimedio giuridico possibile, l’autorità competente ed il termine per interporlo. Sulla presenza di operatori stranieri nelle procedure elvetiche di cooperazione internazionale(2). Nel corso di una serie di procedure di cooperazione internazionale, strettamente connesse, che vedevano la Federazione russa come parte richiedente, il Tribunale Federale elvetico ha affrontato, giudicando come 1a Corte di diritto pubblico, la tematica di cui nel titolo, con una sentenza in data 29 settembre 1999. Si trattava di decidere in ordine a dei ricorsi (nn. 173, 174 e 177/1999) presentati avverso alcune ordinanze emanate dal Ministero Pubblico della Confederazione il 15 luglio: ricorsi nei quali le parti private (enti societari) lamentavano che la presenza dei funzionari stranieri integrasse l’ipotesi del ‘‘pregiudizio immediato ed irreparabile’’, idoneo a giustificare una decisione incidentale prima della decisione finale di chiusura. Pubblichiamo la traduzione italiana di una parte di tale sentenza. ‘‘... 4. In base all’art. 65 a della legge di assistenza internazionale in materia penale, quando lo Stato richiedente lo domanda alla stregua del proprio diritto interno, le persone che partecipano alla procedura possono essere autorizzate ad assistere agli atti di assistenza ed a consultare il fascicolo (al. 1). Questa presenza può del pari essere ammessa qualora essa consenta di facilitare in misura considerevole l’esecuzione della domanda o la procedura penale straniera (al. 2). L’autorità d’esecuzione decide in ordine al diritto delle persone straniere che partecipano alla procedura di porre delle questioni e di richiedere supplementi d’indagine (art. 26 al. 2 Ord. sull’assistenza internaz. in mat. pen. - OAIMP). Quando l’autorità richiedente domanda in modo espresso la presenza dei suoi investigatori, si può in linea generale presumere che essa è idonea a facilitare l’esecuzione della domanda. a) Anche se non deve essere ammessa senz’altro (FF 1995, III, p. 23), nel caso di specie la presenza di investigatori risulta necessaria. L’autorità svizzera d’esecuzione ha ricevuto la lista delle questioni da porre ai testimoni, ma le sue incombenze non ne sono state per ciò solo semplificate: tenuto conto della natura e della complessità degli illeciti perseguiti che mettono in gioco numerose persone fisiche e morali, solo chi ha seguito l’indagine fin dall’inizio e conosce perfettamente il fascicolo sarà in grado di valutare la portata delle risposte ottenute e, se del caso, di proporre questioni complementari come temi di testimonianza, vale a dire di orientare il seguito delle indagini. La presenza richiesta potrebbe così soprattutto permettere di prevenire una eventuale domanda complementare, secondo le esigenze di una cooperazione giudiziaria rapida ed efficace. Essa è dunque manifestamente idonea ad accrescere l’efficacia delle misure richieste. La presenza dei rappresentanti del Procuratore generale della Federazione russa non presta dunque il fianco a critiche. b) Le cose vanno diversamente quanto ai rappresentanti del Ministero delle Finanze. L’autorità richiedente non indica, in effetti, a quale titolo i funzionari del ministero, che non è propriamente l’autorità di indagine straniera, dovrebbero assistere quest’ultima nell’esecuzione della domanda di assistenza. L’indagine sembra essere svolta dalla sola autorità penale, per reati di frode e di riciclaggio di denaro. L’autorità richiedente non muove da problemi di frode fiscale, che potrebbero rendere necessaria la presenza di funzionari specializzati. Non si fa d’altronde questione che il Ministero delle Finanze agirebbe in rappresentanza dello Stato richiedente, in qualità di azionista di maggioranza della società danneggiata. In queste condizioni, e tenuto conto dei rischi sopra indicati, non è possibile autorizzare la presenza dei rappresentanti del Ministero delle Finanze dello Stato richiedente.
(2) In argomento v. le direttive dell’Ufficio Federale di Polizia del 15 ottobre 1982, riportate in Ind. pen., 1983, p. 674.
— 853 — c) I ricorrenti vorrebbero infine limitare le questioni da porre ai testimoni. Su questo punto tuttavia, tenuto conto dell’esclusione dei rappresentanti del Ministero delle Finanze, e delle precauzioni che saranno adottate dal Ministero pubblico della Confederazione (MPC), la decisione impugnata non causa alcun pregiudizio irreparabile ai ricorrenti: è all’autorità di esecuzione che competerà la direzione delle indagini. L’autorità straniera ammessa a partecipare agli atti di cooperazione dovrà limitarsi a un ruolo passivo, mentre spetta al MPC decidere sull’ammissibilità delle questioni da porre (art. 26 al. 2 OAIMP), stabilire se le risposte possono essere raccolte in presenza degli agenti stranieri, e assicurarsi che questi ultimi non prendano conoscenza dei documenti che non siano in rapporto con la loro indagine, non possano utilizzare le informazioni ottenute prima che sia intervenuta una decisione definitiva di trasmissione, e non si vedano consegnare i processi verbali prima della pronuncia della decisione di chiusura. Se del caso, i ricorrenti potranno opporsi alla trasmissione di determinate informazioni in occasione di un ricorso avverso la decisione finale di trasmissione’’. Italia-Svizzera: ‘‘Brigate rosse’’, reato politico, terrorismo, estradizione. 1. Il 19 marzo 1999 l’Ambasciata italiana a Berna chiede l’estradizione del cittadino italiano Marcello Ghiringhelli, detenuto a La Chaux-de-Fonds. Si tratta di estradizione esecutiva, fondata sulla Convenzione europea di estradizione (vincolante l’Italia e la Confederazione elvetica), per l’esecuzione della pena dell’ergastolo, sulla base delle sentenze rese: il 3 luglio 1985, della Corte d’assise d’appello di Torino; il 28 novembre dello stesso anno, dalla Corte d’assise d’appello di Milano; il 3 giugno 1986, dalla Corte d’assise di Napoli. Con tali sentenze, l’imputato era stato condannato a titolo di costituzione di banda armata (artt. 306 e 302 c.p.), con finalità sovversive (art. 270), costituzione di associazione con finalità eversive dell’ordine democratico (art. 270-bis), strage (art. 422), e per una serie di altri gravi delitti (tra essi quelli previsti negli artt. 280, 284, 285, 286), tutti ad ogni modo collegati — compresi dei tentativi o progetti di assalto ad alcune carceri — alla sua partecipazione all’attività delle ‘‘Brigate rosse’’. Il 10 agosto 1999 l’Ufficio Federale di Polizia accorda l’estradizione all’Italia. Segue un ricorso, che, con sentenza 2 dicembre, il Tribunale Federale (RU, 125 II, p. 569 ss.) passa a respingere, concedendo l’estradizione per tutti i reati oggetto della domanda del 9 marzo. 2. Nel verificare, con esiti positivi, la sussistenza della condizione della doppia punibilità, a fronte di omologhe previsioni contenute nel Codice penale svizzero, il Tribunale (p. 572) precisa quanto segue (3): ‘‘Nel corso di un periodo che va dalla fine degli anni ’70 all’inizio degli anni ’80, le Brigate rosse si sono costituite in Italia come un’organizzazione strutturata, gerarchizzata e articolata, con l’obiettivo di attivare un movimento rivoluzionario destinato a distruggere le istituzioni della Repubblica italiana ed a sostituirle con la dittatura del proletariato. Le Brigate rosse concepivano il loro ruolo come quello di un’avanguardia avente la missione di preparare il terreno alla rivoluzione, dal punto di vista logistico ed operativo, e di creare, mediante la commissione di attentati contro gli agenti e i rappresentanti dello Stato, un clima di terrore pre-insurrezionale. In qualità di componente del nucleo direttivo delle colonne milanese e torinese delle Brigate rosse, il ricorrente ha partecipato, secondo quanto risulta dalla sentenza del 3 luglio e del 28 novembre 1985, ai delitti commessi da questi gruppi tra il 1978 e il 1982, sia per quanto concerne la logistica (costituzioni di arsenali di armi, munizioni ed esplosivi, fabbricazione di false carte d’identità, ecc.), sia il fronte operativo (omicidi, aggressioni, estorsioni), sia l’aspetto organizzativo (reclutamento di nuovi membri, propaganda, rivendicazione). Il ricorrente non ha mai contestato d’aver svolto un ruolo di primo piano nelle colonne
(3)
... che qui viene riproposto in versione italiana.
— 854 — milanese e torinese delle Brigate rosse; egli non si è mai dissociato da tale organizzazione, né si è pentito d’avervi preso parte’’ (4). 3. Il Tribunale Federale rileva che il ricorrente non ha mai fatto appello all’art. 3 della Convenzione europea per opporsi all’estradizione, facendo valere la natura politica dei reati addebitatigli. Per questa ragione l’Ufficio Federale di Polizia si era limitato ad affermare, senz’altro esame, che i fatti in questione non potevano essere valutati come reati politici. E ciò senza investire del problema il Tribunale Federale, sulla base dell’art. 5.2 della legge federale 20 marzo 1981 sull’assistenza internazionale in materia penale (5). Nonostante ciò, ‘‘e tenuto conto del carattere particolare del delitto politico, si giustificano — continua la sentenza — una deroga alla regola ed una verifica d’ufficio’’ circa l’applicabilità dell’art. 3 della Convenzione. 4. Nell’accingersi a tale esame, il Tribunale di Losanna prende in attento esame le interrelazioni, con la Convenzione europea in discorso, della Convenzione europea per la repressione del terrorismo — come la prima vincolante tanto l’Italia che la Confederazione (6) — in particolare sottolineando (consid. 9.c) che la seconda Convenzione — aperta alla firma e alla ratifica solo da parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa (art. 11.1) — ‘‘mira a ridurre il campo di applicazione del delitto politico come eccezione all’estradizione’’. ‘‘Nella fattispecie — e così, per brevità, ci limitiamo a riportare il testo italiano della massima preposta al testo della sentenza — gli attentati commessi mediante armi da fuoco automatiche non sono considerati come reati politici, tenuto conto degli artt. 1, lett. e) e 13 cpv., lett. c) della convenzione antiterrorismo’’ (7). E così continua la ‘‘massima’’, che qui per intero riproduciamo (pur senza volere con ciò ridurre la portata delle ampie e pregevoli argomentazioni svolte dal Tribunale Federale): ‘‘I reati di costituzione di banda armata al fine di sovvertire lo Stato sono reati politici assoluti per i quali l’estradizione è, in linea di principio, esclusa nella misura in cui è punita unicamente la costituzione di tale banda, senza ulteriori atti preparatori (consid. 9e/aa). Per converso, non sono reati politici assoluti quelli vincolati alla costituzione di una banda armata, laddove la loro commissione implichi un’attività di tale banda (consid. 9/e/bb) (8).
(4) Nel corso della ricognizione in tema di doppia punibilità, la sentenza dà anche conto — per i suoi riflessi in ordine all’estradizione — delle recenti modifiche apportate dalla l. federale 20 giugno 1997 (entrata in vigore il 1o gennaio 1999) in tema di disciplina delle armi, accessori e munizioni (il Ghiringhelli era stato riconosciuto colpevole di detenzione e porto illecito di revolvers, pistole, fucili automatici, fucili mitragliatori, mitragliatrici, e relative munizioni). (5) Art. 5.2. ‘‘Se la persona perseguita fa valere d’essere ricercata per un reato politico o se nell’istruzione appaiono seri motivi per concludere al reato politico dell’atto, la decisione spetta al Tribunale federale. L’Ufficio federale trasmette l’inserto al tribunale, con propria proposta. Alla persona perseguita è dato modo di esprimersi in merito’’. (6) Per il testo della Convenzione (oltre che della riserva italiana all’art. 13) v. PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 585 ss. (7) Nell’art. 1, lett. e), si esclude che, ai fini dell’estradizione, possa essere considerato reato politico ‘‘un reato che comporta il ricorso a bombe, granate, razzi, armi automatiche, o plichi o pacchi contenenti esplosivi ove il loro uso rappresenti un pericolo per le persone’’. Nell’art. 13, lett. c), si prevede la possibilità di una riserva circa il diritto di rifiutare l’estradizione per un reato politico; e ciò sempre che il Paese che fa la riserva si impegni, nella sua valutazione in materia, a tenere nel debito conto (tra gli altri elementi) ‘‘il fatto che si è ricorso a mezzi crudeli o malvagi nel perpetrare il reato’’. E in questi stessi termini l’Italia ha apposto nel 1977, e confermato nel 1986, la sua (unica) riserva alla Convenzione. (8) Nella consid. 9/c il Tribunale Federale — con richiamo di precedenti ed anche della dottrina pertinente — aveva ricordato che, secondo la giurisprudenza, è ‘‘delitto politico assoluto quello che è diretto esclusivamente contro l’organizzazione sociale e politica dello Stato (...) secondo un intendimento che fa parte degli elementi costitutivi del reato’’ (es. sedizione, colpo di Stato, alto tradimento). ‘‘Costituisce invece delitto politico relativo il reato di diritto comune che tuttavia presenta un carattere politico preponderante, tenuto conto del tipo di circostanze, dei moventi e degli scopi che hanno determinato l’autore (...). Il delitto politico relativo, ispirato dalla passione politica, deve sempre esser stato commesso nel quadro di una lotta per o contro il potere e collocarsi in rapporto di connessione stretto e diretto, chiaro e
— 855 — Nel caso concreto l’estradizione dev’essere accordata per tutti i reati menzionati nella domanda, ivi compresi i reati politici assoluti che non danno luogo ad estradizione, dato che l’estradando è ricercato per l’esecuzione di una pena di reclusione perpetua pronunciata nei suoi confronti varie volte, di cui almeno una per reati che danno normalmente luogo ad estradizione (consid. 10)’’. Francia-Spagna: in tema di terrorismo basco. ‘‘Extradé de France, Rafael Caride Simon, alias ‘Lutxo’, membre de l’organisation terroriste basque ETA et considéré par les Espagnols comme l’ancien chef du sanglant ‘commando de Barcelone’, a été remis, mardi 7 mars, à la police espagnole à l’aéroport de Madrid-Barajas, où un important dispositif de sécurité avait été mis en place. Escorté par des policiers français, il arrivait de Paris à bord d’un avion d’une ligne régulière. ‘Lutxo’ avait été arrêté à Toulouse en 1993 et condamné à deux reprises en France pour association de malfaiteurs en relation avec une entreprise terroriste. Son extradition était réclamée par la justice espagnole, qui le soupçonne d’être directement responsable de cinq attentats commis à la fin des années 1980, dont celui de l’hypermarché Hipercor de Barcelone, le plus sanglant de l’histoire de l’ETA: l’engin, placé sur le parking de l’hypermarché, avait fait 21 morts et 44 blessés le 19 juin 1987’’. (Nota dell’Agenzia AFP, pubblicata sotto il titolo: Le chef présumé du ‘‘commando de Barcelone’’ extradé, in Le Monde del 9 marzo 2000, p. 3). Il riconoscimento di una sentenza thailandese: il caso Bubani. 1. Detenuto nel carcere thailandese di Lardjao, a seguito di una grave condanna inflittagli nel 1990 per detenzione di eroina a fini di spaccio, il torinese Bubani ha più volte ribadito la sua contrarietà rispetto ad un ipotizzato ‘‘trasferimento’’ in Italia (9), anche nella speranza della grazia nel Paese di condanna. Riprendendo quanto s’era avuto occasione di richiamare in una precedente occasione (Italia-Thailandia: il detenuto italiano non consente il trasferimento, in Ind. pen., 1995, p. 161), laddove s’era riferito: ‘‘ora, dopo che il ministro di Grazia e Giustizia si è interessato del caso di Pietro, il fascicolo processuale è stato trasferito a Torino e si attende il processo di riconoscimento della sentenza asiatica presso la Corte d’appello di Torino’’, siamo qui in grado di pubblicare tale sentenza, emessa dalla sez. IV (presid. e rel. Witzel) in data 26 settembre 1996: « Il predetto Bubani Piero veniva condannato con sentenza 11 settembre 1990 del Tribunale di Bangkok (Regno di Thailandia) alla pena di 30 anni di reclusione per detenzione di eroina a fini di spaccio. Su richiesta 13 ottobre 1994 del Ministro di Grazia e Giustizia, il Procuratore Generale della Repubblica di Torino con atto 26 ottobre 1994 chiedeva alla Corte d’appello di Torino che fosse dato riconoscimento alla suddetta sentenza al fine di stabilire la recidiva nonché per dichiarare l’abitualità, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere. Con sentenza 15 marzo 1995 la Corte d’appello di Torino, sezione 5a penale, respingeva la richiesta del Procuratore Generale, ritenendo ricorrere la causa di non riconoscibilità stabilita nella lettera b) del comma 1 dell’art. 733 c.p.p., in quanto la sentenza straniera aveva stabilito come pena-base la pena di morte (ancorché ridotta in concreto ad anni 30 di reclu-
netto con l’oggetto di questa lotta. (...) Occorre inoltre che il male causato sia proporzionato all’obiettivo politico perseguito e che gli interessi in causa siano sufficientemente consistenti, se non per giustificare, almeno per scusare, sia pure in certa misura, il delitto’’. (9) Per il testo del trattato Italia-Thailandia (1984) in tema di cooperazione per l’esecuzione delle sentenze penali, oltre che delle relative norme di attuazione, v. E. ZANETTI, Convenzioni sul trasferimento delle persone condannate, 1999, pp. 116 ss., 130-131, 233 ss., 252 ss.
— 856 — sione per effetto dell’ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato), e pertanto conteneva statuizione contraria ai princîpi fondamentali nel nostro ordinamento giuridico. Su ricorso del Procuratore Generale di Torino, la Suprema Corte con sentenza 13 febbraio 1996 annullava la predetta sentenza 15 marzo 1995, con rinvio ad altra Sezione di questa Corte, affermando che, in una corretta interpretazione dell’art. 733 lett. b) c.p.p., ‘‘la lettera della norma... e, in particolare, l’uso del termine ‘disposizione’ come evidente sinonimo di concreta ‘statuizione’ documentano che la cennata preclusione al riconoscimento non deriva dal confronto tra la norma penale straniera, in senso astratto, e l’ordinamento interno italiano, bensì dall’analisi della concreta applicazione dell’anzidetta norma, che si vorrebbe far valere in Italia per gli effetti previsti dal codice penale; occorre, cioè, valutare il contenuto della decisione del giudice straniero al fine di verificare la compatibilità con la legislazione penale italiana’’. Ciò posto, la Suprema Corte ha affermato che ‘‘la previsione nell’ordinamento penale thailandese della pena di morte per il delitto (detenzione a fine di spaccio di eroina) per il quale Piero Bubani è stato giudicato dal Tribunale di Bangkok, ed il fatto che tale sanzione sia stata assunta dal giudice thailandese quale pena base nella sua sentenza di condanna, non costituiscono ostacolo al riconoscimento in Italia della detta sentenza, con la quale è stata irrogata al Bubani la pena di trenta anni di reclusione, posto che tali circostanze non sono assurte al rango di concreta statuizione’’. In esito all’odierna udienza in camera di consiglio, nella quale il P.G. e la difesa hanno concluso come da verbale, la Corte osserva: 1. La sentenza penale straniera in questione è divenuta definitiva, come da certificato 12 dicembre 1990 in atti; dunque, non ricorre la causa ostativa al riconoscimento prevista dalla lett. a) dell’art. 733 c.p.p. 2. Con tale sentenza il Bubani, cittadino italiano, è stato condannato alla pena di 30 anni di reclusione per aver detenuto, per fini di spaccio, grammi 1536 di cloridrato di eroina (10); pertanto, trattasi di reato qualificabile, secondo la legge italiana, come delitto di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti; ricorre, dunque, la condizione di riconoscibilità prevista nella prima parte del comma 1 dell’art. 12 c.p. (condanna per delitto) e non sussiste la causa ostativa al riconoscimento prevista dalla lettera e) dell’art. 733 c.p.p.; inoltre, stante quanto stabilito dalla Suprema Corte con la sentenza 13 febbraio 1996 sopra menzionata, non ricorre neppure la causa ostativa prevista dalla lettera b) del citato art. 733. 3. Il Procuratore Generale in sede ha chiesto il riconoscimento di tale sentenza a fini che rientrano nella previsione del n. 1) del comma 1 dell’art. 12 c.p. 4. Sussiste la richiesta del Ministro, prevista dall’ultimo comma dell’art. 12 c.p. per i casi in cui, come nella specie, non esiste trattato di estradizione con lo Stato estero la cui autorità giudiziaria ha pronunciato la sentenza. 5. Non risultano elementi per ritenere che la sentenza non sia stata pronunciata da un giudice indipendente e imparziale, né che l’imputato non sia stato citato a comparire in giudizio davanti al Tribunale di Bangkok ovvero non gli sia stato riconosciuto il diritto a essere interrogato in una lingua a lui comprensibile e a essere assistito da un difensore; anzi, dalla prodotta sentenza straniera emerge, tra l’altro, che ‘‘l’imputato n. 1 ‘cioè il Bubani Piero n.d.e.’ si è dichiarato colpevole’’, e che il Tribunale ha ‘‘preso in esame le prove fornite sia dall’accusa che dalla difesa’’. 6. Non si ravvisano ragioni previste dalla lettera d) del citato art. 733; anzi, la sentenza straniera si cura di valutare che ‘‘nessuno dei testimoni a carico... poteva avere con lui motivi di contrasto che possano far sorgere il sospetto di volerlo danneggiare’’; del resto, lo stesso Bubani nella lettera 14 dicembre 1994 indirizzata alla Corte d’appello di Torino ha tra l’altro affermato ‘‘d’aver commesso il reato ascrittomi in territorio thailandese’’.
(10) Da una nota, aggiornata al 16 marzo 2000, della sezione italiana di Amnesty International relativa alla pena di morte nel mondo, risulta che, tra i reati per i quali in Thailandia è prevista la pena di morte — salvo la (piuttosto frequente) commutazione della pena da parte del sovrano — risulta anche il ‘‘possesso di più di 100 grammi di eroina’’.
— 857 — 7. Non risulta che per lo stesso fatto nei confronti del Bubani sia stata pronunciata sentenza irrevocabile in Italia o sia in corso procedimento penale. Pertanto, va accolta la richiesta del Procuratore Generale — ai fini nella stessa specificati. Stante il limitato ambito di tali fini, non ha rilevanza l’affermazione fatta dal Bubani nella menzionata sua lettera 14 dicembre 1994: ‘‘...non ho mai richiesto, né intendo richiedere in futuro il mio trasferimento in carcere in Italia e perciò non desidero affatto che la mia sentenza thailandese venga riconosciuta o trasferita in Italia’’. P.q.m. — V. gli artt. 730-734 c.p.p. e 12 c.p. — Dichiara riconosciuta nella Repubblica italiana la sentenza 11 settembre 1990 con cui il Tribunale di Bangkok (Regno di Thailandia) ha condannato il nominato Bubani Piero alla pena di 30 anni di reclusione per reato qualificabile, secondo la legge italiana, come delitto di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti (eroina), commesso in Bangkok il 28 aprile 1990; — Precisa che tale riconoscimento è dato per stabilire la recidiva, ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere. Si comunichi al Procuratore Generale e si notifichi all’interessato ed al suo difensore ». 2. A conferire una qualche attualità all’argomento è la notizia giornalistica (Il condannato torna a sperare - Deve scontare 30 anni in Thailandia) così riferita da La Stampa del 20 febbraio 2000, p. 37: ‘‘Oggi però una delegazione del Ministero della Giustizia parte per la Thailandia, per avviare trattative su una serie di questioni giudiziarie: e tra i casi che verranno discussi c’è anche quello di Piero Bubani’’. Il resoconto giornalistico continua riferendo il pensiero del difensore italiano del Bubani: ‘‘...il mio cliente non ha nessun desiderio di scontare in Italia la pena residua. Certo, lui spera in una grazia. Ma se dovrà restare in prigione, credo preferisca rimanere nel carcere di Lardjao, che è una sorta di struttura modello, con ampi spazi aperti, e dove lo trattano benissimo, o almeno così lui mi riferisce, piuttosto che venir trasferito in una nostra prigione’’.
Una circolare statunitense sul trasferimento dei detenuti. — Avvertenza. — Il contenuto di questa circolare fornisce soltanto un’informazione di massima e può non risultare applicabile in toto al caso di specie. Le questioni relative all’interpretazione delle leggi straniere dovranno essere sottoposte ad un legale straniero. — Situazione generale. — I trattati sul trasferimento dei detenuti consentono alle persone condannate per un reato in uno Stato di tornare nel proprio Paese per terminare di scontare la pena in condizioni culturali e di vita più familiari, aumentando, così, le prospettive di riabilitazione. Per ciascun trasferimento sono necessari il consenso del governo americano, quello dello Stato ospite e del detenuto. Quella di trasferire un detenuto è una decisione discrezionale, che deve essere adottata da ciascun Paese (...). — Trattati bilaterali sul trasferimento dei detenuti. — Gli Stati Uniti hanno 11 trattati bilaterali sul trasferimento dei detenuti in vigore: Bolivia, Canada, Francia, Isole Marshall, Messico, Micronesia, Palau, Panama, Perù, Tailandia, e Turchia. Il trattato bilaterale Stati Uniti - Hong Kong è stato inviato al Senato americano per il parere e l’assenso alla ratifica, ma non è ancora in vigore. —Trattati multilaterali sul trasferimento dei detenuti. — Gli Stati Uniti sono parte della Convenzione del Consiglio d’Europa (COE) ‘‘sul trasferimento delle persone condannate’’ (secondo la denominazione ufficiale). (...)
— 858 — — Norme di attuazione. — Il governo americano ha norme federali interne di attuazione, 18 USC 4100 e seg., applicabili a tutti i trattati sul trasferimento dei detenuti. V. anche 28 CFR 2.62. — Requisiti per chiedere il trasferimento. — Un detenuto è idoneo ad essere considerato ai fini del trasferimento, secondo le disposizioni di un trattato, qualora sia intervenuta una sentenza definitiva, cioè quando non vi siano impugnazioni pendenti, e sia stato scontato l’eventuale minimo di reclusione nello Stato estero, previsto dalla legge straniera. Di norma devono essere pagate le pene pecuniarie e le spese processuali. I detenuti condannati per certi tipi di reato o quelli ai quali restano ancora da scontare meno di sei mesi di pena non sono ritenuti idonei. Inoltre, il detenuto deve fornire la prova di possedere la cittadinanza americana. — Richiesta. — La procedura di trasferimento, di norma, ha inizio con la comunicazione all’ambasciata, da parte del detenuto, della sua volontà di essere trasferito secondo il trattato. Il Dipartimento della Giustizia decide, discrezionalmente, se il detenuto possa essere trasferito negli Stati Uniti, in conformità a direttive interne. Se e quando il Dipartimento di giustizia esprime parere favorevole, l’ambasciata americana contatta allora il ministero straniero. Se quest’ultimo acconsente, vengono concluse intese con il Dipartimento della Giustizia americano per concludere il trasferimento in tempi per esso accettabili. L’ambasciata statunitense assiste il detenuto nella trasmissione della documentazione necessaria alle competenti autorità governative: di norma, i corrispondenti uffici del Ministro della Giustizia. Il Dipartimento della Giustizia è l’‘‘autorità’’ designata, da parte degli Stati Uniti, in merito al trasferimento dei detenuti per quanto li riguarda. Poiché la richiesta di trasferimento del detenuto deve essere approvata da entrambi i governi, saranno raggiunte intese tra di essi per effettuarne il trasferimento in tempi reciprocamente accettabili. — Documentazione. — I documenti da allegare alla richiesta di trasferimento variano in ragione del trattato. Per informazioni specifiche, si consulti il Dipartimento della Giustizia. Tra i documenti fondamentali vi sono: • il modulo o lettera firmati dal detenuto che attesti l’interesse al trasferimento; • il certificato di nascita o il passaporto; • la sentenza o la determinazione della pena; • il pre-sentence report; • le impronte digitali e la fotografia; • il computo della pena; • lo stato di avanzamento della detenzione (livello di sicurezza, rapporti disciplinari, lavoro carcerario, partecipazione ai programmi, profilo psicologico, attuali condizioni sanitarie); • la posizione relativa all’immigrazione; • informazioni relative alla famiglia e alla residenza. — Consenso al trasferimento. — Per ogni trasferimento sono necessari il consenso da parte del governo statunitense, del ‘‘governo ospite’’ (host government) e del detenuto. I cittadini del ‘‘Paese ospite’’ (host country) detenuti negli Stati Uniti (11) godono della stessa facoltà di scelta. Quella di trasferire un detenuto è una decisione discrezionale che deve essere adottata da ciascun Paese. — Udienza di verifica del consenso. — Secondo il diritto americano (18 U.S.C. 4108) il detenuto da trasferire negli o dagli Stati Uniti deve prestare il proprio consenso prima di essere trasferito. Ciò ha luogo in un’apposita udienza detta ‘‘di verifica del consenso’’ (CVH). Per i detenuti da trasferire negli Stati Uniti da Paesi stranieri tale udienza è, di
(11) Per la terminologia della Convenzione del Consiglio d’Europa (‘‘Stato di condanna’’, ‘‘Stato di esecuzione’’), v. ZANETTI, Convenzioni sul trasferimento delle persone condannate, cit., p. 54.
— 859 — norma, svolta da un magistrato americano nel Paese straniero uno o due giorni prima della data fissata per il trasferimento. Alcuni Paesi non gradiscono l’idea che un magistrato americano conduca tale udienza nel Paese ospite. Se ciò creasse un problema serio, può essere incaricato di tale incombente un altro pubblico ufficiale americano, ad esempio un agente consolare. I detenuti hanno diritto all’assistenza di un difensore, a loro spese; se non possono permettersi un difensore di fiducia, possono chiedere di essere rappresentati da un United States Public Defender. Il difensore incaricato potrà recarsi nel Paese straniero e discutere con il detenuto idoneo degli effetti del trasferimento. Se il detenuto conferma l’intendimento di essere trasferito, si procederà all’udienza di verifica ed egli presterà il proprio consenso al trasferimento. Sono previste speciali intese relative ai casi che riguardano minori o malati di mente (18 U.S.C. 4102. 8 e 9). — Trasferimento effettivo. — La persona che viene trasferita ritorna negli Stati Uniti sotto la custodia dei funzionari del Bureau of Prisons ed è collocata in una prigione federale. Le informazioni sulla data esatta e sui tempi di un trasferimento non sono rese accessibili al detenuto, ai suoi familiari o ad altre persone sino a che il trasferimento concreto non abbia luogo; e ciò per ragioni di sicurezza del Bureau of Prisons americano. — Sentencing Reform Act - Udienza di release determination. — A seguito del trasferimento secondo un trattato, il detenuto non ha il diritto di impugnare, negli Stati Uniti, la sentenza di condanna pronunciata all’estero; tuttavia, il diritto americano prevede che un detenuto non possa subire la perdita di tutti i suoi diritti civili in conseguenza della carcerazione nelle prigioni degli Stati Uniti per effetto del trasferimento ai sensi di un trattato. Secondo il diritto americano (18 U.S.C. 4100-4115) il detenuto trasferito in base ad un trattato ha diritto di comparire, in un’udienza di release determination, davanti alla U. S. Parole Commission: un organo amministrativo, che decide se il detenuto è idoneo a scontare parte della pena inflitta all’estero sotto forma di libertà condizionale, di norma ‘‘supervised release’’, ai sensi del Sentencing Reform Act del 1987. L’udienza di release determination non è un meccanismo per ridurre la pena, né chi decide in merito può rovesciare (overturn) le condanne. Le sue deliberazioni non hanno carattere giurisdizionale. Nel decidere sulla liberazione condizionale, il collegio valuta una pluralità di elementi, tra cui la natura del reato commesso, il comportamento del detenuto in carcere, la durata della pena già scontata, e se il detenuto abbia commesso altri reati. Il fatto che il detenuto abbia diritto a tale udienza non significa che gli sarà concessa la libertà condizionale. Quest’ultima non equivale alla grazia. La libertà condizionale non è da considerare come una modifica della pena inflitta, ma piuttosto una forma meno restrittiva di detenzione. Le condizioni della liberazione sono vincolanti e il detenuto, mentre ne beneficia, è considerato ancora sotto custodia del ministro della giustizia. La liberazione condizionale di un detenuto, in nessun modo modifica o disattende la pena inflitta all’estero. La durata di quest’ultima è considerata come il periodo massimo per cui il detenuto, liberato sotto condizione, deve rispettare le condizioni impostegli. La pena inflitta all’estero non subisce riduzioni per effetto della libertà condizionale; solo le condizioni della reclusione sono in discussione. Il detenuto deve osservare tutte le condizioni della liberazione e riferire, con regolarità, ad un probation officer. Se l’autore di reato, poi trasferito, viola alcuna delle condizioni della liberazione, dovrà tornare in carcere dopo un’udienza ammistrativa per continuare a scontare quanto rimane della pena inflitta all’estero. — Sistema statale a confronto con quello federale: alcune caratteristiche degli Stati Uniti. — Negli Stati Uniti c’è una differenza tra i detenuti che scontano la pena in strutture locali o statali e i detenuti condannati a livello federale, che scontano la pena in strutture federali. Può interessare le autorità straniere che alcuni degli Stati membri degli Stati Uniti non hanno particolare predilezione per i trattati su trasferimento dei detenuti e alcuni di essi si sono mostrati riluttanti a partecipare a tali trasferimenti. 44 dei 50 Stati e il Common-
— 860 — wealth delle Isole Marianne del Nord hanno adottato leggi di attuazione, ma solo un piccolo numero (Arizona, Florida, Illinois, Massachusetts, New Mexico e New York) le ha rese effettivamente operative. Come già rilevato, i trattati sul trasferimento dei detenuti richiedono il consenso di tre parti: (1) lo Stato trasferente, (2) lo Stato ricevente e (3) il detenuto, prima che il trasferimento possa avere luogo. Oltre a ciò la persona detenuta in un penitenziario statale deve ottenere il consenso delle autorità statali anche in ordine ad un trasferimento convenzionale (18 U.S.C. 4102.6). I nostri trattati bilaterali sul trasferimento dei detenuti, quello con il Canada, ad esempio, prevede (III. 5) che, nei casi che riguardano detenuti condannati da corti statali o provinciali, sia necessaria l’approvazione dell’autorità statale o provinciale, come quella dell’autorità federale. Ignoriamo se un’analoga intesa sia necessaria, o politicamente e giuridicamente prevista, in altri Paesi. — Trattati sul trasferimento dei detenuti non ancora in vigore. — Gli Stati Uniti hanno firmato, il 10 gennaio 1995, il Trattato multilaterale sul trasferimento dei detenuti dell’organizzazione degli Stati Americani (OAS). Il Trattato è stato sottoposto al Senato americano per il parere e l’assenso alla ratifica il 30 settembre 1996. Canada, Costa Rica, Messico e Venezuela hanno depositato i rispettivi strumenti di adesione al Trattato. Per questi Paesi il Trattato è entrato in vigore il 13 aprile 1996 (12). (trad. a cura di E. Zanetti). Nuove regole di cooperazione giudiziaria. Pubblichiamo, curandone, dalla versione francese, una traduzione nella nostra lingua, una parte (D, 2-6) della risoluzione adottata a Budapest (settembre 1999) in occasione del XVI Congresso internazionale dell’A.I.D.P., relativamente alla tematica della Sezione IV (Criminalità organizzata e rapporti internazionali): ‘‘... 2. Allo scopo di rendere efficace l’assistenza giudiziaria in materia penale, le rogatorie nello Stato richiesto dovrebbero soddisfare le condizioni dello Stato richiedente più che dello Stato richiesto, o per lo meno dovrebbero compiersi in modo che l’assistenza richiesta non sia incompatibile con i principi fondamentali riconosciuti nello Stato richiesto e con i diritti fondamentali dell’imputato. Si raccomandano contatti diretti tra le autorità giudiziarie dello Stato richiedente e quelle dello Stato richiesto. Allo scopo di facilitare l’assistenza giudiziaria in materia penale, l’accordo convenzionale dovrebbe richiedere agli Stati-parte di concedersi reciprocamente, così come di concedere ai tribunali ed alle parti del processo, le più ampie misure di cooperazione, nel rispetto delle condizioni prescritte dalla legge interna sull’assistenza giudiziaria, nelle indagini preliminari e nell’attività di giudizio in ordine ai reati previsti dalla convenzione. 3. Le nuove tecnologie, come l’utilizzazione dei collegamenti-video per raccogliere le deposizioni all’estero, dovrebbero essere incoraggiate. Per i giudici dovrebbe essere possibile, in quanto del caso, la trasferta sul territorio di altri Stati, non solo in occasione della fase preparatoria del processo (13), ma anche nella stessa fase del giudizio. Per quanto concerne quest’ultima, dovrebbe essere incoraggiata la pratica delle ‘‘corti nazionali itineranti’’. 4.
Quando si ricorre agli accordi con gli imputati (accords avec les criminels) dovreb-
(12) Il testo integrale, in lingua inglese, della circolare è consultabile nel sito Internet http://travel.state.gov/acs.html. (13) Sotto questo profilo, così come sotto il profilo dell’applicazione della legge dello Stato richiedente, era stato a suo tempo prospettato da chi scrive (v. Rev. int. dr. pén., 1984, p. 225 ss.) — come ricordano PRADEL e CORSTENS, Droit pénal européen, 1999, p. 181 — il passaggio dal sistema della ‘‘rogatoria a distanza’’ a quello della ‘‘rogatoria partecipata’’ (v. anche PISANI, in MOSCONI e PISANI, Le Convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria - Linee di sviluppo e prospettive di aggiornamento, 1984, p. 158 ss.).
— 861 — bero essere adottate delle intese in modo che i programmi di protezione dei testimoni funzionino a livello internazionale. Lo stesso discorso vale per le decisioni stragiudiziali come le transazioni. Ad ogni modo, l’effetto internazionale dell’immunità accordata nel quadro di una transazione dovrebbe essere limitato ai fatti oggetto della transazione stessa, in modo che lo Stato che ha concesso l’immunità non sia autorizzato ad invocare tale immunità per fondare il rifiuto di estradare il soggetto interessato o per negare l’assistenza giudiziaria in procedure straniere contro il soggetto medesimo per fatti diversi da quelli in ordine ai quali l’immunità è stata accordata. Ad ogni modo, nel caso dei crimini organizzati transnazionali, le intese con la persona in questione e le decisioni stragiudiziali non dovrebbero essere concluse in modo unilaterale da uno solo degli Stati interessati (...). 5. Dovrebbero essere previste o migliorate delle regole riguardanti l’esecuzione delle sentenze, in particolare per la ratifica delle convenzioni internazionali applicabili, ad es. in tema di trasferimento dei detenuti o di confisca dei proventi del reato. 6. Allo scopo di consentire la cooperazione internazionale in tema di identificazione, sequestro e confisca dei proventi del reato, gli Stati dovrebbero ratificare e mettere in opera la Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi del reato (Strasburgo, 8 novembre 1990). Le riserve dovrebbero essere limitate per quanto più possibile’’.
DOTTRINA
RESPONSABILITÀ OGGETTIVA E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA (*) QUALCHE INDICAZIONE PER L’INTERPRETE IN ATTESA DI UN NUOVO CODICE PENALE
SOMMARIO: 1. Il progressivo affermarsi dell’idea di colpevolezza: il ruolo della dottrina, della Corte di cassazione e della Corte costituzionale. — 2. Il codice Rocco e il principio di colpevolezza: un rapporto controverso. — 3. La responsabilità oggettiva nel Codice penale del 1930. — 4. Verso l’eliminazione della responsabilità oggettiva: interventi legislativi e pronunce della Corte costituzionale. — 5. Colpa e attività illecite. — 6. Prospettive di riforma legislativa: la Commissione Grosso. — 7. Il principio di colpevolezza come principio costituzionalmente rilevante e i suoi corollari per l’interprete. — 8. Violazione della norma incriminatrice del reato-base e colpa per inosservanza di leggi. — 9. Il principio costituzionale di colpevolezza e il problema della descrizione dell’evento nella responsabilità colposa.
1. Il progressivo affermarsi dell’idea di colpevolezza: il ruolo della dottrina, della Corte di cassazione e della Corte costituzionale. — La categoria ‘colpevolezza’ è notoriamente estranea al codice penale del 1930: invano si cercherebbe nel codice una norma nella quale compaia quella formula. Nondimeno, l’elaborazione dottrinale, procedendo autonomamente, ha attribuito spazi crescenti alla nozione di colpevolezza nel sistema penale. Agli inizi anni cinquanta, in uno splendido saggio intitolato ‘‘Il concetto unitario di colpevolezza’’, Marcello Gallo sentiva la necessità di segnalare in apertura che il concetto di colpevolezza aveva una dimensione eminentemente processuale — come situazione di chi ha realizzato tutti gli elementi necessari per l’applicazione della pena —, ma era comunque entrato nell’uso comune anche in un’accezione sostanzialistica, salvo allu(*) Si tratta del testo, rivisto e integrato con le essenziali indicazioni bibliografiche, di una relazione tenuta all’Incontro di studio sul tema ‘‘Il ruolo della giurisprudenza nell’evoluzione del diritto penale nei primi settant’anni del Codice Rocco’’, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura (Frascati, 16-18 marzo 2000). Nella revisione si è tenuto conto della pubblicazione, nel settembre 2000, del Progetto preliminare di riforma del codice penale, parte generale, redatto dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso.
— 864 — dere ora al complesso dei requisiti necessari per riferire un fatto al suo autore, ora ad una particolare costituzione caratteriologica dell’autore, ora ad una relazione con una norma (1). Da allora, progressivamente, l’idea di colpevolezza è divenuta parte integrante dell’arsenale concettuale del penalista italiano: è difficile, oggi, pensare a un manuale di diritto penale che non dedichi una trattazione più o meno ampia alla colpevolezza. Contemporaneamente si è risolto, almeno in parte, il contrasto iniziale circa i connotati e contenuti della categoria. Si è affermata una nozione di colpevolezza riferita al singolo fatto, comprensiva di tutti gli elementi che concorrono a fondare la rimproverabilità del fatto al suo autore: e tali elementi vengono oggi per lo più individuati nel dolo o nella colpa, nella normalità delle circostanze concomitanti al fatto, nella conoscenza o nella conoscibilità del divieto, nonché nella capacità di intendere e di volere (2). Anche nella giurisprudenza della Corte di cassazione sono ormai frequenti i riferimenti alla colpevolezza come elemento del reato: ad es., ‘‘ai fini dell’affermazione della responsabilità penale... è... necessaria la sussistenza della colpevolezza’’ (3). Talora la giurisprudenza della Suprema Corte si è misurata con il problema dei rapporti tra colpevolezza e inesigibilità, per escludere che il giudice possa individuare autonomamente — al di fuori cioè di una espressa previsione legislativa — situazioni di inesigibilità, idonee ad escludere la colpevolezza (4). E a più riprese la Corte di cassazione ha affrontato il quesito dei rapporti tra imputabilità e colpevolezza, sia pure per affermare costantemente che ‘‘si tratta di concetti che operano su piani diversi’’ (5). Ma è soprattutto alla Corte costituzionale che si deve la piena valorizzazione della categoria della colpevolezza nel sistema penale. Il riferimento è d’obbligo, innanzitutto, alla sentenza n. 364 del 1988 (6). In quella sentenza la Corte costituzionale afferma che ‘‘la... possibilità... (essenziale per il giudizio di responsabilità penale) di muovere all’autore un ‘rimprovero’ per la commissione dell’illecito non equivale ad accoglimento da parte della Costituzione (a costituzionalizzazione) di una delle molteplici concezioni ‘normative’ della colpevolezza prospettate dalla dot(1) M. GALLO, Il concetto unitario dl colpevolezza, 1951, p. 1 s. (2) In questo senso, nella manualistica. v. fra gli altri FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., 3a ed., 1995, p. 281 s.; MANTOVANI, Diritto penale, pt. gen., 3a ed., 1992, p. 295 ss., in particolare p. 302; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I, 2a ed., 1999, p. 489 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del Codice penale, vol. I, 2a ed., 1995, pre-art. 39, p. 303 ss. (3) Cass. 30 settembre 1995, CED 203.481. (4) Cass. 17 aprile 1991, CED 186.809. (5) Cass. 12 aprile 1991, CED 186.912. (6) Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 686 ss., con nota di PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza.
— 865 — trina, bensì costituisce autonomo risultato, svincolato da ogni premessa concettualistica, dell’interpretazione dei commi primo e terzo dell’art. 27 Cost.’’ (7) e aggiunge che è un dato solo accidentale se ‘‘tale rimprovero venga a coincidere con una delle nozioni di colpevolezza (normativa) prospettate in dottrina o desunte da un determinato sistema ordinario’’ (8). Tuttavia, la stessa Corte sottolinea, nella sentenza citata, ‘‘il ‘valore’ della colpevolezza, la sua insostituibilità’’, la sua ‘‘indispensabilità quale attuazione nel sistema ordinario delle direttive contenute nel sistema costituzionale’’ (9): a conferma che il passo che citavo in premessa è soltanto funzionale, nell’argomentazione della Corte, a confutare il sospetto di una inversione di metodo, di una lettura, cioè, della normativa costituzionale sulla base di aprioristici postulati di natura concettuale. In definitiva, il topos ‘colpevolezza’ non è più, ai giorni nostri, monopolio della dottrina. La voce della dottrina non è più isolata quando afferma che il principio di colpevolezza rappresenta, a garanzia del cittadino, uno dei principi cardine di ogni sistema penale moderno e a tale principio ricollega una duplice esigenza, relativa non solo all’an ma anche al quantum della responsabilità: nessuno deve essere punito in assenza di colpevolezza, né deve essere punito con una pena eccedente la misura della colpevolezza (e sotto quest’ultimo profilo, la colpevolezza assume contenuti più ampi di quelli che le competono come elemento del reato, abbracciando anche il fatto antigiuridico, nei limiti in cui la realizzazione di quest’ultimo è personalmente rimproverabile all’autore) (10). 2. Il codice Rocco e il principio di colpevolezza: un rapporto controverso. — Quando nel 1980 si ‘celebrò’ il cinquantesimo compleanno del Codice Rocco, parte della dottrina ripropose la tesi della continuità sostanziale tra quella codificazione e la legislazione liberale ottocentesca (11): e a sostegno di questo assunto tuttora si invocano i principi ispiratori della parte generale del codice (12), fra i quali il principio di colpevolezza. (7) Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit., p. 710. (8) Ibidem. (9) Corte cost. 24 marzo 1988 n. 364, p. 699. (10) Sul punto può vedersi DOLCINI, La commisurazione della pena, 1979, p. 258 s. Nella letteratura tedesca, sulla distinzione fra colpevolezza come elemento del reato (Strafbegründungsschuld), che decide della sussistenza della responsabilità penale, e colpevolezza per la commisurazione della pena (Strafzumessungsschuld), che decide della misura della pena nel caso concreto, tuttora fondamentale ACHENBACH, Historische und dogmatische Grundlagen der Strafrechtssystematischen Schuldlehre, 1974, p. 4 e p. 10 ss. Nella manualistica, cfr. inoltre, per tutti, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., 5a ed., 1996, p. 887, nonché ROXIN. Strafrecht, A.T, 3a ed., 1997, p. 747 s. (11) In senso critico, v. DOLCINI, Codice penale, in MARINUCCI-DOLCINI, Studi di diritto penale, 1991, p. 23 ss. (12) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. gen., cit., p. 38, e AA. ivi cit.
— 866 — Ma davvero il codice Rocco può dirsi ispirato al principio di colpevolezza? O si tratta soltanto di un’adesione di facciata a tale principio, che non si spinge oltre una soglia minima imposta dallo stadio di civiltà giuridica raggiunto all’epoca in Europa? La verità è che il principio di colpevolezza è sistematicamente contraddetto nel codice del 1930: è contraddetto nella disciplina di quasi tutti gli istituti nei quali era pensabile, a quell’epoca, la configurazione di forme di responsabilità incolpevole. In questa sede è possibile soltanto accennare alle deviazioni più vistose dal principio di colpevolezza presenti nel nostro codice penale (13), o almeno nella sua versione originaria, per poi concentrare l’attenzione sulle ipotesi di responsabilità oggettiva. Disponendo che ‘‘nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale’’, l’art. 5 c.p. sanciva la responsabilità, fra l’altro, di chi, ignorando senza colpa che la sua azione avrebbe violato un precetto penale, non era in grado di scegliere tra il rispetto e la violazione della legge penale: una soluzione ispirata ad una esasperata logica di difesa sociale, che si colloca agli antipodi della visione garantistica dei rapporti individuo-autorità espressa dal principio di colpevolezza. Ad una logica analoga il legislatore del 1930 si è poi ispirato nella disciplina dell’ubriachezza e dell’azione di sostanze stupefacenti, allorché — ribaltando la regola enunciata nell’art. 85 c.p., secondo la quale nessuno può essere punito, se al momento del fatto non era capace di intendere e di volere — ha stabilito che si consideri imputabile chi ha commesso un fatto penalmente rilevante in stato di ubriachezza volontaria o colposa (art. 92 c.p.) e ha esteso la stessa disciplina a chi abbia agito sotto l’azione di sostanze stupefacenti (art. 93 c.p.), prevedendo addirittura un aumento di pena per i casi in cui l’ubriachezza (o l’assunzione di stupefacenti) abbia carattere abituale (art. 94 c.p.) o sia stata preordinata dall’agente (art. 92 comma 2 c.p.). 3. La responsabilità oggettiva nel Codice penale del 1930. — Ma veniamo alla responsabilità oggettiva, ovvero alla responsabilità per un fatto che, in tutto o in parte, non è stato preveduto e voluto dall’agente, né è stato realizzato per colpa. Indicativa delle scelte di fondo del legislatore Rocco risulta già la previsione di una norma di parte generale (art. 42 comma 3 c.p.) che delinea la struttura della responsabilità oggettiva, legittimandola programmaticamente, alla sola condizione che le singole ipotesi siano oggetto di una apposita previsione legislativa. (13) Per un ampio panorama, può vedersi MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 318 ss.
— 867 — E in effetti previsioni di questo tenore sono numerose nel codice del 1930. Talora è l’intero fatto di reato che viene accollato all’agente indipendentemente dal dolo o dalla colpa: è il caso, nell’ambito della disciplina del concorso di persone, della responsabilità per un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, contemplato nell’art. 116 c.p. (ed era il caso della responsabilità del direttore per i reati commessi col mezzo della stampa periodica, ovvero dell’editore e dello stampatore per i reati commessi per mezzo della stampa non periodica, giacché, nella versione originaria, l’art. 57 c.p. chiamava il direttore, l’editore e lo stampatore a rispondere penalmente in ragione dell’oggettivo omesso impedimento della realizzazione del reato). Altre volte, è un singolo elemento del fatto di reato che sfugge al dolo o alla colpa, senza che ciò comporti il venir meno della responsabilità. Tale elemento è spesso rappresentato da un evento (mi riferisco alle numerose ipotesi di delitto aggravato dall’evento presenti nella nostra legislazione — dal sequestro di persona a scopo di estorsione all’omissione di soccorso —, nonché all’omicidio preterintenzionale). Altre volte l’elemento del fatto estraneo a dolo e colpa consiste in una qualifica soggettiva: una qualifica del soggetto attivo del reato, nei casi di concorso nel reato proprio riconducibili all’art. 117 c.p., ovvero una qualità della vittima, nel caso dei reati contro la libertà sessuale commessi in danno di un minore di quattordici anni, di cui l’agente ignori o si rappresenti falsamente l’età (art. 539 c.p., ora trasfuso nell’art. 609 sexies c.p.). In tutte queste ipotesi il codice penale chiama l’agente a rispondere, anche se si è rappresentato solo una parte del fatto di reato, e indipendentemente dalla possibilità di muovergli un rimprovero di colpa in relazione all’elemento non coperto da dolo. Un’ulteriore ipotesi di responsabilità oggettiva riguardava, infine, le circostanze aggravanti, che, secondo l’originario disposto dell’art. 59 comma 1 c.p., riformato nel 1990, venivano poste a carico dell’agente ‘‘anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti’’: senza dunque che l’eventuale carattere incolpevole dell’ignoranza o dell’errore potesse assumere alcuna rilevanza scusante. In tutte queste previsioni, la logica a cui si è ispirato il legislatore del 1930 è sintetizzabile nell’idea secondo la quale ‘‘colui che coscientemente e volontariamente intraprende un’attività criminosa... deve rispondere di tutte le eventualità e di tutte le conseguenze della sua azione’’ (14), deve dunque rispondere anche se quelle eventualità o quelle conseguenze si sono verificate indipendentemente da dolo o da colpa dell’agente: in altri (14) Relazione al Re, in G. U. 26 ottobre 1930, n. 40.
— 868 — termini, è sintetizzabile nel principio ‘‘qui in re illicita versatur respondit etiam de casu’’. 4. Verso l’eliminazione della responsabilità oggettiva: interventi legislativi e pronunce della Corte costituzionale. — Dal 1930 ad oggi molto è però cambiato in tema di responsabilità oggettiva, per merito sia del legislatore, sia, soprattutto, della Corte costituzionale. Tra le norme alle quali ho fatto riferimento, sono state oggetto di riforma legislativa quelle relative ai reati di stampa (artt. 57 e 57 bis c.p., nella versione del 1958) e all’imputazione delle circostanze aggravanti (art. 59 comma 2 c.p., nella versione del 1990). Dalla riforma sono uscite discipline magari non chiarissime — soprattutto il ‘‘nuovo’’ art. 59 comma 2 c.p. lascia adito a consistenti dubbi interpretativi (15) —, tuttavia certamente idonee a segnare un progresso nell’attuazione del principio di colpevolezza. Ma la svolta epocale è stata segnata dalla Corte costituzionale, che con le sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988 ha riconosciuto rilevanza costituzionale al principio di colpevolezza (16). Nelle due sentenze citate la Corte ha fatto leva sul sistema dei principi costituzionali per arrivare a leggere la formula ‘responsabilità personale’ nell’art. 27 comma 1 Cost. come sinonimo di ‘responsabilità per fatto proprio colpevole’. Due gli argomenti fondamentali sviluppati dalla Corte nella sentenza n. 364, specificamente dedicata all’esame della disciplina dell’errore sulla legge penale, ma contenente anche ampie premesse per la soluzione del problema della responsabilità oggettiva. Il primo argomento mette in correlazione il principio di personalità della responsabilità penale con la funzione rieducativa attribuita alla pena dall’art. 27 comma 3 Cost.: tale funzione, secondo la Corte, ‘‘postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica’’; ‘‘non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno ‘in colpa’ (rispetto al fatto), non ha, certo, ‘bisogno’ di essere ‘rieducato’ ’’ (17). Il secondo argomento collega il principio enunciato nell’art. 27 comma 1 Cost. con i principi di legalità e di irretroattività di cui all’art. 25 comma 2 Cost., come espressioni diverse di una comune esigenza di garanzia del cittadino di fronte alla coercizione penale. Secondo la Corte, ‘‘a nulla varrebbe, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la tas(15) V. per tutti FIERRO CENDERELLI, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, 1999, vol. I, sub art. 59, p. 614 ss. (16) Per una disamina delle due sentenze, si rinvia a MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 328 ss. Per alcune indicazioni bibliografiche in proposito, cfr. infra, ntt. 20 e 21. (17) Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit., p. 706.
— 869 — satività delle leggi, etc.,’’ se al cittadino non fosse contemporaneamente offerta la garanzia che ‘‘sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate’’ (né ‘‘per comportamenti realizzati nella ‘non colpevole’, e, pertanto inevitabile ignoranza del precetto’’) (18). Di qui l’icastica conclusione della Corte: ‘‘Il principio di colpevolezza,... più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto’’ (19). Quanto all’ignoranza della legge penale, da quelle premesse discende coerentemente — e la Corte lo ha esplicitato — che deve considerarsi irrilevante soltanto l’ignoranza dovuta a colpa (mentre all’ignoranza — e all’errore — incolpevole deve riconoscersi effetto scusante) (20). In relazione alla responsabilità oggettiva, la sentenza n. 364 conteneva un elemento di ambiguità, collegando l’esigenza della colpa non a tutti, ma, come si è detto, ai ‘‘più significativi’’ elementi della fattispecie tipica. Tale ambiguità viene però superata nella sentenza n. 1085 del 1988, allorché si afferma che ‘‘perché l’art. 27 primo comma Cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente, siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa’’: ‘‘soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità... ) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27 comma 1 Cost.’’ (21). 5. Colpa e attività illecite. — La Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità della responsabilità oggettiva, ha dunque affermato che il principio di colpevolezza esige almeno la colpa dell’agente in relazione a ciascuno degli elementi del fatto di reato: e ha riferito il requisito della colpa anche ad attività illecite (quali la sottrazione e l’impossessamento di (18) Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit., p. 699. (19) Ivi, p. 700. (20) Cfr. fra gli altri FIANDACA, Principio dl colpevolezza e ignoranza scusabile della legge penale, in Foro it., 1988, p. 1385 ss.; PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, p. 686 ss.; PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti e orizzonti nuovi della colpevolezza, ivi, 1988, p. 920 ss.; STORTONI, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto, ivi, 1988, p. 1313 ss.; VASSALLI, L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giur. cost., 1988, II, p. 3 ss.; FLORA, La difficile penetrazione del principio di colpevolezza, in Giur it., 1989, IV, p. 337 ss.; MANTOVANI, Ignorantia legis scusabile ed inescusabile, in questa Rivista, 1990, p. 379 ss.; MUCCIARELLI, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte costituzionale 364/1988, ivi, 1996, p. 223 ss. (21) Corte cost. 13 dicembre 1988 n. 1085, in questa Rivista, 1990, p. 289 ss., in particolare p. 297, con nota di VENEZIANI, Furto d’uso e principio di colpevolezza, ivi, p. 299 ss.
— 870 — una cosa mobile altrui al fine di farne un uso momentaneo, secondo la previsione dell’art. 626 comma 1 n. 1 c.p.) (22). La giurisprudenza della Corte costituzionale segna dunque un’ulteriore smentita della tesi dottrinale secondo la quale la colpa potrebbe operare quale criterio di imputazione soltanto nell’ambito di attività in sé lecite, postulando la violazione di regole che delimitano l’area del rischio consentito (23). Anche la Corte di cassazione non dubita, né ha mai dubitato, che di colpa si possa parlare anche in relazione ad attività illecite. Ad esempio, in tema di omicidio preterintenzionale la giurisprudenza di legittimità oscilla tra due posizioni: quella che ravvisa nella preterintenzione una forma di responsabilità oggettiva (cfr. infra, 7 c) e quella che vi ravvisa un misto di dolo e colpa (cfr. intra, 8). È vero che la colpa viene sostanzialmente svuotata attraverso un discutibile artificio concettuale (cfr. infra, 8), tuttavia importa in questa sede sottolineare che la Corte di cassazione non esita ad ambientare la colpa — si tratti di colpa generica o specifica — in un’attività illecita, come è quella che si concreta nel compimento di atti diretti a percuotere o a cagionare lesioni personali. Se ancora residuasse qualche perplessità, decisivo sarebbe comunque il rilievo che lo stesso legislatore considera la colpa inquadrabile anche nell’ambito di attività illecite. A parte alcune ipotesi problematiche già contemplate dal codice penale (delle quali si dirà tra poco: ad esempio, la disciplina dell’aberratio delicti e quella della morte come conseguenza di altro delitto ex art. 586 c.p.), parla inequivocabilmente in questo senso la disciplina legislativa dell’imputazione delle circostanze aggravanti introdotta nel 1990. Il ‘nuovo’ art. 59 comma 2 c.p. richiede infatti, fra l’altro, che le circostanze aggravanti siano ‘‘ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa’’: e si tratta di una colpa che si innesta su un fatto già di per sè costituente reato (24). (22) È vero che la Corte costituzionale, scendendo dalle affermazioni di principio alla specifica disciplina del furto d’uso, non ha detto espressamente che la mancata restituzione della cosa è addebitabile all’agente, con conseguente applicazione della norma sul furto comune, solo se dovuta a colpa: ha detto invece che ‘‘la mancata restituzione... non è addebitabile al soggetto agente... se dovuta a caso fortuito o a forza maggiore’’ (così Corte cost. 13 dicembre 1988, n. 1085, cit., p. 297). Ma caso fortuito e forza maggiore — negli intendimenti della Corte costituzionale, che fa proprie le indicazioni di una autorevole dottrina — altro non sono che il doppione negativo della colpa. Su questa lettura dell’art. 45 c.p., e per la sua critica, v. da ultimo LUNGHINI, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, cit., vol. I, sub art. 45, p. 363. (23) Per un’autorevole enunciazione di questa tesi, cfr. PAGLIARO, Principi di diritto penale, pt. gen., 7a ed., 2000, p. 320 ss. (24) Lo sottolinea, ad esempio, DONINI in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. I, 1997, p. 215 s. Nell’ordinamento tedesco, parla inequivocabilmente nello stesso senso il disposto del § 18 StGB, secondo il quale nei delitti aggravati dall’evento l’evento può essere posto a carico dell’agente o del partecipe soltanto se egli lo ha cagionato almeno per
— 871 — Sembra oggi incontestabile, dunque, che la colpa — ciò che si designa come ‘colpa’ nel diritto vigente — possa configurarsi anche nello svolgimento di attività illecite: e la colpa ricorrerà in ordine a tutti gli elementi del fatto — eventi o presupposti della condotta — il cui avverarsi o la cui esistenza era riconoscibile da parte di un uomo ragionevole, che usasse della necessaria diligenza (25). 6. Prospettive di riforma legislativa: la Commissione Grosso. — Quali le conseguenze della svolta impressa dalla Corte costituzionale in materia di responsabilità oggettiva? Tali conseguenze vanno, evidentemente, ben oltre la specifica ipotesi di responsabilità oggettiva esaminata dalla Corte nella sentenza n. 1085 del 1988, che riguardava la disciplina del furto d’uso, e precisamente la rilevanza oggettiva della mancata restituzione della cosa, che rendeva applicabile la più severa disciplina del furto comune (26). Nei confronti del legislatore, le sentenze citate, individuando nella colpa — riferita a tutti gli elementi del fatto — il limite estremo della responsabilità penale, valgono come richiamo ad intervenire sulle restanti ipotesi di responsabilità oggettiva, così da adeguarle al precetto costituzionale: anche se l’eventuale, perdurante inerzia del legislatore potrebbe essere ‘‘sanzionata’’ soltanto attraverso nuove pronunce di illegittimità relative a singole ipotesi di responsabilità oggettiva, a condizione che la loro disciplina venga sottoposta al vaglio della Corte. Quanto alle prospettive odierne per un intervento legislativo volto ad eliminare la responsabilità oggettiva, segnali più che incoraggianti vengono dalla Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale, al lavoro dal 1998 sotto la presidenza di Carlo Federico Grosso. Già nella Relazione (27) che ha concluso, nel 1999, la prima fase dei lavori della Commissione si affermava che ‘‘l’adeguamento completo al principio di colpevolezza appare obiettivo fondamentale di una riforma del codice penale’’; tale proposito è ora ribadito nella Relazione che accompagna il Progetto preliminare di riforma del Codice penale, parte generale, pubblicato il 12 settembre 2000, dove si sottolinea inoltre che ‘‘il principio di colpevolezza costituisce uno dei principi fondamentali ed inderogabili di garanzia del diritto penale’’ (28); coerentemente, l’art. 28 comma 1 del Procolpa: letteralmente, se in relazione all’evento può essergli addebitata almeno la colpa (‘‘wenigstens Fahrlässigkeit’’). (25) In questo senso LUNGHINI, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, cit., vol. I, sub art. 43, p. 326. (26) In proposito, cfr. VENEZIANI, Furto d’uso, p. 299 ss. (27) Il testo della Relazione può leggersi in questa Rivista, 1999, p. 600 ss., in particolare p. 605 ss. (28) Così Relazione al Progetto preliminare, 2.3.1., in www.giustizia.it. Nel Progetto
— 872 — getto recita che ‘‘la colpevolezza dell’agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale’’. Va anche sottolineata, a conferma di un approccio rigoroso al tema, la scelta di metodo maturata dalla Commissione Grosso: quella di procedere, in linea di principio, non già al ‘restauro’, bensì all’eliminazione delle previsioni normative che nel codice Rocco contemplano forme di responsabilità oggettiva. Gli interventi ablativi prefigurati dal Progetto riguardano, tra l’altro, la norma che nella parte generale del codice vigente delinea questo modello di responsabilità, la figura del delitto preterintenzionale e l’ipotesi ‘speciale’ di concorso di persone nel reato attualmente contemplata dall’art. 117 c.p.; a proposito, poi, dei delitti aggravati dall’evento, la Relazione che accompagna il Progetto invita il futuro legislatore a provvedere alla loro eliminazione, in sede di riforma della parte speciale (29). Nella Relazione del 1999 si manifestava altresì il proposito di abolire, nell’ambito della disciplina del concorso di persone, ogni previsione relativa al ‘‘reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti’’, così da dare piena attuazione, anche in questa ipotesi, al principio di colpevolezza. Nel Progetto preliminare è presente, invece, una disciplina ad hoc: dispone infatti l’art. 47 che ‘‘se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde quando il reato sia a lui imputabile a titolo di colpa, sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come reato colposo’’. Questa previsione risulta tuttavia completamente pleonastica: come si evidenzia nella Relazione, ‘‘non fa altro che riflettere quanto sarebbe risultato in ogni caso sulla base dell’applicazione dei principi generali sulla responsabilità penale’’ (30). del 1992 — ‘‘Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale’’, predisposto da una Commissione ministeriale nominata nel 1988 dal Ministro Vassalli e presieduta da Antonio Pagliaro, pubblicato in Indice pen., 1992, p. 579 ss. — analoghe enunciazioni di principio erano seguite, invece, da proposte di attuazione alquanto riduttive. In proposito, cfr. MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in AA.VV., Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, 1996, p. 143 ss. (29) Nella Relazione del 1999, cit., p. 609 la Commissione appariva invece orientata a conservare taluni delitti aggravati dall’evento, apportando però importanti correttivi rispetto alla disciplina attuale; la Commissione si riprometteva infatti: a) di esplicitare, nelle relative norme di parte speciale, che gli eventi aggravanti (morte, lesioni, disastro...) cagionati involontariamente mediante condotte dolose offensive di altri beni potevano essere accollati all’agente solo in presenza della colpa; b) di ridefinire il trattamento sanzionatorio di queste ipotesi in modo coerente con il principio di colpevolezza, sottolineando che il trattamento sanzionatorio poteva essere ‘‘più grave rispetto alle altre ipotesi di colpa, ma in misura comunque agganciata al carattere colposo dell’evento realizzato’’. (30) Cfr. Relazione al Progetto preliminare, cit., 2.6.4. Il problema della responsabilità del concorrente per il reato diverso da quello voluto era risolto altrimenti nel Progetto del 1992, dove si prevedeva una generale figura di ‘agevolazione colposa a un fatto doloso’. Per una critica di quella scelta e per l’auspicio della totale eliminazione dell’attuale art. 116
— 873 — A proposito, infine, delle condizioni obiettive di punibilità, nella Relazione del 1999 la Commissione giustamente rilevava che una disciplina di parte generale in materia ‘‘può avere un concreto significato normativo solo in quanto indichi un criterio di identificazione degli elementi riconducibili a tale categoria’’ (31); osservava inoltre che la categoria in questione avrebbe dovuto ricomprendere solo ‘‘condizioni... che, accedendo ad un fatto illecito già riconoscibile come tale..., delimitino ulteriormente la risposta penale per ragioni ‘estrinseche’ d’opportunità’’ (32). Il Progetto preliminare si limita invece a delimitare la sfera delle condizioni obiettive di punibilità sul piano formale, richiedendo che sia il legislatore ad apporre esplicitamente, di volta in volta, la relativa qualifica (art. 35), così da prevenire il rischio che l’interprete continui a travasare tra le condizioni obiettive di punibilità veri e propri elementi costitutivi del fatto; nulla dispone invece il Progetto in merito ai connotati sostanziali delle condizioni obiettive di punibilità, confidando — e si tratta, forse, di una fiducia eccessiva — che i vincoli imposti al legislatore dal principio costituzionale di colpevolezza siano sufficienti a scongiurare la previsione di ‘‘condizioni oggettive di punibilità che interferiscano significativamente con il bene giuridico tutelato’’ (33): siano sufficienti, in altre parole, a garantire che nella futura legislazione penale trovino posto soltanto condizioni obiettive di punibilità estrinseche (v. infra, 7.a). 7. Il principio di colpevolezza come principio costituzionalmente rilevante e i suoi corollari per l’interprete. — Indicazioni non meno rilevanti discendono poi dalle citate sentenze della Corte costituzionale del 1988 nei confronti dell’interprete. a) Innanzitutto, ancora in relazione al tema, accennato poco fa, delle condizioni obiettive di punibilità: una categoria che, da sempre, rappresenta una sorta di cavallo di Troia della responsabilità oggettiva, offrendo all’interprete la possibilità di espellere quasi ad libitum dall’oggetto del dolo taluni elementi costitutivi del fatto di reato (34). La chiave di volta per operazioni di questo tipo è rappresentata dall’inclusione tra le condizioni obiettive di punibilità, accanto a condizioni estrinseche, anche di condizioni c.d. intrinseche (35), eventi cioè che rappresentano una proc.p., cfr. MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, cit., p. 151 ss. (31) Cfr. Relazione del 1999, cit., p. 608. (32) Ibidem. (33) Così Relazione al Progetto Preliminare, 2.3.8. (34) Cfr. MARINUCCI, Problemi della riforma del diritto penale in Italia, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, 1985, p. 354. (35) Tra i più autorevoli esponenti di questo filone di dottrina, cfr. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, 1955, p. 14 s.; BRICOLA, voce
— 874 — gressione o un aggravamento dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice (36): dal pericolo di una malattia nel corpo o nella mente in relazione all’abuso di mezzi di correzione (art. 571 c.p.) al pericolo per la pubblica incolumità nell’incendio di cosa propria (art. 423 comma 1 c.p.) (37). Soccorre ulteriormente a questo scopo l’adozione — per individuare le condizioni obiettive di punibilità — di un criterio formale, che postula la presenza di una condizione obiettiva di punibilità tutte le volte (o quasi) in cui la legge faccia uso di formule ipotetiche (se, qualora, etc.) (38). È così che la Corte di cassazione arriva a ravvisare una condizione obiettiva di punibilità, ad esempio, nel pericolo di incendio all’interno della fattispecie di ‘‘danneggiamento seguito da incendio’’ (art. 424 c.p.) (39): in un evento, dunque, che incorpora l’offesa e che è eziologicamente collegato alla condotta dell’agente. D’altra parte, non manca in dottrina chi ha teorizzato la funzione delle condizioni obiettive di punibilità (intrinseche) come strumento per neutralizzare le istanze del principio di colpevolezza: alla previsione di condizioni obiettive di punibilità il legislatore potrebbe ricorrere, tra l’altro, in ‘‘situazioni in cui le difficoltà di accertamento del dolo nei confronti dell’offesa più grave sono praticamente insormontabili e tali comunque da indurre il legislatore a costruire l’evento di danno o di pericolo non come elemento costitutivo, ma come condizione obiettiva, al di fuori delle regole di imputazione psicologica’’ (40). Poco persuasive in passato, impostazioni di questo tipo risultano ancor meno convincenti alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 1085 del 1988: secondo l’espressa indicazione della Corte, non esistono — non devono esistere — condizioni obiettive di punibilità intrinseche. Punibilità, in Nss. Dig. it., vol. XIV, 1967, p. 594. Per una ricostruzione restrittiva della categoria ‘condizioni obiettive di punibilità’, limitata alle sole condizioni estrinseche, v. invece DELITALA, Il ‘‘fatto’’ nella teoria generale del reato, 1930, ora in DELITALA, Diritto penale. Raccolta degli scritti, 1976, vol. I, p. 55 ss. (36) Cfr. NEPPI MODONA, Concezione realistica del reato e condizioni obiettive di punibilità, in questa Rivista, 1971, p. 202 s.: ‘‘Nulla... vieta che le esigenze di opportunità esprimano un piano di valori qualitativamente identico a quello definito dalla oggettività giuridica del reato, distinto dal piano di interessi interno solo su un terreno quantitativo. Può cioè il legislatore ritenere opportuno e conveniente dare corso all’azione penale solo quando l’offesa degli interessi tutelati dal reato raggiunga una certa intensità, ovvero quando si cagioni una lesione ulteriore e più grave, ma inscindibilmente connessa a quella enucleata dagli elementi costitutivi dell’illecito’’. Spunti in questo senso, da ultimo, in M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., 1995, sub art. 44, p. 444 ss., il quale peraltro preferisce parlare di condizioni di punibilità ‘proprie’ e ‘improprie’. (37) M. ROMANO, op. cit., p. 445 s. (38) In questo senso, da ultimo, ANGIONI, Condizioni obiettive di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1465. (39) Cfr. Cass. 7 dicembre 1990, CED 185.972; Id. 19 ottobre 1988, CED 179.480. (40) Così NEPPI MODONA, Concezione realistica del reato, cit., p. 204.
— 875 — In dottrina si è segnalato, peraltro, che la stessa Corte costituzionale si sarebbe ben presto contraddetta in materia di condizioni di punibilità intrinseche: quello che è stato elegantemente designato come revirement giurisprudenziale (41) si sarebbe verificato con una sentenza pronunciata nel 1989 — l’anno successivo rispetto alla sentenza sul furto d’uso — in materia di frode fiscale (42) (la questione verteva sulla versione originaria dell’art. 4 comma 1 n. 7 d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito con la l. 7 agosto 1982, n. 516). In tale occasione, in effetti, la Corte ha considerato l’alterazione rilevante del risultato della dichiarazione dei redditi come condizione obiettiva di punibilità (43): questa qualificazione era funzionale, secondo la Corte, a sottrarre, nella sostanza, la previsione dell’‘alterazione in misura rilevante’ alla sfera del principio di precisione (o di determinatezza, che dir si voglia) — come se tale principio riguardasse soltanto il fatto, e non anche i presupposti della punibilità (44) —. Ora, una volta ammesso che l’alterazione rilevante del risultato della dichiarazione dei redditi abbia natura di condizione obiettiva di punibilità, parrebbe del tutto conseguente qualificarla come condizione intrinseca, data la sua incidenza sul piano dell’offesa (45). Ma la Corte costituzionale ha compiuto a questo punto un vero e proprio salto mortale: ha assunto che il disvalore del reato in questione si esaurisca nell’offesa alla c.d. trasparenza fiscale, e ha ritenuto che l’alterazione in misura rilevante del risultato della dichiarazione svolga una ‘‘funzione soltanto selettiva’’ (46), rispondente a ragioni di opportunità (47). In considerazione di questo essenziale passaggio argomentativo, mi (41) Così DONINI, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. I, 1997, p. 213 ss. (42) Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, in questa Rivista, 1989, p. 1195 ss., con nota di PALAZZO, Elementi quantitativi indeterminati e loro ruolo nella struttura della fattispecie (a proposito della frode fiscale). (43) Si vedano sul punto le critiche di INSOLERA-ZANOTTI, L’intervento interpretativo della Corte costituzionale sulle ipotesi di frode fiscale ex art. 4 n. 7 della l. 516 del 1982, in Foro it., 1989, I, c. 1695. (44) In senso critico, cfr. fra gli altri DONINI, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., p. 215; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 73; PALAZZO, Elementi quantitativi indeterminati, cit., in particolare p. 1200 e p. 1208 ss. (45) Sottolinea come l’evento sia ‘‘tutt’altro che estraneo alla dimensione offensiva del fatto’’ PADOVANI, Dissimulazione ed omissione: un nodo al pettine dei rapporti tra frode e contravvenzione nella legge penale tributaria, in questa Rivista, 1987, p. 33, nt. 11. (46) Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, cit., p 1212. (47) Cfr. Corte cost. 16 maggio 1989, n. 247, cit., p. 1205 ss., in particolare p. 1207 (ove si afferma che la ‘misura rilevante’ non fonda, ‘‘e tantomeno esaurisce il contenuto offensivo del fatto’’), p. 1208 (‘‘la ‘misura rilevante’... non fa parte della qualità offensiva del delitto’’; ‘‘al contenuto offensivo del fatto... rimane estranea la ‘misura rilevante’ ’’), p. 1212 (‘‘qualsiasi alterazione del risultato della dichiarazione è idonea a frustrare la funzione d’accertamento fiscale, ma soltanto allorché la predetta alterazione raggiunga la ‘misura rilevante’ il legislatore ritiene opportuno il concreto intervento punitivo’’). Sottolinea questo
— 876 — sembra dunque che la sentenza n. 247 del 1989 non rimetta in discussione l’indicazione fornita dalla stessa Corte costituzionale l’anno precedente, allorché aveva negato diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento alle condizioni obiettive di punibilità intrinseche: la Corte costituzionale, sotto la spinta del ‘contingente’ — dell’esigenza cioè di ‘salvare’ la norma sulla frode fiscale (48) —, ha piuttosto cercato di ravvisare una condizione obiettiva di punibilità estrinseca laddove, in realtà, mancavano del tutto i connotati di tale categoria. Il principio-guida per l’interprete rimane pertanto quello enunciato dalla Corte costituzionale nel 1988. Gli eventi in qualsiasi forma collegati da un nesso eziologico alla condotta tipica, o che comunque incidano sul piano dell’offesa, andranno pertanto considerati come elementi del fatto, e come tali inclusi nell’oggetto del dolo (49). Né questa conclusione potrà essere messa in dubbio dal tenore letterale della norma, quand’anche il legislatore abbia adottato una di quelle formule ipotetiche che potrebbero far pensare a una condizione obiettiva di punibilità. Nel silenzio della legge, è il principio costituzionale di colpevolezza a fornire un decisivo orientamento per l’interprete in ordine sia alla nozione di condizione obiettiva di punibilità, sia al criterio al quale fare ricorso per identificare tali condizioni: un criterio ‘‘sostanziale-funzionale’’, che ‘‘individua le condizioni obiettive di punibilità in quegli eventi del tutto estranei al piano dell’offesa e del disvalore dell’illecito penale, la cui previsione, nella fattispecie astratta della norma incriminatrice, esprime semplici esigenze di opportunità’’ (50). b) Una seconda indicazione riguarda l’interpretazione di una serie di norme, che, in base al loro tenore letterale, potrebbero configurare sia ipotesi di responsabilità per colpa, sia ipotesi di responsabilità oggettiva. Si pensi all’art. 57 c.p., nella versione della legge n. 127 del 1958, in materia di responsabilità del direttore e del vice-direttore di stampa periodica, o all’art. 83 c.p., in materia di aberratio delicti. In tali disposizioni (richiamate la prima dall’art. 57 bis c.p., a proposito della responsabilità dell’editore e dello stampatore per i reati commessi a mezzo della stampa non periodica, la seconda dall’art. 586 c.p., per disciplinare l’ipotesi in cui da un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso derivi la morte o la lesione di una persona quale conseguenza non voluta dal colpevole) il leaspetto della sentenza in esame PALAZZO, Elementi quantitativi indeterminati, cit., p. 1202 ss. (48) Di una Corte ‘‘doverosamente non insensibile alle preoccupazioni di un ipotetico vuoto legislativo sul fronte della repressione tributaria’’ parla PALAZZO, Elementi quantitativi indeterminati, cit., p. 1196. (49) Cfr. MARINUCCI, Problemi della riforma, cit., p 354; ALESSANDRI, in BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, art. 27, comma 1, 1989, p. 100. (50) Così, di recente, BINDA, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, vol. I, cit., sub art. 44, p. 358.
— 877 — gislatore ha usato formule connotate da un grado più o meno elevato di equivocità. A proposito del direttore del periodico, si prevede che egli sia ‘‘punito a titolo di colpa’’ per il reato commesso a mezzo della pubblicazione, nel caso in cui egli abbia omesso di esercitare sul contenuto del periodico il controllo necessario ad evitare la commissione di reati: la legge non subordina dunque espressamente la responsabilità del direttore al carattere colposo dell’omesso controllo. A proposito poi dell’aberratio delicti, l’art. 83 c.p. prevede che il soggetto ‘‘risponda a titolo di colpa’’ qualora abbia cagionato un evento diverso da quello voluto: non esplicita che la responsabilità penale sorgerà soltanto nei casi in cui la causazione dell’evento diverso sia imputabile a colpa dell’agente. In relazione all’una e all’altra disposizione si è in effetti sostenuto, in dottrina e in giurisprudenza, che configurerebbero una responsabilità oggettiva, equiparata a responsabilità per colpa ai soli fini della disciplina (51). Limitando la nostra attenzione all’art. 586 c.p., non sono rare prese di posizione esplicite da parte della Corte di cassazione nel senso della responsabilità oggettiva (52). Si incontrano affermazioni di questo tenore: ‘‘in tema di morte o lesione come conseguenza di altro delitto, il rapporto tra delitto voluto ed evento è stabilito dall’art. 586 c.p. in termini di pura e semplice causalità materiale’’ (53); ‘‘ai fini della configurabilità dell’ipotesi prevista dall’art. 586 c.p., ciò che deve essere voluto è soltanto il reato-base, in relazione al quale va considerato l’elemento soggettivo, mentre la morte o la lesione che dal reato-base derivino sono considerate dalla norma come conseguenze non volute, di cui non si risponde né a titolo di dolo, né di colpa, elementi psicologici, in ordine ai quali non occorre espletare alcuna indagine’’ (54); ‘‘la responsabilità (ex art. 586 c.p.) non abbisogna di indagini sugli estremi di colpa in relazione all’evento non voluto’’ (55). Ora, riconosciuta la rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza, una simile interpretazione risulta improponibile: l’argomento sistematico impone di ritenere che l’art. 586 c.p. — e le altre disposizioni delle quali si è detto — fondino una vera e propria responsabilità per (51) In relazione all’art. 57 c.p., cfr. PISAPIA, La nuova disciplina dei reati commessi a mezzo della stampa, in questa Rivista, 1958, p. 320 ss.; in relazione all’art. 83 c.p., cfr. PAGLIARO, Principi, cit., p. 328. (52) Così, testualmente, Cass. 23 ottobre 1986, CED 174.072. (53) Cass. 25 giugno 1996, in PISA, Giurisprudenza penale commentata, vol. I, Delitti contro la persona, contro il patrimonio e in materia di stupefacenti, 3a ed., 1999, p. 101 ss. (e ivi, all’interno della sentenza, la citazione di una serie di precedenti conformi). (54) Cass. 19 ottobre 1989, ivi, p. 106 s. (55) Cass. 15 dicembre 1988, CED 179.930.
— 878 — colpa (56). Delle due interpretazioni, entrambe compatibili con il tenore letterale delle norme in questione, deve essere adottata quella conforme a Costituzione. Ne segue che l’autore di uno scippo non dovrà rispondere della morte della vittima ex art. 586 c.p., qualora un grave e insospettabile vizio cardiaco di quest’ultima abbia ingigantito gli effetti emotivi del furto, al punto da provocare l’esito mortale; a norma dell’art. 83 c.p., non risponderà di lesioni chi, scagliando un sasso per infrangere una vetrina, abbia colpito e ferito un passante, se un uomo ragionevole, al suo posto, non avrebbe potuto prevedere un tale effetto della propria condotta; non risponderà ex art. 57 c.p. il direttore del periodico se, usando di tutta la diligenza doverosa, non avrebbe potuto prevedere ed evitare che col mezzo della pubblicazione venisse commesso un reato. c) Ulteriori conseguenze per l’interprete derivanti dal riconoscimento della rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza riguardano poi le ipotesi in cui il legislatore ha univocamente previsto forme di responsabilità oggettiva. In questi casi, la lettera delle norme non consentirebbe una lettura che subordini la responsabilità alla colpa dell’agente, riferita a tutti gli elementi del fatto, anche a quelli cioè sottratti dal legislatore all’oggetto del dolo. Ma l’apposizione alla responsabilità penale del limite della colpa, non previsto dalla legge, discende in questi casi immediatamente dal principio di colpevolezza, in quanto principio dotato di rilevanza costituzionale: affermando che l’idea del versari in re illicita contrasta con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale e che tutti gli elementi del fatto di reato devono essere investiti dal dolo o, almeno, dalla colpa, la Corte costituzionale ha imposto al giudice di leggere le norme che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva come se già contenessero il limite della colpa (57). Ad esempio, pensiamo all’omicidio preterintenzionale. Il tenore letterale dell’art. 584 c.p. imporrebbe di ricomprendere nella previsione normativa anche casi in cui la morte della vittima sia intervenuta come conseguenza non colposa di una percossa: interpretata in conformità alla Costituzione, la norma risulta invece applicabile solo a condizione che la morte (56) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 333 s. Su questa stessa linea, facendo leva sul principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, PISA, Giurisprudenza penale commentata, cit., p. 109 ss., in particolare p. 112. (57) Conf. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 334 s. Secondo DONINI, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, cit., p. 218 s., in assenza di una previsione legislativa espressa della colpa, sarebbe invece preclusa al giudice ordinario una interpretazione ‘conforme alla Costituzione’: solo in materia di delitti aggravati dall’evento potrebbe soccorrere l’art. 59 comma 2 c.p., mentre per le restanti ipotesi di responsabilità oggettiva ‘‘non resterebbe che sollevare la illegittimità costituzionale di queste norme e rimettere gli atti alla Corte costituzionale’’ (p. 219).
— 879 — rappresentasse, rispetto alle percosse, uno sviluppo prevedibile da parte di un uomo ragionevole (58). Dovrebbe dunque essere giunto ad esaurimento quel filone giurisprudenziale che ravvisa nell’omicidio preterintenzionale un ‘‘reato doloso in cui si introduce una componente fortuita che prescinde da ogni indagine di volontarietà, colpa o prevedibilità dell’evento più grave’’ (59). Anche se la Corte di cassazione sembra di diverso avviso, dal momento che di recente non ha perso l’occasione per ribadire che ‘‘la corretta interpretazione dell’art. 584 c.p. impone di ritenere che per integrare in tutti i suoi estremi il delitto di omicidio preterintenzionale è sufficiente il rapporto di causalità tra la condotta di aggressione (atti diretti a percuotere o a ledere) e l’evento morte, non essendo necessaria la prevedibilità di quest’ultimo, e che quindi l’art. 584 c.p. prevede un caso di dolo misto a responsabilità oggettiva’’ (60). 8. Violazione della norma incriminatrice del reato-base e colpa per inosservanza di leggi. — Una precisazione sembra a questo punto indispensabile circa la portata da attribuire al limite della colpa, che il principio di colpevolezza appone alle ipotesi configurate dal legislatore come responsabilità oggettiva (ad esempio, il delitto preterintenzionale) e che, per così dire, ‘rafforza’ nelle ipotesi disciplinate dalla legge con formule plurivoche (ad esempio, quella dell’art. 586 c.p.). L’alternativa tra responsabilità per colpa e responsabilità oggettiva si presta ad essere appiattita, e anzi nella sostanza annullata, attraverso un’operazione concettuale alla quale da tempo ci ha abituato la giurisprudenza: mi riferisco alla configurazione della colpa, nelle ipotesi in esame, come colpa per violazione di leggi, dove la norma che decide del carattere colposo della responsabilità sarebbe la norma incriminatrice del reatobase (delle percosse o delle lesioni nell’art. 584 c.p. o del diverso delitto doloso nell’art. 586 c.p.) (61). A proposito di quest’ultima ipotesi, la Corte di cassazione — premesso che l’art. 43 c.p. non circoscriverebbe la colpa specifica ‘‘alla sola violazione di legge a carattere squisitamente o esclusivamente cautelare’’, ma comprenderebbe ‘‘anche la violazione delle stesse norme penali incri(58) Conf. Cass. 11 dicembre 1992, in PISA, Giurisprudenza penale commentata, vol. I, cit., p. 74 ss. (59) Cass. 13 dicembre 1986, CED 174.619; v. anche Cass. 16 settembre 1986, CED 173.746 e Cass. 20 aprile 1988, CED 178.180. (60) Così Cass. 21 ottobre 1996, in PISA, Giurisprudenza penale commentata, vol. I, cit., p. 64 ss., nonché, nello stesso senso, Cass. 5 marzo 1996, ivi, p. 69 s. (61) In questo senso, in tema di omicidio preterintenzionale, v. ad es. Cass. 20 dicembre 1989, in PISA, Giurisprudenza penale commentata, vol. I, cit., p. 70 ss. e ivi i lucidi rilievi critici dell’A. (p. 74).
— 880 — minatrici’’ — ha affermato che ‘‘l’art. 586 attribuisce alle disposizioni incriminatrici, che prevedono i singoli delitti, oltre alla funzione loro propria, di tutela del singolo bene, anche il carattere ulteriore ed accessorio di norme che mirano a prevenire, attraverso la sanzione penale, l’eventuale lesione di beni giuridici, tutelati mediante le ipotesi di reato colposo, che possono essere prodotte a causa della commissione dei delitti dolosi’’ (62): con la conseguenza — evidenziata in termini particolarmente netti, ad es., in una sentenza del 1995 — che sarebbe ‘‘superflua un’indagine... sulla sussistenza in concreto di una colpa generica, essendo sufficiente quella circa la condotta esecutiva del reato doloso’’ (63). Ora, come ha rilevato la stessa Suprema Corte in una importante sentenza pronunciata nel 1998 (64), ‘‘l’accollo dell’evento morte o lesioni a titolo... di ‘colpa presunta’’’ maschera ‘‘dietro il riferimento alla colpa specifica da inosservanza della legge penale... la tradizionale regola del versari in re illicita’’ e risulta perciò ‘‘incompatibile con il principio di colpevolezza’’: alla luce di quel principio, come ricostruito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ‘‘l’affermazione della responsabilità dell’agente per l’evento ulteriore e più grave, non voluto, deve necessariamente ancorarsi... a un coefficiente di ‘prevedibilità’, concreta e non astratta, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base’’. Impeccabili le conclusioni tratte dalla Corte, in questa occasione, circa la legittimità costituzionale dell’art. 586 c.p.: ‘‘Una diversa e più restrittiva ricostruzione dogmatica del collegamento soggettivo necessario per l’imputazione dell’ulteriore evento non voluto’’ (una ricostruzione diversa, cioè, da quella che esige un coefficiente di prevedibilità in concreto) ‘‘esporrebbe l’istituto a censure non manifestamente infondate di incostituzionalità, riservando ad esso ben poche chances di sopravvivenza in un moderno ordinamento penale ispirato al principio di colpevolezza’’ (65). Chi — come Giorgio Marinucci ed io (66) — caldeggia da tempo l’interpretazione ora accolta dalla Corte di cassazione non può che unire la propria voce a quanti auspicano ‘‘un pieno e convinto consolidamento dell’indirizzo interpretativo inaugurato da questa importante sentenza’’ (67). (62) Cass. 23 ottobre 1986, CED 174.058. Per una critica di questo filone giurisprudenziale, cfr. per tutti MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, cit., p. 147 s. (e ivi ampia bibliografia). (63) Cass. 2 febbraio 1995, CED 201.242. (64) Cass. 19 ottobre 1998, in Foro it., 1999, II, c. 522 ss., in particolare c. 527 s. (65) Cass. 19 ottobre 1998, cit., c. 528. (66) Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 333 ss. (67) PISA, Duplice svolta a proposito di usura e art. 586, in Dir. pen. e processo, 1999, p. 92; ID., Giurisprudenza penale commentata, cit., p. 114.
— 881 — 9. Il principio costituzionale di colpevolezza e il problema della descrizione dell’evento nella responsabilità colposa. — Il rischio che sotto le apparenze di una responsabilità colposa si annidi nella sostanza la logica del versari in re illicita — una logica, si è detto con grande efficacia, ‘‘pervasiva come una metastasi’’ (68) — va però ben oltre le ipotesi in cui il legislatore aveva originariamente configurato una responsabilità oggettiva: quel rischio coinvolge tutte le ipotesi di responsabilità per colpa. Da tempo la dottrina ha prospettato questo quesito: ‘‘A quale evento bisogna far capo per costruire la regola di condotta la cui inosservanza dà vita a colpa? A un evento identificato per la sua appartenenza a un genus,... ovvero all’evento storico, nel suo modo di essere concreto?... Basterà che l’agente reale (rectius: il suo agente modello) si possa rappresentare come effetto della condotta uno sbocco lesivo del ‘‘tipo’’ di quello che si è realizzato in concreto, ovvero, scartando le eventualità non realizzate, bisognerà misurare la probabilità, dal punto di vista dell’agente, di ciò che è effettivamente seguito alla sua condotta?’’ (69). Per sciogliere questa alternativa, appare decisivo il rilievo che le regole di diligenza sono finalizzate a prevenire determinate modalità di causazione dell’evento, selezionate attraverso l’osservazione di decorsi causali che presentano alcuni aspetti ripetibili: ciò che consente di elaborare leggi di copertura, attraverso le quali è possibile prevedere che, in presenza di determinate condizioni, potrà concretizzarsi il rischio di verificazione dell’evento. In effetti, dottrina e giurisprudenza convergono nell’affermazione di principio che, ai fini della sussistenza della colpa, è necessario che l’evento verificatosi nella realtà rappresenti la realizzazione dello specifico pericolo che la regola di diligenza tendeva a prevenire (70): d’altra parte, ‘‘non si può considerare realizzazione dello specifico rischio l’evento che è sì conforme a quello descritto nella norma incriminatrice, ma che giace tuttavia al di fuori della serie di sviluppi causali il cui prevedibile avverarsi rendeva contrario a diligenza il fare (o l’omettere) dell’agente’’ (71). In sede di accertamento della colpa, occorrerà dunque domandarsi ‘‘se il fatto verificatosi nella realtà fosse ‘prevedibile’ secondo il punto di vista della regola cautelare’’ (72): il che equivale a dire che oggetto del giudizio di prevedibilità deve essere l’evento ‘concreto’. Spesso la giurisprudenza adotta però la soluzione opposta, facendo (68) Così MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, cit., p. 143. (69) MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, 1965, p. 213. (70) V. per tutti LUNGHINI, in DOLCINI-MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, cit., sub art. 43, p. 336, e ivi ampie citazioni di giurisprudenza di legittimità. (71) MARINUCCI, Crollo di costruzioni, in Enc. dir., vol. IX, 1962, p. 420. (72) FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, 1990, p. 446.
— 882 — astrazione da tutte le modalità del concreto decorso causale attraverso il quale si è prodotto l’evento (73): ad esempio, riferisce il giudizio di prevedibilità, in materia di rischi da amianto, ad un generico ‘‘danno alla salute’’, anziché ad una specifica forma di tumore. Ma ciò significa ritenere sufficiente che il soggetto non abbia riconosciuto un rischio da lui riconoscibile (il rischio dell’insorgere della malattia x), che in realtà non si è concretizzato, per accollargli tutte le conseguenze dannose seguite alla sua condotta, anche quelle (l’insorgere della malattia y) che costituiscono la realizzazione di rischi da lui non riconoscibili, né dominabili. Come si è acutamente osservato in dottrina, ciò significa ancora una volta sfumare i confini tra responsabilità colposa e responsabilità oggettiva, modellare la colpa secondo la logica del versari in re illicita, ridurre l’evento a nulla più che una condizione obiettiva di punibilità (74). Ma se questo è vero, mi sembra di poter affermare che anche su questo terreno — in ordine cioè al problema della descrizione dell’evento nella responsabilità per colpa — il principio costituzionale di colpevolezza avanza le proprie pretese: impone di includere il decorso causale — nei limiti in cui il giudice può ricostruirlo attraverso leggi di copertura — nell’oggetto del giudizio di prevedibilità. EMILIO DOLCINI
(73) V. FORNARI, Descrizione dell’evento e prevedibilità del decorso causale: ‘‘passi avanti’’ della giurisprudenza sul terreno dell’imputazione colposa, in questa Rivista, 1999, p. 729, nt. 36. (74) Cfr. FORNARI, op. cit., p. 726 ss. e p. 730.
ESIGENZE E PROSPETTIVE DI RIFORMA DEI REATI DI CORRUZIONE E CONCUSSIONE (*)
1. Premessa. — Prima di entrare nel merito del tema oggetto della mia relazione, ritengo opportuno svolgere alcuni rilievi prelimari a carattere metodologico, che servono a fissare le coordinate entro le quali si svilupperà la successiva analisi. La questione dei rapporti tra corruzione e concussione sollecita, a mio avviso, riflessioni che trascendono sia il piano della dogmatica penalistica strettamente intesa, sia il modo consueto di affrontare i problemi di riforma legislativa nel campo del diritto penale sostanziale. Anche se si tratta, più che di una mia scoperta, soltanto della esplicitazione o sottolineatura di una acquisizione invero già desumibile dal dibattito scientifico finora svoltosi in materia, intendo cioè sin da subito mettere in evidenza questo punto: ripensare la disciplina della corruzione e della concussione implica l’adozione di un approccio ‘‘integrato’’, innanzitutto nel senso che occorre guardare — nel medesimo tempo — al diritto penale sostanziale e al processo. A ben vedere, l’argomento oggetto del presente convegno funge da osservatorio privilegiato per analizzare le intersecazioni o interazioni tra le categorie penalistiche sostanziali e le questioni di prova sul terreno processuale (1). Ma parlerei di approccio integrato anche in un senso ulteriore e più ampio. Alludo all’esigenza che l’approccio riformistico, per un verso, colleghi la prospettiva penale alle direttrici extrapenali di intervento; e, per altro verso, si ispiri al principio di realtà, almeno sotto un duplice punto di vista. Da un lato, sottraendosi alla tentazione o al rischio di anteporre la difesa dei tradizionali dogmi penalistici, avvolti quasi da una aura di sacralità di ritenuta matrice classica, ad una analisi spassionata dei fenomeni di scambio illecito così come si manifestano nella realtà criminologica specie a partire dall’esperienza di ‘‘Tangentopoli’’. Dall’altro, valutando se dall’esame della prassi giudiziaria e dalle analisi sociologiche di(*) Il testo riproduce una relazione tenuta al V Congresso nazionale di diritto penale su ‘‘Corruzione e concussione: una riforma improcrastinabile’’ (Caserta, 22-24 aprile 1999). (1) Cfr. anche PADOVANI, Il problema ‘‘Tangentopoli’’ tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in questa Rivista, 1996, p. 448 ss, PULITANÒ, La giustizia penale alla prova del fuoco, ivi, 1997, p. 3 ss.
— 884 — sponibili, come pure dal più generale contesto politico e sociale di riferimento, emergano indicazioni o segnali circa un possibile nuovo modo di concepire i disvalori penali in questa materia: per cui, se così fosse, continuare a difendere le fattispecie incriminatrici ereditate dalla tradizione equivarrebbe a idealizzare forme giuridiche magari nobili, ma ormai isterilite, come tali inadatte a condensare i presupposti di una meritevolezza e necessità di pena davvero corrispondenti alla sensibilità contemporanea. 2. Le fenomenologie criminose emergenti dalla prassi giudiziaria. — 2.1. Fatte queste premesse, passo a considerare le fenomenologie criminose desumibili dalla prassi giudiziaria degli ultimi anni, nel convincimento che la ricognizione dell’esperienza finora maturata costituisca — appunto — una premessa conoscitiva indispensabile ai fini di una seria analisi in prospettiva di riforma. È bene subito premettere che neppure quest’attività di ricognizione è in realtà semplice, e ciò per una ragione in sé ovvia, che forse però non sempre viene esplicitata come si dovrebbe. E cioè, anche la ricostruzione empirico-criminologica delle prassi corruttive, lungi dal fotografare la realtà così com’è, può essere influenzata dalla chiave di lettura che di volta in volta si adotta; per cui la stessa realtà criminologica non si dà come dato oggettivo e neutrale, ma è essa stessa risultato dell’applicazione di schemi interpretativo-ricostruttivi che possono variare. Ciò vale, a maggior ragione, per le risultanze del lavoro giudiziario: le quali risentono inevitabilmente sia di opzioni politico-culturali che stanno a monte delle verifiche processuali, sia della tendenza (più o meno consapevole) dei magistrati a far interagire la ricostruzione dei fatti e la loro qualificazione giuridica. Per queste ragioni, nel delineare il quadro socio-criminologico dei fenomeni di scambio illecito, occorrerebbe sottoporre ad analisi critica le stesse risultanze giudiziarie chiamando a consulto storici, economisti, sociologi e politologi. Purtroppo, l’interesse scientifico degli scienziati sociali per questi temi, anche se è alquanto cresciuto negli ultimi tempi (2), non si è tuttavia ancora sviluppato sino al punto di fornire sicuri parametri di controllo della fondatezza delle ricostruzioni di fonte giudiziaria. Pur con la consapevolezza di questi limiti in termini di attendibilità scientifica, cerchiamo di sintetizzare un quadro — in questa sede necessariamente approssimativo — dei principali connotati criminologici indivi(2) Nell’ambito della recente letteratura sociologica e politologica di lingua italiana si vedano CAZZOLA, Della corruzione. Fisiologia e patologia di un sistema politico, Bologna, 1988; DELLA PORTA, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, Bologna, 1992, RICOLFI, L’ultimo Parlamento. Sulla fine della prima Repubblica, Firenze, 1993; DELLA PORTA-VANNUCCI, Corruzione politica e pubblica amministrazione, Bologna, 1994; SAPELLI, Cleptocrazia. Il ‘‘meccanismo unico’’ della corruzione tra economia e politica, Milano, 1994.
ESIGENZE E PROSPETTIVE DI RIFORMA DEI REATI DI CORRUZIONE E CONCUSSIONE (*)
1. Premessa. — Prima di entrare nel merito del tema oggetto della mia relazione, ritengo opportuno svolgere alcuni rilievi preliminari a carattere metodologico, che servono a fissare le coordinate entro le quali si svilupperà la successiva analisi. La questione dei rapporti tra corruzione e concussione sollecita, a mio avviso, riflessioni che trascendono sia il piano della dogmatica penalistica strettamente intesa, sia il modo consueto di affrontare i problemi di riforma legislativa nel campo del diritto penale sostanziale. Anche se si tratta, più che di una mia scoperta, soltanto della esplicitazione o sottolineatura di una acquisizione invero già desumibile dal dibattito scientifico finora svoltosi in materia, intendo cioè sin da subito mettere in evidenza questo punto: ripensare la disciplina della corruzione e della concussione implica l’adozione di un approccio ‘‘integrato’’, innanzitutto nel senso che occorre guardare — nel medesimo tempo — al diritto penale sostanziale e al processo. A ben vedere, l’argomento oggetto del presente convegno funge da osservatorio privilegiato per analizzare le intersecazioni o interazioni tra le categorie penalistiche sostanziali e le questioni di prova sul terreno processuale (1). Ma parlerei di approccio integrato anche in un senso ulteriore e più ampio. Alludo all’esigenza che l’approccio riformistico, per un verso, colleghi la prospettiva penale alle direttrici extrapenali di intervento; e, per altro verso, si ispiri al principio di realtà, almeno sotto un duplice punto di vista. Da un lato, sottraendosi alla tentazione o al rischio di anteporre la difesa dei tradizionali dogmi penalistici, avvolti quasi da una aura di sacralità di ritenuta matrice classica, ad una analisi spassionata dei fenomeni di scambio illecito così come si manifestano nella realtà criminologica specie a partire dall’esperienza di ‘‘Tangentopoli’’. Dall’altro, valutando se dall’esame della prassi giudiziaria e dalle analisi sociologiche di(*) Il testo riproduce una relazione tenuta al V Congresso nazionale di diritto penale su ‘‘Corruzione e concussione: una riforma improcrastinabile’’ (Caserta, 22-24 aprile 1999). (1) Cfr. anche PADOVANI, Il problema ‘‘Tangentopoli’’ tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in questa Rivista, 1996, p. 448 ss, PULITANÒ, La giustizia penale alla prova del fuoco, ivi, 1997, p. 3 ss.
— 886 — funzionamento del mercato, la fiducia istituzionale dei cittadini nelle stesse istituzioni democratiche. Sul piano criminologico, dunque, i fenomeni corruttivi esibiscono una dannosità polivalente e dall’orizzonte pressoché smisurato, che inevitabilmente fuoriesce dai confini dell’inquadramento codicistico della corruzione tra i reati contro la pubblica amministrazione. Come si è più sopra osservato, le dinamiche della corruzione sistemica tendono anche ad alterare i ruoli tipizzati dalle norme incriminatrici vigenti: con la conseguenza che ci si trova di fronte a modalità comportamentali ambivalenti o comunque ambigue, non riconducibili per intero né alla concussione né alla corruzione. Per cui l’inquadramento giudiziario di tali comportamenti nell’una o nell’altra figura, se avviene al prezzo di forzature dogmatiche, obbedisce per altro verso a ragioni non sempre esplicitate nelle sentenze e non sempre facili da decifrare (la possibile chiave di interpretazione, non di rado, è più di una) (5). In ogni caso, va osservato che ciò non ha tuttavia impedito ai magistrati del ‘‘pool’’ di Milano di contestare più frequentemente la corruzione propria, e più raramente la concussione (6). Vediamo, più da vicino, in quali modi si manifesta il rimescolamento dei ruoli criminosi tradizionali. 2.3. Un fenomeno messo a fuoco nei materiali giurisprudenziali disponibili, e che vale la pena menzionare per primo, consiste nella possibilità che il soggetto privato passi, nell’ambito di una stessa vicenda, dal ruolo di concusso a quello di corruttore o che, addirittura, rivesta entrambe le posizioni. Questo apparente paradosso deriva appunto dal fatto che la fenomenologia scoperta dal ’92 in poi riflette un sistema di illegalità stabile e diffusa, in cui le transazioni illecite non si esauriscono in singoli atti isolati, ma si collocano in una prospettiva di continuità o di progressione. La conseguenza è che qualificare i fatti ora socondo lo schema della concussione ora secondo quello della corruzione, in funzione della prevalenza che sembra predominare nei diversi momenti contingenti, può far torto al tipo sostanzialmente unitario di disvalore sotteso a una rela(5) Cfr. i rilievi emblematici contenuti in Trib. Milano 28 settembre 1992, Giud. ind. prel., imp. Chiesa e altri, in Foro it., 1994, II, p. 244 s: ‘‘A complicare la scelta fra le due alternative e fra i due schemi normativi (...) vi è certamente il fatto che, nella prospettiva del legislatore penale e soprattutto nella realtà sociale, concussione e corruzione rappresentano ipotesi di una patologia eccezionale o comunque circoscritta a deviazioni individuali ed isolate. Il quadro che invece emerge dai fatti oggetto del presente procedimento (e da un complesso di altri fatti che quasi quotidianamente emergono nelle indagini originate dal presente procedimento) ha portato alla cognizione giudiziaria un contesto che non è fatto di isolate deviazioni, ma da comportamenti abituali, costanti e generalizzati che hanno dato origine a un sistema di ‘‘illegalità diffusa’’. (6) Sul punto COLOMBO, Stato di diritto e corruzione. I risultati delle indagini milanesi sui reati contro la pubblica amministrazione, in Cass. pen., 1994, p. 2256 ss.
— 887 — zione illecita che acquista il suo autentico significato in una logica di durata. Ad esemplificazione di questo problema, può essere ricordata la ‘‘vicenda Armanini’’, così come inquadrata e decisa dalla Corte d’Appello di Milano secondo il paradigma però della concussione (7). In sintesi, ci si trova di fronte a scambi illeciti che si collocano nell’ambito di un rapporto stabile tra pubblico amministratore e imprenditore privato, all’interno del quale si alternano episodi che, in sé considerati, obbediscono alla logica o della concussione o della corruzione. Più in particolare, l’imputato, assessore comunale, avendo bisogno di danaro per il rinnovo della campagna elettorale, rivolge una richiesta di aiuto a un imprenditore edile, già titolare di un contratto di appalto per la ristrutturazione di un obitorio, minacciandolo implicitamente di frapporre ostacoli allo svolgimento del contratto nel caso di diniego di aiuto; dopo avere soddisfatto tale richiesta, l’imprenditore riceve tuttavia un nuovo e ulteriore vantaggio, cioè un nuovo appalto per l’innalzamento dell’edificio dell’obitorio. Ora, a giudizio della Corte d’Appello, qualora l’imprenditore concusso, a seguito della elargizione di danaro, ottenga, oltre al vantaggo di una gestione normale del rapporto contrattuale in atto, altri vantaggi nella prospettiva di una progressione dei rapporti con la pubblica amministrazione, ciò non sposta la qualificazione giuridica del fatto dall’alveo della concussione, sempre che gli ulteriori vantaggi non siano interpretabili anche parzialmente come causa (anche non determinante) dell’elargizione stessa. Com’è facile osservare, la motivazione di un simile assunto interpretativo non è scevra da difficoltà e forzature. 2.4. Sempre allo scopo di esemplificare le implicazioni in termini qualificatori di un sistema di illegalità stabile e diffuso, appare forse ancora più emblematica la sentenza del Tribunale di Milano relativa al ‘‘caso Chiesa’’ (8). La premessa argomentativa della decisione, che inquadra questa volta il fatto sotto il paradigma della corruzione, è sempre costituita dalla presa d’atto che il rapporto tra pubblico funzionario e privato non si esaurisce in atti singoli, ma si articola in una pluralità di comportamenti teleologicamente coordinati in vista del conseguimento di vantaggi ingiusti. Ora si sostiene che, in un simile contesto, si ha tipicamente corruzione quando il pubblico ufficiale mette a disposizione il suo operato per il raggiungimento di un determinato risultato (nella specie, una vittoria certa nella procedura di attribuzione di appalti ospedalieri a determinati imprenditori), e gli imprenditori interessati, lungi dal limitarsi alla dazione della tangente (che rappresenta l’atto finale), ‘‘cooperino’’ con lo stesso pub(7) App. Milano 8 ottobre 1993, Armanini, in Foro it., 1994. II, p. 226 ss. (8) Trib. Milano 28 settembre 1992, cit., p. 226 ss.
— 888 — blico ufficiale in attività che si integrano reciprocamente nelle diverse fasi di una procedura complessa (attività di cooperazione consistente, ad esempio, nella selezione dei concorrenti mirata al conseguimento della vittoria in gara, nella comunicazione al pubblico ufficiale dei loro nomi, nel suggerimento dei criteri da inserire nel bando di gara, ecc.). Possiamo dunque, in sintesi, osservare: il pubblico amministratore non fa mercimonio di un singolo atto, ma concede la sua generale disponibilità in vista di un risultato da raggiungere mediante una pluralità di atti (in questo senso, il p.u. contrae una sorta di obbligazione di risultato); i privati imprenditori, a loro volta, non si limitano a pagare la tangente, ma diventano concorrenti o cooperatori in una serie di comportamenti di cooperazione. Detto in altri termini: è come se il reato di corruzione si estendesse fino a incorporare una forma di ‘‘associazione’’ diretta a realizzare un programma futuro di transazioni illecite. 2.5. In connessione con quanto or ora osservato circa il ridimensionamento del valore del singolo atto nella prospettiva dello scambio corrotto, vanno menzionati i casi — emersi sempre più spesso nella prassi più recente — di c.d. iscrizione del pubblico ufficiale ‘‘a libro paga’’ o di corruzione c.d. ‘‘a futura memoria’’: si allude alle ipotesi in cui il soggetto pubblico viene dal privato ‘‘pagato in maniera forfettaria o periodicamente non perché compia un determinato atto o ometta un determinato atto, ma perché sia disponibile a compiere o ad omettere tutti gli atti che dovessero essere utili al privato, che lo sovvenziona’’ (9). A ben vedere, anche questa volta sembra ricorrere una condotta di messa a disposizione nell’ambito di una relazione intersoggettiva di durata, che per certi aspetti ripropone analogicamente il modello del reato associativo. Ci si può fondatamente chiedere — come ci si è di fatto chiesti — se sia opportuno creare in proposito una fattispecie o sottofattispecie incriminatrice ad hoc, che tenga conto dello specifico disvalore di simile condotta (disvalore che può peraltro essere considerato comparativamente più grave, dal momento che in questo caso il pubblico ufficiale non si limita a un singolo mercimonio, ma sottomette agli interessi del privato l’intera sua attività) (10). Come pure ci si può chiedere se il problema non vada risolto per altra via, cioè procedendo a una riscrittura dei delitti di corruzione che emancipi l’illecito dal riferimento della retribuzione indebita a uno o più atti di ufficio singoli (una soluzione di questo tipo, d’altra (9) Così DAVIGO, Falso in bilancio, concussione e corruzione: l’esperienza giurisprudenziale, in AA.VV., Falso in bilancio, concussione e corruzione: esperienze a confronto (Aspetti sostanziali e processuali), a cura di A. Manna, Bari, 1998, p. 27. (10) Cfr. FORTI, op. cit., p. 495; CONTENTO, Altre soluzioni di previsioni normative della corruzione e concussione, in AA.VV., Revisione e riformulazione delle norme in tema di corruzione e concussione, Bari, 1995, p. 69.
— 889 — parte, servirebbe anche ad attribuire sicuro rilievo penale alle ipotesi in cui non si riesca comunque a provare, sul terreno processuale, la specifica controprestazione del soggetto pubblico). È appena il caso di ricordare che, già de jure condito, esiste qualche pronuncia della Cassazione che attribuisce rilevanza, a dispetto dell’attuale tenore letterale della fattispecie di corruzione, alla dazione di danaro al pubblico ufficiale semplicemente in ragione delle funzioni da lui esercitate, e in mancanza della prova del singolo atto d’ufficio oggetto di scambio (11). Certamente, si può discutere se questa dilatazione dell’incriminazione, imposta o consigliata dall’attuale realtà criminologica, dia luogo a una interpretazione estensiva o a una vera e propria applicazione analogica della disciplina vigente. 2.6. Il sistema nostrano di corruzione esibisce però, oltre alla figura del pubblico ufficiale a libro paga, una novità ulteriore, anch’essa peraltro nota: alludo ai ruoli del concussore e del concusso ‘‘ambientali’’. La categoria sociologica della c.d. ambientalità, aggiungendosi alla dimensione sistemica dei fenomeni di scambio illecito, contribuisce invero a rendere l’inquadramento penale per un verso ancora più sofisticato e, per altro verso, meno vincolato al rigore richiesto (almeno in linea teorica) dall’accertamento empirico di tutti i presupposti della punibilità secondo la normativa vigente. Di significativo v’è da osservare questo: il paradigma della concussione ambientale, finora rigettato dal legislatore ma cionondimeno valorizzato da una parte della giurisprudenza, ha fatto nella prassi giudiziaria ulteriore carriera. Invero, è andata affermandosi, sino a ricevere un avallo forse definitivo in una sentenza della Cassazione del luglio 1998 (12), una linea interpretativa così riassumibile: la condotta di induzione può estrinsecarsi anche in comportamenti surrettizi, concretantisi in suggestione tacita, ammissioni, silenzi, come nel caso in cui il comportarnento del pubblico ufficiale si limiti appunto alla tacita conferma della convinzione del privato della ‘‘ineluttabilità’’ del pagamento ingenerata da una prassi corrispondente. La peculiarità del fenomeno, definito con la locuzione ‘‘concussione ambientale’’, si fa dalla giurisprudenza dunque consistere proprio in questo: cioè nella convinzione del privato di adeguarsi ad una prassi ineluttabile. Ma secondo la stessa Cassazione con l’interpretazione in parola — così come esplicitamente si sostiene nella sentenza prima ri(11) Si veda, ad esempio, Cass. 30 novembre 1995, in Foro it., 1996, II, p. 414, con nota di GROSSO, Dazione o promessa di denaro al pubblico ufficiale ‘‘in ragione delle funzioni esercitate’’: corruzione punibile o fatto penalmente atipico? (12) Cass. 13 luglio 1998, Salvi e altri, in Foro it., l999, II, p. 644, con nota di MANES, La concussione ambientale da fenomenologia a fattispecie extra legem.
— 890 — cordata —, lungi dal forzare il paradigma normativo della concussione, non si farebbe altro che descrivere semplicemente il particolare modo d’atteggiarsi di una condotta di induzione che si manifesta in via implicita. A ben guardare, proprio questo modo di ragionare ‘‘autogiustificativo’’ dell’organo di legittimità suscita più di un rilievo, trattandosi peraltro di uno stile argomentativo riscontrabile in qualche pronuncia di merito. Ad esempio, è in questo senso assai significativa, direi emblematica, una pronuncia della Corte d’Appello di Venezia (13), nella cui motivazione si afferma: ‘‘(...) questa Corte non ignora che la Suprema Corte ha rilevato che, allo stato attuale della normativa, occorre sempre un comportamento induttivo del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio affinché sia ravvisabile la figura della concussione’’; ma la stessa Corte veneziana aggiunge un rilievo sintomatico, meritevole della massima attenzione ai fini della mia analisi: ‘‘Va rilevato, peraltro, che è necessario intendersi in cosa debba consistere e come possa essere provato questo comportamento induttivo giacché proprio nel caso di specie può essere riscontrato un caso di c.d. concussione ambientale’’. Orbene, non potrebbe forse esservi riscontro migliore di questo passo ora citato per mettere in evidenza un punto molto importante: cioè come l’escogitazione giurisprudenziale della concussione ambientale crei un ponte comunicativo tra diritto sostanziale e processo, produttivo dell’effetto di trasferire la determinazione dei concetti sostanziali sul terreno della prova (14). In apparenza, questo rimando dal concetto di diritto sostanziale alla prova lascia immutato il concetto stesso; ma, in realtà, definire quest’ultimo attraverso criteri probatori è operazione che finisce col modificarne o manipolarne il contenuto, in omaggio a esigenze di semplificazione probatoria. Ciò è particolarmente evidente proprio nel caso della concussione ambientale: il requisito dell’‘‘induzione’’, come elemento della fattispecie incriminatrice, viene sostituito, sul terreno della prova, dal diverso requisito della ‘‘intimidazione d’ambiente’’ — cioè una entità sociologica impalpabile e, come tale, suscettibile di essere ricostruita secondo schemi presuntivi. Senza contare il non indifferente vantaggio, sempre sul terreno probatorio, offerto dalla possibile collaborazione del privato, il quale nel ruoIo più comodo di concusso è posto in condizione di denunciare diffusi fenomeni di malcostume, non incorrendo in una incriminazione: in questo modo, il ricorso alla concussione ambientale spezza la solidarietà ‘‘omertosa’’ tra corruttore e corrotto (15). A ben vedere, però, v’è una ulteriore ragione di fondo che può in(13)
App. Venezia 24 giugno 1996, in Giur. merito, 1998, p. 92, con nota di MALa concussione ambientale tra vuoto legislativo e prassi giurisprudenziale. (14) Il fenomeno dell’interazione tra concetto sostanziale e prova è ben analizzato da VOLK, Sistema penale e criminalità economica, trad. it., Napoli, 1998, p. 204 ss. (15) Cfr., più diffusamente, FORTI, op. cit., p. 496 s.
SCARO-MARAZZA,
— 891 — durre in alcuni casi a preferire il paradigma della concussione, ed è una ragione che trascende il piano dell’accertamento probatorio. Per evidenziarla, vale la pena di leggere un passo della motivazione della pronuncia della Cassazione prima menzionata: ‘‘La giurisprudenza ha semplicemente preso atto del fenomeno, particolarmente diffuso nel presente momento storico, di un sistema di illegalità imperante nell’ambito di alcune sfere di attività della pubblica amministrazione, notandosi che la costrizione o l’induzione da parte del pubblico ufficiale può realizzarsi anche attraverso il riferimento a una sorta di convenzione tacitamente riconosciuta, che il pubblico ufficiale fa valere e il privato subisce, nel contesto di una comunicazione resa più semplice per il fatto di richiamarsi a regole ‘‘già codificate’’. Ciò non vuol dire, ovviamente, che possa prescindersi da un comportamento costrittivo o induttivo del pubblico ufficiale, ma solo che la condotta costrittiva o (più normalmente, nella tipologia in esame) induttiva, può realizzarsi ed esser colta in comportamenti che, ove mancasse il quadro ‘ambientale’, potrebbero essere ritenuti penalmente insignificanti’’. Orbene, dalla lettura di tale passo è lecito — a mio avviso — desumere che la giurisprudenza accoglie e ripropone l’ideologia di fondo sottesa alle note proposte di legge volte, in un recente passato, ad introdurre nel nostro ordinamento la concussione ambientale come fattispecie incriminatrice espressa: cioè una visione basata, per un verso, su di una lettura sociologica che sostanzialmente assimila — mutatis mutandis — certe forme di illegalità amministrativa diffusa all’intimidazione ambientale presente nei contesti mafiosi o para-mafiosi; e, per altro verso, su di un atteggiamento ‘‘ibrido’’ o ambivalente, vale a dire rigorosamente moralistico ma nello stesso tempo indulgente (se non addirittura ‘‘compiacente’’). Com’è facile intuire, il primo atteggiamento tende ad enfatizzare la responsabilità dei soggetti pubblici ai quali si finisce per imputare una gestione della cosa pubblica attuata con metodi para-mafiosi; mentre il secondo atteggiamento tende, di riflesso, ad enfatizzare il ruolo di ‘‘vittime’’ dei privati, percepiti come soggetti ineluttabilmente sottomessi ad una sorta di stato di necessità ambientale dotato di forza soverchiante. Ma dobbiamo chiederci: una simile concezione moralistico-indulgenziale riflette davvero la attuale realtà di certe forme di diffuso malcostume amministrativo? Ovvero essa si traduce in una sorta di alibi che, nella misura in cui ‘‘deresponsabilizza’’ i privati, continua ad alimentarne forme di soggezione compiacente e vantaggiosa? Circa il grado di adeguatezza ai tempi della concezione in parola fa, d’altra parte, riflettere la sua sorprendente coincidenza con un punto di vista espresso addirittura nel secolo scorso da Francesco Carrara, il quale infatti osservava: ‘‘Ma quante volte apparisca’’ nei giudici ‘‘in qualche modo dubbiosa la pravità d’intenzione nel privato, adottino pure con coraggio il titolo di concussione a preferenza di quello di corruzione, ser-
— 892 — bino la severità loro contro la perfidia dell’ufficiale e la loro pietà verso il privato, e vivano sicuri che la pubblica opinione renderà omaggio alla loro giustizia’’ (16). 3. (Segue): alcune considerazioni d’insieme sul quadro criminologico e giurisprudenziale e sui rapporti d’interazione tra diritto penale sostanziale e processo. — 3.1. Cerchiamo di risalire, adesso, da questa ricostruzione sia pure sommaria del quadro criminologico e giurisprudenziale ad alcune considerazioni d’insieme, in vista della prospettazione di possibili interventi di riforma. Ritengo risulti confermato che i ‘‘punti di crisi’’ della disciplina penale vigente sono quelli già noti a partire dai primi anni Novanta. Per ragioni di spazio, non potrò soffermarmi dettagliatamente su tutti i fattori via via evidenziati nel dibattito sviluppatosi finora (e, del resto, se lo facessi, finirei col ripetere cose abbastanza note). Piuttosto, preferisco concentrare l’attenzione soltanto su alcuni punti, a cominciare dalle più volte lamentate difficoltà di ordine probatorio. In proposito, credo di poter innanzitutto rilevare che gli stessi parametri differenziatori tradizionalmente elaborati da dottrina e giurisprudenza per distinguere tra corruzione e concussione, presentano una caratteristica di più o meno accentuata ambivalenza: nel senso che si tratta — almeno in alcuni casi — di criteri che hanno natura o funzione ‘‘bifronte’’, cioè che stanno a mezzo o in una posizione di confine, se non di vera e propria trasversalità, tra i concetti sostanziali e la relativa prova sul terreno processuale. Penso in particolare a quei criteri differenziatori che presentano un carattere, più che soggettivo-psicologico, oggettivoesterno (17): cioè quello della c.d. iniziativa della parte privata o pubblica e quello degli effetti in termini di danno o di vantaggio per la parte privata. A ben vedere, il vecchio criterio dell’iniziativa, risalente al Manzini, funge benissimo da elemento di prova sul terreno processuale, da cui inferire la mancanza o la presenza di un requisito essenziale della concussione, quale lo stato di soggezione del privato nei confronti del pubblico ufficiale. Considerazioni analoghe, in realtà, valgono rispetto all’altro criterio ogettivo del danno o del vantaggio: l’effetto in termini di danno o di vantaggio per il privato costituisce elemento presuntivo, in una ottica probatoria, della presenza o dell’assenza di una condizione costrittiva per il privato. (16) Citazione tratta da PADOVANI, op. cit., p. 458. (17) Per una distinzione analoga dei criteri differenziatori cfr. FORTI, Sulla distinzione fra i reati di corruzione e concussione, in Studium juris, 1997, p. 726 s.
— 893 — Se così è, il fenomeno dell’interferenza o interazione tra piano sostanziale e piano probatorio non è una novità emersa nel corso degli ultimi anni: il fenomeno piuttosto, a partire dall’esperienza di ‘‘Tangentopoli’’, si è soltanto accentuato ed è divenuto ancora più evidente. Ma mi preme — a maggior ragione — rilevare che una novità scandalosa non sarebbe neppure progettare modifiche legislative di fattispecie sostanziali aventi come scopo obiettivi di semplificazione probatoria. Al contrario, la tendenza ad intervenire sul diritto sostanziale, realizzando modifiche normative destinate a fungere da meccanismi di riduzione della complessità dell’accertamento processuale, ha trovato negli ultimi anni significative esemplificazioni sia nel nostro che in altri ordinamenti vicini. Si pensi, nell’ambito del nostro ordinamento, all’introduzione della fattispecie dell’associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), motivata — tra l’altro — con esigenze di semplificazione probatoria. E si pensi, ad esempio nell’ambito dell’ordinamento tedesco, all’introduzione della figura della truffa nelle sovvenzioni (par. 264 StGB), dovuta all’esigenza di ovviare alle difflcoltà probatorie degli estremi costitutivi della figura generale della truffa. E gli esempi potrebbero continuare. Tutto ciò non dovrebbe apparire scandaloso perché un diritto penale moderno, sempre più orientato all’effettività, non può concepire le figure criminose come entità ideali sovranamente indifferenti alle realtà effettuali sottostanti. Come insegna la stessa Corte costituzionale a partire dalla importante sentenza n. 96/81 in materia di plagio, diritto penale e processo si condizionano reciprocamente: se è vero che può costituire legittimamente reato, soltanto un fatto che sia suscettibile di verifica empirica ad opera degli organi inquirenti e giudicanti. Fuori discussione, dunque, che le condizioni e i limiti dell’accertabilità processuale possono e devono fungere da parametri orientativi — beninteso insieme con altri — in sede di conformazione normativa (e, quindi, di eventuale riforma legislativa) dei fatti di reato. È anche vero per altro verso che la funzionalizzazione processuale, se vuole sottrarsi al rimprovero di subordinare eccessivamente le funzioni di garanzia del Tatbestand alle esigenze del processo, deve a sua volta osservare alcune condizioni o limiti di principio. Occorre infatti guardarsi dal rischio che riforme pensate per fini di semplificazione probatoria, nel procedere ad una ridescrizione semplificata delle fattispecie incriminatrici, configurino il nuovo o i nuovi fatti punibili in termini tali da dar luogo a inconvenienti più gravi di quelli da eliminare. Come, ad esempio, accadrebbe in una delle due eventualità seguenti. In primo luogo se la nuova fattispecie sostituisse i precedenti requisiti (difficili da provare) con elementi che li indiziano in termini di sospetto, a tal punto però da far crescere a dismisura il numero dei soggetti sospettabili di aver commesso il reato e, di conseguenza, da stravolgere il rapporto regola-eccezione tra
— 894 — condotta legale e condotta criminale (18). Ovvero, se la nuova descrizione legislativa del fatto si spingesse sino al punto di unificare troppo, e di appiattire sul piano sanzionatorio, tipi di comportamento espressivi invece di disvalori ancora meritevoli di essere differenziati mediante previsioni normative autonome. Ma non è facile passare dai limiti di principio della ‘‘funzionalizzazione’’ processuale alla loro articolazione sul piano delle scelte legislative concrete. Su questo piano, infatti, si aprono ampi spazi di discrezionalità legislativa, al di fuori da vincoli rigidi derivanti da supposte strutture ontologiche o da una ritenuta natura delle cose; a meno di non volere contrabbandare, per tali, classificazioni e tipologie legali che hanno alle spalle soltanto una specifica tradizione storico-legislativa, cioè un mos italicus che peraltro non trova oggi eccessivi riscontri a livello comparatistico: come tutti sappiamo, tra gli ordinamenti vigenti non sono molti in realtà quelli che contengono una fattispocie apposita di concussione. Essendo potenzialmente ampio lo spazio che intercorre tra le scelte politico-criminali manifestamente arbitrarie o irragionevoli, e le scelte legittimamente discutibili nell’ambito di un confronto razionale, non sorprende allora la difficoltà di raggiungere unanimità di vedute sui limiti di ammissibilità di una revisione in chiave semplificatrice della normativa vigente. 3.2. Prima di esplicitare il mio punto di vista in proposito, mi sia però consentito qualche ulteriore rilievo volto a problematizzare il rapporto di tensione tra la struttura attuale dei tipi legali e i referenti criminologici sottostanti. Più in particolare, mi preme mettere a fuoco una angolazione prospettica che, seppure implicita in alcune delle analisi più lucide del fenomeno ‘‘Tangentopoli’’, non mi sembra sia stata sinora esplicitata nel modo dovuto. Alludo a una prospettiva di analisi che si preoccupi di sviluppare alcune analogie, indubbiamente esistenti tra le caratteristiche rispettive della corruzione sistemica e del crimine organizzato: e mi chiedo se modalità e tecniche di tutela già operanti rispetto al secondo, possano in futuro — mutatis mutandis — fungere da modello di riferimento per la prima. Ma, a ben vedere, l’analisi comparativa coinvolge, ancor prima, le scelte giudiziarie finora compiute entro l’orizzonte della normativa vigente; peraltro, suggerendo un interrogativo che, a tutt’oggi, si è forse preferito dai più rimuovere. Con qualche significativa eccezione, tuttavia, costituita ad esempio da un rilievo incidentale di Carlo Federico Grosso nel contesto di una analisi dedicata ai reati associativi. Proprio il rilievo di Grosso merita di essere riportato perché ci conduce inesorabilmente all’interrogativo rimosso: ‘‘Da manipulite è emerso che secondo prassi consolidate politici, (18)
VOLK, op. cit., p. 51 ss.
— 895 — funzionari pubblici, boiardi di stato, grandi, medi e piccoli imprenditori, hanno stipulato intese durature per spartire appalti pubblici secondo criteri concordati e per procurare vantaggi imprenditoriali indebiti dietro il pagamento di tangenti, e che ciò è diventato addirittura sistema di gestione politica e di economia di impresa. A fronte di situazioni di questo tipo la realizzazione di associazioni a delinquere non pare seriamente contestabile: attraverso intese ben congegnate, tre o più persone si sono infatti organizzate per compiere una pluralità di delitti (art. 416 c.p.). — Eppure la realizzazione del delitto previsto dall’art. 416 c.p. non è stata contestata agli indagati (...). Qui, forse, politica giudiziaria, o politica tout court, hanno prevalso sulle ragioni del diritto’’ (19). Ora, ho anch’io l’impressione che questa mancata contestazione del reato associativo, che invece sarebbe stata verosimilmente doverosa in forza dei principi di legalità e obbligatorietà dell’azione penale, si spieghi sulla base di calcoli di opportunità latamente intesa: calcoli che hanno indotto gli organi inquirenti a mantenere il controllo penale entro i più angusti e rassicuranti confini dei classici reati contro la pubblica amministrazione. Ma, non essendo mio compito in questa sede congetturare intorno a queste motivazioni (per dir così) extradogmatiche (alcune delle quali, peraltro, facilmente intuibili), mi limito a un solo rilievo che ritengo pertinente nell’ottica specifica del presente convegno: mi chiedo cioè, problematicamente, se incanalare i fenomeni di corruzione sistemica anche nell’alveo del reato associativo, secondo il paradigma generale dell’associazione per delinquere, avrebbe consentito o consentirebbe una risposta penale, per un verso, più adeguata al disvalore insito nel carattere duraturo e strutturato delle prassi illecite e, per altro verso, più idonea ad assicurare comunque la punibilità nei casi di difficile prova del rapporto di connessione tra retribuzione indebita e compimento di atti di ufficio ben individuati. La prospettazione, sia pure in termini problematici, di una possibile valorizzazione della fattispecie associativa sollecita, d’altra parte, qualche riflessione anche in una prospettiva de jure condendo. Com’è facile intuire, v’è da chiedersi se le nuove fenomenologie di corruzione sistemica, non più circoscritte a relazioni soggettive bilaterali ma estese a vere e proprie consorterie stabilmente finalizzate a fare commercio privato delle pubbliche funzioni, non giustifichi la creazione di una nuova fattispecie associativa ad hoc: cioè di una fattispecie associativa che anticipi la rilevanza penale al momento delle intese illecite tra più soggetti, indichi (se esistono) le modalità tipiche dell’agire associato finalizzato a scopi corruttivi e commini una pena adeguata alla pericolosità di simili organizzazioni politico-affaristiche. (19) GROSSO, Le fattispecie associative: problemi dogmatici e di politica criminale, in questa Rivista, 1996, p. 421.
— 896 — D’altra parte, una auspicabile più approfondita verifica in proposito potrebbe anche sfociare nel disconoscimento dell’esistenza di valide ragioni politico-criminali per introdurre in questo campo una figura associativa apposita. 3.3. Sempre sul piano di una comparazione tra corruzione sistemica e crimine organizzato, sono a mio avviso altresì riscontrabili elementi di analogia tra i rispettivi retroterra criminologici della concussione c.d. ambientale e del fenomeno mafioso. È facilmente intuibile che la possibile analogia riguarda la pressione intimitatrice sprigionata, nell’uno e nell’altro caso, dal contesto esterno (sia pure, com’e ovvio, con un grado di intensità diverso). Se questa analogia — almeno in parte — esiste veramente, vale la pena allora comparare il tipo di effetti che, sul terreno penalistico, in entrambi i casi si fanno derivare dalla presenza di forme di pressione ambientale. Com’è noto, nell’ambito della criminalità mafiosa il riferimento al ‘‘contesto’’ assume rilievo determinante al momento di stabilire se condotte espressive di cosiddetta contiguità alla mafia attingano o meno la soglia della punibilità, per lo più secondo il controverso paradigma del concorso ‘‘esterno’’. Per risolvere questo problema della rilevanza della contiguità, la giurisprudenza ha escogitato una distinzione significativa sullo stesso terreno criminologico: da un lato, la contiguità c.d. ‘‘soggiacente’’, caratterizzata da una sorta di stato di necessità storico-ambientale con funzione penalmente immunizzante; dall’altro, la contiguità c.d. ‘‘compiacente’’, connotata dal fatto che il rapporto di vicinanza con la mafia costituisce il risultato di un calcolo utilitaristico nella logica dello scambio di reciproci favori e assume, di conseguenza, rilevanza penale in forma di concorso esterno (20). Ora, è importante a mio avviso porre in evidenza questo punto: cioè come nel corso dell’evoluzione giurisprudenziale la chiave ricostruttiva di gran lunga prevalente sia diventata quella della contiguità compiacente, con conseguente estensione delle ipotesi di ritenuta rilevanza penale. Quale che sia la posizione più corretta su di un piano strettamente dogmatico, da un punto di vista politico-criminale sono indotto a pensare che una delle ragioni sostanziali (se non la principale) dell’exploit del concorso esterno vada individuata in questa esigenza: interrompere una tradizione storica di giustificazionismo sociologico penalmente immunizzante, e responsabilizzare i singoli cittadini (a cominciare dagli esponenti delle classi dirigenti) per indurli ad evitare forme di sostegno a vario titolo (20) Cfr., in particolare, Cass. 5 gennaio 1999, Cabib, in Foro it., 1999, II, p. 631, con nota di VISCONTI, Imprenditori e camorra: l’‘‘ineluttabile coartazione’’ come criterio discretivo tra complici e vittime?
— 897 — idonee a rafforzare o a mantenere i legami tra le organizzazioni mafiose e il contesto socio-ambientale. Orbene, mi chiedo se, a fronte di questa progressiva tendenza responsabilizzatrice, non sarebbe invece contraddittorio o poco ragionevole continuare a perpetuare orientamenti penalmente immunizzanti sul terreno della concussione c.d. ambientale, considerando i privati ‘‘vittime’’ di prassi amministrative ineluttabilmente soverchianti: al paragone, infatti, la pressione esterna derivante dalle prassi corrotte è verosimilmente caratterizzata da un grado di intensità minore rispetto all’alone di intimidazione diffusa che promana dai contesti di mafia. 4. Prospettive realistiche di riforma in tema di concussione e corruzione. — 4.1. Sono in linea teorica prospettabili più direttrici di riforma legislativa, che sarei tentato per comodità espositiva di distinguere in: massimalistiche (o radicali); minimalistiche; mediatrici (o moderate). Com’è noto, il progetto di riforma più radicale, che si è non a caso attirate critiche molto aspre ed è andato incontro ad un prevalente rigetto da parte della dottrina, è quello ideato dal c.d. gruppo di Milano e poi reclamizzato come ‘‘proposta Di Pietro’’ (ma si è parlato anche di ‘‘progetto Cernobbio’’). Riconsiderato oggi a distanza di più di cinque anni, tale progetto forse non suona piu così eversivo del classicismo penale e per certi aspetti provocatorio, come era invece apparso alla maggioranza dei professori di diritto penale al momento della sua presentazione (21): ma la sua accentuata funzionalizzazione politico-criminale, secondo una doppia strategia di rigore e premialità, si scontra oggi con condizioni di ‘‘contesto’’ esterno forse ancora più ostili (riguardo, in particolare, alla eventuale introduzione di cause di non punibilità per il corrotto o corruttore ‘‘pentito’’). Nel clima politico-sociale odierno è infatti diminuita la percezione sociale della pericolosità della corruzione, si è oggettivamente allentato l’impegno giudiziario a perseguirla, è sopravvenuto un certo disincanto nei confronti dell’efficacia dell’azione giudiziaria ed è cresciuto, sotto alcuni aspetti, l’atteggiamento di diffidenza verso la collaborazione giudiziaria. Di conseguenza, mi sembrano più praticabili prospettive di intervento meno radicali. 4.2. Una direttrice di riforma, di portata (per dir così) minimalistica, verso la quale ho l’impressione sia andato crescendo nel corso degli ultimi anni il numero dei consensi, concerne l’esigenza di eliminare o ridurre le difficoltà interpretativo-applicative nei rapporti tra concussione e corru(21) Tra le prese di posizione critiche si è distinta, per rigore ed equilibrio, quella di GROSSO, L’iniziativa di Di Pietro su Tangentopoli. Il progetto anticorruzione di Mani pulite fra utopia punitiva e suggestione premiale, in Cass. pen., 1994, p. 2346. Per una replica non meno equilibrata alle obiezioni mosse al progetto milanese v. PULITANÒ, op. cit., p. 3 ss.
— 898 — zione. A questo scopo, e al connesso fine di scongiurare una eccessiva dilatazione interpretativa della concussione ai danni della corruzione, basterebbe — com’è noto — un semplice tratto di penna da parte del legislatore: sarebbe cioè sufficiente la eliminazione della ‘‘induzione’’ dal novero delle condotte prese in considerazione dalla fattispecie incriminatrice della concussione (sempre che, beninteso, non sia da attendersi una possibile ‘‘contromossa’’ da parte della futura giurisprudenza, volta a neutralizzare una simile riforma mediante una dilatazione interpretativa del requisito della ‘‘costrizione’’ (22)! 4.3. Ma una riforma legislativa che si limitasse a quest’atto di cancellazione, avrebbe il respiro troppo corto: rimarrebbero eluse altre esigenze politico-criminali, questa volta dirette a colmare vuoti di tutela emersi dall’esperienza giudiziaria degli ultimi anni. Penso, com’è facile intuire, a una riscrittura delle fattispecie di corruzione che allenti o attenui il rapporto stretto tra utilità indebita e uno specifico atto di ufficio: ciò allo scopo di attribuire rilevanza penale certa a quei casi in cui il soggetto pubblico riceve dal privato forme di retribuzione non dovuta, più che in contraccambio di atti di ufficio individuati ex ante, in considerazione dell’attività pubblica esercitata e della prospettiva durevole di favori che il privato stesso in futuro ne può ricavare. Sollecitazioni ulteriori in questo senso derivano, in realtà, da una riforma in proposito recentemente realizzata nel codice penale tedesco con la ‘‘legge per il contrasto della corruzione’’ del 20 agosto 1997. Proprio al fine di adeguare la disciplina delle fattispecie-base della corruzione passiva ed attiva al nuovo fenomeno criminale delle intese continuative nel tempo tra pubblico ufficiale e privato, il legislatore tedesco del ’97 ha modificato i parr. 331, comma 1o e 333, comma 1o, StGB, in modo da non esigere più la prova del sinallagma tra retribuzione indebita — singolo atto di ufficio: le nuove formule incriminatrici si accontentano infatti di richiedere che il pubblico ufficiale accetti e, rispettivamente, il privato conceda una ricompensa ‘‘per lo svolgimento della funzione’’ (‘‘für die Dienstausübung’’). D’altra parte, per adegure anche la disciplina del nostro codice al fenomeno della messa del pubblico ufficiale ‘‘a libro paga’’ si possono seguire, sul piano della tecnica legislativa, diverse strade. Una è quella, non già di riformulare le attuali norme sulla corruzione, bensì di aggiungere alle esistenti — come è stato già suggerito (23) — una nuova norma, che crei una fattispecie autonoma per sanzionare anche con pena differenziata la corruzione ‘‘a futura memoria’’: fattispecie che potrebbe invero essere (22) In questo senso, di recente, cfr. anche STORTONI, La disciplina penale della corruzione: spunti e suggerimenti di diritto comparato, in Ind. pen., 1998, p. 1060 s. (23) CONTENTO, op. cit., p. 77.
— 899 — anche considerata espressiva di un disvalore comparativamente più accentuato rispetto a quello della corruzione tradizionale, e potrebbe di conseguenza meritare un trattamento di maggiore rigore. Come sempre, il problema è anche in questo caso quello di scegliere una tecnica di tipizzazione legislativa adeguata alle caratteristiche criminologiche del fatto da incriminare. 4.4. Ribadisco invece una posizione contraria ad un eventuale riconoscimento legislativo della concussione ambientale. A fronte dell’unico possibile effetto positivo di renderla più compatibile, sul piano meramente formale, col principio di riserva di legge, avremmo per contro alcuni inconvenienti di peso tutt’altro che trasculabile: difficoltà di costruire la nuova fattispecie in termini di accettabile determinatezza; rischio di rendere ancora più complessa, sul piano dogmatico e applicativo, la distinzione tra le diverse figure legali riferibili alle fenomenologie corruttive; effetto fortemente deresponsabilizzante nei confronti dei privati. 5. Prospettive d’intervento sul piano della prevenzione patrimoniale. — Rinunciando ad affrontare, per già confessate ragioni di realismo, la prospettiva della ‘‘premialità’’, mi sia consentito a questo punto qualche accenno alla diversa prospettiva, pur sempre di grosso interesse politico-criminale, di possibili nuove strategie di intervento sanzionatorio a carattere patrimoniale (anche se accennarvi rischia di smentire l’atteggiamento realistico, considerato che neppure una strategia di attacco ai patrimoni illecitamente acquisiti sarebbe forse destinata a riscuotere oggi maggiore consenso politico-sociale). In verità, sollecitazioni in questo senso scaturiscono sia da numerose proposte di legge presentate (ma finora mai approvate) nel nostro paese, sia da innovazioni realizzate di recente in ordinamenti vicini al nostro. Cominciando da queste ultime, mi sembrano di notevole interesse le novità introdotte nel codice penale tedesco sempre con la legge per il contrasto della corruzione del 1997: e cioè, in forza del nuovo par. 338 StGB, è stata estesa ai casi di corruzione passiva e corruzione attiva per un atto contrario ai doveri d’ufficio, realizzati in forma professionale o associativa, l’applicabilità di due misure patrimoniali per la prima volta introdotte nell’ordinamento tedesco nel 1992, precisamente nell’ambito della strategia politico-criminale di contrasto della criminalità organizzata: si tratta delle due misure — fortemente controverse e sospettate di incostituzionalità da parte della dottrina tedesca più conservatrice — della c.d. pena patrimoniale di cui al par. 43 a StGB e della confisca (o acquisizione pubblica) c.d. allargata (par. 73 d StGB). Nelle intenzioni del legislatore tedesco, queste novità obbediscono a pressanti esigenze di prevenzione generale e speciale, in particolare con riferimento ai fatti di corruzione realizzati appunto in forma professionale o associativa.
— 900 — Quanto al nostro ordinamento, ricordo che a partire dal 1992 si sono susseguiti sette decreti-legge, emanati sull’onda emotiva dell’indignazione popolare e volti ad aggredire i patrimoni dei responsabili dei fenomeni corruttivi di ‘‘Tangentopoli’’: ma nessuno di questi è andato in porto (24). La prospettiva di introdurre nuove misure patrimoniali è stata poi ripresa dalla speciale Commissione parlamentare anticorruzione, che ha votato un testo unificato di modifiche da sottoporre all’attenzione del parlamento ma finora — a quanto risulta — accantonate. Invero, questo testo unificato prevede novità sul piano delle misure patrimoniali che sotto certi aspetti richiamano l’istituto tedesco del ‘‘Verfall’’ (acquisizione pubblica, diversa dalla confisca in senso stretto) di cui ai parr. 73 e segg. StGB o istituti similari di altri ordinamenti: più precisamente, esso configura nuove figure di sequestro e confisca in relazione non solo ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione (peculato, concussione, corruzione), ma anche ad alcuni reati contro il patrimonio e l’economia pubblica, con ulteriore inclusione dei reati di illecito finanziamento ai partiti (25). Il punto che in questa sede va soprattutto evidenziato, concerne l’oggetto del sequestro e della confisca: tale oggetto è rappresentato da beni rispettivamente dell’indagato o del condannato, ‘‘nei limiti di valore pari all’ingiusto profitto contestato’’. Si tratta, com’è evidente, di una formulazione innovativa rispetto alla tradizionale disciplina codicistica della confisca, in quanto introduce l’importante principio della confiscabilità per equivalente (principio che ha la sua matrice nell’accennato istituto del ‘‘Verfall’’ e che ha un precedente nell’ordinamento italiano nella recente normativa penale anti-usura: art. 644, comma ult., c.p., così come da ultimo modificato). È appena il caso di esplicitare la ratio della confisca per equivalente: essa consente di ovviare agli inconvenienti connessi sia alla frequente difficoltà di individuare il bene in cui si incorpora il profitto iniziale, sia ai limiti che incontra la confisca dei beni di scambio o di quelli costituenti il reimpiego; in tal modo si rende anche possibile l’intervento ablatorio rispetto a vantaggi economici costituiti ad esempio dal risparmio di spese dovute (26). Concludendo questi approssimativi accenni al versante delle sanzioni patrimoniali, rimane ovviamente aperto un interrogativo: v’è cioè da chiedersi se sia opportuno progettare forme di confisca dai tratti innovativi all’interno di una prospettiva settoriale che privilegia soltanto alcuni tipi di (24) Cfr. VALENTI, Sette decreti-legge in tema di delitti contro la pubblica amministrazione, in Critica del diritto, 1994, p. 41 ss. (25) Per una esposizione più ampia cfr. FIANDACA, Legge penale e corruzione, in Foro it., 1998, V, p. 4 ss. (26) Si veda, più approfonditamente, FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, 1997, p. 112 ss.
— 901 — reato (27), ovvero se non sia preferibile una riforma di carattere più generale che, intervenendo sul testo dell’art. 240 c.p., introduca il principio della confiscabilità per equivalente in relazione a tutti i reati. GIOVANNI FIANDACA Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo
(27) La tendenza a introdurre innovazioni settoriali è, ormai, alimentata anche dall’esigenza di onorare impegni che il nostro Stato ha assunto a livello sovranazionale: con riferimento alla tematica in questione, va infatti aggiunto che il principio della confiscabilità per equivalente, riguardo ai reati contro la pubblica amministrazione, è accolto da un apposito disegno di legge (già approvato dalla Camera dei deputati e approvato con modificazini anche dal Senato della Repubblica in data 10 maggio 2000) di ratifica ed esecuzione di Atti internazionali elaborati in base all’art. K 3 del Trattato sull’Unione europea, quali tra l’altro la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, nonché la Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea e la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali. È, altresì, da segnalare che il disegno di legge in questione contiene una delega al governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in relazione alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione e in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, nonché di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
NOTE IN TEMA DI ‘‘VALUTAZIONI DI COLPEVOLEZZA’’ PRAETER LEGEM, TERZIETÀ DEL GIUDICE E RICUSAZIONE ‘‘TRANSEUNTE’’ (*)
SOMMARIO: 1. Giudice unico e meccanismi gestionali della fase di transito: cenni introduttivi. — 2. Verso l’alterità tra g.i.p. e g.u.p.: dalla giurisprudenza costituzionale negativa alle vicende dell’introduzione del giudice unico. — 3. Cenni sugli itinerari parlamentari: dai prodromi del d.l. n. 145 del 1999 al dibattito sul d.d.l. di conversione. — 4. I caratteri della ricusazione ‘‘transeunte’’: anatomia dell’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999 nel testo introdotto dalla legge di conversione. — 5. La ricusazione ‘‘transeunte’’ negli scenari del guado verso l’alterità tra g.i.p. e g.u.p.: appunti per una chiave di lettura della manovra.
1. Che l’ipertrofia normativa, dilagante — e non da ora — anche nell’universo processuale penale (1), generi ineluttabili macrofenomeni di diritto transitorio, a loro volta forieri di difficoltà operative cospicue e di disagi interpretativi laceranti (2), è dato su cui sembra oggi persino super(*) Testo, con l’aggiunta delle note, dell’intervento svolto al XIII Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale sul tema ‘‘Il giudice unico nel processo penale’’ (Como, 24-26 settembre 1999). (1) Già F. CORDERO, Procedura penale2, Milano, 1992, V, denunciava icasticamente come fosse ormai ‘‘finito il tempo delle norme scolpite nel marmo’’: con lo scorrere degli anni la navigazione dell’interprete si è sempre più attestata sul modello ‘‘a vista’’, del tutto privo di punti di riferimento stabili, che ha avallato, esasperandoli, perigliosi (e non sempre limpidi) intrecci leggibili in termini di equilibri reali di potere (per una straordinaria analisi, che colloca il dato tecnico-giuridico in ben più vasti orizzonti, cfr., di recente, M. NOBILI, Nuovi modelli e connessioni: processo - Teoria dello Stato - Epistemologia, in Ind. pen., 1999, p. 27 ss.). Per una rassegna (aggiornata al 1997) delle sole ‘‘novelle’’ che hanno inciso sul tessuto del codice di procedura penale cfr. M. PISANI, Nozioni generali, in M. PISANI, A. MOLARI, V. PERCHINUNNO, P. CORSO, Manuale di procedura penale2, Bologna, 1997, p. 12 ss.; per un incisivo quadro critico-sistematico sulle propensioni all’instabilità dell’assetto codicistico del 1988 cfr. già lucidamente A. GIARDA, Del continuo ‘‘cangiamento’’ normativo, in questa Rivista, 1991, p. 76 ss. (2) Sembra, ad esempio, emblematica la recente vicenda, non priva di echi polemici, dell’applicabilità, ai procedimenti pendenti avanti alla Corte di cassazione, dell’art. 6 l. 7 agosto 1997, n. 267 in tema di lettura-acquisizione delle dichiarazioni rese dal soggetto ex art. 210 c.p.p., culminata nei sintonici dicta di Cass., Sez. un., 25 febbraio 1998, Gerina (in Foro it., 1998, II, c. 225) e di Cass., Sez. un., 13 luglio 1998, Citaristi (ivi, c. 569). Per una compiuta indagine sul neo-centralismo del diritto transitorio e sulle rilevantissime problematiche coinvolte cfr., da ultimo, l’ampia e lucida indagine di O. MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, Milano, 1999.
— 903 — fluo indugiare: i meccanismi di gestione delle fasi di transito — scaturiscano essi, devoluti al solo ingegno dell’operatore-interprete, dal canone ‘‘naturale’’ tempus regit actum o siano invece frutto di scelte legislative articolate e talora drasticamente derogatorie rispetto all’appena indicato principio — incrociano una tale congerie di valori, non di rado tra loro in reciproco conflitto, da porsi comunque, in un modo o in un altro, in termini — appunto — di lacerazione rispetto alla normativa ‘‘a regime’’. S’intende, d’altra parte, come l’esigenza di dotarsi di congegni di gestione della fase di transito, comune ad ogni novum normativo destinato ad incidere su processi variamente ‘‘in corso’’, si renda irrinunciabile — imponendo, anzi, soluzioni differenziate in grado di assicurare una composizione organica delle molteplici esigenze in gioco — ove il novum evidenzi fronti di impatto di considerevole ampiezza: era giocoforza, dunque, che il legislatore della riforma del giudice unico dedicasse non poche energie al conio di marchingegni idonei allo scopo. Le norme transitorie del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 offrono, in realtà, un campionario variegato e di rilevante interesse, ora mostrando soluzioni apprezzabili accanto ad ormai superflue duplicazioni, ora avventurandosi su delicatissimi terreni di accentuata sperimentalità (3). Occorre, però, allargare lo sguardo all’intera manovra (ancora, peraltro, in itinere) dell’introduzione del giudice unico per scorgere in tutta la sua ampiezza la complessità gestionale della fase di transito, onde rilevarne innegabili pregi, defatiganti travagli ma anche sorprendenti contraddittorietà. Appartiene — è probabile — al novero di queste ultime la speciale causa di ricusazione ‘‘transeunte’’ introdotta, al termine di un tormentato itinerario parlamentare, dall’art. 3-bis comma 2 d.l. 24 maggio 1999, n. 145 come convertito, con modificazioni, dalla l. 22 luglio 1999, n. 234: pur se — rebus sic stantibus — destinato a vita breve, il congegno merita sguardi attenti e sollecita riflessioni molteplici, che ne coinvolgono la genesi, i margini applicativi, i rapporti con le già esistenti fattispecie di ricusazione per manifestazioni indebite, nonché — (3) Non è questa la sede per soffermarsi sul complesso tessuto degli artt. 219-227 d.lgs. n. 51 del 1998 (per rilievi di grande interesse cfr., in tema, per tutti, E. MARZADURI, L’introduzione del giudice unico di primo grado ed i nuovi assetti del processo penale, in Leg. pen., 1998, p. 379): sarà utile qui almeno notare come, tra i congegni volti ad incentivare un rapido abbattimento dell’arretrato (artt. 223-227 d.lgs. n. 51 del 1998), quello previsto dall’art. 225 sia stato — per dir così — assorbito, prima ancora che la norma assumesse efficacia, dal ripristino ‘‘a regime’’ del concordato sui motivi di appello, ad opera della l. 19 gennaio 1999, n. 14 (che pur conia un rivoluzionario meccanismo transitorio), pacificamente applicabile ai processi in corso in forza del principio tempus regit actum (in tema cfr., per tutti, G. SPANGHER, Ritorno alle origini per il patteggiamento sui motivi d’appello, in Dir. pen. proc., 1999, p. 144 ss.); un cenno meritano, inoltre, le ‘‘tavole giudiziali di priorità’’ (la formula è di M. NOBILI, Nuovi modelli e connessioni, cit., p. 33) previste dall’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998, che incidono direttamente sul nervo scoperto dell’esercizio dell’azione (per uno studio dei precedenti ed una prima attenta disamina cfr., tra gli altri, L. BRESCIANI, Commento all’art. 227 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in Leg. pen., 1998, p. 474 ss.).
— 904 — in chiave sistemica — il ruolo di arnese di guado (sulla cui efficacia ci si dovrà interrogare) attribuito alla complessiva manovra dal sinallagma parlamentare perfezionatosi in extremis. 2. È ben noto come l’incipit dell’itinerario che ha condotto al conio dell’inedita ricusazione ‘‘transeunte’’ risieda tra le pieghe della tortuosa storia dell’art. 34 comma 2 c.p.p.: la voluminosa giurisprudenza costituzionale che, in termini additivi, ne ha — dal 1990 ad appena ieri — completamente riplasmato la fisionomia (4) è stata sempre fedele a se stessa nell’escludere l’udienza preliminare dal novero dei siti suscettibili di subire un pregiudizio da precedenti ‘‘valutazioni contenutistiche della consistenza dell’ipotesi accusatoria’’ (5). Nonostante la dottrina più autorevole si sia ormai da tempo fatta carico di porre in luce una insurrogabile esigenza di alterità tra g.i.p. e g.u.p., titolari di ‘‘ruoli diversi’’ e di ‘‘competenze diverse e potenzialmente incompatibili’’ (6), la Corte costituzionale, più volte investita di dubbi di costituzionalità circa l’omessa previsione, in seno all’art. 34 comma 2 c.p.p., di incompatibilità a delibare sulla richiesta di rinvio a giudizio, è sempre approdata a declaratorie di infondatezza, rimarcando come la sede ‘‘pregiudicata’’ debba sostanziare un ‘‘giudizio sul merito dell’accusa’’, mentre al giudice dell’udienza preliminare spetta, pur dopo la modifica dell’art. 425 c.p.p. operata dalla l. 8 aprile 1993, n. 105, una funzione ‘‘essenzialmente processuale’’ in quanto (4) La letteratura in tema è ormai vastissima: non può, ex plurimis, trascurarsi un rinvio almeno all’indagine di P.P. RIVELLO, L’incompatibilità del giudice penale, Milano, 1996 (aggiornata alla vigilia della svolta dell’incompatibilità ‘‘endoprocessuale allargata’’: cfr. Corte cost. 2 novembre 1996, n. 371, in Giur. cost., 1996, p. 3386) nonché alla stimolante disamina di A. GIARDA, Imparzialità del giudice e difficoltà operative derivanti dall’incompatibilità, in Il giusto processo, Atti del convegno di Salerno, Milano, 1998, p. 35 ss. (5) La formula, che compendia i caratteri della decisione ‘‘pregiudicante’’, risale notoriamente a Corte cost. 12 novembre 1991, n. 401, in Giur. cost., 1991, p. 3487 ss. (6) Così G.D. PISAPIA, Introduzione, in L’udienza preliminare, Atti del convegno di Urbino, Milano, 1992, p. 9. In chiave sistematica, sulla distinzione strutturale e funzionale tra g.i.p. e g.u.p. cfr., tra gli altri, O. DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in E. AMODIO, O. DOMINIONI, V. GREVI, G. NEPPI MODONA, P.L. VIGNA, Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, p. 70, e M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‘‘garante’’ del giudice per le indagini preliminari, Padova, 1993, spec. p. 58 ss., nonché il significativo approccio critico di A. GALATI, in D. SIRACUSANO, A. GALATI, G. TRANCHINA, E. ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, II3, Milano, 1999, p. 202 s. La prospettiva dell’incompatibilità tra g.i.p. e g.u.p. è già stata ripercorsa, con diverse coloriture, da G. GARUTI, Incompatibilità del giudice e udienza preliminare, in questa Rivista, 1997, p. 590 ss., e M.M. MONACO, Incompatibilità del giudice ed udienza preliminare: un nodo da sciogliere, in Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, a cura di A. GAITO, Padova, 1996, p. 303 ss.; per lucide recenti notazioni in tema cfr. A. SCALFATI, L’udienza preliminare. Profili di una disciplina in trasformazione, Padova, 1999, spec. pp. 1 ss. e 7 ss.
— 905 — di semplice ‘‘controllo sulla legittimità della domanda di giudizio avanzata dal pubblico ministero’’ (7). Pur se dalla Corte ritenuta estranea alla sfera del costituzionalmente doveroso, l’esigenza di affrancare il g.u.p. da possibili ombre derivanti dal pregresso esercizio di funzioni decisorie ha, infine, trovato spazio nel quadro della riforma del giudice unico di primo grado: l’art. 1 comma 1 lett. h) l. 16 luglio 1997, n. 254 (‘‘Delega al Governo per l’istituzione del giudice unico di primo grado’’) ha vincolato il legislatore delegato a ‘‘prevedere che il giudice per le indagini preliminari sia diverso dal giudice dell’udienza preliminare’’, (anche) per il tramite delle ‘‘necessarie modifiche’’ all’art. 7-ter ord. giud. (8). Due vie — come rimarca la relazione illustrativa al d.lgs. n. 51 del 1998 (9) — erano percorribili al fine di attuare la delega in parte qua: ‘‘separare tabellarmente le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare, considerandoli come uffici diversi’’; ovvero ‘‘sancire semplicemente l’obbligo di differenziare la persona che si occupa delle indagini da quella che procede all’udienza preliminare nell’ambito del singolo procedimento, sulla base dei criteri oggettivi e predeterminati che ai sensi dello stesso art. 7-ter [ord. giud.] presiedono all’assegnazione degli affari penali’’. Esigenze organizzative, legate soprattutto ai ranghi ridotti degli organici delle sedi giudiziarie di dimensioni medio(7) La formula, che compendia — in chiave riepilogativa — la ratio decidendi delle molteplici declaratorie di infondatezza in tema (cfr. Corte cost. 8 febbraio 1991, n. 64, in Giur. cost., 1991, p. 477; Corte cost. 5 febbraio 1996, n. 24, ivi, 1996, p. 219; Corte cost. 3 luglio 1996, n. 232, ivi, p. 2115; Corte cost. 22 luglio 1996, n. 279, ivi, p. 2425; Corte cost. 30 luglio 1996, n. 333, ivi, p. 2680; Corte cost. 24 dicembre 1996, n. 410, ivi, p. 3691; Corte cost. 11 aprile 1997, n. 97, ivi, 1997, p. 962) è tratta da Corte cost. 22 ottobre 1997, n. 311 (ivi, p. 2922), che tuttavia perviene a conclusione opposta in ordine all’udienza preliminare nel rito per imputati minorenni (in tema cfr., tra gli altri, G. GARUTI, Incompatibilità del giudice e processo minorile: le garanzie si estendono anche all’udienza preliminare, in Cass. pen., 1998, p. 383 ss.; V. PATANÈ, In tema d’incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare nel processo minorile (con particolare riguardo alla valutazione negativa sull’irrilevanza del fatto), in questa Rivista, 1998, p. 1044 ss.; P.P. RIVELLO, Una particolare incompatibilità per l’udienza preliminare nel rito penale minorile, in Giur. cost., 1997, p. 2929 ss.). Circa i caratteri della delibazione cui è deputata l’udienza preliminare e la natura della sentenza che ne costituisce uno degli epiloghi ci si permette, per brevità, di rinviare a G. DI CHIARA, Ribadita la natura processuale della declaratoria di non luogo a procedere, in Giur. cost., 1997, p. 1975 ss., e all’ulteriore letteratura ivi citata. (8) Per prime valutazioni, in cui già si rimarcava l’esigenza di non estremizzare la direttiva attraverso l’istituzione di due sezioni distinte (g.i.p. e g.u.p.), cfr. F.A. GENOVESE, Il giudice di primo grado: un’altra tappa della ‘‘riforma giudiziaria’’, in Corr. giur., 1997, p. 1011. (9) Cfr. l’Estratto della relazione illustrativa al decreto legislativo recante: ‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’, in Gazz. uff., 20 marzo 1998, serie gen., suppl. ord. n. 2, p. 8.
— 906 — piccole (10), hanno indotto il legislatore delegato a propendere per la via della mera alterità tra g.i.p. e g.u.p. nel quadro del medesimo procedimento: l’art. 6, lett. a), d.lgs. n. 51 del 1998 (già ritualmente efficace a decorrere dal 2 giugno 1999) ha perciò sostituito il secondo periodo dell’art. 7-ter, comma 1, ord. giud., ove oggi si prevede che ‘‘nel determinare i criteri per l’assegnazione degli affari penali al giudice per le indagini preliminari, il Consiglio superiore della magistratura stabilisce la concentrazione, ove possibile, in capo allo stesso giudice dei provvedimenti relativi al medesimo procedimento e la designazione di un giudice diverso per lo svolgimento delle funzioni di giudice dell’udienza preliminare’’. L’intervento sul piano ordinamentale, pur di per sé assicurando l’adempimento della delega, non si è, tuttavia, ritenuto bastevole: è, perciò, parso ‘‘rispondente a criteri di maggiore garanzia’’ il dispiegamento di una manovra a due stadi, che associasse al congegno ordinamentale il conio di un’autonoma causa di incompatibilità tra funzioni di g.i.p. e funzioni giudicanti successive, sì da offrire alle parti (11) — per il tramite della ricusazione ex art. 37 comma 1 lett. a) c.p.p. in relazione all’art. 36 comma 1 lett. g) c.p.p. — uno strumento ‘‘forte’’ a tutela del diritto all’imparzialità del ‘‘proprio’’ giudice (12). A tale approdo si è pervenuti attraverso l’innesto, nel corpo dell’art. 34 c.p.p., di un inedito comma 2-bis il quale — consapevolmente rifuggendo dall’utilizzo di tecniche casistiche (13) — ha sancito un’incompatibilità assoluta tra funzioni di g.i.p. e successive fun(10) La relazione illustrativa (cfr. il già indicato Estratto, cit., loc. cit.) richiama in verità anche l’ ‘‘esigenza di assicurare una razionale ripartizione dei carichi di lavoro (altrimenti ostacolata dalla discontinuità del flusso dei fascicoli dall’ufficio del pubblico ministero)’’ nonché l’ ‘‘opportunità (...) di utilizzare al meglio la professionalità dei magistrati (certamente impoverita e svilita dalla radicale separazione delle due funzioni)’’. (11) È curioso che la relazione al d.lgs. n. 51 del 1998 (cfr. il già indicato Estratto, cit., p. 34), nel dar conto della doppia manovra, sottolinei come la sola opzione ordinamentale, ‘‘non incidendo direttamente sul processo, avrebbe privato l’imputato del potere di dolersi dell’inosservanza della regola’’: par quasi che il pregiudizio che si è inteso scongiurare assuma (o abbia assunto), di solito, coloriture contrarie alla parte privata e non già alle prospettive dell’accusa. Il tema (a partire dalla non improbabile veste di lapsus freudiano propria dell’indicata singolarità) meriterebbe, tuttavia, riflessioni di ben diverso respiro. (12) Per rilievi sulla doppia manovra cfr., tra gli altri, F. PASI, L. RICCOMAGNO, Modifiche all’ordinamento giudiziario per l’istituzione del giudice unico, in Dir. pen. proc., 1998, 547. (13) Sulla ratio di tale scelta cfr. ancora l’Estratto, cit., loc. ult. cit., secondo cui l’elencazione casistica delle cause di incompatibilità alle funzioni di g.u.p. ‘‘potrebbe rivelarsi lacunosa e, proprio per questo, suscettiva di dare esca a nuovi interventi della Corte costituzionale motivati da irragionevoli disparità di trattamento’’. Merita, per contro, un cenno la nota circostanza che il testo del disegno di legge di conversione, licenziato in prima lettura dal Senato (per i testi, a fronte, licenziati in prima lettura dal Senato e dalla Camera, cfr. Senato della Repubblica, XIII legislatura, stampato n. 4038/B), reintroduceva il criterio casistico nella previsione delle cause di incompatibilità, per il tramite di un (primitivo) art. 3-ter che modificava ancora l’art. 34 comma 2-bis c.p.p. Sul ritorno ad un criterio casistico ‘‘di contenimento’’ v. altresì infra, nota 15.
— 907 — zioni decisorie nell’ambito della medesima regiudicanda: ove il giudice, nel corso delle indagini, sia comunque intervenuto, pur senza compiere alcuna ‘‘valutazione contenutistica della consistenza dell’ipotesi accusatoria’’ (14), le successive funzioni di g.u.p., di giudice del procedimento monitorio e di giudice del giudizio, nell’ambito del medesimo procedimento, gli saranno in ogni caso precluse (15). È innegabile che una simile scelta si rivela tutt’altro che indifferente sul piano organizzativo: la prospettiva dell’impraticabilità del cumulo, in capo allo stesso giudice-persona fisica, delle funzioni di g.i.p. e di g.u.p. nell’ambito del medesimo procedimento avrebbe dovuto indurre gli uffici giudiziari, proprio a norma del ‘‘nuovo’’ art. 7-ter comma 1, secondo periodo, ord. giud., ad adottare per tempo moduli organizzativi idonei. Sennonché, come è noto, assecondando un costume (pur se dalle molteplici cause) tipicamente italico, non si sono rivelati sufficienti né i tempi di (impropria) vacatio originariamente previsti tra la data di pubblicazione del d.lgs. n. 51 del 1998 e la sua (iniziale e sin troppo ottimistica) previsione di ingresso in efficacia (16), né la congrua dilatazione degli stessi (14) Sulle origini della formula v. supra, nota 5. Si pensi, ad esempio, a decisioni di mero rito, come nell’ipotesi in cui sia stata dichiarata inammissibile, per ragioni di forma, la richiesta di patteggiamento: in tali casi nessuna delibazione sulla consistenza dell’accusa è stata compiuta, e perciò la Corte costituzionale ne aveva finora risolutamente escluso ogni rilevanza quale decisione pregiudicante (cfr. Corte cost. 30 dicembre 1991, n. 502, in Giur. cost., 1991, p. 4028; Corte cost. 22 aprile 1992, n. 186, ivi, 1992, 1343; Corte cost. 30 dicembre 1994, n. 445, ivi, 1994, p. 3940). (15) A tecniche di tipo casistico, pur in un’ottica capovolta, fa, adesso, ritorno l’impianto delle incompatibilità endoprocessuali novellato dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. legge Carotti): ferma l’incompatibilità ‘‘di genere’’ tra funzioni di g.i.p. e funzioni decisorie successive, sancita dall’art. 34 comma 2-bis c.p.p. (il cui testo permane quello originariamente introdotto dall’art. 171 d.lgs. n. 51 del 1998), il ‘‘nuovo’’ art. 34 comma 3-ter c.p.p. (introdotto dall’art. 11 l. n. 479 del 1999) conia cinque ipotesi tassative di inapplicabilità del precedente comma 2-bis, paralizzando, dunque, nei relativi casi l’operare dell’incompatibilità alle successive funzioni decisorie, nell’evidente presupposto che si tratti di provvedimenti da cui esula del tutto ogni significativa ‘‘valutazione contenutistica’’ del tema storico e che, pertanto, la terzietà del giudice che li abbia adottati non ne risulti in alcun modo incrinata. Circa gli inconvenienti di tale metodo (che scaturiscono dalla tassatività dei ‘‘casi eccettuati’’ e dei fatali vuoti di contenimento che ciò importa) cfr. già G. CONTI, Il controllo della parte sulla ‘‘competenza’’ dell’accusa, in Dir. giust., 2000, n. 2, p. 55 s., nonché, volendo, G. DI CHIARA, L’impatto del ‘‘nuovo’’ art. 34 comma 2-terc.p.p. sulle fisionomie dell’incompatibilità endoprocessuale, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. PERONI, Padova, 2000, in corso di stampa. (16) È, come è noto, la stessa delega legislativa [art. 1 comma 1 lett. r) l. n. 254 del 1997] a far divergere entrata in vigore e — per dir così — ingresso in efficacia dei decreti delegati; scaturisce da tale direttiva la previsione (originaria) dell’art. 247 comma 1 d.lgs. n. 51 del 1998, secondo cui ‘‘il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale’’ (intervenuta il 20 marzo 1998) e diventa efficace ‘‘decorso il termine stabilito dall’art. 1, comma 1, lettera r), della legge 16 luglio 1997, n. 254’’ (id est, ancora secondo l’impostazione originaria, in data 18 luglio 1998, de-
— 908 — operata dalla l. 16 giugno 1998, n. 188, che — nel modificare l’art. 247 comma 1 d.lgs. n. 51 del 1998 — ha spostato al 2 giugno 1999 la generale frontiera della piena efficacia della riforma: alla vigilia di questa data, infatti, l’impreparazione degli uffici giudiziari ad affrontare — al di là di ogni altro profilo — l’impatto con il ‘‘nuovo’’ art. 34 comma 2-bis c.p.p. risultò senz’altro la regola, smentita da eccezioni davvero rare. Si rivelava, dunque, necessario correre ai ripari. L’occasione — come è noto — fu offerta dalla necessità di disporre, in via (si fa per dire) di straordinarietà e urgenza, un rinvio della data di efficacia iniziale delle norme sul riparto di attribuzioni tra giudice monocratico e collegio: la prevista dilatazione della cognitio del giudice monocratico, comprensiva — salve le eccezioni ‘‘qualitative’’ espresse — dei reati punibili con pena detentiva non superiore nel massimo a venti anni, appariva inaccettabile se non accompagnata da opportuni implementi di garanzia sul piano del rito, essendo all’uopo del tutto insufficienti le previsioni del libro VIII del codice (17); il governo intervenne, perciò, con il d.l. 24 maggio 1999, n. 145, procrastinando al 2 gennaio 2000 la data di efficacia di una serie di disposizioni del d.lgs. n. 51 del 1998, e in extremis ricomprendendo, nel catalogo delle disposizioni ‘‘congelate’’, anche l’art. 34 comma 2-bis c.p.p. 3. Allo scopo di apprezzare il senso del rinvio al 2 gennaio 2000 dell’efficacia dell’incompatibilità assoluta tra funzioni di g.i.p. e successive funzioni decisorie (mentre, va rimarcato, analogo rinvio non è stato disposto per il ‘‘nuovo’’ art. 7-ter ord. giud., efficace de plano a decorrere dal 2 giugno 1999) occorre, tuttavia, compiere un passo indietro, sì da consentire all’interprete di percorrere sin dagli albori il sentiero parlamentare destinato, infine, a sfociare nell’inedita ricusazione ‘‘transeunte’’. Allorché — si era ormai alle settimane precedenti la soglia del 2 giugno 1999 — ci si avvide dell’ineluttabilità di un rinvio, parziale o totale che fosse, dell’ingresso in efficacia della manovra, non si registravano, nel turbillon di proposte sul tappeto, ipotesi accreditate che coinvolgessero, tra le norme candidate a ibernazione temporanea, anche l’art. 34 comma 2bis c.p.p.: gli uffici di Via Arenula avevano, anzi, tre giorni prima della seduta del Consiglio dei Ministri che avrebbe dovuto varare il provvedimento d’urgenza, provveduto a porre a disposizione degli schieramenti corsi centoventi giorni dalla pubblicazione del decreto legislativo medesimo nella Gazzetta ufficiale). (17) Su questi temi cfr., per tutti, G. SPANGHER, Processo penale da adeguare all’istituzione del giudice unico, in Dir. pen. proc., 1998, p. 679 ss.; per più recenti complessive analisi cfr., inoltre, A. GIARDA, Giudice unico e processo penale: il futuro anteriore, in R. CAPONI, F.A. GENOVESE, A. GIARDA, G. SPANGHER, La riforma del giudice unico, Milano, 1999, p. 75 ss., e G. SPANGHER, Giudice unico e processo penale: presente e futuro, ivi, p. 57 ss.
— 909 — politici e, tramite il sito Internet del Ministero, del pubblico una bozza informale dell’emanando decreto; in essa non compariva alcun riferimento alla ‘‘nuova’’ incompatibilità tra g.i.p. e g.u.p. (recte: tra funzioni di g.i.p. e successive funzioni decisorie nell’ambito della medesima regiudicanda), che perciò, in assenza di previsioni di segno contrario, sarebbe de plano divenuta efficace, insieme a gran parte della riforma, allo scoccare del 2 giugno 1999 (18). Lo spazio di tre giorni consentì, tuttavia, al Ministero di grazia e giustizia di rimeditare — alla luce di preoccupate osservazioni per lo più provenienti da organi giudiziari — circa l’opportunità (recte: la necessità ed urgenza) di disporre il rinvio dell’ingresso in efficacia della ‘‘nuova’’ causa di incompatibilità: sicché l’art. 247 comma 2-bis d.lgs. n. 51 del 1998, introdotto dall’art. 3 comma 3 d.l. n. 145 del 1999, incluse anche l’art. 34 comma 2-bis tra le disposizioni destinate a divenire efficaci solo il 2 gennaio 2000 (19). È ben noto che l’inserimento, melius re perpensa, dell’art. 34 comma 2-bis c.p.p. nello spettro di operatività del d.l. n. 145 del 1999 ha drasticamente inciso sui già precari equilibri tra maggioranza e opposizione, producendo vistosi strascichi che hanno segnato l’oscillante iter parlamentare della conversione in legge del decreto: la Commissione Giustizia del Senato, che per prima esaminava il disegno di legge di conversione, approvava anzitutto all’unanimità, con il parere favorevole del rappresentante del Governo, un emendamento volto a reintrodurre l’immediata applicabilità dell’art. 34 comma 2-bis c.p.p. anche ai processi in corso, pur munendola del corredo di taluni congegni volti a scongiurarne irrazionalità applicative; a fronte delle perduranti critiche provenienti da parte del mondo giudiziario il Ministero della giustizia disponeva, di seguito, un monitoraggio allo scopo di verificare l’impatto di un’eventuale approvazione dell’emendamento sulle udienze preliminari in corso; gli esiti del monitoraggio (che non hanno, peraltro, mai goduto di apprezzamenti unanimi) inducevano, quindi, Governo e (parte della) maggioranza parlamentare a tornare sui propri passi, attraverso una proposta dal doppio volto che se da un lato riscriveva l’art. 34 comma 2-bis c.p.p. secondo un modulo casistico e ne sanciva l’immediata efficacia, dall’altro ne inibiva, però, l’applicabilità alle udienze preliminari già in corso; su questa base il clima di scontro tra maggioranza e opposizione si acuiva nel corso del di(18) Per un riepilogo di queste vicende cfr. l’intervento del Ministro della giustizia alla Camera dei Deputati, nel corso del dibattito sul disegno di legge di conversione del d.l. n. 145 del 1999 (cfr. Camera dei Deputati, XIII legislatura, seduta n. 571 del 19 luglio 1999, resoconto stenografico, p. 7 ss.). (19) Per primi rilievi sulle scelte del legislatore d’urgenza cfr., tra gli altri, R. BRICCHETTI, ‘‘Doppio binario’’ sulle attribuzioni del tribunale, in Guida dir., 1999, n. 22, p. 54 s.; C. RIVIEZZO, Nuove disposizioni in tema di giudice unico di primo grado, in Dir. pen. proc., 1999, p. 827; L. SCOTTI, Il giudice unico: una riforma ‘‘a tratti successivi’’, in Gazz. Giuffrè, 1999, n. 24, p. 3.
— 910 — battito alla Camera dei Deputati, in cui riemergevano con foga le ombre lunghe di ‘‘affari sensibili’’, di ‘‘norme ad personam’’ e di ‘‘convitati di pietra’’ (20); solo in extremis — more solito — si perveniva, infine, alla complessa svolta compromissoria confluita nella legge di conversione (21), in cui la ricusazione ‘‘transeunte’’ — frutto di trattative complesse e parte di sinallagmi da decifrare sul piano sistematico — viene ad incastonarsi. 4. Esplorato — per grandi linee — l’humus su cui è sorto l’inedito meccanismo è, però, ormai tempo di affrontarne più direttamente lo studio, sin d’ora facendo riserva di tornare di seguito sui significati complessivi della manovra. È noto che il codice del 1988, anche nell’intento di assicurare una più adeguata tutela della terzietà del giudice sub specie di neutralità metodologica nell’esercizio della giurisdizione (22), ha — tra l’altro — ampliato le fattispecie di ricusazione dipendenti dalle manifestazioni del pensiero del giudice (23): alla tradizionale ipotesi del consiglio o parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie, già sancita dall’art. 64, comma 1, n. 2 c.p.p. 1930 (24) e testualmente ereditata dall’art. 34 comma 1 lett. c) c.p.p. 1988, si è aggiunta la fattispecie prevista dall’art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p. (1988), a mente della quale è ricusabile il giudice che, ‘‘nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pro(20) Il fantasma di ‘‘eccellenti’’ casi singoli, che avrebbero suggerito presunti favoritismi (di cui si sarebbe fatta interprete parte dell’opposizione) o presunti giustizialismi politici (di cui si sarebbe macchiata la maggioranza) ha aleggiato in tutto il corso del dibattito parlamentare. Al di là di ogni altra considerazione merita, in proposito, per la civiltà dei rilievi di metodo messi a fuoco, di essere menzionato l’intervento alla Camera dei Deputati dell’on. Giuliano Pisapia in sede di dichiarazioni sul complesso degli emendamenti ed articoli aggiuntivi riferiti al testo del decreto-legge (cfr. Camera dei Deputati, XIII legislatura, seduta n. 572 del 20 luglio 1999, resoconto stenografico, p. 29): ‘‘Penso che sulla giustizia sia ora di parlare non più di guerre, ma di confronti, anche duri, ma costruttivi, nell’interesse di tutti i cittadini. (...) È ora — lo chiedo con vigore — che questo Parlamento ragioni sulla correttezza o meno di una soluzione legislativa senza valutare se poi quella soluzione incida sul singolo processo o sul singolo imputato. (...) Credo che questo valga per me come — dal centrodestra al centrosinistra — per tutti. Aggiungo che chi in questi giorni ha fatto riferimenti in tal senso, con dichiarazioni e con comunicati, si è solo coperto di spazzatura, che lo coprirà anche per il futuro’’. (21) Per cenni, in parte qua, sugli itinerari parlamentari v. infra, nota 34. (22) Il tema è raffinatamente studiato, in una prospettiva generale, da G. UBERTIS, Riflessi sistematici della giurisprudenza costituzionale in materia di garanzie giurisdizionali nel nuovo processo penale, in I nuovi binari del processo penale. Tra giurisprudenza costituzionale e riforme, Atti del convegno di Napoli, Milano, 1996, spec. p. 80 ss. (23) Una diligente indagine in tal senso è contenuta in Cass., Sez. I, 15 ottobre 1996, Priebke, in Cass. pen., 1997, p. 1058 ss. (e spec., per la parte motiva, p. 1068 s.). (24) In tema cfr., per tutti, E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, Milano, 1989, p. 111 s.
— 911 — nunciata sentenza’’, abbia ‘‘manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione’’ (25). Non v’è dubbio che proprio nell’avverbio risiede il nucleo qualificante della fattispecie: sono indebite — si è argutamente scritto — le ‘‘trasparenze gratuite del disegno decisorio’’ per il tramite di ‘‘parole ore rotundo’’ (26) o ‘‘commenti, obiter dicta, maschere mimiche’’ (27); tali esorbitanti effusioni sono ‘‘stilisticamente deplorevoli’’ e — per quel che più conta — ‘‘fiaccano il contradditorio’’ (28), che ‘‘scade a commedia dove l’esito sia preconosciuto’’ (29). Percorrendo preventivabili indirizzi di self restraint, la giurisprudenza ha, per parte sua, preteso che la manifestazione ‘‘indebita’’ si carichi, al fine di dar luogo al rimedio di cui all’art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p., di significati assai pregnanti: deve trattarsi — si è statuito — di comportamento ‘‘non solo non dovuto ma anche ingiusto o illecito o comunque contrario alla legge’’ (30). In ordine ai contenuti, escluso che la semplice animosità nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali dia di per sé luogo alla condotta ‘‘indebita’’ rilevante ai fini della ricusazione (31), se ne sono piuttosto individuati i caratteri nelle ipotesi in cui il giudice, ‘‘anziché limitarsi ad esporre le ragioni del suo convincimento sulla questione decisa, abbia manifestato espressamente, senza alcuna necessità, anche la sua opinione sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, con riferimento a fatti ancora sub iudice ed estranei [recte: esorbitanti] rispetto al tema stesso’’ (32). L’asse dell’indebita valutazione di colpevolezza, tratteggiato dalla giurisprudenza con riguardo ai contenuti dell’art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p., si ritrova, adesso, incapsulato nella formula normativa della nuova ricusazione ‘‘transeunte’’: l’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999, così (25) Per un cenno sulla storia normativa della disposizione cfr. T. RAFARACI, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, I, Torino, 1989, sub art. 37, p. 208 e nota 3. (26) Così F. CORDERO, Procedura penale4, Milano, 1998, p. 176. (27) In questi termini F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato2, Torino, 1992, sub art. 37, p. 48. (28) Così ancora F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato2, cit., loc. cit. (29) La formula è ancora di F. CORDERO, Procedura penale4, cit., loc. cit. (30) Cass., Sez. I, 24 giugno 1993, Mellini, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 258. (31) Cass., Sez. II, 2 dicembre 1993, Montagner, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 258. (32) Cass., Sez. II, 5 giugno 1992, Falbo e a., in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 766; nello stesso senso cfr. Cass., Sez. II, 2 dicembre 1993, Montagner, cit.; principio non dissimile parrebbe altresì esprimere — pur con qualche imprecisione terminologica suscettibile di equivoco — Cass., Sez. V, 1o giugno 1995, Ferretti, ivi, 1996, p. 134. Con specifico riguardo alle pronunce de libertate, nonché a quelle rese in sede di controllo delle stesse, nel senso che rientrano tra le manifestazioni ‘‘indebite’’ rilevanti ex art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p. i provvedimenti ‘‘motivati attraverso argomentazioni esorbitanti rispetto al thema decidendum, tali da dimostrare un certo pregiudizio nei confronti dell’imputato’’, cfr. T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice nel processo penale, Milano, 1996, p. 150 s.
— 912 — come introdotto in sede di conversione in legge, consente alle parti, ‘‘fino alla data del 2 gennaio 2000’’, di ricusare ‘‘il giudice’’ che, ‘‘dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto’’ (id est a partire dal 24 luglio 1999), ‘‘fuori dei casi consentiti dalla legge, esprime giudizi che manifestano una valutazione di colpevolezza’’. Va, anzitutto, rimarcato come la norma appaia, ad un primo sguardo, aver riguardo al ‘‘giudice’’ tout court: in base a tale lettura la ricusazione ‘‘transeunte’’ sarebbe, dunque, applicabile a salvaguardia del diritto delle parti alla terzietà di ogni magistrato-persona fisica esercente funzioni giurisdizionali, e non già a tutela del non-pregiudizio del solo giudice dell’udienza preliminare. Una diversa e più restrittiva chiave ermeneutica potrebbe, tuttavia, accreditarsi sulla scorta di un duplice argomento, testualsistematico e teleologico: da una parte il ‘‘giudice’’ di cui al comma 2 dell’art. 3-bis d.l. n. 145 del 1999, nel testo introdotto in sede di conversione in legge, parrebbe coincidere con il ‘‘giudice’’ cui allude il precedente comma 1, secondo periodo, il quale a sua volta pacificamente coincide con il giudice dell’udienza preliminare (33); sarebbe arduo, d’altronde, alla luce del concitato iter parlamentare che ha prodotto l’insorgere della norma (34), negare che la ratio della stessa investa proprio la posizione dell’organo chiamato a decidere sul rinvio a giudizio, sicché l’ipotizzata interpretazione estensiva del riferimento al ‘‘giudice’’ rischierebbe di alterare ancora gli equilibri tra fase di guado (fino al 2 gennaio 2000) e disciplina ‘‘a regime’’ (a muovere da tale ultima data), introducendo ulteriori fattori di irrazionalità in uno spazio normativo già in tal senso non poco provato (35). Non può, comunque, farsi a meno di rimarcare come una tecnica appena più accorta avrebbe fugato, anche sul punto, equivoci (33) A tale conclusione perviene, ad esempio, R. BRICCHETTI, Con le eccezioni a efficacia limitata passi teorici verso il giusto processo, in Guida dir., 1999, n. 31, p. 26. (34) È noto che l’attuale assetto dell’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999 come introdotto dalla legge di conversione si deve ad un risolutivo emendamento, presentato dalla Commissione e discusso nel corso della seduta del 20 luglio 1999, elaborato a seguito delle serrate trattative intercorse tra maggioranza e opposizione (plenipotenziari l’on. Anna Finocchiaro e l’on. Gaetano Pecorella: cfr., per la cronaca delle trattative, tra gli altri, A. CIANCARELLA, Sul giudice unico Poli all’ultima mediazione, in Il Sole-24 Ore, 20 luglio 1999, p. 2; ID., Compromesso sulla giustizia, ivi, 21 luglio 1999, p. 2; R. ZUCCOLINI, Riforme, intesa sul giudice unico, in Corriere della Sera, 21 luglio 1999, p. 5), che ha peraltro comportato il ritiro di tutti gli emendamenti ed articoli aggiuntivi già presentati dai parlamentari afferenti ai tre più importanti gruppi di opposizione (cfr. Camera dei Deputati, XIII legislatura, seduta n. 572 del 20 luglio 1999, resoconto stenografico, p. 28). Merita rilievo l’ineluttabile opacità dei lavori preparatori circa i passaggi attraverso i quali si è giunti alla formulazione del testo (cfr. ancora il più volte menzionato resoconto stenografico, p. 25 ss.). (35) Nel medesimo senso cfr., adesso, C. RIVIEZZO, Commento al d.l. 24 maggio 1999, n. 145, coordinato con la l. di conversione 22 luglio 1999, n. 234, recante disposizioni urgenti in materia di istituzione del giudice unico di primo grado, in Gazz. Giuffrè, 1999, n. 32, sub art. 3-bis, p. 4, nonché ID., La causa di incompatibilità tra g.i.p. e g.u.p.: tempi di applicazione, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1083 s.
— 913 — inopportuni, contenendo funambolismi ermeneutici cui, per contro, il complessivo assetto del meccanismo presta generosamente il fianco. Accanto al riferimento al ‘‘giudice’’, il testo normativo annovera altre due formule-chiave, che sono valse a procurare alla ricusazione ‘‘transeunte’’ le note insistite accuse di oscurità (36): ci si riferisce all’enunciato cui spetta il compito di definire il carattere di ‘‘gratuità’’ della ‘‘trasparenza indebita’’ (‘‘fuori dei casi consentiti dalla legge’’), nonché alla formula che denota la causa efficiente della (possibile) perdita di terzietà (‘‘giudizi che manifestano una valutazione di colpevolezza’’). Quanto al confine oggettivo tracciato dalla formula ‘‘fuori dei casi consentiti dalla legge’’, ci si è chiesti se le valutazioni indebite che la norma considera rilevanti debbano esser espresse nell’esercizio delle funzioni (e, perciò, nel corso del processo, attraverso motivazioni extra petita o, comunque, condotte processuali dello stesso segno) ovvero anche al di fuori, come nella classica ipotesi di dichiarazioni ‘‘sbilanciate’’ alla stampa (37). A ben vedere, tuttavia, il dubbio pare risolubile attraverso un’analisi congiunta del sistema di regole sulle manifestazioni del pensiero del giudice: le dichiarazioni ai mass media con cui il giudice-persona fisica estrinsechi un qualsiasi ‘‘parere sull’oggetto del procedimento’’ — peraltro di per sé lecite, come nitidamente si è notato, salvo l’obbligo di astensione che ne scaturisce (38) — rilevano, come è noto, già ex art. 37 comma 1 lett. a) in relazione all’art. 36 comma 1 lett. c) c.p.p., ove appunto si prescinde da riferimenti a indebiti giudizi ‘‘anticipati’’ di colpevolezza; ne consegue che, onde rifuggire da approcci ermeneutici che si traducano in un inutile bis in idem normativo, la ricusazione ‘‘transeunte’’ deve ritenersi applicabile solo alle manifestazioni ‘‘indebite’’ del pensiero del giudice poste in essere all’interno del perimetro dell’esercizio delle funzioni (39). La correttezza di tale approdo appare, peraltro, convalidata dall’ulteriore formula-chiave che completa la cerchia dei presupposti della ricusazione ‘‘transeunte’’: la causa efficiente del (possibile) vulnus alla terzietà del giudice risiede nell’espressione di ‘‘giudizi che manifestano una valuta(36)
Per una carrellata di primi giudizi cfr., tra gli altri, quelli riportati da P. BION-
DANI, Processi, giallo sulla ricusazione, in Corriere della Sera, 21 luglio 1999, p. 4, e da R.
MIRAGLIA, Giudici e avvocati: via d’uscita con qualche ambiguità, in Il Sole-24 Ore, 21 luglio 1999, p. 2; cfr. inoltre R. BRICCHETTI, Con le eccezioni a efficacia limitata passi teorici verso il giusto processo, cit., p. 25 s. Per una riflessione ‘‘a prima lettura’’ ricca di stimoli cfr. V. GREVI, Che processo sarà, in Corriere della Sera, 21 luglio 1999, pp. 1 e 10. (37) In tema cfr. R. MIRAGLIA, G.i.p.-g.u.p., atto finale al Senato, in Il Sole-24 Ore, 22 luglio 1999, p. 19, ove si riporta l’opinione di Antonio Baldassarre. (38) Il tema è persuasivamente esplorato da Cass., Sez. I, 15 ottobre 1996, Priebke, cit., spec. p. 1069. (39) Nello stesso senso cfr., adesso, C. RIVIEZZO, La causa di incompatibilità tra g.i.p. e g.u.p., cit., loc. cit.
— 914 — zione di colpevolezza’’; sicché, a meno di ritenere — in contrasto con le abitudini del legislatore — che il termine ‘‘giudizio’’ connoti qui qualsivoglia manifestazione umana di pensiero critico, anche del tutto avulsa da contesti lato sensu processuali, sembra doversi concludere che la valutazione ‘‘anticipata’’ di colpevolezza, onde consentire la ricusabilità del giudice-persona fisica ex art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999 introdotto in sede di conversione in legge, debba esser espressa in occasione dell’esercizio delle funzioni, e sia pur — appunto — ‘‘fuori dei casi consentiti dalla legge’’. La norma muove, dunque, dalla convinzione secondo cui il sistema conosce molteplici ‘‘giudizi’’ che importano ‘‘valutazioni di colpevolezza’’; tale insieme è stato, però, ripartito in due classi, distinguendosi le ‘‘valutazioni di colpevolezza’’ secundum legem (in ordine alle quali il legislatore del 1999 ha evidentemente considerato bastevoli le vigenti regole a tutela della terzietà dell’organo giudicante) da ogni altro ‘‘giudizio’’ che, in quanto maturatosi ‘‘fuori dei casi consentiti dalla legge’’, si sia tradotto in patologiche ‘‘valutazioni di colpevolezza’’ e si renda, perciò, meritevole di disciplina ad hoc. È, d’altronde, certo che la categoria del ‘‘giudizio’’ cui allude la formula normativa in esame non possa ritenersi coincidente con il significato ristretto che, sul piano tecnico, al termine attribuisce la giurisprudenza costituzionale in tema di incompatibilità del giudice: ove si limitasse la sfera del ‘‘giudizio’’ alle sole decisioni emesse a seguito di dibattimento, di rito abbreviato (40), di applicazione della pena su richiesta delle parti (41) o di procedimento per decreto (42), la previsione ‘‘transeunte’’ riuscirebbe del tutto svuotata di contenuti normativi reali, a tali decisa — per tacer d’altro — conseguendo già, ex art. 34 c.p.p., una pacifica incompatibilità ad adottare decisioni successive (43). Può, a tal punto, abbozzarsi una conclusione: lo spettro dell’attività di ‘‘giudizio’’ che, ‘‘fuori dei casi consentiti dalla legge’’, abbia dato luogo ad una ‘‘valutazione di colpevolezza’’ è quanto mai ampio, in astratto ricomprendendo ogni decisum, anche di tipo interinale, tra le cui pieghe si siano annidate considerazioni extra petita. Non v’è dubbio che, in una ipotetica scala graduata delle decisioni ‘‘a rischio’’, alle pronunce de libertate dovrebbero associarsi i più elevati coefficienti di ‘‘pericolosità’’: la delibazione sui gravi indizi di colpevo(40) Principio ormai pacifico: per le prime affermazioni cfr. Corte cost. 12 novembre 1991, n. 401, cit., e Corte cost. 30 dicembre 1991, n. 502, cit. (41) Cfr. Corte cost. 20 maggio 1996, n. 155, in Giur. cost., 1996, p. 1464. (42) Si tratta, come è noto, di approdo recente: cfr. Corte cost. 21 novembre 1997, n. 346, in Giur. cost., 1997, p. 3411. (43) Rimane, in verità, salvo il potere del giudice del dibattimento o del giudizio abbreviato, anche dopo l’emissione della sentenza purché prima della trasmissione del fascicolo al giudice dell’impugnazione, di emettere provvedimenti cautelari (cfr. art. 91 disp. att. c.p.p.).
— 915 — lezza, elemento fondante del decisum cautelare, comporta di per sé una pregnante ‘‘valutazione contenutistica sulla consistenza dell’ipotesi accusatoria’’ che peraltro dà luogo, in quanto tale, alla successiva incompatibilità al giudizio (44); proprio in sede di apprezzamento della ‘‘prova cautelare’’ ben può, perciò, più che altrove annidarsi il rischio di patologici sconfinamenti, da cui la giurisprudenza ha in più occasioni messo in guardia (45) e che disegnerebbero, ove integrati, l’ipotesi principe di applicabilità della ricusazione ‘‘transeunte’’ coniata dal legislatore del 1999. Ciò osservato con riguardo ai provvedimenti cautelari personali, e ribadito comunque che qualsiasi tipologia di decisione potrebbe in astratto debordare in ‘‘valutazioni di colpevolezza’’ extra petita, occorre tuttavia esser consapevoli del fatto che l’incidenza del ‘‘rischio’’ aumenta a misura che il ‘‘tipo’’ di decisum attinga — per dir così — fisiologicamente a valutazioni globali su consistenze lato sensu probatorie: il pericolo che possa scivolarsi verso indebite valutazioni di colpevolezza è, così, maggiore nelle ipotesi di provvedimento che autorizza l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni (art. 267 comma 1 c.p.p.), di ordine di formulare l’imputazione (art. 409 comma 5 c.p.p.) o di applicazione provvisoria delle misure di sicurezza (art. 312 c.p.p.), mentre degrada, ad esempio, nei casi di proroga del termine per le indagini (art. 406 c.p.p.), di riapertura delle stesse (art. 414 comma 1 c.p.p.), di revoca della sentenza di non luogo a procedere (in particolare ove non sia subito fissata l’udienza preliminare ma si disponga la semplice riapertura della fase investigativa: artt. 434 e 436 c.p.p.) o anche, entro certi limiti, di ‘‘indagini coatte’’ (art. 409 comma 4 c.p.p.). Ciò che importa è, tuttavia, ribadire ancora che — in forza di una scelta in verità non del tutto persuasiva nell’ottica dello ‘‘scambio parlamentare’’ da cui origina la disposizione in parola — non è sufficiente, ai fini della ricusabilità del giudice, la semplice fisiologica pronuncia di decisioni ‘‘sensibili’’, che importino pregnanti valutazioni contenutistiche sulla consistenza dell’ipotesi d’accusa: il quid pluris allo scopo preteso è, appunto, costituito dal patologico sconfinamento nell’area di una valutazione di colpevolezza esorbitante rispetto al thema decidendum sottoposto alla cognizione del giudice ed estranea ai perimetri dell’astratta tipo(44) Ci si riferisce alla svolta della ‘‘decisione cautelare pregiudicante’’ inaugurata da Corte cost. 15 settembre 1995, n. 432 (in Giur. cost., 1995, p. 3371), e successivamente proseguita da Corte cost. 24 aprile 1996, n. 131 (ivi, 1996, p. 1139), da Corte cost. 20 maggio 1996, n. 155, cit., e da ultimo da Corte cost. 18 luglio 1998, n. 290 (ivi, 1998, p. 2227). (45) Cfr., in particolare, Cass., Sez. I, 3 febbraio 1992, Martinucci, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 160, e Cass., Sez. I, 30 aprile 1993, Lombardo, ivi, 1994, p. 584, ove si sottolinea che la motivazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale ‘‘non può e non deve trasformarsi in una pronuncia anticipatoria del conclusivo giudizio finale’’.
— 916 — logia decisoria nel cui solco il concreto provvedimento avrebbe dovuto incanalarsi. 5. Studiati — per grandi linee — i caratteri strutturali della ricusazione ‘‘transeunte’’ può, adesso, avviarsi una riflessione sul complessivo significato della manovra: osservando la fisionomia della fattispecie nel più ampio scacchiere delle vicende del d.l. n. 145 del 1999 e della sua conversione in legge potrà abbozzarsi, in termini di politica del processo, una lettura dei significati dello ‘‘scambio parlamentare’’ da cui è in extremis scaturito l’inedito meccanismo. Non va trascurata, in tal senso, la prospettiva diacronica: potranno trarsi rilievi preziosi dal raffronto tra la situazione normativa anteriore al d.l. n. 145 del 1999, l’assetto del sistema ‘‘a regime’’ quale si mostrerà — rebus sic stantibus — allo scoccare del 2 gennaio 2000 e le peculiarità dello status quo ‘‘transeunte’’. Val la pena, perciò, suddividendole per fotogrammi sin dalle premesse, passare anzitutto in rassegna le scansioni cronologiche della manovra. Si è già tentato di mettere a fuoco le prime immagini: da una situazione in cui l’udienza preliminare si considerava estranea al novero delle sedi ‘‘pregiudicate’’ si era transitati ad una previsione di assoluta incompatibilità tra funzioni di g.i.p. e successive funzioni decisorie, destinata a dispiegare la propria efficacia contemporaneamente all’intero capitolo normativo sul giudice unico ed applicabile — in forza del canone tempus regit actum, e in assenza di previsioni esplicite di segno contrario — anche riguardo ai procedimenti in corso. Il d.l. n. 145 del 1999 modificava il quadro limitandosi a postergare nel tempo il dies a quo di efficacia dell’incompatibilità tra le funzioni di g.i.p. e ogni successiva funzione decisoria: in tal modo, a giochi — per dir così — in corso, si finiva per ritagliare ‘‘a sorpresa’’ un ulteriore semestre ‘‘transitorio’’ in forma virtuale (dal 2 giugno 1999 al 2 gennaio 2000), caratterizzato da un artificiale protrarsi dello status quo vigente alla vigilia dell’ingresso in efficacia della riforma del giudice unico. Il mosaico scaturente dalla legge di conversione del d.l. n. 145 del 1999 si mostra, per contro, assai più composito, strutturandosi su una dicotomia il cui spartiacque è costituito dal 2 gennaio 2000: a partire da quella data — come nell’assetto disegnato dal testo originario del d.l. n. 145 del 1999 — sarà pienamente operativa l’incompatibilità assoluta tra funzioni di g.i.p. e successive funzioni decisorie, che — anche riguardo ai procedimenti a quell’epoca ancora in corso — non tollererà più eccezioni di sorta, pur fatti salvi ‘‘attività’’ e ‘‘atti’’ medio tempore compiuti (art. 3bis comma 1, ult. periodo, d.l. n. 145 del 1999 come introdotto dalla legge di conversione); al semestre ‘‘transitorio’’ virtuale si sostituisce, invece, un arco cronologico (di durata inferiore) disciplinato — in parte qua — da regole molteplici che danno luogo a caleidoscopi fenomenici di co-
— 917 — spicuo interesse, creando le premesse di un’eco forse non arrestabile tout court alla vigilia del 2 gennaio 2000. L’estensione cronologica della fase di transito ha anzitutto risentito dei tempi di conversione in legge del d.l. n. 145 del 1999: se il dies ad quem rimane fermo al 2 gennaio 2000, il dies a quo coincide, adesso, con il 24 luglio 1999 (46). Lo statuto della fase di transito è la risultante di una triplice indicazione normativa, che muove dall’abrogazione esplicita — operata dal Parlamento in sede di conversione in legge — dell’art. 3 comma 2-bis lett. b) art. 247 d.lgs. n. 51 del 1998 nel testo introdotto dall’art. 3 comma 3 d.l. n. 145 del 1999 (con cui, giova ribadirlo, si coniava il ‘‘semestre bianco’’ durante il quale l’art. 34 comma 2-bis c.p.p. sarebbe rimasto inefficace), e prosegue con le due previsioni del ‘‘nuovo’’ art. 3-bis d.l. n. 145 del 1999: se il comma 2 struttura la già esplorata ricusazione ‘‘transeunte’’, il comma 1 — che costituisce l’architrave del regime transitorio in parte qua — fissa la regola della non applicazione, fino al 2 gennaio 2000, dell’incompatibilità assoluta tra g.i.p. e funzioni decisorie successive, ma limitandola ai soli ‘‘procedimenti [recte: processi] nei quali l’udienza preliminare è in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto’’. Ne consegue che, nel periodo compreso tra il 24 luglio 1999 e il 2 gennaio 2000, opererà da subito l’art. 34 comma 2-bis c.p.p. se, alla prima data, non sarà ancora ‘‘in corso’’ l’udienza preliminare; in caso contrario, l’udienza già ‘‘in corso’’ determinerà la paralisi dell’immediata applicabilità dell’art. 34 comma 2-bis c.p.p., nonché — a titolo di (parziale) compensazione del conseguente minus di garanzie — la contemporanea operatività della già studiata speciale causa di ricusazione ‘‘transeunte’’. Il 2 gennaio 2000 segna, in ogni caso, la frontiera ultima di tale doppio regime: ove, a quella data, l’udienza preliminare — già ‘‘in corso’’ il 24 luglio 1999 — non fosse ancora conclusa (47), sarà ineluttabile (rebus sic stantibus, giova ripeterlo) il pieno dispiegamento di efficacia della non più derogabile incompatibilità assoluta tra g.i.p. e funzioni decisorie successive, sicché il giudice (ormai) incompatibile avrà l’obbligo di astenersi e potrà dalle parti essere ricusato (a norma dell’art. 37 comma 1 lett. a) in relazione all’art. 36 comma 1 lett. g) c.p.p.), ferma la clausola di salvezza delle ‘‘attività’’ e degli ‘‘atti’’ in precedenza com(46) A mente dell’art. 1 comma 2 l. n. 234 del 1999, infatti, la legge di conversione è entrata in vigore ‘‘il giorno successivo della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale’’, intervenuta il 23 luglio 1999. (47) È, tuttavia, quasi superfluo rimarcare come risulti quanto meno anomalo il caso di un’udienza preliminare che si protragga per archi temporali così dilatati: per una forte sottolineatura in tal senso cfr. l’intervista di D. MARTIRANO all’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, pubblicata (con il titolo Martone: la politica scarica i problemi sui magistrati) in Corriere della Sera, 21 luglio 1999, p. 4.
— 918 — piuti dal giudice medesimo prevista dall’art. 3-bis comma 1, ult. periodo, d.l. n. 145 del 1999 come formulato dalla legge di conversione. Ove, dunque, si volesse tracciare un riepilogo, il fluire diacronico dell’intera manovra sarebbe leggibile nei seguenti termini: a) il d.lgs. n. 51 del 1998 intendeva accompagnare l’ingresso in efficacia del giudice unico di primo grado alla regola dell’incompatibilità assoluta tra g.i.p. e funzioni giudicanti successive; b) il d.l. n. 145 del 1999 ha operato postergando semplicemente la linea di efficacia (anche) dell’art. 34 comma 2-bis c.p.p., sì da creare uno spazio transitorio ‘‘virtuale’’ suppletivo cui risultasse in toto inapplicabile — per quel che qui importa — la regola dell’incompatibilità assoluta tra g.i.p. e funzioni successive; c) la legge di conversione del d.l. n. 145 del 1999 ha modellato la fase di transito, strutturandola quale composito guado al fine di consentire al sistema un passaggio graduale verso la ‘‘pienezza dei tempi’’ cui si giungerà allo scoccare del 2 gennaio 2000. Occorre, però, chiedersi se davvero i rapporti — de iure condito — tra fase di guado e ‘‘tempi pieni’’ siano leggibili in termini di ‘‘meno’’ ricompreso (o ricomprendibile) nel ‘‘più’’. La risposta — già a seguito di quanto in precedenza osservato — non può che risultare negativa: lo statuto della fase transitoria non è riguardabile come sottinsieme dei dispositivi ‘‘a regime’’, percorrendo, al contrario, l’uno e gli altri orbite ellittiche solo parzialmente coincidenti. Basti, qui, richiamare la circostanza che l’incompatibilità assoluta posta dall’art. 34 comma 2-bis c.p.p. investe i rapporti tra funzioni di g.i.p. e funzioni giudicanti successive (di g.u.p., di giudice del procedimento per decreto o di giudice del ‘‘giudizio’’), mentre la ricusazione ‘‘transeunte’’ concerne il ‘‘giudice’’ che abbia comunque, fuori dai casi consentiti, espresso giudizi che abbiano manifestato ‘‘valutazioni di colpevolezza’’. Ma, soprattutto, occorre porre in luce come le stringenti regole che governano l’incompatibilità — alla cui formulazione ha recato contributi decisivi la giurisprudenza costituzionale — non sempre coincidono con le norme applicabili in sede di ricusazione. Si pensi, ad esempio, alle fattispecie di decisum incidentale interno alla fase: è stato costantemente negato che la pronuncia de libertate resa — in corso di fase o in limine — dal giudice del dibattimento renda questi incompatibile ad emettere la sentenza conclusiva del grado di giudizio (48), pur se ben potrebbe annidarsi, tra le maglie del provvedimento cautelare, quell’indebita ‘‘valutazione di colpevolezza’’ elevata a causa di ricusazione dall’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999. Si pensi, ancora, alle molteplici fattispecie in cui il medesimo giudice-persona fisica abbia in precedenza emesso pro(48) Cfr. soprattutto Corte cost. 31 maggio 1996, n. 177, in Giur. cost., 1996, p. 1629, e Corte cost. 28 febbraio 1997, n. 51, ivi, 1997, p. 459.
— 919 — nunce che abbiano lambito l’odierno thema decidendum ma che si siano riferite a regiudicande diverse: al di fuori di due pur eclatanti casi eccettuati (49) si tratta di ipotesi insuscettibili di dar luogo ad incompatibilità al giudizio, pur se indubbiamente ‘‘a rischio’’ sotto il profilo di anticipate ‘‘valutazioni di colpevolezza’’ a largo raggio, rilevanti ancora ai sensi dell’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999. Nelle ipotesi paradigmatiche ora esemplificate il fuoco del problema si sposta, piuttosto, ad altro quesito: può davvero dirsi che, ove non fosse operante l’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999, nell’impossibilità di applicare i meccanismi dell’incompatibilità al giudizio, il diritto delle parti alla terzietà del ‘‘proprio’’ giudice rimarrebbe sprovvisto di tutela? Ovvero, in termini più diretti: nel quadro dei rapporti tra l’art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p. — norma strutturalmente ‘‘a regime’’, applicabile ad ogni processo — e la ricusazione ‘‘transeunte’’ introdotta dal legislatore del 1999, v’è il rischio che la seconda previsione duplichi inutiliter la prima, assolvendo a gratuiti ruoli simbolico-espressivi fonti, più che altro, di equivoci e non di irrobustimenti reali degli apparati di garanzia della terzietà del giudice? Si tratta di quesiti di non poco momento, che investono il cuore dello ‘‘scambio parlamentare’’ alle origini dell’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145. Si dirà, allora, in ordine alla fattispecie della decisione incidentale interna alla fase, che lo statuto della ricusazione ‘‘transeunte’’ nulla è in grado di aggiungere al congegno ‘‘a regime’’ dell’art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p.: pur se voglia intendersi ‘‘a tutto campo’’ il riferimento al ‘‘giudice’’ contenuto nell’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999 (50), dovrebbe osservarsi come, nell’ipotesi in cui la decisione cautelare pronunciata dal giudice del dibattimento sconfini in indebite valutazioni di colpevolezza (al di là, si intende, della fisiologica delibazione sulla consistenza dei gravi indizi), potrà certamente dirsi che, ‘‘nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza’’, l’organo giurisdizionale abbia ‘‘manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione’’. Mutatis mutandis, al medesimo approdo potrebbe pervenirsi ove si consi(49) Si tratta di Corte cost. 2 novembre 1996, n. 371, cit., che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34 comma 2 c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità sia già stata comunque valutata) e di Corte cost. 17 giugno 1999, n. 241 (in Giur. cost., 1999, p. 2132), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 34 comma 2 c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza nei confronti dello stesso imputato per il medesimo fatto’’ in ordine ad un reato in concorso formale con quello oggetto di addebito nel separato successivo giudizio. (50) Si sono, però, già segnalate (supra, § 4) le aporie di una simile dilagante lettura.
— 920 — derassero i rapporti tra un provvedimento de libertate, pronunciato dal g.i.p. nel corso delle indagini e sfociato in considerazioni extra petita tali da sostanziare gratuite ‘‘valutazioni di colpevolezza’’ trascendenti la soglia fisiologica dei gravi indizi, e la successiva investitura del medesimo giudice-persona fisica quale organo deputato al vaglio della richiesta di rinvio a giudizio. Più sfumata potrebbe, per contro, apparire la diagnosi concernente la diversa ipotesi, più sopra formulata, della decisione che, pur investendo una singola regiudicanda, abbia tuttavia lambito altro thema decidendum poi separatamente affidato alla cognitio del medesimo giudice-persona fisica. Può muoversi, in proposito, dal caso — di recente oggetto di scrutinio di costituzionalità sotto il diverso profilo di possibili ulteriori lacune nell’impianto dell’art. 34 comma 2 c.p.p., peraltro escluse dalla Corte — di un magistrato che, in qualità di presidente del collegio di assise, abbia dapprima concorso a pronunciare sentenza di condanna per il reato di strage, fondando l’affermazione di responsabilità sulla provata partecipazione del soggetto all’organo verticistico dell’associazione mafiosa cui asseritamente spetti la ‘‘competenza’’ a ‘‘deliberare’’ su tale tipologia di delitti, e debba di seguito pronunciarsi su altro addebito di concorso in strage, a carico del medesimo imputato, ancora sulla scorta della qualità di componente del predetto organo direttivo da questi rivestita (51). Tenendo ferma l’opzione ermeneutica che individua nel solo g.u.p. il ‘‘giudice’’ cui allude l’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 può, adesso, a titolo esemplificativo mutarsi la struttura della fattispecie, ipotizzando che ad una decisione de libertate, adottata nei confronti di un soggetto a titolo di concorso in strage, segua un’udienza preliminare da celebrarsi, avanti allo stesso giudice-persona fisica, nei confronti del medesimo soggetto ma in ordine ad altro addebito di concorso in strage; si supponga altresì che, nel tessuto motivativo del provvedimento cautelare, abbia — ad esempio — trovato posto l’espressa convinzione per cui il ruolo direttivo del socium sceleris, componente dell’organo verticistico dell’associazione mafiosa, a causa delle ‘‘competenze’’ riservate a tale organo nell’ordinamento interno della struttura associativa, si traduca comunque in responsabilità ‘‘statutaria’’ del soggetto in ordine (almeno) ai più gravi delitti ‘‘deliberati’’ dalla struttura di vertice (52). Non sarebbe faticoso rinvenire in simile (51) Corte cost. 16 luglio 1999, n. 313, in Gazz. uff., 1a serie spec., 21 luglio 1999, n. 29, p. 64; l’ordinanza di rimessione (App. Caltanissetta 11 marzo 1998, Graviano), la cui lettura appare illuminante ai fini di una migliore intelligenza della fattispecie concreta (che concerne le contigue stragi di Capaci e di Via D’Amelio), è pubblicata ivi, 9 settembre 1998, n. 36, p. 103. (52) La tematica — che non può, ovviamente, qui essere approfondita — si presenta, come è noto, di particolare complessità: è da ritenere, infatti, che non basti la mera qualità di componente dell’organo verticistico per coagulare una sorta di responsabilità di posizione
— 921 — asserto le ombre di una ‘‘valutazione di colpevolezza’’ extra petita, rilevante ex art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999 ove il giudice-persona fisica che abbia emesso il decisum cautelare sia, di seguito, chiamato a rivestire funzioni di g.u.p. in ordine a regiudicanda diversa ma probatoriamente incisa dai contenuti dalla precedente pronuncia de libertate. Analoga conclusione non potrebbe, forse, alla luce degli indirizzi restrittivi ordinariamente assunti dalla giurisprudenza in tema di presupposti della ricusazione, sostenersi con altrettanta sicurezza in ordine alla sussumibilità di simile fattispecie nel disposto dell’art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p.: solo ove si considerasse la formula ‘‘nell’esercizio delle funzioni’’, che traccia il perimetro di rilevanza della norma, come del tutto coincidente rispetto alla (linguisticamente diversa) espressione ‘‘esercizio delle funzioni giudiziarie’’ utilizzata dall’art. 36 comma 1 lett. c) c.p.p., il caso su esemplificato rientrerebbe pleno iure nella sagoma di applicabilità dell’ipotesi codicistica; ove, per contro, dovesse ritenersi che l’ ‘‘esercizio delle funzioni’’ cui allude l’art. 37 comma 1 lett. b) c.p.p. si riferisca non già al generico espletamento di compiti giudiziari, ma allo svolgimento del munus giurisdizionale in ordine alla specifica regiudicanda, sì da individuare la ratio dell’istituto nell’intento di impedire che un medesimo magistrato-persona fisica anticipi, nel corso di un unico iter procedimentale, indebite valutazioni merito causae, esprimendole in epoca precedente all’emissione della sentenza che concluda il grado di giudizio, si affaccia il rischio che l’ipotesi tratteggiata più sopra, proprio per effetto del self restraint giurisprudenziale sul punto, possa sfuggire alle maglie della norma codicistica, residuando, perciò, solo l’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 a presidio del diritto delle parti alla terzietà del ‘‘proprio’’ giudice. Tale ultimo rilievo schiude ancora la via ad un dubbio di fondo: ove la ricusazione ‘‘transeunte’’ risultasse priva di reali margini di operatività, risolvendosi in inutile duplicazione di meccanismi già da tempo operanti, la relativa norma sarebbe destinata ad una vita effimera, prima ancora che ad una morte quanto mai rapida; ma se, per contro, l’art. 3-bis comma 2 in ordine ad ogni reato-fine (e, in particolare, ai delitti da considerare di particolare importanza per la vita dell’associazione, rientranti, dunque, nelle ‘‘competenze’’ dell’organo medesimo: cfr., per questa problematica, Cass., Sez. I, 30 gennaio 1992, Abbate e a., in Foro it., 1993, II, c. 15), dovendo, al contrario, di volta in volta accertarsi il contributo causale di ciascuno dei compartecipi, attraverso la prova dell’attualità e concretezza della (più o meno diretta) partecipazione del soggetto alle specifiche determinazioni delittuose (così, ad esempio, in giurisprudenza, Cass., Sez. I, 30 novembre 1995, Greco, ivi, 1996, II, c. 586). In tema cfr., tra gli altri, G. CANZIO, Orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità dei partecipi nei reati-fine: la responsabilità dei capi di ‘‘Cosa nostra’’ per gli omicidi ‘‘eccellenti’’ ascrivibili all’associazione mafiosa, ivi, c. 587 ss.; G. FIANDACA, Sulla responsabilità concorsuale dei componenti della ‘‘cupola’’ di Cosa nostra, ivi, 1993, II, c. 15 ss.; nonché, di recente, anche in un’ottica più ampia, T. PADOVANI, Il concorso dell’associato nei delitti-scopo, in I reati associativi, Atti del convegno di Courmayeur, Milano, 1998, p. 89 ss. e spec. p. 94 ss., al quale si deve la formula ‘‘responsabilità statutaria’’ utilizzata nel testo.
— 922 — d.l. n. 145 del 1999 possedesse propri spazi di applicabilità ‘‘reale’’, quale logica ispirerebbe, al sopravvenire del 2 gennaio 2000, la sua prematura eclissi, che si risolverebbe in un fatale deficit sopravvenuto di garanzie a detrimento del diritto delle parti alla terzietà del giudice? Il bivio è comunque sconfortante: i rapporti tra statuto dell’incompatibilità ex art. 34 comma 2-bis c.p.p. e ricusabilità ‘‘transeunte’’ non sono leggibili — lo si è visto — in chiave di continenza, poiché i presidi posti dal secondo congegno non potranno dirsi assorbiti dall’ingresso ‘‘a regime’’ del modello di incompatibilità tracciato dalla novellata norma codicistica; ciò posto, ove si ritenga che il meccanismo di cui all’art. 3-bis comma 2 d.l. n. 145 del 1999 nulla sia in grado di aggiungere alle già vigenti ipotesi codicistiche di ricusazione, ci si troverebbe innanzi ad una pseudo-norma, ingombrante involucro privo di contenuto reale; ove, per contro, si ritenga la ricusazione ‘‘transeunte’’ dotata di propri (pur se esigui) spazi di normatività, differenziati ed ulteriori rispetto alle ipotesi codicistiche, la sua definitiva scomparsa, programmata oltre la soglia del 2 gennaio 2000, non potrà essere del tutto compensata dal pieno ingresso in efficacia del ‘‘nuovo’’ art. 34 comma 2-bis c.p.p. e lascerà, pertanto, inopinatamente sguarniti spazi (magari residui) per contro dapprima coperti. Tra gli spunti — pur ancora molteplici — che non hanno trovato posto nel discorso sin qui condotto, un ultimo rilievo non converrà trascurare. Lo statuto della ricusazione ‘‘transeunte’’ disegna — lo si è già posto in luce — una sagoma di operatività del congegno delimitata da precisi confini cronologici, non solo finali (2 gennaio 2000) ma anche iniziali (24 luglio 1999): sicché gli indebiti ‘‘giudizi che manifestano una valutazione di colpevolezza’’ rilevano, quali presupposti della ricusazione ‘‘transeunte’’, solo ove il giudice li abbia espressi in data non antecedente al 24 luglio 1999. Un simile assetto — in cui il dies a quo è fatto operare non solo in ordine all’attivabilità del meccanismo, ma anche con riguardo alla rilevanza del presupposto ai fini dell’attivabilità del meccanismo — appare, prima facie, del tutto razionale ed, anzi, sorretto da ineccepibili canoni di eticità della normazione: è conforme — potrebbe dirsi — ad elementari esigenze di certezza e, in ultima analisi, al principio di legalità che un istituto processuale non operi con riguardo a presupposti che, all’epoca in cui vennero in esistenza, erano in realtà circostanze neutre. Ovvero, in termini più plastici: sappia il giudice che qualora, a partire dalla data di entrata in vigore del congegno di nuovo conio, dovesse comunque esprimere giudizi che manifestino una valutazione di colpevolezza fuori dai casi previsti dalla legge, le parti potranno ricusarlo. Un simile approccio si rivela, tuttavia, a ben vedere dissonante rispetto ai valori in gioco e alla stessa ratio della norma: in primo luogo, infatti, rientra tra i generali obblighi del giudice astenersi da estrinsecazioni gratuite nel contesto di qualsiasi attività giudiziaria, specie ove queste rischino di debordare in antici-
— 923 — pate valutazioni di colpevolezza dei soggetti sottoposti a processo, e ciò — si badi — anche a prescindere dall’esistenza o meno di congegni processuali idonei a provocare la sostituzione del giudice la cui terzietà si sia in tal modo incrinata (53); inoltre — e non è che il rovescio della medaglia — il maturarsi, in qualsiasi tempo, di giudizi che esprimano valutazioni di colpevolezza fuori dai casi previsti dalla legge rende comunque il giudice strutturalmente suspectus, quali che siano, poi, le conseguenze che il sistema ne tragga. Al di là delle apparenti suggestioni dettate da letture oblique del principio di irretroattività, dunque, non sembra razionale che il legislatore da una parte scelga di rendere ricusabile il giudice che tali indebiti giudizi abbia espresso, e dall’altra, ceteris paribus, sterilizzi, tuttavia, la rilevanza dei giudizi medesimi sol perché maturatisi in epoca antecedente all’entrata in vigore del ‘‘nuovo’’ meccanismo: in tale strategia normativa, aspramente derogatoria — come risulta chiaro — rispetto al canone tempus regit actum, sembrano annidarsi possibili attentati alla razionalità del sistema, che a fronte di un giudice obiettivamente suspectus attribuisce alle parti una potestà di ricusazione ma solo se l’indebita valutazione di colpevolezza si sia maturata oltre una certa soglia cronologica. Insomma, davvero molteplici sono gli interrogativi posti dall’inedito meccanismo ‘‘transeunte’’ qui in discorso: dal quesito, centrale, circa l’esistenza di effettivi spazi di rilevanza della norma si transita a dubbi più di dettaglio ma non per questo di meno intenso rilievo. Al di là delle ipotesi di risposta sopra appena abbozzate, residuano ingombranti silenzi, impenetrabili — forse — in vitro, che invitano, piuttosto, ad attendere e osservare quanto l’esperienza — banco di prova di ogni novum normativo — saprà, nei mesi prossimi, porre in luce. Un auspicio (non privo dei rischi propri del sermo iam tritus) può, tuttavia, ancora formularsi: l’interprete confida in progettazioni meno frenetiche e più pacate e riflessive, in vista del traguardo del 2 gennaio 2000, davvero decisivo — ben al di là di ogni retorica, e non certo solo in ordine alle sorti della ricusazione ‘‘transeunte’’ — per il futuro del sistema giustizia in Italia. GIUSEPPE DI CHIARA Associato di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Bari
(53) Ne è conferma — ove ancora ve ne fosse necessità — l’art. 12 comma 2 del Codice etico della magistratura ordinaria (il cui testo è riprodotto in Guida dir., 1995, dossier n. 6 [Le regole deontologiche di avvocati e notai e i codici etici della magistratura], p. 44 ss.), ove si precisa che il giudice ‘‘nella motivazione dei suoi provvedimenti e nella conduzione dell’udienza evita di pronunciarsi su fatti o persone estranei all’oggetto della causa’’.
L’ATTO D’UFFICIO NELLE FATTISPECIE DI CORRUZIONE
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Le origini del problema: la tendenza espansiva della fattispecie nell’applicazione giurisprudenziale. — 3. Lo scopo dell’indagine. - 3.1. La ricostruzione della corruzione come ‘compravendita’ di un atto determinato, rientrante nella competenza dell’ufficio. - 3.2. (Segue): la corruzione come reato incentrato sull’ ‘abuso di potere’. — 4. L’elaborazione della dottrina italiana. — 5. Le indicazioni interpretative suggerite da un’indagine comparatistica: l’atto d’ufficio come limite alle ipotesi di traffico di influenze e di (mera) venalità della carica. - 5.1. Il modello tedesco. - 5.2 Il modello francese. - 5.3 Il modello spagnolo. — 6. Excursus: sulla necessità di introdurre una fattispecie di ‘traffico di influenza’. — 7. Il raccordo con i parametri costituzionali. — 8. Ipotesi: la ricostruzione delle fattispecie di corruzione come fattispecie di ‘abuso di potere’. — 9. Conclusioni.
1.
Premessa.
La situazione emergenziale che ha attribuito alle fattispecie di corruzione la centralità attualmente rivestita nella tutela penale della pubblica amministrazione si è spesso accompagnata ad una deformazione della fisionomia delle stesse, modellata, il più delle volte, sulla matrice delle diverse esigenze repressive (1). Su questa spinta, si sono affermate soluzioni giuridiche non sempre rispettose dei connotati normativi attraverso cui il codice descrive, nel caso che interessa, le diverse ipotesi di corruzione. Uno dei contrassegni tipici delle fattispecie di corruzione — quanto meno, come si vedrà, nell’ordinamento italiano — è il collegamento funzionale che deve sussistere con l’ ‘‘atto d’ufficio’’, la necessità che il ‘‘fatto’’ stesso non si esaurisca, cioè nella sfera soggettiva degli autori, ma si rifletta, oggettivamente e funzionalmente nell’attività (amministrativa) di competenza dell’ufficio (o del servizio) di cui il pubblico agente è titolare; ciò che, nell’elaborazione giurisprudenziale sul tema, non è stato sempre oggetto della dovuta attenzione. Scopo di questa indagine è dunque mettere in luce la rilevanza che l’atto amministrativo assume nelle fattispecie di corruzione, il significato in termini di tipicità che lo stesso apporta, e i conseguenti limiti che una (1) Su tale progressivo degrado dell’accertamento processuale, v. PADOVANI, Il problema Tangentopoli tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in questa Rivista, 1996, pp. 448 ss., 452.
— 925 — corretta valutazione dello stesso impone nella disciplina del codice italiano, anche alla luce di una prospettiva comparatistica. 2.
Le origini del problema: la tendenza espansiva della fattispecie nell’applicazione giurisprudenziale.
Dalla formulazione del nucleo comune delle fattispecie di corruzione emerge chiaramente il necessario collegamento con l’atto: ‘atto d’ufficio’ nella corruzione impropria (art. 318 c.p.); ‘atto contrario ai doveri d’ufficio’ nella corruzione propria (art. 319 c.p.). Alla stregua degli altri elementi costitutivi della fattispecie l’ ‘atto’ deve dunque essere anzitutto individuato, accertato, rientrare insomma nella ricostruzione dell’accordo illecito che sostanzia la corruzione; e ciò — quanto meno — perché rappresenta il punto di fuga del c.d. pactum sceleris, e il criterio discretivo della distinzione tra corruzione propria e impropria (2). La giurisprudenza, tuttavia, non sempre esige una scrupolosa verifica sul punto, spesso basando le sue argomentazioni sulla non necessità di intendere l’atto stesso in una accezione formale, fino a ritenerne irrilevante persino la mancata individuazione (3). (2) Cfr., da ultimo, MANNA, Corruzione e finanziamento illegale dei partiti, in questa Rivista, 1999, p. 116 ss., (spec. p. 120 ss.), ove si sottolinea — tra l’altro — il fondamentale apporto che l’elemento ‘atto d’ufficio’ offre anche nella distinzione tra corruzione e il reato di finanziamento illecito ai partiti politici (p. 157). (3) Giurisprudenza prevalente: ex plurimis (con riferimento ad una ipotesi di ‘Istigazione alla corruzione’, nella specie, art. 322, comma 2, c.p.), Cass., Sez. VI, 30 novembre 1995, Varvarito, in Foro it., 1996, II, c. 414 ss., con nota di GROSSO, Dazione o promessa di denaro al pubblico ufficiale ‘in ragione delle funzioni esercitate’: corruzione punibile o fatto penalmente atipico?, in cui si legge: ‘‘Poiché ai fini della corruzione propria antecedente l’atto d’ufficio oggetto del mercimonio non deve essere inteso in senso formale, ricomprendendo la locuzione qualsivoglia comportamento del pubblico ufficiale, la mancata individuazione del singolo atto che avrebbe dovuto essere omesso, ritardato o compiuto dal pubblico ufficiale contro i doveri del proprio ufficio, non fa venir meno il delitto di cui all’art. 319 c.p.’’; Cass., Sez. VI, 29 ottobre 1992, Riso, in CP, 1994, p. 893; recentemente Cass., Sez. VI, 5 febbraio 1998, Lombardi, ivi, 1999, p. 3405 ss., con nota critica di RAMPIONI, I delitti di corruzione e il requisito costitutivo dell’atto di ufficio: tra interpretazioni abroganti e suggestioni riformatrici, decisione in cui, sulla base della ricostruzione della corruzione come comportamento in violazione dei doveri di fedeltà, imparzialità e onestà, si afferma: ‘‘La mancata individuazione in concreto del singolo ‘atto’ d’ufficio (che avrebbe dovuto essere omesso o ritardato o compiuto contro i doveri del proprio ufficio o servizio) non fa venire meno il delitto di cui all’art. 319 c.p., ove venga accertato che la consegna del denaro al pubblico ufficiale, o all’incaricato del pubblico servizio, sia stata effettuata in ragione delle funzioni dallo stesso esercitate e per retribuirne i favori’’; Cass., Sez. VI, 3 novembre 1998, n. 12357, Giovannelli, in Guida dir., n. 1/1999, p. 83 (m): ‘‘Nella corruzione l’atto oggetto di illecito mercimonio non deve essere individuato nei suoi specifici connotati, essendo sufficiente che esso sia individuabile in relazione a un comportamento del pubblico ufficiale ben determinato nel suo contenuto, anche se suscettibile di specificarsi in una pluralità di singoli atti non preventivamente fissati o programmati’’. La ‘‘tendenza espansiva’’ della giurispru-
— 926 — Una variante a questa impostazione è quella che vorrebbe la correlazione dazione illecita/atto specifico tipica (e dunque necessaria per la configurabilità) della sola corruzione impropria, in quanto solo l’art. 318 c.p. — attraverso il riferimento al concetto di ‘‘retribuzione’’ — implicherebbe ‘‘una controprestazione che richiede, a sua volta, un determinato termine di riferimento’’, un ‘‘atto amministrativo determinato nel suo oggetto e nella sua portata’’ (4). Inoltre: la svalutazione del requisito in questione filtra sovente attraverso decisioni che — pur ravvisando la necessità che l’atto sia individuato — ritengono non necessario che questo rientri nella competenza specifica dell’agente, che sia vincolato cioè a quel complesso di attribuzioni giuridiche (poteri e facoltà) che identificano il concetto di ‘‘ufficio’’ di cui l’agente è titolare e detentore, e che delimitano appunto la competenza del soggetto; essendo sufficiente che ‘‘in virtù della sua appartenenza all’ufficio o all’organo competente, egli abbia una concreta possibilità di interferire o, comunque, di influire sull’emanazione dell’atto’’ (5). L’approdo finale di questo consolidato orientamento interpretativo è dunque che l’applicazione dei delitti di corruzione è ormai totalmente svincolata dall’atto amministrativo, riducendosi ad una repressione della mera venalità del funzionario (6). Questa ‘‘revisione’’ del testo di legge e dell’essenza del delitto di corruzione presta il fianco, come vedremo, a diverse obiezioni critiche, di origine storica, esegetica e sistematica. Non mancano, tuttavia, decisioni autorevoli che prendono distanza denza in merito all’individuazione dell’atto oggetto di corruzione è riscontrabile almeno a far data agli anni ’60, come rileva RONCO, nota a Cass., Sez. VI, 19 settembre 1997, Paolucci, in Giur. it., 1998, p. 1214 ss. (4) Cass., Sez. VI, 24 novembre 1981, Taldone, in GP, 1982, II, p. 678 ss., che sulla base di tale premessa conclude che ‘‘l’utilità data o promessa, nella previsione di eventuali, futuri, imprecisati atti commissivi o omissivi, al fine di ottenere la benevolenza del pubblico ufficiale, non costituisce elemento idoneo ad integrare il reato di corruzione’’. Sempre motivando sull’ubi lex voluit dixit, con riferimento all’espressa menzione del concetto di retribuzione solo nell’art. 318 c.p., la giurisprudenza prevalente richiede solo nella corruzione impropria la verifica della proporzionalità tra dazione e corrispettivo atto illecito; la dottrina sul punto è divisa: accoglie tale impostazione, ad es., STORTONI, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Monduzzi, 1998, 124; contra, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, vol. I, Bologna, 1997, 2a ed., p. 220; PAGLIARO, La retribuzione indebita come nucleo essenziale dei delitti di corruzione, in questa Rivista1974, pp. 57 ss., 65; ID., Principi di diritto penale, Parte speciale, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 8a ed., p. 171. (5) Così Cass., Sez. VI, 15 marzo 1993, Di Tommaso, in Foro it., Rep. 1993, voce Corruzione, p. 650, n. 7; Cass., Sez. VI, 3 dicembre 1993, Bonetto, ibidem, n. 15; Cass., Sez. VI, 14 luglio 1993, Cappellari, ivi, 1994, voce Corruzione, p. 741, n. 14. (6) Cfr. SGUBBI, Reati contro la p.a. e sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: il legislatore alla rincorsa del pubblico ministero, in Dir. pubblico, 1997, pp. 99 ss., 104.
— 927 — dagli orientamenti citati, ricostruendo con lucida consapevolezza i tratti fondamentali del delitto in questione. Sul problema dell’individuazione dell’atto si è affermato anzitutto che ‘‘pur dovendosi intendere per atto d’ufficio, non già l’atto formale di natura legislativa, amministrativa o giudiziaria, ma un qualsiasi comportamento materiale che sia in rapporto di causalità con la retribuzione non dovuta, occorre pur sempre che si tratti di atto che costituisca un concreto esercizio di poteri inerenti all’ufficio, poiché, tipico della corruzione è che gli atti d’ufficio da compiersi dal pubblico ufficiale debbano essere ben determinati’’ (7). Analogamente, sulla seconda questione accennata, pur senza riferirsi espressamente alla problematica della competenza sull’atto, si è affermato che per la configurabilità del delitto di corruzione (di cui all’art. 319 c.p.) ‘‘è necessario che l’attività oggetto del mercimonio sia ‘propria’ del pubblico ufficiale, e cioè che rientri, sia pur latamente, in una sfera di attribuzione dello stesso pubblico ufficiale e che consista in un comportamento preso in considerazione da una disciplina avente le caratteristiche di cui all’art. 357 c.p.’’ (8). Muovendo da questi snodi interpretativi si cercherà di analizzarne la condivisibilità, alla luce di una ricostruzione storica e comparatistica e cercando di dare rilievo effettivo ai punti di riferimento costituzionali. 3.
Lo scopo dell’indagine.
3.1. La ricostruzione della corruzione come ‘‘compravendita’’ di un atto determinato, rientrante nella competenza dell’ufficio. — Dai termini della problematica riassunti nel paragrafo precedente ricaviamo il fine della presente indagine, ossia i termini della dimostrazione che si intende proporre. Si cercherà di delineare un denominatore comune alle fattispecie di corruzione (propria e impropria, antecedente e susseguente), coniugato sul seguente paradigma: a) l’atto oggetto della corruzione deve essere determinato, ossia individuato con certezza; nella corruzione susseguente l’espressa menzione del requisito della retributività impone un riscontro ancor più peculiare, giustificato già sul piano logico dal minor disvalore della condotta comunque in linea con i doveri d’ufficio e dalla necessità di stabilire la soglia della configurabilità del reato ad un livello tale per cui possa dirsi che la datio è sicuramente il corrispettivo dell’atto (altrimenti si punirebbe la (7) Cass., Sez. VI, 19 settembre 1997, Paolucci, cit., p. 1214, con nota di RONCO; cfr. anche Cass., Sez. VI, 24 novembre 1982, in CP, 1983, pp. 394, 586 ss. (8) Cass., Sez. VI, 6 febbraio 1997, Bondaz, in Guida dir., n. 8/1997, p. 69, con nota di PATALANO; anche in DPP, n. 1/1998, con nota di C. BERNASCONI; cfr. altresì la precedente Cass., Sez. VI, 8 ottobre-22 novembre 1996, Balsamo, in Guida dir. (dossier mensile), n. 8/1997, (m), p. 95, su cui si tornerà.
— 928 — sola venalità della carica e non si avrebbe una vera ‘baratteria’, come si vedrà, infra, § 4); b) l’atto deve rientrare nella competenza del pubblico agente, non nel senso che occorra una competenza specifica ma nel senso che debba sussistere quanto meno una connessione funzionale tra i compiti dello stesso e l’atto richiesto (o compiuto); corollario di tale affermazione è che, per come è attualmente strutturata, la disciplina della corruzione non ammette contaminazioni — in via interpretativa o, più esattamente, creativa — con il c.d. traffico di influenze, fenomeno complesso e diverso rispetto alla compravendita dell’attività dell’ufficio; c) nel delitto di corruzione, a differenza che nei delitti di concussione e di rivelazione di segreti d’ufficio, non si dà rilievo al mero abuso della qualità, alla mera strumentalizzazione della qualifica o della posizione, se a ciò non corrisponda un conseguente ‘ingresso’ nell’attività funzionale riconnessa alla qualifica stessa. 3.2. (Segue): la corruzione come reato incentrato sull’ ‘‘abuso di potere’’. — Stabiliti nei punti sopra esposti gli obiettivi ‘minimi’ dell’indagine, si vuole affiancare agli stessi un’ipotesi ulteriore di lavoro che come corollario logico prospetti l’appartenenza del delitto di corruzione alla categoria dei reati di ‘abuso di potere’, in particolare distinguendo: a) le ipotesi di corruzione antecedente come reati di abuso di potere, ove con tale modulo descrittivo si intenda la strumentalizzazione ravvisabile nel collegamento finalistico tra la dazione e l’atto, di modo che la causa per cui questo è compiuto coincide con la dazione (o la promessa) indebita; b) le ipotesi di corruzione susseguente a seconda che si tratti di corruzione propria o impropria; b1) nelle prime il rapporto causale della corruzione antecedente è ribaltato, ma conserva la sua dimensione di collegamento funzionale tra un atto messo a disposizione in vista della dazione illecita; invero, non sembra potersi ricondurre alla fattispecie di corruzione propria susseguente l’atto illegittimo realizzato — ad esempio — per ignoranza colposa della normativa amministrativa o comunque per negligenza e successivamente retribuito dal privato occasionalmente favorito dallo stesso (9); b2) nel secondo caso, nella corruzione impropria susseguente residuerebbe — come sedimentazione delle stratificazioni legislative succedutesi nel tempo — l’unica ipotesi riconducibile al modello dell’ ‘indebita ac(9) Così, invece, ad es. VENDITTI, Corruzione (voce), in ED, vol. X, 1962, p. 755, il quale non a caso rileva che in tal modo il pubblico ufficiale ‘‘dimostra una grave venalità che nuoce al prestigio della p.a., intaccando la fiducia della collettività nella correttezza dei pubblici ufficiali e creando il pericolo di scorrettezze ancor più gravi’’; ma una tale oggettività giuridica, come si vedrà, non può essere accettata alla luce dei parametri costituzionali che informano la funzione amministrativa; sulla stessa linea di VENDITTI anche GROSSO, Corruzione (voce), in DDP, 1989, p. 15.
— 929 — cettazione di utilità’; modello che tuttavia una piena valorizzazione dei principi costituzionali — come si vedrà — e una fuga da formalistiche interpretazioni che hanno come referente l’ ‘ossessione del prestigio’ impongono di ripensare, interrogandosi su una eventuale depenalizzazione. Nella verifica delle tesi e dell’ipotesi formulate occorre — pur sinteticamente — prendere le mosse dalle matrici storiche della problematica (10). 4.
L’elaborazione della dottrina italiana.
Nell’ambito della tradizionale partizione che distingueva tra corruzione in senso romanistico e corruzione in senso germanistico, già Karl Binding sottolineava come solo la concezione germanistica — ossia la corruzione consistente nell’offerta o dazione di un’utilità per il compimento di specifici atti contrari ai doveri d’ufficio — riusciva a cogliere il reale disvalore del delitto in esame. La concezione romanistica, identificata dalla accettazione indebita di utilità per il compimento di qualsiasi atto d’ufficio, risultava a parere dell’illustre criminalista tedesco alquanto formalistica, perché incapace di realmente differenziare tra la corruzione e l’illegale accettazione di doni da parte dei funzionari (11). Le alterne fortune delle due concezioni seguono il corso della storia dell’amministrazione, e, sullo sfondo, del concetto di Stato. La concezione romanistica, richiama per contrasto un modulo che sarà tipico del c.d. Stato patrimoniale, in base al quale era ‘normale’ l’acquisto del provvedimento amministrativo da parte del privato (12); modulo che avrà pieno vigore in epoca feudale, in cui l’allocazione e l’organizzazione delle risorse avviene secondo i meccanismi propri dell’ordine cetuale. Rispetto a quell’epoca, il passaggio al ‘moderno’ — come ha spiegato Max Weber nella complessa architettura di Economia e società — è segnato dall’affermarsi di un amministrazione ‘burocratica’, capace da sola di conferire a tutto l’edificio politico il carattere di ‘istituzione dotata di razionalità obiettiva’, e in grado ‘‘di strutturarsi secondo il modulo dei doveri oggettivi di ufficio, cioè secondo una relazione giuridicamente forma(10) Resta fuori dall’ambito dell’indagine la problematica riguardante più direttamente la natura dell’atto oggetto di corruzione, ossia la sua contrarietà o meno rispetto ai doveri d’ufficio, così come il connesso problema degli ‘atti discrezionali’; sul punto, che verrà affrontato solo nelle intersezioni con lo specifico oggetto di indagine, si rinvia alle trattazioni generali citate nel corso del lavoro, tra cui si segnalano GROSSO, Corruzione (voce), cit., p. 159 ss.; MIRRI, Corruzione (voce), in EG, 1991, p. 5 ss. (e letteratura ivi citata); SEMINARA, sub art. 318, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1992, pp. 715 ss., 717. (11) Una sintesi della ricostruzione di BINDING, in SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in questa Rivista, 1993, p. 951 ss. (12) Cfr. SGUBBI, Reati contro la p.a. e sindacato del giudice penale, cit., p. 104.
— 930 — lizzata tra detentori del potere ed apparato amministrativo, in luogo del rapporto di seguito e dello scambio fedeltà-protezione proprio delle amministrazioni di ceto dominate dalla logica di stampo feudale’’ (13). Questo passaggio segna dunque il superamento, tra l’altro, dell’endiadi patrimonialismo/feudalesimo, e l’abbandono della logica di mera ‘pattuizione’ propria del tradizionale modello di stampo giurisdizionale, ove era appunto il giudice la figura pubblica deputata ad accertare l’esistenza dei diritti e dei privilegi in gioco, ed a tentare una loro puntuale e provvisoria composizione (14). Frapposto il diaframma dell’amministrazione burocratica (stabilita, cioè, l’istituzionalità del potere) come cerniera ove potesse articolarsi la dialettica pubblico-privato, autorità-libertà, si poteva finalmente richiamare la stessa alla legalità: dalla pattuizione alla normazione, nei termini della contrapposizione concettuale weberiana. E per tal via poteva affermarsi compiutamente lo Stato di diritto, compito che, pur con modalità ed esiti diversi, è portato a termine dalle codificazioni ottocentesche. A nostro parere, il cambio di prospettiva traspare nelle opzioni dei codici liberali, anche nella disciplina della materia che ci occupa; in breve, non si ritiene più necessario identificare la corruzione con la semplice vendita della carica, ma vincolarla al ‘nuovo’ tramite costituito dall’organizzazione e dall’attività amministrativa. La maturità concettuale alla base di questo ‘passaggio al moderno’ è testimoniata dall’esperienza legislativa italiana. Infatti. A fronte della triplice possibilità offerta dalla tradizione — corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione per un qualsiasi atto d’ufficio, indebita accettazione di utilità per lo svolgimento del servizio e/o la qualifica rivestita — il codice Zanardelli, a seguito di un lungo e consapevole dibattito sul punto (15), esprimeva una decisa scelta di campo nell’innervare il disvalore tipico della corruzione sulla sola accettazione di utilità per un atto contrario o consentaneo ai doveri dell’ufficio (16). (13) FIORAVANTI, Stato (storia) (voce), in ED, XVIII, pp. 708 ss., 718, cui si rinvia per un’approfondita sintesi sul punto, con particolare riguardo all’opera weberiana. (14) Ibidem, p. 718. (15) Cfr. ancora SEMINARA, op. cit., p. 953. (16) Le norme del codice Zanardelli dedicate alla corruzione erano gli artt. 171 e 172. Nel primo si prevedeva la corruzione impropria antecedente e susseguente, identificata nel fatto del pubblico ufficiale ‘‘che, per un atto del suo ufficio, riceve per sé o per altri, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa (...)’’; nell’art. 172 si sanzionava la corruzione propria, nella sola forma antecedente, ravvisata nel fatto del pubblico ufficiale ‘‘che, per ritardare od omettere un atto del suo ufficio, o per fare un atto contro i doveri d’ufficio, riceve o si fa promettere denaro o altra utilità, per sé o per altri(...)’’. Restava dunque impunita la corruzione propria susseguente, a riprova del fatto che se la corruzione impropria veniva intesa come norma di contrasto della venalità del funzionario, a tutela del mero prestigio della P.A. (cfr. SEMINARA, op. ult. cit., p. 956), la corru-
— 931 — La costruzione delle fattispecie di corruzione sull’elemento dell’atto d’ufficio (e non, ad esempio, sul generico svolgimento della funzione) sarà un elemento dominante nella tradizione normativa italiana in tema di corruzione, e verrà confermata dalle scelte del codice Rocco. Infatti, se è vero che nei lavori preparatori e nella stessa relazione del Guardasigilli al progetto definitivo del codice del ’30 non è dato riscontrare puntualizzazioni in merito al significato, alla rilevanza e all’individuazione dell’atto nei delitti di corruzione propria o impropria, è pur vero che tale omissione è giustificabile, più che come semplice defaillance, come conferma della non problematicità della questione negli anni della codificazione, almeno avendo considerazione della consolidata opinione della dottrina più autorevole sul punto. Al riguardo, emergeva chiaramente già nelle parole di Carrara che per corruzione (o ‘‘baratteria’’) dovesse intendersi ‘‘la vendita conclusa tra un privato e un pubblico ufficiale di un atto appartenente al ministero di questo, che di regola dovrebbe essere gratuito’’ (17); e, sulla stessa scia, anche Majno individuava tra gli elementi costitutivi della fattispecie di corruzione il fatto ‘‘che il contratto fra il corruttore e il pubblico ufficiale corrotto si riferisca ad un atto dell’ufficio di questo, si tratti poi di un atto che direttamente entri nella competenza propria del pubblico ufficiale o che gli sia stato legalmente delegato (...)’’ (18). Il necessario collegamento tra dazione e atto era chiaro anche a Pessina il quale, interrogandosi circa la rilevanza penale della (mera) illecita accettazione di doni, sottolineava che per affermarla ‘‘bisognerebbe addimostrare che questo venne fatto per implorare una concessione, nel qual zione propria recava stampata in fronte la derivazione dall’abuso d’ufficio causalmente originato dal pactum sceleris; cosìcché ove il pactum sceleris non lo avesse preceduto e dunque, determinato, non di corruzione propria (susseguente) si sarebbe potuto parlare ma di mero abuso di autorità ai sensi dell’art. 175, o tutt’al più — seguendo le posizioni più preoccupate di dare alla materia coerenza sistematica — si sarebbe potuto ricomprendere l’ipotesi nella generica corruzione impropria, aderendo ad una concezione generica di atto d’ufficio (così, ad es. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1913, V, p. 120 s. e note 2 e 3, citato da SEMINARA, op. ult. cit., p. 956, nota 11). (17) CARRARA, Programma del Corso di diritto criminale, Parte speciale, V, 6a ed., Prato 1890, p. 118, § 2545; per un’efficace sintesi sull’evoluzione storica della dottrina sul tema cfr. RONCO, op. cit., p. 1214. Analogamente PESSINA, Diritto penale italiano, Milano, 1907, p. 72: ‘‘La parola corruzione nel linguaggio giuridico venne sempre usata per indicare il fatto di quei pubblici funzionari che vendono per lucro gli atti del loro ufficio’’. (18) ‘‘L’atto deve spettare allo speciale ufficio esercitato dall’ufficiale corrotto: il magistrato che non giudica in un affare fa cosa altamente vituperosa se prende una mercede per raccomandare l’affare stesso ad un collega: commette anzi il delitto di vendita di fumo contemplato dall’art. 204; ma non può essere chiamato responsabile di corruzione, tranne quando egli sia agente segreto del proprio collega. E si noti che a costituire l’estremo in esame non basta la estimazione subiettiva, l’opinione del corrotto e del corruttore che l’atto entri nelle attribuzioni del primo: è necessario che l’atto sia inerente a quelle attribuzioni nella realità delle cose’’: MAJNO, Commento al codice penale italiano, Verona, 1902, p. 599; opinione condivisa da PESSINA, op. cit., p. 76.
— 932 — caso il donativo diverrebbe senz’altro l’utilità, il lucro, come causa del delitto di corruzione’’ (19); e lo stesso Autore, sul problema della competenza dell’atto, affermava che ‘‘l’atto deve spettare allo speciale ufficio che si esercita dal funzionario che accettò l’indebita utilità’’ perché ‘‘per aversi corruzione è necessaria la vendita di atti del proprio ufficio, vendita assolutamente esclusa quando il funzionario non intaccò in modo veruno le mansioni dell’ufficio proprio’’ (20). Un’ulteriore puntualizzazione degna di nota è quella del Manzini, che nel discutere circa il concetto e la natura dell’ ‘atto’ nei delitti di corruzione, rilevava la necessità di distinguere tra atto contrario ai doveri d’ufficio integrante il reato di corruzione e mero illecito disciplinare; secondo l’illustre Autore non ogni infrazione amministrativa riconducibile ad una generica violazione dei doveri d’ufficio poteva configurare il reato di corruzione, ma solo la violazione estrinsecantesi in un ‘‘atto determinato contrario ai doveri d’ufficio’’; e per tal via escludeva che il proporre raccomandazioni o l’intromettersi con segnalazioni nell’attività pubblicistica degli uffici, pur essendo un fatto contrario ai doveri d’ufficio, potesse integrare il delitto di corruzione (propria) (21). La questione sembrava dunque pacifica, tanto che nella vigenza del nuovo codice — che, eccezion fatta per un inasprimento generale della disciplina, per l’estensione delle ipotesi all’incaricato di pubblico servizio e per l’introduzione della corruzione propria susseguente, non alterava la struttura fondamentale delle fattispecie — vi è chi si spingeva fino a trarre la conseguenza logica di tali affermazioni, identificando come elemento comune alle fattispecie di corruzione l’esistenza di una relazione finalistica tra la ricezione della dazione (o accettazione della promessa) e l’atto d’ufficio, così che tra i due dovesse potersi riscontrare un rapporto causale di mezzo a fine (22). La problematica sembrò dunque sopirsi, fino a che la già accennata ‘‘tendenza espansiva’’ della giurisprudenza in merito all’individuazione dell’atto oggetto di corruzione, riscontrabile almeno a far data agli anni ’60 e così frequente nell’attuale prassi applicativa, restituiva al tema nuova centralità. I riflessi di questo lento e progressivo cedimento della tipicità delle (19) PESSINA, op. cit., p. 89. (20) Ibidem, op. cit., p. 91; anche MANZINI (Trattato di diritto penale italiano, vol. V, 5a ed. aggiornata dai prof. P. Nuvolone e G.D. Pisapia, Torino, 1962, pp. 220, 237), pur ricostruendo l’oggetto della tutela facendo riferimento sia al normale funzionamento che al prestigio della p.a., precisava con chiarezza che sia nella corruzione impropria (per l’espresso requisito della retributività) sia nella corruzione propria presupposto del reato è che l’atto sia specificamente identificato, cioè determinato nella specie. (21) MANZINI, op. cit., p. 241. (22) RICCIO, I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 1955, pp. 361, 374; lo stesso A. conferma inoltre che l’atto deve appartenere alla competenza dell’ufficio ed a quella funzionale, generica o specifica del p.u. o dell’impiegato in caricato di pubblico servizio, pubblico agente.
— 933 — fattispecie di corruzione si avvertono nelle trattazioni più recenti, nelle quali non sempre è dato rilevare una univoca e decisa sottolineatura dell’importanza dell’atto d’ufficio negli artt. 318-322 c.p. (23). Da un lato l’atto d’ufficio viene considerato estraneo all’elemento oggettivo dell’illecito de quo, e relegato all’area dell’elemento soggettivo; un elemento finalistico cui però non si assegna alcun predicato in termini di tipicità, ma che ha solo cittadinanza nell’ambito dell’oggetto del dolo (24). Lo svilimento del requisito in questione giunge sino a risolvere il problema della competenza sull’atto in termini di assoluta neutralità, almeno nel caso della corruzione propria; perché, si afferma, ‘‘la violazione dei doveri d’ufficio si può commettere anche compiendo degli atti che esulano dalla competenza del funzionario: anzi, l’emanazione di un atto eccedente la competenza è una tipica violazione dei doveri d’ufficio’’ (25). Qui appare chiaro il rapporto che lega il ruolo assegnato all’elemento oggetto dell’indagine con la ricostruzione dell’oggettività giuridica tutelata dalle norme in questione; quanto più vaga e generica è questa, o appiattita sulla mera violazione del dovere, tanto più esigua diviene l’importanza del collegamento funzionale tra ricezione indebita e atto d’ufficio. Cosicché spesso — come è stato rilevato — la scarsa rilevanza assegnata al collegamento con l’atto d’ufficio sarebbe il portato di un’individuazione eccessivamente ampia del bene di categoria, ricostruito intorno ai generici concetti di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione, in modo da rovesciare il tradizionale insegnamento scolpito già nell’opera di Carrara, e da aprire la strada ad un delitto onnicomprensivo di ogni infedeltà patrimoniale (26). Secondo tale opinione, sintomatica dell’interpretazione dilatatrice sa(23) Rilievo condiviso da RONCO, op. cit., p. 1215. (24) Così VENDITTI, Corruzione (voce), cit., p. 757, in cui peraltro si giunge ad una conclusione che può apparire contraddittoria, almeno alla luce delle acquisizioni più recenti in tema di oggetto del dolo; se questo è costituito dal ‘fatto tipico’, ossia dagli elementi descrittivi e normativi che contribuiscono a definire la tipicità dell’illecito, (cfr., ad es., FIANa DACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, 3 ed., p. 314 ss.), e l’atto si afferma entrare in considerazione come ‘oggetto del dolo’, l’atto stesso è (indirettamente) considerato elemento della tipicità del delitto. La ricostruzione di VENDITTI, a ben vedere, sconta l’appartenenza culturale ad un’epoca in cui agli elementi finalistici, generalmente ricompresi nella categoria del dolo specifico, si assegnava cittadinanza nella sola sfera dell’elemento soggettivo del reato, senza riconoscere loro alcun apporto in chiave di tipicità; l’impostazione ha subito un deciso mutamento prospettico a seguito delle recenti approfondite indagini monografiche di PICOTTI (Il dolo specifico, Milano, 1993), e GELARDI (Il dolo specifico, Padova, 1996), in cui si dimostra, pur con diversità di accenti, il contributo strutturale che rivestono i c.d. elementi soggettivi della fattispecie (Subjektivenelemente der Tatbestand), cui oggi non può ragionevolmente negarsi un ruolo primario nella conformazione della stessa lesività oggettiva dell’illecito (v. anche DONINI, Teoria del reato (voce), in DDP, 1998, XIV, p. 44). (25) Così VENDITTI, op. cit., p. 759. (26) Così RONCO, op. cit., p. 1215, con riferimento alla posizione di FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 218.
— 934 — rebbe la critica che gli Autori muovono all’individuazione del bene tutelato nel divieto della vendita dell’atto: tale ricostruzione, invero, rovescerebbe ingiustificatamente il rapporto di mezzo a fine tra ciò che sarebbe un mero strumento (il divieto di retribuzione) e le esigenze di buon andamento e imparzialità, che costituirebbero il valore-fine. Di qui la conseguente aporia, immediatamente messa in luce: imparzialità e buon andamento sono il bene di categoria, tutelato in genere dalle previsioni delittuose contenute nel capo I del titolo II del codice, ma il bene specifico assunto ad oggetto dei reati di corruzione consisterebbe appunto nella proscrizione del baratto dell’atto (27). Pertanto, si conclude, ‘‘in un sistema imperniato sulla tipicità degli illeciti, la ricorrenza di una lesione all’interesse generico (l’imparzialità e il buon andamento) non è sufficiente ancora per l’integrazione del reato particolare, che tutela soltanto il nucleo più interno del reato generale, lasciando ad altre figure criminose, sussidiarie rispetto ad esso, la tutela dei profili di margine dello stesso bene di categoria’’ (28). Le considerazioni sembrano condivisibili, anche quando suggeriscono una lettura critica nei confronti dell’impostazione più saldamente ancorata ad una precisa oggettività giuridica di riferimento, appunto il divieto di retribuzione indebita per atti d’ufficio (29). Secondo tale autorevole posizione, se i delitti di corruzione sono volti a combattere l’illecita compravendita degli atti d’ufficio, ne consegue che tra atto e dazione indebita deve configurarsi un rapporto come tra prestazione e controprestazione; il che significa, in primo luogo, che l’atto d’ufficio deve essere individuato o almeno individuabile (30). Ma qui subentra — per citare l’espressione di Ronco — il ‘rischioso correttivo’, a ragion del quale tale individuazione potrebbe anche ‘‘limitarsi al genere degli atti, in quanto l’individuazione del genere comporterebbe anche l’individuazione di tutti i concreti atti d’ufficio che come species, vi rientrano’’; ovvero potrebbe essere ‘‘anche indiretta, nel senso che il pubblico ufficiale si impegni a compiere gli atti che saranno determinati in una maniera prefissata e, in particolare, persino attraverso successive manifestazioni di volontà del privato (31). La tesi è ripresa in diverse pronunce giusprudenziali, anche di legitti(27) Ibidem. (28) Ibidem. (29) Questa, come noto, la autorevole posizione di PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la pubblica amministrazione, 8a ed., Milano, 1998, p. 150; tesi, peraltro, già sostenuta dallo stesso A. in altro lavoro, La retribuzione indebita come nucleo essenziale dei delitti di corruzione, in questa Rivista, 1974, p. 57 ss. (30) PAGLIARO, op. ult. cit., p. 66. (31) Così ancora PAGLIARO già nel primo lavoro, loc. cit., ove si sottolineava (nota 21) che ‘‘solo così si può evitare l’inconveniente — che si verificherebbe nel caso di un’incontrollata accettazione del principio che la corruzione si può delineare solo in rapporto ad un atto concreto — di lasciare impuniti i casi più gravi, cioè quelli in cui il privato riesce a controllare tutta l’attività del pubblico ufficiale’’.
— 935 — mità (32), e muove dal comprensibile sforzo di assicurare, sul piano processuale, accertamenti probatori meno difficoltosi. In tale direzione, tuttavia, si rischia, una volta di più, di ridurre il diritto penale a funzione servente del processo, allentando i cardini della prova: ma se corrotta è tutta l’attività, oggetto di corruzione saranno anche i singoli atti in cui la stessa si estrinseca, e ciò in base ad un accordo che può anche essere anteriore ad essi e riguardare il complesso degli stessi, ma che nondimeno, pur in questo suo aspetto di generalità, deve essere provato (33). Analogamente, pare una posizione in parte compromissoria quella che afferma non essere necessaria una competenza specifica sull’atto, che colleghi l’atto alle mansioni del soggetto, ma sufficiente una competenza generica, integrata cioè quando l’atto rientri nella competenza dell’ufficio di appartenenza, e quando l’agente si trovi nella possibilità di compiere l’atto per il quale ha accettato l’utilità o la promessa (34). Posizione compromissoria perché risolve in modo aprioristico e attraverso un criterio meramente definitorio il problema, invertendo peraltro la logica imposta dal dettato normativo: se il soggetto mette a disposizione un atto, è necessario che sul compimento di questo abbia competenza specifica, ossia una competenza qualificata da poteri diretti; non sarà di regola sufficiente che egli possa intervenire o ‘influenzare’ il procedimento, se questo esula dalla sua sfera di attribuzioni. In questo caso potrà darsi, semmai, un caso di abuso d’ufficio (finalmente restituito ad un ruolo sussidiario) o, ricorrendone i presupposti dell’esercizio di influenze illecite, di millantato credito (o truffa). Occorre, quindi, ribadire l’importanza della connessione funzionale tra dazione illecita e atto determinato (35), rientrante nella competenza (32) Puntualmente segnalate da RONCO, op. cit., p. 1215. (33) Più deciso nell’affermare la centralità dell’accertamento specifico GROSSO (Commento agli artt. 318-322, in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino, 1996, p. 186; ID., Corruzione (voce), cit., p. 159), il quale afferma che ‘‘è necessario (...) accertare il collegamento delle condotte reciproche dei soggetti alla realizzazione di un preciso e concreto atto rientrante nelle competenze del soggetto pubblico’’, ‘atto’ che non può essere identificato da una ‘‘qualsiasi generica attività del soggetto pubblico che può di fatto interferire sugli atti d’ufficio di altro soggetto pubblico, e che potrebbe essere anche compiuta da qualsiasi privato dotato di autorità o potere personale che gli consenta di realizzarla’’; l’A., peraltro, basa la sua posizione proprio sull’opinione del Pagliaro, come si legge dal rinvio in nota, del quale infatti riprende parte delle conclusioni quando ammette essere da un lato ‘‘non necessario che l’atto sia individuato in tutta la sua specificità’’, e, dall’altro, essere sufficiente la competenza generica del soggetto agente, ossia l’avere ‘‘il compito di collaborare alla realizzazione’’ dell’atto. (34) Sul punto, cfr. MIRRI, Corruzione (voce), cit., p. 8, la quale prima puntualizza la necessità che l’atto rientri nella competenza del pubblico agente e che rappresenti l’esplicazione di poteri inerenti all’ufficio, poi sottolinea che si ritiene sufficiente una competenza generica, anche solo derivante dalla possibilità di influire positivamente sulla deliberazione dell’atto oggetto dell’accordo illecito. (35) Con estrema chiarezza sul punto, MIRRI, op. cit., p. 5, la quale sottolinea che ‘‘l’atto d’ufficio deve essere concreto e determinato’’, e che ‘‘l’espressione ‘per compiere un
— 936 — del soggetto; competenza connotata dall’attribuzione di un potere sull’atto stesso, al di là di aprioristiche distinzioni tra competenza generica e competenza specifica. 5.
Le indicazioni interpretative suggerite da un’indagine comparatistica: l’atto d’ufficio come limite alle ipotesi di traffico di influenze e di (mera) venalità della carica.
Per poter esattamente cogliere il significato del riferimento espresso all’atto d’ufficio nelle fattispecie di corruzione previste nel nostro ordinamento molto utile si rivela il confronto con la disciplina specifica di altri ordinamenti (36). La scelta di vincolare la fattispecie ad un elemento così tassativo non è infatti — come anticipato — che una delle opzioni possibili offerte al legislatore, che diversamente avrebbe potuto riferire la dazione indebita (e la promessa) non all’atto bensì — ad esempio — alla semplice attività d’ufficio, o al mero svolgimento del servizio, o persino alla sola qualifica soggettiva del destinatario. È chiaro che quanto più ci si allontana dall’attività dell’ufficio tanto più si perde quella connotazione funzionale della tutela che meglio risponde — come si vedrà — ai principi costituzionali in tema di pubblica amministrazione, e ci si avvicina (pericolosamente) ad una prospettiva formalistica tipica della tutela del prestigio della funzione pubblica e della fedeltà di chi la rappresenta. Solo questi ultimi interessi, ad esempio, possono dirsi protetti da una norma che ricostruisca come corruzione (rectius, come ‘indebita accettazione di utilità’) la dazione (o la promessa) di doni al funzionario pubblico in ragione della mera qualifica da questi rivestita. Cerchiamo dunque di delineare un quadro sinottico delle varie possibilità offerte da un’osservazione comparatistica utilizzando come direttrice appunto l’oggetto della nostra indagine, cioè il significato del riferimento esplicito e specifico all’atto d’ufficio nella struttura delle fattispecie atto di ufficio’ esprime la necessità di un rapporto di mezzo a fine tra la promessa o la dazione di un’utilità e il compimento dell’atto stesso’’. Sulla stessa linea, da ultimo, RAMPIONI, I delitti di corruzione, cit., pp. 3409-3411. (36) La scelta, a termine di paragone comparatistico, dei sistemi tedesco, francese e spagnolo, lungi dall’essere casuale, prende in considerazione ordinamenti in cui il fenomeno corruttivo assume, come in Italia, una medesima dimensione sistemica, dando luogo pertanto ad analoghe esigenze prasseologiche e conseguenti urgenze repressive. Per tale inquadramento, cfr. SAVONA-MEZZANOTTE, La corruzione in Europa, Roma, 1998, Carocci ed., cap. 3, p. 73 ss., in cui anche la Germania viene qualificata come paese a corruzione sistemica ‘‘emergente’’ (cap. 4, p. 101 ss.). Per un approccio comparatistico cfr. altresì STORTONI, La disciplina penale della corruzione: spunti e suggerimenti di diritto comparato, in IP, 1999, p. 1051 ss.; MANNA, op. cit., p. 126 ss. (con particolare riferimento ai modelli tedesco e francese).
— 937 — di corruzione, come previsto nella costellazione degli artt. 318-322 c.p., e dunque la collocazione strutturale dell’atto all’interno della fattispecie. 5.1. Il modello tedesco. — Quanto alla prima tesi prospettata, circa la necessaria determinatezza e individuazione dell’atto, un primo termine di paragone ci è offerto dall’ordinamento tedesco, dove la recente riforma della ‘‘Legge sulla lotta alla corruzione’’ (Gesetz zur Bekämpfung der Korruption, KBG) del 13 agosto 1997 ha profondamente mutato il quadro normativo di riferimento (37). La repressione della corruzione è affidata alle norme dei paragrafi 331-334 StGB, che prevedono sia la corruzione passiva (del pubblico ufficiale) sia la corruzione attiva (del privato), articolando la disciplina in diverse ipotesi di tutela. Anzitutto, come fattispecie-base, emerge una norma molto vicina alla semplice ‘‘venalità’’ della carica: il § 331 (Vorteilsannahme) sanziona il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che per lo svolgimento del servizio (für die Dienstausübung) riceve o si fa promettere un vantaggio per sé o per un terzo. Qui è punita la semplice accettazione di una retribuzione non dovuta a prescindere da ogni ulteriore conseguenza; per il solo svolgimento del servizio, senza riferimento ad alcun atto o azione, e proprio l’eliminazione del riferimento espresso alla Diensthandlung (azione d’ufficio) rappresenta — per quanto qui interessa — l’innovazione più significativa della riforma (38). (37) Sulla corruzione, prima della riforma, cfr. CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, sub § 331, p. 2255 ss.; TRÖNDLE, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, München, 1997, p. 1673 ss.; sulla legge di riforma, specificamente, SCHAPUENSTEINER, Korruption in Deutschland, relazione all’incontro di studio sul tema ‘Le forme internazionali di corruzione: strategie di contrasto in ambito europeo’, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Frascati, 11-13 maggio 1998; HUBER, Il sistema tedesco di lotta alla corruzione in comparazione con quelli di altri paesi europei, in corso di pubblicazione in RTDPE; aggiornato con la riforma anche RENGIER, Strafrecht, Besonderer Teil, II, München, 1998, p. 377 ss. (38) Molto significativa è la storia legislativa che ha interessato il § 331 StGB: la norma era infatti costruita originariamente attorno alla nozione di ‘‘azione d’ufficio’’, che vincolava l’interprete al riscontro concreto della ‘‘causale’’ della tangente (sul concetto di Diensthandlung nell’originario § 331, come concretizzazione dei doveri d’ufficio, cfr. CRAMER, op. cit., sub § 331, p. 2258, 7-13). Conseguentemente, pur essendo rubricata già allora come ‘‘Vorteilsnahme’’ (che letteralmente significa ‘‘accettazione di vantaggi’’, ‘‘presa di utilità’’) nella traduzione italiana del Codice penale tedesco ad opera di DE SIMONE, FOFFANI, FORNASARI, SFORZI (collana curata da VINCIGUERRA), Padova, 1994, veniva tradotta come ‘‘Corruzione passiva per un atto d’ufficio’’, e correttamente, preme sottolineare, perché nella sostanza la fattispecie corrispondeva al ‘‘nostro’’ art. 318 (ad eccezione della variante — non priva di rilevanza concreta — ‘‘azione d’ufficio’’ rispetto all’ ‘‘atto d’ufficio’’ su cui è incentrata la fattispecie italiana). Successivamente, proprio per esigenza di ampliare lo spettro della tutela nei confronti dell’incalzare del fenomeno corruttivo (e alle connesse necessità di semplificazione probatoria, come rileva SCHAPUENSTEINER, op. cit., p. 11 del dattiloscritto), con la riforma del 13 agosto 1997 è stato sostituito l’inciso ‘‘per aver compiuto o per compiere una azione d’ufficio’’ con l’attuale ‘‘per lo svolgimento del servizio’’ (Dienstausübung),
— 938 — Il risultato di una tale innovazione è evidente anche sul piano delle prospettive di tutela, anticipata ad una soglia di pericolo solo indiretto nei confronti dell’attività amministrativa; una tutela assicurata all’amministrazione già nella sua dimensione ‘statica’, dunque, e non sotto il profilo dinamico-funzionale (39). Nel successivo § 332 StGB (Bestechlichkeit), è punita più severamente l’ipotesi direttamente riconducibile al nostro delitto di corruzione, ove si persegua, si riceva o si accetti la promessa di un vantaggio come retribuzione (als Gegenleistung) per aver compiuto o per compiere in futuro una ‘azione’ d’ufficio (eine Diensthandlung); nell’ipotesi più grave resta, dunque, il riferimento all’azione d’ufficio come elemento tipicizzante del delitto (40). Per quanto attiene al secondo problema che ci interessa, quello della necessaria appartenenza dell’atto alla competenza del soggetto e dell’irrilevante abuso della mera qualità, occorre precisare che pur a fronte dell’estensione della fattispecie del § 331 attraverso l’esclusione del riferimento alla Diensthandlung (41), il riferimento allo ‘svolgimento del servizio’ trasformando così una fattispecie di corruzione per un atto in una fattispecie di venalità della carica. La fattispecie, così riformata, permette ad esempio di ricomprendere le ipotesi in cui si elargiscono emolumenti a pubblici agenti a futura memoria, spesso nell’imminenza del loro insediamento (c.d. ‘condizionamento del clima’, cfr. infra, n. 42); per riparare la pretesa lacuna del nostro sistema sul punto, è stata avanzata (CONTENTO, La riforma ‘‘minima’’ della concussione e della corruzione, in RTDPE, 1995, pp. 726 ss., 727) la proposta di introdurre una nuova figura di reato che ‘‘riguardi il fatto di versare del denaro, o procurare altra utilità, a un pubblico ufficiale per comperarne il favore a futura memoria’’. (39) Con conseguente allontanamento — come si vedrà — della struttura della Vorteilsnahme dal modello dell’abuso di potere. La stessa logica ha condizionato la riforma del § 333, che disciplina il fenomeno dal punto di vista del privato, estendendo le pene al soggetto che ‘concede, offre o promette’ il vantaggio per il mero ‘svolgimento del servizio’; ma qui è avvenuto un allontanamento ancor più deciso da una prospettiva di tutela funzionale, poiché nella formulazione precedente, oltre alla limitazione della fattispecie alla (futura) ‘azione d’ufficio’, perché il delitto fosse integrato occorreva altresì che questa ricadesse nell’ambito dei poteri discrezionali del pubblico agente, cosicché il privato non era punito se l’azione ‘sollecitata’ fosse ‘vincolata’, cioè non sottomessa ad alcun apprezzamento discrezionale. In breve, oltre all’irrilevanza della corruzione attiva impropria susseguente, non era punita la corruzione attiva impropria in atti vincolati, ma solo quella in atti discrezionali (ma se l’azione era discrezionale, e con la dazione si fosse cercato di condizionare l’esercizio della discrezionalità, veniva in rilievo la più grave ipotesi di corruzione propria — Bestechung — di cui al § 334, comma 1 e 3, n. 2: cfr. CRAMER, op. cit., sub § 333, p. 2272, 4). (40) Così pure resta il riferimento specifico ad un’azione giudiziaria (‘eine richterliche Handlung’) nella corruzione in atti giudiziari, sia nella forma di corruzione impropria (§ 331, comma 2), sia nella forma propria (§ 332 comma 2). (41) Le restrizioni imposte da un tale riferimento (oltre all’onere probatorio accennato alla nota precedente) erano considerate insormontabili in tutti i casi in cui non fosse possibile provare un immediato riferimento tra la dazione e l’atto del servizio, come ad esempio quando l’atto in cui fosse ravvisabile questa connessione fosse preceduto da una lunga fase di dazioni esclusivamente finalizzate ad indurre il pubblico ufficiale ad una sorta
— 939 — (Dienstausbung) impone di ritenere irrilevanti le dazioni unicamente riconnesse alla mera appartenenza pubblica del destinatario (42), e così pure le dazioni finalizzate all’influenza su atti estranei al servizio svolto. Infatti, anche nell’ampio spettro di tutela garantito dalla fattispecie di Vorteilsnahme si deve pur sempre versare nell’ambito del ‘‘Dienst’’, del ‘‘pubblico servizio’’ inteso appunto come complesso di attribuzioni giuridiche che individuano la ‘‘competenza’’; in altre parole, anche in questo caso occorre che sia almeno prospettabile un abuso di poteri funzionali, escluso il quale non è configurabile neanche questa più generica ipotesi di reato (43). Il fenomeno del c.d. traffico di influenza sarebbe dunque irriducibile di dipendenza (c.d. ‘Anfüttern’): cfr. WICK, Esercizio dell’azione penale e reati contro la p.a.: esperienze di una procura, relazione al convegno di studi su ‘Abuso d’ufficio: conservare, sopprimere, modificare?’, Torino, 11-12 ottobre 1996, p. 8 del dattiloscritto. Che queste forme prodromiche al vero e proprio accordo illecito siano oggi perseguibili è implicitamente ammesso da SCHAPUENSTEINER (op. cit., p. 11), a parere del quale rientrerebbero nell’area del penalmente rilevante alla luce della citata riforma dei §§ 331-333 StGB, assieme ad altre tipologie di dazioni e accettazioni indebite come ad esempio i pagamenti occasionali all’inizio della ‘stagione degli appalti’, e i pagamenti per creare il c.d. ‘clima ambientale’ (c.d. Klimapflege) ossia per acquisire una generalizzata benevolenza presso l’ufficio interessato, perché tutti riconducibili allo svolgimento del servizio (conforme RENGIER, op. cit., p. 388, 19, 29 ss.). (42) Lo esclude espressamente SCHAPUENSTEINER, op. cit., p. 12; dello stesso avviso HUBER, op. cit., p. 9. (43) Così dovrebbe essere nel citato caso Bondaz (Cass., Sez. VI, 6 febbraio 1997, cit.), perché l’azione esercitata, ossia l’influire su altro soggetto, anche volendo forzare il dato testuale, non può certo essere ricondotta neanche al più vasto concetto di ‘servizio pubblico’, essendo qualificabile semmai come attività ‘privata’, facilitata dalla considerazione o dall’influenza connessa alla carica rivestita: sul punto CRAMER, op. cit., p. 2259, 10. Tuttavia, anche nella interpretazione giurisprudenziale d’oltralpe si registravano — già sotto la vigenza della precedente formulazione, legata all’ ‘azione d’ufficio’ — decisioni che consideravano configurata la corruzione anche se l’azione fosse non espressamente riconducibile ai compiti legislativamente assegnati alla competenza del soggetto, bensì fosse stata solo facilitata allo stesso dalla ‘posizione dell’ufficio’ o, pur di competenza di altri, fosse comunque riconducibile all’ambito di occupazioni dell’ufficio del destinatario della dazione: critico CRAMER, op. cit., p. 2259, 9, il quale correttamente ammette una tale estensione solo ove possa dirsi sussistere un nesso funzionale tra i compiti dell’autore diretto e l’azione d’ufficio (conformemente, nel senso della necessità ‘per lo meno di una connessione funzionale’, RENGIER, op. cit., p. 387). Da notare che in base al comma 3 del § 332 (Bestechlichkeit) nel caso in cui il vantaggio procacciato, fattosi promettere o ricevuto dal pubblico agente sia per una azione futura (für eine kunftige Handlung) sono applicabili le ordinarie norme in tema di corruzione passiva (Bestechlichkeit) solo se l’autore ha già dimostrato al privato di violare i suoi doveri nell’ambito dell’azione o — ricadendo l’azione nella sua discrezionalità — che la dazione illecita influenzerà l’esercizio del suo potere discrezionale (altrimenti, presumibilmente, si applicherebbe la meno grave fattispecie di Vorteilsnahme, a dimostrazione dello sforzo evidente del legislatore tedesco di ridurre l’applicazione di fattispecie così gravi ai soli fatti davvero caratterizzati da una strumentalizzazione della funzione pubblica e dei poteri corrispondenti).
— 940 — alla fattispecie di corruzione anche a fronte di una molto meno circoscritta area applicativa della stessa. È questo un dato molto importante ai fini della nostra indagine, perché segna la distanza concettuale che separe le ipotesi di corruzione (anche solo indirettamente riconducibili alla funzione o al servizio, e non ‘funzionalmente’) dalle ipotesi di abuso della (sola) qualità, esemplificate dall’esercizio di influenza su atti estranei alla competenza. Un primo segno della prossimità concettuale della corruzione al paradigma dell’abuso di potere. 5.2. Il modello francese. — A riprova, un ulteriore termine di paragone ci è offerto dall’ordinamento francese, dove le ipotesi di corruzione e traffico di influenza sono regolate nel medesimo articolo — a conferma del fatto che le due norme interessano ambiti comuni (44) — pur focalizzando differenti tipologie e modalità di illecito (e di lesione). Nel regolare la ‘‘Corruzione passiva e il traffico di influenza commesso da una persona esercente una pubblica funzione’’ (45), l’art. 43211 del nuovo codice penale francese sanziona il fatto, compiuto da una persona depositaria dell’autorità pubblica, incaricata di una missione di servizio pubblico, o investita di un mandato elettivo pubblico, di sollecitare o di accettare (46), senza diritto, direttamente o indirettamente, offerte, promesse, doni, regali o vantaggi qualsiasi: (44) Come espressamente afferma la relazione ministeriale, a commento della scelta innovativa di riunire sotto un unico articolo le due ipotesi: Circolare del 14 maggio 1993, a commento delle disposizione del nuovo codice penale, in appendice al Code Pénal/Nouveau Code Pénal, Dalloz, Paris, 1993-4, p. 2166. (45) Sulla disciplina dell’ordinamento francese — sostanzialmente immutata nel nuovo codice del 1992 — in tema di corruzione e il traffico di influenza si veda VITU, Corruption passive et trafic d’influence commis par des personnes exerçant une fonction publique, in Jurisclasseur penal (1993), art. 432-11; ID., Corruption active et trafic d’influence commis par des particuliers, ivi, artt. 433-1 e 433-2; MERLE-VITU, Traité de droit criminel, Droit pénal special, Paris, Cujas, 1982, p. 283 ss.; VOUIN, Droit pénal spécial, Paris, Dalloz, 1988, 6a ed. (curata da Rassat), p. 698 ss.; JEANDIDIER, Droit pénal des affaires, Paris, Dalloz, 1996, 2a ed., p. 29 ss.; VERON, Droit pénal special, Masson, Paris, 1996, 5a ed., p. 267 ss. (46) La ricomprensione entro la medesima norma delle due condotte della sollecitazione e dell’accettazione, che nel nostro ordinamento identificano l’istigazione alla corruzione e la corruzione stessa, è un dato di estremo interesse che aiuta a chiarire il confine che limita (o dovrebbe limitare) le rispettive aree di rilevanza delle fattispecie di corruzione e concussione. Infatti, mancando nell’ordinamento francese una fattispecie analoga alla nostra ‘‘Istigazione alla corruzione’’, ed essendo la fattispecie di ‘‘Concussion’’ (art. 432-10) una norma specifica circoscritta (in modo alquanto arcaico) agli abusi commessi nella sola materia dell’esazione di imposte, tasse e contributi, resta proprio la norma sulla corruzione quella destinata a regolare le ipotesi di concussione per induzione. La condotta tipica entro cui tali ipotesi possono essere ricomprese è la ‘‘sollecitazione’’, regolata, come accennato, nella stessa disposizione che sanziona la corruzione: e tale identità di disciplina testimonia ulteriormente la prossimità delle due ipotesi, a fronte della quale risulta estremamente problematico tracciare una linea di separazione netta. Tant’è che, per sciogliere il nodo gordiano dell’individuazione di un criterio alla cui stregua stabilire la
— 941 — 1) sia per compiere o astenersi dal compiere un atto della sua funzione, della sua missione o del suo mandato o facilitato dalla sua funzione, dalla sua missione o dal suo mandato; 2) sia per abusare della sua influenza reale o supposta in vista di fare ottenere da una autorità o da un amministrazione pubblica delle onorificenze, degli impieghi, degli appalti o altre decisioni favorevoli (47). La norma conferma la cesura che stacca corruzione (abuso della funzione) e traffico di influenza (abuso della qualità). In particolare, il confronto tra i due numeri dell’articolo chiarisce esservi uno spazio concettuale tra le due fattispecie non solo quando la corruzione è strutturata con riferimento al compimento di un atto ‘‘della funzione’’, ma altresì quando tale riferimento è esteso ad un atto anche solo ‘‘facilitato dalla funzione’’ (48); cosicché si ammette implicitamente che l’ipotesi del traffico di influenza — prevista autonomamente (49) — non responsabilità del privato, la scelta legislativa è quella di reciderlo di netto, parificando sul medesimo piano della ‘‘Corruption active et du trafic d’influence commis par les particuliers’’ (art. 433-1) sia la condotta del privato che promette la dazione indebita per ottenere l’atto o l’esercizio dell’indebita influenza, sia la condotta del privato che ‘‘cede’’ le medesime offerte, promesse doni regali o vantaggi qualsiasi (comma 2) per ottenere i medesimi risultati; cioè la condotta simmetrica alla sollecitazione-induzione del pubblico agente. Con buona pace del travaglio tutto italiano che da sempre periclita tra le incerte variabili del coactus tamen voluit, della vis grata puellae, della vis cui resisti non potest, del volenti non fit iniuria, e degli altri cliché che, sul crinale del discrimen corruzione-concussione, sempre più traspaiono in controluce nelle evoluzioni dottrinali e giurisprudenziali (e non solo nei trascorsi del ceto imprenditoriale, come condivisibilmente rileva PADOVANI, Il problema ‘‘tangentopoli’’ tra normalità del’emergenza ed emergenza della normalità, cit., 449). Per un’analisi sulla condivisibilità di tale opzione legislativa, si rinvia a MANES, La concussione ambientale da fenomenologia a fattispecie extra legem, in FI, 1999, II, p. 644 ss. (47) In entrambi i casi, la scelta del codice francese è quella di punire solo la corruzione (indifferentemente propria e impropria) antecedente, cosicché l’accettazione posteriore all’atto della funzione compiuto, omesso o ‘influenzato’, rappresenta una violazione meramente disciplinare: sul punto, VITU, op. ult. cit., pp. 16, 93. (48) Peraltro, anche in questo caso — come nella disciplina dello StGB — siamo di fronte ad una modifica sopravvenuta rispetto alla disciplina originaria della corruzione, modifica che muove nel solco di una progressiva estensione della repressione e che accoglie con la dovuta espressa previsione un consolidato indirizzo giurisprudenziale, che anche quando la norma (artt. 177 ss. del codice precedente) vincolava l’accordo illecito ad un ‘acte de la fonction’ (prima della riforma del 1943), riteneva configurata la fattispecie nel caso l’atto fosse solo ‘facilité par elle’: sul punto, VITU, Corruption passive et trafic d’influence commis par des personnes exerçant une fonction publique, cit., pp. 9, 38. Per ‘acte facilité par la fonction’ deve intendersi, ancora secondo VITU (ivi, pp. 20, 115), ‘‘ogni atto che, benché non corrispondente alle prerogative espressamente concesse all’interessato dalla legge o i regolamenti, è stato ciononostante reso possibile da queste in ragione dello stretto legame che unisce le attribuzioni e l’atto’’. (49) Peraltro, la rilevanza penale del ‘traffico di influenza’ è stabilita anche nei confronti dei privati, e non solo nel caso del privato che ‘‘paga’’ perché il pubblico agente eserciti la sua influenza per ottenere ‘‘onorificenze, impieghi, affari e ogni altra decisione favore-
— 942 — rientrerebbe neanche in una fattispecie di corruzione ‘meno vincolata’ all’atto di quanto non siano i nostri artt. 318-319 c.p. (50). Inoltre, per quanto attiene all’individuazione dell’atto della funzione o solo facilitato da essa, pur non conoscendo l’ordinamento francese la differenza tra corruzione propria e impropria, la dottrina e la giurisprudenza sottolineano la necessità di stabilire esattamente la natura dell’atto ‘‘per separare gli atti della funzione o facilitati da quella dagli atti che che sono totalmente al di fuori da questa funzione, e che per conseguenza non possono rilevare (ai fini della configurazione del reato) in base al testo della disposizione’’ (51). Ancora, una tale esatta individuazione è altresì ritenuta fondamentale per stabilire la sequenza cronologica che ha caratterizzato la fattispecie concreta, essendo la rilevanza penale del fatto vincolata alla sola ipotesi che la promessa (o l’accettazione) abbiano preceduto l’atto, cioè alla sola corruzione antecedente (52). 5.3. Il modello spagnolo. — Un’impostazione molto simile all’esempio francese è adottata nel nuovo codice spagnolo, in cui le varie ipotesi di corruzione (denominate ‘cohecho’) presentano la stessa ampiezza di contorni nel riconnettere l’atto alla funzione (53). Così, ad esempio, nell’art. 420 del Código Penal, ove si punisce ‘‘L’autorità o funzionario pubblico vole’’ (art. 433-1) ciò che sarebbe l’aspetto speculare della fattispecie dell’art. 432-11; ma anche nei confronti del privato che offre dazioni perché un altro privato eserciti la sua influenza per ottenere gli indebiti vantaggi; ed è punito persino il privato che accetta tali offerte (art. 433-2, alinéa 1) o semplicemente ‘‘cede alle sollecitazioni’’ avanzate dal terzo (art. 433-2, alinéa 2). (50) E ciò pur propendendosi in dottrina (e in giurisprudenza) per una nozione ‘lata’ di atto della funzione, in cui si fanno rientrare non solo gli atti il cui compimento (o astensione) è imposto dalle attribuzioni legali o regolamentari della persona titolare di quella funzione, ma anche quelli imposti dai (generici) doveri di obbedienza, probità, discrezione e fedeltà: così VITU, op. ult. cit., pp. 18, 100, e giurisprudenza ivi citata. D’altronde, proprio la sostenuta inapplicabilità delle norme su corruzione e truffe alle ipotesi di traffico di influenza rappresenta la ragione ’’storica’’ della previsione legislativa del ‘Traffico di influenza’: ibidem, pp. 10, 41. Attualmente, non manca chi segnala, in alcuni casi, la difficoltà di distinzione tra corruzione per un atto solo facilitato dalla funzione e traffico di influenza: cfr. VERON, op. cit., p. 269. (51) Così VITU, op. ult. cit., pp. 25, 148, con numerosi riferimenti giurisprudenziali. (52) Così sia per la corruzione che per l’ipotesi di traffico di influenza, tanto che l’accettazione posteriore all’atto della funzione compiuto, omesso o ‘influenzato’, rappresenta una violazione meramente disciplinare: sul punto, ancora, VITU, op. ult. cit., pp. 16, 93; la giurisprudenza generalmente puntuale nell’accertamento della priorità temporale dell’accordo, si mostra tuttavia meno scrupolosa quando le relazioni tra corrotto e corruttore siano ripetute o frequenti, ritenendo sufficiente in tal caso la regolarità della corrispondenza vantaggio-atto per dimostrare che la dazione illecita ha preceduto e determinato il corrotto (cfr. JEANDIDIER, op. cit., p. 32). (53) Sui delitti contro la ‘Administración Publica’, in generale, si veda MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, in AA.VV., Comentarios al Nuevo Codigo Penal (a cura di QUINTERO OLIVARES), Pamplona, 1996, p. 1769 ss.; v. anche POLAINO NAVARRETE, in AA.VV.,
— 943 — che, a profitto proprio o di un terzo, sollecita o riceve, per sé o per interposta persona, una dazione o una promessa per eseguire un atto illecito relativo all’esercizio del suo ufficio’’; questa ipotesi, inquadrabile nella corruzione propria antecedente, risulta vincolata ad un atto d’ufficio, anche se con la locuzione ‘relativo all’esercizio dell’ufficio’ il riferimento sembra meno diretto che quello previsto nei nostri artt. 318-319 c.p. Un riferimento più preciso compare invece nella norma che regola le ipotesi di corruzione impropria antecedente e susseguente, l’art. 425 c.p., che punisce i medesimi soggetti che sollecitino una dazione (o regalo) o ne accettino l’offerta o la promessa ‘per realizzare un atto proprio della funzione o come ricompensa di quello già realizzato’, cioè un atto oggettivamente conforme all’ordinamento giuridico; norma che si pone come fattispecie sussidiaria e residuale rispetto agli artt. 419, 420, 421, applicabile quando non può provarsi che l’atto eseguito (o pattuito) risulti contrario alle norme legali. Inoltre, la normativa prevede anche l’ipotesi specifica più grave in cui l’atto ‘corrotto’, commesso ‘nell’esercizio della funzione’, sia un atto costitutivo di delitto (artt. 419 e 425 comma 2) (54). La graduazione delle ipotesi lato sensu riconducibili alla corruzione sfuma fino ad appiattirsi su un delitto di mera ‘venalità della carica’, l’art. 426, che punisce il soggetto pubblico che accetta la dazione illecita ‘in considerazione della funzione o per conseguire un atto non proibito legalmente’. La differenza è spiccata: nelle ipotesi in cui è presente — pur a fronte di una tecnica di definizione legislativa sicuramente deficitaria — un riferimento all’atto diretto (art. 425, comma 1) o anche solo indiretto (artt. 419, 420), la dottrina più attenta sottolinea come l’atto debba essere determinato o determinabile (55) e rientrare nella competenza (anche solo generica) del funzionario, o quanto meno nella sua competenza ‘di fatto’; il che significa che anche se il pubblico funzionario non è specificamente competente sull’atto lo stesso deve, quanto meno, risultare essere stato facilitato — come nell’ordinamento francese — dall’appartenenza di questi al servizio o organo competente per la sua emanazione (56). In particolare, circa la determinatezza dell’atto d’ufficio e il suo acCurso de Derecho Penal Español, Parte especial, II (a cura di COBO DEL ROSAL), Madrid, 1997, p. 363 ss. (54) Resterebbe non espressamente regolata l’ipotesi in cui la corruzione susseguente abbia ad oggetto un atto illecito, ossia contrario ai doveri d’ufficio, cioè l’ipotesi di corruzione propria susseguente. In mancanza di previsione espressa, questa pare riconducibile alla norma generale dell’art. 425, comma 1, che appunto fa riferimento senza distinzioni ad un ‘atto proprio della funzione’. (55) Cfr. MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, op. cit., sub art. 421, p. 1854. (56) Così MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, op. cit., sub art. 419, p. 1845, e giurisprudenza conforme ivi citata, secondo la quale il delitto di ‘cohecho’ sarebbe escluso (in favore della più generica truffa) nel caso in cui l’atto risulti completamente alieno alle facoltà legalmente assegnate al funzionario.
— 944 — certamento, se da un lato si sottolinea l’irrilevanza della realizzazione dello stesso sotto il profilo dell’offesa al bene giuridico protetto, offesa integrata dalla perfezione dell’accordo illecito, dall’altro si pone giustamente in evidenza l’importanza della sua esatta individuazione, anche ai fini dell’indagine tesa ad identificare quale ‘tipo’ penale viene in rilievo (corruzione per un atto ‘costitutivo de delito’, per un atto ‘injusto’, per un atto ‘proprio’ etc.) (57). A ‘chiudere’ il sistema, le fattispecie di traffico di influenza, a dimostrazione che anche in presenza di una fattispecie di corruzione totalmente svincolata dall’atto e quindi da un abuso della funzione (come l’art. 426), l’ipotesi di abuso della qualità tipica di chi esercita mediazioni e influenze illecite conserva, quanto meno su di un piano astratto, una dimensione autonoma e un’identità specifica (58): l’art. 428 del Código Penal (ulteriore materia riformata con la Ley Organica 10/1995) costruisce il delitto di ‘‘Trafíco de influencias’’ su connotati di disvalore del tutto autonomi rispetto alle fattispecie di corruzione. È punito il fatto del funzionario pubblico o autorità che ‘‘influisce’’ (influyere) su altro funzionario pubblico o autorità ‘‘avvalendosi dell’esercizio delle facoltà del suo incarico o di qualsiasi altra relazione derivata dalla sua relazione personale o gerarchica con questo o con altro funzionario o autorità per ottenere un provvedimento che gli possa generare direttamente o indirettamente un beneficio economico per sé o per un terzo’’. Non vi è traccia del sinallagma tipico del delitto di corruzione, il modulo di disvalore su cui muove la norma è l’abuso della qualità; o neanche questo, quando si prevede nella forma residuale che è punito anche chi si avvale di ‘‘qualsiasi altra relazione’’, derivata non dalla sua qualifica ma anche dalla semplice relazione personale con il soggetto destinatario dell’influenza illecita. Tirando le somme dell’analisi, può concludersi che non è solo la regolazione espressa dell’ipotesi tipica di traffico di influenze da parte di altri ordinamenti, ma il contesto sistematico in cui essa è prevista, al fianco di fattispecie di ‘corruzione’ connotate da un’area di tipicità ben più estesa delle corrispondenti norme del codice penale italiano, a confermare l’irriducibilità di una tale ipotesi a queste ultime (come strutturate nel nostro codice): nell’ipotesi del traffico di influenza non rileva, in definitiva, la connessione funzionale tra l’atto e i compiti della funzione, non si pro(57) Ancora MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, op. cit., p. 1852. (58) La materia del traffico di influenze è divisa in tre norme, di cui secondo la dottrina solo una, l’art. 430 (ipotesi molto vicina al nostro ‘millantato credito’), potrebbe realmente definirsi tale, mentre le due precedenti (artt. 428-9) rappresenterebbero ipotesi di interferenze illecite molto vicine all’area della corruzione; rispetto a tutte e tre le disposizioni, comunque, non si comprenderebbe l’esenzione da pena del pubblico agente su cui l’influenza è esercitata, cui tutt’al più saranno applicabili le norme residuali sull’abuso nell’esercizio della funzione (in particolare l’art. 439) o la fattispecie di ‘Prevaricación’ (art. 404: cfr. MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, op. cit., pp. 1878-9).
— 945 — spetta dunque un caso di abuso di potere, ma rileva il mero abuso della qualità (59). Non a caso la fattispecie, negli ordinamenti dove è prevista, è al centro della critica della dottrina, poiché soffre esasperati limiti di indeterminatezza, come tutte le norme incentrate sul mero abuso della qualifica, sulla strumentalizzazione della posizione rivestita a prescindere dall’esercizio di un potere giuridico in sé legittimo. 6.
Excursus: sulla necessità di introdurre una fattispecie di ‘traffico di influenza’.
Appurata l’irriducibilità delle ipotesi di mero ‘traffico di influenza’ al quadro normativo delineato dai delitti di corruzione degli artt. 318-322 c.p., si può certo discutere circa la necessità di introdurre una simile fattispecie nel nostro ordinamento, per coprire gli eventuali vuoti di tutela; così, ad esempio, nel caso in cui manchi una connessione — anche se mediata o indiretta, cioè ‘filtrata’ attraverso un intermediario — tra dazione illecita ed atto ‘corrotto’, come nel caso Bondaz (60), o nel caso della semplice ‘raccomandazione’. Che vi sia una effettiva esigenza di tutela è lecito, tuttavia, dubitare, ove si rifletta che nella maggior parte dei casi riconducibili al c.d. traffico di influenze illecite — specie nell’ambito del sistema corruttivo tipico della fenomenologia di ‘Tangentopoli’ — il soggetto ‘influenzato’ sa di essere il terminale operativo (o esecutivo) di un accordo illecito intervenuto ‘a monte’, che ha come oggetto la compravendita della funzione, pattuita dai relativi referenti politici (61). Allora, a ben vedere, il caso non si dimostrerebbe diverso dalle ipotesi di c.d. esecuzione frazionata nell’ambito della realizzazione plurisoggettiva del fatto, e potrebbe essere risolvibile alla luce della normativa generale sul concorso di persone nel reato: sulla base, cioè, della prova del dolo in capo all’esecutore, ossia della rappresentazione e volizione di questi di porre in essere l’ultima frazione di una condotta che, nel complesso — ossia nel montaggio finale di più sequenze — integra la fattispecie di corruzione (e non l’eventuale mero abuso d’ufficio), rappresentando la contropartita di una dazione o di una promessa ‘mediata’ attraverso un terzo (62). Occorre dunque chiarezza sul punto; se una norma sul traffico di in(59) Così, espressamente, anche VITU, op. ult. cit., pp. 21, 119. (60) Cass., Sez. VI, 6 febbraio 1997, Bondaz, citata supra, nota 8. (61) Su tale degenerazione, ‘autentico cancro del regime democratico’, v. PADOVANI, Il problema ‘Tangentopoli’, cit., p. 459. (62) D’altronde, questa soluzione — la configurabilità di un’ipotesi di concorso in corruzione — è pacificamente accettata anche in ordinamenti dove una fattispecie ad hoc è prevista, come nell’esempio spagnolo: sul punto, MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, op. cit., p. 1878.
— 946 — fluenza deve essere intesa come un’ulteriore fattispecie-mezzo di semplificazione probatoria (escludendo la necessità di provare un tale legame psicologico in capo all’esecutore) o persino come ulteriore chiave d’accesso dell’accertamento penale, allora la previsione de lege ferenda non sembra degna di essere presa neanche in considerazione, bastando l’infausta esperienza dell’abuso d’ufficio a scongiurare un’ipotesi siffatta. Se invece, il fenomeno delle influenze e/o interferenze illecite, delle mediazioni affaristiche, delle ‘pressioni’ svincolate da un quadro corruttivo coordinato e programmatico, o persino delle ‘semplici’ raccomandazioni, fosse ritenuto — sulla base di una consapevole presa di posizione politico-criminale — meritevole di tutela penale dal nostro legislatore, allora avrebbe senso interrogarsi sull’autonoma ragion d’essere e sull’effettivo rapporto costi-benefici che una tale fattispecie esprimerebbe. Da un lato infatti, al folto reticolo di norme incentrate su abuso di potere e abuso della qualità se ne aggiungerebbe un’altra idonea a ulteriormente soffocare i già esigui spazi di frammentarietà rimasti nella trama normativa dello statuto penale della p.a., spazi che la riforma dell’abuso d’ufficio ha voluto in certo senso (almeno nelle intenzioni) ripristinare, volendo altresì restituire valore allo scarto che — in base ad un pur minimo coefficiente di sussidiarietà — deve separare illecito penale e illecito disciplinare. Dall’altro la norma ipotizzata, per la particolare natura della materia criminis su cui si innerva, sconterebbe deficit di determinatezza difficilmente superabili sul piano della tecnica di tipizzazione legislativa (basti pensare all’esempio spagnolo, difficilmente utilizzabile come ‘modello’) (63). E finirebbe col recare in sé più difetti che pregi, aumentando il (63) I difetti sotto il profilo della tecnica legislativa sono unanimamente messi in luce nella dottrina di lingua spagnola (specie per ciò che riguarda la già accennata — retro, n. 58 — ingiustificata impunità del funzionario che si lascia ‘influenzare’): cfr. MORALES PRATSRODRIGUEZ PUERTA, op. cit., p. 1882; POLAINO NAVARRETE, op. cit., p. 390. In linea generale, gli artt. 428-430 Código penal prevedono una repressione del fenomeno ‘ad ampio raggio’ in cui è assegnata rilevanza penale non solo al fatto di avvalersi, per esercitare influenza su altro funzionario, dell’ ‘esercizio delle facoltà dell’ufficio’ ma anche allo sfruttare ‘qualsiasi situazione derivata da relazione gerarchica’ o anche semplicemente ‘personale’, ‘con questi o con altro funzionario’ (c.d. traffico di influenza a catena); e in cui si estende la sfera dei soggetti attivi anche ai ‘privati’, fino ad anticipare la tutela alle condotte di ‘sollecitazione’ o di ‘intromissione’ di chi si offre di esercitare l’influenza domandando come contropartita compensi di qualsiasi genere (art. 430). Inoltre, nella formulazione del 1995, i risultati dell’influenza esercitata dal pubblico agente (art. 428) e dal privato (art. 429), cioè il conseguire un provvedimento favorevole per sé o per un terzo, da evento in senso tecnico sono stati trasformati in elementi finalistici (rectius, secondo la denominazione di matrice germanica usuale nella dottrina spagnola, elementi soggettivi dell’illecito), che non è necessario si realizzino, bastando la prova dell’orientazione della condotta a quel fine: il che contribuisce ancor più a far dubitare sul diritto di cittadinanza di una norma siffatta in un ordinamento basato sui principi di determinatezza, di offensività, oltre che — anche se può sembrare ormai illusorio ricordarlo — di sussidiarietà. Ciò premesso, in seno alla dottrina spagnola non manca chi — alla luce di un’appro-
— 947 — carico di aleatorietà che già caratterizza l’accertamento penale in questo settore. Risulterebbe, in definitiva, una ennesima ostentazione di energia statuale priva di concreta effettività, nell’illusorio convincimento che vede il diritto penale strumento risolutivo in un settore dove — come si avrà modo di segnalare nel prosieguo dell’indagine — sempre più le tecniche repressive penali stanno mostrando la corda, tanto da essere poste in seria discussione. 7.
Il raccordo con i parametri costituzionali.
L’ammissibilità delle conclusioni prospettate al vaglio dell’analisi storica e comparatistica, da cui emerge che la tipicità dei reati di corruzione nel nostro ordinamento è costruita intorno al fondamentale nesso con l’atto d’ufficio — ‘precipitato tecnico’ della concezione germanistica della corruzione come ‘baratteria’ — deve ora scontare il confronto decisivo, condotto alla luce dei principi costituzionali che assumono rilevanza in materia. Il tramite dogmatico ed ermeneutico per un tale procedimento logico, sulla scorta dell’impostazione tradizionale, è l’indagine sul bene giuridico. Se il reato è offesa (selettiva) ad un bene giuridico (e non, ad esempio, mera violazione di un dovere) (64), occorrerà anzitutto individuare il punto focale della lesione, per poi verificare se lo schema di tipicità di offesa comune alla costellazione delle ipotesi di corruzione risponde — al termine di quel ‘circolo ermeneutico’ che dalla fattispecie rinvia al bene tutelato e da questo ritorna agli elementi del Tatbestand — alla fisionomia normativa dell’oggetto giuridico stesso. Quest’ultimo, specie in questa materia dove assume una dimensione istituzionale, deve essere aggiornato ai parametri di riferimento costituzionali, che tracciano un profilo strutturale e funzionale della amministrazione pubblica troppo diverso da quello assunto dal codice Rocco per non risultare decisivo nella differente orientazione prospettica della tutela. In estrema sintesi, assumiamo le acquisizioni della dottrina dominante circa l’oggettività giuridica dei reati di corruzione (così come, in generale, dei ‘Delitti contro la pubblica amministrazione’), che, pur con diversità di accenti — scandite, ad esempio, tra corruzione propria e impropria — identificano il nucleo comune della tutela nel buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, secondo le direttrici stabilite dall’art. 97 Cost. fondita indagine — ha cercato di attribuire ai delitti di ‘trafico de influencias’ un’autonoma ratio essendi nella disciplina penale della ‘corrupción’, orientando l’interpretazione delle fattispecie nel prisma dei valori costituzionali, e riuscendo in tal modo a superare alcune aporie strutturali; in questo senso lo studio monografico di CUGAT MAURI, La desviación del Interés General y el Trafico de Influencias, Barcelona, 1997. (64) Sul punto, per tutti, DONINI, Teoria del reato, cit., pp. 117 ss., 118.
— 948 — In via di prima approssimazione, infatti, la corruzione è ricostruibile come reato di pericolo astratto volto a tutelare la correttezza dei rapporti tra consociati e pubblica amministrazione, rapporti indirizzati dalle due fondamentali direttrici segnalate. Ma un siffatto bene giuridico ‘di categoria’, di irrisolvibile genericità, soccorre davvero poco nell’indagine interpretativa che ci occupa (65). E ciò, anzitutto, per la natura stessa della disposizione normativa dell’art. 97 Cost., che ha valenza di principio, appunto, e non di regola, ed è dunque incapace di dettare un criterio che permetta di valutare l’azione dell’amministrazione in concreto (66). Tuttavia, già l’art. 97, come principio costituzionale, posto ‘sopra e prima’ rispetto al caso concreto, individua una opzione di fondo che vuole l’attività amministrativa informata ai criteri (ai ‘valori’) del ‘buon andamento’ e dell’ ‘imparzialità’, patrocinando dunque una prospettiva funzionale, dinamica, che in questo suo ‘svolgersi’ deve essere tutelata e garantita (rectius, ‘promossa’). Sotto un primo profilo, il contenuto ‘negativo’ che questa disposizione sintetizza è sicuramente quello che identifica una cesura netta con lo spettro di tutela prefigurato dal legislatore del 1930: il mutamento prospettico complessivo del concetto penalmente rilevante di p.a. evidenzia, anzitutto, che la tutela del mero prestigio della p.a. (o della probità del funzionario, della fedeltà allo Stato etc.) non è più rispondente ai canoni costituzionali, come anche nel settore dei ‘Delitti dei privati contro la p.a.’ si è sottolineato (67). (65) Così SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, cit., p. 980. (66) Sulla fondamentale distinzione tra principi e regole si rinvia a ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, pp. 147 ss., 149, e, prima ancora, alla ‘posizione strategica’ della categoria stessa dei principi nell’opera di DWORKIN, Taking rights seriously (1977), trad. it. I diritti presi sul serio, Bologna, 1982. Per un’applicazione di questo modello, con riferimento all’argomentazione costituzionale in materia penale, si rinvia a DONINI, Teoria del reato, cit., p. 26 ss. Un corollario di tale impostazione, generalmente ricavato dalla ricostruzione in chiave costituzionale dell’illecito, è anche un assunto che nella nostra indagine non entra direttamente, ma che nondimeno preme ribadire, anche solo per inciso: che la distinzione tra corruzione propria e impropria deve passare attraverso l’individuazione di specifici doveri violati, e non dei generici doveri di correttezza e imparzialità che secondo un diffuso indirizzo giurisprudenziale sarebbero lesi dalla semplice accettazione dell’indebita dazione (concretando pertanto una ipotesi di corruzione propria; ma una ricostruzione siffatta — come è evidente — comporta una vera e propria interpretatio abrogans della corruzione propria). Sulla problematica, si rinvia a VASSALLI, Corruzione propria e corruzione impropria, in GP, II, p. 324; cfr., altresì, MIRRI, op. cit., p. 5. (67) Sul punto, diffusamente, PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 144 ss.; BRICOLA, Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, p. 563 ss.; ora anche in Scritti di diritto penale (a cura di Canestrari e Melchionda), p. 2389 ss., passim; cfr. altresì, STILE, Amministrazione pubblica (delitti contro la) (voce), in DDP, 1987, pp. 129 ss., 132, ove anche si sottolinea come la prospettiva tradizionale, incentrata sulla tutela del prestigio della p.a. ‘‘più che risultare erronea, si caratterizza in effetti
— 949 — Tale mutamento, d’altronde, non si è manifestato solo nel nostro ordinamento; anche in Spagna, il cambio di prospettiva segnato dal nuovo codice (in cui significativamente è cambiata la stessa rubrica del Titolo XIX, prima dedicato ai ‘Delitti dei funzionari pubblici nell’esercizio del proprio ufficio’, oggi intestato ai ‘Delitti contro la Pubblica Amministrazione’) ha sancito l’abbandono definitivo della tradizionale impostazione che vedeva l’elemento agglutinatore nella violazione dei doveri d’ufficio, e l’opzione per un’oggettività giuridica riconducibile al corretto funzionamento della pubblica amministrazione e delle diverse attività prestate da questa, unica opzione in grado di esprimere una tutela compatibile con il modello dello Stato costituzionalmente orientato; e tale mutato assetto istituzionale ‘‘conduce a negare definitivamente la protezione dell’Amministrazione per sé, o persino del suo prestigio o dignità, e a riconoscere come unico interesse meritevole di tutela l’attività pubblica, i servizi che i distinti poteri dello stato prestano ai cittadini, nel segno di uno Stato sociale e democratico di diritto’’ (68). Sotto un secondo profilo, quello della valenza ‘in positivo’ del principer l’assoluta svalutazione del bene giuridico quale criterio interpretativo, il che conduce ad una limitata comprensione delle norme e al quasi totale annullamento delle possibilità di percepire compiutamente il significato di disvalore del fatto tipico’’; e ciò perché ‘‘(...) non si può dubitare che qualsiasi delitto dei pubblici ufficiali offenda il prestigio della p.a., il quale però, proprio per questo, non può servire affatto a circoscrivere la portata delle singole norme incriminatrici e a chiarirne le reciproche relazioni; e non è di alcuna utilità neppure per distinguere i delitti in esame dagli illeciti disciplinari’’. Sul mutamento di prospettiva nel settore dei ‘Delitti dei privati contro la p.a.’ e, specificamente, nel delitto di oltraggio, che la sentenza della Corte cost. n. 341/1994 — pur confermando la fondatezza di un titolo di reato autonomo punito nel massimo con pena più grave — ha dichiarato illegittimo nella parte in cui prevedeva il minimo edittale (di mesi sei di reclusione) differente e più elevato rispetto al delitto di ingiuria — eliminando così una distinzione giustificabile in base ad un’aprioristica ed isolata considerazione del prestigio della p.a. che al contrario, nell’ottica della Corte, risulterebbe ammissibile solo congiuntamente al buon andamento della p.a. —, cfr. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati contro la p.a., Milano, 1999, sub art. 341, p. 63 ss.; ARIOLLI, Il delitto di oltraggio tra principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena, in CP, 1995, p. 29 ss.; CURI, L’attività ‘paralegislativa’ della Corte costituzionale in ambito penale: cambia la pena dell’oltraggio a pubblico ufficiale, in Gcost, 1995, p. 1091 ss. A questo riguardo, è significativo che anche ove si giustifica un’autonoma ratio essendi del delitto di oltraggio — delitto, peraltro, oggi depenalizzato — per una più energica tutela del prestigio della p.a. e — soprattutto — del buon andamento della stessa, si sottolinea come in prospettiva de iure condendo sarebbe più equilibrato vincolare in modo più marcato la condotta offensiva al duplice e cumulativo riferimento alla causa e all’effettivo esercizio della funzione pubblica, sostituendo la disgiuntiva ‘o’ con la congiunzione ‘e’: così ROMANO, op. cit., p. 75. Un significativo mutamento di prospettiva si riscontra anche in tema di ‘Reazione legittima agli atti arbitrari’: cfr. AMATI, Nuovi orientamenti interpretativi in tema di arbitrarietà putativa nella reazione legittima a pubblico ufficiale, in GP, 1997, II, p. 188. (68) Così MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, Consideración general del Titulo (XIX), in Comentarios, cit., p. 1769 ss; e la conseguenza più immediata di tale impostazione è che il punto di fuga certo costituito dai parametri costituzionali deve imporre, quanto
— 950 — pio, va ancora sottolineata e approfondita la rilevanza della prospettiva dinamico-funzionale dell’organizzazione e dell’attività amministrativa che esso chiaramente delinea. In quest’ottica, come rilevava già Bricola, buon andamento non va considerato mero sinonimo di regolare funzionamento della amministrazione; ma quale ‘‘sinonimo di efficienza, ossia di massima aderenza all’interesse pubblico’’ (69). D’altronde, anche il principio di imparzialità, che è la chiave di lettura dell’interazione (dialettica) amministrazione/concittadini, deve essere inteso (e salvaguardato) avendo come punto di riferimento l’attività amministrativa, che è il predicato che può esprimerne il contenuto precettivo; deve essere inteso cioè come assenza di interferenze nell’adozione di decisioni pubbliche, che unicamente devono essere guidate dai fini che legalmente giustificano il suo disimpegno (70). E nell’endiadi dell’art. 97 Cost. — ove si tratteggiano le due facce di una stessa medaglia — deve essere considerato come limite al ‘buon andamento’ operante all’esterno dell’organizzazione, nei molteplici contatti con le sfere individuali, essendo quest’ultimo principio strumentale all’affermazione del primo (71). In via di ulteriore approssimazione, il contenuto ‘positivo’ dell’opzione di fondo sottolineata deve essere ricavato dai sotto-principi e dalle regole attuative sul procedimento amministrativo, codificate con chiarezza nella l. n. 241/1990, che focalizzano la medesima prospettiva, rappresentando concretizzazione del principio stesso; attraverso il riferimento più diretto a questa costellazione di regole, il sovraprincipio dell’art. 97 Cost. è capace di guadagnare una più immediata operatività nell’interpretazione della fattispecie singola e, dunque, nel caso concreto (72). meno, un’interpretazione della fattispecie scevra di componenti etiche o moraleggianti, come sarebbe la mancanza di etica o onestà del funzionario (ibidem, p. 1836). (69) Così BRICOLA, Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, cit., 2401. (70) Così, con espresso riferimento ai delitti di corruzione, anche MORALES PRATSRODRIGUEZ PUERTA, op. cit., p. 1834, secondo il quale, conseguentemente, la lesione di tale principio si produce nel momento in cui si constata un ‘accordo’ tra funzionario e privato, diretto all’ottenimento di un atto o risoluzione determinati o determinabili. Inoltre, per il particolare atteggiarsi del bene, intimamente legato alla qualifica pubblicistica, l’offesa si caratterizzerebbe in modo diverso per il privato e per il pubblico ufficiale, entrambi autori e soggetti a sanzione penale anche nell’ordinamento spagnolo; solo quest’ultimo sarebbe in grado — pattuendo la messa a disposizione dell’atto — di ledere il bene giuridico, mentre il privato — offrendo o concedendo la dazione, potrebbe solo provocarne la messa in pericolo. (71) Così, ancora, BRICOLA, Tutela penale della pubblica amministrazione, cit., p. 2402, nel solco dell’impostazione di ALLEGRETTI, incline — già dalla metà degli anni ’60 (L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965) — ad una piena valorizzazione del principio di imparzialità, seguendo una linea recentemente ribadita nella voce Imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, in DDPubbl., 1993, pp. 131 ss., 135. (72) E ciò, dunque, a prescindere dalla disquisizione circa il valore da assegnare al principio di cui all’art. 97 Cost., se appunto norma precettiva o mero Programmsatz, anche se per inciso si rileva che la dottrina giuspubblicistica dominante è propensa ad attribuire va-
— 951 — I principî di economicità e di efficacia dell’azione (art. 1 l. n. 241/1990), di doverosità e immediatezza (art. 2), di semplificazione amministrativa (artt. 14 ss.) rappresentano l’espressione più compiuta delle coordinate costituzionali e ribadiscono l’opzione per un’amministrazione inquadrata in una prospettiva dinamico-funzionale, che ne valorizza l’attività nel suo compiersi; non certo una prospettiva statica che valorizzi la semplice appartenenza statuale, pubblicistica della stessa (73). Una tale prospettiva deve essere dunque il quadrante che orienta anche l’angolazione della tutela penale della p.a., nel rispetto del dato letterale, quando si focalizza l’attenzione sull’oggetto di tutela della singola norma, cercando di specificare il bene giuridico di categoria. È qui che occorre attivare quel ‘circolo ermeneutico’ che, attraverso l’analisi della fattispecie, permette di scolpire più nettamente la prospettiva di tutela; e la mappa di cui ci serve per orientare l’indagine è offerta, come si anticipava, dai singoli elementi di fattispecie. Tra questi, non sembra esservi dubbio sul fatto che elemento caratterizzante comune a tutte le ipotesi di corruzione di cui ci si occupa (segnatamente gli artt. 318-322 c.p.) è la retribuzione dell’atto di ufficio, retribuzione indebita, che costituisce il nucleo di disvalore centrale della corruzione (74). In quest’ottica, buon andamento e imparzialità della p.a., nell’ipotesi di cui all’art. 319 c.p., possono essere lesi dalla compravendita di atti contrari ai doveri d’ufficio, mentre nell’ipotesi di cui all’art. 318 c.p., sono semplicemente messi in pericolo dalla compravendita di atti conformi ai doveri d’ufficio, che pur non risultando disfuzionali rispetto alla corretta attività amministrativa, se oggetto di disposizione contro danaro integrano un pericolo astratto per l’imparzialità e la corretta valutazione degli interessi in conflitto propria di ogni procedimento e/o provvedimento amministrativo. lenza immediatamente precettiva alla norma, pur con diversità di accenti, una sintesi dei quali è offerta da ALLEGRETTI, op. cit., pp 134-6. In particolare, sui rapporti tra i principi dell’art. 97 Cost. e i principi di trasparenza, efficacia, efficienza nella p.a. cfr. CASETTA (voce) Pubblica amministrazione, in DDPubbl., 1997, pp. 271 ss., 278; sullo stesso tema, con specifico riferimento alla legge sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990), cfr., per tutti, MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 1993, p. 1022 ss. (73) Una tale prospettiva, peraltro, è quella che da ultimo orienta alcune decisioni della S.C. nell’interpretazione della fattispecie di omissione di atti d’ufficio; cfr., ad esempio, Cass., Sez. VI, 11 dicembre 1998, Concu, in RP, 1999, p. 41 ss., ove si afferma che ‘‘(...) non ogni richiesta di atto da parte del privato è idonea ad attivare il meccanismo che può dar luogo al reato de quo, dovendosi tale idoneità riconoscere solo a quelle richieste che siano funzionali ad un effettivo e doveroso dinamismo della pubblica amministrazione, si estrinsechi esso in atti facoltativi, vincolati o comportanti una certa discrezionalità, sempre che trattisi di atti costituenti comunque espressione di un preciso dovere legale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio’’. (74) Così già PAGLIARO, La retribuzione indebita, cit., p. 64; SEMINARA, op. ult. cit., p. 981.
— 952 — Solo la connessione funzionale con l’attività d’ufficio, nel quadro di una competenza connotata da poteri, soddisfa l’esigenza di aderire ad una prospettiva dinamica della tutela, rifiutando ricostruzioni formalistiche tipiche di una prospettiva statica, quale sarebbe, ad esempio, quella che individua la rilevanza penale della semplice accettazione di utilità indebite, o della corruzione per atti estranei all’ufficio; tutte modalità che fuoriescono dalla trama di lesione intessuta dalla spola ermeneutica bene giuridico/elementi del fatto tipico (75). Tale impostazione risponde alla struttura dell’illecito penale come illecito di modalità di lesione, struttura tanto più marcata nel caso che ci occupa perché ulteriormente ‘appesantita’ dalla presenza della qualifica pubblicistica, che contribuisce a tipicizzare l’offesa ad un bene giuridico ‘proprio’ (Sonderrechtsgut) (76). Dagli elementi di fattispecie oggetto dell’indagine può ricavarsi infatti che la previsione del peculiare disvalore riconnesso alla qualifica è giustificabile solo se questa può essere considerata centro di riferimento dell’attività, nel disegno di competenze valorizzato, ancora una volta, dall’art. 97 Cost, che, nel comma 2, afferma che ‘Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari’. 8.
Ipotesi: la ricostruzione delle fattispecie di corruzione come fattispecie di ‘‘abuso di potere’’.
Identificati gli approdi minimi dell’indagine, e confortati dal riscontro costituzionale nei termini del paragrafo precedente, si intende ora avanzare una ulteriore ipotesi ricostruttiva, già accennata, che potrebbe chiarificare ancor più la struttura e la tipicità dei reati di corruzione: la riconduzione di tali fattispecie al modello dell’abuso di potere. Ripercorrendo gli snodi argomentativi di un’importante indagine monografica dedicata all’argomento, si muove dalla considerazione che, nei (75) Sulla base di tali considerazioni, non sembra condivisibile l’autorevole opinione che — ricostruita l’oggettività giuridica attraverso il riferimento ai principi di buon andamento e imparzialità — vuole che ad un bene giuridico di così ampia portata, corrisponda un altrettanto generico ed ampio significato del termine ‘atto’, tanto che sarebbe integrato il delitto a fronte di ‘‘ogni atto che viola sia i doveri generici di fedeltà, di correttezza, di onestà, sia quelli specifici relativi alla trattazione di un determinato affare’’ (così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, 2a ed., vol. I, ristampa aggiornata, Bologna 1997, p. 218). A ben vedere, ciò varrebbe quanto dire — come è stato rilevato — che vi è corruzione sulla sola base della indebita ricezione, ed a prescindere da qualsiasi atto di amministrazione dell’ufficio, dato che già l’atto del ricevere l’indebito, ossia la venalità della carica, è atto in palese contrasto con i doveri di fedeltà e correttezza del pubblico agente (così risultando un’interpretazione siffatta del tutto abrogatrice del requisito di cui agli artt. 318 e 319 c.p.: così RONCO, op. cit., p. 1215). (76) Sul rilievo acquisito dal bene giuridico nei c.d. reati propri, recentemente, DEMURO, Il bene giuridico proprio quale contenuto dei reati a soggettività ristretta, in questa Rivista, 1998, p. 845 ss.
— 953 — reati di abuso di potere, l’abuso viene in considerazione come mezzo attraverso cui si realizza il reato; mezzo che deve possedere e deve esprimere la contrarietà al bene costituzionalmente rilevante tutelato nella fattispecie (77). È proprio la diretta incidenza della modalità di condotta sul bene giuridico la caratteristica peculiare di tale categoria di reati, ed è appunto il potere — per quanto a noi qui interessa — il vettore che si fa carico dello specifico di lesività della categoria. Nella teorizzazione originaria di Stortoni, individuata l’oggettività giuridica tutelata dalla categoria di reati de qua nella legalità dell’azione amministrativa, era possibile specificare ulteriormente l’analisi centrandola su due sotto-insiemi: i reati di abuso di potere in senso stretto, e i reati di abuso della posizione giuridica. La caratteristica peculiare dei primi — dato di estrema rilevanza ai fini della nostra indagine — veniva individuata nel fatto ‘‘che la condotta abusiva si realizza attraverso un atto tipico della funzione esercitata dal soggetto agente’’ (78). Essendo l’atto tipico direttamente riferibile all’ente pubblico, l’abuso di potere — qualificato (anche, ma non solo) dalla sottostante illegittimità dell’atto alla stregua dei vizi tipici secondo la tripartizione classica del diritto amministrativo — implicherebbe la lesione della legalità nell’esercizio dei poteri attraverso cui si esplica l’attività amministrativa; e, analogamente, nell’abuso della situazione giuridica si avrebbe una violazione della legalità non riconducibile al complesso di poteri coordinati all’adozione di un atto tipico, bensì riguardante il complesso di facoltà giuridiche necessarie e collaterali all’esercizio del potere stesso (79). Un esempio ‘classico’ di abuso di potere in senso stretto veniva identificato con l’art. 323 c.p., il delitto di abuso d’ufficio, mentre come esemplificazione di abuso della situazione giuridica si offrivano le fattispecie degli artt. 314, 315, 316 c.p. (nelle ipotesi di peculato, malversazione per distrazione, peculato mediante profitto dell’errore altrui). Astraendo dalle singole fattispecie esemplificative, il dato caratterizzante la teorizzazione ci sembra essere la prospettiva in cui si scolpisce il peculiare rapporto che lega la condotta-mezzo (l’abuso di potere) al bene protetto; questa — come anticipato — passa attraverso la valorizzazione di un dato caratterizzante, il potere (o la facoltà giuridica), che nei casi di abuso in senso stretto deve trovare diretta ‘evidenza’ in un atto tipico della funzione. Benché la ricomprensione dei reati di corruzione in questa categoria sia esclusa dallo stesso autore della teoria che si riprende (80), crediamo che il modello dell’abuso di potere, alla luce dell’indagine condotta, sia un (77) STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1978, (ristampa inalterata), passim. (78) Ibidem, pp. 119 ss., 125, 166. (79) Ibidem, pp. 148-9. (80) Ibidem, p. 39 ss.
— 954 — paradigma emblematico su cui coniugare la tipicità e l’offensività dei reati di cui agli artt. 318-322 c.p, e che l’abuso di potere sia dunque elemento implicito degli stessi (81). Il parallelo proposto passa attraverso la valorizzazione del legame finalistico che lega la dazione all’atto, e conduce ad una più stringente ricostruzione della lesività dei reati di corruzione; su questa linea si restituirebbe — in definitiva — una dimensione lesiva a tali reati parametrata alla prospettiva di tutela dinamico-funzionale ricavata dal confronto con i principi costituzionali e dall’assetto che l’organizzazione e l’attività amministrativa sono andate assumendo (anche alla luce delle regole che dei principi dell’art. 97 Cost. sono concretizzazione) (82). Sulla scorta di questo accostamento, sembra possibile ricondurre la corruzione in cui soggetto attivo è il pubblico ufficiale (munito di poteri tipici) al modello dell’abuso di potere in senso stretto; e le ipotesi in cui soggetto attivo è l’incaricato di pubblico servizio ai reati di abuso della situazione giuridica. Elemento di identificazione in entrambi i paradigmi è appunto la messa a disposizione del potere o del complesso di facoltà, il vettore attraverso cui può spiegarsi l’offensività della corruzione a fronte dei beni del buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, colta nella prospettiva dinamico-funzionale segnalata; e ciò sia nelle ipotesi di corruzione propria sia nei casi di corruzione impropria, nella forma antecedente e nella forma susseguente. Tuttavia, occorre da subito puntualizzare che l’esito del parallelo stesso non vuol essere una sovrapposizione totale con quel modello, che, in base alla ricostruzione da cui si trae spunto, presupponeva la necessaria sussistenza alla base dell’abuso del potere di un atto tipico della funzione che su una base obiettivabile — ossia nel prisma dei vizi tipici dell’atto amministrativo — potesse dirsi illegittimo. Il raffronto vuol essere, al contrario, solo tendenziale, e porre in luce la necessaria connessione funzio(81) Già STILE (op. cit., p. 133, e nota 29 a p. 134) ammetteva d’altronde che anche la corruzione propria comporta un vero e proprio abuso delle funzioni e non solo della posizione di potere in seno all’amministrazione, anche se nel solo caso in cui all’accordo seguisse il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio o l’omissione dell’atto d’ufficio; negli altri casi, nondimeno, la corruzione era identificabile come ipotesi di ‘abuso della posizione di potere’ (non necessariamente, secondo l’A., come ‘abuso delle funzioni’). (82) D’altronde, nell’impostazione di STORTONI si giungeva a negare l’appartenenza dei reati di corruzione alla categoria dei reati di abuso di potere anche sulla base dell’identificazione del fulcro della lesione tipica di questo modello nella tutela della legalità dell’azione amministrativa, pregiudicata dall’esercizio illegittimo del potere, che ad esempio non potrebbe lamentarsi nella corruzione impropria; ma, a ben vedere, nel mutato assetto organizzativo e funzionale dell’odierna amministrazione, la legalità dell’azione amministrativa diventa solo una delle possibili angolature prospettiche della tutela, e non può rappresentare il solo punto di fuga dell’offesa realizzata attraverso il mezzo abuso di potere. Questo, anche a fronte di un atto formalmente illegittimo, potrà comunque ritenersi configurato appunto nella messa a disposizione del potere ed implicare, così, una offesa (almeno nella forma del pericolo concreto) alla imparzialità.
— 955 — nale dei delitti in esame con un atto dell’ufficio; atto la cui illegittimità sarà peraltro una conseguenza dell’abuso stesso, direttamente rilevabile nel caso di corruzione propria, e, come vedremo, discutibile anche nei casi di corruzione impropria, dove spesso un fine pubblico manifesto si intreccia con una causa ‘egoistica’ latente. Cerchiamo di ripercorrere — con riferimento alle varie tipologie di corruzione — le possibili articolazioni della ipotesi avanzata; invero, la riconduzione delle fattispecie di corruzione ad un denominatore comune coniugato sulla matrice dell’abuso di potere permette di delineare ulteriori contorni — in negativo e in positivo — dell’area di tipicità dei reati di corruzione. Il portato ‘positivo’ della ipotesi proposta è facilmente ricavabile nella connessione, ormai chiarita, tra atto d’ufficio e dazione o promessa indebita. In base a questa, l’atto d’ufficio (o contrario ai doveri d’ufficio) deve essere non solo determinato e rientrante nella competenza dell’ufficio, ma anche causalmente riconducibile alla dazione indebita (nella corruzione antecedente) o funzionale rispetto alla stessa (nella corruzione susseguente); e ciò sia nella corruzione propria che impropria (83). Infatti, il collegamento con l’atto esprime una messa a disposizione della funzione che solo il paradigma dell’abuso di potere riesce a spiegare compiutamente. Così è sicuramente nei casi di corruzione antecedente, in cui nella forma propria si verifica una offesa al buon andamento della p.a., letto alla luce dei principi della l. n. 241/1990, sotto il profilo della lesione; offesa che, diversamente, nella forma impropria si verifica solo come messa in pericolo del bene stesso, perché l’abuso di potere è soltanto potenziale, ma non può ragionevolmente escludersi che si verifichi (84). Anche nella corruzione impropria (antecedente), infatti, può ravvi(83) La riconduzione delle ipotesi di corruzione al nucleo comune dell’abuso di potere è indiziata anche dal dato che, fino alla riforma del 1997, la corruzione propria (antecedente e susseguente) era assimilata in termini di disvalore all’abuso d’ufficio affaristico, punito, precedentemente, con la reclusione da due a cinque anni. Questa identità di nucleo comune, identificato dalla strumentalizzazione dell’ufficio, era già sottolineata in un passo di PICOTTI, estremamente significativo ai fini della nostra ipotesi ricostruttiva. Secondo tale Autore, ‘‘a prescindere (...) dalla materiale violazione dei doveri d’ufficio, da parte del soggetto qualificato, che può già essere intervenuta — nella corruzione propria susseguente — ovvero costituire semplice ‘fine’ dell’agente — in quella antecedente — è l’oggettivo instaurarsi del rapporto di scambio tra le parti, caratterizzato dal predetto ‘farsi dare’ in cambio della strumentalizzazione dell’ufficio, a rappresentare il comune elemento di tipizzazione ed identificazione dei due fatti: ed a stabilire anche il contenuto minimo di disvalore, comune alla corruzione impropria’’ (PICOTTI, Il dolo specifico, cit., pp. 327-8). (84) Può escludersi che si verifichi solo nelle ipotesi di c.d. atti dovuti, con la conseguenza — secondo la nostra impostazione — di escludere la configurabilità di una corruzione impropria di fronte ad atti c.d. vincolati, in cui un problema di sviamento dei fini non può neppure porsi, potendo solo darsi una sovrapposizione tra fine pubblico e fine privato
— 956 — sarsi un abuso di potere (85), identificabile nella messa a disposizione della funzione e connotato da quella orientazione finalistica tra dazione (o promessa) e atto d’ufficio. Un abuso di potere in cui l’offesa al bene resta a livello di pericolo, se si vuole, ma in cui il pericolo può dirsi appunto concretato solo attraverso una specifica connessione funzionale dazioneatto, unico modulo di disvalore in grado di giustificare una sanzione (reclusione da sei mesi a tre anni) identica a quella prevista per l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p. come riformulato nel 1997) (86). In base a questa impostazione, può dirsi che se la causa egoistica che determina l’orientazione della condotta è obiettivamente rilevabile (ad es. perché si ripercuote in una violazione di legge), si avrà corruzione propria, caratterizzata — per espressa definizione legislativa — da un’illegittimità dell’atto alla stregua dei vizi tipici; viceversa, se la causa egoistica che orienta l’atto non è in questo obiettivizzata (neanche attraverso il diaframma delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere, pur sempre vizio ‘oggettivo’ dell’atto amministrativo), l’atto stesso non potrà dirsi illegittimo, e si avrà un caso di corruzione impropria, dove l’abuso di potere (id est: la messa a disposizione della funzione) è solo potenziale (87). Ma anche nella corruzione susseguente si intravede lo schema dell’abuso di potere. che non può comprometterne, comunque, la validità. Inoltre, proprio su questo segmento si innesta la delicata querelle della corruzione in atti discrezionali, oggi sempre più problematica specie negli hard cases di c.d. discrezionalità tecnica, atti in cui dovrà stabilirsi se l’esercizio della discrezionalità sia stato ‘compresso’ dalla prospettazione del lucro illecito — anche se solo ‘sovrapposto’ al fine pubblico — o invece sia restato alieno da condizionamenti esterni. In linea con l’impostazione tradizionale, nel primo caso si configurerà un’ipotesi di corruzione propria (abuso di potere effettivo), nel secondo caso l’ipotesi si atteggerà a corruzione impropria (abuso di potere solo potenziale). (85) O, quanto meno, un abuso della situazione giuridica, se è vero che questo comporta una lesione potenziale della legalità nell’esplicazione del pubblico potere, identificata da una interferenza — se pure in posizione indiretta — nell’esplicazione del pubblico potere: cfr. STORTONI, op. ult. cit., pp. 193-4. (86) La riconduzione anche della corruzione impropria (antecedente) nell’alveo dell’abuso di potere dovrebbe condurre ad escludere che la stessa possa essere confgurata a fronte dei c.d. atti vincolati, a fronte dei quali un abuso di potere, anche solo potenziale, non è neppure pensabile (cfr. nota precedente); non a caso in ipotesi siffatte la dottrina spagnola predica l’impossibilità di configurare l’art. 425 Código penal (corruzione per un ‘acto proprio de su cargo’) in favore dell’art. 426, fattispecie, come visto, assolutamente svincolata dall’atto e da una prospettiva ‘funzionale’ di tutela e ricalcata sulla mera venalità della carica, giustificando tale interpretazione come l’unica in grado di valorizzare — in ossequio al principio di proporzionalità — situazioni che presentano un distinto contenuto di illecito: così, MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, op. cit., p. 1867, il quale, peraltro, sottolinea come l’art. 426 Código penal non identifica in nessuna delle due ipotesi tipiche autentiche modalità di corruzione, conferendo rilevanza penale a comportamenti che non riescono a scalfire il bene giuridico protetto, l’imparzialità amministrativa, e risultando così espressione di una visione eticizzante e di un diritto penale d’autore (p. 1870). (87) La conseguenza di tale impostazione, come già anticipato, dovrebbe condurre ad escludere la corruzione impropria di fronte ad atti c.d. vincolati, in cui un problema di
— 957 — L’ipotesi nasce come norma incentrata sul paradigma della violazione del dovere, e ciò è dimostrato dal fatto che nel codice Zanardelli la corruzione propria susseguente non era punita in modo autonomo, ma questi casi venivano fatti rientrare nell’art. 171 che in via generale puniva le ipotesi di corruzione impropria, intesa come indebita accettazione di doni, e dunque punita in modo equivalente nella forma antecedente e susseguente; fu solo una introduzione successiva — nel passaggio al codice Rocco — che la incorporò nel tipo della ‘corruzione propria’, conservando però la traccia della divergenza nella diversità sanzionatoria, segnata da una pena sensibilmente inferiore (reclusione da uno a tre anni in un caso, da due a cinque anni nell’altro), non essendo in tali ipotesi ravvisabile quell’abuso della funzione caratteristico della più grave (e realmente autentica) forma di corruzione (la ‘tradizionale’ corruzione propria antecedente) (88). Scomparsa con la riforma del ’90 anche quest’ultima traccia di differenziazione — sulla scorta di esigenze di semplificazione probatoria (89) —, non potendosi dimenticare il percorso storico della norma, che ha progressivamente segnato l’allontanamento dal modello della ‘venalità della carica’ fino all’inclusione (e l’equiparazione) nella vera e propria ‘baratteria’, si impongono due alternative: a) interpretare la corruzione propria susseguente comunque come reato di abuso di potere, in cui però il rapporto causale sia solo cronologicamente rovesciato, ma esista su un piano logico, almeno nella rappresentazione e volizione (nel dolo) dell’agente. In particolare, riesce davvero difficile pensare come ‘corruzione’ (susseguente) il fatto del pubblico agente che, compiuto per ‘‘distrazione’’ (recte, per negligenza) un atto contrario ai doveri d’ufficio, accetta per questo una dazione indebita (90); sembra più coerente ritenere che l’equiparazione delle norme sulla corruzione susseguente — nata appunto sulla sviamento dei fini non può neppure porsi, potendo solo darsi una sovrapposizione tra fine pubblico e fine privato che non può compromettere, comunque, la validità: cfr. supra, n. 84. (88) Sul punto, SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, cit., p. 956 ss., ove opportunamente si sottolinea come anche nella Relazione al Progetto definitivo del codice del 1930, l’introduzione della corruzione propria susseguente viene vista come semplice rimedio ad una lacuna legislativa che portava in sé una flagrante contraddizione, e dunque viene intesa come repressione di un’ulteriore forma di indebita accettazione di doni — per atti illegittimi — ‘‘moralmente e giuridicamente più grave’’ rispetto a quella, già sanzionata nell’art. 171 cod. Zanardelli, per atti legittimi (v. anche supra, n. 16). (89) Esigenze vive non solo in Italia, e che hanno condotto il legislatore spagnolo ad introdurre per la prima volta nel codice del 1995 la fattispecie di corruzione susseguente: cfr. MORALES PRATS-RODRIGUEZ PUERTA, op. cit., p. 1868. Secondo quest’ultimo la norma, seriamente discutibile, sarebbe dovuta essere confinata allle ipotesi di corruzione propria susseguente, ‘‘che in realtà sarebbero corruzioni antecedenti in cui non si arriva a provare il previo accordo’’, perché nelle ipotesi di corruzione impropria susseguente il limitato disvalore del fatto non riesce ad attingere all’offesa del bene giuridico (neanche sotto il profilo della messa in pericolo). (90) Ipotesi che secondo l’impostazione tradizionale configura un caso di corruzione
— 958 — spinta di esigenze processuali — non alterino il nucleo di disvalore della corruzione, che non dovrebbe potersi ritenere configurata se il pubblico ufficiale non ha compiuto l’atto ‘pensando’ all’utilità indebita che gli sarebbe venuta dallo stesso, e decidendo pertanto di vendere la funzione ‘‘a scatola chiusa’’ (91). Occorre, in definitiva, che il rapporto causale atto-dazione sia parte del patrimonio rappresentativo e volitivo dell’agente, in modo da restituire anche alla corruzione propria susseguente un congruo coefficiente di offensività già sul piano della lesione del buon andamento e della imparzialità della p.a.; b) ammettere che il delitto di corruzione propria susseguente è illegittimo per difetto di ragionevolezza, sotto il profilo della sanzione, dato che questa è la stessa prevista per un’ipotesi caratterizzata da ben più grave disvalore di azione e di intenzione; infatti, accogliendo l’attuale prassi interpretativa, sarebbero punite due ipotesi di disvalore radicalmente diverse (l’una — la corruzione propria antecedente — proiettata, come visto, sul paradigma dell’abuso di potere; l’altra ‘appiattita’ sulla mera violazione del dovere) con la medesima sanzione (92). E, forse, la seconda opzione è la più plausibile, anche se ha il difetto di non ‘salvare’ la norma, restituita così alla sua originale matrice storica; la prima soluzione, al contrario, impone una chiave interpretativa che forza forse la lettera della legge — schermata dal fin troppo facile argomento dell’ubi lex voluit dixit — ma che ha tuttavia il pregio di restituire ‘succo e sangue’ ad una sanzione che, altrimenti, resterebbe davvero difficile giustificare in termini di disvalore, e di garantire una maggiore rispondenza ai parametri costituzionali. Resta, da ultimo, il caso della corruzione impropria susseguente, unico vero residuo di una fattispecie davvero difficile da spiegare in termini di abuso di potere; la tutela è qui anticipata al pericolo indiretto, al propria susseguente: cfr., ad es., GROSSO, voce cit., p. 155; diversa l’ipotesi in cui il pubblico agente, adottato un atto illegittimo con la consapevolezza di favorire Tizio, e dunque prefigurandosi la possibilità di ottenere da questi una contropartita illecita, l’ottenga inaspettatamente da Caio, casualmente favorito dall’atto stesso. Qui è comunque ravvisabile un abuso di potere cui è causalmente riconducibile la dazione illecita, ed è dunque configurabile la corruzione susseguente. (91) Sul punto, è illuminante un passo del Parere sul Progetto preliminare del codice del 1930 ad opera della Commissione ministeriale (Lavori preparatori, vol. IV, Roma, 1929, p. 267), che, sull’introduzione della fattispecie di corruzione propria susseguente l’identifica con l’ipotesi di chi trasgredisca i doveri d’ufficio per ottenere un immeritato premio dalla persona illegittimamente favorita. Era dunque chiaro già allora, pur nell’impostazione formalistica consona all’ideologia fascista, il collegamento finalistico che sostanzia la fattispecie di corruzione. (92) E così riemergerebbero tutte le contraddizioni recate dall’equiparazione della riforma del ’90, piegata solo ad esigenze processuali e probatorie, e priva di ogni logica giuridica, come rileva SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, cit., p. 983; sul punto anche MANNA, op. cit., p. 122.
— 959 — pericolo cioè che la dazione successiva ad un atto legittimo potrà successivamente anticipare lo stesso e pregiudicare, appunto, l’imparzialità e l’efficienza della p.a., per poi eventualmente evolvere in dazione condizionante la correttezza stessa dell’atto e dunque assurgere alla lesività tipica della corruzione propria. Anche in questo caso, nondimeno, richiedere un diretto collegamento con l’atto successivamente retribuito, e una orientazione finalistica nel comportamento stesso del pubblico ufficiale per ottenere la stessa, vorrebbe dire giustificare in certo modo il disvalore del fenomeno, che resta pur sempre oggetto di sanzione penale, perché così (e solo così) sarebbe messa in pericolo l’imparzialità della p.a. (93); e l’ipotesi — così ricostruita — sarebbe ancora concettualmente distinguibile dalla indebita accettazione di utilità (cioè dalla mera venalità della carica), anche se immediatamente prossima ad essa (94), tanto che è facile condividere il coro di opinioni che in dottrina rimettono in discussione la stessa ratio essendi della norma, auspicandone la depenalizzazione (95). Esemplificando, in base alla ricostruzione seguita, a fronte di una dazione susseguente rispetto ad un atto compiuto dal soggetto qualificato possono darsi le seguenti ipotesi: (93) A ben vedere, specie in ragione della sanzione considerevolmente minore rispetto alla corrispondente forma di corruzione antecedente, proprio la corruzione impropria susseguente sarebbe l’unica fattispecie di corruzione che potrebbe essere svincolata da tale nesso finalistico — e dunque dal modello dell’abuso di potere — e considerabile come una sorta di residuo di fattispecie da tempo abbandonate dalla nostra esperienza legislativa come l’ ‘‘Illecita accettazione di doni’’ del codice penale toscano. A questo riguardo, resta tuttavia da verificare se una fattispecie di tal genere ha diritto di cittadinanza in un sistema penale che tutela, come unanimamente si riconosce, il buon andamento e l’imparzialità della p.a. (94) La distinzione ha un preciso fondamento storico, perché se il codice Zanardelli nulla diceva a proposito, il codice penale toscano distingueva invece la corruzione propriamente detta (artt. 175-176) dalla illecita accettazione di doni (art. 178), considerando come corruzione il mercato relativo ad atti da compiere, e come illecita accettazione, delitto minore, il ricevere un’indebita ricompensa per atti d’ufficio già eseguiti senza corruzione. Nella scelta del codice Rocco, peraltro, non è prevista la punibilità del privato che dà la retribuzione; la fattispecie dunque individua — nella mente dei compilatori — un caso di infedeltà ascrivibile solo al pubblico ufficiale, con una evidente disparità di trattamento nei confronti del privato, accogliendo una soluzione opposta rispetto al codice tedesco, che al § 333, ‘‘Offerta di vantaggi’’ (Vorteilsgewährung), speculare rispetto al § 331 già esaminato, prevede espressamente la punibilità anche del privato offerente. (95) L’ipotesi è davvero problematica, perché qui la tutela del prestigio è davvero difficile da contenere, come prova la stessa limitazione soggettiva del reato all’incaricato di pubblico servizio che sia ‘pubblico impiegato’, limitazione che esprime un’esigenza di tutela dei doveri di onestà, correttezza, fedeltà e lealtà che possono oggettivarsi solo in rapporto al prestigio della p.a.: così STILE, Amministrazione pubblica (delitti contro la), cit., p. 133, il quale, non a caso, la ‘giustifica’ come ‘‘ ‘concessione’ su fattispecie marginali’’. Secondo autorevole dottrina, più che un problema di illegittimità costituzionale per difetto di offensività (v. RAMPIONI, Bene giuridico e reati contro la p.a., Milano, 1984, pp. 311 ss., 313), ‘‘ha ragion d’essere un interrogativo circa l’opportunità di trasferire l’ipotesi, data la sua non eccessiva gravità, nel’ambito esclusivo dell’illecito amministrativo’’: così già BRICOLA, Tutela penale della p.a., cit., p. 2415; conforme, SEMINARA, op. ult. cit., p. 981, n. 54.
— 960 — a) che la dazione sia il semplice adempimento di un accordo già stipulato, col che si darebbe — come si ammette pacificamente — un’ipotesi di corruzione antecedente; b) che la dazione sia stata la finalità che ha orientato l’atto stesso, col che, ricostruito questo nesso teleologico tipico dell’abuso di potere, si configurerebbe un caso di corruzione susseguente, propria o impropria secondo la legittimità o meno dell’atto; c) che la dazione sia assolutamente svincolata dall’atto stesso, perché quest’ultimo rappresenta solo il motivo (o l’occasione) della gratitudine nell’agire del privato; in questo caso, a nostro parere, non può ritenersi configurata la corruzione (propria o impropria) susseguente, ma solo un eventuale illecito disciplinare, a meno che non si ritenga di considerare l’art. 318 comma 2 come ‘precipitato storico’ della fattispecie di ‘Indebita accettazione di utilità’. In tal caso, tuttavia si aprirebbe una grave discrasia tra la disciplina della corruzione propria e la disciplina della corruzione impropria, perché sarebbe penalmente rilevante il ricevere danaro per aver (rectius: dopo aver) compiuto un atto legittimo, a fronte dell’irrilevanza della medesima condotta se questa ‘accede’ ad un atto illegittimo già compiuto, ma privo di quell’orientazione finalistica propria dell’abuso di potere. Allora, coerenza sistematica imporrebbe di ricondurre anche queste ultime ipotesi all’art. 318 comma 2, come forme di corruzione impropria susseguente (96). Quanto al secondo profilo accennato, il portato ‘negativo’ dell’ipotesi ricostruttiva accennata è identificabile nell’inutilizzabilità — nell’ambito dei tre moduli di condotta classici del settore in esame, la violazione del dovere, l’abuso della qualità e l’abuso di potere — dei primi due modelli per giustificare le ipotesi di corruzione. In particolare, l’abuso della mera qualità, non rileva e non può rilevare a fronte del necessario collegamento funzionale con l’atto, e con esso si esclude la possibilità di ricondurre alle fattispecie di corruzione, almeno nella formulazione attuale e salvo possibili modifiche de lege ferenda, le varie tipologie di traffico di influenze illecite e/o intermediazione affaristica aliena da un innesto diretto in attività funzionali proprie (e fuori dalle ipotesi di concorso nel reato). Ma nemmeno la violazione del dovere riesce ad esaurire la tipicità di offesa dei delitti in esame (salva l’ipotesi discutibile della corruzione impropria susseguente); ricostruendo la corruzione come mera accettazione di retribuzione indebita si tralascia infatti un dato fondamentale, e cioè che questo solo segmento di disvalore non può spiegare la differenza tra (96) Soluzione, peraltro, che non deve allarmare più di tanto, se si pensa che ha un precedente storico nell’esperienza del codice Zanardelli, ove non prevedendosi espressamente la rilevanza penale delle condotte di corruzione propria susseguente, le stesse venivano ricondotte da autorevole dottrina nella fattispecie dell’art. 171, che appunto puniva la corruzione impropria (nel caso, susseguente): questa era l’opinione — pur minoritaria — di Manzini e Civoli, riportata da SEMINARA, op. ult. cit., p. 956, n. 11.
— 961 — corruzione propria e impropria, così come non riesce a selezionare la soglia del penalmente rilevante (quando dai munuscula si passa agli incentivi ‘di motivazione’, ai pagamenti occasionali, all’acquisto del clima favorevole, al c.d. ‘foraggiamento’ etc.). La violazione del dovere riesce, in poche parole, ad assicurare una tutela ad ampio spettro, ma fotografando una realtà inquadrata in una prospettiva statica e non dinamico-funzionale, quale è quella suggerita dall’odierno assetto organizzativo e funzionale della pubblica amministrazione. Resta, dunque, il modello dell’abuso di potere, modello con cui le fattispecie di corruzione (nelle pur diverse articolazioni che le contraddistinguono) condividono un elemento essenziale: la necessità — per aversi reato — che vi sia una concreta manifestazione di poteri tipici, un concreto esercizio di poteri inerenti all’ufficio, seguendo le parole di un condivisibile orientamento della Cassazione (97); conseguenza, appunto, della natura stessa del delitto in questione che non risulta coniugato — almeno nell’esperienza giuridica italiana — sul modello della Vorteilnahme, della mera ‘‘venalità della carica’’, dell’accettazione di dazioni indebite per la funzione esercitata, ovvero per la qualità rivestita; ma risulta costruito e codificato nel suo aspetto dinamico-funzionale, della strumentalizzazione della funzione dietro compenso, strumentalizzazione che è condizione necessaria perché siano pregiudicati i principi di buon andamento e imparzialità che orientano l’azione amministrativa; consentendo altresì di aggiornare un’oggettività giuridica troppo ancorata a desuete impostazioni formalistiche (l’ ‘ossessione’ del prestigio) agli attuali principi di legalità ed efficienza dell’azione amministrativa, allargando le maglie dell’intervento penale nel rispetto del principio di sussidiarietà, e permettendo alle forme minori di venalità (non di corruzione) di refluire nell’ambito di fattispecie residuali (come l’abuso d’ufficio) o nel campo, purtroppo quasi dimenticato, dell’illecito disciplinare. D’altronde, l’utilizzo del paradigma dell’abuso di potere riesce particolarmente capace di porre in luce il rapporto di lesività tra condotta e bene tutelato. Infatti, condividendo l’assunto che ‘‘ogni reato di abuso di potere comporta, di per sé (...) la lesione di un bene giuridico pubblico strettamente connesso a quello che si vuole perseguire concedendo il potere il cui abuso integra la fattispecie criminosa’’, risulta inutile ricostruire l’oggetto giuridico della corruzione attraverso il richiamo dei principi di cui all’art. 97 Cost. se poi da tale ricostruzione non si traggono le principali (o almeno le più immediate) conseguenze applicative, tra cui spicca la non configurabilità del reato se un pregiudizio per l’efficienza e l’imparzialità dell’azione amministrativa di competenza dell’ufficio (o servizio) in questione non può esservi stato perché non vi è stato un uso concreto di (97) Cfr. Cass., Sez. VI, 23 aprile 1990, n. 5843, C.E.D. Cass. n. 184112; Cass., Sez. VI, 16 ottobre 1997, n. 9354, ivi, Cass. n. 210301, entrambe in Codice penale annotato con la giurisprudenza, ed. giur. Simone, Napoli, 1998, sub art. 318, p. 784.
— 962 — poteri estrinsecatosi in un atto (anche non formalmente inteso); o se, analogamente, l’atto compiuto non apparteneva alla sfera giuridica di appartenenza dell’ufficio, esulando dalla competenza dello stesso, come anche la più sensibile giurisprudenza di legittimità — come accennato — ha avuto occasione di ribadire. 9.
Conclusioni.
Così ricostruita la matrice di offesa propria dei reati di corruzione, è facile concludere che l’interpretazione giurisprudenziale (e dottrinale) che non pone nel giusto rilievo l’elemento di fattispecie al centro dell’indagine viola il principio di legalità e il corollario che, in sede di applicazione, ne garantisce il valore: il principio di tipicità, che, sia come momento di selezione del penalmente rilevante nello schema della ‘fattispecie legale’, sia come conformità del fatto al tipo legale stesso, adempie ‘‘alla funzione fondamentale di delineare il confine tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante, tra illecito etico-morale e reato in senso proprio’’ (98). Affermare - secondo le parole di Pannain — che ‘‘la tipicità del fatto è propriamente espressiva del suo valore giuridico’’, perché ‘‘la fattispecie esprime un disvalore che muta con il mutare dei singoli elementi’’, significa rilevare il fondamentale apporto descrittivo in termini di disvalore che il legislatore affida ad ogni singolo elemento della fattispecie (99); e significa ribadire che un fatto assume rilevanza giuridica per il diritto penale solo attraverso quel processo di sussunzione che porta a sovrapporre — fino a farli coincidere — i connotati essenziali del fatto stesso (Tatumstände) con gli elementi della fattispecie (Tatbestandsmerkmale) (100); se questa operazione non è possibile, o se il raffronto dà esito negativo, ragioni ben superiori alle esigenze repressive del caso concreto (101), le ra(98) Così GARGANI, Dal corpus delicti al Tatbestand, cit., p. 20. (99) Ibidem, p. 17 e ss., ove si riporta il pensiero di PANNAIN citato. (100) Cfr., ancora, GARGANI, op. cit., pp. 20, 44, il quale — approfondendo uno spunto già di DELITALA e CAMMARATA, identifica l’esito di questo procedimento di sussunzione nella c.d. fattispecie concreta, l’incontro, appunto tra fattispecie astratta e fattispecie reale; lo stesso procedimento che CORDERO sintetizza nel concetto di fattispecie giudiziaria, in cui l’accusa (l’imputazione), ponendosi tra norma penale e condanna, ‘‘sviluppa l’astrazione in figura storica’’ (CORDERO, Procedura penale, 2a ed., Milano, 1993, p. 423). Sottolinea l’importanza di una valutazione d’insieme di tutti gli elementi costitutivi dell’incriminazione e l’esigenza di valorizzare altresì le eventuali modalità dolose che li avvincono, perché è ‘‘la totalità degli elementi costitutivi che integra l’illecito nella sua significativa meritevolezza di pena’’, DONINI, Teoria del reato, cit., p. 105. (101) Esigenze che, alla volta, potrebbe fare apparire la repressione ‘giusta’ anche per fatti non conformi al tipo (cfr. VASSALLI (voce) Tipicità (diritto penale), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, p. 537), ma che se consentissero un arretramento delle posizioni garantiste, sul piano del diritto e del processo penale, risulterebbe un’ulteriore e irreparabile degenerazione dalla crisi che il paese sta attraversando, come in altri periodi, di crisi politico-istituzionale ancor più grave, con pronta lucidità è stato denunciato (cfr. BRICOLA, Lega-
— 963 — gioni della legalità e della certezza del diritto, impongono la stretta invalicabile del nec plus ultra; perché il fatto, non conforme al tipo, ‘‘non è previsto dalla legge come reato’’. Ebbene, fulcro della tipicità (in astratto) del reato di corruzione è — come si è cercato di dimostrare — un collegamento funzionale tra la ricezione e l’atto in base a cui possa dirsi che la prima è causa del secondo. Emblematica di questo collegamento finalistico la pregnanza semantica di locuzioni come ‘‘per compiere un atto del suo ufficio (...) riceve’’ (art. 318 c.p.), ‘‘per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio (...) riceve’’, terminologia cui si sottrae solo la corruzione impropria susseguente, unica fattispecie in predicato di essere appiattita sul modello della ‘‘Vorteilsnahme’’, o della venalità della carica, e non a caso nel fuoco della critica della dottrina che ne auspica la depenalizzazione. Dimenticare questo dato fondamentale che sia l’esperienza storica sia l’analisi comparatistica dimostrano essere il segno caratterizzante le nostre fattispecie di corruzione, vorrebbe dire trasformare la corruzione in un mero reato d’obbligo, il cui contenuto è spiegabile solo in termini di fedeltà e di prestigio. Ribadire la necessità di identificare nell’ambito delle fattispecie di corruzione un atto determinato e vincolato alla competenza del soggetto, significa ribadire ancora una volta il significato di garanzia custodito nel concetto di ‘‘fattispecie legale’’; uno schema racchiuso e delimitato in tutti i suoi elementi costitutivi, attraverso cui sono segnati — in modo invalicabile — confini della responsabilità e della pena, oltre che i presupposti minimi del processo (102) e — dato troppo spesso dimenticato — il suo corretto svolgimento. Solo il riferimento ad uno specifico e concreto atto d’ufficio, coordinato all’esercizio di specifici poteri (o facoltà, nel caso dell’incaricato di pubblico servizio), garantisce infatti il rispetto dei criteri di determinatezza che l’art. 417 c.p.p. impone nella formulazione della richiesta di rinvio a giudizio, e, per tal via, permette un effettivo esercizio dei diritti di difesa del soggetto agente, nella piena attuazione del fondamentale principio di cui all’art. 24 Cost. Diversamente, si svincola il processo dai cardini della legalità, sostituendo alla ‘fattispecie’ la traccia del reato (la ‘tangente’), e si finisce col rievocare la logica meramente probatoria, stringente ed autoreferenziale, dell’inquisitio generalis (103). Ci si deve interrogare, semmai, sulla opportunità di un’eventuale rilità e crisi: l’art. 25, commi 2 e 3, della Costituzione rivisitato alla fine degli anni ’70, in Scritti di diritto penale, cit., passim e p. 1373 ss.). (102) Cfr. GARGANI, op. cit., passim. (103) L’evoluzione da un primordiale modello di riferimento quale era la categoria processuale del corpus delicti alla categoria sostanziale del Tatbestand, segnata dal graduale passaggio dalla dimensione del fatto a quella della fattispecie, e dal piano delle regole processuali a quello delle norme penali sostanziali — oggetto della più volte citata analisi di
— 964 — forma volta ad estendere i confini della fattispecie, escludendo il riferimento specifico all’ ‘atto d’ufficio’ sulla scorta dell’esempio tedesco (104); anche se, al riguardo, non sono mancate voci di dissenso che hanno prontamente denunciato la fallacia di un correttivo simbolico (105) che rischierebbe, semmai, di attivare una soggettivizzazione della fattispeGARGANI (cfr., in ptc., p. 491 ss.) — muove infatti dall’esigenza — come rileva ORLANDI, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell’inquisitio generalis?, in questa Rivista, 1996, pp. 14, 17 — di stabilire in una dimensione predefinita in via legale i margini dell’intervento penale e di enucleare, così, ‘‘un criterio per riconoscere le condotte penalmente rilevanti all’interno di una quantità indifferenziata di condotte potenzialmente lecite’’, nel solco — appunto — della progressiva affermazione della c.d. concezione formale del reato. (104) In Italia, come è noto, una proposta simile accompagnava il progetto anticorruzione proposto dal gruppo di Cernobbio, ove anche si promuoveva la fusione di corruzione e concussione in un’unica fattispecie: cfr. AA.VV., Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento di partiti, in RTDPE, 1994, p. 911 ss., ove anche i singoli commenti dei proff. STELLA, La ‘filosofia’ della proposta anticorruzione, p. 925 ss., e PULITANÒ, Alcune risposte alle critiche verso la proposta, p. 948 ss. Analogamente, l’eliminazione di un riferimento diretto all’atto d’ufficio è stato ribadito in alcuni emendamenti presentati in data 8 ottobre 1998 nel corso della discussione del d.d.l. 3015-C, proponenti Mammola e altri, (poi confluito nel d.d.l. 2444-bis-C, su cui infra, n. 140), recante ‘‘Misure per la prevenzione dei fenomeni di corruzione’’, ove si prevedeva la modifica della fattispecie di corruzione (unificata alla concussione) fino a punire il fatto de ‘‘il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che riceve indebitamente, per sé o per altri, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, in relazione al compimento o all’omissione di un atto del suo ufficio o comunque in relazione alla sua qualità, alle sue funzioni o alla sua attività’’; l’emendamento, non accolto, è recentemente riemerso in seno a una nuova proposta di legge attualmente all’esame del Parlamento (si tratta della p.d.l. 4006-S, proponenti Salvi ed alri, comunicato alla Presidenza il 6 maggio 1999, Modifiche al codice penale in tema di corruzione). Le proposte di riforma rappresentano, peraltro, il necessario pendant per il recepimento delle diverse convenzioni internazionali in tema di corruzione, che negli ultimi anni sono state promosse — tra le altre — dall’Organizzazione europea per la Cooperazione e lo Svilppo (OECD) e dall’Unione europea per armonizzare (ed estendere, per lo più) lo spettro di tutela a livello sovranazionale, producendo un influsso decisivo nelle legislazioni delgli Stati membri (si pensi alle riforme attuate in Germania, ma anche alla riforma austriaca del 1998): sul punto, per un’ampia ricostruzione, si rinvia a MANACORDA, La corruzione internazionale del pubblico agente, Napoli, 1999, in ptc. p. 197 ss., il quale pire segnale l’estrema ampiezza con la quale in tutte le convenzioni sono descritti gli elementi di fattispecie, e in particolare l’oggetto della condotta (p. 259 ss.). Sul processo di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri sulla scia delle iniziative pattizie sovranazionali cfr. anche FORTI, Basic features of the Legislation for Combating Corruption and Bribery in the Member States, in corso di pubblicazione in HUBER, FROSCH (a cura di), Combatting Corruption in the European Union (atti del Convegno di Trier, dicembre 1998), Trier, 1999; sul punto anche HUBER, op. cit., p. 1 ss. Inoltre, anche nel recente ‘Corpus iuris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea’ si propone una definizione della fattispecie di corruzione estesa fino a comprendere dazione (e accettazione) di danaro per ‘un atto della funzione o un atto nell’esercizio della funzione’ (cfr. Verso uno spazio giudiziario europeo, Corpus iuris (a cura di GRASSO), Milano, 1997, p. 58 ss.). (105) HASSEMER, Rechtliche, polizeiliche und administrative Möglichkeiten einer
— 965 — cie, alleggerendo i contrassegni del ‘fatto’ con una pericolosa proiezione sull’autore (106). Ripensare la materia della corruzione, allora, dovrebbe suggerire di implementare soprattutto le strategie preventive e di controllo che — attraverso una cultura della trasparenza e dell’informazione — possano arginare un fenomeno che non accenna a declinare (107). Quest’ultimo sembra un punto cruciale: se la corruzione nasce dall’erosione di norme sociali, e si riflette nella creazione di un sistema di ‘regole’ alternative, la riduzione del gap che separa l’amministrazione dagli amministrati può contribuire in modo decisivo a sfaldare questa auto-nomia, restituendo forza al confronto con i paradigmi legali, e riattivando un processo di normalizzazione, e di ‘rieducazione’, che non può essere sostituito dalla sanzione penale, ormai — peraltro — ridotta a mero strumento di reprimenda censoria. VITTORIO MANES Dottorando di ricerca in Diritto penale nell’Università di Trento
wirksameren Korruptionsbekämpfung, in Korruption in Deutschland. Ursachen, Erscheinungsformen, Bekämpfungsstrategien, Berlin, 1995, pp. 80, 82, il quale, non a caso, ricorda come la realtà è sempre più intelligente e ricca di fantasia di chi cerca di catturarla ‘normativamente’. Un’opzione di questo tipo denuncerebbe una vera e propria ‘reazione sostitutiva’ (Ersatzreaktion) del legislatore, tipica della legislazione della crisi, in cui il legislatore si affida a mezzi simbolici — come la sanzione penale, appunto — già consapevole di non poter realmente contrastare e reprimere il fenomeno deviante: sul punto, doveroso un ulteriore rinvio ad altro lavoro dello stesso autore, Symbolisches Strafrecht und Rechtgterschtz, in NStZ, 1989, pp. 553 ss., 554. (106) Così SGUBBI, La semplificazione ed unificazione delle norme sulla concussione e corruzione nel progetto di riforma (in AA.VV., Revisione e formulazione delle norme in tema di corruzione e concussione, Atti del convegno di studi di diritto penale, Bari, 21-22 aprile 1995); analogamente, ARDIZZONE, La proposta di semplificazione in tema di corruzione ed i rischi di erosione della concezione del diritto penale del fatto, in RTDPE, 1995, p. 1 ss.; MANNA, op. cit., p. 137 ss., il quale sottolinea che tale modifica varrebbe a trasformare i delitti di corruzione in fattispecie di mera infedeltà; RAMPIONI, I delitti di corruzione, cit., pp. 3422-3; contra, sottolinea l’esigenza di ‘‘riformulare la fattispecie di corruzione in modo che essa non resti inchiodata al requisito dell’atto d’ufficio’’, FORTI, Unicità o ripetibilità della corruzione sistemica? Il ruolo della sanzione penale in una prevenzione ‘sostenibile’ dei crimini politico-amministrativi?, in RTDPE, 1997, pp. 1069 ss., 1086; suggerimento condiviso da PAGLIARO, La lotta contro la corruzione e la recente esperienza italiana ‘Mani pulite’, in RTDPE, 1996, pp. 1109 ss., 1128). (107) Sul tema, da ultimo, FIANDACA, Legge penale e corruzione, in Foro it., 1998, V, c. 1 ss; per un quadro generale sulle recenti proposte in materia di corruzione, cfr. NAPOLEONI, I delitti di corruzione nell’ordinamento italiano: le linee della riforma, relazione all’incontro di studio sul tema ‘Le forme internazionali di corruzione: strategie di contrasto in ambito europeo’, organizzato a cura del Consiglio Superiore della Magistratura, Frascati, 1113 maggio 1998.
PLURALITÀ DEI RITI E GIUDICE UNICO
1. Oltre l’unicità del processo. — Nel panorama delle vicende legislative di questi ultimi tempi, che interessano il settore processuale penale (1), vi è un aspetto che meriterebbe di assumere una decisiva centralità e che, invece, sembra restare solo latente. Si tratta del tema che possiamo definire della ‘‘pluralità dei riti’’, ossia della frantumazione dell’unità del processo nella molteplicità dei processi. Per vero, potrebbe subito osservarsi che proprio l’innovazione legislativa di maggior portata che ha preso vigore di recente nel nostro sistema giudiziario, con l’unificazione in un solo organo giudiziario della competenza a trattare la maggior parte dei procedimenti di primo grado (2), neghi in radice l’attualità del tema, considerato che la riforma in parola parrebbe avere come obiettivo espresso proprio quello di ridurre ad unità il sistema processuale, piuttosto che di favorire fenomeni di differenziazione (3). Tuttavia, non può sfuggire ad uno sguardo più attento che già lo (1) Anche nel panorama processuale civile sembra evidenziarsi un analogo fenomeno di abbandono del rito ordinario in favore della flessibilità di riti differenziati: ciò, se si vuole, già emerge dalla riforma del rito del lavoro l. n. 533, del 1973, ora esteso anche alle cause locatizie, ma più di recente si può vedere anche il procedimento atipico previsto dalla l. n. 40 del 1998, in materia di tutela girisdizionale contro i provvedimenti d’espulsione degli stranieri (ora nel T.U. n. 286, del 1998) e, soprattutto, segnali estremamente significativi si trovano nel testo dello schema di disegno di legge-delega elaborato dalla commissione ministeriale sul diritto societario, ottobre 1991, che all’art. 11 prevede, fra l’altro, che il Governo sia delegato ‘‘a dettare regole processuali’’ apposite, ispirate ‘‘al modello del procedimento cautelare’’. (2) Si tratta della riforma del giudice unico, approvata con il d.lgs 19 febbraio 1998, n. 51, in Gazz.uff., 20 marzo 1998, n. 66, suppl. ord. n. 1, in attuazione della legge-delega 16 luglio 1997, n. 254, in Gazz. uff., 5 agosto 1997, n. 181. Per un primo commento degli aspetti processuali penali della riforma AA.VV., Giudice unico di primo grado. Commento al d.lg. n. 51, del 1998, a cura di C. Riviezzo, Gazz. Giur., suppl. al n. 13, del 1998; AA.VV., D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, - Norme in materia d’istituzione del giudice unico di primo grado, in Legisl. pen., 1998, p. 367 ss.; R. CAPONI, F.A. GENOVESE, A. GIARDA, G. SPANGHER, Riforma del giudice unico, Milano, 1999. (3) Nella relazione di accompagnamento al primo disegno di legge sul rito monocratico (in Guida al diritto, n. 8 del 28 febbraio 1998, in particolare p. 23), si leggeva espressamente che ‘‘il nuovo assetto delle competenze interne al tribunale legittima una scelta di politica giudiziaria favorevole ad adottare un modulo processuale tendenzialmente omogeneo’’.
— 967 — stesso legislatore delegante, pur nell’unicità dell’organo giudicante, ha dovuto confermare la duplicità dei riti applicati (4), e soprattutto, che il problema più delicato che si è posto allo stesso legislatore nell’attuazione concreta della riforma ha riguardato proprio la disciplina del rito processuale che il nuovo organo unico di primo grado dovrà applicare allorché giudichi in composizione monocratica. Si è immediatamente percepito, infatti, che l’adozione del solo rito ‘‘ex pretorile’’ avrebbe indotto una significativa perdita di garanzie rispetto all’attuale rito di tribunale, anche per procedimenti aventi ad oggetto ipotesi criminose di rilievo, mentre la prevalenza del rito di tribunale avrebbe finito con il pregiudicare la snellezza del rito ‘‘ex pretorile’’, essenziale rispetto alla trattazione delle numerose ipotesi di reato, soprattutto contravvenzionali, già di competenza di quest’organo (5). Significativamente la soluzione che ha ora trovato attuazione è di mantenere, anche all’interno dell’unità dell’organo giudiziario monocratico, una qualche difformità di rito rapportata alla natura dei reati perseguiti. Già nel primo disegno di legge sul rito monocratico (6), pur nella prospettiva che si è già riferita di tendenzialmente omogeneizzazione del modulo processuale, su alcuni profili salienti, come la disciplina del passaggio del procedimento dalla fase delle indagini al giudizio, era prevista addirittura una triplice modalità, l’una per i reati ‘‘ex pretorili’’, per i (4) La lettera e) dell’art. 1, comma 1, della legge-delega per l’istituzione del giudice unico (legge 16 luglio 1997, n. 254) imponeva al governo di ‘‘stabilire che, nelle materie nelle quali il tribunale opera in composizione collegiale, si osservano le norme processuali vigenti per il procedimento innanzi al tribunale, mentre nelle restanti materie si osservano le norme processuali vigenti per il procedimento innanzi al pretore’’. (5) Fin dall’inizio il dibattito aperto in dottrina e nelle sedi parlamentari ha riguardato l’esigenza di ‘‘ridisegnare il ‘rito pretorile’, che, nel suo vigente assetto, visibilmente ispirato da esigenze di semplificazione, non sembra idoneo ad assicurare sufficienti garanzie in rapporto a tipi di reato di rilevante gravità’’: così già si esprimeva lo stesso Governo nella relazione d’accompagnamento al testo del decreto n. 51/98, edita in Gazz. uff., 20 marzo 1998, n. 66, suppl. ord. n. 2, p. 30, nonché in Doc. giust., n. 3, 1998, c. 530; nello stesso senso si esprimeva anche il Parere reso dal Senato sul d.lgs n. 51/98 in Doc. giust., n. 3, 1998, c. 694, s., nonché il CSM nel relativo Parere, ivi, c. 666, ss. In dottrina il tema è stato immediatamente posto da M. DEVOTO, I pericoli che incombono sul giudice unico, in Dir. pen. proc., 1998, p. 103 ss.: G. SPANGHER, Urge modificare le norme del procedimento, in Dir. pen. proc., 1998, p. 366 ss. e ID., Processo penale da adeguare all’istituzione del giudice unico, ivi, 1998, p. 683; G. FERRUA, Primi appunti critici sul giudice unico in materia penale, in Crit. dir., 1998, p. 21 ss; G. FRIGO, Il processo penale monocratico trova più garanzie ma l’impianto della riforma rischia il collasso, in Guida al diritto, n. 8 del 1998, p. 29 ss.; nonché da E. MARZADURI, L’introduzione del giudice unico di primo grado ed i nuovi assetti del processo penale, in AA.VV., D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 - Norme in materia d’istituzione del giudice unico, cit., p. 368 e G. FIANDACA, Riforme giudiziarie e riforme penali (testo provvisorio della relazione letta al convegno ‘‘Crisi della giustizia e riforma del giudice unico fra conflitti sociali e criminalità organizzata’’, Palermo, giugno 1998, p. 9). (6) In Guida al diritto, n. 8 del 1998, in particolare p. 17 ss.
— 968 — quali la trattazione doveva avvenire senza udienza preliminare, l’altra per i nuovi reati di competenza monocratica, da trattare con udienza preliminare a richiesta della parte, la terza, per i reati di competenza collegiale, da trattare sempre con l’udienza preliminare (7). Una soluzione che, seppure in parte, è stata alla fine confermata anche dal testo approvato, nel quale permane quest’impostazione plurima del rito, anche se svincolata da scelte discrezionali delle parti (8). Al riguardo, infatti, mentre i nuovi artt. 33-bis, e 33-ter, c.p.p., delimitano i confini delle attribuzioni tra giudice collegiale e monocratico, quanto al rito applicabile davanti a quest’ultimo organo il rinnovato libro VIII, ora rubricato come ‘‘Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica’’, da un lato dispone, nel titolo primo (art. 549, c.p.p.), che ‘‘per tutto ciò che non è previsto nel presente libro o in altre disposizioni, si osservano le norme contenute nei libri che precedono, in quanto applicabili’’ ma, al contempo, nel titolo successivo, rubricato come ‘‘Citazione diretta a giudizio’’, limita l’applicazione della citazione diretta medesima solo ad alcuni dei reati di ‘‘competenza’’ del giudice monocratico e precisamente alle contravvenzioni, ai delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni, anche se congiunta a pena pecuniaria (9), nonché ad una serie di altri delitti espressamente elencati, dai quali, fra l’altro, rispetto all’elencazione del previgente art. 7, che compendiava i delitti di competenza pretorile, sono stati esclusi il ‘‘favoreggiamento reale di cui all’art. 379, c.p.’’, i ‘‘maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli’’, ‘‘l’omicidio colposo previsto dall’art. 589, c.p.’’ e la ‘‘truffa aggravata a norma dell’art. 640, comma 2, c.p.’’. Tutte fattispecie che pure restano attribuite ex art. 33-bis e ter c.p.p. al tribunale in composizione monocratica. La conseguenza, dunque, è che la trattazione di questi delitti, come per tutti quelli non ricompresi fra i reati per i quali è possibile procedere con la citazione diretta, sarà regolata, ex art. 549. dalle norme ordinarie, (7) Critico rispetto a questa soluzione G. FRIGO, Il processo penale monocratico, cit., p. 31, in forza dell’argomentazione, su cui si tornerà nel testo, per cui ogni differenza di trattamento processuale diviene per ciò stessa discriminante. Contrario alla soluzione, seppure per altri profili, anche A. NAPPI, Sul procedimento penale davanti al tribunale in composizione monocratica, in Gazz. giur., 1998, n. 12, p. 1. (8) Legge 16 dicembre 1999, n. 479, in Gazz. Giur. Serie Gen., 18 dicembre 1999 n. 296. (9) In maniera del tutto anomala e incomprensibile nella formulazione del nuovo art. 550 c.p.p., rispetto al previgente art. 7, c.p.p. che elencava i reati di competenza pretorile, è scomparso il riferimento ai delitti punti con la sola pena pecuniaria, per cui deve concludersi che il legislatore abbia sottratto questi reati alla possibilità che siano introdotti con citazione diretta. Per fare un esempio di portata pratica assai rilevante i delitti di cui alla legge n. 907, del 1942, sul monopolio dei tabacchi sono puniti solo con la pena pecuniaria. Ovviamente non può trattarsi d’altro che di una dimenticanza, ma alla quale non potrà porsi rimedio in via interpretativa.
— 969 — salve le disposizioni contenute nei successivi titoli III (Procedimenti speciali), IV (Dibattimento) del medesimo libro VIII: con il risultato pratico principale che l’introduzione del giudizio sarà quella prevista dinanzi al giudice collegiale, con richiesta formulata dal pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari e successiva udienza prelirninare (10). D’altra parte, il recupero, se non l’ampliamento, dell’esigenza di differenziazione del processo sta contemporaneamente realizzandosi tramite le ulteriori riforme di accompagnamento della disciplina sul giudice unico di primo grado, in quanto la creazione di un nuovo rito processuale, differenziato da quello ‘‘ordinario’’, è espressamente prevista per la trattazione dei reati da trasferire nella competenza del giudice di pace (11). (10) Per un primo commento alla normativa sul rito monocratico, AA.VV., Giudice unico: speciale rito monocratico/2, in Guida al diritto, n. 1 del 2000, p. V ss.; AA.VV., Analisi delle modifiche al rito penale, al processo civile e al giudice civile e al giudice di pace, in D&G, n. 2 del 2000, p. 48 ss. (11) In forza della delega al governo per l’attribuzione al giudice di pace della competenza penale (legge 24 novembre 1999, n. 468, in Gazz. uff., 15 dicembre 1999, n. 293) il processo penale dinanzi a quest’ultimo organo dovrà informarsi ai criteri e principi direttivi elencati dall’art. 17, che è opportuno riportare per esteso: ‘‘tenendo conto delle norme del libro ottavo del codice di procedura penale riguardanti il procedimento divanti al tribunale in composizione monocratica, con le massime semplificazioni rese necessarie dalla competenza dello stesso giudice. Si osservano, altresì, i seguenti principi e criteri direttivi: a) estensione della perseguibilità a querela dei reati; b) previsione che, nel rispetto dei principi stabiliti negli artt. 109 e 112 della Costituzione, l’attività di indagine sia di regola affidata esclusivamente alla polizia giudiziaria e che questa, salve specificate ipotesi sulla base dell’imputazione formulata dal pubblico ministero, disponga direttamente la comparizione dell’imputato davanti al giudice, a meno che il pubblico ministero richieda l’archiviazione della notizia di reato al giudice di pace competente per territorio; c) previsione che per taluni reati perseguibili a querela la citazione in giudizio possa essere esercitata anche direttamente dalla persona offesa col ministero del difensore mediante ricorso al giudice di pace; d) previsione che il giudice di pace fissi direttamente l’udienza o, nel caso in cui sia necessario svolgere indagini trasmetta la notizia di reato alla polizia giudiziaria perché proceda ai sensi della lettera b); e) previsione di tempestiva informazione al pubblico ministero per l’esercizio delle sue facoltà e di strumenti idonei ad una puntuale formulazione dell’imputazione e ad un compiuto esercizio del diritto di difesa; f) introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato; g) obbligo per il giudice di procedere al tentativo di conciliazione sugli aspetti riparatori e risarcitori conseguenti al reato, nonché in ordine alla remissione della querela ed alla relativa accettazione; h) previsione di ipotesi di estinzione del reato conseguenti a condotte riparatorie o risarcitorie del danno; i) ridefinizione delle ipotesi di connessione dei procedimenti che tenga conto della particolare natura dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace e introduzione di poteri discrezionali in capo al giudice quanto all’obbligo di rilevarne l’operatività; l) svolgimento del giudizio in forma semplificata con ampliamento delle possibilità di utilizzazione degli atti delle indagini preliniinari, quando vi sia il consenso delle parti; m) previsione che le funzioni di pubblico ministero in udienza siano delegate dal procuratore della Repubblica presso il tribunale, che non le eserciti personalmente, ad uno dei soggetti di cui all’art. 72, dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, e succes-
— 970 — Rispetto alla situazione precedente alla riforma, dunque, nella quale si conoscevano solo il rito pretorile, improntato ad una maggiore semplifieazione, e il rito ‘‘ordinario’’ applicato in tribunale (esteso anche alla corte di assise), ora il processo penale assumerà in via ordinaria almeno tre forme diverse a seconda che il reato sia trattato dal tribunale in composizione collegiale (e dalla corte di assise) dal tribunale in composizione monocratica o dal giudice di pace, con l’aggiunta di un’ulteriore particolarità costituita dalle ipotesi in cui il giudice monocratico procederà con le forme previste per il giudizio collegiale (12). A chi scrive, quindi, sembra che si tratti di dati che confermino quanto sopra accennato circa la latenza nel sistema della questione relativa alla dicotomia pluralità-unità del rito. Per questo, come anticipato, si ritiene necessario tentare di emancipare questo tema dalla condizione marginale in cui è normalmente costretto, provando a porre al centro del dibattito proprio l’idea che il processo debba essere un’entità polimorfa, in cui le forme si adeguano per quanto più è possibile al concreto oggetto dell’accertamento demandato all’organo giurisdizionale, abbandonando consapevolmente la prospettiva di un processo unico (13). sive modificazioni, ovvero a un avvocato presente in aula; n) previsione della appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e di quelle di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria; o) previsione della non appellabilità da parte dell’imputato delle sentenze di non luogo a procedere e di proscioglimento con le quali sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso; p) previsione di una particolare disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziale e dei loro effetti, assicurando fra l’altro che i certificati richiesti dall’interessato non riportino le iscrizioni delle condanne per reati la cui competenza è attribuita al giudice di pace. (12) E sarà sicuramente interessante verificare quali effetti pratici deriveranno sul piano della concreta dinamica processuale dal fatto che l’organo giudicante sia un giudice singolo. Se lo chiede anche G. FIANDACA, Riforme giudiziarie, cit., p. 14. (13) Lo specifico auspicio di una ‘‘differenziazione e specializzazione del processo penale’’ si trova formulato nelle risoluzioni congressuali del XIV congresso dell’A.I.D.P., svoltosi a Vienna dall’1 al 7 ottobre del 1989, e dedicato ai rapporti tra l’organizzazione giudiziaria e il processo penale, v. il testo delle risoluzioni in appendice (II) a M. PISANI, I rapporti tra l’organizzazione giudiziaria e il processo penale, Padova, 1990, p. 70. Analoga problematica è stata affrontata nel XVI corgresso dell’A.I.D.P., tenutosi a Budapest dal 5 all’11 settembre 1999, in relazione alle fittispecie riconducibili nel novero dei reati di criminalità organizzata, per i cui lavori preparatori è utile vedere, sul punto che qui interessa, Rev. intern. de droit pénal, 1996, pp. 530/531. D’altra parte, l’auspicio di una differenziazione del rito è posta con cadenza abbastanza regolare dal fronte di chi si occupa della repressione dei reati c.d. di criminalità organizzata, con la sollecitazione a valutare l’opportunità che il processo penale diretto all’accertamento di questi reati sia retto da regole diverse e particolari rispetto al processo penale ordinario. Sul tema v. G. GIOSTRA, I limiti di una ‘‘strategia processuale differenziata’’ per i delitti di mafia, in Gazz. giur., 1997, n. 32, p. 1. V. anche V. GREVI, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, a cura dello stesso A. BARI, 1993, p. 6 ss. Allo scopo di studiare la possibilità di dettare una complessiva procedura dif-
— 971 — 2. La diversità dei riti e la ripartizione della competenza fra giudici diversi: cenni storici e norme vigenti. — Al riguardo è utile iniziare con il segnalare che la poliformità del processo, malgrado l’apparenza, non è per nulla una scoperta recente, perché la tradizione giuridica occidentale, benché non l’abbia mai elevato a sistema consapevole, ha conosciuto fin dal suo sorgere un fenomeno definibile come ‘‘pluralità dei riti processuali penali’’, la cui manifestazione sintetica più evidente è rintracciabile nella storica ripartizione fra giudici diversi della competenza a conoscere di diverse categorie di reati (14). Atteso che alla diversa composizione organica degli uffici è sempre corrisposta una diversità della normativa processuale applicabile. Per limitarci ad esempi propri del sistema giuridico italiano (15), può utilmente rileggersi il primo codice processuale penale del regno d’Italia (16), nel quale rispetto ad ogni giudice vi era una procedura disciplinata in maniera autonoma: nel Titolo I del libro II per i procedimenti dinanzi al pretore, nel Titolo II del medesimo libro per le cause di tribunale e nel Titolo III per le ‘‘cause da sottoporsi alle Corti d’assise’’. Una disciplina nella quale, significativamente, la ripartizione della competenza era effettuata in relazione alla tripartizione classica fra contravvenzioni, delitti e crimini (17). Così pure il codice del 1930, benché non distinguesse più, in via sistematica generale, fra giudizi in pretura, in tribunale e in corte di assise, tuttavia, quanto al pretore lasciava sopravvivere una procedura del tutto particolare (18), allo stesso modo di quanto verrà confermato nel codice del 1988, dove questa distinzione tornerà ad essere segnalata anche sistematicamente attraverso la previsione di un libro apposito (l’VIII) dedicato ferenziata per questa tipologia criminale presso il Ministero della giustizia, con d.m. 15 ottobre 1998, è stata costituita un’apposita commissione, presieduta da G. Fiandaca. (14) Parte della dottrina ha negato che si potesse parlare di specialità della procedura per il solo fatto che vi fosse una ripartizione di competenza fra giudici diversi, così G. LEONE, voce Processo penale (diritto vigente), in Novissimo dig., v. XIII, 1968, p. 966, ma la questione non è di ravvisare un rapporto di specialità fra un rito e l’altro, bensi di cogliere l’esistenza di una difformità di regole. (15) Ma si può vedere come fenomeni identici si ritrovino nelle esperienze legislative di altri paesi: per un’interessante sguardo d’insieme AA.VV., Procedure penali d’Europa, coordinato da M. Delmas-Marty, ed. italiana a cura di M. Chiavario, Padova, 1998. Per l’esperienza inglese, che ispira la disciplina processuale vigente, deve leggersi il lavoro di A. TASSI, Summary jurisdiction e giudizio abbreviato: elementi per un raffronto, in Ind. pen., 1995, p. 473 ss. (16) Approvato con r.d. 26 novembre 1865, n. 2598, in Codice penale e di procedura penale, Napoli, 1866. Oggi ripubblicato anche in Codici penali del Regno d’Italia, Napoli, 1997. (17) Seppure poi la corte d’assise avesse competenza anche su alcuni delitti: v. art. 9; e il pretore anch’esso su alcuni delitti: art. 11. (18) E.LEMMO, I profili atipici dei procedimenti pretorili, Milano, 1986.
— 972 — al ‘‘procedimento davanti al pretore’’, in ossequio alla direttiva n. 103 della legge-delega, la quale, pur prevedendo che la disciplina del processo davanti al pretore dovesse ispirarsi ai principi generali, tuttavia specificava: secondo ‘‘criteri di massima semplificazione’’ (19). Quanto poi alle ragioni che hanno storicamente sostenuto questo polimorfismo della procedura, il richiamo sopra effettuato alla corrispondenza fra tipo di giudice competente e tipologia del reato, che ancora si coglieva nei codici più antichi e che, ad esempio, si può ritrovare nella codificazione processuale francese vigente (20), rende palese che queste ragioni non vanno ricercate in altro se non nella consapevolezza che per l’accertamento di alcuni reati, in connessione con la loro struttura o la loro intensità, fosse opportuno prevedere, a seconda, procedure più semplici o più articolate (21). Un fenomeno, quindi, che ha sempre risposto ad una esigenza di specializzazione del processo in relazione al tipo di reato perseguito, secondo criteri che, con linguaggio moderno, si potrebbero definire di allocazione efficiente delle risorse; riferibili, al fondo, all’esigenza di corrispondenza fra gravità del reato e ‘‘gravità’’ (22), del rito. (19) Sul punto A. MOLARI, in AA.VV., Manuale di procedura penale, p. 513 ss., Bologna, 1997, G. TRANCHINA, Il procedimento davanti al pretore, in AA.VV., Diritto processuale penale, Milano, 1996, II, p. 560 ss. Una tendenza verso un’ulteriore ‘‘ particolarizzazione’’ del processo in pretura era poi contenuta nel disegno di legge d’iniziativa governativa n. 2968/C, Doc. giustizia, 1997, p. 608 ss., anche in Guida dir., 1997, n. 3, p. 5 ss., che, però, non ha avuto seguito. Nella relazione che accompagnava il disegno di legge si leggeva che ‘‘il sistema che si propone si basa su scelte che tendono alla massima semplificazione dell’istruttoria dibattimentale, attualmente sproporzionata nella maggior parte dei casi rispetto alla semplicità dei processi che giungono all’esame del pretore, al fine di restringere i tempi di durata del dibattimento e di favorire il ricorso ai riti alternativi’’, in Guida dir., cit., p. 122; benché, in concreto, sul piano istruttorio la semplificazione si riducesse nell’imporre all’imputato l’onere di opporsi all’utilizzabilità degli atti già indicati e assunti dal pubblico ministero. Soluzione già criticata da G. FRIGO, Dietro il buon proposito dell’efficienza il crepuscolo del processo garanzia, ivi, p. 127. (20) In Francia, la Corte di assise è competente a conoscere dei crimini, ‘‘le tribunal correstionnel’’ in forza dell’art. 381, dei ‘‘délits’’, mentre il ‘‘tribunal de police’’, in forza dell’art. 521, ‘‘connaît des contraventions’’. Sul punto V.DERVEUX, Il processo penale in Francia, in AA.VV., Procedure penali d’Europa, cit., pp. 99-100 e N. GALANTINI, Profili della giustizia penale francese, Torino, 1995. (21) Sia consentito ancora una volta per l’assenza di ogni pretesa di ricostruzione storica che caratterizza questo breve scritto, ricordare quale semplice, ma significativo esempio, che il ‘‘Codice processuale per lo regno delle due Sicilie’’ del 1819, distingueva, all’interno del libro II ‘‘De’ giudizi ordinari’’, un titolo (II) dedicato ai ‘‘giudizi de’ misfatti’’ (‘‘co’ rei presenti’’ perché dava luogo ad una procedura definita come ‘‘particolare’’ il ‘‘giudizio per contumacia contro gli imputati di misfatto’’), un titolo (IV) dedicato al ‘‘giudizio de’ delitti’’ e un titolo (V) ‘‘de’ giudizi delle contravvenzioni di polizia’’, differenziando espressamente il rito in relazione alla tipologia dei reati. Codice per lo regno delle due Sicilie, seconda edizione uffiziale dalla real tipografia del ministero di Stato della cancelleria generale, Napoli, 1819. (22) Nel senso di ponderatezza e rigore.
— 973 — 2.1. Le procedure speciali o differenziate. — Quelle stesse esigenze, peraltro, hanno storicamente condotto anche alla previsione di un ulteriore livello di ‘‘particolarizzazione’’ del processo, in forza del quale, accanto alle procedure differenziate in conseguenza del giudice chiamato ad operare, sono state previste procedure applicabili in deroga al rito ordinario, che questa volta anche il linguaggio legislativo e la dottrina non hanno esitato a definire ‘‘speciali’’ (23). Questo secondo fenomeno si è manifestato, tuttavia, attraverso una differenziazione del rito (24), non tanto in relazione alle specifiche categorie di reato perseguite, quanto in ragione di elementi attinenti alla concreta fattispecie processuale, quali l’esistenza di particolari stati di fatto (flagranza nel direttissimo, ora evidenza della prova nell’immediato) o, più di recente, l’accordo o la richiesta delle parti (gli attuali giudizio abbreviato e patteggiamento), che hanno consentito di non turbare preoccupazioni sia di ordine teorico e sistematico che di ordine politico, lasciando cioè che lo sviluppo differenziato appartenesse alla concreta vicenda processuale e non fosse invece rapportato all’astratta fattispecie perseguita (25). Ma non sono mancati esempi legislativi di reati per il cui accertamento si è fatto rinvio espresso ad uno dei riti speciali, a prescindere dalla concreta sussistenza delle condizioni ordinarie di ammissibilità del rito medesimo, com’è avvenuto, in particolare, nel caso del giudizio direttissimo (26). Nello stesso alveo, peraltro, si è da sempre collocato anche un caso di specializzazione del processo direttamente collegato ad un elemento generale ed astratto, quale la pena edittalmente prevista (il procedimento per (23) Il codice di procedura penale del 1930 intitolava, infatti, il capo IV, titolo II, del libro III, ‘‘dei giudizi speciali’’, disciplinandovi il giudizio con imputato contumace, tradizionalmente regolato da norme particolari, ma, soprattutto, il ‘‘giudizio direttissimo’’ (sez. II) e il ‘‘giudizio per decreto’’ (sez. III) e il codice del 1988 tratta ancora oggi dei ‘‘procedimenti speciali’’ in un libro apposito (VI). Per brevi notazioni storiche sui ‘‘giudizi speciali’’ v. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1991, pp. 831-832. Sul punto per più ampi ragguagli è utile rimandare anche al testo classico di G. SABATINI, Trattato dei procedimenti speciali e complementari nel processo penale, Torino, 1956, e al dibattito tra questo Autore e Bellavista, ricostruibile attraverso i testi di quest’ultimo: G. BELLAVISTA, Sulla teoria generale dei procedimenti penali anomali, in questa Rivista, 1956, p. 505 ss.; ID., I procedimenti penali anomali, Messina, 1958; ID., Ancora in tema di procedimenti anomali, in questa Rivista, 1959, p. 1109 ss; nonché il lavoro del primo: G. SABATINI, Sulla distinzione tra procedimento ordinario e speciale, in Giust. pen., 1959, III, c. 577, ss. (24) Anche M. PISANI, La celerità del processo penale italiano, in ‘‘Italian style’’ figure e forme del nuovo processo penale, (già in Ind. pen., 95, pp. 257-285), Padova, 1998, p. 37, utilizza in riferimento ai riti speciali la diversa locuzione ‘‘modelli differenziati’’. (25) Sulla disciplina dei riti speciali vigenti AA.VV., I procedimenti speciali in materia penale, a cura di M. Pisani, Milano, 1997. (26) Sul tema si rinvia alla pregevole ricostruzione storica effettuata da E. ZANETTI nel volume AA.VV., I procedimenti speciali, cit., in particolare p. 362 ss.
— 974 — decreto), il quale in qualche misura è assurto a rito tipico di una certa categoria di reati, pur rimanendo la sua concreta esperibilità nella discrezionalità dell’organo della pubblica accusa procedente (27). Si noti, inoltre, che questi stessi riti speciali (nell’impostazione originaria del codice vigente) venivano in qualche misura a differenziarsi ulteriormente nella loro stessa scansione processuale, ove applicati dinanzi al pretore (28). 2.2. Binari differenziati. — Di recente, infine, la particolarizzazione del processo ha assunto caratteristiche diverse e ancora più marcate, poiché, accanto alla tradizionale ‘‘pluralità di riti’’ che si è fin qui descritta, si è andato manifestando un ulteriore fenomeno, caratterizzato dalla previsione di norme processuali che dettano disposizioni a contenuto differenziato, applicabili esclusivamente in relazione ai singoli reati perseguiti. Tanto che, all’interno del codice di procedura penale vigente, il legislatore ha finito con l’istituire quello che è stato esattamente definito ‘‘doppio binario’’ (29), inteso come la previsione di un corpo di norme destinato ad operare solo in relazione ad una serie di reati espressamente elencati (30). Ma il fenomeno da ultimo segnalato ha trovato, per quanto conosciamo, la sua massima espressione nella recente legge n. 66, del 1996, sui reati contro la libertà sessuale, nella quale, accanto alle nuove disposizioni sostanziali, il legislatore ha ritenuto di dover dettare una serie composita di norme processuali destinate ad operare solo allorché si proceda per i reati indicati nella legge medesima (31). Tecnica ribadita con la suc(27) Sul procedimento per decreto sia consentito rinviare in particolare a G. PIZIALI, Il procedimento per decreto, in I procedimenti speciali, cit., p. 513 ss. (28) R. PERONI RANCHET, in I procedimenti speciali, cit., p. 597 ss., il quale riferisce altresì di come questo ulteriore livello di specializzazione sia stato ritenuto conforme alla Carta costituzionale con ordinanza n. 22 del 1995, della Corte costituzionale, la cui motivazione nella parte essenziale si può leggere in Il codice di procedura penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a cura di M. Pisani, Bologna, 1999, p. 55. (29) V. gli artt. 51, comma 3-bis, 190-bis, 275, comma 3, 406, comma 5-bis, 407 c.p.p. Sul punto: A. GIARDA, Riforme, controriforme e criminalità organizzata, ora in Praxis criminalis, 1994, p. 419 (già in Corr. giur., 1992, p. 1070 ss.) e ID., Processo penale: riforma senza fine, in Praxis, cit., p. 525 (già in Corr. giur., 1992, p. 1284). Ad ‘‘una decretazione processuale antimafia’’ accenna M. CHIAVARIO, nella rubrica del primo paragrafo de Il processo penale dopo la nuova decretazione d’emergenza: ancora una volta alla ricerca di una bussola, in Legisl. pen., 1993, p. 339 ss. (30) Nell’ambito della commissione di cui alla nota (13), G. DI CHIARA ha elaborato la relazione pubblicata con il titolo: Appunti per una ricognizione della normativa processuale penale in tema di criminalità organizzata, in Foro It., 1999, cc. 217 ss., che costituisce un utilissimo inventario del predetto ‘‘binario’’ processuale differenziato. (31) Su questi aspetti della legge n. 66, del 1996 v. G. PIZIALI Reati contro la libertà sessuale, aspetti processuali, in Riv. dir. proc., 1997, p. 196 ss., nonché, più autorevolmente, G. SPANGHER, Commento alla legge n. 269 del 1998, Le norme di diritto processuale penale, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1231; ma già sul tema del raccordo fra riforme sostanziali e pro-
— 975 — cessiva normativa contro lo sfruttarnento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale in danno di minori (32). 2.3. Il processo minorile e il processo penale militare: un riferimento. — In questo quadro, infine, non possono non essere richiamate anche le peculiari vicende che sotto il profilo processuale hanno caratterizzato la trattazione dei reati con imputati minori e dei reati militari, nei quali accanto (e prima, per il processo minorile) alla specificità dell’organo vi è stata una peculiarità del rito, rapportata in questi casi alla peculiarità dell’autore del reato (33). 3. Preoccupazioni dogmatiche e il principio di uguaglianza. — Dunque, a parere di chi scrive, deve essere considerato legittimo che, nelle discussioni sul processo, il fenomeno della ‘‘pluralità dei riti’’ sia portato in piena evidenza, superando le preoccupazioni di natura meramente dogmatica che si traducono nell’aspirazione ad una teoria generale uniforme del processo. Preoccupazioni di quest’ultimo genere, infatti, non paiono meritevoli di adesione. Come ebbe già modo di affermare anni fa Gaetano Foschini, nel teorizzare il principio del polimorfismo processuale (quale espressione del ‘‘principio di adeguatezza’’ tra struttura e funzione), è un errore pensare al processo penale ‘‘livellando tutte le forme processuali, immaginando così un tipo di processo penale che, con identità di struttura, dovrebbe sempre applicarsi con riguardo a tutte le regiudicande’’, perché il processuali interessanti osservazioni erano svolte da G. LATTANZI, Un processo riformato o rivoluzionato?, in Legisl. pen., 1993, p. 353. Per profili di specialità processuale in relazione a singole fattispecie criminose v. anche la legge n. 108 del 1996, (normativa antiusura, sulla quale v. D. MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, Milano, 1998, in particolare p. 161 ss.; F. MUCCIARELLI Legge 7 marzo 1996, n. 108, - Disposizioni in materia di usura, in Legisl. pen., 1997, p. 511 ss.), la legge n. 82, del 1991 (sequestri di persona) gli artt. 97-103 del T.U. n. 309, del 1990, (stupefacenti, sulla quale v. E. CELLOTTI, Disposizioni processuali e preprocessuali specifiche in materia di stupefacenti, in La nuova normativa sugli stupefacenti, a cura di G. Flora, Milano 1991, p. 27 ss. e F. C. PALAZZO, L’uso personale di stupefacenti nella nuova legge antidroga, in Legisl. pen., 1992, p. 189 ss., ma già nella legge n. 685, del 1975, l’art. 82), l’art. 10, del d.l. n. 419, del 1991, conv, nella legge n. 172, del 1992, (estorsioni). (32) Legge 3 agosto 1998, n. 269, in particolare art. 13, ma anche 12 e 11. Per notazioni conformi a quelle svolte nel testo in relazione alla normativa ora richiamata v. L. IAFISCO, Legge 3 agosto 1998, — Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia del turismo sessuale in danno di minori quali forme di riduzione in schiavitù, sub art. 13, in Legisl. pen., 1999, pp. 130-131. (33) Sull’evoluzione della disciplipa minorile M. PISANI, Il Tribunale per i minorenni in Italia. Genesi e sviluppi nornativi della giurisdizione penale, Padova, 1987, p. 139 ss. Sul processo penale militare R. VENDITTI, ll processo penale militare, Milano, 1997.
— 976 — cesso per essere efficiente deve, al contrario, adeguarsi al suo specifico oggetto (34). Principio di adeguatezza, il quale richiede che il complessivo apparato normativo dettato al fine di consentire l’accertamento dell’effettiva commissione di un reato sia ‘‘sempre commisurato alla importanza del risultato e quindi alla rilevanza della fattispecie costituente materia del processo, in funzione della gravità delle conseguenze che possono derivarne’’, nonché delle concrete difficoltà del processo (35). In altri termini, se, come si è cercato di evidenziare rapidamente sopra, la preoccupazione teorica di omogeneità del rito processuale è in fondo smentita dalla storia medesima della procedura, anche sotto il profilo propriamente dogmatico, invece di confermare come un postulato intangibile l’unicità del processo, dovrebbe essere semmai percorsa la via della costruzione di una teoria generale della poliformità dei processi. Si è, tuttavia, perfettamente consapevoli che prima di percorrere questa prospettiva sia imprescindibile aver affrontato la diversa questione relativa alla compatibilità del polimorfismo processuale con il principio di uguaglianza. Ma anche per questo aspetto, che è sicuramente il principale a venire in considerazione, occorre che le premesse siano poste correttamente, ossia prendendo le mosse dalla considerazione generale che non ogni difformità di trattamento processuale deve perciò stesso essere considerata discriminante (36). In questo senso una prima indicazione particolarmente interessante (34) G. FOSCHINI, Sistema di diritto processuale penale, 2a ed., 1968, Milano, vol. II, p. 10. Un richiamo alla valenza del principio elaborato da Foschini si trova in G. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 153 ss., anche in relazione all’ulteriore livello di differenziazione della procedura, specificamente attinente ai riti camerali, analizzato dall’autore. (35) G. FOSCHINI, Sistema, cit., p. 9. Spunti interessanti di riflessione in una direzione analoga si trovano anche in P. NUVOLONE, Funzionamento e prospettive della giustizia penale in un mondo in evoluzione, in Ind. pen., 1983, in particolare pp. 238 e 240; nonché A. PAGLIARO Correlazioni tra il livello delle sanzioni penali, la struttura del processo e gli atteggiamenti della prassi, ivi, 1981, in particolare p. 229, laddove si legge che ‘‘può essere utile introdure una certa duttilità del sistema, in modo da assicurare la possibilità di scelta tra processi diversi in relazione alle esigenze che emergano nel caso concreto’’. Di recente un’affermazione precisa nel senso qui proposto si legge in M. DEVOTO, I pericoli, cit., p. 105: ‘‘credo nella necessità di modelli e istituti processuali differenziati, ragguagliati alla diversità delle fattispecie’’. (36) Spesso l’impostazione che traspare è invece proprio quest’ultima. Nel senso qui auspicato è molto interessante notare come fra i tre principi a ‘‘garanzia della preminenza del diritto’’ premessi dalla Commissione Justice pénale et Droit de l’Homme, costituta presso il Ministero della giustizia francese nell’agosto del 1988, e presieduta da M. Delmas-Marty, vi fosse anche ‘‘l’uguaglianza tra i soggetti sottoposti a processo penale’’; principio significativamente compendiato, tuttavia, nei termini seguenti ‘‘i soggetti perseguiti per lo stesso tipo di reato e che si trovino in condizioni analoghe devono essere giudicati sulla base di identi-
— 977 — viene dall’esperienza europea, nell’ambito della quale l’operare di una Corte che esercita il suo potere di controllo sulle procedure di tutti gli stati membri alla stregua di principi inviolabili comuni (37), se da un lato ha l’effetto di realizzare un’indubbia spinta all’omogeneizzazione delle procedure, dall’altro, lascia, però, sopravvivere il particolarismo delle stesse, nella misura in cui queste non vengano a collidere con i singoli principi del giusto processo; evidenziando in tal modo, per prima cosa, che i medesimi principi inviolabili possono essere inverati attraverso forme diverse e, in secondo luogo, che la differenziazione delle procedure non è in se stessa un fenomeno contrario ai principi fondamenti condivisi dal consesso delle nazioni (38). Sotto quest’ultimo profilo, inoltre, l’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea ha prodotto risultati assai interessanti. Con riferimento ad una ipotesi di discriminazione propriamente incidente sul campo processuale la Corte ha statuito che il diverso trattamento per imputati maggiorenni rispetto ad imputati minorenni, anche se comporta l’esclusione di alcune garanzie per questi ultimi, non per questo si può dire che produca una ‘‘discriminazione in violazione all’art. 14, della convenzione, in quanto la procedura ad essi (minori) applicabile ha carattere protettivo e non repressivo’’, per cui ‘‘la differenza trova una giustificazione obiettiva e ragionevole’’ (39). In termini più generali la stessa Corte ha, inoltre, affermato che ‘‘gli stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento quando si tratta di determinare se e in quale misura si giustificano differenze di trattamento tra situazioni analoghe sotto certi aspetti’’ e che ‘‘l’ambito della discrezionalità può variare a seconda delle circostanze’’ (40), con la conche regole’’ (corsivo nostro), in La fase preparatoria del processo penale nel progetto Delmas-Marty, a cura di M. Pisani e N. Galantini, Bologna, 1994, p. 22. (37) Sulla Corte europea C. ZANGHÌ, voce Corte europea dei diritti dell’uomo, in Enc. giur. Treccani, vol. IX, Roma, 1988. Sulla nuova conformazione assunta dalla Corte v. ora M.T. SARAGNANO, La ‘‘nuova’’ Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1998, n. 411, p. 739 ss. (38) Seppure nell’ottica diversa di individuare un modello europeo di processo penale M. DELMAS-MARTY, nell’introduzione al lavoro collettaneo Procedure penali d’Europa, cit., riconosce come ‘‘la proclamazione di principi europei — arricchiti da tutta una giurisprudenza, creativa ed evolutiva, da parte della Commissione e della Corte europea dei diritti dell’uomo — mostra bensì dei possibili avvicinamenti, sotto ‘l’apparente diversità delle forme’; ma essi non bastano a costuire un vero modello europeo di processo penale’’, p. 2. Anche L.P. COMOGLIO, Diritti fondamentali e garanzie processuali comuni nella prospettiva dell’Unione europea, in Foro it., 1994, V, cc. 153, ss., nella parte in cui afferma che anche all’interno dell’unificazione europea ‘‘più che di unificazione formale’’ si potrà trattare di ‘‘ravvicinamento oggettivo o di armonizzazione sostanziale delle discipline giudiziarie nazionali’’. (39) Sentenza del 29 febbraio 1988, resa nell’affare Bouamar. (40) Sentenza del 28 ottobre 1987, resa nell’affare Inze.
— 978 — seguenza che ‘‘una distinzione tra varie situazioni è discriminatoria, secondo l’art. 14 della convenzione europea, quando manca di una giustificazione obiettiva e ragionevole, cioè quando non persegua uno scopo legittimo o quando non sussista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito’’ (41), ossia che ‘‘l’art. 14, della convenzione europea dei diritti dell’uomo non vieta qualsiasi differenza di trattamento nell’esercizio dei diritti enunciati’’, perché ‘‘la norma protegge i soggetti di diritto che si trovano in situazioni analoghe da discriminazioni, allorché queste mancano di sufficiente giustificazione obiettiva, per mancanza di un legittimo scopo o di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra mezzi impiegati e scopo perseguito’’. In altri termini ‘‘gli stati godono al riguardo di un certo margine di apprezzamento, la cui ampiezza peraltro deve essere valutata in concreto, a seconda delle circostanze che si presentano’’ (42). Inoltre, la Corte ha anche avuto modo di precisare che ‘‘il disposto dell’art. 14, della convenzione europea dei diritti dell’uomo non va considerato da solo, ma come norma integratrice delle altre norme della convenzione e dei protocolli che enunciano i diritti e le libertà garantiti, qualunque sia la loro natura. Esso protegge gli individui o i gruppi di individui posti in una situazione possibile di paragone, contro ogni forma di discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà’’ (43). Quanto all’esigenza che le situazioni siano paragonabili la stessa Corte ha, poi, avuto modo di precisare che ‘‘l’art. 14, della convenzione europea dei diritti dell’uomo interdice discriminazioni tra persone che si trovino in situazioni analoghe. L’applicazione della norma presuppone quindi che si possa fare un paragone tra più soggetti o gruppi sociali. Se tra questi esistono invece differenze notevoli, sì che ciascuno di essi si caratterizza per particolari diritti ed obblighi, non potrà prospettarsi l’ipotesi della violazione dell’art. 14’’ (44). Sempre in termini generali, peraltro, seppure sia stato affermato che la discriminazione illegittima si verifica principalmente quando non è garantito ‘‘il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella convenzione’’ in ragione delle condizioni soggettive della parte (45), tuttavia è stato altresì precisato che ‘‘l’art. 14, della convenzione europea dei diritti dell’uomo intende impedire (anche) discriminazioni nel godimento dei di(41) Ivi. Nel medesimo senso anche la sentenza del 28 aprile 1985, affare Abdulaziz, Cabales, Balkandali; la sentenza del 24 novembre 1986 affare Gillow; la sentenza del 18 febbraio 1991, resa nell’affare Fredin. (42) Sentenza dell’8 luglio 1986, resa nell’affare Lithgow ed altri. (43) Sentenza del 27 ottobre 1975, resa nell’affare Sindacato nazionale polizia belga (il corsivo è nostro). (44) Sentenza del 23 novembre 1983, affare Van der Mussele. (45) Sentenza del 28 novembre 1978, affare Luedicke, Belkacem, Koc.
— 979 — ritti enunciati, nei casi in cui possano essere scelte varie possibilità per conformarsi alle obbligazioni derivanti dalla convenzione’’, perché ‘‘i criteri indicati da detta norma sono stati dettati anche per l’ipotesi in cui un individuo od un gruppo di individui si veda trattato meno bene di un altro gruppo o di un altro individuo’’ (46), ma, anche in questo caso, ove ciò non sia supportato da ‘‘adeguata giustificazione’’. In ogni caso, quindi, ‘‘l’art. 14, della convenzione europea dei diritti dell’uomo, allorché afferma, che i diritti e le libertà riconosciuti dalla convenzione devono essere assicurati senza alcuna distinzione, lascia agli stati contraenti un certo margine di apprezzamento per determinare se e in quale misura le differenze tra varie situazioni giustificano un diverso trattamento giuridico’’ (47). Elementi di riflessione anche più interessanti si possono ricavare dalla produzione giurisprudenziale della Corte costituzionale italiana. Nella recente sentenza n. 399, del 1998 (48), proprio con riferimento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la Corte conferma che la Convenzione ‘‘non impone l’adozione di un modello processuale unico e infungibile’’ perché ‘‘per far sì che il loro sistema giudiziario sia in armonia con il principio del giusto processo, gli Stati contraenti, come la Corte europea non negò, godono della più ampia libertà nella scelta dei mezzi idonei’’. D’altro canto, questa è l’impostazione che la Corte costituzionale ha da sempre seguito nel vaglio della normativa processuale alla luce dello specifico profilo di uguaglianza. Infatti, nella giurisprudenza di questo consesso è affermazione costante che la difformità del rito non è di per sé lesiva di principi di rango costituzionale, dovendo, poi, ovviamente, verificarsi in concreto se le singole regole processuali collimino o meno con i principi che la stessa Carta costituzionale tutela (49). Questo insegnamento è stato anche di recente ribadito in maniera perentoria proprio in relazione ad una differenza processuale esistente — nell’ambito civile — tra il rito operante davanti al giudice istruttore in funzione di giudice monocratico e quello applicabile dinanzi al collegio. (50). In questo caso la Corte, non solo ha confermato il principio general(46) Sentenza del 28 maggio 1985, affare Abdulaziz, Cabales, Balkandali. (47) Ancora sentenza relativa all’affare Abdulaziz, Cabales, Balkandali, cit. (48) In Gazz. uff., I serie spec., del 16 dicembre 1998, n. 50. (49) Questa osservazione era già fatta da M. CHIAVARIO, Processo e garanzia della persona, 2a ed., Milano, 1982, v. II, p. 27 ss., al quale si rinvia anche per i riferimenti alla giurisprudenza costituzionale precedente al 1982. (50) È la sentenza n. 275, del 1998, in Gazz. giur., I serie spec., 26 agosto 1998, n. 34, nella quale si discuteva della legittimità costituzionale dell’art. 190-bis, c.p.c. nella parte in cui non prevede che, anche nel processo davanti al giudice istruttore in funzione di giudice monocratico, in caso di richiesta di una parte di fissazione dell’udienza di discussione, il
— 980 — mente affermato per cui ‘‘il legislatore è dotato di ampia discrezionalità nel dettare le norme processuali, con l’unico limite della ragionevolezza’’, ma, soprattutto, ha precisato che ‘‘pur essendo indubbio il carattere di inviolabilità del diritto di difesa nell’ambito di qualsiasi procedimento giurisdizionale, costituisce costante orientamento di questa Corte quello per cui tale diritto può diversamente atteggiarsi nell’ambito dei diversi procedimenti; ciò che conta in modo essenziale è che non ne siano pregiudicati lo scopo e la funzione’’ (51). 4. I processi, la realtà empirico-criminologica dei reati e il rito monocratico. — Una volta riconosciuto che il diritto di difesa e, più in generale, le garanzie del cittadino possono diversamente atteggiarsi nell’ambito dei diversi procedimenti, accanto e prima dell’elaborazione dogmatica della poliformità del processo, che però è compito da intraprendere, diviene evidente che lo sforzo creativo realmente necessario per rendere efficiente il sistema dovrebbe concentrarsi non già nell’elaborazione di un modello unico di processo, destinato giocoforza ad essere inefficiente, bensì nell’elaborazione di moduli processuali che senza violare i principi del giusto processo e, quindi, le garanzie del cittadino, siano i più congeniali all’accertarnento dei singoli diversi reati (52). Solo in questo quadro, fra l’altro, l’esigenza d’efficienza, che è avvertita a tutti i livelli in maniera altamente preoccupante (53), non rischia di imporsi schiacciando le gagiudice debba disporre, oltre allo scambio delle comparse conclusionali, anche quello delle memorie di replica. (51) Idem (corsivo nostro). (52) Per un’impostazione conforme a quella auspicata. G. LATTANZI, Un processo riformato, cit., che nel contestare in concreto la legittimità dell’art. 190-bis c.p.p., introdotto con la decretazione d’urgenza del 1992, (d.l. n. 306/92 e legge di conversione n. 35/92), aggiunge, tuttavia, che ‘‘non si può escludere che per alcuni processi in ragione dei reati che ne formano oggetto o di altre casteristiche, occorrano regole diverse da quelle generali’’, p. 358. Ma per l’affermazione generale che ‘‘la disamina dell’innovazioni codicistiche... va effettuata norma per norma, al fine di stabilire la conformità di ciascuna di esse ai precetti che riguardano un giusto processo’’ G. UBERTIS, Ricostruzione del sistema, giusto processo, elementi di prova, in questa Rivista, 1993, p. 312. M. CHIAVARIO, Il processo penale dopo la nuova decretazione, cit., nel § 8, intitolato ‘‘i guasti di tecniche legislative livelattrici ed omniregolatrici’’, finisce addirittura con il chiedersi se non sia proponibile ‘‘una reviviscenza del ‘diritto pretorio’ nel suo significato originario, come temporaneo programma d’azione di singoli uffici o gruppi di uffici, per problemi di dettaglio (e, beninteso, sempre in modo da non ledere il principio di eguaglianza)’’, p. 348. (53) Notazioni interessanti sull’efficienza si possono trovare in M. CHIAVARIO, Garanzie individuali ed efficenze del processo, in Cass. pen., 1998, n. 940, p. 1515 ss. Sulla drammaticità dell’amministrazione della giustizia anche penale, soprattutto sotto il profilo della sua inefficienza v. la delibera del CSM del 15 settembre 1999, in Dir. pen. e proc., 1999, pp 1314 ss., che segue alle vicende negative che coinvolgono la giurisdizione italiana presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Sul punto ancora M. CHIAVARIO, ‘‘Cultura italiana’’ del processo penale e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. int. dei dir.
— 981 — ranzie, come normalmente accade nel perenne oscillare del processo tra garanzie e efficienza (54). Si noti, a questo proposito che la Corte europea dei diritti dell’uomo è giunta ad affermare che ‘‘quando una procedura risulti troppo lunga, anche se la lunghezza sia imposta dalla lodevole preoccupazione d’assicurare ogni possibile garanzia ai ricorrenti, spetta allo stato semplificare il suo corso allo scopo di rispettare il principio della ragionevolezza del termine sancito dall’art. 6, della convenzione europea dei diritti dell’uomo’’ (55). In quest’ottica, fra l’altro, non ci sono valide ragioni per ritenere che la diversificazione della procedura debba investire solo il livello strutturale-organizzativo o il livello della ricerca e della tutela delle fonti di prova, perché essa può benissimo incidere anche sul livello dell’assunzione e della valutazione della prova (56). Anche l’assunzione e la valutazione possono, infatti, in qualche misura diversarnente conformarsi a seconda dell’oggetto del giudizio, senza con ciò essere irragionevoli. Per cominciare, potrebbe ammettersi che esiste tutta una casistica criminale in cui l’ossequio all’oralità nell’accertamento processuale della loro commissione finisce con il tradire la funzione del principio mededell’uomo, 1990, p. 44 ss. L’impressione drammatica, fra l’altro, è che attualmente la disperata esigenza di efficienza del processo sia perseguita attraverso strumenti diretti a realizzare una rinuncia o un abbandono del processo medesimo e non già solo ad opera dell’indagato o imputato, in cambio di sconti e benefici vari, ma tout court da parte dello Stato: dalla depenalizzazione, alle ipotesi di irrilevanza del fatto, alla discrezionalità dell’azione penale, fino alla prescrizione: le disposizioni transitorie al d.lgs. n. 51/98 sul giudice unico sono al riguardo assai significative: cfr. AA.VV., D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, cit. (54) Per queste stesse ragioni, ovviamente, non appare una scelta legislativa condivisibile quella di inserire nel corpo delle norme fondamentali disposizioni processuali di dettaglio, in quanto in questo modo si rischia di produrre effetti omogeneizzanti contrari a tutto quanto si è venuto dicendo. Per vero dal testo dell’art. 111, Cost. recentemente approvato dal Parlamento, sul c.d. ‘‘giusto processo’’, non pare possano derivare concreti pericoli nel senso ora detto, atteso che il testo, contrariamente ai primi timori, ha in gran parte ratificato principi di ordine generale, appartenenti alla gamma dei principi che senza dubbio debbono essere comuni ad ogni procedimento. Alla fine cio che risulta emergere dal nuovo testo costituzionale è l’affermazione del principio del contraddittorio come unico criterio di svolgimento del processo e, in particolare di formazione della prova. Tuttavia proprio rispetto a questa disposizione è stato osservato (V. GREVI, Quelle rigidità del ‘‘giusto processo’’ che portano a risultati paradossali, in Guida dir., 1999, n. 42, p. 11), che la modifica costituzionale è destinata a limitare la possibilità di adattare le leggi processuali alle diverse situazioni, in quanto è assurdo pensare che i nuovi principi si possano applicare anche ai processi per reati bagattellari, quali quelli affidati alle future competenze penali del giudice di pace. Dello stesso autore, v. Garanzie soggettive e garanzie oggenive nel processo penale secondo il progetto di revisione costituzionale, in questa Rivista, 1998, pp. 729-730. (55) Sentenza del 28 giugno 1978, resa nell’affare Konig. (56) La partizione è di G. GIOSTRA, I limiti di una ‘‘strategia processuale differenziata’’, cit., p. 1, che in relazione ai procedimenti relativi alla criminalità organizzata ammette una differenziazione solo per i primi due livelli.
— 982 — simo, perché invece di avvicinare il giudice alla fonte originaria della conoscenza lo allontana. Questo avviene, in maniera evidente, in tutti quei casi in cui sono acquisite tramite la narrazione orale dei testimoni conoscenze che questi hanno a loro volta appreso dalla lettura di carte o documenti che potrebbero essere direttarnente acquisiti e letti dalle parti e dal giudice. Ma questo avviene anche allorché un operatore è esaminato per riferire dell’esito di accertamenti da lui compiuti e finalizzati già ex ante, prima cioè del loro compimento, proprio alla verifica della sussistenza di un’ipotesi criminosa e che, quindi, potrebbero proficuamente essere compiuti anticipando il contraddittorio al momento della formazione dell’atto, con strumenti di documentazione idonei a garantire maggior certezza di quanto non sia il ricordo dell’agente, il quale attualmente, nell’assumere la veste di testimone, finisce con il trovarsi nella strana situazione di dover raccontare verbalmente non ciò che fece o vide anni prima, ma ciò che scrisse (57). Lo schema potrebbe essere fondamentalmente quello già previsto dell’art. 223, delle disposizioni d’attuazione al c.p.p., anche se dettato solo per l’analisi di campioni (58). Ma per richiamare anche uno degli istituti sui quali si incrocia con maggior contrasto il dibattito, poste alcune cautele minime essenziali, quali quelle già previste dall’attuale art. 192, c.p.p. (59), non pare assurdo immaginare che limitazioni ulteriori sotto il profilo della valutazione di questo mezzo di prova, possano operare solo rispetto a quei correi ammessi ai programmi di protezione di cui all’art. 9, del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82, atteso che ciò consentirebbe sia di valorizzare l’intrinseca diversità che si pone fra chi collabora con la giustizia senza alcun beneficio premiale e chi lo fa dietro varie forme di supporto, sia di restringere le regole di valutazione solo in riferimento ai procedimenti aventi ad oggetto quei particolari reati per i quali può accedersi a programmi o misure di protezione (60). Allo stesso modo, d’altro canto, sotto il profilo delle modalità di as(57) Ancora sul punto M. DEVOTO, I pericoli, loc. cit., nonché G. ICHINO, Alcuni spunti di riflessione sul tema delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1993, p. 697 e E. FASSONE, Garanzia e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in Quest. giust., 1991, n. 1 p. 125. (58) Un caso del genere potrebbe essere quello degli agenti che hanno rilevato un abuso edilizio o una discarica non autorizzata: nel contraddittorio con l’indagato, assistito da un avvocato, la realtà materiale della costruzione o della discarica potrebbe essere documentata con modalità tali da costituire una diretta fonte di prova. Si noti che in Francia, per esempio, tutte ‘‘le contravvenzioni sono provate mediante verbali o rapporti’’ e solo in mancanza con testimoni: V. DERVIEUX, Il processo penale in Francia, cit., p. 132. (59) Per tutti i vasti e necessari riferimenti bibliografici v. P. MAGGIO, Corsi e ricorsi storici della prova penale: la chiamata di correo, in Cass. pen., 1998, n. 1855, p. 3490 ss. (60) Una soluzione di questo tipo è discussa da M. CHIAVARIO, Dichiarazioni a ca-
— 983 — sunzione dei mezzi di prova, sempre in via esemplificativa, non appare incongruo aver ammesso l’esame a distanza solo con riguardo ai soggetti ammessi ai programmi di protezione di cui all’art. 9, del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82 (61). Ma, più in generale, un effettivo intervento d’adeguamento dei riti alle difformi realtà criminali dovrebbe passare per una radicale rimeditazione della logica dei riti speciali, per abbandonare l’impostazione fin qui seguita, che, come si è già evidenziato, ne raccorda l’operatività al sopravvenire di fenomeni processuali del tutto eventuali, che poi debbono essere variamente stimolati con benefici di natura sostanziale. Più proficuamente dovrebbe invece, prevedersi che i procedimenti relativi a reati con struttura più semplice sotto il profilo probatorio, in sostanza quelli in cui l’intero processo gravita intorno alle risultanze di accertamenti finalizzati ex ante alla verifica della sussistenza dell’ipotesi criminosa (formati o meno con le modalità sopra indicate) siano necessariamente trattati con le forme oggi previste per il giudizio abbreviato, in ipotesi secondo il modulo già disciplinato allorché il giudizio abbreviato s’innesta nel giudizio direttissimo (art. 452, c.p.p.), che a seguito della previsione di cui all’art. 223, del d.lgs. n. 51 del 1998, troverà applicazione in tutti i giudizi in corso alla data di efficacia del decreto medesimo (62), e che a seguito dell’approvazione della legge sul rito monocratico viene a costituire il modello ordinario di giudizio abbreviato, attraverso la possirico e contradditorio tra l’intervento della Consulta e i progetti di riforma costituzionale, in Legisl. pen., 1998, p. 936. (61) Una specifica questione di legittimità costituzionale dell’art. 147-bis, disp. att. c.p.p., sollevata con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., è stata dichiarata manifestamente infondata dal Tribunale di Palermo, ordinanza del 29 maggio 1996, Foro it., 1996, II, cc. 430 ss. Sulla medesima norma in seguito è stata chiamata a pronunciarsi anche la Corte costituzionale, con sentenza n. 342, del 22 luglio 1999, in Gazz. uff, I serie spec., del 28 luglio 1999, n. 30. In senso favorevole alla disciplina in analisi, in forza dell’osservazione che ‘‘la funzionalità della partecipazione o la genuinità dell’esame non sono realtà necessariamente legate alla presenza fisica dell’accusato o del dichiarante’’, D. SIRACUSANO, Reati associativi e processo penale, in questa Rivista, 1997, p. 1092. Un testo che si raccomanda anche perché l’intera analisi dettagliata della disciplina processuale in tema di reati associativi conduce all’insegna della compatibilità in concreto con i principi processuali di rango costituzionale, che conduce ad affermazioni quali quella riferita all’art. 190-bis, c.p.p. per cui ‘‘non vengono qui in considerazione ‘forme’ comunque compatibili con i ‘modelli’ di elaborazione probatoria, voluti dal nostro codice’’ ma ‘‘forme che si costituiscono ad essi’’, (p. 192) o quella riferita all’ampliamento dei casi di utilizzabilità dell’incidente probatorio, per cui ‘‘un’offuscata oralità non pregiudica il modello di elaborazione probatoria costituzionalmente garantito’’, (p. 1091). Si noti, per inciso, a quest’ultimo riguardo come il nuovo art. 111, Cost., non elenchi fra i tratti del giusto processo l’oralità, ma unicamente il contaddittorio. (62) Sulla disposizione transitoria V. BONINI, sub art. 223 in AA.VV. D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 — Norme in materia d’istituzione del giudice unico di primo grado. cit., p. 463 ss.
— 984 — bilità che il giudice possa assumere anche d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione (63). Oppure, in senso maggiormente conforme al nuovo disposto dell’art. 111, Cost. potrebbe addirittura postularsi che un simile rito abbreviato, pur essendo previsto come rito tipico per determinate categorie di reati, non escluda la possibilità per l’imputato di indicare propri mezzi di prova necessari ai fini della decisione, con onere per il giudice di assumerli, salva solo l’esclusione dei mezzi irrilevanti (64). Ma a dire il vero anche tutte queste cautele per la posizione dell’imputato e per la sua facoltà di ‘‘difendersi provando’’ già dovrebbero essere superate dalla constatazione che a seguito della riforma del rito monocratico lo ‘‘stato degli atti’’ sulla cui base il giudice è chiamato a decidere sarà costituito anche dagli atti assunti su iniziativa della difesa o da questa direttamente e già versati nel fascicolo del pubblico ministero, in forza dell’art. 415-bis, c.p.p. o del nuovo amplissimo art. 422, c.p.p. In conclusione, al di là dei pochi esempi che si possono svolgere in questa sede, quel che appare necessario è l’inaugurazione di una stagione di studio, questa sì nuova per la nostra tradizione, improntata al tentativo di acquisire conoscenze di carattere empirico sulle peculiarità processuali delle diverse tipologie criminali, nonché, in particolare, sulle specificità probatorie delle medesime. 5. La riforma del giudice unico. — Con la riforma del giudice unico e, in particolare con la nuova disciplina processuale che l’accompagna ben poco di quel che si è venuti auspicando è stato realizzato. Infatti, non è stata prevista alcuna forma idonea a ragguagliare le concrete disposizioni processuali alle peculiarità di specifici gruppi di fattispecie criminose ed anzi si è accentuato il livello di omogeneità del rito (65). L’unico intervento diretto a mantenere un minimo di duttilità al sistema ha investito, come già anticipato in apertura di questo testo, (a parte la vicenda relativa al giudice di pace, che di certo merita la più ampia attenzione), solo la fase del rinvio a giudizio, con la triplicazione delle concrete forme processuali, benché all’unico fine di rendere necessaria l’udienza preliminare anche per alcuni reati di competenza monocratica. (63) Così il nuovo art. 441.5, c.p.p. (64) Anche in questo caso lo schema è simile a quello pure previsto dalla nuova normativa sul rito monocratico: art. 438.5, c.p.p. (65) G. FIANDACA, Riforme giudiziarie, cit., p. 6, osservava come il legislatore delegante, nel distribuire tra giudice collegiale e monocratico la competenza sulle diverse fattispecie penali abbia risentito di ‘‘un certo dilettantismo impressionistico’’, dovuto al fatto che non ha potuto ‘‘disporre di un patrimonio di conoscenze, di carattere empirico-criminologico e processuale, desunte da studi scientificamente attendibili sulle reali difficoltà di prova relative alle distinte tipologie delittuose’’.
— 985 — Un’udienza preliminare che, fra l’altro, è assurta alla dignità di un vero e proprio processo, secondo una logica che pare innervare l’intera nuova disciplina processuale e che è riassumibile nella volontà di anticipazione del giudizio sull’accusa ad una fase precedente a quella del giudizio vero e proprio (66). Fra l’altro, l’estensione attribuita all’udienza preliminare appare poco coerente con la contemporanea fisionomia assunta in forza del nuovo art. 415-bis c.p.p. dall’invito a rendere l’interrogatorio, già introdotto con la nota riforma del 16 luglio 1997, legge n. 234, (67), atteso che esso attualmente appare quale una sorta di autonomo procedimento incidentale diretto a consentire all’imputato di offrire elementi di contrasto rispetto al materiale raccolto dalla pubblica accusa: facoltà che, per l’appunto, la difesa avrebbe ampiamente modo di esercitare o producendo i risultati delle proprie indagini direttamente nel corso dell’udienza preliminare o facendo assumere i medesimi atti dal giudice (art. 422, c.p.p.) o ancora sollecitando quest’ultimo a farli assumere dal pubblico ministero ex art. 421-bis, c.p.p. (68). Nell’ottica di conformità della forma alla funzione, pertanto, non sarebbe stato incongruo escludere l’applicazione di questo complesso sub procedimento per quei procedimenti che già prevedono l’udienza preliminare, atteso che ogni difesa idonea ad escludere il passaggio del giudizio alla fase dibattimentale l’indagato ben potrebbe svolgerla in questa sede, diversamente, per l’appunto, dai procedimenti nei quali opera il meccanismo della citazione diretta. In questi ultimi l’indagato potrebbe effettivamente essere privato della possibilità di offrire un proprio contributo idoneo a bloccare il procedimento prima del passaggio alla fase del giudizio o, quanto meno, ad arricchire il compendio del materiale probatorio utilizzabile ai fini del giudizio abbreviato e del patteggiamento (69). (66) Per vero sembra che il legislatore, consapevole delle disfunzioni di un sistema penale il cui baricentro si è spostato dal dibattimento alla fase di indagine (v. al riguardo le riflessioni di M. NOBILI, Nuovi modelli e connessioni: processo — teoria dello Stato — epistemologia, in Ind. pen., 1999, p. 27 ss.), abbia inteso porvi rimedio attraverso una sorta d’anticipazione del processo al giudizio sul rinvio a giudizio. Per una notazione di valenza estremamente simbolica della preponderanza assunta dall’udienza preliminare rispetto al dibattimento si noti che ora alcune norme fondamentali relative a questa fase sono disciplinate attraverso un richiamo alle disposizioni dettate per l’udienza preliminare: v. il nuovo comma 2-bis, dell’art. 484, c.p.p. (67) Sull’innovazione in questione introdotta per effetto della legge 16 luglio 1997, n. 234, E. MARZADURI, sub art. 2 in Legge 16 luglio 1997, n. 234, — Modifica dell’articolo 323, del codice penale, in materia di abuso d’uffcio, e degli artt. 289, 416 e 555, del codice di procedura penale, in Legisl. pen., 1997, p. 750 ss. (68) L’art. 421-bis, c.p.p. rappresenta un’innovazione di notevolissimo rilievo perché consente al giudice dell’udienza di far regredire il procedimento alla fase delle indagini ove ritenga che queste siano incomplete. (69) Come è noto l’invito a rendere l’interrogatorio, nell’impostazione originaria del
— 986 — Quanto ai procedimenti speciali, benché risultino effettivamente e notevolmente rinforzati, attraverso l’eliminazione di molte delle disfunzioni che ne limitavano l’appetibilità per l’imputato, il legislatore si è astenuto dall’elevare uno qualunque di essi a rito tipico di talune fattispecie criminose, di tal che la loro concreta esperibilità resta rimessa alla volontà delle parti, patteggiata o meno, o ad eventi casuali ed eventuali. Fra l’altro, con riferimento al giudizio abbreviato — e per riprendere quanto già detto sopra — la previsione di benefici premiali per la sua esperibilità appare del tutto incongrua rispetto alla disciplina che emerge dai nuovi artt. 438 e 441, c.p.p. Infatti, a fronte di un rito nel quale il giudice può ampliare d’ufficio lo spettro del materiale probatorio e, soprattutto, l’imputato può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria, i termini dello scambio si incrinano enormemente a sfavore dell’ordinamento: il beneficio premiale, infatti, è rimasto identico nella sua entità, malgrado oggi non corrisponda più ad una rinuncia alla prova, ma solo ad una accettazione come fonte di prova di ciò che è stato raccolto e formato nelle indagini (70). In riferimento ad ipotesi criminose di natura, ad esempio, contravvenzionale l’ampliamento della facoltà di integrazione probatoria a favore del solo imputato avrebbe potuto costituire già da sé una sufficiente compensazione rispetto alla possibilità d’utilizzare direttamente gli atti di indagine formati dalla pubblica accusa. Sempre rispetto alla disciplina dei procedimenti speciali non può poi tacersi un ulteriore ingessamento delle procedure, perché dinanzi al giudice monocratico, allorché il giudizio è introdotto con le forme previste dinanzi al collegio, malgrado la previsione di un titolo apposito (III), non vi sono tratti peculiari, salva qualche scarsa semplificazione relativa al rito direttissimo, mentre nell’ipotesi in cui il giudizio è introdotto con citazione diretta l’unica peculiarità riguarda il termine finale di proposizione della richiesta di accesso ai riti, che è per tutti posticipato fino al momento precedente alla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 555, comma 2): con scelta per vero anomala, visto che in tutte le altre didisegno di legge che sfociò nella legge n. 234, del 1997, era previsto solo per i procedimenti relativi ai delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a., ed è stato esteso a tutti i procedimenti a seguito dell’approvazione di un emendamento che, in considerazione dei possibili profili d’illegitimità costituzionale per l’evidente e ingiustificata disparità di trattamento, ha eliminato la limitazione originaria: sul punto E. MARZADURI, sub art. 2, cit., p. 751. (70) L’attenuazione aggiunta nel testo finale, che attribuisce un diritto alla prova contraria all’accusa è destinata a sollevare più dubbi, che non risolverli. Infatti, la soluzione conseguita dall’art. 438, comma 5, c.p.p. appare particolarmente sfavorevole all’imputato, perché subordinando la richiesta all’ammissione di proprie prove, potrebbe trovarsi esposto, dopo l’ammissione del rito, ad un ampliamento dei mezzi di prova della pubblica accusa rispetto ai quali sarà nell’impossibilità di opporre mezzi diversi: con inversione delle posizioni ordinarie tra accusa e difesa rispetto alle istanze istruttorie.
— 987 — sposizioni del codice è stata imposta un’opportuna anticipazione dell’opzione per il rito. Anche per il patteggiamento, il nuovo art. 446, comma 1 prevede, infatti, che la richiesta sia formulata, a parte il caso del giudizio direttissimo, fino alla presentazione delle conclusioni in sede di udienza preliminare, analogamente a quanto confermato per il giudizio abbreviato (att. 438, comma 2, c.p.p.); così pure in sede d’opposizione a decreto penale le scelte del rito sono state imposte già in sede di opposizione (art. 464, comma 1 e comma 3, e art. 557, c.p.p.), infine anche nell’ipotesi di giudizio immediato la richiesta sia di giudizio abbreviato, (come già era in precedenza: art. 458, comma 1, c.p.p.), che di applicazione della pena (com’è per effetto del nuovo art. 446, comma 1, c.p.p.), deve essere formulata entro sette giorni dalla notificazione del decreto, con soluzione che, quindi, si sarebbe tranquillamente potuta adottare anche nelle ipotesi di citazione diretta. Altro aspetto rilevante, in termini di pericoloso appiattimento del processo sulle forme più complesse si coglie, infine, nella soppressione di qualunque disciplina, peculiare al processo ‘‘monocratico’’ del procedimento di archiviazione o, più in generale, della fase delle indagini preliminari. In conclusione, con il giudice unico il tema della poliformità dei riti, che avrebbe potuto costituire il supporto fondamentale di un intervento riformatore ispirato ai principi di razionalità ed efficienza del sistema giudiziario, è rimasto, come si accennava in apertura di questo lavoro, latente o, più esattamente, compresso, da un lato, dall’abitudine mentale al processo come entità ‘‘uniforme’’ (71), e, contemporaneamente, dal timore inespresso di affrontare la questione della compatibilità di una differenziazione del processo con il principio di uguaglianza. Le necessarie disposizioni di adeguamento del sistema processuale alle disposizioni dell’art. 111, della Costituzione e l’elaborazione del processo penale per i reati di competenza del giudice di pace potranno essere l’occasione per rimeditare la questione. E non paia paradossale il riferimento all’art. 111, Cost., perché anch’esso, lungi dall’aver costituzionalizzato ‘‘un’’ processo, ha invece dato espressa valenza costituzionale ad alcuni principi fondamentali del processo, che potranno essere tradotti in forme processuali diverse, fra i quali, tra l’altro, il principio di ragionevole durata. GIORGIO PIZIALI Magistrato (71) Ma ora senza neppure la via d’uscita storicamente rappresentata dalla diversità dell’organo giudicante e dalla correlativa diversità di competenza, che, alla fine, consentiva di rompere l’omogeneità.
NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO
LA DISCIPLINA PREVISTA DAL NUOVO CODICE PENALE FRANCESE IN TEMA DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA (*)
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Le diverse tecniche di intervento sanzionatorio in tema di ‘‘criminalità collettiva’’ previste dal codice penale francese del 1994. — 3. La criminalità di gruppo nel nuovo codice francese. In particolare, la circostanza aggravante di ‘‘riunione’’. — 4. Le soluzioni codicistiche finalizzate alla repressione della criminalità a carattere associativo. L’estensione dell’originario ambito applicativo della circostanza aggravante di ‘‘banda organizzata’’. — 5. Le norme incriminatrici previste dal nuovo codice nel campo della delinquenza organizzata. Le fattispecie volte a punire gli illeciti realizzati dalle associazioni criminali. — 6. Le fattispecie codicistiche tese a colpire in via anticipata talune forme di criminalità organizzata. — 7. Brevi osservazioni sull’incremento delle norme in materia di ‘‘criminalità collettiva’’ nel nuovo codice penale francese. — 8. La disciplina punitiva dettata dal nuovo codice in tema di criminalità di gruppo e di criminalità organizzata. — 9. L’impulso al ‘‘pentimento’’ in funzione di disaggregazione delle associazioni criminali. Gli attuali strumenti premiali di matrice codicistica. — 10. Lotta alla ‘‘criminalità collettiva’’ e crisi dei modelli codicistici d’impronta neodefensionista e neoclassico-liberale. — 11. Considerazioni conclusive. 1. Considerazioni introduttive. Sarebbe inutile negare che all’occhio del giurista italiano il sistema penale francese, e dunque i relativi codici che da oltre due secoli ne costituiscono l’ossatura (1), appare da sempre lacunoso a livello di teoria generale del reato (2). Ma se è vero che, sotto questo profilo, anche il nuovo codice penale francese del 1994 può rivelarsi deludente nel suo estremo semplicismo, è altresì vero che esso si dimostra, forse anche in virtù di tale sua caratteristica (3), assai ‘‘concreto’’ e sensibile alle mutevoli esigenze sociali (4). A ciò si aggiunga la spiccata tendenza del diritto penale francese (e, almeno in parte, del relativo codice) ad (*) Il presente scritto condensa il contenuto della lezione su ‘‘La criminalità organizzata in Francia’’ svolta il 19 maggio 1999 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, e dell’intervento su ‘‘La disciplina codicistica francese in tema di criminalità organizzata’’ effettuato il 23 ottobre 1999 presso l’Auditorium Cedam di Padova in occasione del Forum ‘‘Pena fissa, pena minima, pena massima: dal codice penale lucchese (1807) ai codici penali degli anni ’90 del XX secolo (Francia, 1994; Croazia, 1998)’’. (1) Come noto, il nuovo codice penale francese del 1994 costituisce la terza codificazione criminale della storia francese, dopo quelle del 1791 e del 1810. (2) Con specifico riferimento al nuovo codice penale del 1994 cfr., per tutti e limitatamente alla dottrina italiana, MANACORDA, La théorie générale de l’infraction pénale en France: lacunes ou spécificités de la science pénale?, in Rev. dr. pén. crim., 1999, p. 35 ss; STILE, Relazione di sintesi, in Valore e principi della codificazione penale: l’esperienza italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, p. 290 ss. (3) In questo senso cfr., esemplificativamente, le osservazioni di DE SIMONE, Il nuovo
— 989 — aprirsi agli apporti della comparazione (5), e dunque ad assimilare e rielaborare costruttivamente i più moderni orientamenti penologici e politico-criminali (6), così da risultare esso stesso particolarmente meritevole di indagine in prospettiva comparatistica. Certamente, non si ignora che anche il nuovo codice penale francese — come del resto, in misura più o meno accentuata, gli altri codici penali sorti di recente nell’Europa occidentale — è stato oggetto di critiche proprio per la sua ritenuta scarsa capacità di anticipare le problematiche penalistiche dell’immediato futuro (7), e soprattutto per la sua non pienamente adeguata attenzione alle esigenze connesse sul piano normativo alla costruzione europea (8). Ma, nonostante ciò, è indubbio che tutto il recente processo francese di edificazione codicistica è stato permeato dall’idea comparatistica (9) e supportato da quelle indagini empirico-criminologiche e da quelle rilevazioni sulla prassi giurisprudenziale considerate dalla migliore dottrina presupposti indispensabili in vista del varo di corpi normativi generali improntati al ‘‘principio di realtà’’ (10). Se dunque il nuovo codice penale francese, pur con tutte le sue lacune e carenze, si caratterizza per una notevole adattabilità alle esigenze della moderna politica criminale, particolare interesse sono destinate a rivestire le parti di esso riservate a talune delle più attuali e temibili forme di criminalità: quella economica (11), quella di gruppo, quella organizcodice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, p. 229. (4) Sulla manifesta volontà del legislatore francese di armonizzare le nuove norme del codice penale alle ‘‘esigenze della coscienza collettiva’’ cfr. BADINTER, Projet de nouveau code pénal, Paris, 1987, p. 11. Sul punto cfr., altresì, d’HAUTEVILLE, La gradation des fautes pénales en matière d’atteinte à la vie et à l’intégritè phisique, in Réflexions sur le nouveau code pénal, Paris, 1995, p. 31; LAZERGES, A propos des fonctions du nouveau code pénal français, in Archives de politique criminelle, n. 17, 1995, p. 4 ss. (5) O, quantomeno, agli apporti comparatistici di impronta più pragmatica: è infatti risaputa la resistenza del diritto penale francese alle influenze della dogmatica tedesca, da sempre bollata dai giuristi d’oltralpe di eccessiva concettosità ed astrazione, se non addirittura di oscurità. Cfr., per tutti, DANA, Essai sur la notion d’infraction pénale, Paris, 1982, in particolare p. 8; MERLE, VITU, Traité de droit criminel. Problèmes généraux de la science criminelle. Droit pénal général, Paris, 1997, p. 504. (6) Laddove, per contro, in Italia solo in tempi recenti la politica criminale è stata associata a pieno titolo nel campo d’indagine della scienza penale. In argomento cfr., da ultimo, gli spunti di GROSSO, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale,in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali tra efficienza e garanzia, a cura di S. Moccia, Napoli, 1999, p. 133 ss. (7) Sugli aspetti di ‘‘conservatorismo’’ rinvenibili nel nuovo codice penale cfr. ad esempio, con varietà d’accenti, COUVRAT, Préface, in Réflexions sur le nouveau code pénal, cit., p. 5; DELMAS-MARTY, Nouveau code pénal - Avant propos, in Rev. sc. crim., 1993, p. 433 ss.; PRADEL, Le nouveau code pénal (Partie générale), Paris, 1994, p. 16 ss. (8) Cfr., DELMAS-MARTY, Nouveau code pénal - Avant propos, cit., in particolare p. 440 ss. Sul perdurante carattere ‘‘meramente statualistico’’ delle recenti codificazioni penali europee cfr., volendo, BERNARDI, Codificazione penale e diritto comunitario, I - La modificazione del codice penale ad opera del diritto comunitario, Ferrara, 1996, p. 25 ss. (9) È indubbio che le recenti leggi penali francesi, ed innanzitutto quelle concernenti la codificazione, si sono avvalse di approfondite indagini comparatistiche. Cfr., in particolare, Avant projet définitif de code pénal, Livre 1, Dispositions génerales, a cura della Commission de revision du code pénal, Paris, 1978, p. 5. Da ultimo, la tendenza ad avvalersi dell’apporto di esperti stranieri in vista della stesura di progetti di legge penali consapevoli della corrispondente realtà normativa esistente negli altri Paesi dell’Unione europea ha trovato la più compiuta espressione nella istituzione di un apposito Centre d’informations et de renseignements juridiques internationaux denominato Juriscope, con sede a Poitiers. (10) Cfr., in particolare, DOLCINI, MARINUCCI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, p. 409 ss., con ulteriori riferimenti bibliografici. (11) Sul coefficiente di pericolosità insito nella criminalità economica, indipendente-
— 990 — zata (12). Del resto, come è stato ricordato (13), in sede di presentazione del progetto di codice penale lo stesso ministro della Giustizia francese Badinter indicava nell’inadeguatezza del vecchio codice rispetto alle forme ‘‘complesse’’ della moderna criminalità una delle principali ragioni dell’assoluta necessità di una nuova codificazione (14). Peraltro, come noto, il droit pénal des affaires è da sempre oggetto privilegiato di attenzione, e lo è diventato ancor più a seguito della riforma codicistica in tema di responsabilità penale delle persone giuridiche, cui sono stati ormai dedicati fiumi di inchiostro da parte dei commentatori, francesi e non (15). Nella presente relazione mi limiterò quindi ad affrontare sinteticamente il tema — notoriamente assai ampio e privo di contorni definiti (16) — relativo alla disciplina della criminalità organizzata e più in generale della criminalità ‘‘collettiva’’ nel nuovo codice penale transalpino. Si tratta senz’altro di un tema meno arato rispetto a quello concernente la disciplina penale delle personnes morales, eppure, come appena detto, di estrema attualità e di notevolissimo rilievo. Oltretutto, l’interesse per le soluzioni punitive adottate al riguardo in Francia è divenuto particolarmente acuto dopo che, nell’ambito del terzo pilastro del Trattato sull’Unione europea (17), la prevenzione e repressione della criminalità organizzata sono state elevate a mente dal livello di allarme sociale causato da quest’ultima nei diversi strati della società cfr., da ultimo, VOLK, Criminalità organizzata e criminalità economica, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali tra efficienza e garanzia, cit., p. 349 ss. L’autore sottolinea problematicamente che con la ‘‘formula ’white-collar-crimè si suggerisce l’idea di un elevato potenziale di pericolo’’ (p. 362). (12) In merito alla prepotente emersione un pò ovunque di forme di criminalità a carattere economico e/o associativo cfr., da ultimo e per tutti, MARINUCCI DOLCINI, Diritto penale ’minimò e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 802 ss. (13) DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, p. 192. (14) L’istanza di modernizzazione espressa dal nuovo codice penale francese in relazione a tali forme ‘‘complesse’’ della criminalità è del resto costantemente sottolineata dalla dottrina francese. Cfr., ad esempio, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, Paris, 1999, p. 43; PRADEL, Le nouveau code pénal (Partie générale), cit., p. 15 ss. (15) Cfr. in particolare, limitatamente alla letteratura in lingua italiana, CONTE, Il riconoscimento della responsabilità morale delle persone giuridiche nella legislazione francese, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 93 ss.; DE SIMONE, La responsabilità delle personnes morales nel sistema francese: un primo bilancio alla luce del più recente dibattito dottrinale e degli orientamenti che si profilano nella prassi applicativa, in corso di pubblicazione; GUERRINI, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Le Società, 1993, p. 691 ss. (16) Ricorrente è infatti l’affermazione secondo la quale il concetto di crimine organizzato difetterebbe di determinatezza, non potendo far riferimento né ad un puntuale catalogo di reati-scopo, né ad uno specifico bene giuridico. Cfr., al riguardo, le osservazioni di INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna, 1996, p. 9 ss. Cfr. altresì, per tutti e all’interno di una bibliografia sterminata, BYNUM, Controversies in the Study of Organized Crime, in Organized Crime in America: Concepts and Controversies, a cura di T. S. Bynum, New York, 1987, p. 7 ss.; BOGEL, Strukturen und Systemanalyse der organisierten Kriminalität in Deutschland, Berlin, 1994, passim; QUELOZ, Les actions internationales de lutte contre la criminalité organisée: le cas de l’Europe, cit., p. 767 ss.; STORTONI, Criminalità organizzata ed emergenza: il problema delle garanzie, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali tra efficienza e garanzia, cit., p. 126 ss.; ZAFFERONI, Il crimine organizzato: una categorizzazione fallita, ivi, p. 63 ss. (17) Si allude, come noto, al Titolo VI TUE, concernente ‘‘Disposizioni sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale’’. In merito al terzo pilastro dell’Unione europea nella configurazione assunta dopo il Trattato di Amsterdam cfr., in particolare, ADAM, La cooperazione in materia di giustizia e affari interni tra comunitarizzazione e metodo intergovernativo, in Dir. Un. Eur., 1998, p. 481 ss.; MARGUE, La coopération européenne en matière de lutte contre la criminalité organisée dans le contexte du Traité d’Amsterdam, in
— 991 — obiettivi primari in vista della sicurezza collettiva in ambito continentale (18). Obiettivi, questi, realizzabili non solo attraverso ‘‘una cooperazione rafforzata fra le forze di polizia’’ e ‘‘una più stretta cooperazione tra le autorità giudiziarie’’ (art. 29 TUE), ma anche e soprattutto attraverso un ‘‘ravvicinamento (...) delle normative degli Stati membri in materia penale’’ (art. 29 TUE) incentrato sulla ‘‘progressiva adozione di misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni, per quanto riguarda la criminalità organizzata...’’ (art. 31, lett. e, TUE). Ora, è facile comprendere che in questa prospettiva di necessario ravvicinamento delle scelte punitive in tema di criminalità organizzata, le relative soluzioni normative cristallizzate nei codici europei di più recente conio dovrebbero costituire punti di riferimento obbligati per gli altri Stati, in vista della predisposizione di meccanismi omogenei nell’ambito della lotta a tale forma di criminalità. Deve infatti ritenersi che i legislatori nazionali non potranno restare ancora a lungo insensibili all’esigenza di varare, nel settore considerato, disposizioni in sintonia con le esigenze sancite dalla costruzione europea, e dunque armonizzate tra loro: a meno di non voler trasformare la propria legislazione penale (ed in particolare i relativi codici) da specchio del loro tempo a mero residuo di un passato contraddistinto da una assoluta, ma non più attuale, ‘‘autarchia penale’’. 2.
Le diverse tecniche di intervento sanzionatorio in tema di ‘‘criminalità collettiva’’ previste dal codice penale francese del 1994.
È giunto quindi il momento di analizzare gli strumenti predisposti dal codice francese per colpire le forme di ‘‘criminalità di gruppo’’ e di ‘‘criminalità organizzata’’, entrambe riconducibili nel più vasto e indeterminato concetto di ‘‘criminalità collettiva’’. In proposito, merita di essere sottolineato innanzitutto come a tale scopo il codificatore francese abbia fatto ricorso a quattro distinte soluzioni normative, vale a dire: a) alla previsione di una disciplina generale del concorso di persone a carattere sostanzialmente onnicomprensivo (19). Carattere, questo, che potrebbe risultare ulteriormente evidenziato nel caso in cui i giudici francesi perseverassero nella loro tendenza a sacrificare il principio della responsabilità penale personale (20) in funzione appunto di lotta a quelle forme di criminalità collettiva rispetto alle quali risulta talora, in concreto, difficile se non impossibile l’individuazione dei singoli apporti soggettivi (21); b) alla creazione di apposite circostanze aggravanti operanti in relazione a singole fattispecie penali di parte speciale; c) all’introduzione di una variegata gamma di norme incriminatrici dirette a colpire taluni comportamenti illeciti costituenti tutti, pur nella loro indiscussa varietà, attività ‘‘tipiche’’ delle organizzazioni criminali; d) all’adozione di alcune fattispecie volte a perseguire il fenomeno della criminalità orRev. Marché un. eur., 1997, p. 91 ss.; PICCHIO FORLATI, Il diritto dell’Unione europea tra dimensione internazionale e transnazionalità, in Jus, 1999, p. 466 ss.; SOULIER, Le Traité d’Amsterdam et la coopération policière et judiciaire en matière pénale, cit., 1998, p. 252 ss. (18) Cfr., da ultimo e per tutti, BLEEKER, European Union. The Criminal Justice System facing the Challenge of Organised Crime, in Rev. int. dr. pén., 1999, n. 1-2, p. 647 ss.; QUELOZ, Les actions internationales de lutte contre la criminalité organisée: le cas de l’Europe, in Rev. sc. crim., 1997, p. 765 ss. e, in particolare, p. 784. (19) Cfr., ad esempio, CONTE, MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, Paris, 1996, p. 214 ss.; FOURNIER, Le nouveau code pénal et le droit de la complicité, in Rev. sc. crim., 1995, p. 475 ss. (20) Principio, questo, che per vero ha ricevuto in Francia esplicito riconoscimento a livello normativo solo a seguito del suo inserimento nel nuovo codice penale (art. 121-1: ‘‘Si risponde penalmente soltanto del fatto proprio’’). (21) Cfr. MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, in Rev. int. dr. pén., 1997, n. 3-4, p. 794 ss.
— 992 — ganizzata in quanto tale, assoggettando a sanzione alcune specifiche forme di associazione a delinquere (22). Come vedremo, l’efficacia preventivo-punitiva di tali soluzioni codicistiche risulta amplificata sia dalla non infrequente carenza di tassatività delle fattispecie associative (23), che tende a vanificare il vincolo della interpretation stricte, introdotto dal nuovo codice penale (24), sia da una politica sanzionatoria caratterizzata da un estremo rigore, peraltro fortissimamente mitigato nei confronti dei collaboratori di giustizia. Nel corso della trattazione le quattro succitate soluzioni normative verranno esaminate distinguendo a seconda che l’intervento punitivo abbia ad oggetto fatti non costituenti espressioni di una vera e propria associazione criminale (ma piuttosto, come detto, di una mera ‘‘criminalità di gruppo’’), ovvero fatti costituenti manifestazioni di criminalità organizzata. 3.
La ‘‘criminalità di gruppo’’ nel nuovo codice francese. In particolare, la circostanza aggravante di ‘‘riunione’’.
Nel sistema penale francese, la cosiddetta ‘‘criminalità di gruppo’’ può essere intesa in due diverse accezioni. a) In base ad una prima accezione, a carattere puramente oggettivo, si ha criminalità di gruppo (o di massa) quando uno o più reati vengono realizzati in un contesto caratterizzato dalla ‘fattiva’ presenza di una pluralità di soggetti, e in assenza di un previo accordo tra questi. Come già accennato, al riguardo la tradizione francese (pur caratterizzata dalla coesistenza di differenti approcci penalistici e criminologici) si è sempre caratterizzata per un particolare rigore. Infatti, anche a prescindere dall’impronta ‘‘oggettivistica’’ propria di talune leggi penali francesi (25), la tendenza della massima parte dei giudici (e di una parte della stessa dottrina transalpina), è sempre andata nel senso di imputare a tutti i soggetti dediti ad attività illecite ‘‘di gruppo’’ (disordini in uno stadio, risse, attività lavorative collettive imprudenti o negligenti (26), condotte colpose contestuali di più soggetti nell’ambito della circolazione stradale (27), ecc.) ogni fatto dannoso rispetto al quale risultava impossibile determinare il ruolo di ciascuno dei consociati (28). È forse ancora presto per sapere quanto l’af(22) In merito a tali diversificate tecniche normative cfr., con varietà di sfumature, GIRAULT, Le droit pénal à l’épreuve de l’organisation criminelle, in Rev. sc. crim., 1998, p. 715 ss, 721; PRADEL, Droit pénal général, Paris, 1996, p. 27; parallelamente, in Italia, MONACO, Le risposte del sistema sanzionatorio ai fatti di criminalità organizzata, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali tra efficienza e garanzia, cit., p. 246 ss.; FIORE, Modelli di intervento sanzionatorio e criminalità organizzata: pericolose illusioni e inquietanti certezze della recente legislazione antimafia, ivi, p. 262; INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna, 1996, in particolare p. 49 ss. (23) Sul punto cfr., infra, sub par. 10, lett. a). (24) Art. 111-4 c.p.: ‘‘La legge penale va interpretata restrittivamente’’. (25) Si pensi, in particolare, alla celebre loi anti-casseurs del 1970, che peraltro prevedeva a carico dei partecipanti a manifestazioni di piazza forme di responsabilità non solo oggettiva, ma addirittura per fatto altrui, limitatamente ai reati commessi nell’ambito di tali manifestazioni. Sul punto cfr. BOUZAT, La loi 8 juin 1970 tendant à reprimer certaines formes nouvelles de délinquance (dite loi ‘‘anti-casseurs’’), in En hommage à Jean Constant, Liège, 1971, p. 51 ss.; DUPEYRON, L’infraction collective, in Rev. sc. crim., 1973, p. 357 ss.; nella dottrina italiana FLORA, Libertà di riunione e delitti di massa, in questa Rivista, 1976, p. 271 ss. (26) Cfr., ad esempio, Cass. crim., 17 gennaio 1971, in Bull. crim. n. 326. (27) Cfr., ad esempio, Cass. crim., 5 gennaio 1988, in Bull. crim. n. 7; Cass. crim., 13 marzo 1994, in Bull. crim. n. 112. (28) Cfr. MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 794 ss. In merito alla c. d. ‘‘responsabilità collettiva’’ in materia penale cfr., diffusamente e in
— 993 — fermazione in sede codicistica del principio di responsabilità personale (art. 121-1) (29) riuscirà a modificare la precedente prassi giurisprudenziale volta ad affermare, all’interno della ‘‘criminalità di gruppo’’, una sorta di sostanziale indivisibilità dell’insieme dei singoli comportamenti (ancorché non iscritti in un medesimo disegno criminoso o comunque non preordinati) rispetto ai fatti illeciti realizzati nell’ambito appunto dell’attività del gruppo (30). È tuttavia verosimile ritenere che le contraddizioni implicite ed esplicite rinvenibili in sede di esame delle nuove disposizioni codicistiche francesi di parte generale ovvero di parte speciale concernenti il concorso di persone nel reato siano destinate a facilitare ogni aggiramento del principio personalistico (31). In questo quadro di svilimento del contributo individuale alla commissione del reato, è almeno di un qualche conforto sapere che per le forme estemporanee di ‘‘criminalità di gruppo’’ non sono previste, a carico dei singoli, circostanze aggravanti fondate sulla pluralità dei soggetti presenti sul luogo del reato. Circostanze, queste, talora viceversa riscontrabili — come vedremo subito — laddove l’illecito ‘‘collettivo’’ risulti cementato da una volontà comune. b) In base ad una seconda accezione, a carattere al contempo oggettivo e soggettivo, si ha criminalità ‘‘di gruppo’’ nei casi in cui una pluralità di soggetti pongono in essere un dato reato attraverso forme di compartecipazione volontaria e cosciente, ma al di fuori di ogni stabile organizzazione criminale (32). In tali casi, da un lato le norme codicistiche generali sul concorso di persone (artt. 1216 e 121-7 c.p.) assicurano l’equiparazione sul piano sanzionatorio dei diversi compartecipi indipendentemente dal loro specifico ruolo (di coautore, di concorrente materiale, di istigatore, di determinatore); dall’altro lato singole norme di parte speciale prevedono, in relazione a taluni particolari reati, un aumento dei limiti massimi di pena comminati in relazione alle corrispondenti fattispecie monosoggettive. Quest’ultima ipotesi si verifica nell’art. 2257, n. 9, nell’art. 311-4, n. 1 e nell’art. 322-3, n. 1. Ai sensi di tali norme, infatti, le ipotesi di concorso nello sfruttamento della prostituzione, nel furto e nel danneggiamento senza pericolo per le persone vengono assoggettate, rispettivamente, alla detenzione correzionale fino a dieci anni e all’ammenda fino a 10 milioni di franchi, ovvero alla detenzione correzionale fino a cinque anni ed all’ammenda fino a cinquecentomila franchi, ovvero ancora alla detenzione correzionale fino a cinque anni e all’ammenda fino a 500.000 franchi (33); laddove invece nelle corrispondenti ipotesi base il prossenetismo è punito con la detenzione correzionale fino a cinque anni e con l’ammenda fino a 1 milione di franchi (art. 225-5), il furto con termini più sfumati, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 424 ss. (29) Cfr., supra, sub par. 2, nt. 20. (30) Circa le forti resistenze che, precedentemente al varo del nuovo codice, caratterizzavano il sistema penale francese riguardo al riconoscimento del principio di responsabilità personale nelle sue diverse articolazioni cfr. BERNARDI, Sulle funzioni dei principi di diritto penale, in Annali dell’Università di Ferrara - Scienze Giuridiche, vol. VI, 1992, p. 83 ss. (31) Sul punto cfr., diffusamente, LAZERGES, La partecipation criminelle, in Réflexions sur le nouveau code pénal, cit., p. 11 ss. (32) Naturalmente, l’elemento ‘‘negativo’’ del reato, consistente nell’assenza di una vera e propria organizzazione criminale, non implica l’assenza di una qualsivoglia forma di organizzazione di altro tipo. In questo senso, ad esempio, rientrano nel concetto di ‘‘criminalità di gruppo’’ accolto dal sistema francese (ma non invece nel concetto di criminalità a carattere associativo od organizzato) le forme di criminalità economica commesse nell’ambito di un’impresa non prioritariamente od esclusivamente indirizzata ad attività delittuose. Sui rapporti tra criminalità economica e criminalità organizzata, cfr., polemicamente, VOLK, Criminalità organizzata e criminalità economica, cit., p. 362 ss. Sulla difficoltà di distinguere tra attività d’impresa ‘legale’ ovvero ‘illegale’ cfr., in particolare, ZAFFARONI, Il crimine organizzato: una categorizzazione fallita, cit., p. 91. (33) Peraltro, nelle ipotesi di particolare lievità di cui al combinato disposto degli artt. 322-1 comma 2 e 322-3 comma 1 in fine, è prevista soltanto l’ammenda fino a 100.000 franchi.
— 994 — la detenzione correzionale fino a tre anni e l’ammenda fino a trecentomila franchi (art. 3113) e il danneggiamento senza pericolo per le persone con la detenzione correzionale fino a due anni e l’ammenda fino a duecentomila franchi (34). Negli artt. 225-7, n. 9 e 311-4, n. 1, quindi, la mera compartecipazione del reato viene elevata a circostanza aggravante speciale, capace di aumentare in misura davvero assai sensibile la pena irrogabile. Ciò significa che, anche in assenza di una qualsivoglia associazione od organizzazione criminale (35), la presenza di una pluralità di agenti in concorso tra loro implica agli occhi del legislatore francese una più intensa capacità criminale degli autori (36), ovvero una maggior gravità del fatto, ovvero ancora un innalzamento dell’allarme sociale, così da giustificare una risposta punitiva particolarmente severa (37). Merita di essere sottolineato che la configurazione data nel nuovo codice alla circostanza di ‘‘riunione’’ sembra destinata a garantirne una utilizzazione assai frequente. Infatti, nella versione originale del codice penale del 1810, tale circostanza presupponeva che il reato fosse stato commesso da due o più coautori, sicché ove vi fosse stato un solo autore supportato da uno o più complici, la circostanza in questione non risultava applicabile (38). Viceversa, il nuovo codice penale ha volutamente recepito la circostanza in questione nella più ampia configurazione che ad essa era stata data dalla l. 81-82 del 2 febbraio 1981 (39); configurazione in forza della quale sussiste la circostanza di riunione ogniqualvolta i reati che la prevedono siano commessi da due o più persone, indipendentemente dal ruolo di coautore o di semplice complice di queste ultime. 4.
Le soluzioni codicistiche finalizzate alla repressione della criminalità a carattere associativo. L’estensione dell’originario ambito applicativo della circostanza aggravante di ‘‘banda organizzata’’.
Passando ora all’esame delle soluzioni dettate dal nuovo codice penale francese in tema di criminalità a carattere associativo o organizzato, occorre innanzitutto sottolineare come la ‘‘naturale’’ tendenza alla settorialità delle riforme penali concernenti le diverse forme di (34) Nelle ipotesi di particolare lievità di cui all’artt. 322-1 comma 2, è prevista soltanto l’ammenda fino a 25.000 franchi. (35) In relazione alle quali cfr., infra, sub par. 6. (36) In questo senso cfr., ad esempio, CONTE, MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 214-215. (37) Resta il fatto che, diversamente da quanto accade in Italia, la circostanza di ‘‘riunione’’ non figura come aggravante a carattere generale, sul tipo di quella dettata all’art. 112 n. 1 del codice penale italiano, ma solo come aggravante speciale, sulla falsariga di quanto previsto agli artt. 339 comma 2, 385 comma 2, 416 comma 5, 625 n. 5, 628 n. 1, 629 comma 2 e 633 comma 2 del nostro codice penale. (38) Tuttavia, in merito agli escamotages ideati dai giudici per estendere la portata applicativa della circostanza di riunione attraverso forme di indebita dilatazione della nozione di coautore cfr., in particolare, RASSAT, Droit pénal spécial. Infractions des et contres les particuliers, Paris, 1997, p. 36, n. 41, con puntuali riferimenti giurisprudenziali. (39) La legge in questione, detta Sécurité et liberté e specificamente diretta a reprimere le infractions de violence, si era prefissa di rispondere al crescente senso di insicurezza dei francesi causato dall’aumento dei suddetti episodi criminali facendo ricorso ad una vasta gamma di strumenti intimidativo-repressivi, e in particolare limitando il potere di individualizzazione della pena da parte dei giudici. In argomento cfr., per tutti, BOSCARELLI, La legge francese ‘‘sécurité et liberté’’ (2 febbraio 1981) nei suoi aspetti di diritto penale sostanziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, p. 977 ss.; FRANCILLON, La loi n. 81-82 du 2 février 1981 renforçant la sécurité et protégeant la liberté des personnes, in Juris-classeur (numéro spécial), 1981, p. 1 ss.; PRADEL, La loi du 2 février 1981 dite ‘‘Sécurité et liberté’’ et ses dispositions de procédure pénale, in Recueil Dalloz, 1981, Chronique, p. 101 ss.; RASSAT, Le nouveau régime des infractions pénales dans la loi ‘‘Sécurité et liberté’’, in Rev. int. crim. pol. techn., 1981, p. 7 ss.
— 995 — espressione di tale criminalità (40) è stata indubbiamente contrastata dal legislatore francese, che ha ricondotto in ambito codicistico larga parte dei relativi illeciti. Resta comunque il fatto che il codice penale transalpino del 1994 continua a disciplinare la criminalità organizzata essenzialmente nella sua parte speciale, distinguendo a seconda delle diverse manifestazioni in cui l’associazione o l’organizzazione criminale si esprime. In questo senso, come la dottrina non ha mancato di sottolineare (41), tenuto conto delle peculiarità di volta in volta assunte dal crimine organizzato, si è ritenuto di non dover prevedere nella parte generale del codice una definizione di ‘‘organizzazione criminale’’ capace di evidenziare gli elementi comuni alle sue diverse configurazioni (42). Come appena accennato, e come meglio vedremo in seguito, si è preferito invece moltiplicare le fattispecie associative, ponendo eventualmente in risalto, all’interno delle singole fattispecie, taluni caratteri salienti e ricorrenti (per esempio, quelli dell’‘‘impresa’’, del ‘‘movimento’’, della ‘‘concertazione’’, ecc.) (43). Ciò nondimeno, un abbozzo di nozione di impresa criminale sembra ricavabile proprio da una norma di parte generale, concernente la definizione della circostanza aggravante di ‘‘banda organizzata’’. L’art. 132-71 dispone infatti che ‘‘ai sensi della legge, costituisce una banda organizzata ogni raggruppamento formato, o ogni accordo preso, in vista della preparazione, caratterizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più reati’’. La circostanza di ‘‘banda organizzata’’ costituisce dunque una sorta di naturale pendant della circostanza di ‘‘riunione’’, capace di tracciare un solco sufficientemente netto tra le manifestazioni di criminalità in forma associativa od organizzata (44) e le manifestazioni di mera ‘‘criminalità di gruppo’’ (45). In reazione alla crescita esponenziale degli episodi criminosi a carattere associativo od organizzato, e al corrispondente aumento dell’allarme sociale da essi prodotto (46), la circostanza di ‘‘banda organizzata’’ presenta nel nuovo codice penale francese tre caratteristiche fondamentali. In primo luogo essa, pur non costituendo una vera e propria circostanza aggravante comune (nel senso attribuito a tale espressione nell’ordinamento penale italiano), si applica ad un cospicuo numero di reati (47), laddove per contro nel precedente codice pe(40) Tendenza dovuta, innanzitutto, al carattere provvisorio e contingente della legislazione penale dell’emergenza volta a reprimere le diverse forme di criminalità organizzata. Al riguardo cfr., in particolare, OTTENHOF, in Criminalité organisée et ordre dans la societé, a cura di J. Borricand, Aix-Marseille, 1997, p. 49. (41) MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 800. (42) Evidente risulta, in proposito, il parallelismo rispetto al sistema italiano, ove come noto non si è proceduto alla creazione di una figura associativa di parte generale, peraltro auspicata da una parte della dottrina: cfr., specificamente, MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1995, p. 42. (43) Cfr., per tutti, CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé France, in Rev. int. dr. pén., 1998, n.1-2, p. 341; MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 802 ss. (44) Come precisato dalla Circolare del 14 maggio 1993, esplicativa delle disposizioni del nuovo codice penale francese, la circostanza di banda organizzata ‘‘può considerarsi come il riconoscimento, successivamente alla commissione del reato, dell’esistenza di una associazione a delinquere finalizzata alla commissione del reato in questione’’. (45) Nella letteratura italiana, la differenza sostanziale che intercorre all’interno del sistema francese tra la circostanza di riunione e quella di banda organizzata viene puntualmente sottolineata da VINCIGUERRA, I reati associativi nell’esperienza giuridica europeo continentale, in I reati associativi, Milano, 1998, p. 107. (46) Cfr. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 26, n. 7. Sull’aumento dell’allarme sociale dovuto alla presa di coscienza dell’elevato coefficiente di pericolosità insito nelle nuove forme di criminalità a carattere prevalentemente organizzato cfr., in generale e da ultimo, MARINUCCI, DOLCINI, Diritto penale ‘minimo’ e nuove forme di criminalità, cit., p. 814. (47) Cfr. gli artt. 222-35 comma 2 e 222-36 comma 2 (traffico di stupefacenti), 2243 (rapimento e sequestro), 225-8 (prossenetismo), 311-9 (furto), 312-6 (estorsione), 313-2
— 996 — nale essa risultava circoscritta ad uno sparutissimo gruppo di fattispecie (48). In secondo luogo essa presenta una configurazione significativamente diversa da quella originariamente offerta dal vecchio codice, così da consentire una sua più agevole applicazione (49). In terzo luogo essa comporta aumenti di pena talora addirittura vertiginosi (50), e comunque assai maggiori di quelli — già notevoli (51) — derivanti dalla circostanza di ‘‘riunione’’. Così, ad esempio, mentre come si è visto il furto è punito con la detenzione correzionale fino a cinque anni e con l’ammenda fino a 500 mila franchi se realizzato con la circostanza di ‘‘riunione’’ (art. 311-4, n. 1), esso viene punito con la reclusione criminale fino a quindici anni e con l’ammenda fino a un milione di franchi in caso di sussistenza della circostanza aggravante di ‘‘banda organizzata’’ (art. 311-9) (52). E ancora, per il reato di sfruttamento della prostituzione svolto da una pluralità di coautori o di compartecipi è prevista la detenzione correzionale fino a 10 anni e l’ammenda fino a 10 milioni di franchi di (225-7, n. 9), mentre viene comminata la reclusione criminale fino a 20 anni e l’ammenda fino a 20 milioni di franchi quando esso sia commesso in banda organizzata (art. 225-8). In altri casi, l’aumento di pena previsto rispetto al reato-base risulta meno draconiano, ma pur sempre vistoso. Si pensi al reato di produzione di sostanze stupefacenti, punito nell’ipotesi-base (oltre che con un’ammenda connotata dal massimo siderale di 50 milioni di franchi) con la reclusione criminale fino a vent’anni (53), ma colpito con la reclusione crimi(truffa), 321-2 (ricettazione), 322-8 (distruzioni, degradazioni e deterioramenti che recano pericolo alle persone), 324-2 (riciclaggio) e 442-2 (falsità in monete). (48) Vale a dire alle fattispecie in tema di furto (art. 384) e di danneggiamento (artt. 257-3 e 435). In merito alla circostanza di ‘‘banda organizzata’’, introdotta per la prima volta nel vecchio codice dalla succitata l. 2 febbraio 1981 (v. supra, sub nt. 39), cfr., per tutti, CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 352 ss.; DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 431 e 703; MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 801; PRADEL, Droit pénal comparé, Paris, 1995, p. 121, n. 90; QUELOZ, Les actions internationales de lutte contre la criminalité organisée: le cas de l’Europe, cit., p. 778; RASSAT, Droit pénal spécial. Infractions des et contres les particuliers, cit., p. 37, n. 41. (49) In particolare, nella sua precedente configurazione la circostanza di banda organizzata richiedeva l’esistenza di un piano d’esecuzione del reato e il possesso di materiali utili alla commissione del fatto. Inoltre la banda organizzata era definita ‘‘ di malfattori’’, cosicché secondo una parte della dottrina almeno uno dei compartecipi doveva essere già stato oggetto di una o più condanne penali. Cfr., specificamente, RASSAT, Droit pénal spécial. Infractions des et contres les particuliers, cit., p. 37. Non deve dunque stupire se, a causa sia del suo originario, ristrettissimo ambito d’applicazione sia della sua primigenia strutturazione, nel periodo tra il 1981 e il 1994 la circostanza aggravante in questione non è mai stata utilizzata in sede processuale: cfr. CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 352-353. Per converso, tuttavia, non va taciuto che nel corso dei lavori parlamentari sul progetto del nuovo codice penale francese, la dilatazione del concetto di ‘‘banda organizzata’’ era stata giudicata da taluno eccessiva, in quanto tale circostanza aggravante avrebbe ormai potuto essere applicata ‘‘ad ogni incidente avvenuto in occasione di una manifestazione organizzata da un partito politico, da un sindacato e persino da una qualsivoglia associazione’’. Cfr. Journal Officiel, Sénat, 18 maggio 1989, p. 780. (50) Sul punto cfr. le considerazioni di CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 354. (51) Cfr., supra, sub par. 3, in fine. (52) Addirittura, in taluni casi particolari, la pena detentiva risulta ancora più elevata. Così, il furto in banda armata prevede la reclusione criminale fino a venti anni ‘‘quando è preceduto, accompagnato o seguito da atti di violenza su altri’’ (art. 311-9, comma 2), e la reclusione criminale fino a trent’anni ‘‘quando è commesso con l’uso o con la minaccia di un’arma oppure da una persona che porta un’arma per la quale è richiesta l’autorizzazione o il cui porto sia proibito’’ (art. 311-9, comma 3). (53) Cfr. art. 222-35, comma 1.
— 997 — nale fino a trent’anni in caso di sussistenza dell’aggravante in questione (54); oppure al reato di truffa (art. 313-1), che se realizzato ‘‘in banda organizzata’’ (art. 313-2) comporta un aumento del massimo della detenzione correzionale da cinque a sette anni e dell’ammenda da 2 milioni e mezzo a 5 milioni di franchi; o, ancora, al reato di riciclaggio (art. 324-1), che vede raddoppiare l’entità massima della detenzione correzionale e dell’ammenda comminate (da 5 anni e 2.500.000 franchi a 10 anni e 5.000.000 franchi) in caso di operatività della suddetta aggravante (art. 324-2). 5. Le norme incriminatrici previste dal nuovo codice nel campo della delinquenza organizzata. Le fattispecie volte a punire gli illeciti realizzati dalle associazioni criminali. Come accennato nel corso del par. 2, nel nuovo codice penale francese l’organizzazione criminale, lungi dal limitarsi ad assumere le vesti di circostanza aggravante, tende a materializzarsi in una variegata congerie di apposite fattispecie penali, distinguibili in due categorie. La prima categoria ricomprende le norme penali dirette a perseguire, di volta in volta, taluni fatti, aggressivi di beni giuridicamente rilevanti, posti in essere dagli appartenenti all’associazione o all’organizzazione. La seconda categoria ingloba, invece, le fattispecie penali dirette a colpire alcune specifiche forme di criminalità associativa od organizzata, indipendentemente dalla realizzazione, anche a livello di tentativo, dei relativi reati-scopo. a) Passando all’esame delle fattispecie penali riconducibili alla prima di tali categorie, occorre innanzitutto soffermarsi su quelle concernenti i crimini contro l’umanità; concernenti cioè i reati considerati dal legislatore al vertice assoluto della scala di gravità, e in quanto tali emblematicamente collocati in apertura del libro secondo del nuovo codice penale, riservato ai ‘‘crimini e delitti contro le persone’’ (55). Sanzionati con la pena della reclusione criminale a vita (56) e accompagnati da una ricca gamma di pene complementari comprensive persino della famigerata confisca dei beni del condannato (57), i reati in questione — vale a dire il genocidio di cui all’art. 211-1 (58) (54) Cfr. art. 222-35, comma 2. (55) In merito ai crimini contro l’umanità così come disciplinati nel nuovo codice penale francese, cfr., per tutti, FRANCILLON, Crimes de guerre, contre l’humanité, in Jurisclasseur pénal, annexes, marzo 1993, n. 75 ss.; GRYNFOGEL, Le concept de crime contre l’humanité. Hier, aujourd’hui et demain, in Rev. dr. pén. crim., 1994, p.13 ss.; MASSÉ, Les crimes contre l’humanité dans le nouveau code pénal français, in Rev. sc. crim., 1994, p. 376 ss.; TRUCHE, BOURETZ, Crimes de guerre - crimes contre l’humanité, in Encyclopédie Dalloz, Droit Pénal, agosto 1993, n. 47 ss. (56) Pena, questa, peraltro sempre convertibile a discrezione dal giudice, ex art. 13218, in una pena detentiva temporanea non inferiore a due anni. (57) La confisca generale, da sempre oggetto di aspre critiche per la sua estrema severità e per la sua immediata ricaduta sui familiari del reo (dunque su soggetti estranei alla commissione del reato), è stata mantenuta nel nuovo codice penale francese solo in relazione ai crimini contro l’umanità (art. 213-1 n. 4 c. p.) e ai più gravi casi di traffico di stupefacenti (art. 222-49 comma 2). (58) ‘‘Costituisce genocidio il fatto di chi, in esecuzione di un piano concertato tendente alla distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, o di un gruppo individuato in base ad altri criteri arbitrari, commette o fa commettere contro i membri di questo gruppo uno dei seguenti atti: - offesa volontaria alla vita; - lesione grave all’integrità fisica o psichica; - sottomissione a condizioni di vita di natura tale da cagionare la distruzione totale o parziale del gruppo; - misure tendenti ad ostacolare le nascite; - trasferimento forzato di minori. Il genocidio è punito con la reclusione criminale a vita. Al genocidio previsto dal presente articolo sono applicabili i primi due commi dell’art. 132-23 relativo al periodo di sicurezza’’.
— 998 — e gli ‘‘altri crimini contro l’umanità’’ di cui all’art. 212-1 (59) — presentano tutti l’elemento costitutivo consistente nel fatto di aver agito ‘‘in esecuzione di un piano concertato’’ (60). Questo elemento comune, non richiesto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, è stato introdotto dal codice francese sull’alveo della precedente giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale limitatamente ai reati in questione richiedeva appunto la sussistenza di ‘‘un piano concertato, realizzato in nome di uno Stato praticante una politica d’egemonia ideologica’’ (61). Coerentemente con la lettera delle suddette norme, la dottrina francese prevalente sottolinea che, per la sussistenza dei relativi reati, gli autori devono aver agito ‘‘in modo metodico, premeditato e sistematico’’ (62), vale a dire nell’ambito di un progetto comune realizzabile solo attraverso forme articolate di organizzazione (63). b) Una ulteriore fattispecie volta a colpire fatti di estrema gravità, realizzati necessariamente nell’ambito di un’attività criminale organizzata, è quella prevista dall’art. 222-34. In base a detto articolo, la direzione od organizzazione di ‘‘un gruppo avente per oggetto la produzione, la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione, il trasporto, la detenzione, l’offerta, la vendita, l’acquisto o l’uso illeciti di sostanze stupefacenti è punito con la reclusione criminale a vita e con 50.000.000 di franchi di ammenda’’. Il rigore punitivo espresso da questa norma di nuovo conio (64) — che risulta ormai collocata, al pari di ogni altra disposizione in materia di stupefacenti, all’interno del nuovo codice penale (65) — viene giustificato dalla dottrina con varietà di argomentazioni. In particolare, si sottolinea l’importanza del bene giuridico aggredito (la salute dei consumatori) e il livello di criminosità insito nelle attività sanzionate, dovuto anche al fatto che queste ultime non devono consistere semplicemente nell’utilizzazione di un’organizzazione già esistente, ma presuppongono la creazione ex novo di una vera e propria struttura finalizzata alla produzione e al traffico di stupefacenti (66). In definitiva, ai sensi dell’art. 222-34, i dirigenti e gli organizzatori del gruppo criminale vengono distinti da un lato dai meri produttori (59) ‘‘La deportazione, la riduzione in schiavitù o la pratica massiccia e sistematica di esecuzioni sommarie, di prelevamenti di persone seguiti dalla loro scomparsa, della tortura o di atti inumani, ispirati da motivi politici, filosofici, razziali o religiosi e organizzati in esecuzione di un piano concertato contro un gruppo di popolazione civile sono puniti con la reclusione criminale a vita. Ai crimini previsti dal presente articolo sono applicabili i primi due commi dell’art. 13223 relativo a periodo di sicurezza’’. (60) Sull’‘‘irresistibile ascesa’’ nel diritto penale francese di tale elemento costitutivo, in ragione del suo carattere misto oggettivo-soggettivo, cfr. MASSÉ, L’affaire Touvier. L’echappée belle, in Rev. sc. crim., 1993, p. 372; ID., Les crimes contre l’humanité dans le nouveau code pénal français, cit., p. 378 ss. e ivi ulteriori approfondimenti sulla natura ed i profili dell’elemento in questione. (61) Cass. crim., 20 dicembre 1985, in Bull. crim., n. 404 e in Gazette du Palais, 1986, p. 246. (62) PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pènal spécial, Paris, 1995, p. 26, n. 10. (63) MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 803. Contra, nel senso cioè di svalutare il significato assunto dall’espressione ‘‘piano concertato’’ all’interno dell’art. 211-2, sino a ritenerla ‘‘come non scritta’’, DECOCQ, Le nouveau code pénal, enjeux et perspectives, Paris, 1994, p. 101. In argomento cfr. altresì, diffusamente e problematicamente, GRYNFOGEL, Les limites de la complicité de crime contre l’humanité, in Rev. sc. crim., 1998, p. 526 ss. (64) Sul contenuto innovativo di tale fattispecie, e sulla sua attitudine ad evidenziare ‘‘l’accentuazione delle politiche repressive nel nuovo codice penale’’ cfr. ALVAREZ, La politique criminelle des drogues ou l’affrontement de deux ‘‘raisons’’, in Réflexions sur le nouveau code pénal, cit., p. 150. (65) In precedenza, viceversa, la normativa penale in materia di stupefacenti risultava collocata all’interno del code de la Santé publique. (66) Cfr. PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pènal spécial, cit., p. 104, n. 106.
— 999 — e fabbricanti di stupefacenti di livello non dirigenziale (rispetto ai quali, se riuniti in banda organizzata, deve applicarsi il già ricordato art. 225-35, nell’ipotesi aggravata ivi prevista al comma 2); nonché, dall’altro lato, dagli importatori ed esportatori di tali sostanze, i quali in presenza della medesima circostanza aggravante sono puniti in base all’art. 222-36 (67). Naturalmente, per poter applicare la fattispecie introdotta all’art. 222-34, l’attività di direzione od organizzazione di un siffatto gruppo criminale deve essere effettivamente svolta. Ove infatti si siano verificati solo atti preparatori alla creazione della struttura organizzata, sarà applicabile soltanto la fattispecie di ‘‘partecipazione ad una associazione di malfattori’’ (art. 450-1), su cui ci si soffermerà nel prossimo paragrafo. c) Carattere senz’altro di minore gravità riveste il reato di ‘‘ostacolo all’esercizio delle libertà di espressione, di lavoro, di associazione, di riunione o di manifestazione’’ previsto dall’art. 431-1. Certamente, anche in questo caso ci si trova di fronte ad una fattispecie a carattere associativo, dato che attraverso di essa si punisce ‘‘il fatto di ostacolare, in maniera concertata’’, le suddette libertà. Qui, tuttavia, l’elemento della ‘‘concertazione’’ potrebbe, con paradosso solo apparente, conferire al fatto una minore gravità (68), o addirittura escluderne in taluni casi l’antigiuridicità. La ‘‘concertazione’’ costituisce infatti lo strumento peculiare del diritto di sciopero; cosicché ‘‘talora questa forma di organizzazione si avvicina troppo alle forme di esercizio delle libertà pubbliche per essere sanzionata penalmente’’ (69). In ogni caso, le pene massime previste non appaiono particolarmente elevate: fino a un anno di detenzione correzionale e 100.000 franchi di ammenda nel caso in cui si ostacoli l’esercizio delle suddette libertà con minacce (art. 431-1 comma 1) e fino a tre anni di detenzione correzionale e 300.000 franchi di ammenda nel caso in cui l’attività di ostacolo si estrinsechi in percosse od altre manifestazioni di violenza (art. 431-1 comma 2). d) Proseguendo nella disamina delle fattispecie specificamente volte a colpire taluni fatti illeciti realizzati nel quadro di un’organizzazione criminale, risulta impossibile non rilevare lo spazio occupato all’interno del nuovo codice penale francese dai reati associativi di matrice politica (70), tutti collocati nel libro IV concernente i ‘‘crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e la pace pubblica’’. Al riguardo, le prime fattispecie in cui ci si imbatte sono quelle in tema di ‘‘moto insurrezionale’’ previste dagli artt. 412-3 a 412-6 (71). Nell’ambito di tali articoli, viene innanzitutto fornita una definizione di ‘‘moto insurrezionale’’ che ne esalta la dimensione ‘‘collettivistica’’ (72). Successivamente, sono oggetto di puntuale elencazione i singoli fatti, realizzati nel quadro del movimento insurrezionale, ritenuti meritevoli di sanzione. Fatti in relazione ai quali sono previste, a seconda dei casi, la detenzione criminale fino a quindici anni e l’am(67) Tale norma prevede la detenzione correzionale fino a 10 anni e l’ammenda fino a 50.000.000 di franchi. (68) E infatti, le pene massime previste risultano non particolarmente elevate: un anno di detenzione correzionale e 100.000 franchi di ammenda nell’ipotesi di cui l’attività di ostacolo si esprima sotto forma di minacce (comma 1), e tre anni di detenzione correzionale e 300.000 franchi di ammenda nell’ipotesi di cui l’attività di ostacolo si esprima in forma di percosse e altre violenze, (69) MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 803-804. (70) Peraltro, per talune puntualizzazioni sulle differenze esistenti tra il concetto di ‘‘criminalità politica’’ e quello di ‘‘criminalità organizzata’’ stricto sensu, cfr. CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 344, con ulteriori riferimenti bibliografici. (71) In argomento cfr., ancora, MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 804. (72) In base all’art. 412-3, infatti, costituisce moto insurrezionale ‘‘ogni violenza collettiva tale da porre in pericolo le istituzioni della Repubblica o da ledere l’integrità del territorio nazionale’’.
— 1000 — menda fino a 1.500.000 di franchi (art. 412-4) (73); ovvero la detenzione criminale fino a venti anni e l’ammenda fino a 2.000.000 di franchi (art. 412-5) (74); ovvero ancora, limitatamente agli episodi di direzione od organizzazione di un moto insurrezionale, la detenzione criminale a vita e l’ammenda fino a 5.000.000 di franchi (art. 412-6). Merita di essere sottolineato che, diversamente da quanto avviene in materia di crimini contro l’umanità (75), ai fatti commessi nel contesto del movimento insurrezionale risultano applicabili tutte le cause di esclusione o di attenuazione della responsabilità previste in via generale dal codice. In particolare, a favore del singolo autore dei fatti di violenza potrebbero essere invocate le scriminanti della forza maggiore (art. 122-2), dell’ordine proveniente dall’autorità legittima (art. 122-4) e dello stato di necessità (art. 122-7) (76). e) Analogo carattere al contempo politico e associativo presenta il reato di ‘‘partecipazione all’opera di demoralizzazione dell’esercito’’ previsto e punito dall’art. 413-4. In effetti, la fattispecie in questione — che peraltro ricalca abbastanza fedelmente quella dettata all’art. 84 del precedente codice penale (77) — postula l’esistenza di una entreprise; postula cioè, secondo una risalente giurisprudenza in materia destinata con ogni probabilità ad essere ribadita in futuro, ‘‘l’esistenza di una organizzazione diretta a perseguire un piano concertato ed un atto di cosciente partecipazione a tale ’entreprise’’ (78). In questo senso, verosimilmente, un episodio isolato di provocazione alla diserzione continuerebbe a non rientrare nello spettro applicativo della norma in esame (79). f) Senza dubbio, contenuti maggiormente innovativi rispetto alla fattispecie da ultimo esaminata presentano le norme in tema di terrorismo di cui agli articoli 421-1 a 421-4. Proseguendo un’evoluzione legislativa iniziata nella seconda metà degli anni ’80 (80), e in perfetta sintonia con l’accresciuta sensibilità sociale e politica circa i rischi connessi alle attività terroristiche, il codificatore francese ha infatti per la prima volta collocato in apposite fatti(73) Ai sensi dell’articolo in questione, viene punito con tali sanzioni ‘‘il fatto di partecipare ad un moto insurrezionale: 1) costruendo barricate, trincee o eseguendo qualsiasi lavoro diretto ad impedire od ostacolare l’azione della forza pubblica 2) occupando con la forza o con l’astuzia oppure distruggendo qualsiasi edificio o installazione; 3) assicurando il trasporto, il sostentamento o le comunicazioni degli insorti; 4) istigando, con qualsiasi mezzo, l’assembramento di insorti; 5) portando un’arma; 6) sostituendosi ad un’autorità legittima’’. (74) Ai sensi di tale articolo, viene punito con le suddette sanzioni ‘‘il fatto di partecipare ad un moto insurrezionale: ’’1) impadronendosi di armi, munizioni, sostanze esplosive o pericolose o di materiali di qualsiasi tipo sia mediante violenze o minacce sia mediante rapina che disarmando la forza pubblica; 2) procurando agli insorti armi, munizioni o sostanze esplosive o pericolose’’. (75) Cfr. art. 213-4. (76) Cfr., sul punto, MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 804 ss. (77) Cfr., al riguardo, le osservazioni di GIUDICELLI-DELAGE, Les crimes et délits contre la nation, l’Etat et la paix publique, in Rev. sc. crim., 1993, p. 502. (78) Con specifico riferimento all’art. 84 del vecchio codice penale, Cass. crim., sent. 25 febbraio 1958, in Bull. crim., n. 194. (79) In senso conforme (ma in relazione all’art. 84 del vecchio codice penale) cfr. Cass. crim., sent. 6 ottobre 1960, in Bull. crim., n. 435. (80) In merito a tale evoluzione cfr., per tutti, BORRICAND, La France à l’èpreuve du terrorisme: régression ou progression du droit?, in Rev. dr. pen. crim., 1992, p. 709 ss.; DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 124 ss.; OTTENHOF, Le droit pénal français à l’épreuve du terrorisme, in Rev. sc. crim., 1987, p. 607 ss.; PRADEL, Les infractions de terrorisme, un nouvel exemple de l’éclatement du droit pénal (l. n. 86-1020 du 9 septembre 1986), in Recueil Dalloz, Chronique, 1987, p. 39.
— 1001 — specie penali gli illeciti realizzati a fini di terrorismo (81). È stato così portato a compimento il processo di ‘‘autonomizzazione’’ della disciplina dei suddetti illeciti innescato dalla l. n. 86-1020 del 9 settembre 1986, in base alla quale venivano assoggettati a regole processuali particolari taluni reati, specificamente enumerati, ove commessi con lo scopo di intimidire o terrorizzare la collettività (82). Peraltro, ad una più attenta osservazione, le norme codicistiche volte a colpire il terrorismo nelle sue diverse manifestazioni non presentano poi profili di novità così spiccati: in primo luogo perché tali norme si rifanno per molti aspetti a quelle introdotte dalla suddetta legge n. 86-1020, dato che analogo risulta essere il criterio distintivo tra reati comuni e reati terroristici (83), e identico l’elenco dei fatti eventualmente considerabili atti di terrorismo (84); in secondo luogo, per quanto qui più interessa, perché il peculiare carattere ‘‘associativo’’ dei reati terroristici (carattere, questo, valorizzato nell’originario progetto di art. 421-5, che incriminava la ‘‘partecipazione ad un gruppo terrorista’’, distinguendola dalla meno grave partecipazione ad un’associazione di malfattori di cui all’art. 450-1) non è stato pienamente recepito in sede codicistica, dato che il Parlamento non ha approvato il suddetto progetto di articolo. E tuttavia, nonostante quanto appena detto, non sembra incongruo ricondurre le fattispecie in tema di terrorismo (85) entro la categoria degli illeciti penali costituenti espressione di criminalità organizzata. Se è vero infatti che, ai sensi del primo comma degli artt. 421-1 e 421-2, si considerano atti terroristici quelli che si trovano intenzionalmente in relazione con una entreprise non solo collettiva, ma anche individuale, è altresì vero che proprio il termine entreprise presuppone pur sempre, necessariamente, un’attività a carattere organizzato (86); presuppone, cioè, ‘‘un disegno formato o un piano concertato traducentesi in sforzi coordinati in vista dell’obiettivo da raggiungere’’ (87). Questo stato di cose, unitamente alla particolare pericolosità degli atti terroristici (88), sembra giustificare l’estremo rigore delle risposte sanzionatorie applicabili in relazione a tali atti (89). L’art. 421-3 dispone infatti che i reati elencati all’art. 421-1, ove rivestano carattere terroristico, comportano un sistematico innalzamento delle sanzioni principali previste per gli analoghi (81) Sulla nuova disciplina penale degli atti terroristici cfr., per tutti, CARTIER, Le terrorisme dans le nouveau code pénal français, in Rev. sc. crim., 1995, p. 225 ss. (82) In argomento cfr., in particolare, DANTI-JUAN, Le terrorisme, la sûreté de l’Etat et le principe d’égalité, in Travaux de l’Institut de sciences criminelles de Poitiers, vol. X, 1990, p. 69 ss.; FOYER, Droit et politique dans la répression du terrorisme en France, in Mélanges Levasseur, 1992, p. 409 ss.; PRADEL, Les infractions de terrorisme, un nouvel exemple de l’éclatement du droit pénal (l. n. 86-1020 du 9 septembre 1986), cit., p. 39 ss. (83) Criterio individuato nello scopo di turbativa dell’ordine pubblico proprio dei reati terroristici. (84) Sul punto cfr., per tutti, PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pènal spécial, cit., p. 770; GIUDICELLI-DELAGE, Les crimes et délits contre la nation, l’Etat et la paix publique, cit., p. 502. (85) Vale a dire le fattispecie di cui agli artt. 421-1 (atti di terrorismo) e 421-2 (atti di terrorismo ecologico). In merito a tale ultima fattispecie (questa sì radicalmente nuova) cfr., diffusamente, BORRICAND, La répression du terrorisme écologique dans le nouveau code pénal, in Problèmes actuels de science criminelle, vol. VIII, Aix-Marseille, 1995, p. 29 ss. (86) Cfr., specificamente, MAYAUD, Le terrorisme, Paris, 1997, p. 33. In termini meno recisi DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 474 ss., i quali sottolineano la vaghezza assunta dal termine entreprise all’interno degli artt. 421-1 e 421-2. (87) CHALANDON, in Journal Officiel, Ass. Nat., 8 agosto 1986, p. 4125. (88) Pericolosità dovuta al fatto che negli atti in questione ‘‘la volontà di turbare la pace pubblica con l’intimidazione o il terrore s’accompagna a forme cieche di aggressione alla sicurezza delle persone e dei beni’’: SAPIN, in Doc. Ass. Nat., n. 2083, p. 9. (89) Rigore sottolineato, ad esempio, da CARTIER, Le terrorisme dans le nouveau code pénal français, cit., p. 246; PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pénal spécial, cit., p. 772, n. 1130.
— 1002 — reati di diritto comune, nonché l’irrogazione delle pene complementari a carattere interdittivo di cui all’art. 422-3. 6.
Le fattispecie codicistiche tese a colpire in via anticipata talune forme di criminalità organizzata.
All’inizio del precedente paragrafo si è ricordato incidentalmente come nel nuovo codice penale francese siano previste non solo fattispecie volte a colpire taluni peculiari fatti illeciti posti in essere dai membri delle associazioni criminali, ma anche fattispecie tese a perseguire la criminalità organizzata in quanto tale, o meglio a perseguire singole forme di partecipazione all’associazione criminale tra loro differenziantisi per modalità comportamentali, finalità perseguite e grado di disvalore. L’analisi di queste ultime fattispecie risulta oltremodo interessante, in quanto attraverso di esse non ci si accontenta di colpire i reati-scopo consumati o tentati nell’ambito dell’organizzazione criminale, ma si mira a punire ‘‘anticipatamente’’ il fatto di associarsi per commettere reati di elevata gravità, senza attendere la verificazione di quel commencement d’exécution che esprime, nella tradizione francese, l’essenza del tentativo (90). a) Certamente, nell’ambito di tali norme incriminatrici, la più importante è quella prevista dall’art. 450-1, concernente la ‘‘partecipazione ad un’associazione di malfattori’’. Si tratta peraltro di una fattispecie già presente nel vecchio codice penale, che aveva conosciuto nel corso del tempo tutta una serie di significative riforme dirette a un progressivo ampliamento del suo ambito applicativo, controbilanciato da una significativa attenuazione della risposta sanzionatoria inizialmente prevista (91). E invero, se nella redazione originaria del codice penale del 1810 gli articoli 265 e 266 richiedevano l’esistenza di un gruppo gerarchicizzato, connotato da una stretta relazione tra i suoi appartenenti e dedito alla preparazione di una pluralità di crimini (dunque non di semplici delitti) contro la persona o il patrimonio, già con una riforma della fine del secolo scorso (92) le condizioni poste per la sussistenza del reato in questione venivano vistosamente attenuate. In particolare, con lo specifico scopo di colpire gli attentati anarchici di fine ’800 (per loro natura non supportati da uno stabile contesto di organizzazione gerarchicizzata), veniva richiesta ai fini dell’applicabilità della normativa penale in materia la mera sussistenza di un’associazione o di un’intesa a carattere non duraturo finalizzata alla preparazione o alla commissione dei suddetti crimini (93). Successivamente, in forza di una ulteriore e articolata riforma delle norme in tema di association de malfaiteurs (94), cadeva nel 1981 il requisito costituito dalla necessaria ‘‘pluralità’’ dei crimini progettati e in corso di preparazione. Ormai, dunque, per far scattare il delitto di partecipazione ad un’associazione di malfattori risultava sufficiente la progettazione anche di uno solo dei suddetti crimini (95), purché materialmente estrinsecatasi in (90) Cfr., sul punto, l’art. 121-5 del nuovo codice penale e l’art. 2 del vecchio codice penale. (91) Mentre infatti sino al 1981 la partecipazione all’associazione era punita con la reclusione criminale da 10 a 20 anni, la legge 81-82 del 1981, nel modificare gli artt. 265 ss. c.p., prevedeva in tal caso la detenzione correzionale da 5 a 10 anni; detenzione che risultava ulteriormente ridotta (da 1 a 5 anni) in caso di associazione finalizzata alla realizzazione non già di uno o più crimini contro la persona o i beni, ma di uno o più dei delitti indicati dall’art. 266. (92) L. 18 dicembre 1893. (93) In argomento cfr., diffusamente, DANIAULT, L’association de malfaiteurs, in Juris-classeur périodique, 1952, I, p. 1062 ss.; MERLE, VITU, Traité de droit criminel. Droit pénal spécial, vol. I, Paris, 1982, p. 178 ss. (94) Riforma attuata dalla fondamentale l. 81-82 del 2 febbraio 1981. (95) Sulle ragioni dell’innovazione legislativa consistente nel riferimento alla progettazione anche di un solo crimine cfr., diffusamente, RASSAT, le nouveau régime des infrac-
— 1003 — forme di attività preparatoria. Infine, sempre a partire dal 1981 (96), veniva meno anche il requisito costituito dalla natura necessariamente criminale dei reati-scopo, risultando così punibile anche la partecipazione a un’associazione volta a realizzare uno o più delitti tra quelli tassativamente previsti dal rinnovato art. 266. Orbene, proseguendo sulla via dell’ampliamento dell’ambito applicativo del reato in esame, il nuovo codice penale ha ulteriormente modificato i profili della ‘‘associazione di malfattori’’, definendo come tale ‘‘ogni gruppo formato od ogni intesa stabilita per la preparazione, caratterizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più crimini o di uno o più delitti puniti con dieci anni di detenzione correzionale’’ (art. 450-1, comma 1). Ormai dunque ai sensi dell’art. 450-1 comma 2 viene punita (97) — sempreché beninteso sia stato compiuto un qualche atto preparatorio dei reati-scopo (98) — la partecipazione a ogni associazione finalizzata alla realizzazione di qualsivoglia crimine, nonché di tutti i delitti assoggettati, in base alla nuova scala di pene fissata all’art. 131-4, al primo dei sette gradi di detenzione correzionale previsti da tale articolo (99). Al riguardo, va sottolineato che il legislatore francese non ha certo lesinato nel fare ricorso, all’interno della parte speciale del nuovo codice, alla cosiddetta ‘‘detenzione correzionale di primo grado’’, ritenendola ‘‘sovente necessaria a garantire l’efficacia della repressione’’ (100). Detto questo, è facile comprendere come il complessivo catalogo dei reati la cui preparazione possa far scattare il delitto di partecipazione a un’associazione di malfattori sia divenuto davvero assai esteso: certamente, molto più esteso di quanto non lo fosse sotto la vigenza del vecchio codice, anche se pur sempre meno esteso del catalogo di reati-scopo atti a supportare, in Italia, il delitto di associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p. Si può quindi concludere questo breve excursus sull’evoluzione della fattispecie associativa trasfusa nell’art. 450-1 del nuovo codice penale francese affermando che essa, nella sua attuale formulazione, sembra indubbiamente destinata ad un impiego alquanto frequente. tions pénales dans la loi ‘‘Sécurité et liberté’’, in Rev. intern. crim. pol. techn.,1981, n. 1, p. 10 ss. (96) Più precisamente, a seguito delle modifiche dell’art. 266 effettuate in prima battuta dalla l. n. 81-82 del 1981 e in seconda battuta - dopo la momentanea abrogazione di tale articolo ad opera della l. 83-466 del 10 giugno 1983 - dalla l. 86-1019 del 7 settembre 1986. (97) Con la detenzione correzionale fino a dieci anni e con l’ammenda fino a 1.000.000 di franchi. (98) In prospettiva comparatistica, la richiesta sussistenza di un’attività preparatoria dei reati-scopo ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 450-1 risulta pienamente in linea con la concezione in tema di reati associativi fatta propria da quella significativa parte della dottrina tedesca volta a configurare l’associazione criminale come un insieme di comportamenti prodromici alla realizzazione dei relativi reati-fine. Cfr., in particolare, RUDOLPHI, Verteidigerhandeln als Unterstutzung einer kriminellen oder terroristischen Vereinigung i.S.der §§129 und 129a StGBI, in Bruns FS, Köln-Berlin-Bonn-München, 1978, p. 317. In argomento cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, DE FRANCESCO, Gli artt. 416, 416 bis, 416 ter, 417, 418 c. p., in Mafia e criminalità organizzata, vol. I, Torino, 1995, p. 17 ss. (99) Ai sensi dell’art. 131-4 ‘‘la scala delle pene di detenzione correzionale è la seguente: 1o fino ad un massimo di dieci anni; 2o fino ad un massimo di sette anni; 3o fino ad un massimo di cinque anni; 4o fino ad un massimo di tre anni; 5o fino ad un massimo di due anni; 6o fino ad un massimo di un anno; 7o fino ad un massimo di sei mesi’’. (100) Cfr. PRADEL, Le nouveau code pénal (Partie générale), cit., p. 133, il quale elenca tutti i delitti previsti e puniti in sede codicistica con la detenzione correzionale fino a dieci anni.
— 1004 — Infatti, come già ricordato, la fattispecie in questione può essere utilizzata per colpire un gruppo anche di due sole persone unite da una mera ‘‘intesa’’ (101) stabilita in vista della preparazione, materialmente estrinsecatasi, persino di un unico reato (crimine o delitto), purché di notevole gravità. A ciò aggiungasi che la norma in esame non richiede la sussistenza di un preciso programma in merito allo svolgimento del reato/reati-scopo (102), bastando appunto una generica attività prodromica alla realizzazione del suddetto reato/i (103) (si pensi, ad esempio, all’acquisto di esplosivo (104) o anche, semplicemente, all’uso di una macchina per evidenti finalità criminali, testimoniate dagli oggetti in essa rinvenuti) (105). b) Al di là dell’art. 450-1 in tema di partecipazione ad un’associazione di malfattori, il nuovo codice penale francese prevede, comunque, ulteriori fattispecie espressamente dirette a colpire talune specifiche forme di criminalità organizzata, indipendentemente dalla commissione (o dal tentativo) di uno o più reati-scopo. Al riguardo, merita innanzitutto di essere ricordato l’art. 212-3 comma 1, in base al quale ‘‘è punita con la reclusione criminale a vita la partecipazione a un gruppo creato o a un’intesa stabilita per la preparazione, caratterizzata da uno o più fatti materiali, di uno dei crimini di cui agli articoli 211-1, 212-1 e 212-2’’. Si tratta, all’evidenza, di una norma speciale rispetto all’art. 450-1 (106), destinata a porre in essere una tutela anticipata rispetto a quelle che sono state giustamente definite ‘‘le forme più odiose della barbarie’’ (107), e dunque volta a consentire la irrogazione di una pena particolarmente severa (108) nel caso in cui i partecipanti all’associazione mirino a porre in essere uno o più crimini contro l’umanità (109). In forza di tale fattispecie — che all’interno del panorama normativo francese costituisce un’assoluta novità — la mera partecipazione (posta in essere nell’ambito di un gruppo o di un’intesa) ad atti ‘‘materiali’’ preparatori di uno o più crimini contro l’umanità giustifica (101) Sottolineano il carattere puramente intellettuale della ‘‘intesa’’ di cui all’art. 450-1 comma 1 PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pénal spécial, cit., p. 774, n. 1135. Viceversa, come noto, il reato di associazione a delinquere di cui all’art. 416 del codice penale italiano richiede qualcosa in più di un semplice ‘‘accordo’’: richiede cioè l’esistenza di un’associazione contraddistinta da un minimo di organizzazione a carattere stabile. Cfr., anche per gli opportuni riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, FORTI, in Commentario breve al codice penale, a cura di A. Crespi, F. Stella e G. Zuccalà, Padova, 1999, sub art. 416, p. 1049 ss.; GARGANI, in Le fonti del diritto italiano - Codice penale, a cura di T. Padovani, Milano, 1997, sub art. 416, p. 1567; PISA, in Commentario breve al codice penale. Complemento giurisprudenziale, a cura di A. Crespi, F. Stella e G. Zuccalà, Padova, 1999, sub art. 416, p. 1257 ss. (102) Cfr., sia pure nella giurisprudenza relativa alla normativa in materia di association de malfaiteurs prevista dal vecchio codice penale, Cass. crim., 7 dicembre 1966, in Bull. crim. n. 281; Cass. crim., 7 febbraio 1973, in Bull. crim., n. 67. (103) In merito ai profili assunti dal reato in esame nel nuovo codice penale francese cfr., in generale e per tutti, CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé France, cit., p. 347 ss; CULIOLI, Association de malfaiteurs, in Répertoire pénal Dalloz, Paris, 1995; VITU, in Jurisclasseur pénal, Nouveau Code pénal, sub art. 450-1 a 3, 1995; nonché, nella letteratura italiana, ALEO, Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose associative, Milano, 1999, p. 135 ss. (104) Cass. crim., 15 dicembre 1993, in Droit pénal, 1994, comm. 131. (105) Cass. crim., 6 settembre 1990, in Droit pénal, 1991, comm. 3 (106) Per una comparazione tra il reato in esame e gli ulteriori reati associativi previsti agli artt. 450-1 e 412-2 (in relazione al quale cfr., infra, sub lett. c) cfr., in particolare, FRANCILLON, Crimes de guerre, contre l’humanité, cit., n. 81 e n. 86. (107) VAUZELLE, in Journal Officiel, Sénat, luglio 1992, p. 2458. (108) Va sottolineato che, ai sensi dell’art. 212-3 comma 2, ‘‘al crimine previsto dal presente articolo sono applicabili i primi due commi dell’articolo 132-23 relativo al periodo di sicurezza’’. (109) Cfr. PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pénal spécial, cit., p. 28.
— 1005 — l’irrogazione di una pena massima (la reclusione criminale a vita) analoga a quella applicabile a quanti abbiano concretamente posto in essere taluno dei crimini in questione (110). c) Una ulteriore fattispecie diretta a colpire una particolare forma di associazione a delinquere è quella in tema di ‘‘complotto’’ prevista all’art. 412-2. Essa, invero, lungi dal dare vita ad un delitto del tutto nuovo, sembra costituire un efficace momento di rielaborazione e sintetizzazione delle norme, sempre in tema di complotto, previste nel precedente codice penale agli artt. 87 e 94; norme nelle quali venivano definite, sebbene in modo alquanto approssimativo, talune specifiche forme di cospirazione destinate ad essere assoggettate a risposte sanzionatorie diversificate a seconda del tipo di cospirazione posta in essere e della sussistenza o meno di atti prodromici alla commissione dei relativi reati-scopo. Nella configurazione assunta nel nuovo codice penale, costituisce un complotto punibile ai sensi dell’art. 412-2 con la detenzione correzionale fino a dieci anni e con l’ammenda fino a 1.000.000 di franchi ‘‘la risoluzione di commettere un attentato adottata da più persone, se tale risoluzione è concretizzata in uno o più atti materiali’’. Il terzo comma di questo stesso articolo precisa inoltre che le pene massime in questione sono raddoppiate ove il suddetto reato sia ‘‘commesso da una persona depositaria dell’autorità pubblica’’. In sostanza, quindi, dalla lettura combinata dell’art. 412-1 in tema di attentato e dell’appena menzionato art. 412-2, risulta evidente che il reato di complotto presuppone un accordo fra due o più soggetti in vista della realizzazione di uno o più atti di violenza tali da porre in pericolo le istituzioni nazionali o da ledere l’integrità del territorio nazionale (111). d) In chiusura di questo elenco riepilogativo dei reati associativi previsti dal nuovo codice penale francese, merita di essere ricordato il delitto di partecipazione a un ‘‘gruppo di combattimento’’ (art. 431-14), vale a dire a un gruppo di persone che, come specificato all’art. 431-13, ‘‘detenga o abbia accesso ad armi, sia dotato di un’organizzazione gerarchica e sia suscettibile di turbare l’ordine pubblico’’. Anche la fattispecie in questione (la quale, sia detto incidentalmente, da un lato prescinde dalla realizzazione di quegli atti materiali prodromici richiesti viceversa dalle fattispecie associative sinora prese in esame nel presente paragrafo, dall’altro lato torna a postulare l’esistenza di quel ‘‘gruppo gerarchicizzato’’ originariamente richiesto nel vecchio codice penale francese per la sussistenza del reato di ‘‘associazione di malfattori’’) (112) costituisce indubbiamente un novum rispetto al panorama normativo francese. Come sottolineato dalla dottrina transalpina (113), detta fattispecie mira a prevenire e punire (114) un fenomeno tristemente noto nei paesi occidentali, oggi purtroppo in via di vistosa ripresa. Si allude al fenomeno delle cosiddette ‘‘formazioni paramilitari’’, la cui ideologia totalitaria e il più delle volte razzista sembra, per contrappasso, trovare motivi di rafforzamento nella progressiva affermazione della società multietnica. 7.
Brevi osservazioni sull’incremento delle norme in materia di ‘‘criminalità collettiva’’ nel nuovo codice penale francese.
L’analisi delle norme previste nel nuovo codice penale per colpire la criminalità di gruppo, ovvero per reprimere gli illeciti realizzati dalle organizzazioni criminali, ovvero ancora per non lasciare impunite le attività prodromiche espressive dell’esistenza di gruppi o (110) Cfr. MASSÉ, Les crimes contre l’humanité dans le nouveau code pénal français, cit., p. 378. (111) In armonia con una risalente giurisprudenza, la dottrina ha affermato che per la sussistenza del reato di complotto è sufficiente l’imputabilità anche di uno solo dei compartecipi. MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 804. (112) Cfr., supra, sub. lett. a). (113) GIUDICELLI-DELAGE, Les crimes et délits contre la nation, l’Etat et la paix publique, cit., p. 503. (114) Con la detenzione correzionale fino a tre anni e con l’ammenda fino a 300.000 franchi.
— 1006 — intese criminali, evidenzia la tendenza del codificatore francese a isolare e porre in risalto le forme di delinquenza a carattere ‘‘collettivo’’, dettando per esse una apposita, articolata disciplina punitiva. Si tratta, peraltro, di una tendenza in qualche misura frenata da considerazioni di impronta legalista. Così, ad esempio, in nome del principio di determinatezza non sono stati approvati dal Parlamento francese numerosi emendamenti al codice pensati per sanzionare l’appartenenza ad una qualsivoglia organizzazione criminale (115) e per colpire taluni comportamenti di difficile definizione giuridica, ancorché sintomatici di una realtà delinquenziale a carattere ‘‘organico’’. In particolare, è stata respinta la richiesta di introdurre un articolo 450-4 volto a definire l’organizzazione criminale attraverso una articolata (ma pur sempre alquanto vaga) elencazione dei suoi metodi e dei suoi scopi (116). Analogamente, è stata rigettata la proposta di dare vita a talune norme onnicomprensive (artt. 451-1 a 451-4), le quali avrebbero dovuto specificamente incriminare sia la mera costituzione di una banda organizzata sia la massima parte dei fatti (traffico di influenza, sviamento delle funzioni elettive, ecc. ...) costituenti espressioni tipiche della criminalità associativa (117). Infine, in Francia è stata sino ad oggi rifiutata l’idea di varare una fattispecie volta a colpire le associazioni criminali di tipo mafioso (118), in ragione sia della scarsa attitudine di quest’ultima a venire adeguatamente tipizzata, sia della ritenuta assenza di una autoctona criminalità mafiosa (119). Resta comunque il fatto che, come si avrà modo di rilevare nel prosieguo della trattazione, le risposte offerte dal codificatore francese in tema di ‘‘criminalità collettiva’’ da un lato appaiono ispirate a un indiscusso rigore punitivo, dall’altro lato finiscono talora col confliggere con gli stessi principi-cardine del sistema penale. 8.
La disciplina punitiva dettata dal nuovo codice in tema di criminalità di gruppo e di criminalità organizzata.
Passando ora all’esame della disciplina sanzionatoria prevista dal nuovo codice francese in materia di ‘‘criminalità collettiva’’, occorre innanzitutto rilevare l’estrema articolazione di tale disciplina. Ciò appare dovuto, essenzialmente, a due ordini di fattori: l’evidente eterogeneità dei fenomeni rientranti nel vastissimo concetto di ‘‘criminalità collettiva’’ (120); la mancata predisposizione, in sede codicistica, di un sistema di pene organico e coerente, espressamente pensato per colpire gli episodi di criminalità a carattere associativo, ovvero le stesse associazioni criminali tout-court (121). Eppure, al di là del fatto che le risposte sanzionatorie alle manifestazioni di delinquenza (115) In merito alle resistenze riscontrabili in Francia rispetto all’eventualità di dare vita ad una definizione generale di ‘‘gruppo criminale permanente’’, disancorata dalle specifiche attività illegali dei suoi membri cfr., da ultimo, QUILLE, Le crime organisé: du mithe à la réalité, in Rev. pénit. dr. pén., 1999, p. 40. (116) Cfr. emendamento LARCHER, in Journal Officiel, Sénat, 18 ottobre 1995, p. 1902. In merito ai vizi di determinatezza rinvenibili in tale emendamento cfr. GIRAULT, Le droit pénal à l’épreuve de l’organisation criminelle, cit., p. 719. (117) Cfr. gli emendamenti DUPUY e LELLOUCHE, in Journal Officiel, Ass. Nat., 13 febbraio 1996, p. 820. (118) Cfr., al riguardo, l’intervento di MAZEAUD, in Journal Officiel, Ass. Nat., 14 febbraio 1996, p. 879. (119) Sul punto cfr., emblematicamente, QUILLE, Le crime organisé: du mithe à la réalité, cit., p. 40-41. (120) Fenomeni concernenti, come si è visto ai parr. 3 e seguenti, sia le diverse forme di criminalità ‘‘di gruppo’’ sia gli illeciti commessi dalle organizzazioni criminali, sia financo talune manifestazioni di criminalità organizzata non estrinsecantesi nei relativi reatiscopo. (121) In questo senso cfr., in particolare, MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 805.
— 1007 — collettiva risultano polverizzate in singole norme di parte speciale non sempre espressive di scelte razionali, sembra possibile individuare in ambito codicistico due grandi linee di tendenza di segno contrapposto, entro le quali può essere ricondotta la massima parte delle opzioni preventivo-punitive operate in relazione alle suddette forme di ‘‘criminalità collettiva’’. Tali linee di tendenza concernono, rispettivamente, l’inasprimento del trattamento sanzionatorio e l’impulso al pentimento attraverso forti sconti di pena. La prima linea di tendenza, concernente come detto l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i reati di gruppo o a carattere associativo, appare evidente a livello sia di pene principali, sia di pene complementari, sia di sanzioni applicabili alle persone giuridiche, sia financo di misure rieducative e clemenziali (122). a) Per quanto concerne in particolare le pene principali, va ancora una volta rimarcato il ruolo decisivo giocato dalla circostanza di ‘‘riunione’’ e soprattutto dalla circostanza di ‘‘banda organizzata’’ nell’innalzamento delle pene detentive e pecuniarie; così come va rilevata l’estrema severità che connota la disciplina sanzionatoria tanto dei reati-scopo realizzati dalle associazioni criminali (si pensi, ad esempio, ai reati di terrorismo e di traffico ‘‘organizzato’’ di stupefacenti) quanto degli stessi reati volti a colpire i gruppi criminali in quanto tali. Ora, se il vistoso innalzamento dei limiti massimi delle pene pecuniarie applicabili alle persone fisiche può essere ragionevolmente giustificato alla luce dell’esigenza primaria di intaccare la capacità economica delle organizzazioni criminali (123), e dunque di elidere la loro pericolosità (124), un pò meno plausibili si presentano — quantomeno in taluni casi — i macroscopici incrementi previsti in relazione alle pene detentive massime. Al riguardo, si potrebbe essere indotti a pensare che la funzione generalpreventiva perseguita dal codice attraverso la ‘‘messa in vetrina’’ di pene talora lunghissime o addirittura perpetue potrebbe porsi in forte tensione con lo stesso principio di proporzione della sanzione, specie ove le suddette pene venissero davvero applicate nel massimo consentito (125). Si avrà modo di tornare su questo punto nel corso del paragrafo 10. b) Per quanto attiene poi alle pene complementari, occorre rilevare l’ampio ricorso ad esse nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata. Al riguardo, peraltro, talune precisazioni si impongono. In particolare, va ricordato come, ai sensi dell’art. 131-10, le persone fisiche che abbiano commesso crimini o delitti possono essere punite — oltre che con le relative pene principali — con una o più pene complementari (126), ma solo ‘‘quando la legge lo prevede’’. Le pene complementari (127) costituiscono quindi una tipologia di sanzioni non riconducibili automaticamente né all’insieme dei crimini o dei delitti, né a quelle categorie generali di reati che connotano i diversi (122) Misure le quali , come si vedrà tra poco, vengono concesse con minore generosità in relazione agli illeciti posti in essere dalla criminalità organizzata. (123) E, invero, in Francia ma non solo in Francia, risulta non di rado evidente come le pene pecuniarie, in ragione del loro ammontare, siano di fatto pensate con riferimento non già alle persone fisiche cui vengono irrogate, bensì alle entità (siano esse o no persone giuridiche in senso proprio) che si collocano sullo sfondo dei comportamenti sanzionati. (124) Sul punto cfr., tra gli altri, BERNASCONI, Nuovi strumenti giudiziari contro la criminalità economica internazionale, Napoli, 1995, p. 38 ss.; FALCONE, La criminalité organisée: un problème mondial, in Rev. int. crim. pol. techn., 1992, p. 398; SAVONA, La réglementation du marché de la criminalité, ivi, p. 455 ss. (125) Emblematico il caso del furto in banda organizzata, cui come visto può conseguire, in taluni casi estremi, una reclusione criminale di trent’anni (cfr., supra, sub par. 4). (126) Pene queste che comportano, sempre ai sensi dell’art. 131-10, ‘‘l’interdizione, la decadenza, l’incapacità o la limitazione di un diritto, l’ingiunzione di sottoporsi a cure o un obbligo di fare, l’immobilizzo o la confisca di una cosa, la chiusura di uno stabilimento o l’affissione della sentenza o la diffusione di quest’ultima sia a mezzo stampa sia mediante un qualsiasi altro mezzo di comunicazione audiovisiva’’. (127) Le quali limitatamente ai delitti possono essere irrogate, ex art. 131-11, anche a titolo di pene principali e in vece di queste ultime.
— 1008 — libri del codice (128). Solo attraverso una lettura delle singole fattispecie di parte speciale diviene pertanto possibile conoscere quali tra le suddette pene risultano di volta in volta applicabili (129). Tutto ciò premesso, merita di essere sottolineato ancora una volta il ruolo giocato dalle pene in questione nell’ambito della complessiva disciplina sanzionatoria in materia di criminalità di gruppo e organizzata. Emblematico appare, in questo senso, il destino della confisca generale, concernente tutti i (o parte dei) beni del condannato. Questa draconiana pena complementare, infatti, viene ormai comminata solo ed esclusivamente con riferimento a due ben definite tipologie di crimini (i crimini contro l’umanità e le ipotesi più gravi di traffico di stupefacenti) a carattere necessariamente o prevalentemente associativo (130). Di regola tuttavia la confisca, lungi dall’assumere carattere ‘‘generale’’, si limita a investire le cose che sono servite o che erano destinate a commettere il reato, oppure che ne costituivano il prodotto (c.d. confisca speciale). Orbene, anche in questa sua forma meno grave la confisca gioca un ruolo significativo nell’ambito dei reati associativi. In effetti, coerentemente con l’attuale tendenza del movimento internazionale di riforma penale a valorizzare la confisca quale strumento preventivo-repressivo rispetto alla delinquenza organizzata (131), il nuovo codice penale francese utilizza di frequente tale pena complementare nel settore in esame (132), considerandola evidentemente uno strumento privilegiato di disincentivazione ‘‘economica’’ dei reati collettivi (133). A parte ciò, un attento esame delle fattispecie associative e dei relativi reati-scopo rivela come in relazione ad essi il legislatore abbia fatto un generoso ricorso a pene di tipo complementare. Così, ad esempio, in materia di terrorismo viene prevista una vasta gamma di pene complementari, estrinsecantesi nel divieto di soggiorno e, soprattutto, in penetranti forme di interdizione sia dai diritti politici, civili e familiari, sia dall’esercizio di una pubblica funzione ovvero dell’attività professionale o sociale (art. 422-3). A tali pene può poi aggiungersi, nei confronti di tutti gli stranieri, l’interdizione temporanea o perpetua dal territorio francese (art. 422-4). Ancora peggiore risulta, per certi aspetti, il complessivo trattamento sanzionatorio dettato in relazione al reato di partecipazione ad un’associazione di malfattori. In questo caso, infatti, oltre alle suddette pene complementari (134) potranno essere inflitte anche ‘‘le altre pene complementari previste per i crimini e per i delitti che il gruppo o l’intesa aveva lo scopo di porre in essere’’ (art. 450-3, comma 2). Cosicché, di fatto, in capo ai membri dell’associazione potrebbe confluire un numero davvero assai elevato di sanzioni deputate a integrare le pene principali (135). c) Anche le pene applicabili alle persone giuridiche concorrono significativamente ad arricchire il campionario sanzionatorio dispiegato in materia di criminalità organizzata. (128) Reati contro le persone; reati contro i beni; reati contro la nazione, lo Stato e la pace pubblica. (129) Cfr., ad esempio, DESPORTES, LE GUNEHEC, Présentation des dispositions de la loi n. 92-1336 du 16 décembre 1992, in Juris-classeur périodique, 1993, p. 418. (130) Cfr., supra, sub par. 5, nt. 57. (131) Cfr., da ultimo e per tutti, VAN DEN WYNGAERT, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - Rapport général in Rev. int. dr. pén., 1999, p. 120. (132) Cfr., in particolare, BOIZARD, Amende, confiscation, affichage ou communication de la décision, in La responsabilité pénale des personnes morales, cit., p. 339. Per una attenta analisi della ‘‘nuova’’ disciplina della confisca speciale nel sistema francese cfr. MATSOPOULOU, La confiscation spéciale dans le nouveau code pénal, in Rev. sc. crim., 1995, p. 301 ss. (133) Cfr., ad esempio, l’art. 414-5, n. 3. (134) Fatta eccezione per la pena complementare dell’interdizione dal territorio francese, che non risulta prevista. (135) Ma anche, in taluni casi, a sostituire queste ultime. Sul punto cfr., supra, sub nt. 127.
— 1009 — Al riguardo, occorre tuttavia ricordare che le pene in questione (136) concernono non già ‘‘qualsivoglia gruppo’’ (137), ma solo gli enti forniti di personalità giuridica, ad esclusione dello Stato e, nella massima parte dei casi, degli altri enti territoriali (138). Inoltre tali sanzioni possono essere irrogate non già in relazione a qualsivoglia reato, ma soltanto in relazione ai reati per i quali sia esplicitamente ammessa la responsabilità penale delle persone giuridiche (139). Resta comunque il fatto che, entro questi limiti, la gamma di sanzioni penali applicabili alle ‘‘persone morali’’ si rivela quanto mai ampia. In particolare, oltre all’ammenda (il cui ammontare massimo risulta, ai sensi dell’art. 131-38, ‘‘pari al quintuplo di quello previsto per le persone fisiche dalla legge che punisce il reato’’) (140), l’art. 131-39 dispone che, quando la legge lo prevede, in caso di crimine o delitto la persona morale può essere assoggettata a una variegata tipologia di sanzioni dotate di un coefficiente di afflittività anche assai elevato (141). (136) Le quali non presentano più al loro interno la distinzione tra pene criminali e pene correzionali, in quanto nel sistema francese tale distinzione si giustifica solo in relazione alle sanzioni di tipo detentivo. Cfr., per tutti, PRADEL, Le nouveau code pénal (Partie générale), cit., p. 162, nt. 1. (137) Così come stabiliva invece il progetto di codice penale francese del 1978. In base all’art. 37 di tale progetto, infatti, la responsabilità penale delle persone giuridiche sarebbe stata riconosciuta ‘‘ad ogni gruppo dedito ad attività di natura commerciale, industriale o finanziaria’’. Nel fare ciò, l’Avant projet définitif del 1978 si ispirava alla risalente giurisprudenza della Cassazione civile, per la quale la personalità giuridica, lungi dall’essere circoscrivibile per legge, appartiene in linea di principio ad ogni gruppo provvisto di forme di espressione collettiva. Sul punto cfr., diffusamente, Avant projet définitif de code pénal, Livre 1, Dispositions génerales,, cit. p. 41; GIUDICELLI-DELAGE, Droit pénal des affaires, 1996, p. 67 ss. Per ulteriori approfondimenti sulle nozioni di groupements e di personnes morales e sulla loro diversa portata cfr., limitatamente alla letteratura italiana, DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, cit., p. 221, e bibliografia ivi riportata; GUERRINI, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 694. (138) Cfr., amplius, GUYON, Quelles sont les personnes morales de droit privé susceptibles d’encourir une responsabilité pénale? in La responsabilité pénale des personnes morales, Revue de sociétés, Extrait du n. 2-1993, p. 235 ss.; PICARD, La responsabilité pénale des personnes morales de droit public: fondements et champ d’application, ivi, p. 261 ss. Cfr., altresì, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 474 ss.; PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 595; nella letteratura italiana DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, cit., p. 223 ss., con ulteriori riferimenti bibliografici. (139) Per un puntuale esame di tali reati cfr. BOULOC, Le domaine de la responsabilité pénale des personnes morales, in La responsabilité pénale des personnes morales, cit., p. 291 ss. (140) In argomento cfr., diffusamente, BOIZARD, Amende, confiscation, affichage ou communication de la décision, cit., p. 331 ss.; HIDALGO, SALOMON, La responsabilité pénale des personnes morales, in Entreprise et responsabilité pénale, a cura di J.-C. Soyer, Paris, 1994, p. 60 ss. In merito agli effetti devastanti eventualmente derivanti dall’irrogazione di una siffatta pena pecuniaria alla persona giuridica cfr., ad esempio, VÉRON, L’évolution du droit pénal français ou punir autrement, in Problèmes actuels de science criminelle, vol. IX, Aix-Marseille, 1996, p. 63. (141) Più precisamente, l’art. 131-39 individua, quali sanzioni applicabili alla persona giuridica, lo scioglimento, l’interdizione dall’esercizio diretto o indiretto di una o più attività professionali o sociali; la sottoposizione a sorveglianza giudiziaria per un periodo non superiore a cinque anni, la chiusura perpetua o temporanea degli stabilimenti o di uno o più stabilimenti dell’impresa utilizzati per commettere il reato, l’esclusione perpetua o temporanea dagli appalti pubblici, l’interdizione perpetua o temporanea dal ricorso al pubblico risparmio, l’interdizione perpetua o temporanea di emettere assegni o di utilizzare carte di credito, la confisca della cosa che è servita o che è stata destinata a commettere il reato o che ne è il prodotto, l’affissione o la pubblicazione della sentenza di condanna.
— 1010 — Tra le suddette sanzioni, in particolare, una posizione di spicco riveste lo scioglimento della persona giuridica, applicabile ex art. 131-39 a quegli enti espressamente finalizzati ad attività delittuose, o comunque postisi al servizio della criminalità organizzata, e pertanto sviati dal loro oggetto naturale (142). Così, risultano esposte alla pena dello scioglimento le persone giuridiche macchiatesi di uno o più dei reati che contemplano la circostanza aggravante di ‘‘banda organizzata’’ e che al contempo ammettono espressamente la responsabilità penale di dette persone (143). Analogamente, la pena in questione risulterà applicabile alle persone giuridiche coinvolte in fatti di terrorismo (art. 422-5), ovvero condannate in base ad una delle già ricordate fattispecie penali dirette a colpire in via anticipata talune forme di criminalità associativa, vale a dire i crimini contro l’umanità (art. 213-3), il complotto (art. 414-7) e il gruppo di combattimento (art. 431-20). Da ultimo, la l. 98-468 del 17 giugno 1998, colmando un inspiegabile vuoto normativo (144), ha ammesso la responsabilità penale delle persone giuridiche anche in relazione al reato di associazione a delinquere (art. 450-4); con la conseguenza che lo scioglimento — così come, del resto, le altre pene previste dall’art. 131-39 — potrà interessare anche le persone morali finalizzate alla preparazione di qualsivoglia crimine (145), ovvero di uno o più delitti tra quelli puniti con la detenzione correzionale fino a dieci anni. d) Infine, con riferimento alle misure rieducative e clemenziali, occorre rilevare come la massima parte delle suddette misure, mentre da un lato vengono previste dal nuovo codice penale con notevole generosità rispetto ai condannati ‘‘comuni’’ dotati di una modesta capacità a delinquere, dall’altro lato vengono sovente escluse nei confronti dei soggetti dediti ad attività criminali a carattere associativo. Ciò è dovuto al fatto che, a seguito del progressivo incremento anche oltralpe di fenomeni criminali produttivi di un elevato allarme sociale, il nuovo codificatore ha deciso di non rinnegare le scelte selettive in tema di ‘‘certezza della pena’’ operate dalla legislazione francese dell’emergenza nel quindicennio precedente (l. 22 novembre 1978 (146), l. 2 febbraio 1981 (147), l. 9 settembre 1986 (148)), ed anzi di ribadirle con maggior vigore. In altre parole, il nuovo codificatore non solo ha confermato, ma addirittura ha rafforzato nei confronti della cosiddetta ‘‘grande delinquenza’’ certe opzioni a sfondo generalpreventivo-repressivo tendenzialmente confliggenti con le logiche trattamentali di matrice positivista-neodefensionista, cui egli è peraltro restato — in linea di principio — fedele. Opzioni consistenti, per l’appunto, nel precludere per un determinato periodo di tempo a taluni soggetti condannati a pene detentive di lunga durata la possibilità di beneficiare degli strumenti risocializzativi previsti in via generale dal nuovo codice. Questa selezione tra le manifestazioni criminali meritevoli o meno di accedere ai sud(142) Sul punto cfr., in particolare, LE CANNU, Dissolution, fermeture d’établissement et interdiction d’activité, in La responsabilité pénale des personnes morales, cit., p. 341 ss.; HIDALGO, SALOMON, La responsabilité pénale des personnes morales, cit. p. 64 ss. Cfr. altresì, tra gli altri, MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 807 ss.; VÉRON, L’évolution du droit pénal français ou punir autrement, cit, p. 63. (143) Cfr. gli artt. 222-42, 225-12, 312-15, 313-9, 321-12, 324-9, 442-14. In dottrina cfr., diffusamente, BOULOC, Le domaine de la responsabilité pénale des personnes morales, cit., p. 292 ss. (144) Cfr., al riguardo, i rilievi di MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 808. (145) Sui problematici nessi rinvenibili tra le manifestazioni criminali delle persone giuridiche e le manifestazioni di criminalità organizzata cfr. CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 343. (146) In merito a tale legge cfr., limitatamente alla letteratura italiana, BERNARDI, Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nella recente esperienza francese, in questa Rivisita, 1984, p. 269. (147) Cfr., supra, sub par. 3 , nt. 39. (148) In merito alla quale cfr. PRADEL, Vers un retour à une plus grande certitude de la peine avec les lois du 9 septembre 1986, in Recueil Dalloz, 1987, Chronique, p. 5 ss.
— 1011 — detti strumenti risocializzativi viene effettuata dall’art. 131-23, il quale rimodella e potenzia il cosiddetto ‘‘periodo di sicurezza’’, introdotto per la prima volta con la summenzionata l. 22 novembre 1978 in funzione di ‘‘irrigidimento’’ della pena e di mantenimento del suo ‘‘originario’’ coefficiente di afflittività (149). Infatti, come vedremo subito, è proprio in virtù dell’istituto del periodo di sicurezza nelle sue diverse configurazioni (periodo di sicurezza ‘‘obbligatorio’’ ovvero ‘‘facoltativo’’), che gli autori degli episodi di criminalità a carattere collettivo si trovano, in molti casi, discriminati o comunque svantaggiati rispetto agli autori ‘‘isolati’’ ammessi a beneficiare degli istituti specialpreventivi sopra ricordati. d1) Per quanto riguarda il periodo di sicurezza obbligatorio, esso è previsto all’art. 13223, commi 1 e 2. In particolare, in base al comma 1 di tale articolo, ‘‘in caso di condanna a una pena privativa della libertà personale non sospesa condizionalmente, di durata uguale o superiore a dieci anni, (...) il condannato non può beneficiare, durante il periodo di sicurezza, della sospensione o del frazionamento della pena, del collocamento all’esterno, dei permessi di uscita, della semilibertà e della liberazione condizionale’’. La stessa disposizione si cura tuttavia di precisare che le suddette preclusioni operano solo nel caso in cui la pena detentiva in questione sia stata irrogata per uno di quei reati rispetto ai quali sia espressamente sancita l’applicazione del periodo di sicurezza obbligatorio. Orbene, la lettura della parte speciale del codice rende evidente che, tra i reati per i quali è espressamente previsto in via obbligatoria il periodo di sicurezza figurano molti dei reati associativi ricordati nei paragrafi precedenti: dal traffico di stupefacenti al prossenetismo aggravato dalle circostanze di ‘‘riunione’’ e di ‘‘banda armata’’, dal furto aggravato dalla circostanza di ‘‘banda armata’’ all’estorsione aggravata dalla medesima circostanza (312-6), dagli atti di terrorismo ai crimini contro l’umanità. Per questi reati dunque, ai sensi dell’art. 132-23, comma 2, il regime ‘‘di sicurezza’’ opererà precludendo la possibilità di accedere ai benefici summenzionati per un periodo di tempo pari alla metà della pena irrogata (150). Tuttavia, previa speciale decisione del tribunale o della Corte d’Assise, questo periodo di tempo può essere elevato sino a due terzi della pena in questione (151), così come può anche essere significativamente diminuito (152). d2) Senonché, come si è prima detto, il ‘‘periodo di sicurezza’’ può essere oggetto anche di applicazione facoltativa. In base all’art. 132-23, comma 3, il ricorso in via facoltativa al periodo di sicurezza risulta possibile quando, in assenza di una esplicita disposizione che renda obbligatorio il ricorso a tale istituto, il giudice decida di irrogare una pena detentiva superiore a cinque anni non sospesa condizionalmente (153). Ora, tenuto conto del fatto che (149) In argomento cfr., in particolare, COUVRAT, De la période de sûreté à la peine incompressible, in Rev. sc. crim.,1994, p. 356 ss; SEUVIC, La période de sûreté, in Rev. pénit. dr. pén., 1996, p. 311 ss. (150) Ovvero, in caso di reclusione criminale a vita, per un periodo di tempo di diciotto anni. (151) Ovvero, in caso di reclusione criminale a vita, per un periodo di tempo sino a ventidue anni. In merito a talune particolari ipotesi di periodo di sicurezza obbligatorio assoggettate a limiti temporali diversi e ancora più elevati (sino alla cosiddetta pena detentiva perpetua incompressibile) cfr., diffusamente, COUVRAT, De la période de sûreté à la peine incompressible, cit., p. 356; DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 818 ss. Cfr. altresì, per tutti, CONTE, MAISTRE DU CHAMBON, Droit pénal général, cit., p. 300; PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 811. (152) Al riguardo, non si è mancato di rilevare come, in assenza di un limite minimo di durata espressamente previsto dal legislatore in relazione al periodo di sicurezza obbligatorio, al giudice francese venga in pratica consentito di vanificare in toto gli effetti di tale istituto. Sul punto cfr., in particolare, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 818. (153) Sempre in base all’art. 132-23, comma 3, la durata del periodo di sicurezza facoltativo, se da un lato risulta sfornita di qualsivoglia limite minimo, dall’altro lato non può superare i due terzi della pena inflitta, ovvero, se trattasi di una condanna alla reclusione cri-
— 1012 — le pene detentive massime previste per la maggior parte dei reati di gruppo o associativi non espressamente assoggettati al periodo di sicurezza obbligatorio sono pur sempre assai elevate, e che di fatto in relazione a tali reati i giudici fanno non di rado ricorso a pene detentive superiori a cinque anni, appare evidente il ruolo potenzialmente assolvibile dal regime di sicurezza facoltativo nei settori criminali qui considerati. 9.
L’impulso al ‘‘pentimento’’ in funzione di disaggregazione delle associazioni criminali. Gli attuali strumenti premiali di matrice codicistica.
Quanto alla seconda grande linea di tendenza, espressiva delle opzioni lato sensu sanzionatorie fatte proprie dal nuovo codice penale francese nell’ambito della lotta alla criminalità ‘‘collettiva’’, essa consiste — come si è detto — nell’impulso al c.d. ‘‘pentimento’’. Impulso perseguito — secondo schemi premiali ormai affermatisi in molti Stati ancorché non di rado soggetti a dubbi di opportunità se non addirittura di legittimità — attraverso l’esenzione dalla pena ovvero attraverso un forte sconto della stessa a favore di quanti confessino i reati progettati o commessi e rivelino il nome dei complici o degli altri membri dell’associazione criminale (154). Occorre tuttavia sottolineare come i suddetti dubbi di opportunità/legittimità — a più riprese fatti propri dalla dottrina italiana (155) — non siano certo stati ignorati nell’ambito del dibattito francese in argomento (156): tant’è che, nonostante i comprovati effetti di disgregazione delle associazioni criminali prodotti dai succitati meccanismi premiali, anche dopo il varo del nuovo codice il sistema penale transalpino non contempla forme generalizzate di induzione al pentimento, bensì singole specifiche ipotesi premiali espressamente previste dalla stesso codice. In altre parole, in modo tendenzialmente simmetrico rispetto a quanto accade in Italia, ‘‘il pentimento non è ancora un istituto di parte generale, utilizzabile rispetto ad ogni reato che necessiti di una previa organizzazione, ma è solo uno strumento di parte speciale, destinato ad essere applicato rispetto a ben determinate fattispecie’’ (157). Il nuovo codice penale francese si è pertanto limitato a moltiplicare i casi di pentimento costituenti excuse absolutoire ovvero excuse atténuante in precedenza contemplati dal sistema penale transalpino (158), prevedendo il ricorso a forme di collaborazione ad impulso ‘‘premiale’’ in relazione ai reati di cui agli artt. 222-34, 222-35, 222-36, 222-37, 222-38, 222-39, 222-39-1, 222-40, 411-2, 411-3, 411-4, 411-5, 411-6, 411-7, 411-8, 411-9, 412-1, 412-6, 412-2, 421-1, 421-2, 434-27, 434-29, 434-32, 434-33, 442-1, 442-2, 442-3, 442-4, 442-5, 442-6, 442-7, 450-1. Ora, è facile rilevare che, eccezion fatta per le norme in tema di evasione (artt. 434-27 ss.), le fattispecie qui elencate rinviano a cinque grandi tipologie di minale a vita, a ventidue anni. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, risulta oggi puramente teorica: infatti nel nuovo codice penale francese tutti i reati puniti con la reclusione criminale a vita prevedono espressamente il periodo di sicurezza obbligatorio. (154) Con grande realismo, la prevalente dottrina francese parla a questo proposito di ‘‘salario della denuncia o della delazione’’. Cfr., per tutti, BOULOC, Le problème des repentis. La tradition française relativement au statut des ‘‘repentis’’, in Rev. sc. crim., 1986, p. 779; CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 355. (155) Cfr., tra gli altri, FLORA, Il ravvedimento del concorrente, Padova, 1984, in particolare p. 163 ss.; INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., p. 131 ss.; MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, cit., p. 122 ss.; MUSCO, La premialità nel diritto penale, in La legislazione premiale, Milano, 1987, p. 121 ss.; PADOVANI, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di ravvedimento, in questa Rivista, 1981, p. 529 ss.; ID., Il traffico delle indulgenze. ‘‘Premio e corrispettivo’’ nella dinamica della punibilità, ivi, 1986, in particolare p. 420 ss. (156) Cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, BOULOC, Le problème des repentis. La tradition française relativement au statut des ‘‘repentis’’, cit., p. 782. (157) MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 808-809. (158) Per un dettagliato elenco di tali casi cfr. BOULOC, Le problème des repentis. La tradition française relativement au statut des ‘‘repentis’’, cit., p. 779.
— 1013 — reati a carattere prevalentemente o necessariamente associativo, vale a dire ai reati in tema di traffico di stupefacenti (artt. 222-34 a 222-40), ai crimini e delitti recanti offesa agli interessi fondamentali della nazione (artt. 411-2 a 412-2), agli atti di terrorismo (artt. 421-1 e 421-2), alle offese alla fede pubblica in tema di falso nummario (art. 442-2 a 442-7), e infine al delitto di partecipazione ad una associazione di malfattori (art. 450-1). In definitiva, quindi, solo in questi settori criminali — tutti disciplinati dal codice — è possibile riscontrare l’utilizzazione di misure premiali, le quali come già accennato consistono in una vera e propria esenzione dalla pena, ovvero in una mera (seppur cospicua) diminuzione dell’entità della stessa (159). a) Per quanto concerne l’esenzione dalla pena, il carattere eccezionale di tale misura giustifica il rigore dei presupposti legali cui essa risulta ancorata; presupposti i quali, tuttavia, differiscono a seconda che le fattispecie penali di riferimento siano finalizzate a colpire i reati posti in essere dall’associazione criminale (160), ovvero a colpire talune specifiche forme di organizzazione criminale. a1) In particolare, rispetto alla prima delle due categorie di fattispecie or ora ricordate — cui vanno ricondotte le norme incriminatrici in materia di tradimento, spionaggio e attentato (161), di terrorismo (162) e di falso nummario (163) — l’esenzione dalla pena viene concessa a quanti, avendo tentato di commettere uno dei suddetti reati, abbiano ‘‘avvisato l’autorità amministrativa o giudiziaria’’, permettendo ‘‘di evitare la realizzazione del reato e di identificare, all’occorrenza, gli altri colpevoli’’ (cfr. gli artt. 414-2, 422-1 e 442-9) (164). In tali ipotesi, quindi, il beneficio dell’esenzione dalla pena presuppone: α) il tentativo di un dato reato, la cui mancata perfezione non sia peraltro dovuta a forme di vera e propria desistenza volontaria (165), ma derivi dal fatto di aver avvertito le autorità competenti; β) se del caso, l’identificazione degli altri compartecipi quale ulteriore risultato dell’attività delatoria, così da minare alla radice l’organizzazione criminale nell’ambito della quale alcuni dei suoi membri abbiano tentato di realizzare un reato-scopo. a2) In relazione invece alla seconda delle due succitate categorie di fattispecie (quella cioè ricomprendente le norme volte a perseguire talune specifiche forme di associazione criminale) possono beneficiare dell’esenzione dalla pena i membri dell’associazione i quali abbiano denunciato alle autorità competenti l’associazione stessa e abbiano permesso l’identificazione degli altri compartecipi, sempreché la denuncia sia stata effettuata ‘‘prima dell’esercizio dell’azione penale’’ (cfr. gli artt. 414-3 e 450-2) (166). In relazione agli illeciti penali da ultimo ricordati (rientranti secondo la prevalente dot(159) In merito a tali misure premiali ed alla loro disciplina cfr., in generale e per tutti, PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 737 ss. (160) Ovvero posti in essere, in taluni casi, da un singolo soggetto. Si pensi, in particolare ma non solo, ai reati di falso nummario, non necessariamente realizzati in ‘‘banda organizzata’’ (161) Cfr. gli artt. 411-2, 411-3, 411-6, 411-9, 412-1. (162) Cfr. gli artt. 421-1 e 421-2. (163) Cfr. gli artt. 442-1, 442-2, 442-3, 442-4, 442-5, 442-6 e 442-7. (164) Cfr., altresì, l’art. 434-37 in tema di (tentata) evasione, in base al quale ‘‘La persona che ha tentato di commettere, come autore o complice, uno dei reati previsti dal presente paragrafo è esente dalla pena se, avendo avvisato l’autorità giudiziaria o l’amministrazione penitenziaria, ha permesso di evitare che l’evasione si realizzi’’. (165) Infatti, in base all’art. 121-5, il tentativo è punibile esclusivamente quando ‘‘è stato sospeso o è risultato privo di effetto solo in virtù di circostanza indipendenti dalla volontà dell’autore’’. La desistenza volontaria fa quindi venir meno ogni forma di responsabilità penale, laddove per contro il beneficio dell’esenzione presuppone la sussistenza di tale responsabilità. (166) In argomento cfr., in particolare, CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 350.
— 1014 — trina francese nel novero dei reati ostacolo) (167) viene pertanto concessa l’esenzione dalla pena anche in presenza di un reato associativo perfetto. Come intuibile, questa scelta è dovuta all’impossibilità di porre in essere i suddetti illeciti penali a titolo di tentativo, dato che — secondo quanto a suo tempo si è visto — essi si perfezionano già con la mera realizzazione di uno o più atti preparatori di un reato-scopo. In ogni caso, il requisito costituito dall’avvenuta denuncia in una fase temporale precedente all’azione penale tende a circoscrivere il beneficio in questione a comportamenti non solo processualmente utili, ma anche, almeno tendenzialmente, determinanti lo stesso avvio del processo penale. Alla luce di quanto sin qui visto, si può concludere affermando che il nuovo codice penale francese, pur avendo accordato uno spazio non marginale all’esenzione dalla pena in funzione di stimolo al pentimento, sembra non discostarsi troppo dalle indicazioni di recente espresse, al riguardo, dall’Associazione internazionale di diritto penale. Secondo quest’ultima, infatti, rispetto ai collaboratori di giustizia ‘‘l’impunità totale dovrebbe... essere limitata al reato di appartenenza a un’associazione criminale, e richiedere l’abbandono volontario della suddetta associazione prima che l’autore del delitto sia stato informato dell’imminenza o dell’esistenza di un’inchiesta penale’’ (168). b) Per quanto concerne invece la diminuzione dell’entità della pena, stabilita dal nuovo codice nella misura della metà di quella irrogata al colpevole (169), essa viene concessa quando uno o più reati siano già stati realizzati da tale soggetto, ma le relative condotte non si siano ancora esaurite ovvero non abbiano raggiunto la loro massima gravità (170). In questi casi, la diminuzione di pena accordata all’autore o al complice del reato/i in questione risulta ancorata a forme di ‘‘pentimento’’ estrinsecantisi in una attività di informazione che consenta di far cessare le condotte incriminate, di identificare all’occorrenza gli altri colpevoli e di evitare, se del caso, che dal reato/i consegua la morte o l’infermità permanente di chicchessia. Tale diminuzione di pena — prevista nei termini or ora ricordati dall’art. 222-43 in relazione ai reati in materia di stupefacenti (171), dall’art. 414-4 in relazione ad alcuni reati offensivi degli interessi fondamentali della nazione, e segnatamente al reato di movimento insurrezionale (172), dall’art. 422-2 in relazione agli atti di terrorismo (173), dall’art. 442-10 in relazione a taluni reati in tema di falso nummario (174) — risulta essa pure sottoposta, come si è visto, alla sussistenza di condizioni tassative e di indiscussa utilità preventivo-repressiva (175). Ancora una volta, pertanto, si registra una tendenziale consonanza con quanto richiesto dall’Associazione internazionale di diritto penale circa i limiti agli sconti di pena da applicarsi ai collaboratori di giustizia. Secondo tale associazione, infatti, non solo la (167) Cfr., per tutti, CEDRAS, ivi, p. 350; GIRAULT, Le droit pénal à l’épreuve de l’organisation criminelle, cit., p. 717; MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 809; GIUDICELLI-DELAGE, Les crimes et délits contre la nation, l’Etat et la paix publique, cit., p. 501. (168) Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé. Section I, Droit pénal général - Projet de résolution, in Rev. int. dr. pén., 1997, n. 3-4, p. 1035, n. 6. (169) In base all’art. 422-2, ‘‘Se la pena irrogata è la reclusione criminale a vita, essa è diminuita a venti anni di reclusione’’. (170) In tali ipotesi, la disciplina sanzionatoria francese tende quindi a dare risalto alla distinzione tra perfezionamento e consumazione del reato, così come intesa da una parte della dottrina italiana. Cfr., in particolare, MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992, p. 427; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 1998, p. 492 ss. (171) Artt. 222-34 a 222-40. (172) Artt. 411-4, 411-5, 411-7, 411-8, 412-6. (173) Artt. 421-1 e 421-2. (174) Artt. 442-1 a 442-4. (175) In argomento cfr., diffusamente, BOULOC, Le problème des repentis. La tradition française relativement au statut des ‘‘repentis’’, cit., p. 771 ss.
— 1015 — concessione del beneficio dell’esenzione dalla pena a detti soggetti dovrebbe essere sottoposta a rigorosi limiti legali, ma anche ‘‘una possibile attenuazione della sanzione dovrebbe essere regolamentata dalla legge e comunque non dovrebbe determinare una impunità de facto’’ (176). In proposito, si potrebbe addirittura essere indotti a ritenere sin troppo rigoroso il sistema premiale delineato dal codice francese. Tant’è che, nel permanere di orientamenti giurisprudenziali consolidati e assai esigenti nel valutare le condizioni d’applicazione delle riduzioni di pena ai collaboratori (177), il beneficio consistente nel diminuire la pena della metà ha trovato sinora una applicazione alquanto scarsa (178). Va tuttavia sottolineato che anche le forme di collaborazione carenti di qualcuno dei requisiti legali atti a far scattare l’esenzione dalla pena, o la sua diminuzione della metà, possono risultare tutt’altro che ininfluenti sull’entità della sanzione applicabile. Infatti, dato che l’abbandono nel nuovo codice penale dei limiti edittali minimi tende a lasciare al giudice francese un amplissimo potere discrezionale in sede di commisurazione della pena (179), quest’ultimo potrà sempre valutare adeguatamente e con grande libertà qualsivoglia comportamento collaborativo dell’autore o del complice di fatti di ‘‘criminalità collettiva’’, in vista dell’irrogazione di una pena ridotta in proporzione all’effettivo contributo di tali soggetti alla prevenzione/repressione degli illeciti penali a carattere associativo. È evidente peraltro che quest’attività commisurativa a sfondo indulgenziale (rectius, remuneratorio), la quale ripropone in forma amplificata quanto avviene nel sistema penale italiano in forza degli artt. 133 comma 2 e 62 bis c. p., prescinde dall’esistenza delle cause legali d’esenzione o di diminuzione della pena prese in esame nel corso del presente paragrafo. 10. Lotta alla ‘‘criminalità collettiva’’ e crisi dei modelli codicistici d’impronta neodefensionista e neoclassico-liberale. Esaurito così l’esame della disciplina prevista dal nuovo codice penale francese nel vasto campo della ‘‘criminalità collettiva’’, viene spontaneo chiedersi come e in quale misura la disciplina in questione possa fungere da punto di riferimento nell’ambito del processo di ravvicinamento delle legislazioni penali nazionali in tema di criminalità di gruppo e, soprattutto, di criminalità organizzata. E invero, che tale processo di ravvicinamento debba realizzarsi, e nemmeno in tempi troppo lunghi, appare un dato pressoché scontato. Si è infatti visto all’inizio di questo lavoro come, in base a quanto espressamente disposto dal titolo VI del Trattato sull’Unione europea, l’azione comune sviluppata dalla Comunità tra i Paesi membri nel settore della cooperazione penale implichi anche la progressiva adozione di ‘‘norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni, per quanto riguarda la criminalità organizzata, il terrorismo e il traffico illecito di stupefacenti’’ (art. 31, lett. e, TUE). Più in generale, poi, l’armonizzazione in atto su scala europea a livello economico ed anche socio-culturale, non potrà non incidere significativamente sul piano del diritto penale, specie relativamente ai settori (176) Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé. Section I, Droit pénal général - Projet de résolution, cit., p. 1035, n. 6. (177) Cfr., ad esempio, Cass. crim., 25 luglio 1991, in Bull. crim. n. 307, secondo la quale le riduzioni di pena espressamente previste dalla legge per i ‘pentiti’ non devono essere concesse a coloro che siano stati evasivi nell’indicare gli altri anelli della catena criminale: e ciò in quanto ‘‘equivarrebbe a snaturare un testo normativo derogatorio del diritto comune estenderne il beneficio a chi abbia reso possibile solo l’arresto di comparse’’. (178) Cfr., in particolare, MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 810. (179) In argomento cfr., esemplificativamente e per tutti, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 750 ss.; PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 740 ss.
— 1016 — criminali di rilievo transnazionale (180). In questa prospettiva di crescente integrazione penale non destano dunque stupore le implicite valenze ‘‘comparatistiche’’ e ‘‘comunitaristiche’’ che nei settori in questione viene ad assumere ogni nuova normativa nazionale, specie se collocata dal legislatore nella prestigiosa vetrina del codice. La consapevolezza dell’ineludibilità di una progressiva armonizzazione penale metodologicamente fondata innanzitutto sulla comparazione non deve tuttavia far dimenticare i problemi connessi alla concretizzazione del metodo comparatistico. E invero, per quanto specificamente concerne l’oggetto del presente studio, i suddetti problemi si manifestano già al momento di individuare, all’interno delle soluzioni normative francesi in tema di lotta alla criminalità associativa, quelle da valorizzare o addirittura da elevare a modello, e viceversa quelle da scartare per la loro possibile confliggenza con taluni principi generali ovvero per la loro sospetta disfunzionalità politico-criminale. A ben vedere, tali problemi attengono, essenzialmente, a due ordini di fattori: in primo luogo alla difficoltà di calare, all’interno di ordinamenti giuridici diversi, modelli normativi ‘‘importati’’ da un sistema penale nazionale dotato di sue proprie, ben precise connotazioni (181); in secondo luogo alla stessa difficoltà di giudicare la bontà teorica e l’efficacia pratica delle scelte operate in Francia nel settore considerato. Nell’ambito della presente indagine, circoscritta per forza di cose al secondo ordine di fattori, va subito sottolineato come la problematicità di una puntuale individuazione degli aspetti positivi e negativi rinvenibili nelle soluzioni elaborate dal nuovo codice penale francese in tema di ‘‘criminalità collettiva’’ risulti indubbiamente accresciuta dallo scarso rodaggio che ha sinora contraddistinto molte di tali soluzioni. In particolare, non poche tra le fattispecie volte a colpire comportamenti illeciti a carattere collettivo o organizzato non hanno ancora subito un adeguato vaglio applicativo, specie laddove i comportamenti in questione siano a sfondo politico. E tuttavia, l’esame delle norme sinora passate in rassegna e della relativa disciplina punitivo-premiale, se da un lato non permette di esprimere puntuali giudizi in ordine alle singole scelte operate dal legislatore transalpino, dall’altro lato sembra quantomeno consentire qualche breve riflessione circa il processo di deriva che il nuovo codice penale francese manifesta, nel settore considerato, rispetto ai modelli di stampo neodefensionista (182) ovvero neoclassico-liberale (183). Modelli, questi, cui peraltro lo stesso codificatore francese del (180) Si pensi, ad esempio, alle fattispecie penali in materia alimentare e ambientale. E si pensi, altresì, alle fattispecie in tema di falsità in monete, che con l’avvento dell’Euro appaiono votate ad un rapido processo di armonizzazione. (181) Sul punto cfr. in generale, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, BERNARDI, Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, in Annali dell’Università di Ferrara - Scienze Giuridiche - Saggi III, Ferrara, 1996, p. 103 ss.; nonché, da ultimo e con specifico riferimento al settore penale in esame, QUELOZ, Les actions internationales de lutte contre la criminalité organisée: le cas de l’Europe, cit., p. 785. (182) Si allude, ovviamente, al modello penale d’impronta umanista propugnato da ANCEL (La défense sociale nouvelle, un mouvement de politique criminelle humaniste, Paris, 1954), che come noto ha profondamente inciso sulle riforme penali francesi degli ultimi quarant’anni. Al riguardo cfr., in particolare e per tutti, GASSIN, L’influence du mouvement de la défense sociale nouvelle sur le droit pénal français contemporain, in Aspects nouveaux de la pensée juridique - Recueil d’études en honneur à Marc Ancel, Paris, 1975, vol. II, p. 3 ss.; LEVASSEUR, Réformes récentes en matière pénale dues à l’école de la défense sociale nouvelle, ivi, vol. II, p. 35 ss. (183) Ci si riferisce a quelle concezioni neoclassiche francesi - riemerse in particolare ma non solo nel corso degli anni ’80 - volte a riaffermare la priorità del fatto di reato rispetto alla personalità del suo autore, e dunque a sottolineare il primato delle istanze retributive e generalpreventive su quelle specialpreventive; ma volte anche, al contempo, a riconoscere l’esigenza di una individualizzazione della pena ispirata ai principi di giustizia e umanità. Cfr., in particolare, MERLE, VITU,Traité de droit criminel. Problèmes généraux de la science
— 1017 — 1992-94 sembrerebbe essersi di volta in volta ispirato in sede di stesura di molte delle norme di parte generale e speciale (184). Tale processo di deriva, causato appunto dal generalizzato incremento dei diversi strumenti legali di lotta alla criminalità organizzata (185), sembra per vero investire tutti i tradizionali principi-cardine del sistema penale, vale a dire i principi di legalità, di colpevolezza, di offensività e di proporzione della sanzione. a) Per quanto concerne il principio di legalità, è facile rilevare come la creazione di numerose fattispecie volte a colpire la criminalità organizzata non solo attraverso la repressione dei reati-scopo realizzati da quest’ultima, bensì anche attraverso l’elevazione ad autonomo reato di singole tipologie di associazioni criminali, tende a vulnerare il principio di determinatezza (in Francia di clarté-précision) della norma penale (186). Infatti, come anche la dottrina italiana non ha mancato di sottolineare, una volta escluso dal tipo legale qualsivoglia evento dannoso, risulta pressoché inevitabile strutturare le fattispecie in questione su due elementi cardine — l’associazione e la finalità di commettere (uno o) più reati — poco idonei a salvaguardare il requisito della tipicità (187). Ora, il fatto che nella massima parte delle fattispecie associative costruite dal nuovo codice francese come reati-ostacolo l’elemento costitutivo rappresentato dalla suddetta finalità venga arricchito attraverso l’individuazione della tipologia dei reati-scopo (cfr. artt. 212-3 e 412-2) o quantomeno attraverso una selezione di questi ultimi in chiave di significatività offensiva (cfr. art. 450-1), non sposta di molto i termini della questione relativa alla complessiva carenza di tassatività delle fattispecie in oggetto (188). Analogamente, la tendenza a ‘‘concretizzare’’ la finalità criminale o criminelle. Droit pénal général, cit., p. 138 ss., e bibliografia ivi riportata; TOUBON, Pour finir avec la peur, Paris, 1984. in particolare p. 165 ss. In argomento cfr., altresì, RASSAT, Pour une politique anticriminelle de bon sens, Paris, 1983; SOLON, Raison pour la justice, Paris, 1986. (184) Votate, come noto, a larghissima maggioranza e col fattivo contributo delle forze politiche sia di destra che di sinistra, le leggi che hanno dato vita al nuovo codice penale francese si sono ispirate ad un modello di compromesso e d’equilibrio, poco ideologico e molto pragmatico, per nulla espressivo di una univoca concezione dottrinale (al riguardo cfr., per tutti, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 49 ss.). Logico quindi che il codice del 1994 riecheggi il pensiero tanto della scuola neodefensionista quanto della scuola neoclassica, vale a dire delle due scuole che negli ultimi decenni hanno diviso la scienza penalistica francese, e che di volta in volta hanno ispirato le riforme penali del secondo dopoguerra. (185) Sul punto cfr., in particolare, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 61; QUELOZ, Les actions internationales de lutte contre la criminalité organisée: le cas de l’Europe, cit., p. 778-778. (186) In questo senso cfr. per tutti, in prospettiva comparatistica, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - Projet de résolution, in Rev. int. dr. pén., 1999, n. 1-2, p. 681. (187) Sul deficit di tassatività proprio dei reati associativi cfr., per tutti e con varietà d’accenti, DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in questa Rivista, 1992, p. 58 ss., e bibliografia riportata alla nota 5; DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica e politico-criminale, Milano, 1988, p. 233 ss.; ID., I reati associativi nell’odierno sistema penale, in I reati associativi, cit., p. 20 ss.; GROSSO, Le fattispecie associative: problemi dommatici e di politica criminale, cit., p. 134 ss.; MARINUCCI, Problemi della riforma del diritto penale in Italia, in Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 351; MOCCIA, Criminalità organizzata ed emergenza: il problema delle garanzie, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, cit., p. 153 ss.; PADOVANI, Il concorso dell’associato nei delitti scopo, in I reati associativi, cit., p. 96; ROMANO, Il Codice Rocco e i lineamenti di una riforma del diritto penale politico, in Quest. crim., 1981, p. 164 ss.; SGUBBI, Meccanismo di aggiramento della legalità e della tassatività nel codice Rocco, ivi, p. 319 ss. (188) In questa prospettiva, l’unica fattispecie-ostacolo a carattere associativo pienamente conforme al principio di determinatezza sembrerebbe essere quella di partecipazione
— 1018 — delittuosa dell’associazione richiedendo esplicitamente la realizzazione di atti materiali preparatori dei relativi reati-scopo, pur manifestando indubbiamente un certo qual ‘‘sforzo di tassatività’’ da parte del legislatore francese (189), appare come un espediente di tipizzazione non ancora sufficiente a scoraggiare eventuali intemperanze interpretative. Del resto, preoccupazioni in merito all’insufficiente tasso di chiarezza-precisione delle fattispecie associative in esame sono state espresse a più riprese dalla dottrina transalpina (190). In questo senso, si può senz’altro dire che la già ricordata mancata introduzione di una fattispecie generale volta a prevedere la generica incriminazione di qualsivoglia organizzazione criminale (191) non è bastata, da sola, a tacitare le accuse di indeterminatezza indirizzate alla complessiva disciplina codicistica di settore. b) Per quanto concerne il principio di colpevolezza, si è visto come, nonostante il suo espresso recepimento nell’art. 121-3, esso tenda a venir sacrificato non solo nell’ambito dei reati associativi, ma prima ancora nell’ambito dei c.d. reati di gruppo (192), attraverso quella che è stata definita la sistematica dilatazione, all’interno del nuovo codice, della ‘‘repressione della complicità’’ (193). Repressione in nome della quale si affermano, in modo più o meno occulto, presunzioni di concorso materiale e psicologico nel reato, specie laddove si ritenga che i comportamenti dolosi o colposi di più soggetti, benché distinti gli uni dagli altri, abbiano contribuito tutti a produrre l’evento dannoso in virtù di una loro qualsiasi interazione (194). Questo processo di erosione del principio di colpevolezza, pur incidendo come detto sulla generale disciplina del concorso di persone, tende ad affermarsi in specie nella vasta area dei reati associativi, ovvero dei reati costituenti espressione di criminalità organizzata. Così, ad esempio, in materia di ricettazione (art. 321-1), la difficoltà di provare la conoscenza della provenienza delittuosa della cosa da parte dell’imputato ha indotto i giudici francesi ad adottare la ben nota scorciatoia probatoria del ‘‘non poteva non sapere’’, con conseguente obbligo per l’imputato di fornire lui stesso la dimostrazione della propria innocenza (195). Il ricorso all’escamotage dell’inversione dell’onere della prova in merito alla sussistenza dell’elemento psicologico nell’ambito di taluni reati a sfondo associativo sembrerebbe del resto destinato a consolidarsi in futuro. In questo senso, nessuno dubita circa un prossimo ricorso al suddetto escamotage anche limitatamente al reato di riciclaggio (196). Tanto più che lo stesso nuovo codice si è dimostrato tutt’altro che restio a legalizzare le presunzioni probatorie nel settore qui considerato. Così, l’art. 222-39-1 prevede l’applicazione della detenzione correzionale fino a cinque anni e dell’ammenda fino a 500.000 franchi nei confronti di quanti, trovandosi in relazioni abituali con una o più persone dedite al traffico o all’uso di stupefacenti, ovvero dedite a operazioni di riciclaggio, non possano ‘‘giustificare risorse corrispondenti allo stile di vita’’. ad un ‘‘gruppo di combattimento’’ (art. 431-14), stante la esaustività e la pregnanza con le quali l’art. 431-13 definisce il suddetto ‘‘gruppo’’. Sul punto cfr., supra, sub par. 6, lett. d). (189) Riconosce e sottolinea tale sforzo VINCIGUERRA, I reati associativi nell’esperienza giuridica europeo continentale, cit., p. 105-106. (190) Cfr., in particolare, CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 348 ss. e 366-367; GIRAULT, Le droit pénal à l’épreuve de l’organisation criminelle, cit., p. 716 ss. (191) Cfr. supra, sub par. 7. (192) Cfr., supra, sub par. 3. (193) LAZERGES, La partecipation criminelle, cit., p. 20. (194) Cfr., diffusamente, MAYAUD, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé, cit., p. 794 ss. (195) In merito agli argomenti ‘‘semplicistici’’ utilizzati dai giudici francesi per provare la malafede del ricettatore cfr., in particolare, PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pènal spécial, cit., p. 607, con puntuali riferimenti giurisprudenziali. (196) Cfr. CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 364
— 1019 — Come noto, proprio in relazione ad un caso francese, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata nel senso dell’ammissibilità di tali presunzioni, a condizione però di ‘‘non superare limiti ragionevoli che tengano conto della gravità della posta, e di preservare i diritti della difesa’’ (197). Al di là della remissività dimostrata al riguardo dai giudici di Strasburgo, è comunque di tutta evidenza che porre a carico del soggetto la dimostrazione della propria innocenza tende a tradursi in una probatio diabolica in posizione di forte tensione col principio di colpevolezza (198). In questo senso, la tendenza ad introdurre forme siffatte di probatio non può venire automaticamente giustificata invocando le specialissime esigenze di difesa sociale richieste nei confronti della criminalità organizzata. Non a caso, in Italia, il comma 2 dell’art. 12 quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 — per molti aspetti simile all’art. 222-39-1 del codice penale francese in quanto volto a punire il possesso ingiustificato di valori da parte di soggetti sottoposti a procedimento penale per talune categorie di delitti prevalentemente riconducibili nell’ambito della criminalità organizzata e mafiosa (199) — è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, proprio per violazione del principio di colpevolezza (200). c) Per quanto concerne il principio di offensività, sembra quasi superfluo ricordare come la progressiva tendenza del codificatore francese a perseguire in materia di criminalità organizzata non solo fatti lesivi di beni giuridici concretamente afferrabili, ma anche la mera partecipazione ad un’associazione a delinquere, si pone in tendenziale tensione col suddetto principio (201). Certamente, per superare tale critica non sembra sufficiente l’obiezione secondo la quale le fattispecie codicistiche in questione prevedono che l’associazione sia caratterizzata da ‘‘uno o più fatti materiali’’ preparatori dei relativi reati-scopo (artt. 212-3, 4122, 450-1). Infatti, anche a prescindere dalla constatazione che non tutte le fattispecie associative costruite in chiave di reato-ostacolo presuppongono la realizzazione dei suddetti fatti materiali (202), risulta chiaro come i fatti in questione, proprio per la loro ‘‘preliminarietà’’, (197) Sent. 7 ottobre 1988, Salabiaku c. Francia, Série A 141. In merito a tale sentenza cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, BERGER, Jurisprudence de le Cour européenne des droits de l’homme, Paris, 1994, p. 210 ss. (198) Cfr. CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 364. Parallelamente cfr. nella dottrina italiana, da ultimo e con specifico riferimento al settore della delinquenza organizzata, MOCCIA, Criminalità organizzata ed emergenza: il problema delle garanzie, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, cit., p. 151; MONACO, Le risposte del sistema sanzionatorio ai fatti di criminalità organizzata, cit., p. 250 ss.; STORTONI, Criminalità organizzata ed emergenza: il problema delle garanzie, cit., p. 122 e 128. (199) In merito a tale norma cfr., da ultimo, FIORE, Modelli di intervento sanzionatorio e criminalità organizzata: pericolose illusioni e inquietanti certezze della recente legislazione antimafia, cit., p. 282 ss., e bibliografia ivi riportata. (200) Cfr. Corte cost., sent. 17 febbraio 1994, n. 48, in Cass. pen., 1994, p. 1455 ss. In merito a tale sentenza cfr., in particolare, ZAZA, Il messaggio della sentenza n. 48/1994 della Corte costituzionale nella distinzione tra diritto penale e diritto di prevenzione, in Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario, Torino, 1996, p. 202. (201) Cfr., emblematicamente, MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 234; nonché, con specifico riferimento al reato di association de malfaiteurs previsto dal codice penale napoleonico, FIANDACA, Le associazioni per delinquere ‘‘qualificate’’, in I reati associativi, cit., p. 44 ss. In argomento cfr. altresì, limitatamente alla dottrina italiana e con diverse sfumature, CAVALIERE, Effettività e criminalità organizzata, in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, cit., p. 306 ss., con ulteriori riferimenti bibliografici; DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, cit., p. 23 ss. INSOLERA, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, p. 168 ss.; PATALANO, L’associazione per delinquere, Napoli, 1971, p. 115 ss. (202) Ci si riferisce al reato di partecipazione ad un ‘‘gruppo di combattimento’’ di cui all’art. 431-14 (reato che peraltro, come detto - cfr., supra, sub nt. 188 - presenta il più
— 1020 — si prestino a conformare le relative fattispecie più al principio di materialità che non al principio di offensività. Senza contare che, in base al testo degli artt. 212-3, 412-2, 450-1, caratterizzata da ‘‘uno o più fatti materiali’’ risulta essere l’associazione, e non la partecipazione all’associazione: cosicché, a rigore, oggetto di incriminazione potrebbe essere il mero status di associato, ove a porre in essere i ‘‘fatti materiali’’ in questione fossero altri membri dell’associazione (203). In questo senso, pur non ignorando il coefficiente di pericolosità insito nella stessa associazione criminale, a prescindere dai fatti materiali a carattere preparatorio realizzati al suo interno (204), non sembra del tutto ingiustificata la posizione di quanti ritengono ‘‘una tale visione statica dell’associazione, che richiede solo la prova dell’esistenza di autori, sia pure ’stabilmente pericolosi’, (...) evidentemente lontana da un diritto penale del fatto’’ (205). Se dunque sembra per certi aspetti ingeneroso bollare come utopisti dimentichi delle attuali esigenze politico-criminale quanti paventano l’inafferrabilità e la mera ‘‘simbolicità’’ di una fattispecie nella quale il fatto associativo in sé considerato viene elevato ad evento del reato (206), bisogna peraltro riconoscere che la dottrina francese si è sinora dimostrata poco sensibile alle questioni derivanti dalla carente lesività degli illeciti previsti da talune norme incriminatrici in tema di criminalità organizzata. Essa infatti, forse anche in ragione del suo notorio approccio pragmatico e funzionalistico nei confronti di ogni aspetto del diritto penale, ha finora concentrato la propria attenzione su altri profili di problematicità delle fattispecie-ostacolo a carattere associativo, lasciando così in ombra quello concernente il principio di offensività. d) Per quanto concerne infine il principio di proporzione della sanzione penale, il rischio di una sua compromissione ad opera della normativa penale in materia di criminalità organizzata potrebbe discendere, innanzitutto, dal trattamento estremamente severo riservato ai soggetti condannati sia per taluni reati associativi costruiti in chiave di danno (207), sia per alcuni dei reati-ostacolo a carattere associativo in precedenza passati in rassegna (208), sia infine, più in generale, per la massima parte dei reati aggravati dalla circoalto tasso di determinatezza riscontrabile nell’ambito delle fattispecie-ostacolo a carattere associativo). La scelta di prescindere, per la repressione della partecipazione a tali gruppi, dalla realizzazione di qualsiasi fatto materiale, è da ricondursi con ogni probabilità al fatto che essi ‘‘costituiscono un pericolo talmente grave per la democrazia che è sembrato necessario incriminare direttamente la loro creazione’’. COLCOMBET, Doc. Ass. nat., n. 2244, p. 114. (203) Cfr., con riferimento alla fattispecie d’associazione a delinquere prevista dal vecchio codice (peraltro fedelmente travasata in quello nuovo), MERLE, VITU, Traité de droit criminel. Droit pénal spécial, vol. I, cit., p. 182. In tale prospettiva, analogamente a quanto accade nell’ambito dell’art. 416 del codice penale italiano, partecipe nell’associazione potrebbe essere chiunque si sia limitato ad assumere la qualità di membro di quest’ultima, accettando di svolgere un’attività a favore della stessa. Cfr., per tutti, DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, cit., p. 108 ss. (204) Cfr., specificamente, DE FRANCESCO, ivi, p. 105 ss.; ID., Gli artt. 416, 416-bis, 416-ter, 417, 418 c.p., cit., in particolare p. 36 ss.; FIANDACA, Le associazioni per delinquere ‘‘qualificate’’, cit., p. 66-67; DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico e reati associativi, in questa Rivista, 1993, p. 107 ss. (205) CAVALIERE, Effettività e criminalità organizzata, cit., p. 311. (206) Cfr. MOCCIA, Criminalità organizzata ed emergenza: il problema delle garanzie cit., p. 152 ss. Peraltro, per un autorevole richiamo all’importanza della dimensione simbolica peculiare dei reati associativi cfr. FIANDACA, Le associazioni per delinquere ‘‘qualificate’’, cit., p. 64 ss. (207) Si pensi, in particolare, ai reati terroristici di cui agli artt. 421-1 a 421-4. In argomento cfr., supra, sub par. 5, nt. 89. (208) Si pensi, in particolare, al reato di partecipazione ad un gruppo finalizzato alla commissione di crimini contro l’umanità, che prevede la pena della reclusione criminale a vita per un fatto di mero pericolo, ancorché certo di estrema odiosità. Ma si pensi, anche,
— 1021 — stanza di ‘‘banda organizzata’’. Anzi, le scelte sanzionatorie che destano maggiore perplessità sono proprio quelle connesse a tale circostanza aggravante, stante che aumenti di pena così vertiginosi (209) possono essere giustificati solo in parte con la maggior pericolosità dei fatti illeciti a carattere collettivo rispetto a quelli monosoggettivi (210). Al riguardo, sembra di poter dire che la già ricordata previsione, all’interno del nuovo codice penale francese, del solo limite massimo di pena applicabile per ogni singolo reato (con conseguente possibilità per il giudice di diminuire a piacimento l’entità della sanzione) riesce solo in parte a sdrammatizzare innalzamenti di pena che sembrerebbero dovuti, essenzialmente, al clima emergenziale evocato dall’idea stessa di banda organizzata (211): anche perché tali innalzamenti comportano, talora, l’esclusione dai benefici di legge concedibili in sede esecutiva (art. 13223) (212). Del resto, la stessa dottrina francese, peraltro in linea di massima favorevole alle scelte di politica criminale ispirate al rigore repressivo in materia di criminalità organizzata, sembra a volte interrogarsi sulla legittimità di una disciplina non di rado fortemente discriminatoria nei confronti di quanti realizzino il fatto illecito nell’ambito di una associazione a delinquere (213). In modo uguale e contrario, poi, il principio di proporzione della sanzione penale rischia di venir compromesso dagli eccessi indulgenziali eventualmente connessi agli istituti a sfondo premiale specificamente previsti nel settore della criminalità organizzata (214). In proposito — anche a prescindere dalle concezioni più fortemente connotate in chiave ‘‘etica’’, secondo le quali l’unico pentimento atto ad incidere significativamente sulla commisurazione della pena è quello ‘‘volontario e libero’’, cioè non indotto da un qualsiasi beneficio (215) — è noto come le sole disposizioni premiali che riscuotono generalizzati consensi siano quelle fondate su veri e propri comportamenti antagonistici rispetto all’offesa del bene giuridico aggredito (216). Si spiegano in tal modo le perplessità da tempo manifestate da una parte della dottrina transalpina in ordine alla rilevanza ‘‘premiale’’ attribuita alla denunallo stesso reato di partecipazione ad una associazione di malfattori (art. 450-1), che prevede una pena detentiva massima di durata doppia rispetto a quella applicabile in Italia in caso di partecipazione ad una associazione per delinquere (art. 416 c. p.). (209) Infatti, come in precedenza non si è mancato di sottolineare, in presenza della circostanza in questione la pena massima risulta sovente raddoppiata o addirittura, come nel caso del reato di furto, triplicata (cfr., supra, sub par. 4, in fine). (210) In una prospettiva generale, che prescinde dalla realtà normativa francese, stigmatizza il ricorso a pene detentive di durata esagerata nel settore della criminalità organizzata ZAFFARONI, Il crimine organizzato: una categorizzazione fallita, cit., p. 87. (211) Al riguardo cfr., da ultimo e limitatamente al sistema penale italiano, MOCCIA, Criminalità organizzata ed emergenza: il problema delle garanzie, cit., p. 151. Per una critica agli aumenti di pena previsti nell’ambito della legislazione dell’emergenza cfr., in generale e per tutti, RICCIO, Politica penale dell’emergenza e Costituzione, Napoli, 1982, p. 70 ss. (212) Cfr., diffusamente, supra, sub par. 8, lett. d1). (213) Cfr. ad esempio, ma sempre in termini molto sfumati, CEDRAS, Les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé - France, cit., p. 366; PRADEL, Droit pénal comparé, cit., p. 608; PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pènal spécial, cit., p. 771-772. (214) Sul punto cfr., in particolare, le osservazioni di FLORA, Il ravvedimento del concorrente, cit., p. 172. (215) Cfr., da ultimo e per tutti, ZAFFARONI, Il crimine organizzato: una categorizzazione fallita, cit., p. 86-87. (216) In argomento cfr. in particolare, limitatamente alla letteratura italiana, gli atti del Convegno di Courmayeur del 1986 su ‘‘La legislazione premiale’’, Milano, 1987. Cfr. altresì, tra gli altri e con varietà di sfumature, BRICOLA, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in Diritto premiale e sistema penale, Milano, 1983, p. 126 ss.; FERRAJOLI, Ravvedimento processuale e inquisizione penale, in Questione giudiziaria, 1982, p. 172; FLORA, Il ravvedimento del concorrente, cit., p. 99 ss.; INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., p. 131; PADOVANI, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di ravvedimento, cit., p. 532 ss.; PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1982, p. 174; PROSDOCIMI, Profili penali del post-fatto, Milano, 1982,
— 1022 — cia dei complici (217), e più in generale il sospetto con cui da sempre alcuni autori francesi guardano ai meccanismi di attenuazione della pena a carattere esclusivamente o prevalentemente specialpreventivo (218). Vero è, come sottolineato nel corso del precedente paragrafo, che la disciplina sia dell’esenzione sia della diminuzione dalla pena sembra fondarsi su presupposti alquanto rigorosi, non limitati certo alla delazione dei compartecipi (219), ma al contrario prevalentemente incentrati su comportamenti atti ad interrompere le condotte incriminate e a circoscrivere o attenuare le conseguenze dannose del reato. Tale stato di cose, tuttavia, non sembra fugare completamente i problemi sostanziali d’ordine ‘‘proporzionalistico’’ posti dai suddetti strumenti premiali (220). Problemi oltretutto amplificati dalla presenza, in parallelo a tali strumenti, di ulteriori istituti indulgenziali previsti in funzione del repentir actif del reo (221), i quali concorrono a dilatare una discrezionalità giudiziale ormai pressoché illimitata e a fondo prevalentemente specialpreventivo, dunque in linea di principio particolarmente sensibile a modalità di ‘‘pentimento’’ sintomatiche, se non di un vero e proprio ravvedimento, quantomeno di una prognosi positiva in merito al futuro comportamento del collaboratore di giustizia. Anche in questo caso la dottrina francese non sembra ignorare le controindicazioni connesse a forme di attenuazione della sanzione che, pur non configurando sempre una vera e propria esenzione della pena, si traducano comunque in un radicale abbattimento del carico afflittivo a favore dei colpevoli collaboranti. Essa tuttavia si limita a rilevare col consueto pragmatismo che, in ragione dei buoni risultati ottenuti dalle strategie premiali (222), ben si spiega come ‘‘i pentiti incorrano sovente nei favori del legislatore’’ (223). In questo senso, pur senza negare i problemi anche ma non solo d’ordine morale connessi alle forme di impunità negoziata, si è riconosciuto che ‘‘la natura di certi reati, difficili da scoprire, sembra poter giustificare (a certe condizioni) un riesame della tradizione giuridica’’ (224) fondata sul sinallagma reato-pena. p. 297 ss.; PULITANÒ, Rigore e premio nella risposta alla criminalità organizzata, in I reati associativi, cit., in particolare p. 160 ss. (217) Cfr., in particolare, SAVEY-CASARD , Le repentir actif en droit pénal français, in Rev. sc. crim.,1972, p. 518 e 536. L’autore sottolinea come l’incoraggiamento da parte del legislatore alla delazione, pur costituendo un facile mezzo per colpire i colpevoli e prevenire certi reati, mal si concili con il costume francese, e come dunque tale scelta di politica criminale non cessi di sorprendere. (218) Cfr., per tutti e con accenti fortemente ‘‘politicizzati’’, SOYER, Justice en perdition, Paris, 1982, in particolare p. 150 ss.; TOUBON, Pour finir avec la peur, cit., in particolare p. 41 ss. (219) Delazione peraltro, come ben si sa, capace assai spesso di smantellare l’organizzazione criminale ovvero di diminuirne in misura sensibile il complessivo coefficiente di pericolosità. In particolare, sottolinea come le forme di collaborazione processuale a sfondo delatorio abbiano una positiva ricaduta a livello di tutela del bene giuridico, quantomeno in termini di prevenzione di futuri delitti, PULITANÒ, Rigore e premio nella risposta alla criminalità organizzata, cit., p. 149 ss. (220) Altro discorso, in quanto solo in parte connesso ai problemi stricto sensu ’’proporzionalistici’’ posti dall’entità delle riduzioni di pena ai colpevoli ‘‘pentiti’’, è quello relativo agli effetti processuali di ‘‘regressione inquisitoria’’ derivanti dall’affermarsi della ‘‘logica del beneficio scambiato con la collaborazione’’. INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., p. 133, con ulteriori riferimenti bibliografici. (221) Si pensi, innanzitutto, agli istituti del la dispensa e del differimento di pena di cui agli artt. 132-58 ss. c. p. In merito al concetto di repentir actif ed alle sue diversificate forme di rilevanza nel sistema penale francese cfr., con riferimento alla realtà normativa preesistente al nuovo codice, BERNARDI, Profili premiali nel sistema penale francese, in Diritto premiale e sistema penale, cit., p. 220. (222) PRADEL, Droit pénal comparé, cit., p. 608-609. (223) PRADEL, DANTI-JUAN, Droit pènal spécial, cit., p. 776. (224) BOULOC, Le problème des repentis. La tradition française relativement au statut des ‘‘repentis’’, cit., p. 782.
— 1023 — In definitiva, per quanto attiene ai problemi di conformità al principio di proporzione della sanzione derivanti dalla coesistenza di ‘‘pene terribili’’ comminate per i reati associativi e di forme di ‘‘straordinaria benevolenza’’ nei confronti dei relativi soggetti pentiti (225), sembra possibile affermare che il nuovo codice penale francese si rivela, rispetto al corrispondente modello italiano, un pò più attento nel non superare taluni ‘‘limiti invalicabili’’ (226) per uno Stato che voglia veramente essere ‘‘di diritto’’. Eppure, nonostante il ’senso del limitè di cui il codificatore del 1994 sembra aver dato prova nell’ambito delle sue scelte di politica sanzionatoria, resta il fatto che il connubio realizzato nel settore della criminalità organizzata tra rigore repressivo e indulgenzialismo costituisca, a giudizio della stessa dottrina transalpina, l’espressione di una ‘‘ideologia autoritaria’’ (227), come tale lontana dalla tradizione penalistica francese a carattere umanitario e liberale. 11. Considerazioni conclusive. L’esame sin qui condotto sulle diverse tecniche di intervento sanzionatorio previste dal nuovo codice penale francese nei confronti della ‘‘criminalità collettiva’’ ha rivelato come le soluzioni preventivo-repressive all’uopo predisposte, oltre a risultare sovente caratterizzate da un notevole rigore, si pongano non di rado in rapporto di tensione con alcuni dei fondamentali principi informatori dei sistemi penali continentali. Vero è che nel contesto di un’ormai quasi perenne emergenzialità prodotta dai fenomeni di criminalità di gruppo e organizzata, la pretesa di conciliare appieno le esigenze di tutela tanto della collettività quanto dell’imputato può apparire impresa estremamente ardua se non addirittura impossibile. Anzi, è un dato quasi scontato che la diffusione di organizzazioni criminali talora caratterizzate da un elevatissimo coefficiente di pericolosità se da un lato tende a vanificare la difesa dei consociati e delle istituzioni, dall’altro lato favorisce e suggerisce l’adozione di forme di reazione anticriminale non sempre pienamente rispettose dei principi fondamentali volti ad irregimentare le attività, legislative e/o giudiziali, di delimitazione dei fatti tipici, di individuazione dei colpevoli e di determinazione delle pene. È però altresì vero che i limiti e le contraddizioni in cui fatalmente è destinata a cadere una politica criminale tesa al raggiungimento di mete contrapposte e almeno in parte inconciliabili si avvertono con particolare intensità in sede di esame del sistema delineato dal nuovo codice penale francese. In estrema sintesi, si sarebbe tentati di affermare che la ragione di tale stato di cose risiede nella stessa tradizione giuridico-penale francese, caratterizzata anch’essa da una perenne tensione tra concezioni antagoniste e dal costante perseguimento di obiettivi contrapposti. Come si sa, infatti, la Francia è il Paese in cui più a lungo si è mantenuta una ferrea antitesi tra concezioni di matrice classica e positivista (228) e, più in generale, tra sostenitori della ‘‘severità della repressione’’ e paladini della specialprevenzione (229). Del resto, è un dato di fatto che la Francia sia, al contempo, la patria dei diritti dell’uomo e il Paese, tra quelli di civil law, più sensibile al pragmatismo giuridico (230) e più permeato dalla ragion di Stato. (225) Così, testualmente, PRADEL, Droit pénal comparé, cit., p. 609. (226) PULITANÒ, Rigore e premio nella risposta alla criminalità organizzata, cit., p. 173. (227) PRADEL, Droit pénal comparé, cit., p. 608. (228) Cfr. volendo, anche per ulteriori precisazioni e distinguo, BERNARDI, Justice en perdition: la questione criminale francese nel pensiero ‘‘neoclassico’’ di Soyer, in questa Rivista, 1985, p. 542 ss. (229) In argomento cfr., diffusamente e per tutti, PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 128 ss. (230) Sull’evoluzione storica della dottrina ‘‘pragmatico-repressiva’’ in Francia cfr., in particolare e per tutti, STEFANI, LEVASSEUR, BOULOC, Droit pénal général, Paris, 1980, p. 82 ss.
— 1024 — In questa situazione di conflitto tra idee contrapposte inevitabilmente votate, di volta in volta, a prevalere le une sulle altre (231), non deve dunque sorprendere se in relazione ai fenomeni criminali destinati a sollevare maggior allarme sociale venga ancora una volta rinnegato ‘‘lo spirito liberale e umanista’’ largamente prevalente nelle norme di parte generale (232), e riaffermata ‘‘la moda repressiva’’ (233) che già caratterizzava, anteriormente al nuovo codice, taluni settori critici della legislazione speciale. Al riguardo, anzi, non sembra improprio affermare che nella misura in cui la criminalità di gruppo o, peggio, organizzata viene ad aggredire non solo i singoli ma lo stato-istituzione o la società francese nel suo complesso, il nuovo codice penale transalpino torna a mostrare denti per certi aspetti ancora più affilati di quelli del Codice Napoleone e della legislazione ad esso complementare. Si finisce così, ancora e più che mai, col sacrificare le libertà individuali a fini di salvaguardia della collettività e/o dell’ordine pubblico (234) e col dare vita a norme che, pensate come estremi rimedi a mali estremi, si allontanano volutamente dalle più ‘‘nobili’’ e tradizionali anime della codificazione francese, espresse dalle correnti del neoclassicismo liberale (235) e dalle correnti umanistiche di ispirazione neodefensionista (236). ALESSANDRO BERNARDI Associato di Diritto penale nell’Università di Ferrara
(231) Sulle contraddittorie linee di tendenza della politica criminale francese dal secondo dopoguerra ad oggi cfr., per tutti, DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, vol. I, Droit pénal général, cit., p. 30 ss.; PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 128 ss.; MERLE, VITU, Traité de droit criminel. Problèmes généraux de la science criminelle. Droit pénal général, cit., p. 153 ss. (232) Cfr., sia pure con riferimento al vecchio codice penale, MERLE, VITU, Traité de droit criminel. Problèmes généraux de la science criminelle. Droit pénal général, cit., p. 155. (233) Cfr., testualmente e con specifico riferimento alla legislazione degli anni ’70 e ’80 in tema di criminalità organizzata ed economica, MERLE, VITU, ivi. (234) Cfr., in particolare, CHASSAING, Les trois codes français et l’évolution des principes fondateurs du droit pénal contemporain, in Rev. sc. crim., 1983, p. 447 ss; LAZERGES, La partecipation criminelle, cit., p. 30; in termini più sfumati GIUDICELLI-DELAGE, Les crimes et délits contre la nation, l’Etat et la paix publique, cit., p. 508 ss. (235) Correnti i cui insegnamenti riecheggiano, in particolare, nei primi articoli del nuovo codice penale francese, indubbiamente impregnati di cultura legalista. Cfr., sul punto, le osservazioni di ARPAILLANGE nel suo intervento al Senato, in Journal Officiel, Sénat, 10 maggio 1989, p. 552. (236) Sui retaggi neodifensionistici rinvenibili nella nuova codificazione penale francese cfr., tra gli altri, PRADEL, Le nouveau code pénal (Partie générale), cit., p. 5 ss.
IL CASO KOHL - IL RUOLO DEL PUBBLICO MINISTERO IN GERMANIA
Il caso Kohl, inerente al finanziamento illecito del partito CDU, ha appalesato in Germania l’esistenza, sinóra inimmaginabile, di un elevato e capillare grado di malaffare e di corrutibilità dell’apparato politico-istituzionale (1). Nonostante l’opinione pubblica tedesca fosse negli ultimi anni adusa a molteplici scandali politici, in nessun caso si poteva direttamente ed incontrovertibilmente ascrivere quest’ultimi ai vertici dell’apparato politico-istituzionale. Inoltre, ciò che ha particolarmente scosso l’opinione pubblica tedesca sono state sia le modalità, definite in Germania « mafiotiche » (« mafiotisch »), di realizzazione degli intenti illeciti, sia la protervia con cui alcuni personaggi coinvolti giustificavano il proprio operato riferendosi tra l’altro, con riguardo al pactum sceleris, ad una opinabile parola d’onore (« Ehrenwort »), simboleggiante la cristallizzazione di un comportamento, il quale secondo l’opinione dei suddeti personaggi non poteva sottostare ai precetti del « comune » ordinamento giuridico democratico (2). Come è noto, il finanziamento illecito dei partiti, contrariamente alle normative vigenti in Italia ed in Francia, in Germania non constituisce, in quanto tale, reato (3). Nonostante ciò rimangono eventualmente configurabili, qualora sia appurata la concomitanza di ulteriori elementi, i reati di frode (« Betrug »), malversazione (« Untreue ») ed evasione fiscale (« Steuerhinterziehung »). Difatti fu proprio in virtù dell’indagini della Procura della Repubblica di Augsburg (Augusta), nella provincia bavarese (4), a causa di reati di evasione fiscale e frode ipotizzati nei confronti di Schreiber, Leisler Kiep e Max Strauß (5), che è stato possibile, risalendo ai vertici politico-istituzionali, dissolvere il velo sui finanziamenti illegali della CDU e su eventuali atti di corruzione nel caso LeunerElf/Aquitaine (6). Ora, lo scandalo Kohl ha contemporaneamente evidenziato ulteriormente il ruolo precipuo spettante alle Procure della Repubblica nell’ ambito della realizzazione del (1) Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ ), 1 luglio 2000, pp. 1, 12; Die Woche, 30 giugno 2000, pp. 1, 6, 7 (Wie kriminell war das Kohl-Regime?); Süddeutsche Zeitung (SZ), 29 giugno 2000, p. 1, 26 giugno 2000, pp. 1, 2 (Kohl gerät wegen Akten-Vernichtung unter Druck), 11 febbraio 2000, p. 5, 4 febbraio 2000, pp. 1, 5, 29 gennaio 2000, pp. 1, 6, 55, 28 gennaio 2000, p. 9; Die Woche, 14 gennaio 2000, p. 1, 7 gennaio 2000, p. 5 ss. (2) SZ, 7 febbraio 2000, p. 1, 22 gennaio 2000, p. 13, 18 gennaio 2000, p. 12, 15 gennaio 2000, p. 15; Pflüger, Ehrenwort. Das System Kohl und der Neubeginn, Goldmann Verlag, München, 2000. (3) VOLKMANN, Parteispenden als Verfassungsproblem, in Juristische Zeitung (JZ), 2000, p. 539 ss; MANNA, Corruzione e finanziamento illegale ai partiti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, p. 116 ss. (153-154); Hofmann, Die Staatliche Teilfinanzierung der Parteien, in Neue Juristische Wochenschrift (NJW), 1994, p. 691 ss.; v. Arnim, Verfassungsfragen der Parteienfinanzierung, in Juristische Arbeitsblätter (JA), 1985, p. 121 ss. e p. 207 ss. (4) Rimarchevole in questo contesto è il fatto che sia in Francia, sia in Italia, sia in Spagna le inchieste giudiziarie coinvolgenti personaggi dell’apparato politico-istituzionale siano state frequentemente avviate inizialmente dalle Procure di provincia, geograficamente distanti dalle capitali, centri del potere politico. (5) SZ, 2 marzo 2000, p. L9. (6) SZ, 29 giugno 2000, p. 1, 26 giugno 2000, pp. 1, 2, 10 marzo 2000, p. 2, 23 feb-
— 1026 — controllo giudiziario del potere politico-esecutivo, controllo quest’ultimo essenziale sia per l’effetività di una democrazia parlamentare fondata sul principio della suddivisione dei poteri, sia per la realizzazione del concetto di eguaglianza (7). Benché in Germania non si possano constatare forme di clamorosa conflittualità tra il potere politico-esecutivo e quello giudiziario, non è difficile percepire, perquanto subliminali e latenti, notevoli discrepanze tra i suindicati poteri (8). Non si tratta certamente di una circostanza fortuita se il presidente dell’Associazione Tedesca dei Giudici (Deutsche Richtervereinigung), Voss, ammonisce sensibili tentativi da parte del potere politico-esecutivo di influire sulle singole decisioni dei magistrati giudicanti (9). Tantomeno da sottovalutare è la dichiarazione di astensione di un giudice bavarese, il quale ha reso pubbliche le pesantissime ingerenze nei suoi confronti da parte dei membri del governo bavarese (10). Con apprensione si deve prendere nota del fatto che uno dei procuratori della Repubblica di Augsburg. nell’ambito delle inchieste nei confronti di Schreiber, Leisler Kiep e Max Strauß, abbia sentito la necessità di celare per un determinato periodo al Ministero della giustizia bavarese i tentativi di analisi tecniche al fine di potere leggere il hard disk del computer di Max Strauß, giacché doveva temere l’avocazione dell’inchiesta o altre indebite ingerenze (11). Perplessità suscita inoltre dover constatare, che, dopo che il Pubblico Ministero (Staatsanwalt) aveva messo a conoscenza il Ministro della giustizia bavarese dei tentativi di lettura del hard disk, quest’ultimo sia irreperibile, creando notevoli dissapori a livello parlamentare, ove viene reclamata l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta allo scopo di delucidare le modalità della scomparsa (12). Ora, considerato che il caso Kohl (ovviamente nella sua totalità) rende ancora più manifesto il conflitto istituzionale tra potere politico-esecutivo e le procure della Repubblica (13) appare opportuna una disamina dello status e ruolo del Pubblico Ministero in Germania (14). Occorre in questo contesto rammentare che la nota assenza di indipendenza braio 2000, p. 1, 22 febbraio 2000, p. 8, 11 febbraio 2000, p. 12; Die Woche, 1 gennaio 2000, p. 26. (7) BVerfGE, 9, 223; MUHM RAOUL, Der unabhängige Staatsanwalt. Das italienische Modell, in Rechtsphilosophische Hefte, Nr. 6, 1996, p. 55 ss.; MUHM RAOUL, Dependencia do Ministerio Publico do Executivo na Alemanha, in Revista do Ministerio Publico, Lisbona, Nr. 61, 1995 p. 121 ss.; MUHM RAOUL, Dependencia del Ministerio Fiscal del Ejecutivo en la Republica Federal Alemana, in Jueces para la democracia, Madrid, Nr. 2, 1994, p. 93 ss. (8) SZ, 21 luglio 2000, pp. 1, 4 (Der Aufstand der dritten Gewalt), 6, 14 agosto 1999, p. 8; LAMPRECHT, Vom Mythos der Unabhängigkeit. Über das Dasein und Sosein der deutschen Richter, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 1995. (9) SZ, 5 ottobre 1999, p. 6. (10) SZ, 11 novembre 1999, p. L13. (11) SZ, 21 giugno 2000, p. L13, 13 aprile 2000, p. 1, 1 marzo 2000, p. L8, 26 febbraio 2000, p. L9. (12) SZ, 13 aprile 2000, p. L8. (13) SZ, 6 maggio 2000, p. 11. (14) ROXIN, Strafverfahrensrecht, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 25. ed., 1998, p. 49 ss.; KOLLER, Die Staatsanwaltschaft — Organ der Judikative oder Exekutivbehörde, Peter Lang Verlag, Frankfurt a. M, 1997; POTT, Die Außerkraftsetzung der Legalität durch das Opportunitätsdenken in den Vorschriften der §§ 154, 154a StPO, Peter Lang Verlag, Frankfurt a. M, 1996; MUHM RAOUL, Der unabhängige Staatsanwalt. Das italienische Modell, op. cit., pp. 55 ss.; LÖWE-ROSENBERG, Die Strafprozeßordnung und das Gerichtsverfassungsgesetz, Großkommentar, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 24. ed., 1996, sub § 146 GVG; MUHM RAOUL, Dependencia do Ministerio Publico do Executivo na Alemanha, op. cit., p. 121 ss.; MUHM RAOUL, Dependencia del Ministerio Fiscal del Ejecutivo en la Republica Federal Alemana, op. cit, p. 93 ss.; WALTER-FREISE, Le Ministère Public en Allemagne, in Revista do Ministerio Publico, Lisbona, Nr. 6 cadernos (Ministerio Publico. Instrumento do executivo ou orgão do poder judicial?), 1994, pp. 99-105; KUNERT, Wie abhängig ist der Staatsanwalt?, in Festschrift f. Rudolf Wassermann, Verlag Luchterhand, Darmstadt, 1985; KAUSCH, Der Staatsanwalt — Ein Richter vor dem Richter, Dun-
— 1027 — dei procuratori del Pubblico Ministero è da alcuni anni oggetto di dibattiti e studi accademici, avvertiti dall’opinione pubblica con sensibile apprensione (15). Sin dalla pubblicazione dell’articolo « Von Italien lernen » (trad.: Imparare dall’Italia) nel quotidiano nazionale « TAZ », nel quale si auspicava l’introduzione in Germania di istituti giuridici preposti alla garanzia dell’indipendenza dei Pubblici Ministeri ed allo sviluppo di una maggiore, forse più reale ed effettiva, indipendenza dei giudici (16), con riferimento al sistema vigente in Italia, elevando quest’ultimo a modello di paragone (17), è agevole constatare come i suddetti dibattiti vengano riproposti ogni qualvolta uno dei numerosi scandali giudiziari ne dia adito (18). Difatti, frequentemente, l’opinione pubblica tedesca ha dovuto con stupore ed apprensione prendere atto delle apparenti incapacità o delle manifeste difficoltà dei procuratori della Repubblica di esercitare l’azione penale nei confronti di personaggi influenti del mondo politico ed economico (19). Sin troppo spesso le attività dei Procuratori della Repubblica appaiono contraddistinte da solerte inerzia e da facili archiviazioni (20). Con riferimento alle preoccupanti, molteplici forme di influssi ed ingerenze indebite da parte del potere esecutivo nei confronti del Pubblico Ministero si menzioneranno, in questa sede, unicacker & Humbolt, Berlin, 1980; WAX, Der unabhängige Staatsanwalt, in Deutsche Richterzeitung (DRiZ), 1972, p. 163 ss.; GÖRKE, Weisungsgebundenheit und Grundgesetz, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft (ZStW), 1961, p. 560 ss. Con riguardo al rapporto tra Pubblico Ministero e potere politico, nell’ambito di una visione comparatistica, tra i tanti: MAIA COSTA, Il Pubblico Ministero in Portogallo, in Questione Giustizia Nr. 6, 1999, p. 1150 ss.; ANDRÉS IBÁÑEZ, Por un Ministerio Público »dentro de la legalidad », in Nueva Doctrina Penal, Buenos Aires, 1998/B, pp. 435-466; GARAPON, Le gardien des promises-Justice et Democratie, Odile Jacob, Paris, 1996; BRUTI LIBERATI, CERRETTI e GIASANTI, Governo dei giudici — La magistratura tra diritto e politica, Feltrinelli Editore, Milano, 1996; ANDRÉS IBÁÑEZ, Entre politica y derecho: el estatuto del actor publico en el proceso penal, in Cuadernos de derecho judicial, Madrid, 1995, pp. 15-47; PERROT, Institutions Judiciaires, V, Ed. Mont Chrestien, 1993, Paris, p. 48ss, in questo contesto vedasi altresì: Eighth United Nations Congress on the Prevention of Crime and the Treatment of Offenders, « Guideline on the Role of Prosecutors », GA RES 166 (45) del 18 dicembre 1990. (15) SZ, 10 maggio 2000, p. 15 (Gewaltenteilung durch Parteien aufgehoben), 6 maggio 2000, p. 11 (Im Käfig der Politik), 18 gennaio 2000, p. 12, 16 luglio 1998, p. 7, 14 luglio 1998, p. 7, 2 luglio 1998, p. 4. (16) In merito ai limiti dell’indipendenza dei giudici in Germania vedasi: GROß, Verfassungsrechtliche Möglichkeiten und Begrenzungen für eine Selbstverwaltung der Justiz, in Zeitschrift für Rechtspolitik (ZRP), 1999, p. 368 ss.; MUHM RAOUL e MUHM MYRIAM, A Alemanha à procura da independência da magistratura, in Revista do Ministerio Publico, Lisbona, Nr. 76, 1998, p. 83 ss.; MUHM RAOUL e MUHM MYRIAM, Alemania: en busca de la independencia de la magistratura, in Jueces para la democracia, Madrid, Nr. 33, 1998, p. 93 ss; ZRP-Rechtsgespräch, Ein Verstoß gegen die Kultur der Justiz: « Die dritte Gewalt darf nicht alles mit sich machen lassen », in ZRP, 1998, p. 368 ss.; BOHLANDER e LATOUR, Zum Einfluß der politischen Parteien auf die Ernennungen zum Bundesgerichtshof, in ZRP, 1997, pp. 437-439; LAMPRECHT, Vom Mythos der Unabhängigkeit. Über das Dasein und Sosein der deutschen Richter, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 1995; LEISNER, « Gesetzlicher Richter » — vom Vorsitzenden bestimmt? Problematisches Richterrecht aus den Vereinigten Großen BGH-Senaten, in Njw, 1995, pp. 285-289. (17) Die Tageszeitung (TAZ), 24 luglio 1993, p. 11; SZ, 5, 8, 1993, 4 dicembre 1993, p. 7 (Die Justiz im Käfig der Politik — was wäre, wenn italienische Staatsanwälte gegen deutsche Politiker ermitteln würden?). (18) SZ, 6 maggio 2000, 18 gennaio 2000, p. 12; RUDOLPH, Die politische Abhängigkeit der Staatsanwaltschaft, in NJW, 1998, p. 1205; RÜPING, Die Staatsanwaltschaft — Stiefkind der Revolution, in Strafverteidiger (StV), 1997, pp. 276-279; SCHÄFER, Der Rücktritt: Zum Status der Generalstaatsanwälte in Deutschland, in NJW, 1997, p. 1753. (19) SZ, 21 giugno 2000, p. L13. (20) MUHM RAOUL, Dependencia del Ministerio Fiscal del Ejecutivo en la Republica Federal Alemana, op. cit., p. 93 ss.
— 1028 — mente i casi « Baden-Württemberg » (21), « Zwick » (22), « Balsam-AG » (23) e « Hessische Steuerfahndung » (24). Tali fenomeni hanno indotto tra gli altri l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta del Land Baden-Württemberg sulle connivenze tra membri di governo e gli uffici della procura della Repubblica (25). Di attualità sono sia l’opinabile, e per taluni incomprensibile, archiviazione del procedimento penale nei confronti dell’attuale Ministro presidente Koch nell’ambito dello scandalo dei finanziamenti illeciti della CDU dell’Assia (26), sia le risultanze della commissione parlamentare d’inchiesta del Bundestag sui finanziamenti illeciti del partito CDU grazie alle quali è agevole appurare indebite ingerenze da parte del potere esecutivo nei confronti dei procuratori di Augsburg (27). Eventi questi tutti contraddistinti da inusuale interessamento da parte del governo allorquando i procuratori della Repubblica espletavano normale attività requirente in casi in cui vi erano implicati influenti personaggi dell’establishment politico ed economico legati ai partiti politici di maggioranza o a membri di governo (28). Le modalità con cui si esplicava l’influsso indebito consistevano tra l’altro in forme inusitate di richieste da parte del Ministro di giustizia in persona di rapporti/dossier in merito allo sviluppo dell’attività requirente, oppure il suddetto influsso politico-giudiziario si concretizzava sia con l’avocazione, sia con la richiesta di agevoli e compiacenti archiviazioni, sia con la sostituzione del procuratore dell’ufficio del Pubblico Ministero sino a quel momento incaricato (29). I suesposti malesseri inerenti al modello tedesco della pubblica accusa, sono stati negli ultimi anni ulteriormente evidenziati dai successi della magistratura requirente italiana nell’ambito delle inchieste con riferimento ai (21) Bericht und Beschlußempfehlung des Untersuchungsausschusses « Unabhängigkeit von Regierungsmitgliedern und Strafverfolgungsbehörden » — Landtag von BadenWürttemberg, 10. Wahlperiode, Drucksache 10/6666, 17 febbraio 92. (22) MUHM RAOUL, Dependencia do Ministerio Publico do Executivo na Alemanha, op. cit., p. 121; Relazione conclusiva della Commissione Parlamentare di Inchiesta del Landtag bavarese, pubblicazione 12/16599, 6 luglio 1994, p. 43 ss. (23) Istituzione della Commissione Parlamentare di Inchiesta del Lantag Nordrhein— Westfalen, 2 novembre 1994, Drucksache 11/7916. (24) RUDOLPH, op. cit., p. 1205. (25) Bericht und Beschlußempfehlung des Untersuchungsausschusses « Unabhängigkeit von Regierungsmitgliedern und Strafverfolgungsbehörden » — Landtag von BadenWürttemberg, 10. Wahlperiode, Drucksache 10/6666, 17 febbraio 92. (26) SZ, 16 marzo 2000, p. L11, 7 marzo 2000, p. 11, 22 febbraio 2000, p. 4 (Die Staatsanwaltschaft adelt eine Lüge), 9 febbraio 2000, p. 1, 28 gennaio 2000, p. 1. (27) Degno di nota è il comportamento del Ministro della Giustizia bavarese, il quale esortava il Procuratore Generale di prendere in particolar modo in considerazione eventuali prescrizioni al fine di archiviare l’inchiesta nei confronti di Max Strauß, figlio di Franz Josef Strauß e fratello dell’attuale Ministro Monika Strauß/Hohlmeier, cfr. SZ, 5 maggio 2000, p. L8. In questo contesto si consideri altresì l’esposto della frazione dei Verdi del Landtag bavarese nei riguardi del Procuratore Generale di Monaco di Baviera a causa di favoreggiamento personale in atti di ufficio (Strafvereitelung im Amt), cfr. SZ, 7 giugno 2000, p. L8; SZ, 21 giugno 2000, p. L13. SZ, 6 maggio 2000, p. 11 (Justiz wurde in Spendenaffäre behindert), 5. 5. 2000, p. 1, 1 marzo 2000, p. L8. Con riferimento alla Commissione Parlamentare d’inchiesta del Bundestag sui finanziamenti illegali del partito CDU vedasi: BT-DR 14/2139, del 23 novembre 1999; KÖLBEL e MORLOK, Geständniszwang in parlamentarischen Untersuchungen?, in ZRP, 2000, p. 217 ss.; SCHRÖDER, Altes und Neues zum Recht der Parlamentarischen Untersuchungsausschüsse aus Anlass der Cdu Parteispendenaffäre, in NJW, 2000, p. 1455 ss.; Pabel, Verhängung von Beugehaft durch einen Untersuchungsausschuß, in NJW, 2000, p. 788 ss. (28) RUDOLPH, op. cit. p. 1205; MUHM RAOUL e MUHM MYRIAM, A Alemanha à procura da independência da magistratura, op. cit., p. 83 ss.; MUHM RAOUL e MUHM MYRIAM, Alemania: en busca de la independencia de la magistratura, op. cit., p. 93 ss.; MUHM RAOUL, Der unabhängige Staatsanwalt. Das italienische Modell, op. cit, p. 55 ss. (29) RUDOLPH, op. cit. p. 1205; SCHÄFER, op. cit., p. 1753; WALTER-FREISE, op. cit., pp. 99-105.
— 1029 — rapporti illeciti tra potere politico ed economico (30). Tali esiti favorevoli, hanno indotto, come già accennato, parte dell’opinione pubblica e del mondo accademico tedesco a propugnare l’emulazione del modello italiano, in quanto contraddistinto a differenza di quello tedesco, dall’indipendenza del Pubblico Ministero dal potere esecutivo (31). Difatti, il modello tedesco del Pubblico Ministero è caratterizzato da rigida, stretta dipendenza gerarchica dei procuratori della Repubblica dal Ministro di giustizia (32). In questo contesto giova rammentare che i membri dell’Assemblea Costituente tedesca, a differenza dei membri dell’Assemblea Costituente italiana, non si sono preoccupati di sancire costituzionalmente né l’indipendenza personale del procuratore della Repubblica né quella istituzionale del Pubblico Ministero. In questo ambito non ci si può esimere dal sottolineare che quantunque la Legge Fondamentale della Repubblica Federale di Germania (Grundgesetz) possa per taluni aspetti fungere da paradigma (33), essa, con riferimento all’enucleazione dei concetti dello stato di diritto e del garantismo, appare insufficiente. Rare sono difatti le norme costituzionali pertinenti al diritto penale, al diritto processuale penale e all’ordinamento giudiziario. La legge fondamentale tedesca, ad esempio, non prevede l’esistanza di un organo di autogestione della magistratura, paragonabile al CSM, né si preoccupa, come già illustrato, di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero. L’Assemblea Costituente tedesca ha volutamente demandato al legislatore ed alla giurisprudenza il compito di sviluppare e realizzare il concetto dello stato di diritto. Tale « vuoto costituzionale » ha indubitabilmente influito sulla legislazione in merito e più esattamente sulla « non-legiferazione », sia il codice di procedura penale (StPO, promulgato il 1 febbraio 1877), sia la legge sull’ordinamento giudiziario (GVG, promulgata il 27 gennaio 1877) dimostrano tuttora, nonostante i molteplici emendamenti, il notevole influsso di una elaborazione concettuale retriva ed autoritaria (34). Ovviamente, tale contesto normativo influisce sullo status ed il ruolo dei procuratori della Repubblica. In merito alla posizione giuridica del procuratore della Repubblica necessita sottolineare previamente, che sin dall’entrata in vigore della Legge Fondamentale tedesca, si può riscontrare una notevole dicotomia, tra l’altro per la cultura giuridica tedesca alquanto inusitata, tra dottrina e giurisprudenza. Invero, autorevole dottrina, sostenendo comunque l’esigenza di una riforma della struttura gerarchica degli uffici della procura della Repubblica (35) in virtù del principio costituzionale dello stato di diritto, asserisce l’esistenza di un minimo di indipendenza del Pubblico Ministero grazie ad una interpretazione restrittiva, costituzionalmente (30)
VON BÜLOW, Im Namen des Staates, Piper Verlag, München, 3. ed., 1999, p.
310. (31) Vedasi l’attenta analisi in « Von Italien lernen » (trad.: « Imparare dall’Italia »), Die Tageszeitung, 24 luglio 1993, p. 11. Vedasi altresì: Süddeutsche Zeitung, no. 178, 5 agosto 1993, p. 3. (32) ALBRECHT, Peter-Alexis, Kriminologie, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 1999, p. 177; KLEINKNECHT/MEYER, Strafprozessordnung, Kommentar, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 41. ed., 1993, p. 1718-1720; ROXIN, Strafverfahrensrecht, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 23. ed. 1993, p. 44 ss; PFEIFFER, Karlsruher Kommentar zur Strafprozessordnung, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München, 2. ed., 1987, p. 1807; LÖWE-ROSENBERG, Die Strafprozessordnung und das Gerichtsverfassungsgesetz, Grosskommentar, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 23. ed., 1979, sub § 146 GVG, p. 33 ss. (33) Ad esempio, per quanto concerne l’assetto della struttura federale, nonché l’istituto del voto di sfiducia costruttivo. (34) LAMPRECHT, Wie transparent ist die Justiz?, in ZRP, 1993, p. 372 ss. (35) LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 38 ss.; PFEIFFER, op. cit., p. 1810; WAGNER, Der objektive Staatsanwalt — Idee und Wirklichkeit, in JZ, 1974, 320; ARNDT, Umstrittene Staatsanwaltschaft, in NJW, 1961, 1616. ROXIN, op. cit., p. 51.
— 1030 — adeguatrice, delle norme del codice di procedura penale e della legge sull’ordinamento giudiziario (36). Ora, il primo problema che insorge è quello della natura giuridica del Pubblico Ministero. Una cospicua parte della dottrina intravede nel Pubblico Ministero un’organo dell’ordinamento giudiziario, applicando ad esso il concetto di potere giudiziale ai sensi dell’art. 92 della Legge Fondamentale (37). Tale assunto permette ad una parte della dottrina di dedurre l’indipendenza dei procuratori della Repubblica, assimilandoli alla categoria dei giudici, dall’art. 97, 1o comma della Legge Fondamentale. Una simile equiparazione viene respinta non solo dalla giurisprudenza, bensì anche dalla dottrina maggioritaria, poiché i summenzionati articoli dispongono che il potere giudiziale sia affidato unicamente ai giudici (Richter) (38). Secondo la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria il Pubblico Ministero è un organo di amministrazione e tutela della giustizia sui generis (Organ der Rechtspflege sui generis) facente comunque parte del potere esecutivo (39). Il problema che ne deriva riguarda la liceità di un assetto rigidamente gerarchico del Pubblico Ministero, così come previsto dal testo normativo (40). Difatti, in ossequio alla legge sull’ordinamento giudiziario, il singolo procuratore della Repubblica sottostà in virtù dei §§ 146 e 147 GVG, al potere di direzione ed istruzione non solo generica, bensì specifica, del suo superiore gerarchico (41). Il suddetto superiore gerarchico può essere sia il procuratore capo della propria procura della Repubblica (Leiter der Staatsanwaltschaft) sia il procuratore generale presso la Corte di Appello, sia infine il Ministro della giustizia del Land (42). In questo ambito, giova previamente rammentare che in Germania, a causa della struttura federale, vi è una bipartizione dell’amministrazione della giustizia. Essa, di norma, è di competenza dei singoli Länder, cosicché i procuratori della Repubblica presso i tribunali e le corti di appello sottostanno al Ministro della giustizia del Land. Unicamente la Procura Federale della Repubblica presso la Corte Suprema Federale di Cassazione sottostà all’amministrazione federale e dunque al Ministro federale della giustizia (43). Con riferimento all’assetto gerarchico occorre specificare che ai sensi del § 145 GVG il superiore ha inoltre, in ogni fase dell’inchiesta, il potere di devoluzione, ossia di avocazione delle indagini e di sostituzione del procuratore incaricato (44). Ovviamente, mentre il diritto di sostituzione può essere esercitato anche dal Ministro di giustizia, il potere di devoluzione, ossia di avocazione delle indagini, può competere unicamente ai superiori in funzione di Pubblico Ministero, in virtù della loro qualità di membri della procura della Repubblica (45). Ciò comporta che sarà o il procuratore generale del Land, o quello della Repubblica Federale ad esercitare, come ultimo superiore gerarchico « interno », (36) ROXIN, op. cit., p. 48 ss.; FEZER, Strafprozessrecht I, Verlag C. H. Beck, München, 1. ed., 1986, p. 28. (37) HENN, Zum Ministeriellen Weisungsrecht gegenüber der Staatsanwaltschaf’, in DRiZ, 1972, p. 152; WAGNER, Zur Weisungsgebundenheit der Staatsanwälte, in NJW, 1963, p. 8. (38) ROXIN, op. cit., p. 48; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 37. (39) ROXIN, op. cit., p. 48; FEZER, op. cit., p. 29; KLEINKNECHT/MEYER, op. cit., p. 1708 ss.; GUARNIERI, Magistratura e Politica in Italia, Società Editrice Il Mulino, 1992, p. 56. (40) ROXIN, op. cit., p. 48 ss.; BADER, Staatsgewalt und Rechtspflege, in JZ, 1956, p. 4; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 35. (41) KLEINKNECHT/MEYER, op. cit.; p. 1718-1719; PFEIFFER, op. cit., p. 1810; FEZER, op. cit., p. 27 ss. (42) FEZER, op. cit., p. 27 ss.; KLEINKNECHT/MEYERa, op. cit., p. 1718-1719. (43) Va specificato che la procura federale della Repubblica e, ai sensi degli articoli 142a e 120 dell’ordinamento giudiziario, eccezionalmente competente per i reati di terrorismo, spionaggio, attentato alla costituzione, etc., ossia unicamente per quel tipo di illecito che lede gli interessi istituzionali della Repubblica Federale di Germania nella sua totalità. (44) ROXIN, op. cit., p. 49; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 145 GVG, p. 29. (45) FEZER, op. cit., p. 27; PFEIFFER, op. cit., p. 1808.
— 1031 — eventualmente su istruzione del Ministro di giustizia, il diritto di devoluzione. Ne consegue, in conclusione, che il potere politico può in ogni fase influire sul decorso dell’azione penale sia ordinando l’archiviazione (46), sia definendo le modalità dell’inchiesta, sia sostituendo i procuratori incaricati, sia avocando le indagini. Inoltre, giova considerare che l’esercizio dei suindicati provvedimenti del superiore gerarchico non sono soggetti ad obblighi formali in quanto non necessitano alcuna motivazione oppure documentazione (47). Ed invero istruzioni orali sono assolutamente sufficienti e d’altronde rappresentano comune prassi. Appare opportuno sottolineare, altresì, che nei confronti dei provvedimenti del superiore gerarchico non è prevista tutela giudiziaria (48). In considerazione di quanto sopra esposto la dottrina maggioritaria è incline a limitare i poteri del superiore gerarchico soprattutto in virtù del fatto che il principio di obbligatorietà in Germania sottostà a ragguardevoli eccezioni (49). Il principio di obbligatorietà (Legalitätsprinzip), a differenza del sistema italiano (vedi Art. 112 CI), non è sancito costituzionalmente, ma viene desunto dal principio di eguaglianza (Art. 3 Grundgesetz) (50). Tale principio, così evinto, è posto in relazione di conflittualità con il principio costituzionale di proporzionalità (51). Ne consegue che il principio di obbligatorietà, così come previsto dal § 152, 2o comma del codice di procedura penale tedesco, viene delimitato dal principio di opportunità (Opportunitätsprinzip, vedi §§ 153 e seguenti StPO) (52), il quale è, a sua volta,espressione del principio costituzionale di proporzionalità (53). Secondo il principio di opportunità, qualora il reato venga ritenuto di lieve entità e non vi sia un interesse pubblico all’azione penale, il Pubblico Ministero può chiedere l’archiviazione al giudice competente o in casi particolari archiviare autonomamente (54). Necessita rammentare inoltre, che qualora il Pubblico Ministero sia del’opinione che il fatto non costituisca reato, oppure che il fatto non sussista, quest’ultimo deterrà sempre la facoltà di archiviare autonomamente il procedimento, senza intervento alcuno del giudice. Proprio queste ingenti facoltà di poter archiviare autonomamente hanno fatto sorgere la questione se il Pubblico Ministero non fosse in realtà un giudice prima del giudice (Richter vor dem Richter) (55). Se si considera altresì la prassi di utilizzo di, tra le singole procure dei Länder, differenti direttive generiche ai fini dell’applicazione delle disposizione penali, non è difficile comprendere come il Pubblico Ministero venga anche definito come un legislatore prima del legislatore (Gesetzgeber vor dem Gesetzgeber) (56). Va rilevato in questo ambito, che i procuratori della Repubblica hanno di frequente archiviato autonomamente, in applicazione del principio di opportunità, proprio quei casi in cui erano coinvolti personaggi del mondo politico e dell’alta finanza (57). Ciò rende più agevolmente comprensibili i timori della dottrina (46) Ovviamente, nei limiti imposti dai §§ 258a, 344 StGB, ossia Codice Penale della Repubblica Federale di Germania, i quali vietano il favoreggiamento personale in atti di ufficio e l’abuso d’ufficio tramite persecuzione indebita. (47) LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 40; PFEIFFER, op. cit., p. 1809. (48) BGHZ, 42, 170; KLEINKNECHT/MEYER, op. cit., p. 1719; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 35. (49) FEZER, op. cit., p. 19; ROXIN, op. cit., p. 76. (50) BVerfGE, 9, 223; KLEINKNECHT/MEYER, op. cit., p. 625; ROXIN, op. cit., p. 76; FEZER, op. cit., p. 7. (51) FEZER, op. cit., p. 8. (52) ROXIN, op. cit., p. 76. (53) FEZER, op. cit., p. 8. (54) ROXIN, op. cit., p. 76 ss. (55) Albrecht, PETER-ALEXIS, op. cit., p. 176. (56) Albrecht, PETER-ALEXIS, op. cit., p. 177; AULINGER, § 31a BtMG — Der Auftrag des BVerfG und die Rechtswirklichkeit, in Neue Zeitschrift für Strafrecht (NStZ), 1999, pp. 111, 112. (57) In merito vedasi note no. 17, 19 e 31. In questo contesto si consideri altresì il dibattito sull’eventuale applicazione del principio di opportunità nei confronti di Kohl. Cfr.
— 1032 — maggioritaria la quale paventa in determinati casi una applicazione pericolosamente indulgente delle norme in merito all’archiviazione. In considerazione di quanto sopra esposto nell’ intento di limitare il rapporto di subordinazione del procuratore della Repubblica nell’espletamento dell’azione penale, la dottrina propugna talvolta la tesi dell’insussistenza di un vincolo gerarchico tra il Ministro della giustizia ed i singoli procuratori della Repubblica, basandosi su quella dottrina che assimila la funzione del Pubblico Ministero al potere giudiziale, in quanto organo dell’ordinamento giudiziario (58). Anche viene sostenuta talora la tesi dei limiti impliciti del diritto di direttiva ed istruzione in virtù della natura giuridica del Pubblico Ministero, in quanto organo di amministrazione e tutela della giustizia sui generis, vincolato dall’obbligo di veridicità e giustizia (59). Parte della dottrina è altresì dell’opinione che almeno nella fase dibattimentale il procuratore della Repubblica debba poter agire secondo convincimento e coscienza, godendo di piena autonomia (60). Ora, per quanto venga avvertita l’esigenza dell’indipendenza del procuratore della Repubblica, il contesto normativo non rende plausibili le suesposte costruzioni dogmatiche (61). Difatti la giurisprudenza in merito si è sempre attenuta ad una interpretazione tradizionale delle disposizioni attinenti allo status ed al ruolo dei procuratori della Repubblica (62). Giova però rilevare che a causa delle palesi carenze del sistema vigente in Germania, con riferimento allo status ed al ruolo del Pubblico Ministero, è stata reclamata, vista l’impossibilità di una soluzione interpretativa, una riforma globale della struttura gerarchica del Pubblico Ministero (63). Degno di nota appare il progetto ministeriale di riforma del 1976, proposto per conto del Ministero Federale della Giustizia, il quale prevede l’introduzione di molteplici garanzie a favore del procuratore della Repubblica subalterno (64). Ad esempio, al § 146, 1o comma GVG del progetto legge si prevede che i procuratori abbiano il diritto di adempiere ai propri incarichi, nell’ambito delle direttive ed istruzioni dei propri superiori, in modo autonomo e secondo la propria responsabilità (65). Al § 146, 2o comma GVG del progetto legge viene introdotto l’obbligo di documentare per iscritto le istruzioni impartite dal superiore in merito ad un procedimento specifico (66). Qualora, per motivi di urgenza, le suindicate istruzioni dovessero essere impartite oralmente, quest’ultime dovranno poi essere confermate per iscritto entro 48 ore. Il § 146a, 1o comma GVG del progetto legge sancisce il diritto del procuratore subalterno di non eseguire, tranne che in casi di urgenza, le istruzioni riguardanti un caso specifico, qualora quest’ultimo dubiti della liceità o sia persuaso dell’illiceità dell’istruzione (67). Infine il § 146b, 1o comma GVG del progetto legge stabilisce il principio della piena autonomia del procuratore della Repubblica durante la fase dibattimentale (68). In questo modo si intende per lo méno limitare il potere gerarchico interno ed esterno, ossia dell’esecutivo, aumentare la trasparenza dell’esercizio della procura della Repubblica e al contempo conferire, nonché SZ, 24 luglio 2000, pp. 1 (Handel mit Gerechtigkeit), 4 (Einstellung gegen Kohl ? Verboten!). (58) WAGNER, op. cit., in NJW, 1963, p. 8. (59) ROXIN, op. cit., p. 48 ss; FEZER, op. cit., p. 28. (60) ROXIN, op. cit., p. 49; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 42. (61) FEZER, op. cit., p. 29; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 37. (62) BECKEMPER, Der Antrag auf Bestellung eines Pflichtverteidigers im Ermittlungsverfahren, in NStZ, 1999, p. 221 ss.; KLEINKNECHT/MEYER, op. cit., p. 1719. (63) LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 41; ROXIN, op. cit., p. 51; PFEIFFER, op. cit., p. 1809. (64) LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 145 GVG, p. 41; PFEIFFER, op. cit., p. 1810. (65) PFEIFFER, op. cit., p. 1810; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 40. (66) LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 40; PFEIFFER, op. cit., p. 1810. (67) In merito vedasi nota no. 41; LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 40. (68) LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 41.
— 1033 — riconoscere, al procuratore della Repubblica almeno durante il dibattimento (69) maggiore dignità professionale e morale. In proposito appare opportuno ricordare come nonostante in relazione ad un assetto dogmatico-istituzionale notevolmente differente, tale progetto di riforma, in virtù della considerata esigenza di una maggiore indipendenza del Pubblico Ministero, sostenga l’introduzione di garanzie e meccanismi che rammentano, per lo méno nella loro funzione di una maggiore trasparenza, talune disposizioni del codice di procedura penale italiano. Si consideri ad esempio l’art. 53, 1o comma CPP, il quale sancisce la piena autonomia del Pubblico Ministero nell’esercizio delle proprie funzioni durante l’udienza, oppure l’art. 372, 1o comma CPP, il quale prevede l’obbligo di motivare il decreto di avocazione. Altresì va menzionato che la necessità di una riforma del sistema gerarchico della procura della Repubblica in Germania non è unicamente avvertita dalla dottrina e dai tecnici ministeriali, bensì tale esigenza è stata ribadita anche nell’ambito dell’inchiesta parlamentare del Land Baden-Württemberg (70). Essa, invero, ha esaminato le connivenze tra il Ministero della Giustizia ed i funzionari degli uffici della procura delle Repubblica, i quali frequentemente decretavano l’archiviazione dell’azione penale nei casi in cui erano coinvolti personaggi strettamente legati ai membri di governo (71)). A seguito di questa inchiesta parlamentare i rappresentanti della FDP, il partito liberale, in quel periodo membro della coalizione governativa a Bonn, hanno sostenuto che le attività della procura della Repubblica non appaiono conformi agli obblighi imposti dalla legge (72), altresì è stata constatata con preoccupazione l’esistenza di un eccessivo interessamento da parte del Ministro della giustizia del Land Baden-Württemberg con riferimento alle modalità dello svolgimento dell’azione penale nei confronti di personaggi influenti in stretto rapporto con i rappresentanti governativi (73). E hanno concluso proponendo che i procuratori della Repubblica debbano poter agire analogamente ai giudici, in modo indipendente e liberi da istruzioni (74). In tal modo verrebbe meno il sospetto di connivenze ed ingerenze illecite. Infine i rappresentanti della FDP hanno auspicato una riforma al fine di eliminare l’attuale struttura gerarchica di subordinazione alle istruzioni (75). Giova in questo contesto sottolineare che le richieste di una maggiore trasparenza dell’esercizio della procura della Repubblica e l’eliminazione della struttura gerarchica di subordinazione alle istruzioni sono state riproposte con vigore anche dall’Associazione Tedesca dei Giudici, la quale, inequivocabilmente sostiene la necessità di una riforma dell’ attuale sistema, in particolar modo l’eliminazione del diritto di istruzioni nei casi concreti da parte dei ministri di giustizia (76). Queste richieste sono state di recente, proprio come conseguenza del caso Kohl, ribadite e precisate da Horst Böhm, presidente dell’Associazione Bavarese dei Giudici (Bayerische Richtervereinigung), specialmente ove vi siano inchieste politicamente rilevanti o laddove vi siano notevoli interessi economici (77). Considerato il reale pericolo di ingerenze indebite, Horst Böhm specifica che una simile riforma è necessaria già al mèro scopo di eliminare qualsivoglia sospetto di ingerenza (78). Da quanto suesposto si può dedurre in conclusione che il modello tedesco del Pubblico Ministero, contraddistinto da stretta dipendenza gerarchica dall’esecutivo, non appare idoneo né a garantire un operato libero da influssi esterni, e quindi imparziale, né a garantire la (69) LÖWE-ROSENBERG, op. cit., sub § 146 GVG, p. 42. (70) In merito vedasi la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta, riportata in nota no. 21. (71) Idem, p. 20. (72) Idem, p. 924. (73) Idem, p. 925. (74) Idem, p. 925. (75) Idem, p. 925. (76) Leitlinien des DRB, Nr. 34, www. drb. de. (77) Stern Nr. 22, 25 maggio 2000, pp. 210, 211. (78) Stern Nr. 22, 25 maggio 2000, pp. 210, 211.
— 1034 — realizzazione del precetto costituzionale dell’eguaglianza di fronte alla legge. Il caso Kohl ha evidenziato ulteriormente le già note carenze del modello tedesco rafforzando in molteplici ambienti, politico-istituzionali e dottrinali, l’anelito della tanto auspicata introduzione, per lo méno parziale, dell’indipendenza del Pubblico Ministero (79). RAOUL MUHM Assessor (München)
(79)
RÜPING, op. cit., pp. 276-279.
RASSEGNE
a) GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE (*) CODICE DI PROCEDURA PENALE
INDAGINI PRELIMINARI E UDIENZA PRELIMINARE a) Condizioni di procedibilità ART. 340 Remissione della querela Ordinanza 17 dicembre 1999, n. 451 Manifesta infondatezza (in G.U., 22 dicembre 1999, n. 51) Con l’ordinanza n. 451 del 1999 la Corte costituzionale dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 340, comma 4, c.p.p., sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la non trasmissibilità dell’obbligazione per il pagamento delle spese del procedimento agli eredi del remittente la querela. Secondo la Corte tale ipotesi non è equiparabile a quella cui si trovano gli eredi del condannato al rimborso delle spese processuali, in quanto trattasi di due situazioni diverse, come tali disciplinate in modo differente. Mentre, infatti, in questa seconda ipotesi, il debito di rimborso delle spese processuali gravante sul condannato, ‘‘a seguito dell’introduzione della remissione del debito (art. 56 della l. 26 luglio 1985, n. 354, ‘Ordinamento penitenziario’) e del rilievo che in essa assumono gli indici di ravvedimento del condannato e l’esigenza di agevolarne il reinserimento sociale, è divenuto assimilabile alle sanzioni economiche accessorie della pena, ed è quindi partecipe della finalità di emenda e del carattere di personalità propri della pena in forza dell’art. 27 della Costituzione’’ (vd. sent. n. 98 del 1998), nell’ipotesi di remissione della querela l’obbligo di rifondere le spese della giustizia rientra nella categoria delle obbligazioni trasmissibili agli eredi secondo i principi civilistici, come unanimemente affermato sia in giurisprudenza, sia in dottrina.
b) Arresto in flagranza e fermo ART. 391 Udienza di convalida Ordinanza 29 ottobre 1999, n. 412 Manifesta infondatezza (in G.U., 3 novembre 1999, n. 44) Con l’ordinanza n. 412 del 1999 viene dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 391 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 (*)
A cura di Marilisa D’Amico.
— 1036 — Cost., nella parte in cui non prevede ‘‘la necessaria presenza di un rappresentante della polizia giudiziaria che ha partecipato alle operazioni di arresto e con diretta cognizione dei fatti o, comunque, non consente al giudice per le indagini preliminari procedente di chiedere l’intervento del predetto, anche a chiarimento dei fatti’’. La Corte costituzionale, in primo luogo, afferma come non sia conferente il tertium comparationis addotto dal giudice a quo a sostegno della supposta violazione dell’art. 3 Cost., in quanto l’art. 391 c.p.p. e l’art. 566 c.p.p. disciplinano due istituti diversi (l’art. 566 c.p.p., disciplinante la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio direttissimo per i procedimenti di fronte al pretore — ove è appunto prevista la possibilità di sentire gli ufficiali o gli agenti della polizia giudiziaria che hanno eseguito all’arresto — potrebbe, invece, in ipotesi, essere confrontato con l’art. 449 c.p.p. disciplinante il medesimo istituto davanti al tribunale). Inoltre, la relazione orale di cui all’art. 566, comma 3, c.p.p., preordinata a consentire agli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria che hanno eseguito l’arresto di surrogare o integrare la comunicazione scritta della notizia di reato prevista dall’art. 347, comma 1, c.p.p., e quindi priva di quelle connotazioni testimoniali cui il giudice rimettente vorrebbe attribuirle, non potrebbe assolvere comunque, nell’udienza di convalida, alla funzione di consentire al giudice di chiarire i contrasti tra verbale di arresto e contenuto delle dichiarazioni rese dagli arrestati. Un’addizione nel senso chiesto dal giudice comporterebbe, in attuazione del principio del diritto alla prova, la necessità di ammettere altri testimoni indicati dal pubblico ministero e dai difensori, con il rischio di snaturare la funzione e la natura dell’udienza di convalida e di prolungarne i tempi, finendo per violare ‘‘il termine delle quarantotto ore’’ che la Costituzione impone a tutela della libertà personale. La Corte rileva come non vi sia violazione neanche dell’art. 24 Cost., dal momento che il diritto di difesa è garantito dalla presenza del difensore e dall’interrogatorio degli arrestati, e, comunque, in caso di lacunosità o di contraddittorietà degli elementi sottoposti al suo esame, il giudice è tenuto a non convalidare l’arresto. In ordine all’art. 97 Cost., infine, si ribadisce come tale norma non si riferisca all’attività giurisdizionale in senso stretto, ma all’organizzazione e al funzionamento della giustizia.
c) Incidente probatorio ART. 392 Casi Sentenza 19 novembre 1999 n. 428 Non fondatezza (in G.U., 24 novembre 1999, n. 47) Con la sentenza n. 428 del 1999 la Corte ha deciso la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 392, comma 1, lett. c) e d), c.p.p., nella parte in cui consente l’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri e delle persone imputate in un procedimento connesso senza che ricorrano le circostanze previste alle lettere a) e b) dello stesso articolo e quindi ‘‘in un momento scelto discrezionalmente dalla parte che conduce le indagini’’. I giudici rimettenti ritengono che l’ampia possibilità di assumere mediante incidente probatorio l’esame di tali soggetti — introdotta dall’art. 4, comma 1, l. 7 agosto 1997, n. 267, mediante l’eliminazione del richiamo alle condizioni previste per l’esame dei testimoni alle lett. a) e b) — doveva ritenersi collegata al più restrittivo regime di utilizzazione dibattimentale delle dichiarazioni rese in precedenza su fatto altrui, contestualmente previsto dalla modifica dell’art. 513, commi 1 e 2, c.p.p. Una volta intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998, che ha fatto venire meno i limiti di utilizzazione delle dichiarazioni rese su fatto altrui dai soggetti indicati alle lett. c) e d) dell’art. 392 c.p.p., ritengono sia irragionevole consentire l’anticipazione della formazione della prova mediante incidente
— 1037 — probatorio, con la conseguente perdita di concentrazione e immediatezza. Rilevano inoltre una violazione del principio di uguaglianza, poiché l’art. 392 c.p.p. prevederebbe una disciplina differente per l’assunzione delle dichiarazioni di soggetti che si trovano, invece, ora ad avere la medesima posizione processuale (coimputati o imputati in procedimento connesso e testimoni). Il fatto che la persona sottoposta alle indagini sia costretta a subire l’esame dell’imputato o del coimputato in una sede diversa da quella del dibattimento, senza avere la possibilità di tenere conto di tutti gli elementi acquisiti durante le indagini preliminari e delle prove eventualmente acquisite nel corso del dibattimento, comporterebbe, infine, una violazione del fondamentale diritto alla difesa. La Corte risponde con una decisione di infondatezza. In primo luogo, a fronte della censura di irragionevolezza dell’intera disciplina si osserva come il sistema che, a prescindere dal presupposto della non rinviabilità al dibattimento, consente di assicurare anticipatamente la formazione di tale prova, rende le parti maggiormente garantite anche nell’ipotesi in cui il dichiarante in dibattimento si rifiuti di rispondere. Infondata è anche la censura relativa alla presunta violazione del principio di uguaglianza, in quanto le posizioni del coimputato e dell’imputato in reato connesso sono state assimilate dalla Corte a quelle dei testimoni, ma esclusivamente ai fini delle contestazioni nell’esame dibattimentale. Infine, non vi è alcuna violazione del diritto di difesa, in primo luogo, perché l’incidente probatorio può essere chiesto anche dalla difesa degli imputati (come era peraltro accaduto nei giudizi a quo), in secondo luogo e soprattutto, perché il codice di procedura penale prevede la possibilità, in questi casi, di prendere cognizione delle dichiarazioni rese dalla persona da esaminare (art. 398, comma 3, c.p.p.) e, se l’incidente viene chiesto durante l’udienza preliminare, del complesso degli atti delle indagini preliminari (artt. 419, commi 2 e 3, c.p.p. e 131 disp. att. c.p.p.).
d) Chiusura delle indagini preliminari ART. 406 Proroga del termine Sentenza 20 maggio 1999 n. 182 Non fondatezza (in G.U., 26 maggio 1999, n. 21) Con la sentenza n. 182 del 1999 la Corte decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 406, comma 1, c.p.p., ‘‘nella parte in cui prevede che la richiesta del p.m. contiene solo ‘indicazione della notizia di reato’ (tenuto conto della restrittiva interpretazione comunemente data a tale accezione da intendersi alla stregua di ‘diritto vivente’) e non anche le comunicazione sulle iscrizioni prescritte dall’art. 335 c.p.p.’’. Secondo il giudice rimettente vi sarebbe una violazione del diritto di difesa, di cui all’art. 24 Cost., in quanto la mera indicazione delle norme sostanziali violate non consentirebbe all’indagato, anche a causa del brevissimo termine a disposizione per presentare memorie, di spiegare una difesa efficace, con la conseguenza di rendere la dialettica cartolare del tutto fittizia. Vi sarebbe, inoltre, una violazione dell’art. 3 Cost., per il differente trattamento riservato a chi, avendo ricevuto l’informazione di garanzia, è già a conoscenza del fatto addebitatogli e chi, invece, ricevendo come primo atto del procedimento la richiesta di proroga, si trova ad esercitare il proprio diritto di difesa entro spazi più ristretti. A tal fine il giudice a quo chiede alla Corte un intervento di tipo ‘‘additivo’’, in modo che l’atto con cui il pubblico ministero chiede la proroga dei termini delle indagini preliminari contenga tutti gli elementi previsti dall’art. 369 c.p.p. per l’informazione di garanzia.
— 1038 — Prima di entrare nel merito della decisione la Corte definisce con maggior chiarezza il thema decidendum, osservando come il richiamo operato dal giudice a quo all’art. 335 c.p.p. sia solo indiretto, intendendo il rimettente denunciare la complessiva disciplina, in base alla quale le iscrizioni di cui all’art. 335 c.p.p. (che riproducono sostanzialmente il contenuto dell’informazione di garanzia di cui all’art. 369 c.p.p.) sono comunicate alla persona alla quale il reato è attribuito ove ne faccia richiesta. Ciò chiaramente avviene, il più delle volte, ove quest’ultima abbia ricevuto un’informazione di garanzia. Diversamente, l’indagato cui è notificata la richiesta di proroga del termine delle indagini preliminari, non essendo stato posto fino a quel momento nelle condizioni di sapere che il suo nome è stato iscritto nel registro cui all’art. 335 c.p.p. e non avendo quindi avuto la possibilità di chiedere la comunicazione delle iscrizioni contenute nel medesimo registro, non avrà la possibilità neanche in quella occasione di spiegare efficacemente la sua difesa. Di qui l’inevitabile rinvio, da parte del giudice a quo, quale contenuto dell’ ‘‘addizione’’ chiesta alla Corte, al contenuto dell’informazione di garanzia di cui all’art. 269 c.p.p. La Corte dichiara la questione non fondata attraverso una sentenza di rigetto ‘‘per errata premessa interpretativa’’ (o di rigetto ‘‘con interpretazione’’). Si afferma, infatti, come il giudice a quo si sia basato su un’errata interpretazione della nozione di ‘‘notizia di reato’’, la quale assume contenuti diversi a seconda delle finalità perseguite dalla norma che di volta in volta la prevede. In questo senso, rilevando da parte del giudice rimettente ‘‘una certa enfatizzazione’’ della giurisprudenza restrittiva, la Corte osserva come il riferimento alla ‘‘notizia di reato’’ contenuto nell’art. 406, comma 1, c.p.p. debba essere interpretato in modo da consentire all’indagato, seppure nel rispetto delle esigenze di tutela della segretezza delle indagini, di conoscere non solo le norme di legge che si assumono violate, ma anche la data e il luogo dei fatti, per poter utilmente contestare i ‘‘giusti motivi’’ della proroga addotti dal pubblico ministero. Tale soluzione interpretativa deriva inoltre dalla considerazione che il procedimento in questione non è articolato dall’art. 127 c.p.p. relativo ai procedimenti in camera di consiglio, ma nelle forme ben più ridotte di cui all’art. 406, commi 3 e 4, c.p.p., ossia senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori. Questi ultimi saranno infatti sentiti, secondo le forme previste dall’art. 127 c.p.p., solo ove il giudice ritenga di non accogliere, allo stato degli atti, la richiesta di proroga. Ordinanza 3 giugno 1999, n. 216 Manifesta infondatezza (in G.U., 9 giugno 1999, n. 23) Con l’ordinanza n. 216 del 1999 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 97, comma 1, e 101, comma 2, Cost., dell’art. 406, comma 3, c.p.p., ‘‘laddove dispone che la notificazione della richiesta del pubblico ministero di proroga del termine per il compimento delle indagini preliminari avviene a cura del giudice anziché del pubblico ministero’’. La questione viene dichiarata manifestamente infondata per la non pertinenza dei parametri invocati. In primo luogo, infatti, si ribadisce, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, che l’art. 97 Cost., che sancisce il buon andamento della pubblica amministrazione, attiene esclusivamente all’ordinamento degli uffici giudiziari e al loro funzionamento sotto il profilo amministrativo, mentre è del tutto estraneo al tema dell’esercizio della funzione giurisdizionale nel suo complesso e in relazione ai diversi provvedimenti che ne costituiscono l’esercizio. Quanto all’art. 101 Cost. si rileva come i pretesi condizionamenti di fatti e limitazioni operative che gli oneri impropri relativi alle notificazioni eserciterebbero sullo svolgimento dell’attività dell’amministrazione della giustizia sono da circoscrivere a profili di mero fatto privi di rilievo costituzionale. Si osserva, infine, come, in ogni caso, la scelta censurata appartenga alla discrezionalità del legislatore ed essa non sia stata esercitata arbitrariamente, tenuto conto che il conferi-
— 1039 — mento al giudice del compito di disporre le notificazioni della richiesta di proroga appaia predisposta a consentire al giudice di verificare se, in relazione alla fattispecie di reato ipotizzata dal pubblico ministero, la notifica debba essere o no disposta, restando essa preclusa, ai sensi dell’art. 406, comma 5-bis, c.p.p., quando si procede per uno dei delitti di cui all’art. 51-bis dello stesso codice. ART. 409 Provvedimenti del giudice sulla richiesta di archiviazione Ordinanza 18 maggio 1999 n. 176 Manifesta infondatezza (in G.U., 26 maggio 1999, n. 21) Con l’ordinanza n. 176 del 1999 la Corte dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., dell’art. 409, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari possa ordinare al pubblico ministero di iscrivere nel registro delle notizie di reato il nome della persona che sia da considerare indiziata. Si rileva, infatti, come il giudice rimettente, sotto l’apparenza di una questione di legittimità costituzionale, in realtà si limiti a denunciare una problematica di mero fatto, determinata da un contrasto tra uffici tale da creare una stasi nel procedimento. Il quadro normativo è invece tale da consentire al giudice, nell’ipotesi in cui non ritenga di poter accogliere la richiesta di archiviazione e ove nel procedimento non figurino persone formalmente sottoposte alle indagini, di disporre l’iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. del nome del soggetto cui quel reato sia da attribuire, a prescindere dal ‘‘tipo’’ di archiviazione richiesta dal pubblico ministero.
PROCEDIMENTI SPECIALI a) Applicazione della pena su richiesta delle parti ART. 446 Richiesta di applicazione della pena e consenso Ordinanza 17 dicembre 1999, n. 454 Manifesta infondatezza (in G.U., 22 dicembre 1999, n. 51) Con l’ordinanza n. 454 del 1999 la Corte decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 446, comma 1, c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede la possibilità di applicazione della pena su richiesta delle parti anche nel giudizio di appello, quando in esso si proceda alla rinnovazione del dibattimento a norma dell’art. 604, comma 6, c.p.p.’’. Premesso che il giudice di primo grado, in accoglimento dell’eccezione preliminare dell’imputato, aveva pronunciato, prima dell’apertura del dibattimento, sentenza di non luogo a procedere ai sensi degli artt. 129 e 529 c.p.p. per mancanza di valida querela, il giudice rimettente, in veste di giudice d’appello, avendo annullato tale sentenza ed essendosi riservato di disporre la rinnovazione del dibattimento ex art. 606, comma 6, c.p.p., rileva, a fronte della richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti presentata dalla difesa dell’imputato, come l’art. 446, comma 1, c.p.p., consentendo di richiedere l’applicazione della pena solo fino all’apertura del dibattimento, comporti, in ipotesi come quella in oggetto, una violazione degli artt. 24 e 3 della Costituzione. La Corte, accogliendo sostanzialmente i motivi di infondatezza proposti dai difensori della parte civile costituitasi nel processo costituzionale, dichiara la manifesta infondatezza della questione, in quanto l’omessa presentazione della richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti entro il termine di cui all’art. 446, comma 1, c.p.p., e la conseguente
— 1040 — impossibilità per il giudice di secondo grado di riconsiderare tale richiesta, è dipesa dalla scelta difensiva di sollecitare in via esclusiva, nel giudizio di primo grado, la richiesta di proscioglimento anticipato per un supposto vizio dell’atto di querela. Mentre nel caso deciso con la sentenza n. 101 del 1993 l’inosservanza del termine per la presentazione della richiesta era stata effettivamente determinata da un evento non evitabile dall’interessato, come il suo legittimo e assoluto impedimento, del quale era pervenuta in ritardo la notizia, a presenziare all’udienza dibattimentale, nell’ipotesi qui in esame ben avrebbero potuto i difensori degli imputati chiedere, entro il termine di cui all’art. 406, comma 1, c.p.p., subordinatamente alla richiesta di proscioglimento, l’applicazione della pena, con la conseguenza che il giudice di secondo grado avrebbe potuto, in applicazione dell’art. 604, comma 6, c.p.p., in riforma della sentenza di proscioglimento, pronunciare la sentenza di patteggiamento.
b) Procedimento per decreto ART. 459 Casi di procedimento per decreto Ordinanza 3 giugno 1999, n. 217 Manifesta infondatezza (in G.U., 9 giugno 1999, n. 23) Con l’ordinanza n. 217 del 1999 la Corte si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 459, terzo comma, c.p.p., ‘‘ nella parte in cui non prevede che il giudice, se ritiene necessarie ulteriori indagini a seguito della richiesta di decreto penale avanzata dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari, fissi un termine al pubblico ministero per il compimento delle stesse’’. La questione viene dichiarata manifestamente infondata. Rispetto alle censure contenute nell’ordinanza di rimessione, la Corte osserva, in relazione all’art. 3 Cost., come, al termine delle indagini preliminari e a fronte di una situazione probatoria incompleta, non siano confrontabili, in quanto strutturalmente e funzionalmente eterogenee, la situazione in cui versa il giudice che non ritiene di accogliere la richiesta di decreto penale e quella in cui si trova il giudice che deve decidere sull’archiviazione. Infatti, mentre la prima ipotesi si iscrive nel panorama degli atti di esercizio dell’azione penale, la seconda presuppone, al contrario, l’opposta scelta del pubblico ministero di non accogliere alcuna domanda di giudizio. Inoltre, l’esigenza di ulteriori indagini dopo il decorso dei relativi termini si pone in contrasto con la natura stessa del procedimento per decreto, dal momento che tale rito richiede un quadro fattuale di agevole e pronto accertamento. Non si rileva, infine, alcuna violazione dell’art. 24 Cost., dal momento che il diritto di difesa è tutelato in ciascuno dei possibili esiti processuali cui può dar luogo la situazione denunciata. Ordinanza 16 aprile 1999, n. 124 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 aprile 1999, n. 16) Con l’ordinanza n. 124 del 1999 la Corte decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 4, c.p.p., ‘‘nella parte in cui non prevede che il procedimento per decreto non è ammesso quando risulta la volontà della persona offesa dal reato di costituirsi parte civile nel processo penale’’. Secondo il giudice rimettente tale norma violerebbe l’art. 24, comma 2, Cost., per il pregiudizio che essa comporta per la persona offesa che ha manifestato l’intenzione di esercitare l’azione risarcitoria nel processo penale, la quale non potrebbe neppure giovarsi dell’effica-
— 1041 — cia di giudicato del decreto penale, a causa della deroga che l’art. 460, comma 5, c.p.p. apporta alla disciplina generale di cui all’art. 651 c.p.p. La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione, rilevando che l’assetto generale del nuovo codice è improntato all’idea della separazione dei due giudizi, penale e civile; che l’eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno in sede civile (al contrario, il diritto per il danneggiato di esperire l’azione civile in sede penale non è oggetto di garanzia costituzionale come tale: cfr. sent. n. 98 del 1996); che, infine, sarebbe, in ogni caso, improprio un sistema che consentisse di esperire un determinato rito alternativo, sussistendone i presupposti, solo in dipendenza di una sorta di determinazione meramente potestativa della persona offesa, che non riveste qualità di parte. ARTT. 459 ss. Casi di procedimento per decreto ART. 555 Decreto di citazione a giudizio Relativamente al procedimento per decreto e in conseguenza delle modifiche apportate al codice di procedura penale dall’art. 2 l. 16 luglio 1997, n. 234 (‘‘Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416 e 555 del codice di procedura penale’’), con particolare riferimento all’introduzione dell’obbligo per il pubblico ministero di invitare l’indagato a rendere l’interrogatorio quale requisito di validità dell’iter processuale, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su diverse questioni di legittimità costituzionale aventi come norma oggetto talvolta gli artt. 459 ss. c.p.p., talvolta, invece, l’art. 555 c.p.p. (‘‘Decreto di citazione a giudizio’’), in quanto applicabile alla fase successiva all’opposizione al decreto penale di condanna. Seppure aventi ad oggetto articoli contenuti in Libri diversi del codice, tali questioni si prestano ad essere trattate congiuntamente, in quanto relative alla medesima ipotesi e, quindi, decise secondo la medesima ratio. Ordinanza 16 luglio 1999, n. 326 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 luglio 1999, n. 29) Ordinanza 16 luglio 1999, n. 325 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 luglio 1999, n. 29) Ordinanza 23 dicembre 1999, n. 458 Manifesta infondatezza (in G.U., 29 dicembre 1999, n. 52) Con l’ordinanza n. 326 del 1999 la Corte decide la questione di legittimità costituzionale degli artt. 459 ss. c.p.p., che disciplinano il procedimento per decreto, ‘‘nella parte in cui non prevedono la nullità della richiesta di decreto penale di condanna e degli atti conseguenti (decreto penale e decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice, secondo l’art. 565, comma 2, c.p.p., a seguito dell’opposizione dell’imputato) allorché non siano preceduti dall’invito della persona sottoposta alle indagini preliminari a presentarsi per rendere interrogatorio, a norma dell’art. 375, comma 3, c.p.p.’’. Con le ordinanze nn. 325 e 458 del 1999 la Corte decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2, c.p.p., nel testo modificato dall’art. 2 della l. 16 luglio 1997, n. 234, ‘‘nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio, emesso dal giudice per le indagini preliminari a seguito dell’opposizione al decreto penale, a norma dell’art. 565, comma 2, c.p.p., sia nullo qualora non sia preceduto dall’invito all’imputato a presentarsi per rendere l’interrogatorio, secondo l’art. 375, comma 3, dello stesso codice’’. Secondo i giudici rimettenti le norme censurate, non prevedendo l’obbligo di invitare l’imputato a rendere l’interrogatorio ex art. 374, comma 3, c.p.p. prima della richiesta del decreto penale, del decreto penale e del decreto che dispone il giudizio a seguito dell’opposizione, comporterebbero una violazione dell’art. 3 Cost., per la diversità di trattamento tra gli
— 1042 — imputati sottoposti a questo rito speciale rispetto a quelli soggetti al procedimento ordinario; dell’art. 24 Cost., per la negazione della possibilità per l’imputato di pervenire ad un provvedimento favorevole sulla base degli elementi forniti nel corso dell’interrogatorio reso a seguito dell’invito a presentarsi emesso a norma dell’art. 375, comma 3, c.p.p., dell’art. 97 Cost., perché si rende necessaria la celebrazione del dibattimento penale anche nei casi in cui sarebbe ipotizzabile una definizione anticipata della vicenda processuale. Le decisioni di manifesta infondatezza delle questioni così sollevate si basano sulla medesima ratio decidendi e si rifanno alla decisione di manifesta infondatezza di cui all’ordinanza n. 432 del 1998. Relativamente al profilo di violazione dell’art. 3 della Costituzione, si osserva, in generale, come la richiesta di assimilazione della disciplina del rito speciale a quella del procedimento ordinario sia contraddetta dalla stessa struttura di rito a contraddittorio eventuale e differito, improntato a criteri di economia processuale e di speditezza, come tale non comparabile con altri modelli processuali delineati dal codice. Non sussiste, cioè, omogeneità fra le due situazioni poste a raffronto. Con particolare riferimento alla richiesta dei giudici a quibus di introdurre l’obbligo di procedere all’interrogatorio dell’indagato a pena di nullità del decreto che dispone il giudizio, la Corte osserva come il decreto di citazione a giudizio nel procedimento ordinario e il decreto che dispone il giudizio nel procedimento speciale si differenziano per riferibilità (rispettivamente, al pubblico ministero e al giudice) e per natura (rispettivamente, atto dell’esercizio dell’azione penale e vocatio in ius). Una uniformazione delle due discipline nel senso chiesto dai rimettenti provocherebbe inoltre l’effetto distorsivo di collocare un atto proprio delle indagini preliminari (l’invito a presentarsi di cui all’art. 375, comma 3, c.p.p.) nell’ambito della fase successiva all’esercizio dell’azione penale. Relativamente alla presunta violazione dell’art. 24 della Costituzione, si rileva come, nel procedimento per decreto penale, l’esperimento dei mezzi di difesa si svolga nel giudizio che segue all’opposizione, in quanto il decreto costituisce solo una decisione preliminare che viene posta nel nulla dalla mancata acquiescenza dell’imputato. Sotto un diverso profilo, la Corte afferma inoltre come l’audizione dell’indagato, prima del processo, non possa ritenersi costituzionalmente imposta. Quanto alla violazione del principio del buon andamento, la Corte, ancora una volta, ricorda l’estraneità dell’art. 97 della Costituzione all’esercizio della funzione giurisdizionale. Si ricorda che la l. 16 dicembre 1999, n. 479 (‘‘Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento penitenziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense’’) [in Gazzetta Ufficiale, serie generale, 18 dicembre 1999, n. 296] ha stabilito che il previo invito all’indagato a presentarsi per rendere interrogatorio non costituisce più un obbligo incondizionato per il pubblico ministero, ma si svolge solo a seguito di una richiesta in tal senso da parte dell’indagato, cui deve essere comunicato l’avviso delle conclusioni delle indagini preliminari (cfr. art. 416-bis, introdotto dall.’art. 17, comma 2, della l. n. 479 del 1999). Di conseguenza sono state modificate le disposizioni relative alle ipotesi di nullità degli atti di citazione (cfr. l’art. 416, comma 1, c.p.p., come modificato dall’art. 17, comma 3, della l. n. 479 del 1999, e il ‘‘nuovo’’ art. 552, comma 2, c.p.p., introdotto dall’art. 44 della medesima legge).
DIBATTIMENTO a) Atti introduttivi ART. 486 Impedimento a comparire dell’imputato o del difensore Ordinanza 4 marzo 1999 n. 51 Manifesta inammissibilità (in G.U., 10 marzo 1999, n. 10) Con l’ordinanza n. 51 del 1999 viene dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 97 e 112 Cost., del-
— 1043 — l’art. 486 c.p.p., in relazione all’art. 159, comma 1, c.p.p., nella parte in cui ‘‘non prevede, fra i casi di sospensione del procedimento da cui discende la sospensione della prescrizione, il rinvio o la sospensione del dibattimento cagionato dall’adesione dei difensori all’astensione collettiva’’. La medesima questione è già stata rigettata dalla Corte in diverse occasioni (vd., tuttavia, le indicazioni che, sul punto, vengono rivolte al legislatore nella sent. n. 171 del 1996).
b) Istruzione dibattimentale ART. 506 Poteri del presidente in ordine all’esame dei testimoni e delle parti private ART. 507 Ammissione di prove nuove Ordinanza 20 luglio 1999, n. 338 Manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) Relativamente alla fase dell’istruzione dibattimentale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, comma 2, 76, 101, comma 2, 112 Cost., dell’art. 507 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche sulla base dell’esame degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero; dell’art. 506, comma 1, c.p.p., nella parte in cui prevede che il giudice possa indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi solo in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento a iniziativa delle stesse o a seguito delle letture disposte a norma degli artt. 511, 512 e 513 c.p.p., e non anche in base agli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero; dell’art. 506, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice possa rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici e alle parti private già esaminati anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, e possa procedere, sulla base di detti atti, alle contestazioni ai sensi dell’art. 500, comma 1, c.p.p., con eventuale acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni a norma del comma 4 di detto articolo; dell’art. 151 disp. att. c.p.p., nella parte in cui non richiama l’art. 135 disp. att. c.p.p. che dispone che nel giudizio il giudice può ordinare l’esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero (da restituire terminata l’istruzione dibattimentale) e l’inserimento nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni se sussiste difformità rispetto al contenuto della deposizione. Il giudice a quo chiede un’interpretazione estensiva del complesso normativo impugnato alla luce dei ‘‘principi di non dispersione della prova, della ricerca della verità e dell’indefettibilità della giurisdizione, quali delineati dalla giurisprudenza costituzionale’’ (in particolare, nella ‘‘famosa’’ sentenza n. 111 del 1993). Con l’ordinanza n. 338 del 1999 la Corte dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 c.p.p, in quanto, nella fattispecie, il giudice avrebbe potuto comunque assumere d’ufficio la nuova prova richiesta dalla parte civile al termine dell’istruzione dibattimentale sulla base di quanto era emerso nel corso del dibattimento, senza prendere conoscenza degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Più in generale, viene ribadito come il sistema del ‘‘doppio fascicolo’’, finalizzato alla necessità di tenere distinte la fase delle indagini preliminari e quella del giudizio, affinché il giudice sia vincolato esclusivamente agli elementi acquisiti nel corso del dibattimento, risponda pienamente al modello processuale che si ispira al sistema accusatorio. L’eccezione di incostituzionalità sollevata nei confronti dell’art. 151 disp. att. c.p.p., mediante il richiamo all’art. 135 delle norme stesse, non è pertinente, in quanto tale disposizione, che facoltizza il giudice a prendere visione del fascicolo del pubblico ministero, si rife-
— 1044 — risce ad una diversa fase del giudizio, ossia al momento in cui il giudice, prima dell’apertura del dibattimento, è chiamato a decidere sulla richiesta di applicazione della pena su richiesta. La Corte dichiara, infine, la manifesta inammissibilità per irrilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 506, commi 1 e 2, c.p.p., in quanto la necessità per il giudice di rivolgere nuove domande ai testimoni già esaminati per eventualmente contestare il contenuto delle precedenti deposizioni potrebbe emergere solo dopo aver ammesso la prova ex art. 507 c.p.p. La questione era stata, infatti, prospettata dal giudice a quo in termini meramente ipotetici.
SENTENZA ART. 538 Condanna per la responsabilità civile Ordinanza 22 luglio 1999, n. 353 Manifesta inammissibilità (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) Con l’ordinanza n. 353 del 1999 la Corte viene chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale degli artt. 538 e 651 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. Quanto alla violazione del diritto di difesa, il giudice rimettente censura l’art. 538 c.p.p., in quanto prevede che il giudice, accertata la responsabilità dell’imputato, si pronunci sulle domande civili, quali che siano i mezzi di prova su cui la responsabilità penale è fondata e anche quando la prova, ai fini dell’accoglimento della domanda civile, è rappresentata esclusivamente dalle dichiarazioni della persona danneggiata dal reato. Si rileva, inoltre, come nel processo penale, relativamente al diritto alla prova, la parte civile e l’imputato non si trovano in posizione di parità dal momento che le dichiarazioni della parte civile valgono come testimonianza, mentre quelle dell’imputato sono acquisibili solo mediante l’esame della parte. Vi sarebbe, quindi, anche una violazione del principio di uguaglianza, in quanto il ruolo attribuito alla parte civile cambia a seconda che ci si trovi nel processo penale o in quello civile, dove invece alle parti sono attribuite identiche possibilità difensive. Per le medesime ragioni viene sollevata questione di costituzionalità anche dell’art. 651 c.p.p., relativo all’efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno (anche se non è chiaro se il giudice abbia effettivamente sollevato la questione di costituzionalità di questa norma, dal momento che il riferimento all’art. 651 c.p.p. non è riprodotto nei dispositivi delle ordinanze di rimessione). Le questioni proposte vengono dichiarate dalla Corte manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto nelle ordinanze di rimessione (di identico contenuto e proposte dal medesimo giudice) non sono sufficientemente descritte le diverse fattispecie oggetto dei processi da cui hanno avuto origine le questioni di costituzionalità. Manca, infatti, ogni precisazione circa l’effettiva forza probatoria delle dichiarazioni di parte civile ai fini del riconoscimento della responsabilità degli imputati e circa i criteri di valutazione della prova, non è chiaro se la funzione probatoria di tali dichiarazioni concerna solo l’an debeatur o anche il quantum debeatur, né sono specificate le caratteristiche del danno oggetto della pretesa civile.
IMPUGNAZIONI a) Appello ART. 604 Questioni di nullità Ordinanza 3 giugno 1999, n. 222 Manifesta inammissibilità (in G.U., 9 giugno 1999, n. 23) Con l’ordinanza n. 222 del 1999 la Corte costituzionale decide la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 604 c.p.p., nella parte in
— 1045 — cui non prevede il potere del giudice di appello di disporre la trasmissione degli atti al giudice di primo grado per effetto della dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado per incompletezza del dispositivo ex art. 546, comma 3, c.p.p. Il giudice a quo, investito dell’appello del pubblico ministero, il quale, come primo motivo di impugnazione, aveva eccepito la nullità della sentenza di improcedibilità per omessa indicazione nel dispositivo della causa di improcedibilità, rileva una lacuna nel sistema normativo. Ritiene, infatti, che gli sia precluso adottare qualsiasi provvedimento, non potendo egli disporre la trasmissione degli atti al giudice di primo grado ex art. 604 c.p.p., in quanto la nullità riscontrata non rientra tra quelle prese in considerazione da detta norma, né ricorrere alla procedura di correzione degli errori materiale ex art. 130 c.p.p., in quanto l’art. 547 c.p.p. vieta il ricorso a tale procedura in caso di nullità della sentenza per mancanza di un elemento essenziale del dispositivo, né, infine, adottare una pronuncia nel merito, perché questa equivarrebbe, in sostanza, ad una correzione di errore materiale. La Corte dichiara la manifesta inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto il giudice rimettente non ha esplicitato le ragioni per cui ritiene che la mancata indicazione della causa di improcedibilità sia configurabile come difetto di un ‘‘elemento essenziale’’ del dispositivo, né perché egli ritenga che ricorrere alla pronuncia di merito equivarrebbe a correzione di errore materiale, dal momento che l’art. 605, comma 1, c.p.p. e l’art. 130 c.p.p. operano sue due piani diversi.
b) Ricorso per cassazione ART. 627 Giudizio di rinvio dopo annullamento Ordinanza 21 gennaio 1999, n. 11 Manifesta infondatezza (in G.U., 27 gennaio 1999, n. 4) Con l’ordinanza n. 11 del 1999 la Corte decide la questione di costituzionalità, sollevata in riferimento all’art. 24, comma 2, e 97 Cost., dell’art. 627, comma 3, c.p.p., il quale ‘‘prescrive l’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa’’. A seguito di un ricorso per saltum del Procuratore generale, la Corte di cassazione annullava la decisione impugnata con rinvio per nuovo giudizio allo stesso Pretore. Successivamente la Corte di cassazione mutava, sul punto, la propria giurisprudenza attestandosi sulla linea interpretativa accolta dal medesimo Pretore nella prima decisione, poi annullata. Il giudice a quo osserva come l’obbligo di uniformarsi alla sentenza della Cassazione, violi, in tali ipotesi, il diritto di difesa dell’imputato, nonché i principi di imparzialità dell’amministrazione della giustizia, di buon andamento ed economia processuale, dal momento che si costringe l’imputato ad affrontare il giudizio di appello perché gli venga riconosciuto il ‘‘diritto ad essere assolto’’. La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione. Relativamente al ‘‘precetto di cui il giudice a quo è tenuto a fare applicazione in sede di rinvio’’, osserva, infatti, come la giurisprudenza costituzionale consenta al giudice di rinvio di sollevare questioni di costituzionalità concernenti l’interpretazione della norma, quale risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione. Quanto, invece, alla ‘‘norma che impone al giudice di rinvio di conformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione’’, ossia l’art. 627, comma 3, c.p.p., la Corte, anzitutto, rileva come il profilo concernente la violazione dell’art. 97 Cost. non sia pertinente perché il principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il
— 1046 — loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, non l’esercizio della funzione giurisdizionale. Non correttamente evocato appare anche l’art. 24, comma 2, Cost.: il diritto di difesa non può, infatti, spingersi fino a ricomprendere l’interpretazione più favorevole per la parte interessata e, comunque, tale interpretazione è destinata a soccombere di fronte all’esigenza che il procedimento prosegua in modo che esso progredisca verso la soluzione finale attraverso la concatenazione di atti aventi valore definitivo, in modo da impedire la perpetuazione dei giudizi.
ESECUZIONE a) Esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali ART. 656 Esecuzione delle pene detentive Sentenza 4 novembre 1999, n. 422 Non fondatezza (in G.U., 10 novembre 1999, n. 45) Con la sentenza n. 422 del 1999 la Corte costituzionale ha deciso la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 10, c.p.p., come sostituito dall’art. 1 della l. 27 maggio 1998, n. 165 (‘‘Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla l. 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni’’), nella parte in cui prescrive che il tribunale di sorveglianza provvede senza formalità all’eventuale applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare nei confronti del condannato che si trovi agli arresti domiciliari. Secondo i giudici rimettenti tale norma violerebbe l’art. 24 Cost., dal momento che solo la diretta partecipazione del condannato può consentirgli di far valere gli specifici interessi che intende far valere; l’art. 27 Cost., poiché l’applicazione della misura della detenzione domiciliare scaturirebbe non da una valutazione complessiva della situazione del condannato, ma dallo status libertatis in cui il medesimo si trova all’atto del passaggio in giudicato della sentenza; l’art. 3 Cost., in quanto, a parità di condanna, solo il condannato che si trova in stato di libertà può richiedere la sospensione dell’esecuzione della pena con la contestuale istanza della misura alternativa che a proprio giudizio meglio risponda alla propria situazione, avvalendosi, a tal fine, delle garanzie del procedimento di sorveglianza di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p. La questione non è fondata. Quanto alla presunta violazione del diritto di difesa, la Corte osserva che, in linea generale, come pacificamente osservato anche in dottrina, non può considerarsi in contrasto con tale principio la norma che si limiti a prevedere un provvedimento de plano. Inoltre, il profilo dedotto dai giudici rimettenti non attiene al difetto di contraddittorio in sé e per sé considerato, ma alla necessità che il condannato possa esprimere le proprie valutazioni in ordine alla misura alternativa che meglio risponda ai propri specifici interessi. La mancanza di questa possibilità assumerebbe rilievo costituzionale solo ove costituisse l’unica occasione per il condannato di rappresentare le proprie esigenze. A proposito, la Corte ricorda, invece, come la Cassazione abbia recentemente puntualizzato che la procedura de plano censurata può essere seguita solo ove il tribunale di sorveglianza ritenga di poter applicare la detenzione domiciliare, mentre, in caso contrario, deve essere seguita la procedura ordinaria in contraddittorio (Cass., Sez. I, 15 aprile 1999, n. 3005). Di conseguenza, la disposizione di cui si discute, venendosi a configurare ‘‘come provvedimento d’urgenza e a connotazioni eminentemente interinali’’, non esclude che il condannato al quale viene applicata de plano la misura della detenzione domiciliare possa richiedere in via ordinaria tutte le misure di cui ritenga avere titolo.
— 1047 — Quanto alla violazione dell’art. 27 Cost., il fatto che la misura della detenzione domiciliare venga applicata de plano a chi si trovi agli arresti domiciliari all’atto della condanna non determina alcuna interferenza con la finalità rieducativa della pena, ‘‘giacché si anticipa... ciò al quale il condannato avrebbe diritto come misura ‘minima’ applicabile’’. Inoltre, deve ricordarsi che la misura della detenzione domiciliare, a seguito della l. n. 165 del 1998, non essendo limitata, come prima, ai ‘‘soggetti deboli’’, non risponde più a finalità umanitarie ed assistenziali, ma ha anzi assunto aspetti più vicini alla finalità rieducativa e di reinserimento sociale. Infine, non si rileva alcuna violazione del principio di uguaglianza, avendo i giudici rimettenti posto a confronto due situazioni eterogenee, quali quella dell’imputato in stato di libertà e quella in cui si trova l’imputato agli arresti domiciliari al momento della condanna. L’eventuale disuguaglianza può poi risultare apparente, tenendo conto che il condannato al quale è applicata la misura della detenzione domiciliare è sempre in condizione di chiedere qualsiasi altra misura alternativa. ART. 657 Computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo Ordinanza 3 giugno 1999, n. 215 Manifesta infondatezza (in G.U., 9 giugno 1999, n. 23) Con l’ordinanza n. 215 del 1999 la Corte ha risolto la questione di costituzionalità dell’art. 657 c.p.p., commi 1 e 3, c.p.p., e dell’art. 57 della l. 24 novembre 1981, n. 689 (‘‘Modifiche al sistema penale’’), nella parte in cui non prevedono che il condannato possa chiedere al pubblico ministero che per la determinazione della sanzione sostitutiva da eseguire, quando questa sia la libertà controllata, siano computati i periodi espiati in applicazione dell’obbligo di dimora ai sensi dell’art. 283, comma 4, c.p.p. Secondo il giudice rimettente tale norma contrasterebbe con l’art. 3 Cost., in quanto sarebbe irragionevole differenziare la misura degli arresti domiciliari con autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di applicazione dalla misura dell’obbligo di dimora con divieto di allontanamento dal domicilio, al fine di detrarre dalla pena da eseguire il primo periodo e non il secondo. Sarebbe inoltre violato l’art. 27 Cost., in quanto nei fatti le norme impugnate consentono l’assoggettamento del condannato alla medesima sanzione afflittiva per due volte. La questione è manifestamente infondata. Pur potendo presentare nelle modalità esecutive analogo contenuto afflittivo, le due misure cautelari poste a confronti si fondano su presupposti applicativi ben diversi e quindi non confrontabili fra loro. In particolare, mentre la sottoposizione agli arresti domiciliari è configurata espressamente dal legislatore come misura di tipo custodiale, con tutte le conseguenze che derivano sul piano sostanziale e processuale da una misura diretta a comprimere la libertà personale, la persona sottoposta alla misura dell’obbligo di dimora è invece ‘‘libera’’, seppure nell’ambito del territorio individuato nell’ordinanza applicativa. L’eterogeneità delle due misure poste a raffronto è confermata anche dal diverso regime che scaturisce dalla violazione delle relative prescrizioni, dal momento che solo la persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari può essere chiamata a rispondere del delitto di evasione ex art. 385 c.p.p.
b) Attribuzione degli organi giurisdizionali ART. 676 Altre competenze Ordinanza 29 ottobre 1999, n. 413 Manifesta infondatezza (in G.U., 3 novembre 1999, n. 44) Con l’ordinanza n. 413 del 1999 la Corte ha deciso la questione di legittimità costituzionale dell’art. 676, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione
— 1048 — di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione maturata prima del giudicato, per violazione degli artt. 3 e 97 Cost. Il giudice rimettente, chiamato a decidere in qualità di giudice dell’esecuzione su una richiesta volta ad ottenere la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione e rilevato che la Cassazione ‘‘erroneamente’’ non ha dichiarato tale causa di estinzione, osserva come l’impossibilità prevista dall’art. 676 c.p.p. di pronunciarsi su una causa di estinzione del reato intervenuta prima della formazione del giudicato comporti una violazione dell’art. 3 Cost., in quanto priverebbe il condannato di ‘‘concreta tutela’’ e determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alle ipotesi in cui il reato si sia estinto per amnistia o per sopravvenuta abolizione, per le quali gli artt. 672 e 673 c.p.p. non distinguono a seconda che la causa estintiva sia intervenuta prima o dopo il giudicato, nonché una violazione dell’art. 97 Cost., in quanto tale norma consentirebbe di attivare irragionevolmente la procedura di esecuzione della pena in presenza di una causa di estinzione del reato e, quindi, in assenza di un apprezzabile interesse pubblico all’attuazione della sentenza irrevocabile. La questione è manifestamente infondata. La Corte rileva come, a prescindere dal caso concreto e dalla motivazione della sentenza della Corte di cassazione, la giurisprudenza costituzionale sia ormai costante nel ritenere che, in ossequio al principio di intangibilità del giudicato, la problematica dell’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di cognizione afferisca semmai al giudizio di revisione e sia invece estranea alla competenza del giudice dell’esecuzione. Inconferente risulta poi il tertium comparationis addotto dal giudice a quo per motivare la violazione del principio di uguaglianza, in quanto gli artt. 672 e 673 c.p.p. si riferiscono a situazioni in cui la causa estintiva si ricollega all’intervento di eventi successivi al passaggio in giudicato della sentenza ed estranei alla struttura della fattispecie di reato. Infine si ribadisce come l’art. 97 Cost. non è norma che si riferisce all’attività giurisdizionale in senso stretto, ma esclusivamente ai profili organizzativi e funzionali dell’amministrazione della giustizia.
LEGGI COMPLEMENTARI AL CODICE DI PROCEDURA PENALE a) L. 30 luglio 1990, n. 217 (‘‘Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti’’) ART. 1 Istituzione del patrocinio Anche nel corso del 1999 alcune disposizioni della l. 30 luglio 1990, n. 217 (‘‘Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti’’) sono state oggetto di giudizio di legittimità costituzionale. In due occasioni la Corte si è occupata dell’art. 1, comma 8, della l. n. 217 del 1990, il quale prevede che il patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato è escluso nei procedimenti penali concernenti contravvenzioni, tranne quando questi siano riuniti o connessi a procedimenti per delitti. Sulla medesima censura di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione la Corte si era già pronunciata nel senso dell’infondatezza con la sentenza n. 243 del 1994, rilevando, quanto all’an della tutela, che per i procedimenti non ricompresi dalla l. n. 217 del 1990 opera comunque la disciplina generale del gratuito patrocinio posta dal r.d. 30 dicembre 1923 n. 3282, e, relativamente al quomodo, che la disciplina differenziata dell’assistenza legale dei non abbienti, secondo che il giudizio penale abbia per oggetto l’imputazione per contravvenzione piuttosto che per delitto, non è priva di giustificazioni e che la scelta spetta alla discrezionalità del legislatore. La medesima questione era stata poi dichiarata manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 104 del 1997. Le pronunce del 1999 hanno, invece, dichiarato inammissibili le questioni proposte per
— 1049 — irrilevanza. Le motivazioni sono, tuttavia, interessanti per le osservazioni sull’applicazione del procedimento previsto dalla legge per l’ammissione al patrocinio. Ordinanza 22 aprile 1999, n. 144 Inammissibilità (in G.U., 28 aprile 1999, n. 17) In questo primo caso l’imputata non abbiente era stata ammessa al patrocinio pur trattandosi di reato contravvenzionale. Il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di liquidazione di spese ed onorari avanzata dal difensore dell’imputata, ritenendo di poter valutare anche in sede di liquidazione i presupposti per l’ammissione al patrocinio e quindi, in assenza degli stessi, di procedere alla revoca del decreto di ammissione, solleva la questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 8, l. n. 217 del 1990, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione. Con l’ordinanza n. 144 del 1999 la Corte dichiara la questione inammissibile per difetto di rilevanza perché il giudice muove dall’erroneo presupposto che il decreto di ammissione sia revocabile in ogni tempo e al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dall’art. 10 della l. n. 217. La Corte osserva che, al di fuori dei casi previsti da questa norma, non è neppure configurabile un potere di revoca quale espressione del generale potere di autotutela di cui è titolare la pubblica amministrazione (come invece ritenuto da parte della giurisprudenza comune), dal momento che, nel decidere se spetti o meno il patrocinio a spese dello Stato, il giudice esercita appieno una funzione giurisdizionale avente ad oggetto la sussistenza di un diritto dotato, peraltro, di fondamento costituzionale, e, di conseguenza, i provvedimenti da lui adottati sono soggetti esclusivamente al regime proprio degli atti di giurisdizione. La Corte, pur rilevando che la disciplina di cui alla l. n. 217 si presenta incompleta, poiché non prevede il ricorso dell’intendente di finanza al quale il provvedimento deve essere comunicato, osserva come la lacuna non possa essere colmata dall’attività interpretativa del giudice fino al punto di snaturare provvedimenti concepiti dal legislatore come giurisdizionali fino a ridurli al rango di atti amministrativi. Ordinanza 22 aprile 1999, n. 145 Manifesta inammissibilità (in G.U., 28 aprile 1999, n. 17) La medesima questione di legittimità costituzionale sull’art. 1, comma 8, l. n. 217 del 1990 è stata dichiarata dalla Corte manifestamente inammissibile anche nell’ordinanza n. 145 del 1999. L’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato era già stata respinta dal giudice per le indagini preliminari e quindi riproposta, nei medesimi termini, al giudice di primo grado, il quale ha sollevato la questione di costituzionalità. La Corte osserva che, fatte salve eventuali variazioni di reddito, il provvedimento di diniego esplica i suoi effetti per l’intero procedimento penale e, contro di esso, la l. n. 217 del 1990, all’art. 6, commi 4 e 5, prevede un sistema di rimedi giurisdizionali. Al di fuori di questo sistema non è invece possibile ammettere che ‘‘rebus sic stantibus sul medesimo oggetto e nello stesso procedimento’’ i singoli giudici si pronuncino ed eventualmente si contraddicano. Poiché al giudice a quo non è dunque consentito pronunciarsi nuovamente sulla medesima istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato già respinta dal giudice per le indagini preliminari, la questione è manifestamente inammissibile. La Corte chiarisce, inoltre, che non induce ad altra interpretazione la disposizione di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 217 del 1990, secondo cui in ogni stato e grado del procedimento l’interessato può essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, dal momento che questa previsione non ha altro significato che quello di escludere che possano nascere preclusioni per la mancata proposizione dell’istanza in precedenti fasi o gradi del giudizio.
— 1050 — Ordinanza 26 marzo 1999, n. 94 Manifesta inammissibilità (in G.U., 31 marzo 1999, n. 13) Con l’ordinanza n. 94 del 1999 la Corte ha invece dichiarato manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 1, comma 9, della l. n. 217 del 1990, nella parte in cui non esclude l’applicabilità del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti nei procedimenti penali concernenti il reato di usura impropria di cui all’art. 644-bis c.p.p., oggi abrogato dall’art. 1 della l. 7 marzo 1996 (‘‘Disposizioni in materia di usura’’). Secondo il giudice a quo tale norma viola il principio di ragionevolezza perché il reato di usura presuppone maneggio di denaro e ricezione di prestazioni incompatibili con le condizioni di non abbienza alle quali è ancorato il beneficio. La questione è tuttavia irrilevante in quanto il giudice, prima di rimettere gli atti alla Corte, avendo provveduto in ordine all’istanza dell’imputato di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, dimostra di avere già applicato la disposizione censurata. La concessione di un termine all’interessato per integrare la documentazione prevista, con l’avvertimento che, in mancanza, il provvedimento di ammissione verrà revocato, non toglie, infatti, che tale provvedimento sia stato effettivamente adottato. ART. 2 Istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato Ordinanza 11 giugno 1999, n. 231 Manifesta infondatezza (in G.U., 16 giugno 1999, n. 24) Con l’ordinanza n. 231 del 1999 la Corte costituzionale ha deciso la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, comma 2, 24, commi 2 e 3, e 36, comma 1, Cost., dell’art. 2, comma 2, l. n. 217 del 1990, nella parte in cui prevede che l’istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato deve essere sottoscritta dall’interessato a pena di inammissibilità e non estende la possibilità di sottoscrizione anche al suo difensore o ai suoi familiari. Il giudice a quo premette che il procedimento penale innanzi a lui pendente si svolge nei confronti di due imputati latitanti, che i difensori d’ufficio hanno chiesto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che la documentazione presentata dimostra la sussistenza delle condizioni indicate dall’art. 3 della l. n. 217 del 1990, ma che l’accoglimento dell’istanza è impedito dall’art. 2, comma 2, della medesima legge, che richiede, a pena di inammissibilità, la sottoscrizione dell’imputato. Tale norma sarebbe in contrasto con gli artt. 3, comma 2, e 24, commi 2 e 3, Cost., per l’ingiustificata differenziazione tra imputati liberi e imputati latitanti, e con l’art. 36, comma 1, Cost., per il danno che deriverebbe al difensore. La questione viene dichiarata dalla Corte manifestamente infondata. L’art. 2, comma 2, della l. n. 217 del 1990 deve, infatti, essere letto congiuntamente all’art. 5 della medesima legge, il quale prevede che l’istanza sia accompagnata da un’autocertificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per poter fruire del beneficio, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile, nonché l’impegno di effettuare periodiche comunicazioni ai fini del controllo dell’eventuale superamento dei limiti di reddito. Questa disposizione ha un ruolo centrale nel sistema predisposto dalla l. n. 217 del 1990, soprattutto al fine di rendere il più celere possibile il procedimento posto a tutela del diritto di difesa dei non abbienti, ed è accompagnata, a garanzia della veridicità delle dichiarazioni, dall’applicazione delle norme del Libro II, Titolo VII, del codice penale per le ipotesi di falsità o di omissioni. Tale cautela minima, che verrebbe meno in caso di sottoscrizione da parte di un difensore o di un familiare, non può essere eliminata da una decisione della Corte senza che ne venga alterata l’equilibrata scelta del legislatore.
— 1051 — Quanto alla presunta violazione dell’art. 36, comma 1, Cost. la Corte ricorda che l’interessato ha comunque l’obbligo di retribuire il difensore che gli sia stato nominato d’ufficio, ex art. 31 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 e art. 8 della l. n. 217 del 1990. ART. 4 Effetti dell’ammissione al patrocinio Sentenza 19 febbraio 1999, n. 33 Incostituzionalità (in G.U., 24 febbraio 1999, n. 8) Con l’ordinanza n. 33 del 1999 la Corte costituzionale ha deciso la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, l. n. 217 del 1990, nella parte in cui, per i consulenti tecnici di parte, limita la facoltà per l’imputato di godere degli effetti del beneficio del gratuito patrocinio a spese dello Stato ai soli casi in cui è disposta perizia. Secondo il giudice a quo la limitazione posta dalla norma oggetto sarebbe in contrasto con l’art. 24, commi 2 e 3, Cost., poiché al cittadino non abbiente sarebbe impedito di avvalersi dell’opera di un consulente di parte per illustrare in chiave tecnica i propri argomenti difensivi all’autorità giudiziaria chiamata a giudicarlo. La medesima disposizione violerebbe, inoltre, l’art. 3 Cost., sia perché comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra l’imputato che si avvalga di consulenza tecnica nel caso in cui sia stata disposta dal giudice la perizia e l’imputato che, non essendo stata disposta la perizia, potrebbe ricorrere a tale ausilio difensivo solo a proprie spese, sia perché tale norma comprimerebbe irragionevolmente il diritto di difesa subordinandolo ad una decisione discrezionale del giudice. La questione è fondata. L’argomentazione della Corte trova il suo punto di partenza dall’analisi della posizione dei consulenti tecnici di parte nel processo penale. In primo luogo, viene richiamata la giurisprudenza costituzionale in cui è stato affermato che il consulente tecnico deve essere considerato parte integrante dell’ufficio di difesa dell’imputato (vd. sentt. nn. 199 del 1974 e 345 del 1987). Quindi, vengono analizzate le disposizioni del c.p.p. da cui è possibile dedurre che la facoltà di avvalersi di un consulente tecnico si inserisce a pieno titolo nell’area di operatività della garanzia posta dall’art. 24 Cost. Di centrale importanza risulta la disposizione di cui all’art. 223 c.p.p., che prevede la possibilità per le parti di nominare consulenti tecnici anche nei casi in cui non sia stata disposta dal giudice alcuna perizia, dal momento che la giurisprudenza di legittimità ha affermato la possibilità per il giudice di trarre elementi di prova dall’esame dei consulenti tecnici, la cui posizione viene accostata a quella dei testimoni. Inoltre, l’assimilazione della figura del consulente tecnico extraperitale a quella del difensore può essere dedotta dagli artt. 380 e 381 c.p.p., che puniscono il patrocinio e la consulenza infedele, dall’art. 103 c.p.p., che vieta il sequestro presso il consulente tecnico di carte e documenti relativi all’oggetto della difesa e l’intercettazione tra il consulente tecnico e i suoi ausiliari e tra questi e l’assistito, e dall’art. 200, comma 1, lett. b), che assicura anche ai consulenti tecnici la tutela del segreto professionale. La limitazione posta dall’art. 4, comma 2, della l. n. 217 del 1990, comporta pertanto una grave menomazione del diritto di difesa in un suo aspetto essenziale. La declaratoria di incostituzionalità costituisce, peraltro, la conseguenza del ‘‘diritto vivente’’ che si è formato sull’art. 220 c.p.p.: coerentemente con lo spirito accusatorio del nuovo codice di procedura penale che, in materia probatoria, attribuisce al giudice esclusivamente dei poteri di tipo suppletivo, tale norma viene infatti interpretata dalla giurisprudenza della Cassazione nel senso che nelle ipotesi in cui la decisione da assumere coinvolge nozioni nel campo della tecnica, dell’arte o delle scienze che non possono presumersi nel giudice, il ricorso alla perizia da parte di quest’ultimo non costituisce comunque un dovere se egli può legittimamente desumere elementi di prova dall’esame dei consulenti tecnici di parte. Questa importante decisione della Corte, come osservato dalla dottrina che per prima ha commentato la sentenza, sembra aprire la strada per l’estensione del patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato anche alle attività di consulenza previste dall’art. 38, disp. att. c.p.p. e alle prestazioni di traduttori ed interpreti difensivi per gli imputati non abbienti che non conoscono la lingua italiana.
— 1052 — b) L. 7 gennaio 1998, n. 11 (‘‘Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonché modifica della competenza sui reclami in tema di art. 41-bis dell’ordinamento giudiziario’’) ARTT. 1 e 2 Sentenza 22 luglio 1999, n. 342 Non fondatezza (in G.U., 28 luglio 1999, n. 30) Relativa alla fase dibattimentale è anche la sentenza n. 342 del 1999 con cui la Corte ha affrontato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della l. 7 gennaio 1998, n. 11, sollevata in riferimento agli artt. 3, 10, 24 e 27 della Costituzione. La premessa della decisione della Corte è costituita, in primo luogo, dalle ragioni che ‘‘storicamente’’ hanno indotto il legislatore a introdurre, all’art. 146-bis disp. att. c.p.p., sulla base di specifici presupposti e temporaneamente (fino al 31 dicembre 2000), il sistema delle c.d. ‘‘videoconferenze’’, e, secondariamente, dall’analisi specifica delle modalità tecniche attraverso cui si attua la partecipazione a distanza. In particolare, relativamente al primo punto, l’eccezionalità della normativa viene giustificata: 1) per far fronte a ‘‘fenomeni di gigantismo processuale’’ che normalmente caratterizzano i processi relativi a delitti di criminalità organizzata; 2) perché spesso i detenuti si trovano a dover partecipare a più giudizi, pendenti in sedi diverse, ‘‘con correlativa perdita di continuità nella trattazione del singolo processo’’; 3) perché il protrarsi dei dibattimenti comporta il rischio di far scadere i termini massimi della custodia cautelare; 4) perché i continui trasferimenti da una sede all’altra esigono un gravoso impegno delle forze dell’ordine e, soprattutto, determinano di fatto la vanificazione dei provvedimenti di sospensione delle ordinarie regole di diritto penitenziario, disposti nei confronti degli imputati soggetti alla disciplina di cui all’art. 41-bis. Relativamente ai ‘‘mezzi tecnici’’ adottati per consentire il collegamento audiovisivo tra il luogo in cui si svolge l’udienza ed il luogo in cui è detenuto l’imputato, essi risultano garantire una partecipazione ‘‘effettiva’’ e non ‘‘virtuale’’. Anche alla luce di queste considerazioni la Corte dichiara la questione non fondata, in quanto una cosa è la ‘‘presenza fisica’’ dell’imputato al dibattimento, altra la sua ‘‘effettiva partecipazione personale e consapevole’’. A proposito si osserva che i giudici a quo hanno confuso ‘‘la struttura della norma e la configurazione del diritto’’, i quali sono esaurientemente preordinati a garantire il diritto di difesa dell’imputato nell’arco di tutto il dibattimento, ‘‘con le modalità pratiche attraverso le quali la norma può in concreto svolgersi e il diritto essere esercitato’’. Nessun effetto distorsivo può cioè essere direttamente ricondotto alle disposizioni oggetto di impugnativa. Relativamente agli altri parametri di costituzionalità addotti nelle ordinanze di rimessione, è interessante notare che la Corte ‘‘risponde’’ anche relativamente alla presunta violazione dell’art. 10 Cost., per il mancato rispetto dei principi di cui all’art. 6, lett. c) e d) della Convenzione europea di diritti dell’uomo, nonostante la giurisprudenza costituzionale abbia sempre escluso la possibilità di ipotizzare una violazione dell’art. 10 Cost. quando, come norma interposta, viene invocata una norma di diritto pattizio. Infondate sono anche le prospettate violazioni degli artt. 3 e 27, comma 2, Cost. per le peculiarità che caratterizzano la sottoposizione alla disciplina di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. FRANCESCA BIONDI Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale Università degli Studi di Milano
COMMENTI E DIBATTITI
APPUNTI SUL CONFINE FRA DOLO E COLPA NELLA TEORIA DEL REATO (*)
SOMMARIO: 1. Ancoramento delle categorie dogmatiche alla realtà (anche psicologica) e politica criminale. — 2. Un cammino a ritroso che muove dall’evento: in particolare, l’identificarsi della condotta rilevante sul piano causale con la violazione di una regola di diligenza. — 3. L’evitabilità dell’evento quale profilo essenziale della nozione di causalità, attiva od omissiva, pertinente ai fini penali (in particolare, il legame fra reato omissivo improprio e reato colposo). — 4. Il presupposto unitario del dolo e della colpa costituito dall’esposizione di un bene giuridico a un determinato rischio (con uno sguardo sul rapporto fra rischio non consentito e antigiuridicità, nonché sulle aporie emergenti circa la rilevanza del rischio nell’illecito colposo e nel delitto tentato). — 5. La funzione discriminante svolta dalla prospettiva che ha dato causa sotto il profilo psicologico alla condotta: i criteri di accertamento della volizione, in rapporto all’equivocità del (mero) rinvio a massime di esperienza, e l’iter motivazionale del comportamento umano. — 6. L’effetto non voluto della violazione di una regola di diligenza: colpa, dolo c.d. diretto, dolo eventuale (sul riferimento indispensabile, ammessa quest’ultima figura, alla formula di Frank e sulla non accettabilità delle tendenze intese a normativizzare la nozione di dolo). — 7. In merito a situazioni comunque incompatibili col dolo non intenzionale: i casi della condotta base omissiva, della riserva opposta per ragioni di coscienza verso la condotta dovuta, della produzione fine a se stessa di un rischio (p. es., mediante lancio di sassi da cavalcavia). — 8. Considerazioni conclusive: sul ruolo dell’offesa antigiuridica, anche in rapporto al nodo dell’errore, nonché sulla peculiare pertinenza delle problematiche considerate rispetto al diritto penale dell’economia. 1. Il tema esige — ove ci si voglia affrancare da approcci orientati, in pratica, a una larga disponibilità degli esiti processuali o, comunque, dalla suggestione dei punti di vista à la page — l’inquadramento, forse temerario, in una visione d’insieme seppur solo abbozzata, nel rispetto delle norme di parte generale, sui modi in cui si manifesta il raccordo fra dimensione oggettiva e soggettiva del fatto tipico. Con due premesse. 1.1. Va rimarcato, innanzitutto, che l’ancoramento alla realtà — anche alla realtà psicologica, non meno effettiva, nonostante le difficoltà probatorie, di quella fisica — costituisce fattore indispensabile affinché la dogmatica possa mantenere una legittima autonomia, e dunque una funzione garantista, rispetto alla politica criminale, autonomia che non implica contrapposizione, risultando essenziale, piuttosto, all’operatività di una buona politica criminale (1). (*) Testo rielaborato della relazione svolta al convegno ‘‘Le fattispecie dolose nel diritto penale dell’economia’’, Trento, 9-10 ottobre 1998, destinato al volume degli atti. (1) Appare significativo come lo stesso Claus Roxin, nel suo ben noto percorso di inquadramento teleologico delle categorie penalistiche, pervenga a sottolineare l’esigenza di ‘‘un’apertura alla realtà della dogmatica’’ e a riconoscere, sul tema il cui studio ha segnato maggiormente tale percorso, che ‘‘la punibilità esige sempre una colpevolezza, [la quale] in quanto ‘agire illecito nonostante la motivabilità normativa’, è indipendente da tutti i bisogni
— 1054 — Sussistono infatti ragioni intuibili e assai fondate, a quest’ultimo proposito, per ritenere che una psicologia penalistica — secondo la nota descrizione di Paul Bockelmann — esoterica, laica (!?), orientata allo scopo (2) risulti funzionale non già alle esigenze di una prevenzione efficace, bensì a quelle di una prevenzione simbolica. Ciò considerato, non può non porsi a premessa di qualsiasi riflessione sul tema in esame la circostanza per cui l’orientamento a uno scopo — vale a dire, per quanto a noi preme, l’intenzionalità — è aspetto operante in qualsiasi condotta umana cosciente e volontaria. Tutto questo è stato trascurato, come si sa, dall’opinione secondo cui potrebbe parlarsi del volere, nell’ottica delle scienze di base, con riguardo esclusivo alla condotta intesa come movimento corporeo (conformemente alla nozione di cui all’art. 42 c.p.), quasi che ogni movimento volontario — ogni azione — non abbia una prospettiva finalistica eccedente il medesimo la quale, psicologicamente, gli dà causa e, in tal senso, lo spiega. La ricerca psicologica degli ultimi anni ha fatto giustizia, peraltro, di indirizzi sensibili alla mera dimensione cognitiva della mente umana, dedicando molteplici studi al ruolo fondamentale che assume l’instaurarsi in quest’ultima della decisione di perseguire un determinato obiettivo, vale a dire, secondo l’espressione anglosassone, di una intention in action che dà luogo a un progetto d’intervento sul mondo esterno, il quale verrà realizzato attraverso specifici atti strumentali (3). Rispetto a qualsiasi condotta umana (fatte salve, come più oltre vedremo, considerazioni peculiari in tema di omissione) si tratta dunque di evidenziare prioritariamente, anche dal punto di vista del diritto penale, la prospettiva finalistica (l’intenzione) che in termini psichici le abbia dato causa, traendone conseguenze dogmatiche coerenti — per il caso in cui di prevenzione’’, ma non è da sola sufficiente all’imputazione di una responsabilità penale (si veda C. ROXIN, Sulla fondazione politico-criminale del sistema del diritto penale, in ID., Politica criminale e sistema del diritto penale. Saggi di teoria del reato, a cura di S. Moccia, Napoli, 1998, in part. pp. 179 e 188 s.; circa gli svolgimenti anteriori del pensiero di tale Autore in tema di rapporti fra colpevolezza e prevenzione si consenta il rinvio a L. EUSEBI, La ‘‘nuova’’ retribuzione. [II] L’ideologia retributiva e la disputa sul principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1983, p. 1315 ss.). Ciò significa che una valida politica criminale, in un sistema di risposta ai reati che non voglia essere di tipo assoluto, deve orientare il legislatore penale nella utilizzazione dei dati, di ordine oggettivo e soggettivo, riferibili all’accadimento storico qualificato come criminoso, ma non deve manipolare la ricostruzione di quei dati. Proprio la salvaguardia di quest’ultima esigenza costituisce componente essenziale del compito spettante alla dogmatica: una dogmatica non sterile, infatti, è chiamata a sedimentare, affinandoli, i criteri applicativi tipici — secondo i principi costituzionali — di una strategia politico-criminale conforme a standard elevati di civiltà, evitando nei limiti del possibile che l’ordinamento, in sede legislativa e nella prassi, ceda alle ricorrenti lusinghe delle politiche criminali di basso profilo: ma un simile obiettivo resterebbe lettera morta se la dogmatica non fosse in grado di assicurare innanzitutto che l’oggetto dell’intervento penalistico, il fatto costituente reato, sia recepito e valutato dal diritto secondo quanto effettivamente (sul piano della causalità, come su quello della rappresentazione o della volizione) risulti accaduto, e non secondo precomprensioni rispondenti a messaggi che i giudici o lo stesso legislatore, date talune circostanze, intendano lanciare, costi quel che costi, alla pubblica opinione. Ne deriva, fra l’altro, l’opportunità di riconsiderare la visione che tradizionalmente individua nell’apertura alla politica criminale il mezzo necessario per creare un collegamento fra categorie penalistiche e scienze fondamentali (cfr. da ultimo M. DONINI, Dogmatica penale e politica criminale a orientamento costituzionalistico. Conoscenza e controllo critico delle scelte di criminalizzazione, in Dei delitti e delle pene, 1998, 3, p. 37 ss.): posto che tale collegamento costituisce un’esigenza intrinseca alla stessa elaborazione dogmatica, cui permette di non assumere il ruolo di un mero edificio concettualistico potenzialmente ancillare rispetto a qualsiasi politica criminale. (2) Cfr. P. BOCKELMANN, Bemerkungen über das Verhälnis des Strafrechts zur Moral und zur Psychologie, in Gedächtnisschrift für G. Radbruch, Göttingen, 1968, p. 252 ss. (3) Si consenta il rinvio, per i necessari riferimenti, a L. EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, p. 13 ss.
— 1055 — a tale condotta sia riconducibile il prodursi di un reato — circa la distinzione fra illeciti dolosi e colposi (4). 1.2. In secondo luogo pare utile ridimensionare alla sfera dell’analisi critica, invece di farne un caposaldo dogmatico, l’assunto dell’esistenza di nozioni variegate del dolo. E ciò nonostante la consapevolezza, evidenziata in molti studi recenti, delle peculiarità problematiche proprie dei tipi di reato doloso che si distanziano dal modello imperniato sulla fattispecie classica dell’omicidio. Solo una valorizzazione di quanto contraddistingua unitariamente, rappresentandone il nucleo contenutistico irrinunciabile, ciascuna delle forme base, quella dolosa e quella colposa, dell’imputazione soggettiva può infatti essere in grado di assumere portata critica sia nei confronti degli orientamenti giurisprudenziali, sia nei confronti delle scelte legislative (5): non dimenticando, per l’appunto, che destinatario dell’elaborazione dottrinale è anche il legislatore. Ove una simile chiarificazione non fosse perseguita si correrebbe il rischio del ritorno più o meno surrettizio a concezioni metodologiche disposte a recepire, una volta svuotate di contenuto le categorie teoriche portanti, qualsiasi ulteriore modello di imputazione della responsabilità penale che si ritenga deducibile da singoli testi normativi, se non addirittura a prendere atto delle prassi quasi legislative facenti capo, in proposito, all’attività della giurisprudenza. Le riflessioni che seguiranno vorrebbero contribuire a delineare linee di demarcazione non aleatorie fra dolo e colpa, evidenziando ciò che risulta comune, nell’ambito della teoria del reato, a tali categorie e ciò che strutturalmente le contraddistingue. 2. Muoviamo nell’argomentazione, a ritroso, dall’evento, secondo l’iter metodologico che è chiamato a percorrere il giudice, e, su questa via, da ciò che l’imputazione per colpa e per dolo, nell’ambito del fatto tipico, condividono. 2.1. A questo proposito non è forse inutile rimarcare, innanzitutto, che colpa e dolo costituiscono elementi autonomi e (alternativamente) necessari affinché un reato sussista, quali componenti del fatto tipico e condizioni base del rimprovero di colpevolezza: essi, pertanto, non possono essere assorbiti in altri elementi del reato — in particolare, nella suitas della condotta — o scomparire in forza della disciplina di altri istituti, come per esempio è accaduto, fino al 1988, con la punibilità per dolo senza (nemmeno) colpa, e come continua ad accadere ammettendosi spazi nient’affatto marginali di punibilità per dolo della colpa, a seguito di quanto previsto dall’art. 5 c.p. (6). Qualora colpa o dolo siano privi di contenuto proprio, perché il riconoscimento formale del loro sussistere nulla aggiunge a ciò che già assume rilievo, nell’ambito della fattispecie tipica o della colpevolezza, ad altro titolo, non può esservi reato (laddove sussista solo colpa non può esservi reato doloso), mancando requisiti attinenti, ex art. 43 c.p., alla definizione di quest’ultimo tratteggiata nel titolo III, capo I, del codice penale (7); in simili ipotesi, del (4) Il fatto che ogni azione, e dunque anche ogni azione penalmente rilevante, abbia uno scopo non implica, peraltro, che una certa azione sia penalmente rilevante in forza dello scopo cui risulti finalizzata: non è pertanto reperibile un fattore il quale caratterizzi unitariamente sul piano dell’orientamento finalistico le diverse tipologie di condotte costituenti reato. (5) Altro, del resto, è una definizione nitida, controllabile sul piano politico-criminale, delle conseguenze che si vogliano riferite ai diversi status psicologici del soggetto autore di reato, altro è l’ammissione di una manipolabilità descrittiva degli status suddetti, che pregiudica la coerenza delle conseguenze summenzionate e ostacola, comunque, la lettura delle opzioni politico-criminali ad esse effettivamente soggiacenti. (6) Si veda infra, 8.1. (7) Conclusione, questa, che trova (paradossale) conferma nella riserva di legge — da intendersi, se si vuole attribuirle un significato logico alla luce dell’art. 1 c.p., come limita-
— 1056 — resto, l’intervento punitivo risulterebbe incompatibile con la Costituzione, data la riconducibilità ormai acquisita all’art. 27, 1o comma, del principio di colpevolezza (8). Dal che si evince come un actus humanus possa rilevare penalmente solo quando la volontà o, in sua assenza (ferme le condizioni di cui all’art. 422-4 c.p.), il mero atteggiamento negligente investano un oggetto che si ponga, in qualità di evento, al di là della condotta, risultando da essa distinguibile e costituendone in senso causale un esito offensivo (9) riferito — secondo le modalità di aggressione considerate significative dal legislatore (10) — a un determinato bene giuridico. L’evento, in quest’ottica, si rivela aspetto essenziale di qualsiasi reato, individuando l’accadimento lesivo (o pericoloso) considerato rilevante dal diritto penale se prodotto da una condotta umana che abbia, come vedremo, determinate caratteristiche e se rispetto ad esso sussistano il dolo o, quando tale forma di imputazione sia prevista, la colpa. 2.2. Dato un evento concreto di interesse penalistico, pertanto, si tratta in primo luogo di stabilire se vi sia fra i suoi presupposti causali una condotta umana. A tal fine, enunciata l’ipotesi che una certa condotta, di fatto verificatasi, ne faccia parte, potrà sostenersi, come ben si sa, che essa abbia effettivamente avuto significato causale ove risulti condizione necessaria dell’evento medesimo, vale a dire ove si manifesti applicabile nei suoi confronti la formula della condicio sine qua non, nella quale si esprime la nozione logica di causa (11): e ciò accade allorquando possa essere reperita una regolarità di implicazione — una legge scientifica (12) — fra uno o più aspetti ripetibili della condotta zione a ipotesi esplicitamente previste — cui il codice Rocco decise di subordinare, ex art. 423, la stessa introduzione di casi ‘‘nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente’’. (8) Che dovrebbe essere letto anche nel senso secondo cui non può essere considerato personale il surplus della responsabilità a titolo di dolo, ove dal punto di vista sostanziale sussista solo la colpa. (9) Pur ove si escluda che possa opporsi una contro-opinione personale all’offensività che indiscutibilmente sia ravvisata dalla fattispecie di reato nelle conseguenze di una certa condotta, occorre ai fini della rilevanza penale, nel caso in cui una tale contro-opinione sussista, che venga rappresentato e voluto ciò che il soggetto agente sa essere considerato lesivo dalla legge oppure (ma si tratterebbe senza dubbio di colpa: cfr. infra, 8.1) che tale qualifica di offensività, non percepita nemmeno come portato di un’indicazione normativa, risulti conoscibile. (10) Circa le ipotesi di pericolo presunto (impregiudicata la considerazione delle problematiche ulteriori) risulterà necessario come oggetto del dolo e riferimento di un’eventuale rimprovero colposo il sussistere, quantomeno, degli elementi che diano luogo al contesto situazionale, presupposto dal legislatore, cui (razionalmente) sia ex ante ricollegabile l’esistenza di un potenziale pericolo per il bene tutelato, sempre che l’insorgere stesso del pericolo non risulti già a priori da escludersi. (11) Evidenzia peraltro come ‘‘il tipo di necessità che si può attribuire alle leggi fisiche... non è certamente una pura necessità logica (tant’è vero che per stabilire dette leggi è indispensabile ricorrere all’esperienza)’’ e propone una sintesi delle note ragioni, di cui in breve si dirà anche nel testo, per cui il ricorso al modello nomologico-deduttivo consente una ricerca delle cause di un evento che resta caratterizzata dalla relatività E. AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in questa Rivista, 1999, p. 393 ss. (12) La quale ai fini dell’imputazione soggettiva dovrà risultare già nota all’epoca della condotta (ai fini del dolo e della colpa cosciente chi agisce dovrà rappresentarsi l’attitudine causale della condotta, mentre ai fini della colpa incosciente tale efficacia dovrà risultare conoscibile). Ove l’evento si sia prodotto, ma secondo modalità causali diverse da quelle oggetto di rappresentazione (aberratio causae), abbiamo una condotta che non ha operato nel senso in forza del quale il soggetto l’ha posta in essere, ma che ha dato luogo al rischio, concretizzatosi, di una diversa modalità realizzativa dell’evento: una situazione che si rivela incompatibile con la responsabilità dolosa per l’evento prodottosi come delineata nel sistema vigente (cfr. anche C.F. GROSSO, voce Dolo [dir. pen.], in Enc. giur., vol. XII, Roma, 1989, p. 6, nonché G.A. DE FRANCESCO, Aberratio. Teleologismo e dommatica nella ricostruzione
— 1057 — presa in esame e gli aspetti dell’accadimento realizzatosi che consentono di inquadrarlo nel tipo di evento delineato dalla fattispecie incriminatrice (13). Perfino nel caso in cui la legge individuata fosse di tipo universale, tuttavia, non si potrebbe ancora affermare che l’evento abbia avuto come condizione necessaria proprio la condotta in rapporto alla quale tale legge si dimostra pertinente, sussistendo la possibilità che il medesimo sia stato prodotto da una serie causale diversa da quella di cui simile condotta fa parte (da una serie causale che comprenda, a sua volta, almeno un fattore ricollegabile attraverso una legge scientifica al tipo di evento verificatosi) (14). Conseguentemente, si manifesta indispensabile proseguire nell’iter della spiegazione applicando criteri capaci di minimizzare la possibilità che l’evento derivi da una condotta, anch’essa potenzialmente causale, alternativa rispetto a quella presa in considerazione, cioè di minimizzare l’incidenza della problematica concernente la c.d. pluralità delle cause: criteri che consistono, com’è noto, nella descrizione più accurata possibile dell’evento, tale da restringere al massimo il ventaglio degli antecedenti causali di per sé compatibili con l’evento medesimo, e nella verifica storica di quali degli antecedenti alternativi potenzialmente causali risultino in realtà essersi realizzati nella vicenda di cui si discute. Di accertamento del nesso causale potrà parlarsi ove siano state prese in considerazione tutte le alternative causalmente plausibili (restando aperto il problema di alternative esistenti, ma non note) e queste, utilizzando i criteri suddetti, si riducano a una soltanto. Solo applicando simili criteri, inoltre, si sarà in grado di aspirare, escludendo ipotizzabili spiegazioni causali alternative, a un livello — mai derogabile — contiguo alla certezza (a scanso di equivoci: il 99,9 per cento) della credibilità logica relativa alla spiegazione concernente il nesso di causalità anche nel caso in cui vengano utilizzate leggi di tipo statistico (15). Da ultimo deve tenersi presente che qualsiasi antecedente del quale possa dirsi, secondo delle figure di divergenza nell’esecuzione del reato, Torino, 1998, p. 135 ss.). Vedremo, d’altra parte, che nel diritto penale rilevano soltanto condotte costituenti la violazione di una regola di diligenza, per cui costituirà oggetto del dolo l’inosservanza di una ben precisa norma cautelare, inosservanza suscettibile di produrre l’evento secondo specifiche modalità causali. Ove così non fosse, ne deriverebbe, per taluni profili, un’applicazione analogica in malam partem alla problematica in esame della disciplina, già in sé tutt’altro che razionale nell’ambito del sistema, relativa all’aberratio ictus e una disparità di trattamento, per gli aspetti che l’aberratio causae condivide con l’aberratio delicti, rispetto alla disciplina di quest’ultimo istituto. Ove si trascurassero simili considerazioni, inoltre, si aprirebbe la strada al pericolo di non tener conto — punendo addirittura per reato (consumato) doloso — dell’eventuale inidoneità della condotta (ex art. 49 c.p.) a operare nel senso voluto dal soggetto agente. Si veda anche infra, nota 68. (13) Valga il rinvio, sull’intera problematica, a F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale. Il nesso di condizionamento fra azione e evento, Milano, 1975, p. 67 ss. (14) Invero potrei avere una legge senza alcun dubbio universale solo se potessi conoscere, e dunque controllare, tutte le concause necessarie (v. infra, nel testo), così da poter affermare in senso deduttivo, essendo esse date, che sussistendo C, allora sempre E. Logicamente neppure in questo caso, peraltro, potrei escludere che il medesimo evento E, che si suppone descrivibile a simili condizioni in modo quanto mai approfondito, possa essere stato prodotto, in tutte le sue caratteristiche specifiche, da una sequenza deterministica alternativa, sebbene ciò risulti, in effetti, alquanto improbabile. Nella pratica, la distinzione è tra leggi, per così dire, relativamente universali, tali per cui, cioè, si constata empiricamente che in un certo contesto conoscitivo pur limitato il rapporto di implicazione fra C ed E non è mai smentito (meglio: che finora quest’ultimo non è mai stato smentito), e leggi statistiche, tali per cui, dato C, E risulta verificarsi in una percentuale sostanzialmente costante di casi (il che rimanda all’operatività di fattori non noti che condizionano la rilevanza o meno del fattore C). (15) Di per sé il fatto che C produca E sempre oppure in una certa percentuale di casi non incide logicamente, una volta che davvero possano dirsi escluse spiegazioni alternative di E, sulla attendibilità della conclusione che E sia stato cagionato da C. Tuttavia meno ele-
— 1058 — l’iter descritto, che costituisce una condizione necessaria dell’evento è parte, come già si osservava, di una serie causale — di una trama fittissima di concause — tale che solo la sua (improponibile) ricostruzione completa sarebbe in grado di descrivere la condizione sufficiente al verificarsi dell’evento. Di queste concause la maggior parte sono costituite da elementi fisico-naturalistici che, per la loro stabilità, non appaiono in grado di differenziare l’incidenza causale, nelle diverse situazioni concrete, delle singole condotte riconducibili al tipo di quella identificata come condizione necessaria dell’evento di cui si discuta e che, pertanto, non vengono presi in considerazione — facendosi implicito ricorso alla clausola ceteris paribus — dalla legge scientifica pertinente nel rapporto fra il medesimo e il tipo di condotta summenzionato: il problema, semmai, è dato ancora una volta dalla presenza, amplissima, di elementi non noti, la cui neutralità circa il ruolo svolto dall’una o dall’altra condotta umana può essere argomentata in base a dati esperienziali, ma non può essere sostenuta in modo assolutamente sicuro. Quasi sempre, tuttavia, sono rinvenibili nell’ambito della serie causale rilevante condotte — cioè fattori umani — ulteriori, talora remote, rispetto a quella presa in esame, le quali risultano esse pure aver operato come condizioni necessarie dell’evento penalmente significativo. E proprio questa circostanza rende più evidente la necessità di rispondere alla domanda se davvero rilevi, ai fini penalistici, qualsiasi condotta che risulti (ex post) causale, o se debba individuarsi, in proposito, un criterio di selezione. 2.3. La risposta non può che muovere nel secondo senso, posto che risulterebbe contraddittoria l’imputazione di conseguenze, più o meno indirette, di un certo tipo di condotta quando il controllo del rischio relativo al loro verificarsi non fosse richiesto, dal punto di vista giuridico, all’agente (16), vale a dire quando non fossero identificabili ex ante obblighi di quest’ultimo (compresi gli obblighi di totale astensione dall’agire) intesi a far sì che possibili conseguenze della condotta non si verifichino. Se tutte le conseguenze dell’agire dovessero essere (oggettivamente) imputate, l’unica via sicura di salvezza, come evidenziano certe correnti della filosofia orientale, sarebbe una vato è il livello dell’implicazione statistica espressa dalla legge pertinente nel rapporto fra C ed E, più estesi devono ritenersi i margini di incertezza relativi al meccanismo di produzione del fenomeno E (se essi non fossero così incerti, infatti, sarebbe congruo attendersi la formulazione di una legge più circostanziata, espressiva di una probabilità statistica maggiore). Ciò significa che restano nell’ombra interazioni sicuramente rilevanti fra C e altri fattori non noti: C rivela una scarsa efficienza causale rispetto a E, il che è compatibile sia con l’intervento di fattori impeditivi rispetto all’intrinseca efficienza di C, sia con l’eventualità (da non escludersi, di per sé, nemmeno in rapporto alle leggi relativamente universali) che siano altri i fattori determinanti (efficienti) rispetto al prodursi di E, fattori i quali possono operare insieme a C, ma anche in presenza di circostanze diverse da C. Quest’ultima constatazione, però, incide sul livello della probabilità che E sia stato prodotto da antecedenti non noti e in modo autonomo rispetto a C, laddove tale livello, come s’è detto, dovrebbe tendere a zero. Da ultimo, va precisato il significato dell’emergere di un distinguo fra condizioni (ex post) necessarie, efficienti e non: sussistendo, poniamo, la regolarità secondo cui all’assunzione di una certa sostanza X consegue sempre o in una data percentuale di casi l’effetto Y, ma nulla potendosi dire sul principio attivo P che agisca (non potendosi cioè spiegare perché si abbia l’effetto Y), si avrà che P — c.s.q.n. efficiente, nel nostro caso ignota — si differenzia da X perché potrebbe risultare causale anche in circostanze diverse da quelle che lo associano a X (ipotesi tanto più probabile ove la regolarità riconosciuta fra X e Y sia di tipo statistico, specie se caratterizzata da un rapporto di implicazione non particolarmente elevato), mentre X, ove pure si riveli c.s.q.n., non potrebbe essere tale in assenza di P. Sul rapporto fra utilizzazione di leggi statistiche e livello di probabilità logica della spiegazione causale cfr. F. STELLA, op. cit., in part. p. 311 ss.; M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per aumento del rischio’’. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici, in questa Rivista, 1998, p. 47 ss. (16) Oppure quando la percezione stessa del rischio gli fosse impossibile.
— 1059 — sistematica inerzia operativa (17). Né varrebbe far leva, onde escludere il reato, sulla possibilità di sostenere — in un secondo tempo — la non prevedibilità o la non evitabilità (soggettiva) di una certa conseguenza, dato che l’individuo pensoso, come il guru indiano, quasi sempre sa bene che una sua condotta liberamente adottata con le migliori intenzioni potrebbe avere, secondo ricorrenze statistiche quantificabili, effetti indesiderati o che, in aggiunta agli effetti perseguiti, sicuramente ne avrà (si pensi solo all’ipotesi di uno sfruttamento della medesima, per fini illeciti, da parte di altri). Chi costruisce una strada — può essere una metafora di innumerevoli situazioni ulteriori, estensibili fino al citatissimo estremo costituito dalla procreazione del (futuro) omicida (18) — sa che potrebbe essere utilizzata da malfattori, e chi applica al malato una terapia necessaria sovente è ben consapevole del tasso di probabilità relativo alla comparsa di effetti collaterali controproducenti. Si tratta di constatazioni le quali, ovviamente, nulla tolgono al fatto che da un punto di vista anteriore alla condotta determinati rischi debbano essere azzerati, mediante il ricorso a idonei presidi tecnici (l’utilizzazione di un aeromobile deve avvenire in condizioni tali che ogni rischio potenziale di incidente in volo sia sotto pieno controllo), seppure non possa essere esclusa la consapevolezza, alla luce dei dati statistici raccolti a posteriori, della probabilità che anche per il futuro qualche evento avverso si verifichi. Un dato, quest’ultimo, il quale rimanda alla scelta sociale e giuridica circa i margini di tollerabilità dei tassi di fallimento ex post, per qualsiasi ragione (errore umano compreso), relativi ai presidi adottati (19): con riguardo, per esempio, ai rischi derivanti dalla produzione di energia elettrica mediante centrali nucleari si è ritenuto, in Italia, che l’impossibilità di annullare in assoluto l’incidenza di quei tassi (un solo fallimento potrebbe avere conseguenze devastanti) precluda l’attivazione stessa di simili centrali (20). Tanto più il problema emerge allorquando non s’intenda rinunciare ai benefici, certi o probabili, derivanti da una determinata condotta, seppure il rischio di costi indesiderati appaia già ab initio come non del tutto controllabile (vi è in ogni caso un continuum rispetto alle situazioni poco sopra descritte, che diventa ancor più palese ove si tenga conto della variabile errore umano e della variabile riferita all’incidenza, più o meno prevedibile, sugli esiti della condotta di ulteriori condotte volontarie altrui). Di certo le delicate ponderazioni imposte, in rapporto ai beni in gioco, da quanto s’è detto dovrebbero dar luogo a precetti percepibili da ciascun individuo nel momento della decisione relativa all’agire, e non essere il frutto, conoscibile solo ex post, del giudizio penalistico. Se il rapporto fra esseri umani e natura è segnato da una solo parziale dominabilità dei meccanismi eziologici, chi mediti di tenere una qualche condotta deve poter aver chiaro, in altre parole, il quadro dei doveri la cui ottemperanza si impone, onde salvaguardare beni fondamentali, in relazione al progetto comportamentale che va considerando o, meglio, in relazione alle ipotizzabili conseguenze penalmente significative del medesimo. 2.4.
La condotta che, dunque, ha rilievo per il diritto penale — a ciò conduce, del re-
(17) Almeno fintantoché non venga sanzionato il cagionare un evento mediante omissione: ma proprio il fatto che ciò sia previsto contribuisce a dimostrare che penalmente non rileva affatto (si veda infra, 2.4) la causalità riferibile tout court a una condotta, bensì solo la causalità riferibile alla violazione di un dovere finalizzato a evitare il prodursi dell’evento verificatosi, sia esso espresso come dovere di impedire o come dovere di attenersi a una regola cautelare (constateremo che queste due situazioni descrivono una medesima realtà sostanziale). (18) Cfr. per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 200. (19) Si veda infra, 4.2. (20) Il fatto stesso di una tale attivazione costituirebbe dunque nel nostro Paese, al di là delle modalità tecniche che la caratterizzino, violazione di una regola di diligenza (si veda infra, 2.4).
— 1060 — sto, la riflessione sviluppata negli ultimi decenni dalla dottrina (21) — è sempre e soltanto quella che costituisce la violazione di una regola di diligenza (rivolta, cioè, in senso cautelare alla protezione di un determinato bene giuridico) (22), e specificamente di una regola finalizzata a evitare il prodursi di un evento, da intendersi nell’accezione in precedenza descritta, del tipo di quello realizzatosi (23). Sussiste infatti la violazione di una simile regola sia quando non vengano rispettati i criteri di esercizio corretto, significativi onde evitare la lesione di un certo bene, concernenti un’attività lecita di base, sia quando si tenga un comportamento — per esempio, orientare il colpo di un’arma da fuoco verso il corpo di un individuo umano — l’astensione complessiva dal quale è necessaria, in radice (e pertanto dovuta), al medesimo scopo (24). La circostanza, poi, che debba risultare trasgredita, ai fini del reato, non una qualsiasi regola cautelare, ma una regola specificamente orientata a evitare, nella situazione concreta, il realizzarsi del tipo di evento verificatosi significa che la condotta posta in essere dall’agente deve sempre aver prodotto, ex ante, un aumento significativo del rischio di effettiva realizzazione dell’evento successivamente intervenuto. Da quanto detto consegue che le sole condotte causali suscettibili di rilievo penalistico sono quelle a un tempo implicanti, secondo le caratteristiche delineate, il mancato rispetto di (21) Cfr. soprattutto, anche per la ricostruzione storico-dogmatica, G. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte della ‘‘imputazione oggettiva dell’evento’’ e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, p. 3 ss. (22) Sull’uso delle terminologie regola di diligenza e norma cautelare si veda infra, nota 24. Nell’ottica delineata emerge in tutta la sua delicatezza, anche con riguardo al principio di legalità, il nodo concernente la definizione delle regole suddette e, pertanto, dei doveri di diligenza, posto che far leva sulla prevedibilità e sull’evitabilità causale dell’evento, seppur riferendosi al c.d. agente modello, non risulta affatto — come poco sopra si evidenziava — risolutivo (si veda con maggiore ampiezza infra, 4.2). (23) Sono risolvibili su questa base sia le questioni attinenti al concorso di cause, sia, per quel che concerne la ricostruzione del dovere obiettivo di diligenza, le delicate problematiche attinenti al principio di affidamento (cfr. anche infra, nota 71), configurabili pure in re illicita (si pensi, circa l’imputazione per omicidio, all’ipotesi di chi onde sfuggire alla cattura abbia provovato in mare la mera caduta in acqua di un agente della forza pubblica rivelatosi non in grado di nuotare, dando per scontato che il medesimo, per le funzioni svolte, fosse comunque munito, contrariamente alla realtà, del giubbotto di salvataggio: cfr. anche infra, nota 99). (24) Il fatto che a una determinata condotta sia strettamente connesso (quali ne siano le modalità di esecuzione) il realizzarsi dell’evento penalmente significativo nulla toglie alla configurabilità della medesima quale violazione di una regola di diligenza (tale configurabilità ne risulta semmai rafforzata: si pensi all’esempio stesso dell’apprendere il portafogli dalla borsetta aperta di una signora rispetto al delitto di furto, esempio addotto da A. PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, p. 796, onde mettere in discussione la ragionevolezza del verificare in una simile ipotesi la violazione di regole cautelari); del resto, anche nelle ipotesi in cui il sussistere dell’illecito penale, data una certa condotta, appare più scontato (si pensi ai reati di pura condotta), tener per fermo che deve pur sempre trattarsi della violazione di una regola di diligenza aiuta, come si vedrà, a non attribuire rilievo automatico all’esistenza di quel tipo di condotta, e dunque a interrogarsi, per esempio, sulla sua antigiuridicità e sulla sua offensività. Resta ovviamente del tutto legittimo distinguere, nell’ambito delle regole di diligenza, sottospecie ulteriori di regole, per esempio quelle — ordinariamente definite cautelari — che presuppongono una certa condotta (anche illecita) di base: purché ciò non distolga dal percepire l’unitarietà della categoria, vale a dire il fatto che tutte le regole di diligenza sono finalizzate a far sì che non si realizzi una certa offesa (in termini di danno o di messa in pericolo del bene protetto), l’individuazione della quale è necessaria onde stabilire se la regola eventualmente violata sia pertinente rispetto all’evento realizzatosi e, dunque, se sussista un nesso di causalità rilevante ai fini penali tra un certo comportamento e determinati suoi effetti che corrispondano a quelli descritti in una fattispecie incriminatrice. Per questi motivi le espressioni regola di diligenza e regola cautelare (o precauzionale) sono per lo più utilizzate, nel testo, come sinonimi.
— 1061 — una regola di diligenza: in altre parole, che le nozioni di causalità cui fanno riferimento gli articoli 40 e 43 c.p. — l’uno con riguardo al rapporto dell’evento con la condotta, l’altro con riguardo al rapporto del medesimo con la violazione di una norma cautelare — non si riferiscono a due realtà distinte, da considerarsi in successione, bensì alla medesima realtà, e, dunque, coincidono (25). Ove, per esempio, risulti che Caio sia stato investito dall’automobile guidata da Tizio non assume interesse alcuno ai fini del reato di lesioni il fatto che Tizio, senza dubbio, abbia cagionato quell’evento naturalistico penalmente significativo con una propria condotta, bensì soltanto l’interrogativo se l’evento sia stato prodotto da una condotta di Tizio non conforme al rispetto di regole cautelari finalizzate a evitarlo (se le lesioni, poniamo, si configurino o meno come conseguenza dell’eccessiva velocità tenuta da Tizio: tanto è vero che nel caso in cui emerga l’irrilevanza del surplus di velocità, in quanto l’investimento si sarebbe prodotto anche ottemperando alla regola violata, non c’è reato). Dati questi rilievi, cercheremo di evidenziarne, nel prosieguo, alcuni corollari, in conformità all’impianto delineato dal libro I, titolo terzo, del codice vigente. 3. Constatato che la condotta causalmente significativa deve rappresentare, in qualsiasi illecito penale, la violazione di una regola di diligenza, per potersi parlare di condizione necessaria, cioè per assolvere a quanto richiesto dalla formula della c.s.q.n., va escluso che l’evento potesse comunque determinarsi, a parità di altre condizioni, pure nel caso in cui la regola suddetta non fosse stata trasgredita. In questo senso, risulta in linea con le scelte del codice penale in tema di nesso eziologico fra condotta ed evento desumere che il giudizio sulla evitabilità di quest’ultimo sia parte integrante (e quindi ineliminabile), dal punto di vista penalistico, del giudizio complessivo sul nesso citato (26). 3.1. Perché ciò emerga con chiarezza è indispensabile, peraltro, una distinzione, omettendo la quale diviene assai facile l’insorgere di equivoci. 3.1.1. Sussistono, innanzitutto, i casi (A) in cui la non osservanza della regola cautelare si identifica tout court con l’azione — intesa in senso proprio, quale condotta commissiva — naturalisticamente causale, vale a dire i casi in cui l’agire antidoveroso non costituisce modalità di una condotta complessiva più ampia e, dunque, non s’innesta su un comportamento lecito di base (27): il che avviene, in particolare, nella quasi totalità delle condotte commissive dolose (nel senso di intenzionali), poiché in esse l’obiettivo di cagionare l’evento fa sì, per lo più, che si scelga direttamente di agire violando doveri (elementari) di diligenza (nelle fattispecie non causalmente orientate, anzi, la legge stessa descrive le modalità che rendono illecito perseguire un certo risultato, circostanza la quale conferma l’inadeguatezza, affinché il dolo abbia rilievo penale, della mera volizione psicologica di un evento e, dunque, il ruolo essenziale che gioca anche nei reati dolosi la trasgressione dei doveri suddetti) (28). In un simile contesto aver accertato la causalità dell’azione — di una condotta la quale (25) Ne deriva, a sua volta, che la seconda di tali nozioni non attiene (si veda più ampiamente infra, 3) al solo reato colposo. (26) Cfr., sul tema, i riferimenti di cui in M. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p. 435 ss. (in part. nota 182). (27) O su un comportamento di base per sé illecito, ma non in rapporto alle esigenze di prevenzione dell’evento che si consideri (cfr. infra, 3.1.2.1). Cfr. circa i casi in oggetto le puntuali considerazioni svolte da M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 141 s. (28) La scelta di violare una regola di diligenza caratterizza, ovviamente, tutte le condotte dolose: ma in quelle omissive (essenzialmente omissive proprie: cfr. infra, 3.1.2.2, in part. nota 37) la violazione si instaura su un accadimento di base da essa distinto il quale produce in modo autonomo l’insieme dei fattori che porterebbero alla lesione o alla messa in
— 1062 — nella sua interezza non sia conforme a una regola cautelare — significa già aver provato l’evitabilità dell’evento, posto che ipotizzare la presenza della condotta doverosa vorrebbe dire pensare tout court inesistente la condotta causale (che tale si configuri, ovviamente, sulla base di una corretta argomentazione in tema di pluralità delle cause). E ciò rende di fatto inutile interrogarsi sull’evitabilità dell’evento, ma non perché questo requisito non risulti necessario ai fini causali, bensì perché esso viene assorbito nella prova della causalità relativa al comportamento naturalistico complessivo dell’agente. 3.1.2. Ciò precisato, vanno presi in considerazione tutti gli altri casi (B) in cui sussiste un illecito penale, i quali si caratterizzano per il fatto che in essi la prova della causalità esige di operare, comunque, un giudizio ipotetico controfattuale riferito alla presenza di una condotta che si sarebbe dovuta tenere, ma non c’è stata (mentre per quel che concerne le situazioni del primo gruppo la prova suddetta si esaurisce nel giudizio controfattuale riferito all’assenza di un’azione che c’è stata) (29). Anche in tutti questi casi l’accertamento causale che risulta decisivo per l’imputazione penalistica dell’esito di una certa condotta si identifica, a ben vedere, col giudizio circa l’evitabilità di tale esito ove un pertinente dovere fosse stato adempiuto: posto che, si noti bene, solo l’ambito di quanto è richiesto come doveroso definisce i contorni dell’agire penalmente significativo, entro i quali non rientra il tenere un comportamento per sé consentito (cioè non risultante già come tale in contrasto con obblighi precauzionali), né, tantomeno, l’evanescenza del mero non fare. 3.1.2.1. Muoviamo, per una verifica, dalle ipotesi commissive (B1). In esse la violazione della regola di diligenza si innesta su un’attività irrilevante in senso precauzionale rispetto al reato di cui ci si occupi, attività il più delle volte penalmente lecita, ma che potrebbe pur sempre risultare significativa ai fini di un altro reato: e infatti — per quanto l’eredità psicologica del versari in re illicita faccia apparire curioso parlare di osservanza delle regole cautelari rilevanti circa la prevenzione del reato B ove la condotta abbia trasgredito le regole rilevanti circa la prevenzione del reato A, dal quale B sia derivato — deve ammettersi che la sfera delle condotte antidoverose con riguardo alle esigenze preventive giuridicamente riconosciute di un certo reato non è sovrapponibile alla sfera delle condotte antidoverose con riguardo alle analoghe esigenze concernenti un altro reato, seppure il primo, in via eccezionale, possa aver costituito c.s.q.n. del secondo; non si tratta, dunque, di discutere se il reato R1, come talora viene affermato in senso critico, sia stato posto in essere diligentemente, onde evitare il prodursi (anche) di R2, bensì di discutere se nel realizzare, violando regole cautelari, il reato R1 sia stata o meno oltrepassata la soglia di quanto venga ritenuto giuridicamente intollerabile in ordine al fine di evitare il prodursi del reato R2 (30). Ferme queste considerazioni, il caso (B1/1) per così dire ordinario (o meglio, quello che, invero indebitamente, viene non di rado proposto come unico modello della violazione di un dovere di diligenza) si ha quando una specifica condotta C di base è autorizzata a condizione che la si realizzi in un certo modo, vale a dire ponendo in essere una (sub)condotta cautelare C1 volta a impedire il possibile prodursi dell’evento E, penalmente significativo. Orbene, se il dovere di diligenza viene trasgredito, cioè se si dà luogo a una (sub)condotta antidoverosa C2 consistente nell’omissione di C1, e si verifica, in effetti, l’evento E, ma ripericolo del bene protetto se non ci si attivasse adempiendo al comando (la regola di diligenza) espresso nel precetto penale. (29) Cfr., in proposito, C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 821 ss. (30) Il fatto che una pertinente condotta antidoverosa abbia dato luogo a un’ingiuria, a una percossa o perfino a una lesione e risulti esserne derivata la morte della persona offesa non implica l’automatico superamento della soglia di diligenza che deve considerarsi rilevante dal punto di vista giuridico in ordine alla causazione del reato di omicidio.
— 1063 — sulta che E si sarebbe prodotto anche nell’alternativa costituita dall’adozione di C1 (31), deve riconoscersi che la (sub)condotta C2 non è stata c.s.q.n. del prodursi di E. Per comune ammissione ciò implica, tuttavia, l’irrilevanza ai fini dell’imputazione penale del dipendere naturalistico di E dalla condotta di base C: il che evidenzia come ai fini della suddetta imputazione risulti decisivo il quesito se sia risultata causale la violazione di una regola di diligenza e, dunque, se sia risultata causale non una condotta tout court, bensì una condotta antidoverosa dell’agente. Rientrano nello schema delineato, a ben vedere, anche ipotesi (B1/1.2) del tipo cui ci si richiamava al termine del paragrafo precedente, nelle quali la condotta antidoverosa C2 consiste nel fare qualcosa in più di quanto consentito, cioè nell’omettere il rispetto di un limite C1 (per esempio, del limite di velocità): se nemmeno il rispetto suddetto avrebbe impedito, C2 non può dirsi causale. Almeno in parte diverso è il caso (B1/2), invece, nel quale la condotta antidoversosa (attiva) C2 sia in effetti risultata c.s.q.n. dell’evento penalmente significativo E, ma lo sarebbe stata anche la condotta prescritta C1. Il quadro, in altre parole, è quello di una condotta base C, essa pure, ovviamente, c.s.q.n. dell’evento E, che tuttavia non è in grado da sola (senza C2 o senza C1) di determinarlo, laddove sia C2 che C1, idonee a conseguire un risultato connesso o necessario all’attuazione di C, si rivelano altresì idonee a costituire c.s.q.n. efficiente (32) di E: mentre si era fatto conto (ex ante) su una riconosciuta inidoneità di condotte del tipo C1 a produrre eventi avversi del tipo verificatosi e proprio per questo le si erano considerate doverose, in rapporto al conseguimento del risultato connesso o necessario all’attuazione di una condotta base del tipo C (dunque, non in quanto impeditive di eventuali conseguenze indesiderate riconducibili direttamente a C). Viene per esempio in considerazione il notissimo caso, descritto nel 1926 (33), relativo all’impiego, per ottenere la narcosi durante un intervento chirurgico, di cocaina piuttosto che di novocaina, con riguardo all’ipotesi in cui l’esito infausto prodottosi come conseguenza del ricorso alla prima sostanza si sarebbe realizzato anche se si fosse agito diligentemente, utilizzando la seconda. In situazioni consimili l’evento, sotto il profilo naturalistico, deriva senza dubbio hic et nunc dall’adozione di un comportamento diverso da quello doveroso. Risulta del pari chiarissimo, tuttavia, come quel determinato evento non derivi dal fatto che sia stata violata una regola di diligenza (come esige l’art. 43 c.p.), posto che il medesimo, anche nel caso del rispetto — inutile nel caso concreto — di quella regola, si sarebbe rivelato, per l’appunto, hic et nunc inevitabile (34). La rilevanza penale di tali situazioni — sulle peculiarità dell’ipotesi dolosa dovremo peraltro ritornare (35) — non appare dunque sostenibile. Essa, infatti, darebbe peso decisivo, in un ordinamento fondato sulla causazione evitabile di eventi, al disvalore della condotta, cioè della mera violazione, non rivelatasi causale, di una regola di diligenza: laddove la medesima violazione non seguita, per una qualsiasi circostanza fortunata, dall’evento rimarrebbe indenne, come ben si sa (salvo che sia prevista quale reato autonomo), da qualsiasi conseguenza punitiva. 3.1.2.2. Passiamo ora ad analizzare le ipotesi in cui si discuta di una condotta omissiva (B2). A differenza di quanto avviene per l’azione, l’accertamento del nesso eziologico fra un non fare e l’evento esige sempre il giudizio controfattuale riferito alla capacità della (31) Ciò significherebbe che non erano ex ante riconoscibili obblighi comportamentali in grado di assicurare effettivamente il non prodursi dell’evento anche nella specifica situazione concreta. (32) Cfr. supra, nota 15. (33) Cfr. A. CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, p. 97 s. (34) Cfr. altresì, per alcuni approfondimenti, infra, nota 51. (35) Si veda infra, par. 4.1.2.
— 1064 — condotta doverosa di impedire quel medesimo evento (36). Anzi, per quel che concerne i reati omissivi impropri l’apporto causale del soggetto garante ordinariamente sta tutto, anche dal punto di vista naturalistico, nella violazione della regola di diligenza (che dev’essere accertata in base al giudizio suddetto), non venendo in gioco, di solito, alcuna condotta attiva base di quel soggetto la quale abbia operato, oggettivamente, come c.s.q.n. dell’evento (37): il giudice è sì tenuto ad accertare previamente che quest’ultimo sia stato comunque prodotto, in senso fisico, da un fattore (sia esso o meno una condotta umana) che rientri fra quelli rilevanti ai fini della posizione di garanzia, ma tale fattore, per l’appunto, non consiste — salvo il caso in cui la posizione di garanzia di un certo soggetto nasca proprio da una sua attività illecita — in una condotta del garante. Ciò implica, peraltro, una deduzione fondamentale di carattere sistematico, la quale consiste nel riconoscere, nonostante le apparenze e le molte elaborazioni dogmatiche in senso contrario, che il reato omissivo e quello attivo non costituiscono forme separate di costruzione della fattispecie penale: a ben vedere, infatti, il primo si configura come peculiare modalità descrittiva della medesima realtà che sta alla base del secondo (38). Lo si può evincere con chiarezza confrontando il modello omissivo improprio con le fattispecie di azione colpose. Il reato commissivo per omissionem consiste infatti nel cagionare un evento mediante il mancato adempimento di un obbligo dai contenuti (di regola) non predeterminati, ma pur sempre ricostruibili ex ante, da parte di un soggetto che si trova in una posizione particolare: questo, tuttavia, accade pure nel reato attivo colposo (supponendo presenti i requisiti soggettivi di cui ci occuperemo più oltre), e in particolare nel reato attivo a colpa generica. Nell’omissione impropria, in altre parole, il comando è di intervenire, secondo modalità doverose non predeterminate in sede normativa, per impedire l’evento, non diversamente da quel che accade nel reato attivo colposo, ove il comando è di adottare le cautele necessarie — cioè di fare tutto ciò che, pur non essendo fissato in norme precauzionali specifiche, sia riconoscibile ex ante come doveroso — onde non consentire il verificarsi dell’evento. Al di là delle catalogazioni formali, si tratta indubbiamente della stessa cosa. L’unica disomogeneità significativa (39) attiene alla circostanza che nel reato attivo col(36) Sotto il profilo naturalistico, d’altra parte, la causalità del non fare, semplicemente, non esiste (configurandosi come una vera e propria contraddizione in termini): la nozione di causalità omissiva manifesta, piuttosto, come nei casi in cui di essa si parla quel che conta è la causalità riferita all’inottemperanza di un dovere, cioè alla violazione di una regola di diligenza (si veda infra, 3.1.2.2, per quel che concerne il rapporto fra reati omissivi e reati colposi realizzati mediante azione); per una sintesi in merito alla problematica complessiva cfr. M. MAIWALD, Causalità e diritto penale, trad. it., Milano, 1999, p. 86 ss. (37) Le cose stanno in modo diverso nel reato omissivo proprio: in esso il pericolo cui viene a essere esposto un determinato bene (p. es., l’interesse fiscale dello Stato), onde evitare la cui lesione è previsto un obbligo di agire costituente la regola di diligenza (p. es., presentare la dichiarazione dei redditi), deve far capo a una delle situazioni base, descritte in termini più o meno precisi dalla norma incriminatrice, con riguardo alle quali l’obbligo medesimo sussiste (p. es., un’attività professionale produttrice di reddito), situazioni che di regola coinvolgono, in effetti, un’attività lecita, e talvolta doverosa, svolta dallo stesso soggetto omittente (talora un’attività di controllo; il caso dell’omissione di soccorso si rivela dunque, anche da questo punto di vista, come peculiare). (38) Sull’essenzialità della componente omissiva nel reato colposo si veda ad esempio, anche per i riferimenti bibliografici, M. MANTOVANI, op. cit., p. 139 ss. (39) Le elaborazioni impegnate nel tracciare confini (v. per tutti, e per gli ulteriori riferimenti bibliografici, F. GIUNTA, Illecito e colpevolezza nella responsabilità colposa [I - La fattispecie], Padova, 1993, p. 94 ss., e I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 118 ss.) finiscono in effetti per attestare, attraverso il loro stesso sforzo analitico, la unitarietà sostanziale della materia: unitarietà la quale non impedisce, ovviamente, di operare suddistinzioni descrittive dei diversi contesti situazionali in essa sussumibili (che non s’identificano con la divisio classica fra reato commissivo col-
— 1065 — poso fonte dell’obbligo risulta, ordinariamente, lo svolgimento di un certo tipo di attività, in radice lecita, da parte dello stesso soggetto per il quale l’obbligo viene a configurarsi, mentre nell’omissione impropria fonte del medesimo è, di regola, la sussistenza di un particolare legame fra chi sia tenuto a impedire l’evento e il diverso soggetto che corra un pericolo o che ponga altri o se stesso in pericolo (40). Si tratta, peraltro, di una differenza che non incide sulla configurazione delle condotte penalmente significative (41), tanto è vero che non risulta affatto rigida. Nei casi, ad esempio, in cui il dovere insorga per un certo soggetto dall’attività illecita che egli stesso abbia posto in essere, il prodursi dell’evento a seguito di inadempienza viene inquadrato talora come reato omissivo improprio (in conformità alla tripartizione tradizionale delle fonti di una posizione di garanzia), talora come illecito attivo colposo (si pensi a molte ipotesi in cui un reato non voluto si produce a seguito di una condotta antidoverosa connessa alla realizzazione intenzionale di un altro reato) (42). Del pari deve constatarsi come nell’ambito di attività complesse o di équipe la mancata attivazione da parte di un certo soggetto della condotta doverosa intesa a evitare effetti indesiderati di una condotta altrui (si pensi al collaboratore del chirurgo che debba iniettare, poniamo, un farmaco cardioprotettore durante un intervento) venga reputata rilevante, allorquando l’evento si realizzi, ai fini di un reato attivo e non di un reato omissivo improprio (43). poso e omissivo improrio), purché ciò non conduca a perdere di vista le strutture portanti unitarie e ad avallare, di conseguenza, ingiustificabili differenze di trattamento. (40) Significativamente V. MILITELLO, La colpevolezza nell’omissione: il dolo e la colpa del fatto omissivo, in Cass. pen., 1988, p. 988 s., pur mantenendo ferma ‘‘l’opportunità di distinguere obbligo di garanzia e dovere di diligenza’’ (fatta salva, peraltro, ‘‘l’innegabile esistenza di punti di contatto e di reciproche interferenze’’), rimprovera da un lato alla Cassazione di aver qualificato omissiva, piuttosto che commissiva colposa, la condotta dei costruttori degli impianti nella ben nota vicenda concernente la sciagura di Stava (sent. 6 dicembre 1990, in Foro it., 1992, II, c. 35 s.), addebitando dall’altro alla Corte di non aver delimitato l’ambito dell’obbligo secondo la regola ordinariamente riferita proprio alla responsabilità colposa omissiva, secondo cui ‘‘il contenuto della diligenza non può superare il livello di obbligo posto dalla norma che fonda la posizione di garanzia’’: tale regola, dunque, si sarebbe dovuta applicare, secondo l’Autore, anche ove la condotta fosse stata qualificata commissiva, il che però evidenzia l’imporsi di un’uniformità della disciplina riferibile ai casi di omissione impropria e reato commissivo colposo, rivelatrice, a sua volta, di come queste ultime figure siano fra loro, in effetti, assimilabili (la Corte non avrebbe proceduto a una specifica valutazione del dovere di diligenza, e dunque del rischio intollerabile [si veda infra, 4], limitandosi ad asserire il risiedere della colpa ascritta agli imputati, tout court, ‘‘nella violazione della regola fondamentale di prudenza, cioè quella dell’azzeramento del rischio’’). (41) Essa potrebbe semmai giustificare un atteggiamento più indulgente nei confronti dei reati omissivi impropri: proprio al contrario di quello che per esempio è avvenuto, come si dirà nel testo, con alcune ricostruzioni del dolo in ambito omissivo palesemente derogatorie rispetto alle regole generali. (42) Cfr. sulla problematica I. LEONCINI, op. cit., p. 345 ss. (43) Queste precisazioni dovrebbero risultare utili onde evitare che facili passaggi dalla qualificazione di una determinata realtà come reato commissivo colposo alla qualificazione della medesima come reato omissivo improprio (colposo) possano essere operati al solo fine di giustificare, seguendo la seconda soluzione, un accertamento semplificato del nesso causale: cfr. in proposito M. DONINI, op. ult. cit., p. 66 s., con riguardo a una vicenda concernente la morte di operai esposti per lungo tempo a sostanza gravemente tossica, vicenda per l’appunto descritta in sede processuale come reato omissivo per omessa osservanza di cautele da parte dell’imprenditore (ciò che peraltro appare importante, circa quest’ultima ipotesi, è distinguere a seconda che all’epoca dei fatti utilizzare quella determinata sostanza tossica fosse da considerarsi tout court illecito, essendo già nota l’inidoneità di eventuali cautele, e allora potrebbe prospettarsi una situazione colposa riconducibile al caso A del testo, oppure fosse da considerarsi lecito, salva l’adozione di cautele, e allora la questione si identificherebbe con lo stabilire — vuoi che si parli di condotta attiva od omissiva
— 1066 — Quanto s’è detto circa la sostanziale unitarietà di struttura delle fattispecie penali, al di là della caratterizzazione omissiva o attiva, trova ulteriore conferma in rapporto ai casi di omissione propria. In essi si ha la violazione di una regola cautelare specifica, direttamente indicata dal legislatore e consistente in un fare, violazione che deve dar luogo, nelle forme di cui già si diceva, all’evento in senso giuridico: il che risulta del tutto analogo a quanto avviene nei reati attivi di pura condotta, salvo il fatto che in questi ultimi la regola cautelare specifica, della quale nella norma incriminatrice viene descritta la trasgressione, consiste in un non fare. 3.2. Da tutto questo derivano due ulteriori, importanti conseguenze, che attengono all’improponibilità di criteri differenziati, da un lato, per l’accertamento dell’effettiva incidenza causale della violazione (necessaria in qualsiasi illecito rilevante ai fini penali) di una regola di diligenza, e, dall’altro, per la ricostruzione dei requisiti indispensabili al sussistere del dolo nei reati commissivi e in quelli omissivi. 3.2.1. Con riguardo al primo punto è ovvio, innanzitutto, che quando la condotta naturalistica tenuta da un determinato soggetto coincide con la violazione di una regola di diligenza (cfr. supra, caso A) il livello di probabilità logica della efficacia causale, rispetto all’evento verificatosi, di tale violazione si identifica col livello di probabilità logica della efficacia causale relativa alla condotta. E nessuno discute che quel livello debba attestarsi, in sede di accertamento, su valori contigui al 100%. Ciò premesso, vengono presi in considerazione da autorevole dottrina (44) i casi in cui la violazione della regola di diligenza non si instauri su una condotta base, per sé lecita, del trasgressore risultata causale, dal punto di vista naturalistico, nei confronti dell’evento: si tratterebbe a) delle (‘‘vere’’) ipotesi omissive improprie (B2), b) di ipotesi che andrebbero qualificate commissive colpose pur concretizzandosi nel non aver attivato condizioni negative dell’evento (ma, al di là della acribia analitica, il distinguo fra non attivare condotte negative e non impedire, dal punto di vista logico, sfugge) (45), nonché c) di ipotesi nelle quali vengano attivamente interrotti decorsi causali di salvataggio. Pure in questi casi si riconosce che il livello di probabilità logica dell’efficacia causale relativa alla violazione del dovere debba rivelarsi contiguo al 100%: esaminiamoli, peraltro, più da vicino. Mancando la citata condotta base, nelle prime due situazioni l’apporto causale dell’agente sta tutto, anche sotto il profilo naturalistico, nel non aver fatto qualcosa, cioè nell’aver dato luogo a quello status causale — che è di tipo logico, e come tale rispondente alla formula della c.s.q.n., ma non di tipo efficiente (ex nihilo nihil fit) — suscettibile di essere accertato solo in rapporto alla attitudine impeditiva di una condotta (dovuta) che non c’è stata (46). Il giudizio causale coincide, in ogni senso, col giudizio sulla evitabilità e la conclusione, contro talune derive giurisprudenziali, è, coerentemente, quella secondo cui l’accertamento deve raggiungere un livello di credibilità razionale confinante con la certezza. Nella terza situazione il soggetto che si assume interrompa attivamente un decorso di — se sia stata o meno causale l’omissione delle stesse). Si veda anche infra, 3.2.1, ultima parte. (44) Cfr. M. DONINI, op. ult. cit., in part. p. 53 ss. (45) L’idea secondo cui il medico che sbaglia cure, con danno del malato, porrebbe in essere ‘‘condizioni positive dell’evento lesivo’’ attivando, per negligenza, ‘‘condizioni impeditive inutili’’ (le terapie errate) — e ciò in quanto egli non violerebbe ‘‘un comando penale, bensì solo un divieto: il divieto di cagionare (o contribuire a cagionare, se si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza...’’ (così M. DONINI, op. ult. cit., p. 55) — pare veramente una complicazione dogmatica eccessiva e artificiosa, che finisce solo per confermare la sovrapponibilità sostanziale fra condotte commissive colpose e omissive improprie. (46) Cfr. supra, nota 36.
— 1067 — salvataggio tiene, per l’appunto, una condotta commissiva (47): ma poiché la causalità di tale condotta rispetto all’evento penalmente significativo è dimostrabile solo se, appurato (è ovvio) il nesso causale fra la medesima e l’interruzione di un’altra condotta o di certi suoi effetti, già si sappia che quest’ultima impediva il realizzarsi altrimenti dell’evento, sarà necessario verificare se sia sostenibile che eliminando mentalmente la condotta (ritenuta) di salvataggio (che c’è stata) venga meno, tenuto conto al meglio dei fattori concausali, la salvaguardia del bene tutelato — verifica quest’ultima attinente a un profilo di causalità attiva (48) da accertarsi secondo i criteri noti, che devono essi pure dar luogo a un livello di credibilità razionale della spiegazione confinante con la certezza. La medesima dottrina poco sopra richiamata, tuttavia, giunge a conclusioni diverse con riguardo ai casi nei quali il mancato rispetto di un dovere si instauri su una condotta base lecita (o solo ad altri fini illecita) del medesimo soggetto, la quale, senza dubbio, sia stata c.s.q.n. dell’evento. L’accertamento con attendibilità prossima al 100% di quest’ultimo profilo causale renderebbe sufficiente un livello probabilistico anche molto più basso nel giudizio relativo alla evitabilità, supposto adempiuto il dovere di diligenza, dell’evento stesso: basterebbe provare che l’aver disatteso tale dovere abbia, più o meno significativamente, aumentato il rischio di un effettivo determinarsi dell’evento a seguito della suddetta condotta base (viene per lo più indicata una soglia minima del 30%), il che consentirebbe di imputare dal punto di vista penalistico la produzione di risultati antigiuridici in presenza della violazione di regole cautelari specificamente orientate a scongiurarli anche quando non fosse certa (nei termini più volte precisati) l’incidenza causale di quest’ultima (49). Orbene, una simile impostazione appare non sostenibile sia dal punto di vista logico, sia dal punto di vista politico-criminale. Dal punto di vista logico in quanto, come più volte s’è detto, ciò che rileva ai fini penalistici è l’aver violato con il proprio agire regole di diligenza, per cui la causalità penalmente significativa, da accertarsi con un livello di credibilità razionale prossimo alla certezza, non può che essere quella concernente gli aspetti antidoverosi di un certo iter comportamentale: a meno di non voler costruire una vera e propria presunzione del nesso eziologico penalmente significativo fondata sull’addebito, contraddittorio, del versari in re licita sed periculosa, con riguardo all’ipotesi che l’evento consegua, in effetti, all’attivazione di un rischio consentito e sussista altresì la violazione di una pertinente norma cautelare (in proposito si tenga conto del fatto che se non viene impedito a priori di tenere una certa condotta essa deve ritenersi, quantomeno, socialmente adeguata, risultando anzi, assai spesso, socialmente utile o addirittura doverosa) (50). In ogni caso, perché mai, poniamo, il medico che compia un passaggio sbagliato nell’ambito di una procedura terapeutica complessa dovrebbe rispondere dell’eventuale esito in(47) Nulla impedisce, tuttavia, di immaginare scenari in cui l’interruzione del decorso suddetto avvenga in forma omissiva: si pensi all’impedita prosecuzione di una terapia per mancata fornitura, supponiamo preordinata, dei farmaci necessari. (48) Ciò in quanto non si tratta di domandarsi (in quella che sarebbe un’ottica di causalità omissiva) se attivando la condotta di salvataggio l’evento lesivo sarebbe venuto meno: il giudice, infatti, non muove dalla constatata verificazione dell’evento in assenza della (supposta) condotta di salvataggio, bensì dalla constazione che, presente quest’ultima (fino a quando quest’ultima è stata presente), l’evento non si è verificato. (49) Cfr. M. DONINI, op. ult. cit., p. 75 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici; ID., voce Teoria del reato, in Digesto disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 64 s. dell’estratto (n. 27). Sull’intera problematica relativa al comportamento alternativo lecito si veda altresì, ampiamente, G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 659 ss. (50) Attribuire un significato dirimente alla sussistenza, data la violazione della regola cautelare, di una causalità comunque riconducibile alla condotta lecita di base sembra porsi in contraddizione, del resto, con lo sforzo compiuto da parte dello stesso indirizzo dottrinale cui s’è fatto riferimento onde selezionare, fra le condotte naturalisticamente causali, quelle rilevanti ai fini dell’imputazione di un reato.
— 1068 — fausto di quest’ultima per il mero fatto che l’errore abbia aumentato la probabilità valutabile ex ante di tale esito (anche soltanto del 30%), laddove giustamente si riconosce che nel sistema in vigore il medico che non ottemperi, addirittura, all’obbligo della presa in carico di un malato risponde dell’eventuale evento lesivo solo ove sussista una probabilità contigua al 100% di non verificazione del medesimo in presenza di un obbligo correttamente adempiuto? (51). In sintesi: esigere livelli diversi di prova circa l’effettiva incidenza causale della condotta antidoverosa necessaria per la sussistenza di un reato introduce una disparità di valutazione slegata da qualsiasi ancoramento razionalmente sostenibile a presupposti fattuali. Una simile diversificazione risulta del resto incoerente, nonostante ciò che a prima vista potrebbe apparire, anche dal punto di vista politico-criminale. Se l’intento vuol essere quello di non lasciare esenti da conseguenze violazioni, talora macroscopiche, dei doveri di diligenza, specie allorquando essi siano posti a tutela di beni fondamentali, allora deve prendersi atto della circostanza che un sistema penale imperniato, specie per quel che concerne il reato colposo, sulla causazione di eventi (qui intesi in senso naturalistico) mette in conto strutturalmente che condotte rischiose anche gravi possano essere realizzate con una minima probabilità di risposta sanzionatoria, ricollegandosi quest’ultima, per l’appunto, all’eventualità — il più delle volte, tutto sommato, improbabile — che esse producano effettivamente gli eventi suddetti (52). Una situazione, quest’ultima, la quale determina una sorta di cifra oscura istituzionalizzata (in quanto non derivante da difficoltà accertative, ma da un meccanismo riconducibile alla teoria del reato), con riflessi evidenti sul piano della prevenzione generale; una situazione, inoltre, tale per cui, realizzata una condotta antidoverosa, il fatto che a quest’ultima possa conseguire o meno la pena prevista per il prodursi, ad essa dovuto, dell’evento penalmente significativo dipende, lo si deve riconoscere, soltanto dal caso. Stando così le cose, perseguire risultati preventivi scegliendo di punire, talora, anche quando risulti soltanto probabile, o possibile, che la condotta antidoverosa abbia provocato (51) Cfr., per esempio, M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano, 1995: da un lato non viene accolta la tesi secondo la quale nel caso di omesse prestazioni diagnostiche o terapeutiche il medico dovrebbe rispondere già quando l’intervento ‘‘presentasse ‘buone’ o addirittura ‘poche’ probabilità di salvarlo’’, né quella secondo la quale ‘‘basterebbe che l’intervento avesse ‘serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata’ ’’ (sub art. 40, n. 42, p. 351, con riferimenti giurisprudenziali); con riguardo all’ipotesi in cui il medico non abbia omesso di intervenire, ma dalla sua condotta (di per sé a rischio) risulti essere derivato l’evento, si accetta, invece, la sufficienza, circa l’imputazione penale, della constatata violazione di una norma di comportamento, anche se fosse dimostrabile soltanto che essa abbia aumentato il rischio relativo al prodursi dell’esito infausto (sub art. 41, n. 41, p. 380 s.). ‘‘Diversamente opinando — secondo l’illustre Autore — si perverrebbe a conclusioni difficilmente accettabili: non potrebbe imputarsi per esempio la morte del paziente al chirurgo che pure l’abbia cagionata con un gravissimo errore, se soltanto non si fosse in grado di escludere che il paziente potesse morire anche con un’operazione perfetta’’ (ibidem): l’esempio, tuttavia, prova troppo perché dà per scontato (ove la congiunzione con sia da intendersi in senso causale) proprio ciò che nelle situazioni delle quali discutiamo risulta ordinariamente incerto, vale a dire la circostanza che effettivamente l’evento sia stato prodotto dalla violazione della regola cautelare. Del resto, nei casi in cui davvero fosse certa l’efficacia causale di un errore, sarebbe assai rara l’eventualità che al medesimo evento si potesse pervenire anche in assenza dell’errore, eventualità la quale si realizza, per esempio, nel caso già esaminato B1/2, ove proprio il fare ciò che sarebbe stato giusto (dare novocaina invece di cocaina) avrebbe pur sempre prodotto il risultato non voluto; rimarrebbe tuttavia discutibile, nelle ipotesi in cui non potesse escludersi il probabile verificarsi in uno stretto lasso temporale, assente l’errore, di un evento dello stesso tipo, la conformità del punire alla logica codicistica incentrata sulla evitabilità sostanziale della compromissione di beni protetti. (52) Si veda anche infra, 4.3.1.
— 1069 — l’evento rilevante ai fini penali significa, oltre che violare il principio di uguaglianza, cedere a un’utilizzazione simbolica della pena, che ostacola l’adozione di risposte efficaci all’esigenza di un controllo serio della produzione di rischi socialmente non tollerabili (53). Quel che dovrebbe imporsi, piuttosto, è il superamento dei modelli sanzionatòri tradizionali, caratterizzati dal ruolo cardine della detenzione (proponibile con minori resistenze, per l’appunto, facendo leva sul prodursi dell’evento lesivo): modelli i quali hanno fornito copertura alla scarsa disponibilità, che sovente accomuna uomo della strada e potentati economici, verso lo strutturarsi mediante adeguati strumenti anche prepenalistici — col supporto di sanzioni che non richiedono il ricorso al carcere — del controllo summenzionato. Una realtà, questa, idonea fra molte altre a far emergere come l’aver incentrato la politica criminale sulla minaccia di pene (ordinariamente) detentive giustificate in quanto retribuzione del danno materialmente patito da un bene protetto abbia compromesso, in larga misura, l’adozione di strategie preventive razionali (54). 3.2.2. Per quanto concerne la seconda conseguenza deducibile dal fatto che la violazione, rivelatasi causale rispetto all’evento, di una (pertinente) regola precauzionale costituisce requisito necessario di qualsiasi reato, deve osservarsi come il sussistere di un medesimo atteggiamento psicologico verso simile realtà unitaria, cioè verso la violazione summenzionata, non possa dar luogo a forme diverse di imputazione soggettiva in rapporto all’una o all’altra modalità di descrizione dogmatica dell’illecito. In particolare, se ai fini del reato commissivo la decisione di correre un determinato rischio, nella piena consapevolezza dei dati situazionali che qualifichino antidoverosa una simile scelta, dà luogo senza alcun dubbio — ove l’evento penalmente significativo si verifichi e manchino i requisiti ulteriori necessari per l’imputazione del dolo — a mera colpa cosciente, la medesima decisione non è affatto suscettibile di essere reputata da sola sufficiente a integrare il dolo nell’ambito omissivo, con riguardo soprattutto (ma non solo) al reato omissivo improprio (55). Il titolare di una posizione di garanzia che, consapevole del suo ruolo e del rischio, decida (56) di non attivarsi onde impedire, poniamo, a un minorenne di utilizzare un macchinario (per lui) pericoloso non si trova in una posizione differente, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, rispetto a chi decida di non rispettare doveri cautelari della cui esistenza sia del tutto cosciente, sapendo di esporre a un rischio non consentito determinati soggetti, per la tutela dei quali tale dovere risulti previsto: in entrambi i casi, sempre che sussista oltre al comportamento antidoveroso quanto integri la componente soggettiva dell’imputazione colposa, è riscontrabile soltanto la colpa cosciente. Come ribadiremo con maggiore ampiezza più oltre, la volontà della condotta (di tenere, cioè, una condotta antidoverosa) non può mai essere surrettiziamente trasformata — dando rilievo, per giunta, a catalogazioni dogmatiche prive di qualsiasi substrato sostanziale effettivo — in volizione dell’evento. A ben vedere, del resto, e in conformità a quanto si è andati sin qui argomentando, ogni regola di diligenza istituisce posizioni di garanzia, come pure l’individuazione di una posizione di garanzia istituisce, a sua volta, regole di diligenza: sono angoli visuali diversi attinenti alla medesima realtà costituita dall’introduzione, in un dato contesto, di doveri comportamentali significativi per il diritto penale, che mirano alla salvaguardia di beni facenti capo agli individui sui quali possa incidere l’agire di un determinato soggetto. (53) Cfr. in proposito i rilievi assai incisivi di F. STELLA, Scienza e norma nella pratica dell’igiene industriale, in questa Rivista, 1999, p. 388 ss.; si veda anche infra, 4.3.3 e 8.2. (54) Si consenta il rinvio, sul punto, a L. EUSEBI, Può nascere dalla crisi della pena una politica criminale?, in ID., Crisi della pena e politica criminale, di prossima pubblicazione. (55) Cfr. L. EUSEBI, Il dolo, cit., p. 202 ss. (56) Cfr., anche per ulteriori riferimenti, M. ROMANO, op. cit., sub art. 43, n. 15, p. 409.
— 1070 — Non a caso, inoltre, nei reati omissivi impropri caratterizzati da una violazione cosciente dell’obbligo di impedire viene quasi sempre in gioco, un livello modesto del rischio valutabile ex ante di un effettivo realizzarsi dell’evento che rilevi ai fini penali: come accade ordinariamente anche nel reato commissivo colposo, allorquando, per l’appunto, si tratti di colpa con previsione. Una peculiarità, quella or ora segnalata, del tutto comprensibile, posto che di regola chi agisce con dolo opta, in quanto vuole il realizzarsi dell’evento, per l’adozione di una condotta che ottimizzi le chances di conseguire il risultato (o, quantomeno, che operi il miglior bilanciamento fra tali chances e il desiderio di non essere scoperto), e ben difficilmente, dunque, decide di sfruttare ai suoi fini la violazione a basso rischio di regole cautelari che abbiano rilievo in suoi rapporti contingenti con la vittima potenziale. Mentre chi non vuole l’evento accetta per lo più di correre in modo consapevole il rischio del suo verificarsi, con le relative conseguenze penali (per sé, colpa cosciente) (57), solo ove il livello di tale rischio appaia ex ante contenuto (rilievo, beninteso, di carattere puramente statistico, il quale non implica affatto che l’entità oggettiva del rischio incida sull’atteggiamento psicologico dell’agente verso l’evento). Ne trae conferma ulteriore la constatazione del fatto che il reato omissivo improprio, anche nel caso in cui sussista una violazione cosciente dell’obbligo di cui all’art. 402 c.p., si configura, per così dire, come strutturalmente colposo (58). 4. Individuare il mancato rispetto di una regola precauzionale come caratteristica unitaria delle condotte rilevanti ai fini penali (59) vuol dire riconoscere che qualsiasi reato si radica sull’esposizione illecita di un bene giuridico a un determinato rischio: ne deriva che ricostruire le regole precauzionali pertinenti, allorquando esse non risultino già formalizzate (mediante leggi, regolamenti, ordini, discipline) rispetto a una data situazione, implica interrogarsi, con riguardo all’epoca e al contesto della condotta, sui livelli di tollerabilità — o sulla non tollerabilità a priori — dei rischi a quest’ultima connessi, cioè sulle modalità dovute di controllo o di azzeramento dei medesimi. Per quel che concerne l’iter argomentativo del giudice, sarà pertanto da valutarsi, in un momento logicamente anteriore all’accertamento della colpa o del dolo, se sia stata consentita l’operatività di un rischio che non avrebbe dovuto sussistere, vale a dire se sia stato trasgredito, in tal senso, un obbligo di diligenza. Si tratterà di chiedersi, in altre parole, se il rischio valutabile ex ante di produzione dell’evento a seguito di una condotta umana abbia o meno superato la soglia che rende tale rischio non consentito e, dunque, significativo per il configurarsi di un illecito penale, soglia che al fine suddetto dovrà sempre risultare compatibile, come vedremo, con un’imputazione colposa. In proposito va evidenziato come il giudizio sulla accettabilità o non accettabilità del rischio sia da condursi alla luce di tutti i profili concernenti il caso concreto che incidano sulla ponderazione degli interessi in gioco, ponderazione la quale andrà pur sempre effettuata utilizzando criteri orientativi desumibili, finché possibile, dal sistema giuridico. Lo stesso rischio che è in grado di fungere da presupposto, date certe circostanze, per un’imputazione colposa o, eventualmente, dolosa può dunque risultare consentito in un contesto diverso: si pensi all’invio in zona di guerra di un giornalista piuttosto che del solito zio benestante e disinformato che intenda compiere un mero viaggio di piacere oppure, più rea(57) Sul problema del dolo eventuale v. infra, 6.2.2. (58) Si considerino, in proposito, anche i rilievi di S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 66; cfr., inoltre, E. GIMBERNAT ORDEIG, Das unechte Unterlassungsdelikt, in ZStW, 1999, p. 328. (59) Cfr., oltre a G. MARINUCCI, op. cit., p. 26 ss., G. FORTI, op. cit., p. 388; S. PROSDOCIMI, voce Reato doloso, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1996, p. 242; M. MANTOVANI, op. cit., pp. 167 ss. e 451.
— 1071 — listicamente, alla utilizzazione di una terapia ad alta incidenza di eventi infausti, sussistendo o meno uno stato patologico, non altrimenti affrontabile, che ponga in pericolo la vita di un paziente. 4.1. Queste ultime considerazioni assumono particolare importanza ai fini della risposta alle critiche sollevate contro l’individuabilità di caratteristiche unitarie del rischio penalmente intollerabile riferito a ciascuna condotta pericolosa che si realizzi in un dato contesto (60), caratteristiche la cui definizione (indicativa del confine fra le condotte conformi o non conformi a diligenza) antecede la verifica circa l’esistenza della colpa o del dolo. 4.1.1. Tali considerazioni, infatti, aiutano a fare chiarezza su uno dei percorsi argomentativi utilizzati più di frequente onde affermare che potrebbero sussistere rischi rilevanti ai fini del dolo, i quali, tuttavia, non sarebbero idonei a consentire un rimprovero per colpa: dal che si dovrebbe evincere la non unitarietà delle soglie di rischio indispensabili per l’attribuzione delle diverse forme di responsabilità personale, e in particolare la non necessaria coincidenza della soglia che può permettere l’intervento del diritto penale con quella utile ai fini della modalità di imputazione soggettiva meno grave. ‘‘La volontà di offesa — si afferma — fondata su una consapevolezza effettiva di una situazione concretamente pericolosa, può costituire una realizzazione dolosa anche laddove siano rispettate le cautele astrattamente dovute per il tipo di attività considerata’’; e, d’altra parte, secondo il medesimo orientamento, ‘‘il rischio normalmente adeguato perde la propria normale efficacia esclusiva della responsabilità non appena il soggetto venga in qualunque modo a conoscenza della presenza di circostanze che elevino la concreta pericolosità al di sopra del tollerato o che comunque non siano state considerate nella predisposizione astratta delle misure cautelari da osservare nell’esecuzione dell’attività’’ (61). Per esempio, il meccanico che, al fine di far morire, non rilevasse un guasto del quale si rendesse consapevole durante la manutenzione di un autoveicolo, pur non essendo riferibile tale guasto agli apparati che era tenuto a verificare secondo il programma di controllo della casa costruttrice, risponderebbe a titolo di dolo ove l’evento di verificasse, laddove il prodursi di quest’ultimo non gli sarebbe addebitabile per colpa, avendo egli eseguito quanto doveva; il pugile professionista che essendo a conoscenza della particolare debolezza di un organo dell’avversario — debolezza non riscontrata per negligenza in sede di visita medica — lo colpisse in quell’organo col fine di uccidere risponderebbe di omicidio doloso, anche se l’evento non potrebbe essergli imputato per colpa ove l’avesse cagionato colpendo secondo le regole sportive e in assenza della summenzionata consapevolezza (62). Ora, a parte la scarsa plausibilità di simili situazioni, nelle quali un soggetto già intenzionato a produrre un evento si trova a poter sfruttare conoscenze che non era tenuto ad acquisire, deve constatarsi come l’accertamento dell’esistenza di un rischio percepibile ex ante (ci si occupa, ovviamente, solo di tali rischi) che risulti intollerabile e, pertanto, significativo (60) Ferma in proposito la possibilità, beninteso, che non risulti tollerabile alcun rischio e che ciò implichi non l’adozione di cautele, ma il dovere di astensione da una certa condotta. (61) Così V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 253 s. Si veda anche ibi, p. 217: ‘‘nessuno è riuscito a dimostrare che il livello di rischio adeguato ad una condotta non diretta alla produzione dell’offesa sia accettabile anche per quelle attività che sono realizzate programmaticamente per compiere un danno o porre in pericolo il bene tutelato’’. (62) Cfr. per tali esempi V. MILITELLO, op. ult. cit., pp. 236 s. e 240. In senso analogo, ora, S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999, pp. 105 ss. e 184 ss. (che utilizza, in particolare, l’esempio del clinico ‘‘venuto occasionalmente a conoscenza di una rara allergia manifestata da un frequentatore del suo stesso circolo sportivo nei confronti di determinati preparati anestetici’’ e trovatosi, in epoca successiva, nella condizione di essere chiamato a intervenire chirurgicamente proprio su tale individuo).
— 1072 — quantomeno ai fini della colpa va riferita, pure nei casi di cui si discute, alle molteplici circostanze della vicenda concreta, compresa la consapevolezza del pericolo connesso alla condotta attiva od omissiva (63): per cui, una volta acquisito che in presenza di tale consapevolezza un certo rischio non avrebbe potuto essere corso lecitamente, a fianco (e prima) della responsabilità per dolo si rende configurabile, nell’ipotesi in cui l’evento si produca, la responsabilità a titolo di colpa con previsione. Circa i contesti esemplificativi prospettati è da escludersi a priori, in questo senso, la sola rilevanza della colpa incosciente (fuoriuscendo il rischio dall’ambito di indagine e di controllo richiesto al soggetto interessato); se si ritiene che in essi risulti addebitabile il dolo, resta dunque addebitabile anche la colpa, sebbene nella forma cosciente. Quel che conta è se la conoscenza particolare crei effettivamente, in determinate circostanze, obblighi di diligenza (oppure posizioni di garanzia) particolari (64), ma allorquando ciò si debba riconoscere la violazione dell’obbligo non può di certo risultare compatibile, in forza della mera consapevolezza del rischio, soltanto col dolo (che anzi costituirà la rara eccezione). Appare del resto chiaro come nei casi delineati un rischio oggettivamente intollerabile esista, seppur il suo operare non possa essere addebitato a chi abbia agito senza avvedersene perché non era tenuto a farsi carico del suo possibile manifestarsi: tanto è vero che, se noto, quel rischio rileva sia ai fini della colpa che (almeno in casi di scuola) del dolo, come del pari rileverebbe con riguardo alle condotte di altri soggetti, i quali dovessero riconoscerlo. Ben diversamente verrebbero a configurarsi le cose ove si ammettesse l’esistenza di rischi per loro stessa natura rilevanti solo ai fini del dolo. Ciò significherebbe, infatti, aprire all’imputazione della responsabilità penale nella sua forma più grave sulla base di un’irrealistica duplicazione (ai fini del dolo e ai fini della colpa) di quanto sia da valutarsi socialmente doveroso, col pericolo che, dunque, si punisca per dolo — facendo leva sul mero elemento stricto sensu psicologico e sulla labilità accertativa che troppo spesso lo caratterizza — anche quando non risultino infranti doveri di diligenza incontrovertibilmente riconosciuti (65). Un pericolo, quest’ultimo, del quale possono apprezzarsi le possibili derive, tutt’altro che teoriche, nel momento in cui si tenga conto delle tentazioni ricorrenti di normativizzazione del dolo (66) attraverso il conferimento di un ruolo cardine alla forma eventuale, descritta come puro e semplice agire (od omettere) nella consapevolezza di un tipo determinato di rischio: svalutati sul piano sostanziale sia il ruolo costitutivo della volontà riferita all’evento, sia la funzione di limite, e in tal senso di garanzia, svolta dall’inosservanza di un dovere cautelare, la responsabilità dolosa finirebbe per ridursi, nell’ottica delineata, alla presunzione di un più o meno evanescente atteggiamento interiore antigiuridico. Deve dunque mantenersi per fermo che non c’è dolo, né colpa, senza violazione di una regola cautelare (unitariamente definita). 4.1.2. Simile conclusione non viene smentita neppure facendo leva — onde sostenere la prospettabilità di rischi punibili se attivati (o tollerati) con dolo, ma non per colpa — sul caso classico, già considerato dal punto di vista causale (B1/2), del decesso conseguente alla (63) Cfr. in proposito M. DONINI, Illecito e colpevolezza, cit., p. 408 ss. (‘‘la soglia del rischio lecito non è mai costruita a prescindere dalle conoscenze eventualmente superiori dell’agente’’, quale ‘‘aspetto pre-cedente, pregiudiziale rispetto al dolo e alla colpa’’). (64) Anche V. MILITELLO, op. ult. cit., p. 254, evidenzia che ‘‘occorre individuare il livello di rischio [rilevante] adeguato alla situazione concreta’’, ma non ricomprende in quest’ultima il dato costituito da una già sussistente nozione della pericolosità di una certa condotta (cfr. anche ibi, p. 236). (65) Dunque, precisa S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 90, rispetto all’oggetto specifico della sua trattazione, ‘‘il margine di liceità del rischio delineato dalle regole cautelari non può differire per il dolo... rispetto a quanto accade per la colpa (con rappresentazione)’’. (66) Si veda infra, 6.2.2.2.
— 1073 — utilizzazione per finalità mediche di cocaina anziché di novocaina, decesso che tuttavia anche il prescritto ricorso alla seconda sostanza avrebbe prodotto (67). La peculiarità di tale vicenda, come già sappiamo, sta nel fatto che dal punto di vista naturalistico l’evento è dipeso senza dubbio dalla condotta concretamente posta in essere, ma non dalla violazione della regola che imponeva l’uso di novocaina. Nondimeno, i più ritengono che se la responsabilità per colpa, date le premesse di cui sopra, andrebbe esclusa, non così si potrebbe concludere nell’eventualità in cui il sanitario abbia agito intenzionalmente. A ben vedere, peraltro, anche una simile conclusione resta compatibile con la regola secondo cui non esistono condotte antidoverose rilevanti ai fini del dolo, ma non a quelli della colpa. E infatti se nell’ipotesi colposa incosciente la norma cautelare violata, senza che la violazione sia risultata causale, è quella che esigeva il ricorso a novocaina (quel che si rimprovera è di non aver dato novocaina), nell’ipotesi dolosa si è violata la diversa regola di non dare cocaina (o se si vuole, di non dare al malato una qualsiasi sostanza riconosciuta come pericolosa). Il distinguo emerge con chiarezza ove si considerino le due diverse ipotesi di colpa con previsione riferibili al contesto in oggetto: altro è aver consapevolmente rinunciato alla novocaina, poniamo perché costosa, e aver corso (consapevolmente) il rischio connesso all’uso di un qualsiasi altro narcotico; altro è aver scelto di usare proprio cocaina, e di correre il rischio ad essa ricollegabile, in quanto, poniamo, si intendesse privilegiare una certa casa farmaceutica. Orbene, se si ritiene penalmente significativa la condotta dolosa, pur risultando che l’evento si sarebbe prodotto anche in conseguenza del corretto impiego di novocaina, a tale situazione va affiancata, venendo in gioco un’identica modalità trasgressiva degli obblighi cautelari, la seconda (ed essa soltanto) delle ipotesi di colpa cosciente or ora considerate. D’altra parte, se fosse pensabile il caso in cui si volesse provocare la morte del malato per causa della privazione di novocaina, e non per l’efficacia causale di un altro narcotico, come la cocaina, utilizzato in sua vece e il quale, in effetti, abbia provocato la morte, la punibilità per dolo andrebbe esclusa, data l’inidoneità causale caratterizzante la violazione della regola cautelare volontariamente posta in essere: il che, fra l’altro, costituisce una significativa conferma dell’esigenza sistematica secondo la quale non può esserci reato doloso ove il soggetto agente non abbia voluto violare la regola di diligenza (quanto al nostro esempio, non dare cocaina) il cui mancato rispetto ha prodotto l’evento, e ciò seppure egli mirasse a cagionare altrimenti (quanto al nostro esempio, privando di novocaina) il medesimo (68). Nel caso in discussione, pertanto, non viene affatto superato il principio secondo cui possono rilevare ai fini del dolo solo violazioni di regole cautelari che consentano anche l’imputazione per colpa (semmai resta aperto il quesito se le segnalate difformità relative alla violazione degli obblighi di diligenza siano davvero sufficienti a giustificare, in taluni dei contesti considerati rispetto agli altri, il sussistere del reato). 4.1.3. Deve segnalarsi, piuttosto, che la prospettiva perseguita dalle tesi orientate ad ammettere il dolo pure in assenza di rischi pertinenti con riguardo alla colpa potrebbe subire, addirittura, un’inversione: esistono infatti validi motivi per dubitare che rischi statisticamente lievi, sebbene non consentiti, risultino idonei a suffragare l’imputazione di un reato doloso. Preso atto della scarsa probabilità oggettiva che il soggetto intenzionato a cagionare l’evento previsto da una fattispecie penale scelga di farlo mediante una condotta poco rischiosa, la prova del fatto che ciò, nondimeno, sia avvenuto verrebbe ad essere fondata, in concreto, soltanto sull’indagine psicologica, della quale già rimarcavamo i profili di intrinseca problematicità sia strutturale che riferita alla prassi giudiziaria (profili tanto più acuti (67) Cfr. F. GIUNTA, op. cit., pp. 363 e 414 s., nonché A. CASTALDO, op. cit., p. 133. (68) Sulla problematica dell’aberratio causae si veda supra, nota 12.
— 1074 — allorquando si tratti di sostenere l’esistenza, in malam partem, di quadri psicologici del tutto inconsueti). Ma l’adeguatezza di un tale assetto probatorio, mancando presupposti per così dire esteriori che supportino l’affermazione di uno specifico finalismo della condotta, non è accettata rispetto ad altri istituti penalistici: per ragioni analoghe a quelle poco sopra considerate la dottrina pressoché unanime richiede, non a caso, un substrato obiettivo del giudizio sull’univocità degli atti nel delitto tentato e, d’altra parte, non si può trascurare come di recente sia stata rimarcata la necessità di dedurre da componenti soggettivamente orientate delle fattispecie, ad esempio dalla previsione del dolo specifico, fondamentali indicazioni interpretative concernenti la stessa dimensione materiale del reato (69). Dunque, si può discutere circa l’adeguatezza ai fini del dolo, che a nostro avviso potrebbe essere esclusa, di violazioni a basso rischio delle regole di diligenza: il che assume particolare rilievo ove si considerino le recenti tendenze dilatative, soprattutto in rapporto alla forma eventuale, della responsabilità dolosa, le quali ne minano l’ancoramento psicologico fondato sulla nozione di volontà assegnandole inaccettabili contorni ascrittivi. La menzione del dolo eventuale fa emergere tuttavia, nel contempo, un pericolo: quello che, parlando di rischi non (ancora) sufficienti perché vi sia un reato doloso, se ne traggano illazioni tali da avallare la configurabilità, a contrariis, di livelli del rischio i quali implichino l’imputazione a titolo di dolo ove sussista soltanto la volontarietà della condotta (70). Ne risulterebbero rafforzati, evidentemente, proprio gli indirizzi cui s’è appena fatto cenno, con specifico riguardo all’intento demolitivo dei contenuti psicologici inerenti alla tipologia più grave della responsabilità personale. Dev’essere tenuto rigorosamente per fermo, di conseguenza, che il rilievo attribuibile all’entità del rischio va compreso in un senso orientato a scopi limitativi dell’intervento penalistico e non può essere utilizzato come appiglio per estromettere in modo più o meno esplicito, nell’illecito doloso, l’indagine sulla volontà riferita all’evento. 4.2. Possiamo concludere, alla luce di quanto fin qui s’è detto, che qualsiasi reato esige una condotta cosciente e volontaria la quale, violando una regola di diligenza e, dunque, realizzando un tipo di rischio non consentito in un certo quadro situazionale, rischio come tale rilevante sia ai fini della colpa che del dolo, cagioni un evento dannoso o pericoloso penalmente significativo. Si impone un cenno, peraltro, sul rapporto fra violazione della regola di diligenza e antigiuridicità. Come più sopra si evidenziava, il carattere non consentito del rischio connesso a una certa condotta e, conseguentemente, la qualifica di quest’ultima come trasgressiva di un obbligo cautelare, dipendono dalla considerazione dell’intero contesto in cui la condotta si inserisce. In particolare, non basta a definire negligente, cioè antidoverosa, una data azione o una data omissione il mero, duplice requisito consistente nella prevedibilità e nella evitabilità — qui intesa, lo preciseremo meglio tra poco, in senso eziologico (come evitabilità non agendo o non omettendo) — dell’evento da parte del soggetto che abbia tenuto il comportamento causale, posto che in presenza di una condotta la quale comporti un rischio consentito possono ben sussistere i requisiti di cui sopra, senza che la stessa violi alcun obbligo di diligenza (71) (anzi, talora addirittura sussiste, come già osservavamo, un dovere di rischiare, (69) Cfr. per quest’ultimo aspetto L. PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli ‘‘elementi finalistici’’ delle fattispecie penali, Milano, 1996, p. 471 ss. (70) Si veda anche infra, 6.2.2.2. (71) Cfr. sul punto A. CASTALDO, La concretizzazione del ‘‘rischio giuridicamente rilevante’’, in questa Rivista, 1995, p. 1101 s. Sul ruolo che ulteriormente assume quanto alla definizione del dovere oggettivo di diligenza il principio di affidamento cfr. M. MANTOVANI, op. cit., pp. 146 ss. e 444.
— 1075 — cioè di non evitare che un certo evento sfavorevole possa realizzarsi, in forza dei benefici che il correre quel rischio produca o sia in grado di produrre). Non si tratta, in simili situazioni, di condotte per sé negligenti, ma scriminate, bensì di condotte che, in quanto lecite, non possono essere definite negligenti. È impossibile parlare, infatti, della violazione di una regola di diligenza ove consti che la condotta di cui si discuta sia lecita e, d’altra parte, la liceità della condotta implica che siano state rispettate tutte le regole di diligenza pertinenti nel caso concreto, senza che altre regole pertinenti siano configurabili (72). Ne deriva che il giudizio sull’antigiuridicità della condotta che abbia cagionato un evento penalmente significativo costituisce un passaggio necessario del giudizio inerente alla violazione, da parte della medesima condotta, di una regola di diligenza (73). La prevedibilità e l’evitabilità in senso causale dell’evento, riferite all’adozione della condotta che risulti averlo cagionato, rappresentano senza dubbio un indizio di possibile negligenza (in quanto non ci si sia astenuti tout court da tale condotta o non siano state poste in essere sub-condotte cautelari): ma non è per nulla da escludersi che, nonostante la prevedibilità e l’oggettiva evitabilità dell’evento, quella condotta potesse o dovesse essere tenuta, oppure fosse da considerarsi lecita risultando affiancata da sub-condotte idonee a limitare in misura reputata giuridicamente accettabile l’entità del rischio. Una condotta (cosciente e volontaria) rappresenta, dunque, la violazione di una regola di diligenza quando permette l’operare di un rischio antigiuridico — cioè quando l’evento lesivo che ne potrebbe derivare risulta ex ante prevedibile ed evitabile (attraverso l’astensione dalla condotta) e il rischio in tal modo emergente non è tollerato dal diritto. Il limite del lecito, a tal proposito, risulta nitidamente determinato nel caso (a) in cui sussistano, circa l’adozione di una condotta riconosciuta rischiosa, regole cautelari scritte (ovvero nel caso in cui simile condotta risulti — sempre o in presenza di date circostanze — tout court vietata o consentita). Ben più difficile appare il giudizio quando (b) in relazione alla condotta produttrice di un evento lesivo non sussistano regole cautelari scritte, posto che in tal caso, ove emergano — secondo parametri valutativi noti — la prevedibilità e l’evitabilità in senso causale dell’evento, ci si dovrà chiedere, in assenza di precisazioni normativizzate, se il rischio dovesse o meno essere evitato (già s’è detto, anzi, che talora un rischio dev’essere corso). Si tratta di un interrogativo finora non adeguatamente analizzato (74) e per lo più assorbito nell’ambito del giudizio, ordinariamente preso in esame con riguardo alla colpa generica, sulla evitabilità dell’evento dal punto di vista dello standard socialmente esigibile: giudizio che si distingue da quello sulla evitabilità quale profilo cardine ai fini dell’indagine cau(72) In questo senso può affermarsi con M. ROMANO, op. cit., sub art. 43, n. 80, p. 429, che ‘‘un comportamento è consentito perché (e purché) concretamente diligente’’. (73) Significativamente, viene evidenziato ‘‘che solo l’antigiuridicità (l’interazione dell’intero ordinamento con quello penale), in vari casi, consente di identificare lo stesso fatto penalmente tipico e di concretizzare compiutamente il precetto in rapporto alla situazione storica’’: così M. DONINI, Teoria del reato, cit., p. 25 dell’estratto, anche per il richiamo al problema complessivo dei rapporti fra diritto penale e altri rami dell’ordinamento, tanto più delicato ‘‘in quanto il legislatore penale abdica spesso a definire i tratti salienti della tipicità’’ (ibidem). Circa l’incertezza della distinzione fra tipicità e antigiuridicità in rapporto al problema del rischio consentito si veda, da ultimo, A. CAVALIERE, L’errore sulle scriminanti nella teoria dell’illecito penale. Contributo ad una sistematica teleologica, Napoli 2000, p. 434 ss., ed ivi ulteriori riferimenti. In proposito cfr. altresì S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., p. 85 ss. (74) Sulla problematica complessiva si veda F. STELLA, op. ult. cit., p. 383 ss.; cfr. anche A. CASTALDO, op. ult. cit., p. 1097 ss. Può essere interessante considerare come il tema sia al centro della classica riflessione teologico-morale sul c.d. duplice effetto (cfr. per esempio, sinteticamente, AA.VV., Piccolo lessico di teologia, a cura di A. Canobbio, Brescia, 1989, p. 126 s.).
— 1076 — sale, cui sin qui ci siamo riferiti (l’esito infausto di un intervento chirurgico necessario seppur ad alto rischio e correttamente eseguito sarebbe stato, ovviamente, hic et nunc evitabile — sul piano eziologico — astenendosi dall’agire, ma non potrebbe definirsi, per altro verso, evitabile alla luce dell’assolvimento di tutti i doveri incombenti sul sanitario agente). Se l’interrogativo summenzionato può trovare, in effetti, un valido criterio di soluzione nell’ottica del bilanciamento fra rischio e potenziale beneficio allorquando entrambi investano uno stesso individuo e nessun altro (ciò, tuttavia, non sempre senza problemi, specie ove siano in gioco beni di tipo diverso), assai meno facile risulta definire un quadro sintetico di riferimento per il giudizio nel caso in cui a fronte di (veri o supposti) benefici diffusi connessi a (sicuri) interessi privati, sussistano rischi essi pure diffusi, più o meno gravi, oppure rischi concentrati su soggetti specifici i quali, tuttavia, risultino diversi dai beneficiari principali della condotta. Sono per esempio individuabili, in assenza di una scelta normativa espressa, condizioni che nei contesti descritti possano far ritenere lecito l’agire anche risultando impossibile rendere contigua allo zero l’entità del rischio valutato ex ante di arrecare offesa a un bene fondamentale? E, di contro, in quali casi un certo rischio dovrebbe essere considerato così grave da non permettere di tollerare la pur minima eventualità teorica di un fallimento dei presìdi che dovrebbero assicurarne il controllo? Quale, peraltro, il livello delle cautele dovute, ove non esistano cautele prescritte? Sempre e comunque il livello massimo tecnicamente assicurabile (il quale in molti casi, però, potrebbe anche non bastare, determinandosi un obbligo di astensione in radice dall’agire)? Appare significativo notare, poi, come le cautele normativamente definite tendano sì a creare standard comportamentali certi, cioè a produrre una riduzione di fatto — rendendole antigiuridiche — delle condotte rischiose (o troppo rischiose), ma finiscano non di rado, nel contempo, per sancire compromessi quantomeno discutibili circa i livelli di esposizione a rischio di certi beni (si pensi, quale caso significativo, ai quindicimila decessi annui che secondo stime ufficiali sarebbero direttamente da ricondursi, in Italia, al livello di inquinamento tollerato derivante dalla combustione dei carburanti in uso nell’ambito del traffico veicolare): laddove la valutazione delle responsabilità colpose compiuta in assenza di regole scritte utilizza criteri di tollerabilità del rischio ordinariamente assai rigorosi (più rigorosi di quelli fatti propri dalle regole scritte), secondo un’ottica la quale, però, finisce per esporsi al pericolo già evidenziato di una gestione conforme a logiche esemplari dell’imputazione di un evento per colpa (75). La liceità di una condotta in sé rischiosa (anche di una condotta ad altissimo rischio, in quanto mirante, poniamo, a realizzare l’evento lesivo) può inoltre derivare (c) dall’esistenza di dati situazionali riconducibili a un fattore cui si riconosca efficacia scriminante generale, cioè riferibile in linea di principio a qualsiasi condotta (una delle cause di giustificazione classiche), oppure, ancora, (d) dall’esistenza di dati situazionali riconducibili a un fattore cui si riconosca efficacia scriminante in rapporto a contesti comportamentali specifici. Ora, può comprendersi come nei casi (c) e (d) sia facile parlare della (obiettiva) violazione di una regola di diligenza e della contemporanea operatività di una scriminante, quando più propriamente si dovrebbe parlare di quella che avrebbe costituito la violazione di una simile regola se non fossero stati presenti certi dati situazionali. Senza dubbio, infatti, in nessuno dei quattro casi richiamati — nemmeno nei casi (c) e (d) — viene ad esistenza, in concreto, un comportamento antidoveroso, né, dunque, la trasgressione, rebus sic stantibus, di alcun dovere di diligenza. Il fatto è che le norme incriminatrici — sia quelle incentrate sulla produzione di eventi naturalistici, sia le stesse norme di pura condotta che sanzionino direttamente l’inosservanza (75) Tanto più in quanto al rigore suddetto finisca per associarsi la sostituzione de facto della prova relativa al nesso di causalità fra condotta rischiosa ed evento lesivo con il concetto di idoneità della condotta o di aumento (ex ante) del rischio: cfr. F. STELLA, op. ult. cit., pp. 388 e 390 (v. amplius supra, 3.2.1).
— 1077 — di cautele — non sono in grado di circoscrivere in maniera esaustiva la gamma delle situazioni nel cui ambito un determinato precetto penale ha rilievo e quindi di definire, a fortiori, tutti i casi in cui una condotta del tipo di quella presa in considerazione da una certa fattispecie di reato sia consentita (tanto più quando si tratti di fattispecie causalmente orientate). Alcune clausole generali utilizzabili per risolvere il problema sono indicate dallo stesso codice penale attraverso gli articoli che prevedono cause di giustificazione esplicite; altre clausole sono riferite a fattispecie particolari (76) e possono essere desunte da diversi settori dell’ordinamento giuridico; ulteriori criteri devono essere ricostruiti per via interpretativa, nell’ottica cui abbiamo fatto cenno in rapporto al giudizio sulla violazione delle regole di diligenza non scritte. Ma lo snodo argomentativo inteso a verificare se la condotta conforme al modello delineato da una norma incriminatrice sia effettivamente antidoverosa è comunque ineludibile: non si può concludere nel senso della violazione di una regola di diligenza senza essere passati per il giudizio sull’antigiuridicità dell’agire o dell’omettere. 4.2.1. Si obietterà che in conseguenza di quanto s’è detto l’antigiuridicità stessa verrebbe a configurarsi, nella teoria del reato, come momento interno alla ricostruzione del fatto tipico, posto che quest’ultimo può dirsi tale, ovviamente, solo in rapporto alla non osservanza di determinate regole comportamentali. L’antigiuridicità, in altre parole, perderebbe il rango di elemento a se stante dell’illecito penale, attribuitole come ben si sa dalla concezione tripartita. A ben vedere, tuttavia, la ricostruzione che abbiamo proposto nulla toglie al ruolo autonomo del giudizio sull’antigiuridicità, ed anzi lo valorizza, così che l’apporto della teoria tripartita non viene affatto disperso. Quel che infatti tale ricostruzione in primo luogo consente — esattamente all’opposto di quanto accade nell’ottica dei c.d. elementi negativi del fatto, tipica della teoria bipartita — è la percezione della circostanza per la quale tutte le volte in cui un evento penalmente significativo risulta (ex ante) prevedibile e, dal punto di vista causale, evitabile il bene giuridico tutelato patisce una (almeno) potenziale aggressione, che l’ordinamento non può far sparire — anche quando la permette — nel limbo del giuridicamente inesistente (77). In questo senso, evidenziare il ruolo unitario cardine della violazione di una regola di diligenza, vale a dire il ruolo dell’antigiuridicità di una certa condotta, ai fini del sussistere di un reato significa focalizzare l’interesse politico-criminale sui criteri che conducono a ritenere consentiti determinati rischi e sulla necessità di agire in senso preventivo sia perché le situazioni in presenza delle quali l’offesa di un determinato bene venga considerata lecita si verifichino, in concreto, il più raramente possibile, sia perché il prevedibile sfociare nell’evento lesivo degli stessi rischi consentiti venga al massimo contenuto (tollerare i rischi di una circolazione stradale pur regolamentata non deve esonerare dalla cura della segnaletica, dall’adeguamento delle norme di sicurezza attiva e passiva, e così via) (78). 4.3. Da ultimo, l’interesse manifestatosi negli ultimi anni per l’inquadramento della nozione di rischio nella teoria del reato facilita l’emergere di alcune aporie tutt’altro che marginali concernenti il rilievo attribuito dal codice vigente all’attivazione (o al mancato (76) Cfr., per esempio, l’art. 5962, nn. 1 e 2, c.p. (77) Cfr. soprattutto, a questo proposito, G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, in part. p. 1195 ss.; si veda anche ID., Cause di giustificazione, in G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Studi di diritto penale, Milano, 1991, p. 95 ss. (78) Si consideri come la stessa distinzione tra fatto e scriminanti sia stata ricondotta alla funzione politico-criminale ‘‘di rendere visibili i conflitti di interessi e di esercitare un controllo critico, orientato a prospettive di valore e di scopo, sulle condizioni per la giustificazione dell’aggressione ad un bene già individuata come meritevole e bisognosa di pena’’ (così A. CAVALIERE, op. cit., p. 443).
— 1078 — controllo) colpevole, per l’appunto, di un determinato rischio: aporie meno facilmente percepibili ove il baricentro dell’interesse dogmatico venga riferito in modo esclusivo al concetto di evento. 4.3.1. Il profilo principale di questa problematica, peraltro, è già stato illustrato (79). Esso attiene alla constatazione del fatto per cui chi risponde di un reato colposo è l’insieme — quasi sempre del tutto minoritario, specie se si tratti di colpa con previsione, fra coloro che hanno esposto illecitamente al medesimo rischio un determinato bene — dei soggetti sfortunati i quali hanno visto sfociare il mancato rispetto di una norma cautelare nell’effettiva realizzazione dell’evento che tale norma mirava a scongiurare. Ne deriva che diversità rilevantissime circa le conseguenze giuridiche dipendono dal caso. In pratica, la prevenzione penale dei rischi colposi viene imperniata sul timore di sanzioni (a loro volta di applicazione incerta per l’incidenza della cifra oscura) connesse all’eventualità, non ulteriormente controllabile da parte del soggetto agente, che dal rischio attivato o tollerato possa scaturire l’evento non voluto: disciplina la quale risponde, lo si deve ammettere, a una logica non distinguibile da quella del versari in re illicita, posto che la colpevolezza del soggetto citato si esaurisce nella produzione antidoverosa (o nel mancato controllo) del rischio. D’altra parte, sarebbe contraddittorio sostenere che il legislatore, semplicemente, abbia inteso escludere la pena pur sempre riferita al sussistere di un rischio colposo, quando da quest’ultimo non sia scaturito l’evento, non potendosi spiegare, in tal caso, per quali ragioni venga sovente sanzionata in modo autonomo, sul piano amministrativo o anche penale, la mera tenuta cosciente e volontaria della condotta pericolosa. Il problema si pone anche rispetto ai reati dolosi, ma emerge con minore evidenza perché, rispetto ai medesimi e limitatamente ai delitti, è sanzionata a titolo di tentativo anche la semplice produzione dell’entità di rischio che dia luogo ad atti idonei, ove gli stessi risultino diretti in modo non equivoco a cagionare l’evento. Ciò significa che nell’ambito dei delitti dolosi viene punita la stessa attivazione (o il mancato controllo) di certi livelli del rischio, mentre ai fini del reato colposo il rischio è punito soltanto se si verifica l’evento: in pratica, la sussistenza dell’intento di produrre un determinato evento delittuoso rende eccezionalmente punibile nel nostro sistema giuridico — con pena riferita al risultato preso di mira (80) — la mera violazione, idonea allo scopo perseguito, di una regola cautelare, cioè la violazione di una tale regola non seguita dal risultato cui viene attribuito rilievo nell’ambito di una fattispecie incriminatrice (81). Ora, il legame tra rischio ed evento risulta senza dubbio più forte, di norma, nel dolo che nella colpa, poiché in presenza di intenzionalità non solo sussiste la scelta di esporre a rischio un certo bene, ma tale scelta, come pure quella del tipo specifico di rischio cui si dia corso, è operata in quanto funzionale al prodursi dell’evento medesimo (ordinariamente ne deriverà, fra l’altro, il venire in gioco di un rischio elevato, fermo restando che l’alta probabilità di verificazione dell’evento può aversi anche nella colpa, soprattutto incosciente). Simili considerazioni, tuttavia, si limitano a dar conto del diverso rilievo attribuito a livelli identici di rischio nel reato colposo e in quello doloso circa i profili sanzionatòri (nella colpa si rimprovera di aver rischiato, nel dolo di aver perseguito mediante il rischio un certo obiettivo): non spiegano, invece, l’alea sulla quale si fondano, a parità di rischio, sia l’imputazione stessa del reato colposo sia, per il dolo, il surplus di pena applicabile, rispetto al tentativo, nel caso in cui l’evento preveduto e voluto si realizzi. (79) Cfr. supra, 3.2.1. (80) Altro sono, pertanto, i casi in cui il legislatore sanziona in modo autonomo con reati di pura condotta la violazione cosciente e volontaria (e ordinariamente colposa rispetto all’evento che si vuole evitare) di specifiche norme cautelari. (81) Si veda peraltro infra, 4.3.2.
— 1079 — 4.3.2. Appare opportuno fare chiarezza, poi, su un profilo ulteriore di ipotizzabile contraddittorietà sistematica relativa alla materia in esame. Esso attiene alla circostanza per cui se l’aver indebitamente attivato o tollerato un rischio è seguito dal verificarsi di un evento penalmente significativo del tipo che la regola violata mirava a evitare, ma non vi è la prova che la violazione stessa (colposa o dolosa) sia stata condicio sine qua non del prodursi di tale evento, mancano, come abbiamo visto, i presupposti per la punibilità del trasgressore; laddove, invece, un’identica condotta (dolosa) non seguita dal realizzarsi dell’evento pertinente sembrerebbe poter determinare, a prima vista, il configurarsi di un tentativo punibile. Valga l’esempio che segue. A, medico, sottopone B, malato, a un test da sforzo più faticoso del dovuto, poniamo, per procurarne la morte; B muore, ma si riscontra che sarebbe morto anche a seguito del test (secondo una valutazione ex ante) appropriato: manca, in un simile contesto, l’efficacia causale della condotta antigiuridica di A, il quale nel sistema in vigore, pertanto, non sarà punibile (82). Ipotizziamo, ora, che A sia stato fermato prima di portare a termine, nelle medesime condizioni, la sua condotta: in tal caso potrebbe ritenersi configurabile il tentativo, sulla base dei requisiti richiesti dall’art. 56 c.p. A ben vedere, tuttavia, il fatto che il rapporto fra condotta antigiuridica ed evento (non verificatosi) sia individuato ex art. 56 c.p. negli atti idonei diretti in modo non equivoco nulla toglie alla necessità, derivante da ragioni sistematiche il cui rispetto evita incongruenze altrimenti non evitabili, che anche con riguardo al delitto tentato ci si debba interrogare su cosa sarebbe accaduto in presenza del comportamento alternativo lecito: quesito il quale porta a concludere per la non configurabilità del tentativo, ove risulti che la condotta rispettosa della regola violata avrebbe comunque prodotto l’evento lesivo (viene meno in radice, nel quadro descritto, la possibilità stessa che la trasgressione risulti causale). Al medesimo risultato può probabilmente pervenirsi, in effetti, anche sulla base della c.d. concezione realistica del tentativo punibile (83) (cioè tenendo conto di tutti i dati situazionali oggettivamente esistenti al momento della condotta antigiuridica, tali per cui quest’ultima, nel nostro caso, si rivela inidonea a cagionare l’evento non per l’operare di fattori impeditivi, ma per l’operare di fattori già da soli produttivi del medesimo), concezione la quale pure da quest’ultimo punto di vista evidenzia la sua razionalità teorica complessiva (84): peraltro il risultato suddetto ha fondamenti autonomi da quelli che ineriscono al(82) Pensare che tale condotta, non essendo risultata significativa rispetto al prodursi dell’evento, possa da sola rilevare ai fini di un delitto tentato si scontrerebbe, d’altra parte, sia con la formulazione molto precisa dell’art. 56 c.p. (se... l’evento non si verifica), sia, pur sempre, col fatto che si punirebbe nonostante la sicura irrilevanza a priori della trasgressione (circostanza la quale peraltro escluderebbe, come subito vedremo nel testo, il sussistere stesso degli atti idonei, conformemente alla c.d. concezione realistica del tentativo punibile). (83) Cfr. G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1224; conf. F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, Milano, 1994, p. 302 ss.; G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., p. 432; G. FIANDACA, in A. CRESPI-F. STELLA-G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 3a ed., Padova, 1999, sub art. 56, IV, 4, p. 225; I. GIACONA, Il concetto d’idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, 2000, pp. 264 ss. e 342 s. (84) Nell’ottica menzionata l’estensione dell’intervento penale oltre l’ambito dell’effettiva causazione di eventi, mediante il rilievo attribuito all’idoneità e all’univocità degli atti, viene circoscritta ai casi in cui l’inidoneità in concreto della condotta (in tutti i casi di tentativo la condotta si rivela ex post inidonea) faccia capo a fattori non ancora operanti al momento della condotta medesima; un’ottica limitativa che si affianca a quella intesa, comunque, ad esigere livelli particolari del rischio — cioè della probabilità ex ante — che attraverso gli atti posti in essere si pervenga effettivamente al prodursi dell’evento (cfr. su quest’ultimo punto I. GIACONA, op. cit., p. 63 ss., nonché ID., L’idoneità degli atti di tentativo come ‘‘probabilità’’? Spunti problematici per un’indagine, in questa Rivista, 1993, p. 1333 ss.).
— 1080 — l’interpretazione del concetto di idoneità e le due prospettive d’indagine, quindi, non sono da sovrapporsi. 4.3.3. Tutto ciò considerato, la conseguenza che se ne deve trarre non va di certo ricercata nel solco di un’utilizzazione dei modelli sanzionatòri classici del diritto penale — tradizionalmente pensati quali reazioni retributive verso il prodursi di eventi — riconvertita a fini di contrasto (anticipato) dell’operatività di rischi non tollerabili; e neppure va orientata alla promozione di surrettizie riletture giurisprudenziali degli istituti vigenti imperniate sul ruolo del rischio, che si configurerebbero come indebite iniziative politico-criminali, conformi a supposte esigenze, inevitabilmente discriminatorie, di (rapsodica) esemplarità. Piuttosto si tratta di reimpostare in sede di riforma legislativa, come già si accennava (85), l’intera problematica del controllo dei rischi idonei a produrre la lesione di beni fondamentali, attraverso strategie — penalistiche e pre-penalistiche — di intervento preventivo (86) comunque non più imperniate sul ruolo cardine finora attribuito alla minaccia edittale del ricorso al carcere. È chiaro, d’altra parte, che se l’ottica retrospettiva della retribuzione incentra il suo interesse sull’evento lesivo già realizzatosi, un orientamento verso finalità preventive il quale non sia solo di facciata — anche il diritto penale classico proclama, da molto tempo, di retribuire per fare prevenzione — non può non assegnare particolare rilievo al concetto di rischio, e con ciò alla pericolosità delle condotte (nel cui ambito, beninteso, sono da includersi — oltre ai casi nei quali assuma rilievo giuridico il non fare — le azioni intese in senso fisico-naturalistico, e non i meri atteggiamenti interiori) (87). Per prevenire gli eventi lesivi, infatti, bisogna operare affinché non siano tenute le condotte rischiose suscettibili di produrli, superando la logica che si attende simile effetto, nonostante la cifra oscura, dalla esemplarità delle condanne che sporadicamente facciano seguito alla verificazione degli stessi. 5. Finora abbiamo evidenziato gli elementi comuni al reato doloso e al reato colposo, prendendo in considerazione il sussistere di una condotta cosciente e volontaria la quale, violando una regola di diligenza, abbia cagionato un evento del tipo di quelli che tale regola mirava ad evitare: anche se a più riprese abbiamo dovuto prendere in esame i modi in cui gli elementi suddetti si rapportano all’esistenza di un contesto di dolo o di colpa. Solo una volta che simili elementi risultino accertati viene in gioco il nodo problematico attinente alla divaricazione fra le diverse forme della tipicità soggettiva (88), divaricazione (85) Si veda supra, 3.2.1. (86) Cfr. in proposito K. LÜDERSSEN, Übernahme der Aufgaben des Strafrechts durch andere Rechtsgebiete - ein Blick auf das konkurrenzfähige (andere) öffentliche Recht und Zivilrecht sowie die dazugehörigen Verfahrensgänge (1993), in ID., Abschaffen des Strafens, Frankfurt a. M., 1995, p. 419 s. Si veda anche infra, 8.2. (87) Significative su quest’ultimo punto, nell’ambito di una diversa visione del sistema penale e dei suoi fini, le precisazioni di E. MORSELLI, Condotta ed evento nella teoria del reato, in questa Rivista, 1998, p. 1096 s. (88) Non riterremmo peraltro che il riconoscimento del ruolo svolto dal dolo e dalla colpa sul piano della tipicità (soggettiva) debba condurre a negarne la contemporanea rilevanza (doppia posizione) sul piano della colpevolezza, come invece ritiene, da ultimo, G. DE VERO, Le scriminanti putative. Profili problematici e fondamento della disciplina, in questa Rivista, 1998, p. 829 ss. (pur condividendo i rilievi ivi nitidamente opposti all’assunto della compatibilità di un illecito doloso con una colpevolezza colposa, assunto che lo stesso Autore definisce, invero, uno stravagante corollario della tesi che sostiene la doppia posizione). Il fatto è, ci pare, che la rilevanza di dolo e colpa anche sul piano della colpevolezza non risponde a una mera opzione dogmatica, ma riflette una ben precisa realtà sostanziale: se dolo e colpa, da un lato, sono caratteristiche coessenziali alle condotte dominabili dall’uomo che producano eventi offensivi di beni giuridici, costituendone forme di manifestazione non scin-
— 1081 — che investe in primo luogo l’antitesi fra condotte intenzionalmente o non intenzionalmente orientate al prodursi dell’evento. 5.1. Posto, infatti, che le condotte umane in quanto movimenti corporei — le omissioni esigono alcuni rilievi specifici (89) — non vengono attuate per se stesse, bensì quali strumenti per il perseguimento di scopi implicanti modifiche del mondo esterno, e che, dunque, ogni condotta umana è caratterizzata da una prospettiva finalistica la quale, dal punto di vista psicologico, le dà causa, si tratta di stabilire, innanzitutto, se la prospettiva che abbia determinato una certa condotta sia stata o meno quella di produrre l’evento penalmente significativo cui tale condotta, violando una norma di diligenza, a sua volta abbia dato causa. Ma come svolgere una simile verifica, nella quale si sostanzia l’accertamento del dolo intenzionale, figura che differisce, in questo senso, rispetto all’insieme di tutte le altre forme dell’imputazione di un reato? (si noti che quell’insieme, in un sistema non più disponibile verso la logica del versari in re illicita e ancorato nel contempo alla bipartizione classica delle forme di responsabilità personale, dovrebbe identificarsi con la colpa, se la prassi non avesse introdotto il riferimento alle figure del dolo c.d. diretto e del dolo eventuale) (90). Viene in proposito a configurarsi una problematica causale, di ordine psichico, ulteriore a quella che ha per oggetto il nesso eziologico fra condotta ed evento: una problematica nel cui ambito, altrimenti da quanto accade in rapporto al nesso or ora richiamato, la condotta C è il conseguente e l’antecedente — costituito dalla prospettiva P che dal punto di vista psicologico ha cagionato C — rappresenta l’elemento da definire (laddove nel rapporto causale previsto dall’art. 40 c.p. la condotta C che si ipotizza aver cagionato l’evento E è un dato noto in tutte le sue caratteristiche concrete). Orbene, data una condotta C sono ordinariamente ipotizzabili varie prospettive mentali P che potrebbero averle dato causa, cioè prospettive tali per cui in rapporto a ciascuna di esse esista una massima di esperienza che individui una regolarità del ricorrere di P (di una prospettiva del tipo P) rispetto al verificarsi di C (di una condotta del tipo C), fornendo in tal modo copertura all’affermazione secondo la quale C presupporrebbe l’incidenza causale di P. Ed è proprio la facilità con cui sono reperibili massime le quali ricolleghino un certo tipo di condotta all’una o all’altra prospettiva finalistica che rende assai pericoloso limitare dibili, se non concettualmente, dal profilo materiale, essi costituiscono, dall’altro lato, condizioni necessarie perché un giudizio di colpevolezza possa esistere. Un accadimento naturalisticamente prodotto dall’uomo non è di per sé rimproverabile e lo diviene soltanto se sussistono dolo o colpa, come bene si evince dalla stessa motivazione della sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale. Dolo e colpa, quindi, assumono un significato del tutto peculiare fra gli elementi del fatto tipico: seppur la loro esistenza non ci dica molto circa l’entità della colpevolezza, essi non sono mero oggetto del giudizio di colpevolezza ma sue (pre)condizioni, posto che mancando l’uno o l’altro di tali requisiti non è possibile alcun rimprovero (non a caso, invece, può prospettarsi dal punto di vista logico, anche se non rileva ai fini penali, una rimproverabilità della mera intenzione o del mero habitus negligente, cioè disgiunta dal fatto tipico oggettivo). L’accoglimento di un’autentica concezione normativa della colpevolezza, che verrebbe segnalato proprio dall’abbandono della doppia posizione di dolo e colpa, necessita del resto di non identificarsi con la negazione di contenuti autonomi della colpevolezza medesima in quanto categoria dogmatica rispetto a supposte esigenze politico-criminali (si ponga mente, ancora, alla lunga elaborazione di Claus Roxin sul rapporto fra colpevolezza e prevenzione: cfr. supra, nota 1), pericolo il quale troverebbe probabilmente maggiore spazio ove l’accertamento del dolo e della colpa fosse in radice ritenuto estraneo alla categoria suddetta. Infine si deve considerare, come vedremo nel testo, che l’accertamento stesso della colpa, per non risolversi in un’ascrizione della mera discrepanza oggettiva di una condotta da un certo standard comportamentale, richiede un profilo d’indagine soggettivamente orientato del tutto assimilabile a un giudizio di colpevolezza. (89) Si veda infra, 7.1. (90) Ulteriori riferimenti in L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 107 ss.
— 1082 — la descrizione del capitolo concernente l’accertamento del dolo, come spesso accade, alla generica indicazione della necessità di fondare la prova sulle massime suddette: non si è lontani dal vero, infatti, affermando che una massima utile all’ipotesi accusatoria, in tema di dolo, la si trova sempre. Il problema è che le massime di esperienza, le quali individuano regolarità intercorrenti non già tra fattori fisico-naturalistici, ma tra circostanze fattuali e decisioni umane, costituiscono una tipologia di leggi assai particolare, non solo perché sono sempre di carattere statistico (e lo sono tanto più in quanto prendono in considerazione, inevitabilmente, un novero di circostanze molto limitato rispetto a quelle compresenti in sede decisionale, con il permanere di forti riserve sull’effettiva non incidenza, secondo la logica inerente alle assunzioni tacite, di tutti gli antecedenti trascurati), ma anche perché sono compatibili con regolarità di segno esattamente opposto: è vero, per esempio, che molti fra coloro che subiscono un’offesa attuano ritorsioni, ma è altrettanto vero che altri, in presenza delle medesime circostanze, non agiscono così. Quel che va rimarcato, pertanto, è l’assoluta necessità di applicare all’accertamento del dolo un modello argomentativo idoneo a minimizzare gli effetti negativi circa l’attendibilità della spiegazione connessi al problema or ora evidenziato, problema il quale si inquadra a tutti gli effetti in quello già ben noto relativo alla pluralità delle cause (91): le diverse prospettive finalistiche a prima vista compatibili con una certa condotta ne individuano, infatti, cause psicologiche fra loro alternative. Dei due criteri che possono essere utilizzati in modo incrociato per rispondere all’incertezza derivante dalla frequente prospettabilità di più condotte (meglio, di più serie causali alternative) in grado, almeno a prima vista, di assumere rilievo nell’indagine sul nesso di causalità relativo all’evento — selezione, fra gli antecedenti plausibili, di quelli che risultino essersi storicamente verificati e migliore descrizione possibile del conseguente onde ridurre (fino a uno) il ventaglio di tali antecedenti — può farsi tuttavia ricorso, nella prova del dolo, soltanto al secondo: ciò in quanto l’antecedente si configura in essa non come dato storico del quale sia da verificarsi la concreta pertinenza causale, bensì come oggetto dell’indagine (di un’indagine finalizzata a individuarne le caratteristiche). Si tratterà, dunque, di descrivere al meglio il contesto situazionale in cui una condotta è stata posta in essere, onde verificare se le prospettive psicologiche ad essa ricollegabili mediante il riferimento a massime di esperienza si riducano, in tal modo, a una sola. Se ciò accade, se cioè con altissima credibilità razionale soltanto una prospettiva rimane plausibile, in quanto le altre si rivelano senza eccezione del tutto incompatibili con il contesto summenzionato, potrà dirsi individuata l’intenzione che ha sorretto una certa condotta. Solo se tale prospettiva, infine, risulterà proprio quella (PE) di produrre l’evento E che la condotta C materialmente ha cagionato potrà dirsi sussistere il dolo (intenzionale). C’è quindi intenzionalità dolosa se la prospettiva P che psicologicamente ha dato causa alla condotta C, causale rispetto all’evento E, è PE (se il colpo di pistola che ha ucciso è stato psicologicamente cagionato dalla prospettiva di uccidere colui che è deceduto). Se la prospettiva rilevante è una qualsiasi altra (Pn), non c’è intenzionalità nei confronti di E (si pensi, nell’esempio proposto, alla prospettiva di provare un’arma, di colpire un bersaglio durante una gara, di festeggiare il capodanno, e così via). 5.2. A questo proposito può essere utile un breve approfondimento sul ruolo cardine assunto dalla prospettiva psicologica che sta a monte di qualsiasi condotta — vale a dire dal concetto di intenzione — nell’iter motivazionale umano e, di conseguenza, in rapporto alla teoria del reato. Già osservavamo come sia sempre una prospettiva psicologica (se si vuole, il perseguimento di uno scopo) a determinare l’adozione di una certa condotta, la quale risulta finalizzata a produrre l’evento costituente oggetto, per l’appunto, della prospettiva che le dà causa. (91)
Cfr. supra, 2.2.
— 1083 — Ove tale evento, poi, rilevi penalmente e la condotta — cosa ordinaria quando il fatto offensivo sia voluto — violi una regola di diligenza intesa a prevenire esiti del tipo cui il medesimo appartenga si avrà dolo intenzionale, con riguardo a un illecito (sussistendone i requisiti ulteriori) consumato o tentato. Spesso accade, tuttavia, che rilevi penalmente un evento cagionato dalla condotta, ma diverso da quello costituente oggetto della prospettiva la quale le abbia dato causa: e in tal caso — sempre che la condotta violi una regola di diligenza intesa a prevenire esiti del tipo cui simile evento appartenga — potrà aversi l’imputazione di un reato non intenzionale (ordinariamente colposo). Nel secondo dei contesti descritti, in particolare, l’evento lesivo non preso di mira assume ex post, rispetto alla strategia prescelta per conseguire un fine lecito (meglio: irrilevante circa il reato di cui si discuta), le caratteristiche di un costo, il rischio della cui produzione non doveva essere messo in gioco — ciò che, invece, è avvenuto, data la violazione, consapevole o meno, di una norma di diligenza. Dunque, ogni condotta cosciente e volontaria è sorretta da una prospettiva psicologica e risulta intenzionale rispetto a un certo evento, che di tale prospettiva rappresenta l’oggetto. Peraltro, ciascun insieme formato da prospettiva, condotta ed evento costituisce, a sua volta, una condotta composita che dipende da una prospettiva antecedente ed è finalizzata a un evento, oggetto di quest’ultima, ulteriore (spesso, anzi, una data prospettiva psicologica dà luogo a più condotte, in se stesse opportunamente articolate, che devono concorrere per il suo realizzarsi): l’insieme costituito, poniamo, dalla prospettiva (Px), instauratasi nella mente del classico nipote crudele, di uccidere la vecchia zia mediante una condotta (Cx) di veneficio idonea a realizzare l’evento morte (X), rappresenta una condotta composita (CA) di omicidio la cui causa psichica potrebbe essere stata la prospettiva (PA) di acquisire l’eredità della zia, evento, quest’ultimo (A), che tale condotta (con eventuali condotte complementari) è in grado di produrre. La realizzazione del contenuto di una certa prospettiva si manifesta, in quest’ottica, come condotta funzionale al realizzarsi di una prospettiva pregressa, secondo una catena formata da molteplici anelli: proseguendo nell’esempio, la prospettiva (PA) di ereditare potrebbe dipendere, a sua volta, da quella (PB) di possedere più danaro, suscettibile di essere per l’appunto soddisfatta attraverso la condotta (CB) rappresentata dall’acquisizione dell’eredità, condotta la quale ricomprende l’insieme PA➝CA➝A e risulta in grado di produrre l’evento (B) costituito dalla maggior disponibilità di danaro. Se si continua nella ricostruzione a ritroso, emerge come a un certo punto l’evento in cui si sostanzia l’oggetto della prospettiva psicologica che dà causa alla condotta (alla condotta che in tale fase rilevi) non consista più — probabilmente per qualsiasi sequenza comportamentale — in una modifica del mondo esterno, ma in uno stato soggettivo: a monte della prospettiva di avere più danaro potrebbe esservi, saltando qualche passaggio, quella (PN) di appagare, mediante la condotta dell’acquisire danaro (CN = PB➝CB➝B), un proprio senso d’insicurezza, esito che costituirebbe l’evento N, del tutto interiore. Andando oltre — e considerato che un particolare tema di riflessione è da individuarsi nelle prospettive remote (addirittura) inconsce — si finisce per raggiungere la soglia del non ulteriormente indagabile. Tutto ciò significa altresì che ciascuna condotta, secondo un procedimento opposto a quello sin qui percorso, può essere ridescritta più analiticamente, a meno che non si tratti di un puro movimento corporeo, attraverso la sequenza (o più sequenze) di una (sub)prospettiva subordinata alla prospettiva che dà causa alla condotta presa in esame, di una (sub)condotta e di un evento, il quale consisterà nella realizzazione materiale della condotta di partenza ovvero di un suo presupposto o di una sua parte: spesso, infatti, il compimento di una condotta complessa esige il concorrere di molte sequenze del tipo che abbiamo descritto e, dunque, dei diversi (sub)eventi cui ciascuna di esse dà luogo. La condotta di partenza individuerà, in quest’ottica, l’oggetto della (sub)prospettiva che dà causa a una o più (sub)condotte.
— 1084 — Così la condotta sopra considerata Cx (propinare veleno) può essere scissa, per esempio, nella prospettiva (Pa) di far ingerire la sostanza tossica, nella (sub)condotta (Ca) costituita dal versare il veleno in una bevanda della zia e nell’evento (a) derivatone, consistente nell’assunzione del medesimo da parte della vittima. Mentre la condotta Ca può essere scissa, a sua volta, nella prospettiva (Pb) di versare, per l’appunto, il veleno in una bevanda e, poniamo, nelle (sub)condotte (C1b e C2b) concorrenti, cagionate dalla suddetta prospettiva, di sottrarre il veleno da un laboratorio e di metterlo nella tazzina dalla quale la zia sia solita sorbire il caffè. Tutti i passaggi sin qui considerati — e quindi le prospettive psicologiche che danno causa alla catena delle condotte, individuando per ciascuna di esse l’intenzione pertinente — possono essere ricostruiti a ritroso secondo il modello descritto con riguardo all’accertamento della volontà nel reato doloso. Si tratta di un processo induttivo, teso a risolvere problematiche di pluralità delle cause. Esso, pertanto, non affronta la domanda sul quomodo un’intenzione venga a fissarsi, nella mente di un individuo, come prospettiva effettivamente perseguita (e non di mero carattere speculativo), orientandosi piuttosto a dimostrare incompatibili con un’accurata descrizione del contesto situazionale le altre prospettive cui, in astratto (secondo regolarità statistiche note), potrebbe ricondursi dal punto di vista eziologico una determinata condotta. Ne deriva che un simile iter probatorio il quale procede per esclusione (divenendo sempre più incerto via via che le prospettive s’identificano con stati interiori) nulla è in grado di affermare circa i presupposti del formarsi, nell’individuo, di una data intention in action, cioè circa la decisione sottesa all’operatività di qualsivoglia prospettiva mentale (e, pertanto, sulla scelta di una strada piuttosto che di un’altra per soddisfare una prospettiva antecedente: salvo chiarire che quest’ultima, di norma, non nasce in maniera autonoma dalla previsione delle sue possibili modalità realizzative, le quali, in effetti, sono annoverabili fra i fattori la cui ponderazione viene in gioco ai fini del suo stesso instaurarsi). Proprio la fase in cui si confrontano nella mente umana, in rapporto a circostanze specifiche, diverse prospettive perseguibili e diverse ragioni per agire o per non agire in un dato senso — la fase, cioè, della decisione, che sfocia nel ‘‘fiat’’ costitutivo di una intention in action — individua del resto il nodo che rende così difficile formulare massime dotate di elevata predittività statistica relative all’incidenza di determinati fattori sulle eventuali scelte criminose di un certo soggetto: e ciò sia per il concorrere di innumerevoli variabili interagenti con quella di cui si discuta, per gran parte diverse in ciascun individuo, sia perché non s’è affatto dimostrato che la mente umana operi solo come un enorme sistema computazionale e non costituisca essa stessa fonte di criteri valutativi. Resta da precisare che se la prospettiva psicologicamente causale di una data condotta ne individua l’intenzione, riferita a un dato obiettivo, le prospettive anteriori rispetto alle quali simile prospettiva risulta funzionale costituiscono di tale condotta moventi (92), cui (92)
Può essere interessante seguire sul punto il pensiero di un classico come G.B. IMa ed., Torino, 1900, p. 412 s.: da un lato egli qualifica i moventi ‘‘causa cosciente di un atto volontario’’, dall’altro, introdotto il ruolo della decisione (che definisce intenzione o risoluzione), precisa: ‘‘i motivi sono la causa; la intenzione, o la volontà di commettere il delitto, è l’effetto che da essi è determinato, ed è l’anello intermedio tra i motivi e l’azione’’. Cfr. inoltre, con riguardo al dolo di proposito, F. CARa RARA, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, vol. I, 10 ed., Firenze, 1907, p. 110: ‘‘la risoluzione non deve confondersi col desiderio e con la passione (per esempio l’odio) che fu causa della risoluzione’’ (corsivi dell’Autore). Si veda anche MUSOTTO, Colpevolezza, dolo e colpa. La dottrina della colpevolezza, Palermo, 1939, p. 197: ‘‘il motivo inerisce al processo di motivazione, è la sorgente, è la causa determinante, mentre l’intenzione è la volontà diretta ad uno scopo, è il risultato ultimo al quale l’agente vuole arrivare con il delitto’’. In epoca meno remota la problematica viene approfondita da A. MALINVERNI, Scopo e movente nel diritto penale, Torino, 1955: ‘‘mentre nel dolo si considera la volontà orientata verso un avvenimento determinato, descritto dalla norma e con essa legato, nel movente si PALLOMENI, L’omicidio nel diritto penale, 2
— 1085 — viene dato rilievo penalistico nell’ambito della commisurazione giudiziaria (in senso stretto e, talora, in senso lato), come pure sul piano del dolo specifico (93) (inoltre, l’irreperibilità di qualsiasi prospettiva anteriore — di qualsiasi movente — in grado di sorreggere in modo plausibile la prospettiva ipotizzata, ai fini del dolo, psicologicamente causale di una data condotta inficia, a ben vedere, il livello prossimo alla certezza che deve caratterizzare anche quest’ultimo nesso di causalità) (94). Di quanto s’è detto può essere proposta una schematizzazione grafica: CN CB CA ... N ← ... { B ← [A ← (X ← Cx ← Px) ← PA] ← PB } ... ← PN ... ↓ a←
Ca ← Pa ↓ b ← C1b + C2b ← Pb
6. Quando la condotta antidoverosa non è intenzionale rispetto all’evento penalmente significativo che essa, nondimeno, abbia cagionato e quest’ultimo rientra nel tipo di eventi vede lo scopo ultimo della condotta, o l’impulso che la determina, impossibili da precisarsi a priori’’ (p. 35); ‘‘il soddisfacimento di un desiderio richiede sempre una serie di atti, ciascuno dei quali è preceduto, accompagnato e seguito da fenomeni psichici che riproducono, su scala minore, il processo psichico principale’’ (p. 54 s.; non risulterebbe peraltro utile, secondo l’Autore, superare determinati limiti nello ‘‘sminuzzamento della condotta’’, in quanto il medesimo potrebbe procedere, di per sé, quasi all’infinito: ibi, p. 38; cfr. altresì, in una prospettiva analoga, E. GORRA, L’attribuzione di responsabilità, Milano, 1983, p. 128). Data la continuità che li lega alla nozione di prospettiva che dà causa alla condotta, i moventi saranno in ogni caso da ricostruirsi, come precisato nel testo, secondo lo stesso schema necessario per accertare il dolo intenzionale: ove non si percorresse questa via, anche l’indagine sui moventi finirebbe per rispondere a schemi presuntivi, del che è riprova un’ulteriore osservazione di A. MALINVERNI, voce Motivi (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 294 s., riferita all’art. 62, n. 1, c.p.: ‘‘Non infrequentemente la giurisprudenza afferma che l’azione appare talmente malvagia da escludere l’esistenza di motivi morali o sociali. Ciò posto, si deve ammettere che il valore dell’azione determini quello dei motivi. Il che, peraltro, sembra assurdo, perché in tutti i casi in cui l’azione costituisce reato, i motivi per i quali viene compiuta sarebbero malvagi o antisociali’’. (93) Cfr., anche per esempi relativi alla rilevanza nel sistema penale di motivi slegati da qualsiasi descrizione di elementi esterni o finalistici, L. PICOTTI, op. cit., p. 526 ss., il quale peraltro — contro la tesi di una mera rilevanza soggettiva di tali motivi — opportunamente puntualizza: ‘‘Benché pure il movente od impulso psichico, che si fondi su un’erronea valutazione delle circostanze interne od esterne del proprio agire, o sulla loro erronea qualificazione da parte dell’agente, possa rilevare quale dato psichico di interesse per le scienze criminologiche o psicoanalitiche, l’ordinamento deve attenersi sempre e soltanto all’oggettivo significato espresso dal criterio di valutazione indicato dalla norma, per giudicarne il significato penale. Per cui se l’agente, ad es., si motiva ‘politicamente’ o ‘per lucro’, ecc., fraintendendo le circostanze della realtà esterna od, anche, interna, su cui basa tale sua convinzione o dinamica psichica, il giudice non potrà certo, per questo, deviare da ciò che oggettivamente può essere definito come ‘politico’ o ‘di lucro’ ’’ (ivi, p. 530). Sul confine non sempre chiaro fra rilevanza di moventi e dolo specifico cfr., oltre a L. PICOTTI, op. cit., p. 520 ss., e A. MALINVERNI, Scopo e movente, cit., in part. p. 149, M. DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 77, nota 46. (94) L’ipotesi di un dolo senza movente metterebbe del resto in discussione il sussistere dell’imputabilità (si veda anche infra, 7.3).
— 1086 — che la regola trasgredita mira a scongiurare manca la volizione relativa al risultato della condotta e di per sé — ai sensi dell’art. 43 c.p. — non c’è dolo, ma colpa. Conformemente alla formula letterale del codice, pertanto, la definizione del reato colposo si desume, per difetto, da quella del reato doloso, così che davvero non c’è dolo senza colpa. 6.1. Si tratta semmai di precisare che ai fini dell’imputazione colposa andrà inoltre accertato, sul piano della colpevolezza, se l’adeguamento allo standard di diligenza rilevante in rapporto a una determinata condotta — standard comunque da definirsi con riguardo all’intera gamma dei dati situazionali — risulti esigibile nei confronti dell’agente concreto, cioè se il mancato adeguamento possa non essergli rimproverato. Nel caso in cui un infermiere, per esempio, abbia fatto fronte secondo le competenze tipiche della sua professione, poniamo in un rifugio di montagna, a un’urgenza medica, ma non abbia attuato tutto ciò che un medico, e tanto più uno specialista della patologia manifestatasi, avrebbe potuto fare nelle medesime circostanze non c’è violazione alcuna di una regola di diligenza; in tale ipotesi, infatti, lo standard comportamentale che può essere richiesto al suddetto individuo (mancando le condizioni per garantire lo standard umanamente ottimale, in altri contesti senza dubbio dovuto) risulta oggettivizzabile a priori e ove tale standard sia stato assolto non può parlarsi di una condotta antidoverosa, né dunque necessita, per escludere il reato, ricorrere alla categoria dell’inesigibilità. Nel caso in cui, invece, un chirurgo sia stato richiamato in sala operatoria al termine di un intervento di lunga durata e di grande complessità per un nuovo intervento che egli solo sia in grado hic et nunc di effettuare non potrà certo farsi riferimento a standard comportamentali oggettivizzabili propri — come dire — del chirurgo (incolpevolmente) stanco, ma dovrà pur sempre tenersi conto, con riguardo, poniamo, a una disattenzione nella quale quel medico sia incorso, dello stato di prostrazione soggettiva che non gli è addebitabile e che rende inesigibile il livello di lucidità e di reazione agli stimoli ordinariamente dovuto. Del resto il giudizio sull’esigibilità di una condotta non concerne soltanto i comportamenti colposi, bensì anche — seppur conduca a escludere la colpevolezza in un ambito più ristretto di casi — gli stessi fatti tipici dolosi. 6.2. Precisato ciò che in radice, secondo l’impianto del nostro codice, contraddistingue l’imputazione per colpa, il problema, come ben si sa, è dato dal fatto che giurisprudenza e dottrina si orientano da tempo, nonostante l’assenza di ancoramenti normativi, a individuare un ambito di condotte antidoverose ma non intenzionali (rispetto all’evento penalmente significativo che ne sia derivato) suscettibili pur sempre di determinare una responsabilità dolosa. Ora, non è questa la sede per considerare le origini storiche di un simile atteggiamento, né per sottoporre a un’analisi critica complessiva le motivazioni, da inquadrarsi in un’ottica evidente di politica criminale giudiziaria, che hanno portato a enfatizzare, negli ultimi anni, l’indirizzo in questione, e nemmeno per discutere dell’eventuale introduzione di una terza via fra imputazione dolosa e colposa o di altre ipotesi de iure condendo. Quel che invece si vorrebbe sinteticamente precisare è il quadro dei confini cui le due forme classiche di estensione, rispetto a quella intenzionale, del dolo devono comunque rimanere assoggettate (impregiudicato il giudizio sulla loro intrinseca legittimità e preso atto, tuttavia, della prassi), ove non s’intenda abiurare a esigenze minimali di razionalità, di coerenza sistematica e di certezza. 6.2.1. Le questioni sono di certo meno delicate con riguardo alla prima delle forme suddette: il dolo c.d. diretto (che invero sarebbe più congruo definire indiretto) (95). (95) Opportunamente A. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 7a ed., Milano, 2000, p. 274, parla di dolo intenzionale o diretto, di dolo indiretto (per indicare quello che invece viene comunemente indicato come dolo diretto) e di dolo eventuale: nel te-
— 1087 — In tale forma di imputazione risulta infatti chiaro il fattore che la contraddistingue, specificandola, rispetto alla generalità delle condotte antigiuridiche causali ma non intenzionali, fattore il quale consiste nel fatto per cui lo scopo della condotta viene perseguito a costo del prodursi dell’evento rilevante dal punto di vista penale, dato che la derivazione di quest’ultimo dalla condotta si configura in termini di sostanziale certezza (in termini di probabilità contigua alla certezza). Il reato non è voluto, ma si agisce mettendo in conto (dando per scontato) il suo verificarsi, posto che risulta in correlazione necessaria rispetto alla condotta prescelta come idonea (senza che per questo esito accessorio s’intenda rinunciarvi) a conseguire un certo obiettivo. Si accetta, in quanto praticamente certo, il realizzarsi stesso del reato. Proprio quest’ultimo stato psicologico, pur rimanendo ben distinto dalla volontà, rappresenta il quid pluris del dolo c.d. diretto rispetto alla generale situazione cognitiva dei soggetti che prevedono come possibile il realizzarsi, a seguito di una loro condotta antidoverosa, dell’evento non voluto, situazione che si sostanzia nella consapevolezza del (mero) rischio. Trattandosi peraltro, nel dolo c.d. diretto, di uno stato psicologico solo normativamente equiparato alla volizione, non varrà affermare (96) che per tale categoria penalistica — essendo ritenuta rilevante ai fini del dolo intenzionale anche un’attitudine eziologica della condotta inferiore a quella prefiguratasi dal soggetto agente — basti il convincimento soggettivo della certezza relativa al prodursi dell’evento: piuttosto, tale certezza dovrà sussistere ex ante pure oggettivamente (la volizione, tipica del dolo intenzionale, non può essere, dal punto di vista logico, putativa, mentre senza dubbio lo possono essere gli elementi cognitivi, come, per esempio, la previsione in termini di certezza del prodursi di un evento: ma, nel sistema del nostro codice, l’autonoma rilevanza del putativo non è ammessa). La questione, tuttavia, si ridimensiona — pur non divenendo priva di significato — ove risulti ammessa la figura del dolo eventuale, posto che nell’ipotesi della certezza solo soggettiva di produzione dell’evento non voluto tale figura, per quanto ricostruita in termini non estensivi (97), normalmente risulterebbe integrata. 6.2.2. Assai diversamente stanno le cose proprio con riguardo al dolo eventuale. Tale figura vorrebbe reperire un elemento di distinzione (idoneo a giustificare riflessi macroscopici sotto il profilo sanzionatorio) nel continuum dei soggetti che agiscono, violando una regola di diligenza, con la consapevolezza di dar luogo a un (mero) rischio penalmente significativo. I modelli proposti, nonostante la messe della letteratura in materia (che attesta meglio di qualsiasi commento la precarietà del substrato sostanziale sul quale ci si muove e l’assenza di un fondamento normativo della categoria in esame) (98), convergono essenzialmente in due varianti. La prima, di matrice oggettiva, fa leva sulle caratteristiche del rischio, dando rilievo o a un certo livello della probabilità che l’evento lesivo si produca oppure, anche se difficilmente lo si ammette, a prese di posizione giudiziarie riguardanti il grado di adeguatezza sociale dell’obiettivo, sia esso lecito o illecito, in funzione del quale il rischio viene corso (99). sto qualifichiamo la seconda figura come dolo c.d. diretto, in ossequio alla terminologia più usata. (96) In tal senso S. CANESTRARI, op. cit., p. 194. (97) Cfr. infra, 6.2.2. (98) Si consideri, in proposito, la nota 100. (99) ‘‘Ricondurre al dolo eventuale un fatto che si svolge in una situazione illecita e alla colpa cosciente quanto consegue da un rischio consentito è la strada seguita dalla giurisprudenza’’, ‘‘strada vicina al paradigma del versari in re illicita’’: così A. BONDI, I reati aggravati dall’evento tra ieri e domani, Napoli, 1999, p. 195, nota 388; si veda, inoltre, S. CANESTRARI, op. cit., p. 122 ss. (nella medesima prospettiva diviene facile trascurare, onde imputare il dolo, lo stesso aver fatto affidamento, da parte di chi comunque agisca in re illicita,
— 1088 — Sono criteri del tutto incompatibili, come appare evidente, con l’autonomia qualitativa del dolo rispetto alla colpa, posto che essi prescindono da qualsiasi differenziazione fondata sull’atteggiamento psicologico riferibile all’evento (100): ai fini del dolo eventuale quel che secondo l’indirizzo in esame si richiede resta pur sempre — soltanto — la scelta di correre illegittimamente un rischio, come nella colpa con previsione. Non venendo in gioco alcuna realtà psichica ulteriore a quella cognitiva, resta esclusa a priori, su questa via, la possibilità di individuare nella forma meno intensa del dolo una componente quantomeno assimilabile al profilo della volizione, cioè al fattore che contraddistingue — non solo secondo la lettera del codice, ma anche in senso sostanziale — il sussistere del dolo rispetto all’ascrizione della colpa. Proprio per queste ragioni la seconda variante in tema di definizione del dolo eventuale ha cercato di far salva l’esigenza di ricondurre il confine fra le due forme tipiche della responsabilità personale alla sfera soggettiva, distinguendo, com’è noto, fra i casi in cui sussista o meno un elemento di consenso dell’agente al verificarsi dell’evento non voluto. La consistenza di un criterio distintivo, peraltro, non è assicurata, nell’ambito del diritto, dalla creatività con cui dottrina e giurisprudenza sappiano coniare nuovi concetti, dipendendo, piuttosto, dalla sua capacità di riflettere substrati fattuali davvero eterogenei, come pure dalla sua razionalità: condizioni che il rimando al consenso non è in grado, da solo, di assolvere. Per reperire il quid pluris che dovrebbe contraddistinguere, nell’ottica del consenso, il dolo eventuale rispetto alla consapevolezza di attivare o di non contrastare, contra legem, il rischio del prodursi di un evento non voluto — cioè rispetto a quanto identifica la colpa cosciente — si sono utilizzati, secondo diverse modalità, quelli che restano pur sempre riferimenti a impalpabili (ed equivoci) modi di porsi nella sostanza emozionali rispetto alla eventualità — nota — che dalla condotta antigiuridica volontariamente intrapresa possa scaturire l’evento lesivo. Si è fatto leva, in pratica, sulla circostanza per cui, ferma la consapevolezza del rischio antigiuridico connesso alla condotta, siano prese interiormente le distanze da possibili sviluppi non voluti attraverso un atteggiamento orientato a valorizzare quei fattori del contesto concreto che rendono possibile o probabile anche il non verificarsi dell’evento lesivo. Col risultato, se veramente ci si attenesse alle teorizzazioni proposte, di privilegiare l’ottimismo più o meno irresponsabile e di pregiudicare chi agisca sulla base di valutazioni obiettive (cioè con un tasso di maggiore circospezione, utile pure in re illicita). In realtà, delle due l’una: o nonostante tutto vi è nel soggetto agente la coscienza del sussistere di un rischio, con il che risultano integrati — soltanto — i presupposti della colpa con previsione, non potendo assumere rilievo alcuno, onde differenziare fra dolo e colpa, la fiducia riposta da tale soggetto nel non prodursi dell’evento lesivo; o tutto sommato (cosa più rara) il suddetto individuo ritiene davvero che il rischio, pur segnalato da regole comportamentali delle quali sia consapevole, in radice non sussista, e allora, in presenza degli altri requisiti necessari, si avrà colpa incosciente. Nulla muta rispetto a queste conclusioni il ricorso alla formula identificativa del dolo eventuale — nella giurisprudenza quasi una clausola di stile — imperniata sull’accettazione del rischio, formula che esaspera, semmai, i problemi evidenziati, in quanto di per sé costituisce una vera e propria descrizione sintetica della colpa cosciente (101): chi infatti sa di su condotte proprie o altrui idonee a diminuire, o addirittura ad azzerare, un certo rischio; cfr. anche supra, nota 23). (100) Le caratteristiche del rischio potrebbero in effetti giocare un ruolo solo a fini (davvero) delimitativi, di ordine oggettivo, rispetto alla rilevanza dell’elemento soggettivo doloso (si veda supra, 4.1.3, e infra, 6.2.2.2). (101) Evidenzia come ‘‘l’accettazione del rischio di realizzare la fattispecie’’ risulti ‘‘elemento proprio anche della colpa con previsione, ed anzi, in se stessa, posizione squisitamente colposa’’, S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., p. 227.
— 1089 — violare una regola di diligenza, così da attivare o non contrastare un determinato rischio, ne accetta, per l’appunto, l’operatività quale accessorio della propria condotta (102). Rifacendosi a una definizione suscettibile di coprire, in linea di principio, l’intero ambito della colpa cosciente, simile formula, dunque, finisce addirittura per consentire una discrezionalità pratica pressoché illimitata di imputazione del dolo eventuale laddove sussistano, comunque, i requisiti della colpa cosciente; realtà, questa, la quale fa sì che sotto l’egida di un orientamento imperniato sul consenso tornino a risultare determinanti, in modo più o meno surrettizio, i parametri di ordine oggettivo poco sopra richiamati. Del pari, restano inidonei a descrivere limitazioni significative nel ricorso al dolo eventuale, per un’indeterminatezza che non li affranca dal rimando a meri stati interiori ricostruibili molto liberamente, i criteri rappresentati dall’accettazione dell’evento quale conseguenza della condotta o dalla decisione contro il bene giuridico tutelato. Si tratta, peraltro, di criteri i quali, orientando al ruolo che gioca nel soggetto agente la prospettiva di un reale verificarsi dell’evento (103), si rivelano aperti a quella che costituisce l’unica modalità descrittiva del dolo eventuale suscettibile di differenziarlo sul piano logico e psicologico, ove tale figura di fatto venga utilizzata, dalla colpa cosciente. Il dolo eventuale risulta configurabile, su questa via (ferme le riserve sull’accettabilità di principio dell’istituto), quando il soggetto è disposto a tener ferma la sua condotta a costo del realizzarsi dell’evento, il che accade solo se si può asserire, ai sensi della ben nota (prima) formula di Frank, che quel soggetto avrebbe perseverato nell’agire anche di fronte alla prospettiva di una realizzazione certa dell’evento non voluto (104). Viene con ciò in considerazione uno stato psicologico reale: quello di chi, ex ante, non soltanto è disposto a correre un rischio, dando luogo a un azzardo, ma ha messo in conto che per l’obiettivo cui mira la sua condotta il prezzo costituito dal realizzarsi dell’evento lesivo possa essere pagato (ha già deciso che per realizzare tale obiettivo valga la pena pagare anche quel prezzo), tanto che non desisterebbe dalla condotta neppure ove il prodursi di un simile evento fosse sicuro. Che in tal modo emerga un distinguo effettivo è del resto suffragato dall’esperienza di ciascun individuo, la quale separa in modo molto netto i casi in cui si produce o non si contrasta un rischio, ma ci si guarderebbe bene dal comportarsi in quel modo se si sapesse di ledere, dai casi in cui si tiene un comportamento rischioso, affermando — rispetto al possibile esito lesivo pur non voluto — avvenga pure. Che poi si possa accettare di rischiare senza accettare il possibile effetto del rischio è attestato in modo lampante da come, infinite volte, ci atteggiamo verso noi stessi: è frequentissimo che per le più diverse ragioni ci si esponga a rischi, laddove ciò non avverrebbe se fosse sicuro il verificarsi della conseguenza lesiva, che non si è disposti a pagare: l’alpinista (consapevolmente) rischia, ma non mette in conto di precipitare; del pari l’agente di reato si fa (102) Alla luce di una panoramica sui criteri distintivi proposti in dottrina e giurisprudenza, giunge alla icastica conclusione secondo cui ‘‘ai confini tra dolo e colpa vi è in realtà la colpa cosciente’’, ‘‘ma, a ben vedere, una colpa cosciente la cui natura coincide con quella del dolo eventuale’’, G. FORTE, Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in questa Rivista, 1999, p. 276; in questo senso, precisa l’Autore con nitidezza del tutto condivisibile, ‘‘il superamento del dolo eventuale rappresenta la soluzione che meglio si adegua al nostro ordinamento in quanto esso [il dolo eventuale] attrae nella sua orbita condotte che in realtà andrebbero ascritte al campo della colpa’’. Ritenendo tale soluzione, peraltro, ‘‘non esente da rischi’’, l’Autore chiama in causa il legislatore per una definizione di colpa qualificata o per l’introduzione, secondo noti modelli anglosassoni, di un tertium genus dell’imputazione soggettiva. (103) Si veda soprattutto S. PROSDOCIMI, voce Reato doloso, cit., p. 244; ID., Dolus eventualis, cit., p. 32 s. (104) Si veda A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 279 s., e si consenta il rinvio a L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 175 ss.; cfr. anche D. PULITANÒ, in A. CRESPI-F. STELLA-G. ZUCCALÀ, Commentario breve, cit., sub art. 43, IV, 7, p. 166.
— 1090 — carico del rischio di essere punito, ma confida nella cifra oscura e in tal senso, il più delle volte, non delinquerebbe — si rammenti Beccaria — di fronte alla certezza dell’intervento giudiziario. S’è detto che la formula di Frank utilizza un giudizio ipotetico: ciò è indiscutibile, ma, come accade rispetto a molti altri fattori del cui sussistere non può darsi una mera constatazione de visu (si pensi alla causalità e allo stesso dolo intenzionale), esso serve per accertare, con attendibilità che dev’essere contigua alla certezza, una condizione psichica, come già osservavamo, effettiva (105). D’altra parte, sarebbe fuori luogo domandarsi se la fantasia del penalista non possa reperire una demarcazione psicologica fra dolo (eventuale) e colpa (cosciente) di più immediata constatabilità: va considerato, infatti, che quello accertabile attraverso la formula di Frank è l’unico stato il quale dal punto di vista psicologico realmente si diversifica rispetto al mero agire nella consapevolezza di un rischio; e si deve tener per fermo che la dogmatica tradirebbe il suo ruolo garantistico se creasse distinzioni aventi la consistenza effimera delle categorie verbali, slegate dal riferimento ineludibile alle analisi delle scienze di base. L’assunto secondo cui la formula di Frank non descrive confini sufficientemente netti risulta, a sua volta, del tutto falso: tale formula, semmai, è in grado di escludere senza incertezze l’imputazione del dolo in molteplici situazioni le quali, altrimenti, restano in balìa della più assoluta discrezionalità (106); e proprio per questo, cioè per la sua maggiore coerenza dogmatica che ne fa un argine alla disponibilità delle decisioni nei casi concreti, viene talora, purtroppo, osteggiata. Non si deve trascurare, infine, come nell’ottica sin qui descritta emerga una continuità logica fra dolo eventuale e dolo c.d. diretto: entrambe le figure si caratterizzano per il fatto che l’agente il quale non ha come obiettivo la realizzazione di un dato evento lesivo si muove nella piena disponibilità, in vista dei fini che persegue con la sua condotta, a pagare il prezzo consistente nel suddetto esito non voluto: disponibilità segnalata nel dolo c.d. diretto dalla certezza avvertita ex ante del prodursi di tale esito e da accertarsi, invece, attraverso la formula di Frank, preso atto dell’intero contesto in cui la condotta è inquadrabile, nel dolo eventuale. Tutto ciò evidenzia come alcune delle formule tradizionalmente utilizzate per descrivere dal punto di vista soggettivo il dolo eventuale (imperniate su espressioni quali consentire, decidere contro il bene tutelato, e così via) o la colpa cosciente (si pensi al classico confidare) delineano attributi sì riferibili alle figure in gioco, ma in modo non univoco, in quanto (105) Nello stesso senso A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 280, nota 21. (106) Alla obiezione secondo cui la formula di Frank condurrebbe a escludere il dolo anche nei casi in cui l’evento illecito del cui verificarsi si corra consapevolmente il rischio risulti incompatibile coi fini perseguiti dall’agente (cfr. S. PROSDOCIMI, op. ult. cit., p. 16, anche per ulteriori riferimenti), avevamo replicato (L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 185 s.), da un lato, osservando come non vi siano ragioni che impongano a priori di ricondurre simili casi al dolo (così da operare un sindacato sulla apprezzabilità dei motivi che rendano taluno indisponibile ad agire di fronte alla certezza di produrre l’evento, in un contesto per sé non aperto al verificarsi del risultato illecito), dall’altro considerando che, ove si ritenesse indispensabile dare rilievo all’obiezione, potrebbe considerarsi il dolo non escluso quando si possa affermare che se l’agente, paradossalmente, avesse potuto realizzare i suoi scopi cagionando l’illecito lo avrebbe fatto (ipotesi cit. da D. PULITANÒ, op. e loc. ult. cit.). La soluzione, tuttavia, può essere più lineare, conformemente a una rigorosa applicazione della formula di Frank: è configurabile il dolo eventuale ove il soggetto avrebbe continuato ad agire anche di fronte alla certezza che, conseguito il fine per sé incompatibile con l’evento non voluto, quest’ultimo si sarebbe (successivamente) realizzato a seguito della sua condotta (per esempio, di fronte alla certezza che l’individuo torturato al fine di ottenere informazioni sarebbe comunque morto per le sevizie subite, dopo aver ceduto ad esse: si veda A. PAGLIARO, op. e loc. ult. cit.; sarà invece da escludersi, quindi, il dolo eventuale nel caso, prospettato a inizio secolo, di colui che scommetta al tiro a segno di colpire un oggetto in mano a una ragazza, rappresentandosi di poterla ferire e contando, in tal caso, di poter scappare).
— 1091 — assolutamente generici e dunque del tutto incapaci di assumere un ruolo delimitativo reale se non concretizzati attraverso la formula di Frank. 6.2.2.1. Lo si evince anche dalla più recente trattazione sistematica italiana sul confine fra dolo e colpa, proposta da Canestrari (107). Nella formula sintetica con cui l’Autore prospetta una definizione de iure condendo del dolo eventuale egli si limita a richiedere, quanto al profilo soggettivo, che l’agente accetti la verificazione del fatto tipico concretamente rappresentata quale esito possibile della condotta (108). Ma proprio il non portare simile assunto alla sua conseguenza logica, per la quale si accetta il fatto — e non il mero rischio — solo quando si sarebbe disposti ad agire pure a costo di una realizzazione certa del fatto medesimo, fa sì che l’interpretazione dei termini suindicati, che andrebbe correttamente reperita nel solco della formula di Frank, resti aperta a sbocchi ben diversi e alquanto indefiniti, come dimostrano gli stessi passaggi argomentativi rivolti a esplicitare, nell’opera in esame, il significato della definitio ipotizzata. In questo senso, l’Autore identifica l’elemento che caratterizzerebbe, dal punto di vista soggettivo, il dolo eventuale in una ‘‘decisione (personale) contro la possibile violazione del bene giuridico’’ (109) e ne fa dipendere la prova da specifici indicatori, ravvisati, per esempio, nel difetto di un ‘‘comportamento attuato per evitare il risultato lesivo’’ o di una ‘‘particolare vicinanza emotiva fra reo e vittima’’ (110). Dal che discenderebbe il sussistere della colpa con previsione laddove il soggetto agente non adegui la sua condotta allo standard richiesto, ma si prefiguri, nondimeno, l’operatività di elementi interruttivi della catena eziologica suscettibile di produrre l’evento non voluto, manifestando di condividere pur sempre, in tal modo, la funzione preventiva svolta dall’obbligo cautelare violato (111). Onde consentire una valida demarcazione soggettiva del dolo eventuale, peraltro, gli indicatori e, in genere, i parametri richiamati andrebbero ricondotti a una visione unitaria della realtà psicologica che intendono esprimere, visione la quale, a sua volta, esige di essere delineata in termini ben più pregnanti, circa i contenuti, rispetto al decidere contro il bene protetto (per quanto inteso, come si evince, nel senso del non aderire in alcun modo all’istanza preventiva). Gli indici che l’Autore menziona, del resto, rappresentano soltanto alcuni fra i fattori potenzialmente rilevanti, dal punto di vista probatorio, per attestare l’esistenza o la non esistenza del quid pluris che nel dolo eventuale dovrebbe contraddistinguere, al di là della mera dimensione rappresentativa (e dei puri stati emotivi), l’atteggiamento psicologico verso l’evento non voluto. Con la conseguenza che fondare l’accertamento, in pratica, su singoli indicatori (del cui catalogo manca qualsiasi ricostruzione complessiva), piuttosto che su un criterio univoco — quale la formula di Frank — espressivo di una definizione non generica del quadro psicologico rilevante, finisce per consentire l’automatica imputazione del dolo eventuale in base al fattore cui contingentemente (sulla scorta, per lo più, delle considerazioni politico-criminali operate dal giudice) venga attribuito rilievo, secondo un’ottica nella sostanza presuntiva. Il fatto che un individuo, ad esempio, disattenda un obbligo cautelare senza porre in essere strategie di prevenzione — per quanto eccentriche — alternative non può da solo voler dire che egli sia in dolo eventuale; e, di contro, affermare che la colpa cosciente esige il far affidamento, da parte di chi trasgredisca una regola di diligenza, sull’efficacia di uno dei molteplici fattori per cui l’evento lesivo, riguardato ex ante, potrebbe anche non verificarsi (107) (108) (109) (110) (111)
Il riferimento è alla monografia già citata Dolo eventuale e colpa cosciente. S. CANESTRARI, op. cit., p. 320 ss. S. CANESTRARI, op. cit., p. 295 s. (anche per ulteriore bibliografia). S. CANESTRARI, op. cit., pp. 297 s. e 306. S. CANESTRARI, op. cit., p. 299.
— 1092 — assume uno spessore di accertabilità non arbitraria proprio e soltanto alla luce della formula di Frank. 6.2.2.2. Il problema or ora considerato attiene, più complessivamente, all’esigenza di escludere che un’imputazione dolosa possa fondarsi su presupposti psicologici concernenti il fatto tipico, e in particolare l’evento, i quali in realtà si riducano alla dimensione rappresentativa, con un’abrogazione surrettizia del riferimento cardine alla volontà. È palese, infatti, che i requisiti minimi necessari per imputare il dolo finiscono per descrivere gli elementi essenziali dell’istituto: ed è altrettanto palese che ove le figure meno intense del medesimo (di creazione extranormativa) siano costruite senza alcun riferimento credibile al ruolo del volere — cioè non più come deroghe circoscritte rispetto al rilievo ordinario, nel dolo, della volontà in senso psicologico (l’intenzione), tali da descrivere pur sempre uno stato psichico reale ben distinto dal mero aspetto cognitivo e, pertanto, da poter essere assimilate, in qualche modo, al volere — il dolo si trasforma (salvo l’aspetto da ultimo richiamato che condivide con la colpa cosciente) in una categoria puramente normativa (112), il cui confine con la colpa viene a dipendere soltanto dalla discrezionalità tipica delle valutazioni normative (113). Il che implica, anche quando simili valutazioni fossero compiute dal legislatore e non affidate alla fluttuazione degli umori giudiziari, una perdita secca rispetto alla capacità della dogmatica di radicarsi su realtà sostanziali — dunque non descrivibili ad libitum — e di immettere in tal modo nella teoria del reato una considerazione non riduttiva rispetto al vero dei fatti materiali e degli atteggiamenti psicologici (114). Assimilare normativamente, in questo senso, situazioni del tutto differenti nella loro sostanzialità psicologica, lasciando con ciò aperti, per giunta, ampi spazi di pura valutazione politico-criminale giudiziaria, comporta un impoverimento della dogmatica penale che ne compromette, come si accennava all’inizio di questo lavoro, la funzione fondamentale di garanzia. (112) Si consenta il rinvio a L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 61 ss. (113) ‘‘Rinunciare alla volontà è resa senza condizioni al concetto di rischio, e a quei propositi di oggettivizzazione ad oltranza del diritto penale che abbandonano la determinazione dello stato soggettivo alle sole caratteristiche del pericolo realizzato’’: così A. BONDI, op. cit., p. 189; rivendicato fortemente, circa la problematica relativa alla forma eventuale (p. 192 ss.), il ruolo della volontà in qualsiasi manifestazione del dolo (‘‘tutto sommato, specie di dolo senza volontà disorientano’’; ‘‘l’eventualità di dolo in fondo è un nonsenso: il dolo come qualunque elemento della fattispecie c’è o non c’è’’), l’Autore non si addentra, peraltro, in una ricostruzione specifica dei requisiti da esigersi ove, per l’appunto, venga fatta valere la categoria del dolo eventuale. (114) In bozze di stampa constatiamo come si muova, purtroppo, su una tale via l’art. 30 Prog. prel. 12 settembre 2000 di riforma del codice penale, il cui testo (« risponde a titolo di dolo chi, con una condotta volontaria attiva od omissiva, realizza un fatto costitutivo di reato: a) se agisce con la intenzione di realizzare il fatto, b) se agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come certa, ovvero come altamente probabile, accettandone il rischio ») ratifica lo svincolamento della responsabilità dolosa dalla volizione del fatto tipico, sovrapponendo stati soggettivi del tutto eterogenei: un esito, tanto più rispetto ai reati puniti col carcere, molto grave. In base alla norma proposta, la prova del dolo finirebbe per riferirsi solo al livello della probabilità di verificazione del fatto, rendendosi fra l’altro disponibile, specie quando manchino riferimenti statistici affidabili, a giudizi in pratica discrezionali (la suggestione derivante dall’essersi il fatto storicamente realizzato risulterebbe assai forte). Ferma la non accettabilità dell’indirizzo complessivo, la norma avrebbe potuto quantomeno richiedere (cfr. supra, 6.2.2), piuttosto che l’accettazione del rischio (formula riconosciuta retorica dagli stessi commissari in sede di relazione), l’accettazione dell’evento. Il carattere pragmatico-normativizzante dell’articolo trova conferma nella mancata considerazione delle peculiarità concernenti la condotta omissiva (cfr. infra, 7.1) in rapporto al ‘dolo’ non intenzionale.
— 1093 — Un simile processo, d’altra parte, si presta all’affermarsi, nella giurisprudenza, di iter motivazionali ampiamente fondati su presunzioni. Venuto meno il ruolo discriminante della volizione riferita all’evento, infatti, il profilo psicologico dell’elemento soggettivo del reato verrebbe ad imperniarsi in via esclusiva, tanto per il dolo che per la colpa, sulla rappresentazione, salva la successiva entrata in gioco dei distinguo — terreno favorevole per il dogmatismo ipertrofico — fra rappresentazioni dolose e colpose: ma stabilire se un uomo abbia pensato qualcosa è ben più incerto che stabilire se egli abbia voluto un dato accadimento, perché il pensare non si estrinseca in condotte e può essere ricostruito solo attraverso generalizzazioni fondate su quanto ordinariamente in un dato contesto ci si rappresenta: così che l’aspetto presuntivo può essere sì ridimensionato, evitando una considerazione pregiudizialmente parziale dei dati situazionali, ma non escluso. Soppresso il salto qualitativo richiesto dalla prova della volontà, pertanto, l’accertamento del dolo rischia di realizzarsi lungo un pericoloso piano inclinato, costituito da una catena di presunzioni che l’indeterminatezza dei criteri ordinariamente proposti per segnare il confine fra dolo eventuale e colpa cosciente non è certo in grado di interrompere. Questo un modello non puramente teorico che indica come, ravvisata la colpa (incosciente), possa scivolarsi, nell’ottica delineata, fino all’ascrizione del dolo sulla base, sostanzialmente, di meri artifici retorici (115): risulta che A abbia violato una regola di diligenza ➝ gli appartenenti al settore in cui A s’è mosso sanno di dover rispettare quella regola ➝ A, persona normodotata, non può non aver percepito il rischio connesso alla violazione ➝ A, dunque, si è rappresentato la possibilità di cagionare l’evento lesivo ➝ in rapporto ai suoi obiettivi, può dirsi che A ha accettato il rischio di produrre l’evento (scil., che A s’è mosso con disprezzo del bene esposto a pericolo, che non poteva far conto su fattori alternativi credibili per la salvaguardia di quel bene e, dunque, che non ha superato la sua rappresentazione, etc.). In un simile quadro finisce per diventare equivoco, come già si osservava (116), lo stesso sforzo per sé del tutto condivisibile inteso a definire soglie minime concernenti l’entità del rischio rilevante ai fini del dolo: se, infatti, il confine fra dolo e colpa non è più tracciato sul piano soggettivo, tali soglie non costituiscono più un ulteriore criterio limitativo della responsabilità dolosa, valido pur in presenza dell’altro requisito necessario costituito dalla volizione dell’evento, bensì, in tutto e per tutto, l’unico criterio di distinzione, a questo punto puramente oggettivo, fra dolo e colpa. E se tale criterio viene a sua volta descritto in termini normativi — si pensi ancora al contributo recente di Canestrari, che propone di distinguere fra le violazioni che potrebbero o meno essere prese in considerazione anche da una persona ‘‘coscienziosa ed avveduta’’ (117) — la disponibilità da parte dell’organo giudicante della scelta concernente l’addebito del dolo o della colpa diventa pressoché totale. Il rischio, in sintesi, è quello di approdare a un concetto di dolo nella sostanza presunto (in re ipsa), secondo parametri amplissimamente affidati, circa la definizione dei loro contenuti concreti, alla discrezionalità giudiziaria. Che questo senso di illimitata disponibilità del giudizio sui criteri di imputazione soggettiva rilevanti ai fini penali costituisca ormai un problema generale è d’altra parte attestato anche da quelle pronunce che eludono a priori l’esigenza di provare ai fini del dolo la volizione dell’evento (o, quantomeno, il sussistere di uno stato psicologico ad essa assimilabile), orientandosi a inquadrare tout court i casi in cui il verificarsi del fatto tipico possa dirsi (altamente) probabile nel dolo c.d. diretto (118). (115) Cfr. anche L. EUSEBI, In tema di accertamento del dolo: confusioni fra dolo e colpa, in questa Rivista, 1987, p. 1060 ss. (116) Cfr. amplius supra, 4.1.3. (117) S. CANESTRARI, op. cit., pp. 304 ss. e 321. (118) Cfr. per esempio, a questo proposito, D. PULITANÒ, op. cit., sub art. 43, IV, 12, p. 167, in specifico riferimento alla elusione, perseguita nella prospettiva in esame, dell’incompatibilità fra dolo eventuale e tentativo.
— 1094 — Una soluzione la quale stravolge il sistema, artatamente trascurando che nel dolo c.d. diretto la dimensione rappresentativa è ritenuta sufficiente proprio perché si configura in termini di certezza sostanziale rispetto al prodursi dell’esito lesivo e solo come tale implica automaticamente la disponibilità psicologica (quid pluris nei confronti del mero rappresentarsi l’evento) a pagare il prezzo costituito dalla lesione del bene tutelato: se poi si pensa all’indeterminatezza e alle possibilità di manipolazione del concetto di elevata probabilità (119), emerge come simile strategia descriva la strada più radicale per estromettere il volere dalla teoria del dolo — e, ciò che più conta, dalla prassi giudiziaria inerente alla forma più grave dell’imputazione soggettiva. 7.
Sono da ultimo opportune tre precisazioni:
7.1. È ben noto che, in un’ottica dilatativa dell’intervento penalistico, il ricorso secondo criteri ampiamente discrezionali alle categorie del dolo eventuale e del dolo c.d. diretto si è sovente associato in sede giudiziaria alla utilizzazione di un’altra categoria a tassatività molto problematica quale l’omissione impropria. Orbene, in proposito si deve convenire con autorevole dottrina (120) che la compatibilità del dolo eventuale (ma anche di quello c.d. diretto) con la condotta omissiva ordinariamente, in effetti, è addirittura da escludersi. Ciò in quanto tale tipo di condotta, sostanziandosi in un’inerzia, non si configura — al contrario di quella attiva — come già di per sé orientata a uno scopo. L’eccezione può eventualmente riguardare il caso raro, già richiamato, nel quale l’individuo che per avventura sia tenuto a impedire coltivi l’obiettivo cui l’obbligo si oppone e scelga di sfruttare per il suo fine l’inosservanza del dovere (può costituire fine dell’omissione l’obiettivo di produrre quanto il corrispondente obbligo di agire intenda evitare). Al di fuori di questo caso, che concerne l’intenzionalità, l’omettere manca normalmente di qualsiasi scopo perseguito in modo autonomo (di qualsiasi scopo per il cui conseguimento si programmi il non agire): l’inerzia avrà certo delle motivazioni, ma esse, di regola, sono correlate agli oneri, lato sensu intesi, che deriverebbero dall’adempimento del dovere (tali motivazioni non avrebbero ragion d’essere ove quel dovere non esistesse: cadono col cadere del dovere); l’omissione, in questo senso, non è orientata a uno scopo o, se così si può dire, ha solo lo scopo di non adempiere, cioè di non sopportare le conseguenze (rischi, fatica, inimicizie, etc.) dell’adempimento (ovvero di non farsi carico del problema sul tappeto, seppur la legge lo esiga). Rispetto a queste caratteristiche dell’omettere non può di conseguenza venire in gioco il fattore, assimilato in senso normativo alla volontà, che contraddistingue unitariamente dolo c.d. diretto e dolo c.d. eventuale, vale a dire l’essere disposti a pagare il prezzo costituito dalla realizzazione dell’evento, pur di conseguire un proprio fine. (119) È facile, del resto, che la realizzazione ex post del rischio conduca a sopravvalutare il giudizio, o a forzare le asserzioni (specie quando ciò sia funzionale a determinati esiti processuali) sulla probabilità ex ante di realizzazione dell’evento; si consideri, per esempio, un passo della motivazione di Trib. Verona 31 marzo 1995 (p. 46 s. datt.), relativa al caso tristissimo della morte di una giovane donna a seguito del lancio di pietre da cavalcavia: ‘‘anche un ragazzo di dieci anni sarebbe in grado di comprendere che la proiezione di un macigno di quasi quindici chilogrammi da un’altezza di sette metri contro una vettura in corsa veloce sull’autostrada cagioni, con elevatissima probabilità o addirittura con certezza, la morte delle persone a bordo dell’autoveicolo preso di mira: sia che l’oggetto lanciato colpisca il bersaglio, sia che comunque interferisca con esso’’ (la conclusione che ravvisa il dolo diretto è subito dichiarata valida, significativamente, ‘‘anche per i casi contestati a titolo di tentativo’’). Circa i lanci di pietre su veicoli in corsa si veda peraltro infra, 7.3. (120) A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 366 s.; in senso adesivo rispetto a tale dottrina cfr. L. EUSEBI, Il dolo, cit., p. 206 ss. (esemplificazioni in entrambi i testi); si veda anche G. INSOLERA, Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 469.
— 1095 — Perché non sia così bisognerebbe (forse) poter ipotizzare situazioni nelle quali l’omettere sia davvero psicologicamente determinato, addirittura, dalla prospettiva di conseguire un fine che nulla abbia a che fare con l’evitare gli oneri dell’adempimento e che sia conseguibile, dato il ruolo del soggetto interessato, proprio non adempiendo: con uno sforzo di fantasia, potremmo pensare al soggetto garante il quale (disposto a pagare il prezzo di cui sopra) non usi uno strumento salvavita messo a sua disposizione, in quanto lo voglia rivendere traendone profitto. Fatti salvi, eventualmente, simili casi limite, lo stesso non agire di chi si astiene sapendo che a seguito dell’inerzia si produrrà l’evento lesivo (o di chi si asterrebbe anche di fronte alla certezza di tale esito) assume un significato psicologico ben diverso da quello che si avrebbe in presenza delle medesime condizioni ove si trattasse di una condotta attiva: significato non assimilabile neppure in senso normativo, come già s’è detto, a quello costituito dalla volizione dell’evento (121), mancando qualsiasi presa di iniziativa del soggetto interessato a costo della quale si realizzi la conseguenza non voluta (122). Il pompiere che per paura non adempia (escluso lo stato di necessità) l’obbligo difficoltoso di salvare un individuo durante un incendio e, del pari, il marito codardo che non scenda nel fiume (escluso sempre lo stato di necessità) per salvare la moglie in esso scivolata, ma che mai avrebbe posto in essere condotte idonee a provocare il benché minimo rischio per l’incolumità della moglie e meno che mai l’avrebbe uccisa, non possono essere trattati come se avessero voluto gli esiti lesivi (non si può dire che sarebbero stati disposti a pagare il prezzo costituito dal sacrificio del bene protetto per un loro fine) (123). Potrà aversi responsabilità a titolo di colpa cosciente, ma non di dolo (eventuale o c.d. diretto); il che, fra l’altro, conferma l’assunto già in precedenza espresso secondo cui il reato omissivo improprio è strutturalmente colposo. Pure chi ammetta, in linea di principio, il dolo non intenzionale, dovrà dunque di regola provare, per punire a titolo di reato omissivo improprio doloso, che la prospettiva psicologica determinante il non agire sia stata proprio quella di far sì che potesse realizzarsi il risultato allo scopo del cui impedimento l’obbligo era posto (124). Medesime conclusioni, che si sostanziano nella compatibilità col solo dolo intenzionale, sono da trarsi per analoghi motivi, come anche più oltre si dirà trattando del dubbio sull’offesa, rispetto alle fattispecie omissive proprie. 7.2.
Un ulteriore limite (125) alla configurabilità del dolo eventuale e di quello c.d. di-
(121) Cfr., ancora, A. PAGLIARO, op. e loc. ult. cit.. (122) Cfr. L. EUSEBI, op. ult. cit., p. 208. (123) L’opinione contraria di M. ROMANO, op. cit., sub art. 43, 22, p. 411, viene significativamente motivata nel senso secondo cui l’ordinamento esigerebbe che la rappresentazione della concreta possibilità di realizzazione dell’evento ‘‘muova’’ il soggetto garante ‘‘ad intervenire sotto la sua massima responsabilità’’: si tratta, in effetti, di una motivazione tipicamente politico-criminale, e non riferita, come invece richiede l’accertamento del dolo, alla realtà psicologica. Non potrebbe d’altra parte valere come obiezione (così invece L. BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in questa Rivista, 1997, p. 1385 s., che peraltro dichiara di condividere il fine, colto nella tesi criticata, di ‘‘arginare’’ la responsabilità per omissione), ma semmai come implicita conferma della correttezza di quanto sosteniamo, la considerazione secondo cui in materia di elemento soggettivo, e segnatamente nell’ambito del concorso di reati, il codice Rocco intese contemplare, addirittura, casi di responsabilità oggettiva: un a fortiori tanto più inaccettabile data l’inesistente base normativa del dolo eventuale. (124) Nei casi del tipo sopra descritto, conclude A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 368, ‘‘l’evento non impedito non costituisce la realizzazione del volere dell’agente’’: con la conseguenza che ‘‘l’equiparazione fra ‘cagionare’ e ‘non impedire’, dunque, non vale nel campo del dolo indiretto [v. supra, nota 95] e del dolo eventuale’’. (125) Ove manchi una condotta base attiva, l’ipotesi è inquadrabile pure nel contesto di cui al precedente punto 7.1: cfr. A. PAGLIARO, op. ult. cit., p. 367 s.
— 1096 — retto dev’essere riconosciuto quando l’unica ragione perché non venga rispettata una regola di diligenza sia reperibile in una riserva di coscienza, seppur antigiuridica, verso il comportamento necessario a fini cautelari (126). In questo caso il non agire conformemente a quanto richiesto per la tutela di un certo bene dipende soltanto dalla persuasione soggettiva dell’intrinseca inaccettabilità che caratterizzerebbe il ricorso, pur doveroso, a un determinato strumento di tutela: ancora una volta non viene in gioco, dunque, la disponibilità a mettere in conto il verificarsi di un’offesa al fine di conseguire un obiettivo preventivamente definito e in funzione del quale sia stato progettato il non agire (non esiste, in realtà, alcun obiettivo dell’inadempienza, esaurendosi la sua motivazione nelle ragioni che rendono comunque inaccettabile agli occhi del trasgressore una certa condotta). Anche quando sa che col suo comportamento non potrà essere evitato l’evento lesivo, nell’ipotesi in esame il trasgressore si astiene, in altre parole, da qualsiasi calcolo strumentale che coinvolga il sacrificio del bene protetto: se ci fosse un altro modo, per quanto oneroso, di assicurarne la salvaguardia egli lo utilizzerebbe. Ciò considerato, è ovvio che il diritto penale dovrà pur sempre tener fermo (127) l’impegno inteso a garantire l’adempimento dei doveri di diligenza anche rispetto a prese di posizione soggettive del tipo di cui si discute: ma tale compito potrà essere assolto, circa le conseguenze giuridiche riferite al prodursi dell’evento lesivo, solo attraverso la minaccia di un’imputazione per colpa cosciente (si tratta della violazione consapevole di un dovere). Ipotizzare il dolo — secondo le formule comunemente utilizzate in relazione al dolo c.d. diretto e al dolo eventuale — rappresenterebbe, invece, una palese forzatura della realtà psicologica: lungi, infatti, dal potersi parlare di uno stato normativamente assimilabile alla volizione, nel contesto in parola emerge senza dubbio che il soggetto non vuole — in tutti le accezioni plausibili — l’evento lesivo. Semmai, quel che suscita perplessità sono le indecisioni e le resistenze non di rado constatabili nel momento in cui si tratta di apprestare ex ante tempestivi interventi giudiziari finalizzati a tutelare gli individui, soprattutto minorenni, i quali restano esposti agli esiti di condotte omissive antigiuridiche attuate per convinzione, e dunque a far sì che quanto dovuto sia altrimenti posto in essere. Un’esigenza, questa, fondamentale anche nel caso simile in cui sussista l’indisponibilità del garante a utilizzare un mezzo riconosciuto indispensabile per la salvaguardia del bene in gioco, in quanto erroneamente — e spesso irrazionalmente — consideri quel mezzo inadeguato, o meno adeguato di altro strumento nel quale ripone una fiducia immotivata: si pensi al rifiuto di terapie accreditate che abbiano significative probabilità di successo, in favore di strategie non assistite da alcuna validazione scientifica — con i possibili esiti sui quali due tristissime vicende assurte a casi nazionali, riguardanti la città di chi scrive, dovrebbero indurre alquanto a riflettere (128) (in quest’ultimo contesto, tuttavia, l’imputazione a titolo di dolo dell’eventuale conseguenza lesiva dovrebbe essere esclusa sia sulla base dei criteri di accertamento che abbiamo descritto con riguardo alle forme non intenzionali del dolo, sia sulla base della disciplina concernente l’errore di fatto). Supplire all’inerzia nel tutelare quando ciò sia ancora possibile il bene vita, enfatizzando attraverso l’imputazione del dolo la risposta alla lesione dopo che essa si è ormai realizzata (126) Sempre che, sussistendo una condotta base attiva, non possa addirittura rinunciarsi alla medesima. (127) Purché, è ovvio, ne sussistano tutte le condizioni: v. infra, nel testo, in riferimento a prospettabili obiezioni legittime di coscienza. (128) Sulla prima di esse cfr. un ampio resoconto, con vari interventi (Il bambino malato e la libertà di scelta terapeutica, a cura di F. SERENI), nella rivista Prospettive in pediatria, 1999, 29, p. 213 ss.; sulla seconda il laconico comunicato dell’exitus in Giornale di Brescia, 3 agosto 2000.
— 1097 — (nell’ottica di un ordinamento più abituato a retribuire che, in concreto, a fare prevenzione), non si configurerebbe, invero, strategia fra le più razionali. Si deve altresì considerare, peraltro, come il tema cui s’è fatto cenno potrebbe avere evoluzioni estremamente delicate. Finora, infatti, s’è parlato di casi in cui il carattere doveroso di una certa condotta risulta fondato su presupposti ampiamente condivisi, fatti propri dal sistema giuridico: casi, in particolare, rispetto ai quali è da escludersi un inadempimento ammesso dal diritto, come obiezione di coscienza costituzionalmente motivabile o ad altro titolo. Ma nel futuro l’indisponibilità a utilizzare mezzi pur in grado di impedire determinati eventi potrebbe riguardare situazioni ben diverse. Si consideri l’ipotesi in cui il ricorso — che dovesse essere consentito o semplicemente non vietato — a un certo mezzo implicasse la lesione oggettiva di un dato bene, come avverrebbe, poniamo, se al soggetto garante fossero resi disponibili in uno specifico contesto terapeutico solo prodotti farmacologici realizzati attraverso processi implicanti la distruzione ed eventualmente la previa clonazione di embrioni umani. Se ne deduce l’esigenza di una specifica attenzione, al di là dell’obbligo generale di impedire, per i profili che rendono o meno doverose le specifiche modalità effettivamente idonee a conseguire un certo risultato. 7.3. Da ultimo si deve considerare come rappresenti davvero un ulteriore caso a sé stante quello in cui la condotta rischiosa non costituisca il mezzo — secondo quanto corrisponde, nel bene o nel male, alla normalità dell’agire umano — per ottenere un qualsivoglia effetto (una modifica del mondo esterno) autonomo dalla medesima, bensì sia voluta per se stessa, in forza del rischio ad essa connesso. Chi lancia sassi da un cavalcavia non ha un interesse, neppure strumentale, ai danneggiamenti o alle lesioni che provoca, né persegue altri fini, per il cui conseguimento (a costo di danneggiare o ledere) tenga la condotta rischiosa. Piuttosto, egli si gratifica del rischio indotto, del fatto di aver osato, del contesto situazionale (comprese le reazioni altrui) che si ricollega al rischio e che non assumerebbe per lui significato alcuno ove, per assurdo, non dipendesse dalla condotta rischiosa: tanto è vero che per la cessazione di quest’ultima non è decisivo l’essersi o meno realizzata qualcuna delle sue conseguenze possibili. Perfino quando il gioco perverso consista nel colpire i veicoli in corsa, la condotta non appare psicologicamente cagionata dall’intento di danneggiare o ledere (l’agente — si noti — non manifesta interesse a conseguire i danneggiamenti o le lesioni in modo diverso), né da altri obiettivi distinguibili rispetto alla produzione del rischio. Tutto ciò non può non avere riflessi ai fini penali. Per quel che concerne innanzitutto la problematica del dolo si impongono due importanti constatazioni. Da un lato sarà oltremodo improbabile che nelle situazioni in oggetto produttive di un evento lesivo possano sussistere i requisiti del dolo c.d. diretto o di quello eventuale. Quanto al primo lo esclude ab imis il numero circoscritto degli eventi lesivi in rapporto al numero delle condotte pericolose segnalate. Quanto al secondo, deve riconoscersi come un’applicazione non preconcetta della formula di Frank — fermo fra l’altro il rilievo per cui nel nostro ambito problematico l’attenzione dei soggetti agenti si impernia sul rischio e non sulla ponderazione delle conseguenze — ben difficilmente potrebbe condurre ad affermare che si sarebbe agito pur nella certezza di produrre l’evento lesivo (se ciò fosse, dovrebbe quantomeno emergere, per esempio, una prefigurazione dei modi con cui affrontare l’eventualità di un effettivo prodursi dell’offesa). Dall’altro lato, anche ove la condizione richiesta dalla formula di Frank si reputasse per avventura assolta, resterebbe il fatto che le condotte in esame si differenziano in modo netto, per le ragioni sopra esposte, dall’ottica tipica del dolo non intenzionale, la quale richiede che mediante la condotta pericolosa venga perseguito uno specifico risultato (che nel nostro caso
— 1098 — manca), in vista della cui realizzazione vi è la piena disponibilità a pagare il costo espresso dal prodursi dell’evento non voluto: con la conseguenza che tali condotte, in quanto del tutto peculiari, non possono ricomprendersi fra quelle cui sono ritenuti applicabili il dolo c.d. diretto e quello eventuale. Al di là di quanto attiene a una corretta delimitazione della responsabilità dolosa, deve altresì rilevarsi, tuttavia, come le situazioni sopra considerate presuppongano comunque un quadro di formazione anomala del volere, circostanza la quale esclude che il soggetto agente di cui discutiamo si trovi — quantomeno rispetto a un determinato settore del suo interagire con gli altri individui — in quella ‘‘situazione di normalità’’ che contraddistingue, nel suo nucleo contenutistico, la categoria dell’imputabilità penale (129). Si tenga conto, inoltre, del fatto per cui se l’assenza di un movente, cioè di una prospettiva a monte della prospettiva che abbia cagionato in senso psicologico una condotta, depone per l’incapacità d’intendere e di volere (130), tanto più quest’ultima conclusione dovrebbe risultare valida rispetto a condotte che non siano rette da alcuna prospettiva finalistica propriamente intesa. Concludere, con riguardo al problema in gioco, per l’esclusione dell’imputabilità altro non farebbe che confermare, d’altra parte, la percezione del non addetto ai lavori secondo cui vicende del tipo descritto (respinta beninteso qualsiasi minimizzazione della loro gravità) non sono suscettibili di reperire una risposta adeguata — salvo accedere a una semplificazione troppo facilmente liberatoria per l’intero contesto sociale — secondo le logiche tipiche dell’applicazione in senso tradizionale di una pena. 8. Quanto sin qui s’è detto non esaurisce di certo la problematica del confine fra fattispecie dolose e colpose, il cui ulteriore approfondimento imporrebbe di addentrarsi nei modelli di costruzione delle singole fattispecie, con specifica attenzione per l’insieme oltremodo complesso delle norme in ampia parte a tutela anticipata che caratterizza la legislazione degli ultimi anni nell’ambito penale commerciale. 8.1. Basti richiamare, a tal proposito, alcuni nodi di fondo (131) intorno ai quali una simile indagine dovrebbe svilupparsi (132). In primo luogo, l’esigenza mirante a valorizzare l’offesa al bene tutelato (secondo la modalità di danno o di pericolo assegnatale dal legislatore) come oggetto imprescindibile del dolo, in modo da garantire la validità generale della definizione di cui all’art. 43 c.p. (133): l’imputazione dolosa richiederà pertanto la consapevolezza del fatto per cui il conseguimento (nei reati di evento) del risultato significativo ai fini penali costituente oggetto della prospettiva psicologica causale rispetto all’adozione della condotta, o il perseguimento stesso attraverso quest’ultima (nei reati di pura condotta mediante azione) di qualsivoglia risultato oggetto di una prospettiva analoga, o il mero non fare in rapporto al contesto concreto (nei reati di pura condotta mediante omissione) implichino l’offesa rilevante ai sensi della norma incriminatrice. (129) Si veda M. ROMANO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, 2a ed., Milano, 1996, sub art. 85, 1, p. 13. (130) Oltre ad inficiare l’accertamento dell’intenzionalità: v. supra, 5.2. (131) Per i riflessi della problematica relativa alla divergenza fra il decorso causale oggetto di rappresentazione e quello realizzatosi (aberratio causae) si veda supra, nota 12, nonché 4.1.2. (132) Cfr. in particolare, su questi profili, M. DONINI, Il delitto contravvenzionale. ‘‘Culpa iuris’’ e oggetto del dolo nei delitti a condotta neutra, Milano, 1993, passim, nonché ID., Dolo e prevenzione generale nei reati economici. Un contributo all’analisi dei rapporti fra errore di diritto e analogia nei reati in contesto lecito di base, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, pp. 27 ss. e 34 ss. (133) Cfr. S. PROSDOCIMI, voce Reato doloso, cit., p. 239 (che peraltro mantiene scissi — v. infra, nel testo — i profili attinenti l’offesa e la conoscenza della norma penale).
— 1099 — Posto, infatti, che l’offesa di un bene (salvo rarissime eccezioni) non viene perseguita come una sorta di fine a se stante (l’autore di un furto non è di regola motivato dallo scopo di impoverire la vittima, né quello di una frode fiscale dallo scopo di danneggiare il fisco), bensì in quanto si intenda realizzare un fatto offensivo concreto, essa potrà dirsi voluta ove il soggetto agente abbia consapevolezza dell’essere l’offesa medesima effettivamente coessenziale al fatto di reato, vale a dire del suo costituirne un attributo necessario (e non un esito che si sostanzi, come avviene nel dolo c.d. diretto, in un accadimento autonomo, distinguibile dall’obiettivo perseguito): il sapere di tale connessione si configura, dunque, quale criterio probatorio della volontà offensiva (134). Ove poi il soggetto abbia agito nel dubbio circa la concreta offensività dell’evento naturalistico perseguito o, quando il medesimo non rilevi, della sua stessa condotta (vuoi perché davvero l’evento o la condotta si sarebbero potuti rivelare inoffensivi, vuoi per una valutazione erronea), sussisterà di regola la colpa cosciente e, comunque, si riproporranno le considerazioni limitative in precedenza esposte rispetto alla configurabilità del dolo eventuale. Per le medesime ragioni più sopra illustrate quest’ultima forma di imputazione soggettiva dovrebbe in ogni caso essere ritenuta non compatibile, anche quando la rappresentazione in termini di incertezza riguardi l’offesa, con i reati omissivi, siano essi impropri o propri. Ciò che sin qui s’è sostenuto risulta soprattutto necessario onde evitare, nei reati senza evento naturalistico, l’appiattirsi della volizione riferita all’evento — quale unico fattore tipico del dolo — sul requisito generale costituito dalla volontà della condotta, valido ex art. 42 c.p. sia ai fini della responsabilità dolosa, sia ai fini di quella colposa: dunque onde evitare che il modello del delitto doloso copra, e punisca come intenzionali, (mere) condotte nella realtà solo colpose o addirittura tali da venire in rilievo nei termini di una vera e propria responsabilità oggettiva. In secondo luogo dev’essere parallelamente rimarcata la circostanza per cui ai fini del diritto penale contano soltanto offese di beni — in termini di danno o messa in pericolo — reputate antigiuridiche dall’ordinamento (conta, come più sopra illustravamo, la produzione di rischi illeciti), dal che deriva come il dolo, avendo per oggetto la fattispecie tipica, non possa per sé non implicare oltre alla volontà di comportarsi in modo (naturalisticamente) offensivo, anche la volontà di trasgredire la legge. Non si tratta solo di constatare, pertanto, che nell’ambito dei reati formali o di pura creazione legislativa l’offesa naturalistica non può essere voluta (nel senso poco sopra descritto) senza consapevolezza dell’antigiuridicità penale. Si tratta, piuttosto, di considerare altresì che se davvero il soggetto agente ha errato sulla norma penale (o non si è mosso, rispetto al dubbio sulla sussistenza del divieto, nella disponibilità a trasgredire la legge) non è in dolo, non avendo inteso arrecare alcuna offesa antigiuridica. Si potrà eventualmente (pragmaticamente) discutere degli obblighi accertativi che siano da esigersi in merito alla coscienza dell’illiceità e, per converso, all’errore di diritto, muovendo dal dato per cui secondo l’interpretazione corrente della disciplina in vigore si va ben oltre la logica stessa di un’inversione dell’onere probatorio. Che senso ha, d’altra parte, punire per dolo persino quando sussista la prova indiscussa che un errore, pur evitabile, sul divieto vi sia effettivamente stato? E, del pari, che senso può assumere, in un contesto nel quale il principio costituzionale di colpevolezza non intenda soccombere rispetto a una visione arcaica delle istanze di prevenzione generale, punire a titolo di colpa o di dolo a seconda che l’identico stato psicologico di errore dipenda da una negligenza concernente l’approccio al fatto materiale o all’assetto normativo, laddove è discutibile che in quest’ultimo caso la stessa entità del rimprovero sia sempre da ritenersi maggiore? Soprattutto, si tratta di superare l’idea che la necessità del dolo affinché possa rispondersi di reato doloso, al di là delle dispute fra Schuld- e Vorsatztheorie, risulti in pratica de(134) Si consenta il rinvio, per ulteriori cenni su questo tema, a L. EUSEBI, Il dolo nel diritto penale, in Studium iuris, 2000, p. 1074 s.
— 1100 — rogabile. Prospettiva, quest’ultima, nel solco della quale va sottolineato (pure all’interno del sistema normativo vigente) che il requisito del dolo quale elemento portante del fatto tipico rappresenta, in rapporto ai delitti, condicio sine qua non per la sussistenza stessa del reato: un requisito la cui necessità sancita senza riserve dall’art. 43 c.p. viene prima di qualsiasi ulteriore considerazione. Ne deriva altresì, infine, che non è immaginabile un superamento soddisfacente delle incriminazioni fondate dal codice Rocco sulla logica del versari in re illicita limitandosi a introdurre un fattore colposo che suffraghi pur sempre l’imputazione, rispetto all’evento non voluto, di una responsabilità dolosa. 8.2. Ferma l’esigenza che molti profili siano ben altrimenti indagati, il tentativo sin qui svolto di ricostruire — in un’ottica tendente alla semplificazione e alla ricostruzione unitaria della teoria del reato desumibile dal codice vigente — alcuni tratti contenutistici sostanziali riguardanti l’imputazione dolosa e quella colposa può valere come un contributo affinché l’analisi della casistica normativa in materia penale, sempre più variegata quanto alla descrizione dei parametri riconducibili all’elemento soggettivo, non rinunci a una visione sistematica dei problemi in gioco. Si spiega, su questa via, il senso stesso dell’aver proposto, in una raccolta di studi riferiti alle specifiche fattispecie dolose previste dal diritto penale dell’economia, un approccio di (mera) teoria generale. Proprio nel settore or ora citato, infatti, è andata manifestandosi con particolare evidenza la propensione a giustificare per ragioni politico-criminali — incrementare l’effettività dell’intervento penale, colpire centri d’imputazione realistici delle scelte davvero decisive circa l’adozione dei comportamenti illeciti, etc. — una lettura estensiva, specie in rapporto alla volontà, del concetto di dolo; e proprio con riguardo a un simile settore, dunque, emerge in modo tanto più significativo la necessità di ribadire quei principi che mai potrebbero essere derogati da considerazioni riferibili a contesti particolari. Tutto questo rimanda a un’opzione di fondo, la quale assume grande rilievo per il futuro. Essa muove, per un verso, dalla consapevolezza del fatto che il diritto penale tradizionale, con l’apparato delle regole che ne contraddistinguono l’applicazione in rapporto alla modalità sanzionatoria base (e in Italia ancora pressoché egemone) rappresentata dalla pena detentiva, non è in grado di far fronte alle esigenze di tutela — ormai ampiamente sganciate, per esempio, dal riferimento classico al modello del delitto doloso di evento — che caratterizzano soprattutto in ambito economico i sistemi giuridici moderni (135). Dall’altro lato, essa presuppone altresì l’ancoramento all’assioma, irrinunciabile per una normativa penale che si percepisca anche come magna charta delle libertà individuali, secondo cui quando è in gioco l’applicabilità di una sanzione detentiva non si può deflettere in alcun modo dal rispetto dei principi che, acquisiti in sede dogmatica sovente con non poche difficoltà, sono posti a garanzia del soggetto incriminato. Ebbene, si riscontra da alcuni anni la tentazione di piegare il diritto penale tradizionale — immutate le sue modalità sanzionatorie — alle nuove istanze di tutela, tollerando (e giustificando) una progressiva erosione delle garanzie non solo processuali ma anche sostanziali: erosione della quale le vicissitudini concernenti l’approccio pratico e teorico al problema del confine fra dolo e colpa costituiscono senza dubbio uno fra gli esempi più significativi. Ma esiste, per l’appunto, un’opzione alternativa: si tratta di prendere ampiamente le distanze — sulla scorta delle nuove necessità di salvaguardia, soprattutto anticipata, dei beni fondamentali — dal modello sanzionatorio tradizionale che ha il suo perno nella minaccia della detenzione. (135) Cfr. K. LÜDERSSEN, Zurück zum guten, alten, liberalen, anständigen Kernstrafrecht?, in ID., Abschaffen des Strafens?, cit., p. 381 ss.
— 1101 — Ciò in quanto solo nei casi in cui sia escluso in radice il ricorso a una pena principale detentiva potrebbe reputarsi accettabile valutare l’utilizzabilità alla luce del sole (dunque, per volere della legge e senza surrettizie manipolazioni dei concetti dogmatici fondamentali) di regole per determinati aspetti meno rigide concernenti l’integrazione del reato, che rendano più efficiente, in continuità con altri mezzi, l’intervento preventivo penale (136): così da potersi promuovere, in particolare, un controllo finalmente serio (meno lacunoso) delle condotte pericolose (137). Su questa via potrebbe essere facilitato l’auspicabile abbandono del ricorso a concetti valvola, come quello di dolo eventuale, aventi di fatto lo scopo di mantenere aperti nella prassi giudiziaria i confini e (in parte) il rango dell’intervento punitivo. Rimanere vincolati, invece, alla logica del diritto penale classico — il quale interviene sporadicamente, a danno arrecato, con un’inflizione di sofferenza che cerca avallo nel (necessario) rispetto di determinate garanzie dogmatiche e procedurali (ma pur sempre mettendo in conto molte presunzioni e molte punizioni d’innocenti) — significherebbe, a un tempo, non affrancarsi dalla esemplarità retributiva e non contribuire a una prevenzione efficace. Né si pensi che in tal modo verrebbero soddisfatte, comunque, le esigenze essenziali di tutela dei beni giuridici primari. È vero che il diritto penale non ha mai mancato di occuparsi, per esempio, delle (non molte) centinaia di omicidi dolosi commessi ogni giorno nel mondo (a parte il quesito sul grado d’incidenza che ciò abbia circa il contenimento complessivo dei medesimi). Ma non si deve trascurare che ogni giorno nel mondo vi sono molte decine di migliaia di decessi evitabili, per guerre, meccanismi di sfruttamento economico, negligenze e quant’altro possa essere ricondotto a ingiustizie sostanziali. Una realtà la cui estensione può essere ridotta solo garantendo, a monte, reti assai fitte di condotte giuridicamente virtuose (sul piano economico, amministrativo, fiscale, precauzionale, etc.), obiettivo il quale coincide con quello per l’appunto perseguibile attraverso norme penali non caratterizzate dal ricorso alla pena detentiva (finalmente aperte, fra l’altro, alla incriminabilità delle persone giuridiche): il grosso della prevenzione penale non si fa coi tradizionali delitti dolosi di evento. LUCIANO EUSEBI Professore straordinario di Diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza
(136) Nondimeno, il legislatore sembra non sapersi staccare dagli schemi consueti: si pensi, per esempio, ai nuovi delitti in materia di imposte sui redditti e sul valore aggiunto (d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), laddove la strategia preventiva, in un settore che più di ogni altro si presta a interventi economico-patrimoniali nei confronti dei soggetti (soprattutto persone giuridiche) i quali traggono vantaggio effettivo dall’illecito, resta incentrata su una minaccia edittale spinta a livelli che non consentono di escludere a priori, da parte della persona fisica agente, l’eseguibilità effettiva della pena detentiva e, parallelamente, su una tipicità labile, che fa leva sul dolo specifico nonché, in vari casi, sulla clausola generale rappresentata dall’idoneità delle condotte a offendere l’interesse funzionale rilevante (cioè l’interesse del fisco all’accertamento delle imposte). (137) Cfr. supra, 3.2.1 e 4.3.3. Puntualizza significativamente F. STELLA, Scienza e norma, cit., p. 391: ‘‘ciò che [dovrebbe caratterizzare] il nuovo modello di repressione, differenziandolo nettamente dal vecchio, è appunto la diversità dell’oggetto della tutela: non più i beni ‘finali’ dei singoli, ma l’interesse collettivo a che vengano osservate le prescrizioni, e non vengano ostacolati i controlli demandati agli enti di vigilanza’’.
MERCATI FINANZIARI E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA: SPUNTI PROBLEMATICI SUI RECENTI INTERVENTI NORMATIVI DI CONTRASTO AL RICICLAGGIO (*)
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. Opzioni di politica criminale ed ineffettività della disciplina anti-riciclaggio. — 3. La verifica empirica dell’ineffettività: modelli di analisi e rilevazioni statistiche. — 4. Mercati finanziari e diritto penale fra prevenzione e repressione. — 5. Dalla cultura del ‘segreto’ a quella della ‘trasparenza’: condizioni di accesso al mercato e regime delle segnalazioni. — 6. (Segue) dagli intermediari bancari e finanziari ai professionisti svolgenti attività non finanziarie suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio: l’estensione delle disposizioni anti-riciclaggio a nuove tipologie di soggetti. — 7. Cooperazione degli intermediari e « funzione di utilità »: modelli economici di analisi. Critica. — 8. L’intermediario finanziario innanzi alla disciplina anti-riciclaggio: verso la creazione di una « posizione di garanzia »? — 9. Il predicate crime e il riciclaggio: il problematico divieto della ‘doppia punibilità’ nei delitti di criminalità organizzata. — 10. Conclusioni.
1. Introduzione. — Il 1999 segna in Italia il completamento di un lungo percorso legislativo col quale, portando a termine il recepimento della Direttiva comunitaria del 10 giugno 1991 (91/308/CEE) — e nell’attesa di un Testo Unico sul riciclaggio —si pone un ulteriore tassello nella strategia normativa di contrasto al fenomeno criminale. In attuazione della legge delega 6 febbraio 1996 n. 52 (legge comunitaria per il 1994), sono stati emanati il d.lgs. 30 aprile 1997 n. 125, recante norme sulla circolazione transfrontaliera di capitali, ed il d.lgs. 26 maggio 1997 n. 153, col quale si apportano sensibili modifiche e novità al regime di segnalazione delle operazioni sospette delineato dalla legge del 5 luglio 1991, n. 197 (1). Inoltre, col d.lgs. 26 agosto 1998 n. 319 — emanato in attuazione dell’art. 1 della legge 17 dicembre 1997 n. 433 — si è provveduto al riordino delle funzioni dell’Ufficio Italiano Cambi arricchendole di nuovi e penetranti compiti in materia di riciclaggio. Infine, è ormai prossimo all’emanazione un ulteriore decreto legislativo, il quale, dando seguito alle disposizioni di cui all’art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 52/1996, prevede l’estensione della disciplina anti-riciclaggio ad ulteriori categorie professionali la cui attività si suppone sia particolarmente suscettibile di utilizzazione ai fini del money laundering (2). Il timore che i vantaggi del mercato unico europeo in termini di libertà di circolazione (*) Il testo riproduce, con le opportune modifiche e l’aggiunta delle note, la relazione svolta al « I Seminàrio Internacional sobre Lavagem de Dinheiro », Brasilia — 3/4 dicembre 1998. (1) Per un’analisi delle novità apportate da tali decreti legislativi v. INSOLERA, Prevenzione e repressione del riciclaggio e dell’accumulo di patrimoni illeciti, in Legisl. pen., 1998, 172 s. (2) Al momento in cui si scrive, si tratta dello schema di decreto legislativo n. 1203/1999, XIII Legislatura, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 9 giugno 1999, e trasmesso dal Ministro per i rapporti col Parlamento al Presidente della Camera dei Deputati in data 17 giugno 1999, affinché le Commissioni riunite II (Giustizia) e VI (Finanze), esprimano il prescritto parere entro il termine del 28 luglio 1999.
— 1103 — costituiscano un formidabile volano per l’espansione della criminalità organizzata, costituisce ormai un consolidato leit-motiv sullo sfondo della produzione normativa nazionale e comunitaria (3). Siffatta preoccupazione appare ulteriormente aggravata, per un verso, dagli accordi raggiunti in sede di World Trade Organization, atti a rimuovere — a partire dal 1o marzo 1999 — talune discriminazioni nell’offerta di servizi finanziari e bancari in ben 102 nazioni; per altro verso, dalle rilevazioni della Banca Mondiale, la quale segnala — nel Rapporto 1997 — il costante incremento di accordi transnazionali ed il progressivo radicamento delle organizzazioni criminali nelle economie locali (4). Ad una globalizzazione dell’economia — si avverte — corrisponde con tempestiva simmetria una globalizzazione della criminalità organizzata. Il rapporto e le intersezioni fra i processi finanziari e lo sviluppo della criminalità, tuttavia, costituiscono un fenomeno assodato da tempo. Il settore bancario e finanziario rappresenta un humus fertile ed obbligato per il mantenimento e l’espansione del crimine (5). Invero, sia l’essenza immateriale dei servizi bancari e finanziari, sia l’opacità che caratterizza tali luoghi di scambio, sia infine l’accentuarsi della competizione ed il diversificarsi dell’offerta, si traducono in condizioni ideali ed al contempo irrinunciabili per le esigenze di mimetismo e sviluppo dell’industria del crimine (6). Innanzi ad una realtà criminale dalla dimensione sempre più globale e che trae vantaggio dalle disomogeneità esistenti fra le singole risposte nazionali, la condizione prioritaria per l’elaborazione di una valida strategia di contrasto risulta essere quella della cooperazione internazionale (7). Non sembra infatti realisticamente possibile poter affrontare un problema ormai transnazionale in una cornice necessariamente delimitata da singole risposte statuali. Occorre infatti tener conto anche del c.d. Verlagerungseffekt, cioè dell’effetto di spostamento degli obiettivi criminali, indotto dalla presenza di discipline di contrasto — ancorché inefficaci — verso realtà economiche prive di sistemi di reazione. Il persistere di differenze, quantitative e qualitative, rischia in effetti di provocare uno slittamento del riciclaggio, a parità di tassi complessivi di criminalità, verso paesi la cui densità della reazione è bassa o nulla (8). Lungo la direzione segnata da una sinergia internazionale, si è sviluppato un processo di riforme legislative che annovera fra i suoi protagonisti talune istituzioni sovranazionali: il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione del 27 giugno 1980, avente ad oggetto l’identificazione della clientela da parte delle banche; la Dichiarazione di principi resa dal Comitato di Basilea nel dicembre 1988 per la regolamentazione, la vigilanza (3) Non è privo di significato che, nella prospettiva di un diritto penale comunitario, il riciclaggio — unitamente alla ricettazione — sia stato inserito nell’art. 7 del progetto di un Corpus Juris (elaborato da un gruppo di professori coordinato da M. Delmas-Marty), il quale contiene fattispecie penali e disposizioni processuali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea. A tal riguardo, GRASSO, Il « Corpus Juris » e le prospettive di formazione di un diritto penale dell’Unione Europea, in Verso uno spazio giudiziario europeo. Corpus Juris, a cura di Grasso, Milano, 1997, 1 s., ove è pubblicato il progetto in parola. (4) BRUNI-MASCIANDARO, Introduzione, in AA.VV., Mercati finanziari e riciclaggio, a cura di Bruni e Masciandaro, Milano, 1998, VII. (5) Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, Indicazioni per un’economia libera dal crimine, documento approvato nella seduta del 20 luglio 1993, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, 831, la quale ben coglie gli obiettivi strategici su cui è indispensabile intervenire: a) riduzione delle opportunità criminali offerte dai mercati illegali; b) riduzione della vulnerabilità dei mercati legali alle infiltrazioni della criminalità organizzata; c) difesa dell’integrità ed efficienza del sistema economico. (6) FLICK, Società fiduciarie, finanziarie e di intermediazione finanziaria, in Riv. soc., 1990, 455 s. (7) Per tale aspetto v. PISANI, Criminalità organizzata e cooperazione internazionale, in questa Rivista, 1998, 703 s.; MINISTERO DELL’INTERNO, Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata 1995, Doc. XXXVIII-bis, n. 1, Roma, 1996. (8) Sul punto, MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, Napoli, 1997, 97.
— 1104 — e la prevenzione sull’attività bancaria; la Convenzione Onu, firmata a Vienna il 19 dicembre 1988 sul traffico di stupefacenti; il Consiglio d’Europa con la Convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990, ratificata in Italia con la legge n. 328/1993; le ‘Forty Recommendations’ del Gruppo d’azione finanziaria sul riciclaggio di denaro (Gafi o Fatf) adottate nel 1990, e modificate a Washington D.C. il 26 giugno 1996 (9); la citata Direttiva del 10 giugno 1991 del Consiglio dei Ministri della Comunità europea, inerente alla prevenzione e all’uso del sistema finanziario per finalità di riciclaggio; il secondo Protocollo addizionale, firmato il 19 giugno 1997, il quale — arricchendo la Convenzione del 26 luglio 1995 sulla protezione degli interessi finanziari dell’Unione Europea — prevede l’obbligo per gli Stati membri, per un verso, di incriminare il riciclaggio del denaro proveniente da frodi o da corruzioni realizzate in danno del bilancio comunitario e, per altro verso, di pervenire per tali fatti ad una responsabilizzazione delle persone giuridiche ricorrendo ad un sistema di sanzioni, penali o amministrative, le quali siano « effettive, proporzionate e dissuasive » (10). Infine, l’esperienza maturata sul terreno del contrasto al riciclaggio ha dato luogo all’elaborazione di un Progetto Preliminare di proposta di una nuova Direttiva comunitaria, il quale, dando seguito alle raccomandazioni del Gruppo ad alto livello « Criminalità organizzata » — il cui piano d’azione è stato peraltro approvato dal Consiglio europeo il 16-17 giugno 1997 ad Amsterdam — si propone di modificare la Direttiva 91/308/EEC. Sul versante dei singoli ordinamenti penali si registra, già a partire dalla seconda metà degli anni ’80, una massiccia produzione legislativa ad hoc. I modelli di incriminazione adottati sono di volta in volta diversi, ed oscillano dalla ricettazione al favoreggiamento; non mancano tuttavia figure miste, o del tutto originali rispetto ai canoni tipici degli ordinamenti di civil law. In particolare, si richiamano allo schema del reato di ricettazione l’Italia, già dal 1978 con la prima formulazione della norma di cui all’art. 648-bis c.p., a cui con la legge n. 55/1990 si è aggiunta un’ulteriore fattispecie, l’art. 648-ter c.p., entrambe modificate nel ’93; l’Australia con il Proceeds of Crime Act del 1987 ed il Cash Transaction Reports Act del 1988 (11); il Canada, con il Bill C-61 del 1989; il Giappone, con la Narcotics Special Law 1991, n. 94 (12); la Germania con il § 261 StGB introdotto con legge nel 1992 (13); il Brasile con l’art. 1 della legge federale 26 marzo 1998, n. 9.613. (9) Le ‘Forty Recommendations’, in relazione al loro contenuto, possono essere suddivise in tre categorie: a) sul ruolo che deve assumere ogni sistema penale nazionale nella lotta al riciclaggio, e precisamente estendere l’area della criminalizzazione anche oltre le previsioni della Convenzione di Strasburgo; b) sul ruolo del sistema finanziario, e precisamente sugli obblighi di identificazione del cliente, di registrazione e segnalazione delle operazioni inusuali, di individuazione dei reali beneficiari dell’operazione in caso di prestanome o schermi, nonché l’obbligo di introdurre codici interni di comportamento nelle aziende finanziarie; c) sul ruolo e sul rafforzamento della cooperazione internazionale. (10) In questa prospettiva si pone peraltro il GAFI, Raccomandazione n. 7: « where possible, corporation themeselves — not only their employees — should be subject to criminal liability »; in dottrina cfr. GRASSO, Il « Corpus Juris » e le prospettive di formazione, cit., 13; SAVONA, La regolazione del mercato della criminalità, in Pol. dir., 1993, 468. (11) Cfr. AA.VV., The Money Trail. Confiscation of Proceeds of Crime, Money Laundering and Cash Transaction Reporting, a cura di Fisse, Fraser e Coss, Sydney, 1992; NATIONAL CRIME AUTHORITY, Taken to the Cleaners: Money Laundering in Australia, Sydney, 1991; HEWETT-KALYK, Understanding the Cash Transaction Reports Act, Sydney, 1990. (12) NAKAJIMA, Money Laundering. A Japanese Perspective, in AA.VV., Money Laundering Control, Dublin, 1996, 281. (13) BOTTKE, Mercado, criminalidad organizada y blanqueo de dinero en Alemania, in Revista pen., 2, 1998, 1 s.; VOLK, Aspetti dogmatici e politico-criminali della nuova legge tedesca contro il riciclaggio (§ 261 StGB), in AA.VV., Il riciclaggio dei proventi illeciti. Tra politica criminale e diritto vigente, a cura di Palombi, Napoli, 1996, 339 s.; FREY, Geldwäsche. Die Achillesferse der Organizierten Kriminalität, in Kriminalistik, 1994, 337 s.; LAMPE, Der neue Tatbestand der Geldwäsche (§261 StGB), in JZ, 1994, 123 s.; HASSEMER,Vermögen
— 1105 — Adotta un modello simile al favoreggiamento personale, la Francia agli artt. 222-38, e 324-1 del nuovo codice penale, come modificato con la legge n. 96-392 del 13 maggio 1996 (14). Al favoreggiamento reale si è ispirata la Svizzera, la quale con due leggi, l’una del 1990 e l’altra del 1994, ha introdotto in seno al codice penale gli artt. 260-ter, 305-bis, 305ter (15). Altre legislazioni utilizzano invece delle figure miste, fra cui l’Inghilterra che contempla un sistema articolato in più fattispecie e previsto dagli artt. 93A, 93B e 93C del Criminal Justice Act del 1988, riformato col Criminal Justice Act del 1993; nonché dal Drug Trafficking Act del 1994 (artt. 49, 50 e 51), dal Prevention of Terrorism Act del 1989 (artt. 9, 10 e 11), e dal Northern Ireland Act del 1991 (artt. 53 e 54) (16). Infine, la legislazione statunitense, la quale, dopo una serie di passaggi — che vanno dal ricorso alla conspiracy ed alle false comunicazioni a funzionario pubblico, alla rivitalizzazione degli obblighi di reporting del Bank Secrecy Act 1970 (17) —, giunge all’elaborazione di fattispecie penali a tutela anticipata, con sanzioni criminali irrogabili direttamente alle corporations, controbilanciate da numerose ipotesi di non punibilità per i riciclatori collaboranti con le autorità (18). 2. Opzioni di politica criminale ed ineffettività della disciplina anti-riciclaggio. — Al di là delle differenze legate al precipuo modello utilizzato nella strutturazione delle fattispecie di riciclaggio — nonché tralasciando i profili inerenti alla diversa intensità del rispetto im Strafrecht. Zu neuen Tendenzen in der Kriminalpolitik, in WM Sonderbeilage 3 zu Heft 14 vom 8/4/1995, 1 s. Sulle varie ipotesi di confisca dei proventi illeciti introdotte nell’ordinamento tedesco v. MAUGERI, La sanzione patrimoniale fra garanzie ed efficienza, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, 844 s.; FORNASARI, Strategie sanzionatorie e lotta alla criminalità organizzata in Germania e in Italia, ivi, 1994, 743 s. (14) Cfr. CONTE, La lotta al riciclaggio del denaro di provenienza illecita nel diritto penale francese, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 407 s. (15) Recentemente, con legge entrata in vigore il 1o aprile 1998, anche la Svizzera si è dotata di un sistema di prescrizioni atte a prevenire l’uso strumentale del sistema bancario e finanziario per finalità di riciclaggio. Sul sistema svizzero, oltre ai contributi di BERNASCONI, La confisca e la punibilità del riciclaggio del provento della corruzione di pubblici funzionari, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, 539; ID., Riciclaggio. Le soluzioni svizzere, ivi, 1990, 160; cfr. SANSONETTI, La legislazione svizzera di contrasto al riciclaggio di denaro, in Cass. pen., 1998, 2551; CANO, La normativa penale svizzera antiriciclaggio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 151 s.; AA.VV., Il sistema bancario svizzero contro il riciclaggio, a cura di Chopard, Bellinzona, 1993; AA.VV., Vigilanza bancaria e riciclaggio, Lugano, 1992. (16) Cfr. GARDINER, Money Laundering, Economic and Organised Crime in the U.K. - The NCIS Perspective, London, 1995; JASON-LLOYD, Money Laundering. The Complete Guide, in NJL Practitioner, 1995, 149 s.; PARLOUR, United Kingdom, in AA.VV., International Guide to Money Laundering Law and Practice, London, 1995, 195 s. Per il punto di vista del civilista v. SERIO, Aspetti civilistici della legislazione inglese in materia di riciclaggio di beni di provenienza illecita: spunti per una riflessione comparatistica, in Riv. dir. civ., 1998, II, 127 s. (17) In proposito, MELTZER, Keeping Drug Money from Reaching the Wash Cycle: A Guide to the Bank Secrecy Act, in Banking Law Journ., 108, 1991, 230 s. (18) In generale, DE FEO, Il riciclaggio dei proventi illeciti: le esperienze statunitensi, in AA.VV., Il riciclaggio dei proventi illeciti, cit., 69 s. In particolare, sulle sanzioni criminali della confisca e del sequestro — previste da un elevato numero di leggi, fra cui meritano particolare attenzione quella sul Racketeer Influenced and Corrupt Organizations del 1970 (c.d. legge RICO), quella sulla Continuing Criminal Enterprise del 1970 (c.d. legge CCE), nonché il Money Laundering Control Act del 1986 (c.d. legge MLCA) — sia concesso limitare il rinvio a VERVAELE, Il sequestro e la confisca in seguito a fatti punibili nell’ordinamento degli Stati Uniti d’America, in questa Rivista, 1998, 954 s.; FISSE, Confiscation of Proceeds of Crime: Funny Money, Serious Legislation, in Criminal Law Journ., 1989, 368 s.
— 1106 — delle garanzie individuali, del rigore sanzionatorio e della tecnica descrittiva utilizzata —, le legislazioni segnalate mantengono significativi tratti in comune. In primo luogo, si allude alla predisposizione di un sistema di prevenzione che, in diversa misura, ruota sulla collaborazione degli intermediari bancari e finanziari. A tal fine, un notevole affidamento viene riposto su apposite agenzie di controllo, talvolta costituite ad hoc — ad esempio, è il caso del Conselho de Controle e Atividades Financeiras, istituito in Brasile dall’art. 14 della legge n. 9.613/1998 —; tal altra arricchendo di nuove competenze e più ampi poteri quelle già esistenti — com’è avvenuto per l’Ufficio Italiano Cambi con i decreti legislativi n. 125/1997, n. 153/1997 e n. 319/1998. In secondo luogo, sul versante patrimoniale si assiste al proliferare di ipotesi di confisca, nella consapevolezza politica dell’assoluta priorità di contrastare le organizzazioni criminali sul terreno dell’accumulazione dei capitali (19). A fronte delle peculiarità insite nelle singole risposte nazionali, emerge con sufficiente chiarezza un’opzione di politica criminale che si articola lungo una triplice direttiva: a) la prima di tipo preventivo, interamente affidata alla legislazione complementare o di settore, di natura extrapenale, che agisce sui requisiti soggettivi degli operatori, sull’attività e sulle forme organizzative della medesima, nonché sulla struttura del mercato bancario e finanziario; b) la seconda di tipo repressivo, affidata ad un numero più o meno ampio di fattispecie incriminatrici, inserite talvolta nei codici, tal altra nelle leggi speciali; c) la terza, infine, dall’ambigua fisionomia ed incentrata sul ricorso a sanzioni patrimoniali, irrogabili post delictum o addirittura praeter delictum. Nonostante il grado di sofisticazione raggiunto da tali misure, e nonostante le potenzialità insite in un approccio retto sul binomio ‘prevenzione/repressione’, in cui trovano collocazione tecniche di tutela di segno differente, il rapporto fra volumi di riciclaggio stimati e pronunce giurisprudenziali attesta come il livello di ineffettività continui ad essere complessivamente alto. Non si tratta di una disfunzione circoscritta alla sola realtà italiana: l’analisi dei dati statistici — pur con l’opportuna cautela dovuta ai noti limiti di tali rilevazioni — sembra piuttosto confermare come il giudizio negativo rappresenti una costante dell’esperienza applicativa dei singoli sistemi. La presenza di sintomi di ineffettività nella legislazione anti-riciclaggio impone ovviamente un’immediata riflessione sulle cause e sui possibili rimedi, anche perché — per quel che concerne l’esperienza italiana — i decreti legislativi del ’97 non sembrano in grado di incidervi definitivamente. Ancor prima però, il dato maggiormente significativo, tratto dall’analisi comparata, sembra risiedere nell’omogeneità ed uniformità di tali sintomi. Il che induce a pensare che la diagnosi di ineffettività sia il segnale di un malessere ben più profondo, e cioè di una ‘crisi di adattamento’ del sistema punitivo e del suo messaggio culturale alle strutture socio-economiche delle odierne democrazie capitalistiche. Non bisogna infatti dimenticare come una delle premesse di fondo per la costruzione di un sistema logico e praticabile, sia per l’appunto costituita dal continuo dialogo della produzione giuridica con la realtà sociale e le sue strutture (20). Ed invero, come si vedrà fra breve, i nodi della crisi sembrano risiedere proprio nell’efficientismo funzionalista di cui è pervasa la strategia normativa anti-riciclaggio, e segnatamente, per un verso, nei problemi posti dal coinvolgimento attivo degli intermediari e nel ruolo che pertanto si vorrebbe loro ritagliare e, per altro verso, nel carattere fortemente simbolico che connota non poche fattispecie penali. Nel perseguimento dell’obiettivo effettuale, inoltre, occorre ponderare compiutamente i costi della criminalizzazione con i benefici aspettati. Invero, l’ineffettività pone, in misura (19) Per tutti, FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale ‘moderno’, Padova, 1997; nonché, nella letteratura angloamericana, FRIED, Rationalizing Criminal Forfeiture, in Journ. of Criminal Law and Criminology, 1988, 328 s. (20) In generale, NOLL, Wert und Wirklichkeit (Zur Möglichkeit rationaler Wertentscheidigung in der Gesetzgebung), in FS Schelsky, Berlin, 1978, 636.
— 1107 — proporzionale al suo indice, un problema di ‘equilibrio’ in relazione a quei costi che non risultano più adeguatamente bilanciati — ed al limite giustificati — dal (mancato) raggiungimento degli scopi prefissi. Peraltro, tale discorso deve incontrare — ed arrestarsi innanzi a — taluni limiti posti a garanzia dei diritti individuali: l’effettività preventiva, da un lato, non può spingersi oltre una certa soglia, superata la quale l’intervento normativo rischia di caratterizzarsi per la sua iper-effettività, con la conseguenziale ricaduta in termini di ‘marginalità’ della risposta penale (21); dall’altro lato, è forse opportuno ricordare come lo strumento penale debba costituzionalmente scontare, sul piano delle garanzie, un certo livello di ineffettività, in quanto « al sistema penale non è consentita una ‘effettività ad ogni costo’ » (22). Ciò posto, una ricerca sulle cause della « spaventosa ineffettività » (23) che contrassegna la legislazione italiana sul riciclaggio, non può che muovere da un’analisi empirico-criminologica del fenomeno in oggetto, e lungo tal via compiere una prima verifica sulla legittimità dell’opzione politico-criminale adottata. Successivamente, acquisito tale dato, appare metodologicamente opportuno valutarne l’impatto in termini di coerenza sistematica coi principi dell’ordinamento penale, nella consapevolezza che tale verifica rappresenti la « spia di legittimità e funzionalità del sistema » (24). 3. La verifica empirica dell’ineffettività: modelli di analisi e rilevazioni statistiche. — L’individuazione e la selezione delle modalità di investimento delle ricchezze prodotte illecitamente costituisce uno dei momenti fondamentali dell’attività delle organizzazioni criminali. Il riciclaggio rappresenta infatti un passaggio obbligato in quanto consente di trasformare un ‘potere d’acquisto potenziale’ — il danaro sporco, come tale non spendibile sui mercati finanziari — in ‘potere d’acquisto effettivo’. Questa trasformazione pur presentando costi e rischi, risulta assolutamente imprescindibile poiché, da un lato, mira a cancellare il ‘paper trail’, cioè la traccia che lega il danaro al delitto e per esso all’autore; dall’altro lato, essa rappresenta un formidabile ‘moltiplicatore’ del volume dell’attività economica della criminalità organizzata (25). Le tecniche sono molteplici e soprattutto in continua evoluzione: dalle più tradizionali ed arcaiche a quelle più sofisticate che sfruttano le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie di comunicazione (26) ovvero da nuovi prodotti finanziari quali il primary (or promissory) bank guarantee, il prime bank standby, o il point banking; nonché da taluni contratti fra cui (21) FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 61. (22) PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivista, 1990, 477. In tal direzione altresì v. HASSEMER, Symbolisches Strafrecht und Rechsgüterschutz, in NZStr, 12, 1989, 558 s.; MÜLLER, Die Legitimation des Rechts durch die Erfindung des symbolischen Rechts, in KrimJ, 2, 1993, 86 s.; nonché più da recente, BARATTA, La politica criminale e il diritto penale della Costituzione. Nuove riflessioni sul modello integrato delle scienze penali, in AA.VV., Il diritto penale alla svolta di fine millennio, a cura di Canestrari, Torino, 1998, 39. (23) Così testualmente MOCCIA, La perenne emergenza, cit., 84. Nella medesima direzione v. SAVONA, La regolazione del mercato della criminalità, cit., 467 s. (24) MOCCIA, La perenne emergenza, cit., 13. Sul rapporto, in perenne evoluzione, fra dogmatica e politica criminale per tutti v. BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, p. 3 s. Nella letteratura tedesca, in relazione al settore del diritto penale economico v. VOLK, Diritto penale ed economia, in Sistema penale e criminalità economica. I rapporti tra dommatica, politica criminale e processo, trad. it., Napoli, 1998, 198 s. (25) Per l’analisi di tale modello descrittivo v. MASCIANDARO, Banche e riciclaggio. Analisi economica e regolamentazione, Milano, 1994, 37 s. (26) Sulle nuove vie aperte da Internet ai professionisti del riciclaggio, cfr. ALEXANDER-MUNRO, Cyberpayments: Internet and Electronic Money Laundering: Countdown to the Year 2000, in Journ. of Financial Crime, 4, 2, 1996, 159. Più in generale, sui rapporti fra In-
— 1108 — swap, future, option, i quali consentono la possibilità di evitare il contatto col settore bancario a favore di quello — ben più impermeabile agli obblighi di collaborazione — delle istituzioni finanziarie non creditizie (27). La caratteristica di queste tecniche è quella di non dar luogo a movimentazioni di danaro, col chiaro intento di impedirne il contatto con i ‘circuiti di monitoraggio’. Piuttosto, vengono fatte circolare le garanzie, le quali dopo una serie di triangolazioni si presentano allo sconto ottenendo un controvalore relativamente alto (28). La liquidità sporca possiede un indubbio svantaggio competitivo: la libertà di allocazione di questa risorsa è infatti fortemente ridotta dall’elevata probabilità di scoperta e di incriminazione che deriva dalla movimentazione e dalla spesa di quantità ingenti di ricchezza. La liquidità pulita invece può essere investita senza rischi solo in presenza di una duplice condizione: che il legame ombelicale col delitto d’origine sia stato interrotto e che il capitale venga fornito di una valida giustificazione. Ciò ha ovviamente un costo che, a fronte dell’infittirsi delle misure anti-riciclaggio, pare oscillare in una banda compresa tra il 5% ed il 15% del valore del capitale da candeggiare (29). La gravità e la pericolosità sociale del fenomeno del riciclaggio è ormai un dato che se non è del tutto acquisito nell’opinione pubblica (30) lo è invece pienamente nelle istituzioni governative, nazionali ed internazionali. Alla coscienza istituzionale del fenomeno corriternet e diritto penale v. SEMINARA, La pirateria su Internet e il diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, 71 s. (27) Cfr. le indicazioni fornite dal GAFI (anche noto come Financial Action Task Force on Money Laundering), Rapporto annuale 1996-1997, Allegato A: Tipologie di riciclaggio, in AA.VV., I soldi della Mafia. Rapporto ’98, a cura di Violante, Bari, 1998, 426. (28) Per una panoramica su queste nuove tecniche v. RIGHETTI, Tecniche di occultamento della ricchezza da parte delle organizzazioni criminali, in AA.VV., I soldi della Mafia. Rapporto ’98, cit., 72 s. Per un’esposizione delle tradizionali, seppur alquanto sofisticate, tecniche di triangolazione cfr. PEZZUTO, L’evoluzione della normativa antimafia, in AA.VV., Evoluzione mafiosa e tecnologie criminali, a cura di De Leo ed altri, Milano, 1995, 95 s. Altresì v. SAVONA, La grande corsa: mafia e legislazione anti-riciclaggio, in Pol. dir., 1994, 55 s., ove si effettua una interessante comparazione fra le tecniche di riciclaggio di Cosa Nostra e quelle, ben più evolute, dei cartelli colombiani. L’evoluzione e lo sviluppo di queste tecniche rende sempre più ‘scolastica’ la tripartizione classica delle fasi del riciclaggio in placement, layering e integration. Su questa tripartizione, nella letteratura italiana, per tutti v. ZANCHETTI, Il reato di riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, 10 s. Per un modello bipartito, che distingue fra money laundering — l’attività intesa ad eliminare l’origine illecita — e recycling — l’attività di investimento dei beni lavati nei circuiti dell’economia legale — v. PECORELLA, voce Denaro (sostituzione di), in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, 369 s. La tripartizione in parola è poi fatta oggetto di documenti ufficiali predisposti dalle Agenzie di controllo dei paesi ad economia avanzata, cfr. GAFI, La lutte contre le blanchiment de capitaux, rapport demandé par le Chefs d’Etat lors du Sommet de l’Arche, Paris, 1990, 92 s.; DEPARTMENT OF TREASURY, United States Custom Service. Typology of Money Laundering, Washington, 1989. Per l’Italia v. COMANDO GENERALE DELLA GUARDIA DI FINANZA, Il fenomeno del riciclaggio, Roma, 1992, 55; ID., Riciclaggio, Roma, 1996. (29) Dato elaborato dal GAFI ed espresso dal suo presidente Carpentieri in un’intervista pubblicata in Il Sole 24 Ore, 12 agosto 1996, 2. (30) La scarsa consapevolezza sociale dei guasti riconducibili al riciclaggio dipende, probabilmente, da diversi fattori. Innanzi tutto, la sua stessa invisibilità e l’incidenza solo indiretta e mediata su beni individuali, inibiscono l’emersione di adeguati livelli di allarme sociale. Inoltre, è carente — anche nella letteratura scientifica — la determinazione del tipo criminologico, a fronte di un notevole incremento degli studi di ‘taglio’ economico. Nel sistema italiano, che esclude dal delitto di riciclaggio l’autore ed il concorrente nel reato d’origine — c.d. privilegio dell’auto-riciclaggio —, il riciclatore tende ad identificarsi in un professionista, in particolare un intermediario finanziario o creditizio: un ‘colletto bianco’, dunque, per il quale difettano notoriamente i processi di stigmatizzazione e criminalizzazione.
— 1109 — sponde, sul piano scientifico, una messe di studi di taglio economico atti a tradurre in cifre il volume ed i guasti che il riciclaggio genera sull’economia e sulla società (31). L’approccio economico al problema è da giudicare senz’altro positivo, in particolare per i contributi che ne possono derivare per la comprensione e l’elaborazione di valide strategie di contrasto. Invero, la ‘quantificazione’ della ricchezza prodotta dalle organizzazioni criminali mira a chiarire, in un’ottica costi/benefici, il grado e la misura dell’impegno istituzionale richiesto per contrastare adeguatamente il fenomeno. Peraltro, la dimensione economica del crimine organizzato, ove puntualmente rilevata, può fornire utili indicazioni sulla capacità di tenuta e quindi sul grado di efficienza del sistema normativo vigente. Siffatto approccio sconta tuttavia dei limiti, peraltro ben noti nelle loro dimensioni: nonostante la mole ormai cospicua di studi e rilevazioni statistiche, occorre realisticamente prendere atto dell’estrema difficoltà e dell’ampio grado di approssimazione con cui è possibile quantificare sia il volume dei flussi di origine illecita, sia i volumi che, riciclati, sono destinati all’inserimento nei circuiti dell’economia lecita. Fatta questa necessaria premessa, fra le stime maggiormente significative si colloca uno studio dell’Onu, svolto nel 1997, il quale — lungo l’arco temporale 1981/1996 — valuta il volume del riciclaggio di narcodollari in 1000-1300 milioni di dollari; il Fondo Monetario Internazionale, in un rapporto del 1996, valuta il volume del riciclaggio dei profitti provenienti dal traffico di sostanze stupefacenti in 763 mila miliardi di lire annui; altri istituti italiani, nel 1997, hanno stimato il fatturato europeo del crimine organizzato in 600 mila miliardi di lire, e quello mondiale in 1000 miliardi di dollari (32). Per quel che concerne in particolare il mercato italiano, uno studio della Guardia di Finanza stima in 40.000 miliardi di lire il volume del traffico di stupefacenti, in 76.849 miliardi di lire il volume della liquidità riciclata, in 23.054 miliardi di lire il fatturato realizzato dall’industria del riciclaggio, ed infine in 53.795 miliardi di lire il flusso potenziale degli investimenti (33). Sensibilmente diversi risultano i dati ricavabili da studi condotti da altri organismi qualificati. Ad esempio, la Confcommercio, stima il volume d’affari realizzato dalle organizzazioni criminali in Italia nel 1997 sui 130.000 miliardi (34). L’Istat, nel rapporto 1990, valuta in 8.100/11.700 miliardi di lire i proventi del narcotraffico, in 15.561/22.478 miliardi di lire il volume di liquidità riciclata, in 4.548/6.743 miliardi di lire il fatturato dell’industria del riciclaggio, ed infine in 11.013/15.735 miliardi di lire il flusso potenziale degli investimenti realizzabili dalla criminalità organizzata. Elaborazioni notevolmente inferiori provengono, per le medesime voci e per il medesimo campione annuo, dal Censis, il quale indica rispettivamente i seguenti valori (anch’essi espressi in miliardi di lire): 4.000, 7.684, 2.305, 5.379 (35). Come è agevole constatare, non esistono dati sufficientemente omogenei. Pur tuttavia, e (31) Per la letteratura italiana, cfr. GOISIS, Profili economici della legislazione antiriciclaggio, in Riv. int. scienze econ., 1996; BECCHI-REY, L’economia criminale, Bari, 1994; AA.VV., Mercati illegali e Mafie. L’economia del crimine organizzato, a cura di Zamagni, Bologna, 1993; SAVONA, Un settore trascurato: l’analisi economica della criminalità, del diritto penale e del sistema della giustizia penale, in Soc. dir., 1990, 255. Da ultimo, ID., Relazione svolta alla Conferenza internazionale La criminalità economica in Europa. Le interdipendenze tra frodi, riciclaggio e corruzione. Analisi e risposte, Trento, 22-23 ottobre 1998. (32) Cfr. CENTORRINO, Il giro d’affari delle organizzazioni criminali, in AA.VV., I soldi della Mafia, cit., 10 s., ove ulteriori elaborazioni. (33) Dati tratti da MASCIANDARO, Mercato degli stupefacenti e riciclaggio in Italia: analisi macroeconomica ed ipotesi di stima, in Riv. int. scienze soc., 1996, 21 s. Tuttavia, per un drastico ridimensionamento delle cifre v. REY, Analisi economica ed evidenza empirica dell’attività illegale in Italia, in AA.VV., Mercati illegali e mafie, cit., 45 s. (34) CONFCOMMERCIO, Quando il crimine entra nel mercato, Rapporto 1996/97, Roma, s.d., 16. (35) Dati tratti da MASCIANDARO, Mercato degli stupefacenti, loc. cit.
— 1110 — nonostante tale necessaria precisazione, appare indiscutibile che — a prescindere dalla stima preferita — l’ordine di grandezza dei flussi finanziari coinvolti rimane decisamente preoccupante: in base alla valutazione del direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale (1998), il giro d’affari globale della criminalità organizzata oscilla fra il 2 e il 5% del PIL mondiale, cioè fra i 600 ed i 1500 miliardi di dollari Usa (36). Innanzi a queste grandezze macroeconomiche, il riciclaggio svela pertanto tutta la sua potenzialità lesiva. In primo luogo, sul sistema economico, in quanto offende il principio della libera concorrenza vanificando la par condicio degli operatori finanziari e degli investitori. Il riciclaggio altera le regole del mercato e della competitività, agendo sulla relazione costi/benefici: gli operatori economici sani debbono infatti scontare la presenza di quei soggetti che, acquistando liquidità a tassi inferiori e per volumi maggiori, possono offrire beni e servizi a prezzi talmente bassi da estrometterli dal mercato. Il costante afflusso di denaro a costo inferiore, rispetto a quello reperibile ordinariamente presso banche e società finanziarie, consente inoltre un continuo autofinanziamento delle attività imprenditoriali riconducibili al crimine organizzato. Queste, potendo persino operare in un regime retto da diseconomie, espellono le altre imprese — ovvero ne acquisiscono il controllo — assumendo pertanto una posizione dominante nel settore. In definitiva, il riciclaggio rappresenta forse il più allarmante meccanismo di inquinamento dell’economia legale, poiché tende ad instaurare relazioni di scambio, dalla perdurante natura, fra quest’ultima e quel complesso di soggetti, beni e servizi che danno vita alla c.d. ‘economia criminale’ (37). In secondo luogo, la situazione di sofferenza patrimoniale e finanziaria in cui vengono spinte le imprese sane, costringe queste ultime — laddove intendano resistere sul mercato — ad accedere ai canali paralleli del credito, e cioè a reperire i loro fondi nel mercato dell’usura. Con ciò si innesca un’ulteriore spirale negativa, in quanto le aziende che ricorrono all’indebitamento usurario, nella quasi totalità dei casi falliscono nel breve periodo. Il che non è privo di riflessi sul mercato del lavoro, poiché la scomparsa di tali aziende contribuisce ad incrementare il volume della disoccupazione. Da altra prospettiva, si mette in evidenza come il crimine organizzato, a livello macroeconomico, assuma l’invisibile e pericoloso ruolo di « fattore negativo di reddito » (38). Ed in effetti, la sottrazione di flussi di spesa ed investimento all’economia legale finisce col generare un moltiplicatore negativo che si traduce in una diminuzione del reddito disponibile in capo al consumatore. Le considerazioni svolte dovrebbero svelare, al di là di ogni ragionevole perplessità, la connotazione pluri-offensiva del riciclaggio: oltre ad essere un punto di snodo fondamentale per l’economia criminale, in quanto ne consente lo sviluppo e ne salvaguarda i membri, esso distorce il funzionamento dei mercati nazionali e soprattutto internazionali, contribuendo per tal verso ad innescare sotterranee spirali criminogene (39). Inoltre, non può trascurarsi il (36) CAMDESSUS, Intervento al GAFI, 10 febbraio 1998, Paris. (37) PEDRAZZI, L’alterazione del sistema economico: riciclaggio e reimpieghi di capitali di provenienza illecita, in AA.VV., Criminalità organizzata e risposte ordinamentali. Tra efficienza e garanzia, a cura di Moccia, Napoli, 1999, 367 s. Pur essendo il riciclaggio una necessità coessenziale all’organizzazione, e segnatamente all’esigenza di allocare le ingenti risorse finanziarie illegali, sarebbe tuttavia estremamente riduttivo pensare che esso rappresenti l’unico fattore determinante che può spingere la criminalità organizzata a trovare punti di contatto con l’economia legale. In realtà, come sottolineato dagli economisti, occorre soffermare l’attenzione su ulteriori concomitanti ragioni, quali: la presenza di profitti a condizioni di rischio trascurabili, la possibilità di godere di rendite in mercati protetti dalla regolamentazione statale, la necessità di garantire la propria presenza sul territorio. A tal proposito, v. BECCHI-REY, L’economia criminale, cit., 50 s. (38) CENTORRINO-SIGNORINO, in AA.VV., Macroeconomia della Mafia, a cura di Centorrino e Signorino, Roma, 1997, spec. 23 s., 33 s.; MASCIANDARO, Banche e riciclaggio, cit., 45. (39) Sia pure con diverse sfumature, cfr. SEMINARA, L’impresa e il mercato, in PE-
— 1111 — potere di ‘influenza’ che le organizzazioni criminali esercitano su talune realtà economicamente deboli. Ciò è quanto accade nei paradisi fiscali i quali, essendo privi di risorse interne, hanno quale unica prospettiva di sviluppo quella di attirare i capitali esteri, soprassedendo sulla loro origine e salvaguardandoli con misure protezionistiche da ogni sguardo indiscreto (40). Il riciclaggio è dunque un fenomeno che coinvolge un ampio spettro di interessi, non del tutto omogenei fra loro e non sempre separabili l’uno dall’altro. Esso appare come un ‘prisma’ da cui la medesima condotta si riverbera in una molteplicità di riflessi: non solo il corretto funzionamento e la stabilità dei mercati, ma altresì l’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia — nella misura in cui, analogamente al favoreggiamento, agevola il mantenimento e lo sviluppo delle organizzazioni criminali, impedendo l’individuazione degli autori dei delitti ad esse riconducibili — nonché, infine, il patrimonio in quanto — al pari della ricettazione ed in conformità alla Perpetuierungstheorie — aggrava l’offesa patrimoniale già precedentemente commessa col reato d’origine (41). Nessun dubbio è quindi lecito nutrire sulla oggettiva pericolosità del riciclaggio, la cui DRAZZI-ALESSANDRI-FOFFANI-SEMINARA-SPAGNOLO,
Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 1998, 521; PADOVANI, Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario, in questa Rivista, 1995, 644; AZZALI, Diritto penale dell’offesa e fattispecie di riciclaggio, ivi, 1993, 431; FLICK, La repressione del riciclaggio ed il controllo dell’intermediazione. Problemi attuali e prospettive, ivi, 1990, 1261 s.; CRESPI, Aziende di credito e repressione del riciclaggio e dei proventi illeciti (appunti intorno a recenti disegni di legge), in Riv. soc., 1990, 1403 s. Nella manualistica, per tutti FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte spec., Delitti contro il patrimonio, II, 2, Bologna, 1996, 236. (40) Il riferimento è agli Off-shore Countries, i quali si distinguono in Bank Havens, Tax Havens e Company Havens. Secondo recenti studi condotti dal Ministero del Tesoro e dall’Ufficio Italiano Cambi — ed esposti al Seminario promosso dalla Confcommercio, « Riciclaggio 2000 » Roma 15 marzo 1999 — negli ultimi tre anni ben 400.000 miliardi di lire sono stati fatti confluire nei paradisi finanziari ed in particolare verso le Bahamas e le Isole Cayman. Queste ultime rappresentano invero la quinta piazza finanziaria del mondo con oltre 750 banche e con depositi superiori a 500 miliardi di dollari. È dunque agevole comprendere come una efficace politica di contrasto al fenomeno del riciclaggio debba necessariamente porsi il problema dei paradisi finanziari, valutando, da un canto, l’opportunità e la praticabilità di misure giuridico-economiche nei confronti dei paesi Off-shore, nonché di quelle società che vi intrattengano rapporti e di quei capitali che vi transitano; dall’altro, distinguendo le finalità illecite — e tra queste quelle legate al riciclaggio — da altre ben lecite che vengono parimenti perseguite attraverso i canali Off-shore. Per una proposta in tal direzione, BERNASCONI, Proposta di nuove misure antiriciclaggio riguardanti le società paravento-off-shore (nell’ambito delle Raccomandazioni Gafi/Faft), in AA.VV., I soldi della Mafia, cit., 56 s.; GAFI, Raccomandazioni nn. 11 e 25. Sulle società e sui paesi Off-shore cfr. BERNASCONI, Meccanismi del riciclaggio internazionale, ivi, 45 s.; FROOMKIN, Off-shore Centres and Money Laundering, in Journ. of Money Laund. Control, 1, 2, 1997, 171 s.; ROBERTS, Fictitious Capital, Fictitious Spaces: The Geography of Off-shore Financial Flows, in AA.VV., Money, Power and Space, a cura di Corbridge, Martin e Thrift, Oxford, 1994, 93, ove si sottolinea come talvolta la sussistenza di legami e compenetrazioni tra On- e Off-shore sia così intensa da rendere estremamente ardua ogni distinzione; BLUM, Off-shore, Haven Banks, Trusts and Companies. The Businnes of Crime and the Euromarket, New York, 1984. Per un’analisi geo-economica delle condizioni e delle caratteristiche tipiche degli Off-shore Countries v. MASCIANDARO-CASTELLI, Integrazione dei mercati finanziari, riciclaggio e paradisi fiscali, in AA.VV., Mercati finanziari e riciclaggio, cit., spec. 17 s. (41) Nella dottrina di lingua tedesca, STRATENWERTH, Schweizerisches Strafrecht, B.T., I, Bern, 1995, 394. Nella letteratura italiana cfr. MAZZACUVA, Commento all’art. 23 della legge 19/3/1990 n. 55, in Legisl. pen., 1991, 504 s.; nonché, MOCCIA, Impiego di capitali illeciti e riciclaggio: la risposta del sistema penale italiano, in questa Rivista, 1995, 738 s. e spec. 741, il quale, valorizzando una concezione dinamica del patrimonio — inteso come « il complesso dei beni materiali ed immateriali e dei rapporti, utili ai fini dello sviluppo
— 1112 — criminalizzazione appare, per quest’aspetto, pienamente compatibile con i principi che sorreggono le scelte di politica criminale. Ciò nondimeno, l’analisi empirica oltre a dover far emergere ex ante la dannosità di un comportamento, contribuisce ex post a comprovare l’utilità e l’effettività della reazione che l’ordinamento abbia istituzionalizzato contro di esso (42). Ebbene, in relazione al regime delle segnalazioni di operazioni sospette, cui tanto affidamento ripongono il legislatore nazionale e comunitario, l’analisi empirica fornisce dati e risultati piuttosto deludenti. Invero, al 30 settembre 1997, si registra un totale di 9.426 segnalazioni, la cui provenienza è geograficamente così distribuita (43): il 31,77% dalla Toscana (2.995), il 16,84% dalla Lombardia (1.587), mentre solo l’8,76% dal Veneto (826), il 7,57% dalla Campania (714), il 7,48% dal Lazio (705), il 5,39% dal Piemonte (508), il 5,11% dalla Puglia (482), il 4,30% dall’Emilia Romagna (380), nonché il 2,99% dalla Calabria (282), il 2,91% dalla Sicilia (274) e addirittura lo 0,15% dalla Sardegna (14). Estremamente interessante è l’analisi del trend delle segnalazioni: 26 nel 1991; 99 nel 1992; 234 nel 1993. Nel 1994 si balza a 838 segnalazioni, nel 1995 a 1.937, mentre nel 1996 v’è un notevole incremento con 3.075 segnalazioni (44). Significativo è che la quasi totalità delle segnalazioni (96,7%) provenga dalle banche, permanendo sul versante delle società di intermediazione finanziaria e della pubblica amministrazione un eloquente silenzio (45). I dati così raccolti, tuttavia, non offrono alcuna seria indicazione sull’efficienza del sistema: in quanto nulla dicono sulla qualità delle segnalazioni effettuate, essendo determinante conoscere in quale percentuale si siano rivelate penalmente fondate. Il progressivo incremento numerico delle segnalazioni infatti, di per sé, potrebbe anche apparire confortante ma, in realtà, è un dato scarsamente indicativo. Quel che rileva maggiormente è l’analisi qualitativa del dato empirico, volta cioè a porre in relazione le predette segnalazioni con le sentenze di condanna o di assoluzione. Purtroppo, per quanto è dato sapere, non risultano disponibili indagini di siffatto genere. Tutt’al più, si può avere un’idea estremamente approssimativa attraverso un’elaborazione che ponga in relazione, su un campione annuo, il numero di segnalazioni col numero di incriminazioni per i delitti di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. Circoscrivendo l’indagine a due soli anni: per il 1995 risultano 797 denunce su 1.937 segnalazioni; per il 1996 si ha notizia di 611 denunce su 3.075 segnalazioni (46). In altri termini, si potrebbe inferire — della persona, che presentino un contenuto economico » - giunge a individuarvi l’unico interesse offeso dalle condotte di riciclaggio. (42) In tal senso cfr. pure VOLK, Criminalità economica: problemi criminologici, politico-criminali e dommatici, in Sistema penale e criminalità economica, cit., 36. (43) MINISTERO DELL’INTERNO, Ufficio coordinamento e pianificazione delle forze di polizia, Servizio II - C.E.D. (44) Elaborazione tratta da FAZIO, Prevenzione e repressione del riciclaggio nel sistema finanziario, Audizione presso la Commissione Parlamentare Antimafia, 25 febbraio 1997, Roma. (45) Altrettanto significativa è la riduzione del numero delle società finanziarie in seguito alla entrata in vigore della legge anti-riciclaggio del ’91: in particolare si passa dalle 27.250 unità censite nel 1992 alle 21.869 registrate nel 1994, con l’ulteriore riduzione a 21.318 nel 1996. Interessante è, inoltre, constatare che nel periodo 1991/1994 il numero delle società finanziarie è aumentato nell’Italia del nord di oltre il 200%, e nell’Italia centrale di oltre il 100%, laddove nelle regioni del Meridione, a maggiore densità criminale, si è avuto un vertiginoso crollo del 40%. Per ulteriori approfondimenti statistici cfr. MASCIANDARO, Criminalità ed attività finanziarie illegali nel Mezzogiorno: riciclaggio ed usura, in AA.VV., Macroeconomia della Mafia, cit., 120. (46) ATTI PARLAMENTARI, Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata, Camera dei Deputati, XIII Legislatura, Roma, 1996, 266 s. Disaggregando i dati per Regione, si riscontra il primato della Toscana con 108 denunce nel 1994, 105 nell’anno successivo e
— 1113 — non senza qualche perplessità (47) — che nel 1995 il 41% delle segnalazioni ha dato luogo ad una denuncia all’autorità giudiziaria, mentre nel 1996 a tale esito è giunto solo il 19,9% delle segnalazioni. Sebbene manchi l’informazione più preziosa — quella relativa alla definizione processuale della notizia di reato inoltrata in virtù della segnalazione — ed il dato ottenuto si presenti senz’altro parziale, non v’è dubbio che lo standard di effettività si rivela comunque deludente e notevolmente al di sotto delle aspettative. Esiti non dissimili provengono dall’esperienza applicativa maturata in quei paesi la cui legislazione prevede un regime di segnalazione delle operazioni sospette. In via esemplificativa, l’Olanda registra una media di oltre 12.000 segnalazioni annue; in Inghilterra nel 1987 si registrano 501 segnalazioni, giunte a 11.300 nel 1992, ed a ben 16.000 nel 1993; in Australia, nei primi due anni di applicazione, la legge anti-riciclaggio ha condotto a 12.717 segnalazioni; in Francia solo 620 segnalazioni nel primo anno e mezzo di vigenza. La maggior efficienza mostrata da questi paesi rispetto al numero di segnalazioni registrate in Italia, viene immediatamente ridimensionata non appena si sposta l’accento sul profilo ‘qualitativo’: per quel che concerne l’Inghilterra, l’80% delle segnalazioni si è rivelato del tutto inutile, il 15% di medio aiuto, mentre solo il 5% dei rapporti ha condotto alla scoperta di episodi delittuosi; per quel che riguarda l’Australia, su 12.717 segnalazioni solo una novantina si sono rivelate seriamente utili, cioè lo 0,8% circa; tutt’altro che migliore la situazione in Francia, ove delle 620 segnalazioni effettuate solo 20 hanno dato luogo ad una notizia di reato (48). Le percentuali, quindi, sono ovunque estremamente esigue, sia sotto il profilo della quantità — e ciò vale soprattutto per l’Italia, specie se i valori registrati si raffrontano con i cinquanta milioni di conti bancari e con i dieci milioni di deposito titoli censiti sino al 1993 — sia sotto il profilo della qualità della segnalazione. Il che dovrebbe dimostrare, pur con i limiti già segnalati, come il sistema attuale di contrasto al riciclaggio, sul quale giustamente il legislatore investe maggiormente, non riesca a dare i frutti desiderati. Da un ipotetico bilancio provvisorio, dunque, emerge uno ‘stato dell’arte’ insoddisfacente. All’elevato ammontare dei volumi prodotti dalla criminalità organizzata e coinvolti nel riciclaggio, corrisponde sul piano empirico un elevato tasso di ineffettività della risposta normativa, nonostante si abbia a disposizione una legislazione estremamente complessa e sofisticata. Rapporto, questo, ulteriormente sbilanciato dal fatto che i « costi della penalizzazione » e della « trasparenza totale » non risultano assorbiti dai benefici presi di mira, restando a carico dei consociati e, con maggior evidenza, degli operatori finanziari. Pur nella consapevolezza che il ‘dato empirico’ non vada oltremodo sopravvalutato nel suo segno — sia per i limiti delle rilevazioni, sia perché altre componenti possono conservare un peso determinante nelle scelte di penalizzazione — è indubbio che esso rappresenti in sole 60 nel 1996; segue la Campania, rispettivamente con 103 denunce nel 1994, 68 nel 1995 e 54 nel 1996; il Lazio con 40 denunce nel 1994, 121 nel 1995 e 46 nel 1996; la Calabria, con 59 incriminazioni nel 1994, 94 nel 1995 e 116 nel 1996; la Sicilia con 35 denunce nel 1994, 96 nel 1995, e 74 nel 1996; la Lombardia con 30 denunce nel 1994, 76 nel 1995 e 39 nel 1996. Anche con riguardo a questi dati occorre però estrema cautela in quanto, pur provenendo da qualificata fonte, non v’è coincidenza con quelli raccolti per i medesimi periodi dal Ministero dell’Interno: 932 denunce per il 1995 e 763 denunce per il 1996; valori che non corrispondono quindi con quelli forniti nei citati Atti Parlamentari (rispettivamente 797 denunce per il 1995 e 611 per il 1996). (47) Almeno due ordini di ragioni concorrono in tal senso: in primo luogo, l’acclarata impossibilità di avere a disposizione dati univoci e chiari — come dimostra la contraddizione rilevata nella nota precedente — e per i quali di rado viene esplicitato il modello di rilevazione utilizzato; in secondo luogo, non è possibile conoscere se ed in che misura le segnalazioni siano avvenute spontaneamente, ovvero siano il frutto di un’attività dovuta in seguito allo svolgimento di indagini penali. (48) Con maggior dovizia di particolari v. ZANCHETTI, Il riciclaggio di denaro, cit., 244 s.
— 1114 — questo caso un’acquisizione da cui non è possibile prescindere. Pertanto, si tratta adesso di verificare se ciò che emerge dalla prassi costituisca l’emblematica conferma di un prodotto normativo non esente da incoerenze sul piano dogmatico ed in parte segnato, nelle sue opzioni politico-criminali, da un velleitario funzionalismo. 4. Mercati finanziari e diritto penale fra prevenzione e repressione. — Il sistema bancario e finanziario possiede una specificità che vale a rendere l’attività degli operatori ‘a rischio di riciclaggio’. Le relative imprese infatti assumono una posizione privilegiata, in quanto risultano depositarie di un numero estremamente elevato di informazioni altamente organizzate. Tale patrimonio consente a quegli operatori economici che ne richiedano i servizi, di poter ridurre sia i costi che i rischi di transazione — dovuti alla scarsezza delle proprie informazioni —, coordinando il tutto secondo ordini di preferenze temporali (49). In mercati ‘opachi’ per definizione, dunque, gli intermediari e soprattutto le banche estrapolano ed organizzano professionalmente una continua messe di informazioni di natura riservata. Ciò consente di poter sfruttare innumerevoli diseconomie di scala attraverso un’attenta gestione delle asimmetrie informative (50). Inoltre la banca, nell’offrire contemporaneamente contratti di deposito e credito, si peculiarizza rispetto agli altri intermediari per il fatto di gestire il sistema dei pagamenti e del credito alle imprese (51). Ed invero è proprio il continuo sviluppo di quest’ultimo, verso obiettivi segnati dalla celerità nell’allocazione delle risorse e dalla minimizzazione dei costi, che rende le banche soggetti irrinunciabili sia per l’economia legale che, di contro, per quella illegale. Gli intermediari bancari e finanziari rivestono così, loro malgrado, un ruolo centrale per le organizzazioni criminali divenendo l’obbligato crocevia delle rotte del riciclaggio (52). (49) Fondamentali sul punto i contributi di GOODHART, Money Information and Uncertainly, London, 1989, e BALTENSPERGER, Alternativ Approaches to the Theory of the Banking Firm, in Journ. of Monetary Econ., 1980, 1 s. (50) L’analisi della relazione « asimmetrie informative/intermediazione finanziaria » si deve soprattutto agli studi di DIAMOND, Financial Intermediation and Delegated Monitoring, in Rev. of Econ. Studies, 1984, 393 s.; LELAND-PYLE, Information Asymmetries, Financial Structure and Financial Intermediation, in Journ. of Finance, 1977, 371 s. Nella letteratura italiana v. MAROTTA-PITTALUGA, La teoria degli intermediari bancari, Bologna, 1993. (51) In proposito, sia pure da prospettive differenti, cfr. CORRIGAN, Financial Market Structure: A Longer View, in Federal Reserve Bank of N.Y., 1987; FAMA, What’s Different about Banks?, in Journ. of Monetary Econ., 1985, 29 s. (52) Una riprova indiretta della crescente attenzione che la criminalità organizzata riserva al mondo bancario si trae dalla notevole « instabilità bancaria da inquinamento criminale » che contrassegna la realtà italiana. Infatti, negli anni ’90 si sono avute incriminazioni per i delitti di riciclaggio nonché per altri fatti attestanti collegamenti col crimine organizzato, talvolta con l’emissione di ordini di custodia cautelare, per numerosi componenti di consigli di amministrazione di talune banche. Il fenomeno sembra comunque circoscritto, nella quasi totalità dei casi, a banche locali costituite in forma cooperativa o popolare. A parte il noto affaire del Banco Ambrosiano, si segnalano: Banca di Girgenti (1988); Banca Popolare di Scilla (1990); Banca Agraria di Marsala (1993); Cassa Rurale di Ostuni (1994); Cassa di Monreale (1995). Inoltre, nel triennio 1994/1996 la Banca d’Italia su 75 richieste di autorizzazione alla costituzione di nuove banche ne ha positivamente evase solo 57. Dei rimanenti 18 casi di diniego, ben 15 erano relativi a istanze provenienti da soggetti sospettati di collusione con la criminalità organizzata. In proposito cfr. FAZIO, Prevenzione e repressione, cit.; nonché BANCA D’ITALIA, Relazione all’assemblea generale ordinaria dei partecipanti per l’anno 1994, Roma, 338 s., ove si evidenziano situazioni di rischio analoghe riscontrate in sede di provvedimenti di amministrazione straordinaria e di liquidazione coatta amministrativa di banche. Infine, anche l’esperienza internazionale non è esente da fenomeni di inquinamento bancario da criminalità organizzata: paradigmatica al riguardo è l’analisi del ‘crack’ della Bank of Credit and Commerce International verificatosi nel luglio ’91. Su tale vicenda cfr.,
— 1115 — Il diretto coinvolgimento degli operatori finanziari nelle dinamiche dell’economia illegale, impone un mutamento radicale delle strategie di contrasto tradizionali. A livello politico criminale costituisce un’acquisizione ormai ben salda l’esigenza di garantire l’integrità ed il corretto funzionamento dei mercati finanziari, prevenendone le strumentalizzazioni e le infiltrazioni della criminalità organizzata. È stato puntualmente sottolineato come l’azione di contrasto a tale fenomeno « non riveste soltanto la funzione di impedire che il circuito delittuoso, sottraendosi alla matrice originaria, si perfezioni in termini economici e risulti quindi inattaccabile, ma anche quella di evitare che il mercato finanziario sia inquinato da capitali che, non derivando da una lecita attività economica, soggiacciono per la loro stessa natura ad un rischio anomalo e possono essere quindi investiti secondo logiche ed in base a criteri essenzialmente ... distorsivi rispetto al corretto funzionamento del mercato » (53). Emerge cioè la consapevolezza che una moderna ed efficace politica criminale debba agire contestualmente anche sul versante della disciplina dei mercati finanziari, modellandone struttura e condizioni di accesso in termini tali da frapporre un serio ostacolo all’azione dei gruppi criminali. Ciò pone ovviamente diversi problemi, il più immediato dei quali è probabilmente quello legato alla scelta e al dosaggio delle tecniche di intervento. Invero, non può sottacersi come il diritto penale agisca spesso con « i guanti di legno » — per dirla à la Maurach (54) —, essendo fortemente vincolato nella sua struttura dal necessario rispetto del principio di legalità, ed in particolare da quelli di offensività, tassatività e sussidiarietà: una ‘rigidità’ che per molteplici ragioni è destinata a diventare ancor più visibile nel diritto penale dell’economia (55). Il punto focale della questione risiede quindi nella capacità del legislatore di sfruttare armonicamente gli spazi finanziari, attraverso una meditata allocazione della sanzione penale che valorizzi appieno le sinergie di un intervento duplice e contestuale: lungo la rotta del riciclaggio e della criminalità organizzata nonché, con maggior ampiezza di vedute, lungo il terreno dei mercati finanziari e dei valori mobiliari (56). In questa direzione, al gap di elasticità che lo strumento penale talvolta patisce — e quello dei mercati finanziari è l’esempio par excellence — è possibile ovviare attraverso la predisposizione di un network di norme extra-penali con le quali opporre filtri preventivi alle operazioni di riciclaggio. Un modello di contrasto che, quantomeno a priori, appare dotato di buone chances di effettività sembra dunque non poter fare a meno di una doppia anima: la prima di tipo preHERRING, BCCI: Lessons for International Bank Supervision, in Contemporary Policy Iussues, XI, 2, 1993, 76 s.; PUNCH, Bandit Banks: Financial Services and Organized Crime, in Journ. of Contemporary Crim. Justice, IX, 3, 1993, 175 s. (53) PADOVANI, Diritto penale della prevenzione, cit., 644. (54) MAURACH, Deutches Strafrecht, B.T., Hannover, 1952, 100. (55) Diritto ed economia, infatti, già sul piano epistemologico denotano condizioni e postulati di adattamento sensibilmente diversificati. A tal riguardo si rinvia alle riflessioni di PAGANO e di LIBERTINI, in AA.VV., Relazioni pericolose. L’avventura dell’economia nella cultura contemporanea, a cura di Boitani e Rodano, Bari, 1995, rispettivamente 291 s. e 316 s. Sulla vocazione ‘imperialistica’ dell’economia, COOTER, Law and the Imperialism of Economics, in Ucla Law Rev., 29, 1980, 1260 s. Sull’esigenza di cooperazione fra scienze sociali e naturali, GALLINO, L’incerta alleanza. Modelli di relazioni tra scienze umane e scienze naturali, Torino, 1992. (56) Sul significato che il concetto ‘mercato finanziario’ assume per il diritto penale, v. BRICOLA, Il diritto penale del mercato finanziario, in Contr. e impresa, 1992, 682 s.; nonché, PEDRAZZI, voce Mercati finanziari (disciplina penale), in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, 655 s., il quale lucidamente osserva come, in una prospettiva sistematica esso « non esiste come sistema organico, ma solo come formula di comodo che copre una stratificazione pluridecennale di interventi legislativi settoriali, politicamente e tecnicamente disomogenei ». Del resto, è agevole constatare come tale difficoltà definitoria costituisca il pendant, sul piano penalistico, dell’ambiguità che connota il concetto di ‘mercato’ sul versante dell’economia politica, cfr. CAMPIGLIO, Le relazioni di fiducia nel mercato e nello Stato, in AA.VV., Mercati illegali e mafie, cit., 93-94.
— 1116 — ventivo, segnata da una maggiore elasticità e duttilità, in cui abbonda l’uso di tecniche e strumenti del diritto societario e del diritto amministrativo — normazione nella quale ben si inserisce la potestà prescrittiva delle Autorità di vigilanza e governo dei settori del credito e dell’intermediazione mobiliare e finanziaria; la seconda di tipo repressivo, dominio quasi esclusivo del diritto penale, il cui intervento apparirebbe per tal modo maggiormente rispettoso dei canoni di offensività, sussidiarietà e meritevolezza di pena (57). 5. Dalla cultura del ‘segreto’ a quella della ‘trasparenza’: condizioni di accesso al mercato e regime delle segnalazioni. — In questo contesto si innesta un progressivo mutamento del paradigma culturale che fa da sfondo all’alluvione di interventi legislativi, sempre più incompatibili col dogma della segretezza delle operazioni finanziarie — e di cui il segreto bancario è stato per lungo tempo l’eroe eponimo (58). La trasparenza e l’informazione sono infatti intimamente legati al ruolo ed alle funzioni che le istituzioni finanziarie sono chiamate a svolgere nella moderna economia globale: un’economia ed un’etica degli affari decisamente lontane da quel contesto che aveva sacralizzato il segreto bancario. I termini ed i momenti legislativi in cui si è formalizzato il passaggio dal segreto alla trasparenza sono ormai noti, sicché senz’altro superfluo sarebbe qui ogni richiamo (59). In relazione alla tematica de qua, già con la Dichiarazione dei principi del Comitato di Basilea del 1988, viene espressa l’esigenza che le banche cooperino « pienamente con le autorità nazionali incaricate dell’applicazione della legge », sia pur entro il limite posto dal necessario rispetto del segreto bancario. È il primo passo ufficiale nel mutamento di strategia. Infatti, non si rinuncia ancora al segreto ma si ammette una forma di collaborazione delle istituzioni bancarie prettamente passiva: il mantenimento della documentazione a disposizione dell’eventuale richiesta delle autorità e l’obbligo di astenersi dal compiere operazioni per conto di clienti sospetti (60). Con la Direttiva Cee del 10 giugno 1991 si sigla il passaggio da una collaborazione passiva ad una attiva degli intermediari. A parte il riferimento agli obblighi di documentazione delle operazioni superiori ad un certo ammontare (61) — ed a quelli di identificazione della clientela — implicanti altresì il mantenimento in evidenza della documentazione per un certo (57) Il problema della scelta e del dosaggio, in sede di disciplina del mercato finanziario, delle alternative di tutela è ampiamente dibattuto. In proposito, sia pur nella diversità delle soluzioni, cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, 192; ALESSANDRI, I reati societari: prospettive di rafforzamento e di riformulazione della tutela penale, in questa Rivista, 1992, 492 s.; CONTI, La politica legislativa: criteri di scelta fra sanzioni penali, amministrative e civili, in AA.VV., Mercato finanziario e disciplina penale, Milano, 1993, 49 s.; SEMINARA, Insider Trading e diritto penale, Milano, 1989, spec. 281 s. Da ultimo, al riguardo, v. ZANNOTTI, La tutela penale del mercato finanziario, Torino, 1997, 216 s. (58) Sul controverso istituto, sia concesso limitare il rinvio a SALANITRO Il segreto bancario, in Giur. comm., 1977, II, 74; VIGO, Libertà e divieti nella circolazione delle notizie bancarie, Milano, 1983; nonché COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna, 1994, 461 s. Per quel che riguarda l’esperienza internazionale cfr. CAMPBELL, International Bank Secrecy, London, 1992; NEATE-MC CORMICK, Il segreto bancario. Sedici paesi a confronto, trad. it., Milano, 1992. (59) Per tutti, FLICK, Accessi al settore finanziario e segnalazioni degli intermediari: controlli, obblighi, responsabilità, in questa Rivista, 1994, 1201 s. (60) Sul livello di collaborazione effettivamente prestato dalle banche elvetiche v. BERNASCONI, La rilevanza penale per gli operatori bancari e finanziari delle Direttive anti-riciclaggio della Commissione federale delle banche, in AA.VV., Il sistema bancario svizzero contro il riciclaggio, cit., 78 s.; ROBINSON, The Laundrymen. Inside the World’s Third Largest Business, London, 1994. (61) Sulla violazione di tale obbligo, in giurisprudenza v. Pret. Potenza, 7 settembre 1994, in Cass. pen., 1995, 1090.
— 1117 — lasso di tempo, l’art. 6 della Direttiva richiede che i singoli Stati membri vigilino affinché gli intermediari forniscano di propria iniziativa alle autorità preposte tutte quelle informazioni che possano essere indice di un fenomeno di money laundering. Questa disposizione, che rappresenta il seme comune delle legislazioni anti-riciclaggio adottate in questi anni dai paesi dell’Unione Europea, poggia su un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria: in primo luogo, consentire — attraverso una rete di obblighi — che le Agenzie di controllo possano accedere al patrimonio informativo degli intermediari bancari e finanziari; in secondo luogo, impiegare la professionalità e la conoscenza dei meccanismi di mercato, tipici degli intermediari, a pieno vantaggio dell’amministrazione della giustizia. Solo coordinando queste due condizioni è infatti possibile acquisire e sfruttare quel « valore aggiunto » che è la risultante dell’incontro tra la professionalità e la competenza dell’intermediario e la capacità di razionalizzazione ed organizzazione della mole di informazioni da questi raccolte. Il mutamento di strategia non è ovviamente indolore, presentando rischi e costi non indifferenti: i primi sul terreno dei principi giuridici, la cui tenuta viene seriamente messa alla prova; i secondi sul piano dell’organizzazione ed — in particolare — dell’efficienza delle banche e degli istituti di intermediazione finanziaria (62). Nella duplice prospettiva della lotta al riciclaggio e della tutela del corretto funzionamento dei mercati, si comprende e si giustifica la scelta del legislatore — annunciata già con le leggi di settore (art. 1 lett. d ed f, della legge n. 77/1983; art. 5 d.p.r. n. 350/1985; art. 28 della legge n. 55/1990; artt. 3, comma 2o, lett. b ed e, della legge n. 1/1991, nonché l’art. 106, comma 3o, lett. d, della medesima legge; artt. 1, 4, 5 e 6 della legge n. 310/1993) e maturata definitivamente nel testo unico bancario (d.lgs. n. 385/1993) e nel nuovo testo unico dei mercati finanziari (d.lgs. n. 58/1998) — di predisporre una fitta griglia di norme di carattere preventivo con le quali imporre adeguati standard di garanzia, efficienza e trasparenza: a) sotto il profilo dei soggetti partecipanti all’amministrazione o al capitale, richiedendo il possesso di una numerosa serie di requisiti c.d. di ‘onorabilità’ atti a comprovarne affidabilità, fiducia e competenza (63); b) sotto il profilo strutturale, con l’adozione del modello privatistico della società di capitali — il che vale in particolar modo per le banche — si iniettano nel sistema una serie di elementi strumentali all’obiettivo della trasparenza e dell’efficienza lungo il triplice profilo della proprietà, del controllo e della gestione delle risorse (64); c) sotto il profilo della trasparenza della cessione di partecipazioni e di esercizi commerciali, nonché nella composizione della base sociale delle società di capitali, con l’adozione di obblighi di deposito, pubblicità e comunicazione. Su questi perni — e cioè efficienza, moralità e trasparenza del settore — vengono fatte ruotare le ulteriori misure di contrasto. Da un lato, si veicolano le transazioni superiori ad un certo importo entro i canali ufficiali del sistema finanziario, così assicurando la traccia delle operazioni finanziarie e dunque la potenziale visibilità di quelle illecite. Dall’altro lato, il coinvolgimento attivo degli operatori, garantito attraverso l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette, consente di economizzare i costi della strategia di contrasto: si riducono i tempi di indagine — il che è un punto da non sottovalutare, attesa la velocità delle transazioni —, e soprattutto si riduce il tasso di errore, in quanto alla competenza e professionalità dell’intermediario è altresì richiesto di effettuare uno screening delle operazioni a prima vista sospette. (62) FLICK, Le regole di funzionamento delle imprese e dei mercati. L’incompatibilità con il metodo mafioso: profili penalistici, in questa Rivista, 1993, 907. (63) Sul punto, sia pur antecedentemente al testo unico del ’98, v. FLICK, Accessi al settore finanziario e segnalazioni degli intermediari, cit., 1209 s.; MEYER, Commento all’art. 28 della legge 19/3/1990 n. 55, in Legisl. pen., 1991, 527 s. Per un’analisi delle disposizioni del d.lgs. n. 58/1998 v. AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, a cura di Rabitti Bedogni, Milano, 1998. (64) Al riguardo, SALANITRO, La concorrenza nel settore bancario, in Banca borsa, 1996, I, 757 s.
— 1118 — L’art. 3 della legge n. 197 del 5 luglio 1991, come sostituito di recente dall’art. 1 del decreto legislativo n. 153 del 26 maggio 1997, si preoccupa di specificare le anomalie in presenza delle quali diventa esigibile l’obbligo di segnalare senza ritardo l’operazione al responsabile della dipendenza (65). In particolare, si tratta di « ogni operazione che per caratteristiche, entità, natura, o per qualsivoglia altra circostanza conosciuta a ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacità economica e dell’attività svolta dal soggetto cui è riferita, induca a ritenere, in base agli elementi a disposizione che il danaro, i beni o le utilità oggetto delle operazioni medesime possano provenire dai delitti previsti dagli artt. 648bis e 648-ter c.p. ». Per ovviare ad una prassi alquanto consolidata, la norma comprende tra le dette caratteristiche « in particolare, l’effettuazione di una pluralità di operazioni non giustificata dall’attività svolta da parte della medesima persona, ovvero, ove se ne abbia conoscenza, da parte di persone appartenenti allo stesso nucleo familiare o dipendenti o collaboratori di una stessa impresa o comunque da parte di interposta persona ». L’esperienza attesta, inoltre, come una delle caratteristiche salienti delle operazioni di laundering sia la diseconomicità delle medesime. L’obiettivo prioritario del candeggio infatti mal si coniuga con l’adozione di strumenti e prodotti finanziari a medio-lungo termine, i quali, in linea di massima ed a parità di condizioni, offrono una redditività maggiore rispetto a quelli a breve termine. Altre volte l’investimento richiesto può, ove analizzato nella sua redditività, apparire del tutto illogico perché palesemente in perdita o infruttifero, ovvero perché del tutto privo di scopo economico. Un siffatto genere di transazioni, tuttavia, può trovare una solida spiegazione nella sua idoneità all’occultamento del legame ombelicale col delitto. Si tratterà allora, come richiesto dal § 6.6 delle Indicazioni operative della Banca d’Italia (66), di prestare particolare attenzione onde accertare se la diseconomicità di quella operazione possa essere indice di un fenomeno di laundering. La mancata esecuzione dell’obbligo è punita dall’art. 5 comma 5o della legge n. 197/1991 con una sanzione amministrativa di tipo pecuniario in misura proporzionale all’ammontare dell’operazione. Il 6o comma della medesima disposizione, invece, ricorre alla sanzione penale per punire l’operatore che metta al corrente il cliente sotto osservazione dell’avvenuto inoltro della segnalazione. L’art. 10 della legge n. 197/1991 (come riformulato dall’art. 156, co. 1o, del d.lgs. n. 385/1993) arricchisce i doveri di vigilanza e controllo del collegio sindacale. In particolare, quest’organo è chiamato a vigilare sull’osservanza della normativa anti-riciclaggio predisponendo a tal fine specifici programmi di accertamento e riscontro. Entro dieci giorni il collegio sindacale deve trasmettere al Ministro del Tesoro gli accertamenti e le contestazioni inerenti al predetto controllo; l’inosservanza di quest’ultimo obbligo è punita con la reclusione sino ad un anno e con la multa da lire duecentomila a lire due milioni. Opportunamente, tale normazione è integrata dalla regolamentazione di dettaglio della Banca d’Italia e del Ministro del Tesoro (67). Il fenomeno dell’eterointegrazione delle fonti di disciplina da parte dell’Autorità di vigilanza e governo del settore, non è una caratteristica del solo sistema italiano: al contrario è presente, sia pure con una diversa invasività, nei paesi più attivi nel contrasto al riciclaggio (68). (65) Cfr. SANTACROCE G., La segnalazione di operazioni sospette dopo la legge 9 agosto 1993, n. 328: novità e prospettive di riforma, in Banca e borsa, 1995, I, 165 s.; MAMBRIANI, Riciclaggio e segnalazione di operazioni sospette, in Ind. pen., 1995, 457 s.; VALIGNANI, La segnalazione di operazioni sospette, in Dir. banca e merc. fin., 1992, 329 s. (66) BANCA D’ITALIA, Indicazioni operative della Banca d’Italia per la segnalazione di operazioni sospette, (nuova versione), in Banca e borsa, 1995, III, 394 s.; ID., Circolare 26 febbraio 1998, n. 1280. (67) Tra i più significativi provvedimenti adottati v. D.M., 19 dicembre 1991; D.M., 7 luglio 1992; D.M., 29 ottobre 1993; D.M., 26 agosto 1998; nonché le Circolari del 5 giugno 1992 e del 20 gennaio 1995. (68) Cfr. per la Germania, ZENTRALE KREDITAUSSCHUß — BKA, Anhaltspunkte für
— 1119 — Dalle Indicazioni della Banca d’Italia si coglie agevolmente la preoccupazione di preservare il ruolo dell’intermediario, e cioè di non trasformarlo in un inquirente: l’obbligo non ha mai quale contenuto una « denuncia » o un « rapporto », ma il suo referente è l’atecnica « segnalazione » pre-investigativa, intesa come un possibile stimolo « utile a innescare eventuali indagini ». Esorcizzata quindi la riesumazione dell’obbligo di rapporto, la collaborazione attiva troverebbe fondamento « su quelle specifiche valutazioni che sono di norma effettuate dagli intermediari come supporto alla decisione di accettare la relazione di affari ». Lo « studio del cliente » è l’imperativo che, collocandosi sullo sfondo di simili disposizioni, mira ad ancorare il titolo di legittimazione della collaborazione attiva sul piano — maggiormente congeniale ad un operatore privato — dell’ordinaria diligenza e prudenza nella conduzione della propria attività professionale: un piano che per tal via aspira dunque a mantenersi nell’orbita costituzionale dell’iniziativa economica (69). Venendo incontro ad un’esigenza particolarmente avvertita, il legislatore del ’97 ha provveduto, per un verso, a garantire l’anonimato in capo all’autore della segnalazione (art. 3-bis, legge n. 197/1991, cui può derogarsi solo per eccezionali ragioni) e, per altro verso, a frapporre tra l’autorità giudiziaria e la segnalazione un doppio filtro, rappresentato da uno screening effettuato — sui rilievi evidenziati dall’operatore di sportello — in prima battuta dal responsabile dell’attività e successivamente dal destinatario della segnalazione, l’Ufficio Italiano Cambi. Il legislatore ha affinato le competenze di quest’organo, attribuendogli il potere di effettuare gli opportuni approfondimenti, oltre che a seguito di una previa segnalazione, anche in quei casi in cui l’obbligato non abbia provveduto ad effettuarla, avvalendosi a tal fine di un’anagrafe dei conti e dei depositi che, prevista dall’art. 20 comma 4o della legge 20 dicembre 1991 n. 413, tuttavia non è ancora attivata (70). Altro elemento significativo risiede nel potere dell’Ufficio Italiano Cambi di sospendere ove necessario il compimento dell’operazione finanziaria sotto osservazione, per un massimo di 48 ore e sempre che ciò non crei pregiudizi allo svolgimento dell’indagine penale (art. 3, comma 6o, legge n. 197/1991). Un profilo di garanzia per l’operatore è previsto dal comma 7o dell’art. 3 legge n. Geldwäsche, 1993; per la Svizzera, COMMISSION FÉDÉRALE DES BANQUES, Directives relatives à la prevention et à la lutte contre le blanchiment de capitaux du 18 décembre 1991, Circ. CFB 3/1991; BANK OF ENGLAND, Guidance Notes for Banks and Building Societies, 1990 e 1993; per l’Australia, CASH TRANSACTION REPORTS AGENCY, Guideline n. 1, « Suspect Transactions Reporting », 1989; per gli Usa, COMPTROLLER OF THE CURRENCY, Money Laundering: A Banker’s Guide to Avoiding Problems, 1989. (69) BANCA D’ITALIA, Indicazioni operative, cit., 397: « La collaborazione attiva si fonda sostanzialmente su quelle specifiche valutazioni che sono di norma effettuate dagli intermediari come supporto alla decisione di accettare la relazione d’affari. In questo senso la collaborazione attiva rappresenta una espressione delle componenti tipiche della loro cultura e della loro professionalità ». Lo ‘studio’ del cliente, tra l’altro, informa anche il software GIANOS, in uso — su indicazione dell’ABI e della Banca d’Italia — presso la quasi totalità delle banche (oltre il 96%). Attraverso un’analisi algoritmica delle abitudini e delle caratteristiche usuali di comportamento del cliente, esso elabora, in seno ad un archivio centralizzato, le ‘aspettative’ di condotta per classi di situazioni finanziarie. In tal modo, il programma dovrebbe essere in grado di generare quegli indici di anomalia che qualificano come ‘inattesa’ una data operazione, la quale verrà successivamente sottoposta a verifica e controllo da parte del personale addetto presso la dipendenza. Questo programma informatico, capace di elaborare mensilmente circa 44 milioni di operazioni, al 31 dicembre 1996 ha generato 6.226 anomalie, tuttavia rivelatesi nella stragrande maggioranza prive di alcun rilievo. (70) L’istituzione di siffatta banca dati — nonostante i riscontri positivi provenienti da quei paesi che ne fanno uso - ha suscitato in Italia non poche polemiche e resistenze che ne hanno sinora ostacolato il cammino. In tale situazione, l’Ufficio Italiano Cambi ha provveduto ad elaborare un sofisticato sistema informatico di monitoraggio dei flussi finanziari noto come « Dbinspector ». Al riguardo v. RIGHETTI, Tecniche di occultamento della ricchezza da parte delle organizzazioni criminali, in AA.VV., I soldi della Mafia, cit., 81.
— 1120 — 197/91, laddove viene escluso che l’ottemperanza all’obbligo di segnalazione possa costituire violazione di obblighi di segretezza, ovvero possa fondare responsabilità di alcun genere. La precisazione potrebbe apparire pleonastica, ma in realtà è opportuna in quanto se è vero che il segreto bancario di fatto non ha più alcuno spazio vitale in materia penale e fiscale, continua a sussistere per quel che concerne i profili civilistici del rapporto banca/cliente (71). Si è pertanto voluto mettere al riparo l’intermediario che effettui una segnalazione rivelatasi infondata da eventuali azioni di risarcimento danni. Resta però il fatto che, in un simile caso, la sanzione più grave per l’incauta segnalazione sarà la cessazione del rapporto fiduciario col cliente e la pubblicità negativa che senz’altro ne deriverà da un tale episodio: una conseguenza economica il cui peso viene quindi accollato in capo all’ente di intermediazione. La scelta di politica criminale, sottesa a tali strumenti di prevenzione e collaborazione, sembrerebbe dover fornire al sistema un alto livello di efficienza. Ed invece quest’ultima trova una ferma smentita nei fatti: le analisi empiriche effettuate parrebbero attestare, fuor d’ogni dubbio, come la realtà sia invero ben lontana dai risultati previsti dal legislatore. La contraddizione è però presto risolta: la strategia delineata può realmente funzionare nella misura in cui la prestazione di collaborazione attiva, che l’ordinamento richiede agli operatori economici, estendendola tra l’altro all’intero campo d’attività, venga positivamente accolta. Le maggiori perplessità risiedono infatti su tale versante: il messaggio eticizzante che tali norme preventive esprimono si scontra, a ben vedere, con la radicata neutralità etica dei mercati bancari e finanziari (72). Peraltro, i ‘costi’ di quest’opzione politico-criminale vengono traslati interamente sugli operatori, i quali non percepiscono contropartite sostanziose ed allettanti: si tratta invero di scelte che impongono costi microeconomici, rapportabili a benefici il cui apprezzamento è però circoscritto solo su un piano macroeconomico. Non v’è dubbio infatti che le valutazioni imprenditoriali siano ontologicamente proiettate su una dimensione prettamente microeconomica, al cui interno debbano necessariamente trovare collocazione e composizione tutti i fattori economici, sia quelli di segno positivo che di segno negativo. Il « programma etico » sotteso a tali interventi legislativi oltre ad accompagnarsi a costi economici, reputazionali e giuridici — la cui ricaduta positiva, come già detto, si apprezza solo in un’ottica macroeconomica — rappresenta un input meramente ‘esterno’ cui corrisponde, non essendo adeguatamente metabolizzato, una sensibile propensione al rigetto (73). Pertanto, il coinvolgimento dei mercati finanziari e dei relativi attori nella lotta al riciclaggio sconta, nei fatti, un gap culturale oltre che economico. Tuttavia appare dubbio, oltre che problematico, che il diritto penale si debba far carico di tale scarto: sia nella sua assunta propensione moralizzatrice, sia nel ricorso al ‘carrot-stick model’ col quale ‘invitare’ gli operatori alla convinta e fattiva cooperazione al programma anti-riciclaggio. A parte l’estrema difficoltà di rinvenire un equilibrio fra deterrenza e premialità — come del resto l’esperienza di taluni paesi sembra attestare —, permane il timore (71) SALANITRO Aspetti attuali del segreto bancario e disciplina antiriciclaggio, in Banca borsa, 1995, III, 391; CONSOLO, Risultanze di indagini preliminari, riciclaggio del denaro, derogabilità del segreto bancario ed accertamenti tributari, in Riv. dir. trib., 1991, I, 351 s. Nella letteratura anglo-americana, per tutti MASCARINO-SCHUMAKER, Beating the Shell Game: Bank Secrecy Laws and their Impact on Civil Recovery in International Fraude Actions, in Journ. of Money Laund. Control, 1, 1, 1997, 42. (72) In tal direzione v. CASTALDO, Accesso all’attività bancaria e strategie penalistiche di controllo, in questa Rivista, 1996, 84. Altresì, VOLK, Criminalità economica, in Sistema penale e criminalità economica, cit., 37. (73) In parte ciò è frutto del ‘corto circuito’ che inibisce un costante dialogo fra etica degli affari ed etica sociale, a tal riguardo v. ROSSI, L’etica degli affari, in Giur. comm., 1992, I, 538 s.; FALLER, Crime & Defoe, Cambridge, 1993. In particolare, sul dibattito relativo all’eticità dell’economia, seppur da prospettive diverse, cfr. SEN, Denaro e valore: etica ed economia della finanza, trad. it., Roma, 1991; FRIEDMAN, The Methodology of Positive Economics, Chicago, 1953.
— 1121 — che la connotazione pedagogica che segna questo diritto della prevenzione sia incapace di venir assorbita dai mercati finanziari, atteso il predominio di altre logiche ed altre componenti, siano esse razionali e/o emotive. Non può escludersi a priori che tale ‘deficit comunicazionale’ fra Stato e destinatari possa essere recuperato, sul piano dell’effetto utile, dall’adozione di appositi « codici di condotta », sviluppando così una prospettiva cui il legislatore del ’97 ripone particolare fiducia. Questi codici, oltre a poter essere frutto della potestà regolamentare delle Autorità di settore — ad es. il ‘decalogo’ della Banca d’Italia —, debbono soprattutto emergere dall’autonomia normativa dei soggetti interessati, ai quali l’art. 3, comma 9o della legge n. 197/1991 impone l’obbligo di « dotarsi ... di adeguate procedure volte a prevenirne il coinvolgimento in operazioni di riciclaggio, potenziando a tal fine il sistema dei controlli e dei riscontri interni e attuando programmi specifici di addestramento e di formazione del personale ». Indubbiamente, questi strumenti cercano di coniugare l’indefettibile esigenza della previsione di una rete di sicurezza per attività estremamente delicate, con il rispetto dell’autonomia organizzativa e gestionale dell’impresa finanziaria, senza alterare il tasso di libertà dell’iniziativa economica messo continuamente a rischio dagli eccessi di burocratizzazione (74). Ciò nondimeno, l’esperienza maturata in quei sistemi giuridici in cui il ricorso ai compliance programs ha assunto notevoli livelli di raffinatezza non è affatto esente da risvolti negativi (75). La predisposizione di questi standard di garanzia e cooperazione — implicanti programmi informatici, corsi di formazione del personale, controlli interni, procedure e misure disciplinari — pur essendo espressione di un fenomeno di autonomia, deve invero subire il determinante vaglio di adeguatezza ed efficienza condotto dal diritto statuale. Ed è in quest’ultima sede che l’autonomia delle « regole del gioco » rischia di perdere il suo significato, lasciando il campo ad « un diritto penale che ... mostra il suo aspetto peggiore: quello della manipolazione e del sospetto. Un diritto penale invadente e tecnocratico che tutto vuole regolamentare » (76). Ad ogni modo, quel che rileva è che sino ad oggi le formali attestazioni e rassicurazioni di collaborazione provenienti dagli organismi di rappresentanza degli intermediari attendono i necessari riscontri sul terreno della prassi. Del resto, la dottrina ha puntualmente colto nel corto circuito comunicazionale fra Stato ed operatori il punto di crisi decisivo della strategia normativa (77). I professionisti dell’intermediazione creditizia e finanziaria si trovano — loro malgrado — trasformati da ‘fiduciari della clientela’ in ‘fiduciari della collettività’, recte dell’amministrazione della giustizia (78). Anche se ci si affretta da più parti a sottolineare come gli operatori non debbano rivestire la divisa del poliziotto, dovendosi solo far carico di istanze di diffusione ed espressione di valori sociali, è innegabile che tale trasformazione dia luogo ad un vero e proprio sconvolgimento di rapporti e logiche assai consolidate nel tempo e nello spazio. 6.
(Segue) dagli intermediari bancari e finanziari ai professionisti svolgenti attività
(74) Sulle tematiche connesse a codici etici e compliance programs, v. PEDRAZZI, Codici etici e leggi dello Stato, in Riv. trim. dir. proc. pen., 1993, 1049 s.; HAWKINS, Compliance Strategy, Prosecution Policy and Aunt Sally. A Comment on Pearce and Tombs, in British Journ. of Criminology, 30, 1990, 444 s. Nella letteratura economica, SACCONI, Etica degli affari, Milano, 1991. (75) Per tutti, DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi e innovazione nel diritto penale statunitense, in questa Rivista, 1995, 157 s., ove ampie indicazioni bibliografiche. (76) DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, cit., 158. (77) HUGHES, Policing Money Laundering Trough Funds Transfers: A Critique of Regulation Under the Bank Secrecy Act, in Indiana Law Journ., 67, 1992, 283 s.; RIDER, Taking the Profit out of Crime, in AA.VV., Money Laundering Control, cit., 1 s. (78) PISA, La riforma dei reati contro l’amministrazione della giustizia tra adeguamenti ‘‘tecnici’’ e nuove esigenze di tutela, in questa Rivista, 1992, spec. 824 s.
— 1122 — non finanziarie suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio: l’estensione delle disposizioni anti-riciclaggio a nuove tipologie di soggetti. — In attuazione dell’art. 15, comma 1, lett. c) della legge delega n. 52/1996 — ed in parziale anticipo sui contenuti del Progetto Preliminare di proposta di una nuova Direttiva anti-riciclaggio tuttora in discussione presso il Parlamento ed il Consiglio europeo — il legislatore italiano si appresta a varare in questi giorni un nuovo decreto legislativo in materia di riciclaggio. L’obiettivo è quello di estendere a nuove tipologie di soggetti le disposizioni concernenti i requisiti di onorabilità ed affidabilità, nonché gli obblighi di identificazione dei clienti, registrazione e segnalazione delle operazioni sospette nonché delle infrazioni relative alle limitazioni dell’uso del contante. Questo provvedimento si snoda lungo un filo conduttore che congiunge la vigente Direttiva 91/308 con quella in fase di progettazione cui s’è fatto un rapido cenno. Infatti, l’art. 12 della Direttiva del ’91 si limitava a prevedere la necessità di estendere le disposizioni in essa previste ad « attività professionali e categorie di imprese diverse dagli enti creditizi e finanziari di cui all’art. 1, le quali svolgono attività particolarmente suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio ». Una parziale risposta a tale esigenza veniva fornita dall’art. 5 del d.lgs. n. 153/1997, che, in previsione della futura estensione, stabiliva — quale requisito per l’abilitazione allo svolgimento di tali attività — l’istituzione presso il Ministero del Tesoro di un apposito elenco suddiviso per categorie professionali. Più articolato nei suoi contenuti si presenta il Progetto preliminare di proposta della nuova Direttiva, il quale « considerando che ... da indizi certi risulta che l’intensificazione dei controlli ha indotto i riciclatori a sperimentare metodi alternativi al fine di occultare l’origine dei provvedimenti illeciti » (79), dispone l’estensione della regolamentazione anti-riciclaggio ad un ampio spettro di categorie soggettive, siano esse persone fisiche o giuridiche: a) contabili e revisori esterni; b) agenti immobiliari; c) notai ed altri professionisti legali indipendenti, qualora svolgano per conto di clienti talune attività (acquisto e vendita di immobili; gestione di denaro, valori mobiliari ed altri beni; apertura di conti bancari, libretti di deposito e conti titoli; esecuzione di operazioni finanziarie; costituzione, gestione ed amministrazione di società, trust e strutture analoghe); d) commercianti di metalli preziosi; e) gestori, proprietari e amministratori di case da gioco. Fra tali estremi si colloca dunque il decreto legislativo in fase di emanazione. Al riguardo è opportuno svolgere preliminarmente talune osservazioni di metodo. In primo luogo, non risulta agevole comprendere le ragioni che hanno indotto il legislatore, nell’ampliare il novero dei destinatari della legislazione anti-riciclaggio, ad optare per l’adozione di un testo normativo a se stante, ovviamente da coordinare con la legislazione vigente. Al contrario, un intervento atto a novellare il tessuto normativo della legge n. 197/91 — sulla scia dell’opzione seguita dal d.lgs. n. 153/97 — avrebbe evitato la proliferazione di norme di mero rinvio, soddisfacendo in tal modo le esigenze di chiarezza e semplicità nel coordinamento dei testi normativi. Esigenze, peraltro, che trovano un espresso riconoscimento legislativo nell’art. 8 della legge delega n. 52/96, il quale non per caso pone sul tappeto la necessità della predisposizione di un testo unico — attualmente in fase di studio — sul riciclaggio. Breve. L’art. 3 dello schema di decreto legislativo, inerente all’esercizio professionale dell’agenzia in attività finanziaria, rinvia all’art. 106 del testo unico bancario. Ebbene, da un lato, il sesto comma dell’art. 3 contiene disposizioni pressoché analoghe a quelle che, con un prossimo provvedimento legislativo contenente modifiche al testo unico del ’93, andranno ad integrare l’art. 106. Dall’altro lato, a differenza di quanto prescritto dall’art. 106 del testo unico bancario, l’art. 3 omette ogni riferimento alle comunicazioni effettuate dall’Ufficio Italiano Cambi alla Consob ed alla Banca d’Italia circa le iscrizioni al relativo albo. Se il primo profilo denuncia un problema di sovrapposizione di norme, il secondo pronostica l’emer(79) Progetto preliminare di proposta di Direttiva del Parlamento e del Consiglio, recante modifica della Direttiva 91/308/EEC, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite, consideranda nn. 5 e 14.
— 1123 — sione di dubbi e difficoltà interpretative che probabilmente si sarebbero evitate ove si fosse proceduto seguendo un iter differente, novellando cioè l’art. 106 del d.p.r. n. 385/93. In secondo luogo, in relazione alle tipologie di attività sottoposte alla nuova regolamentazione, l’art. 1, lett. n) dello schema di decreto legislativo prende in considerazione l’agenzia in attività finanziaria senza però chiarirne l’oggetto. Al di là del mero rinvio all’art. 106 del testo unico bancario, l’art. 3 demanda ad un futuro regolamento del Ministro del Tesoro il potere di definire i contenuti dell’attività in parola, senza che al riguardo vi siano criteri legali sufficientemente chiari e precisi. Analogo potere è rimesso alla medesima autorità ministeriale per quel che concerne l’ambito di disciplina, in particolare per la definizione delle violazioni sanzionate con la sospensione o la cancellazione dall’elenco. In proposito, l’apporto dell’Ufficio Italiano Cambi avrebbe potuto essere maggiormente valorizzato, in quanto risulta circoscritto nell’ambito di un generico ‘concerto’, non specificandone però il grado di incidenza e la relativa vincolatività (art. 3, comma 2, e comma 8). Sul terreno squisitamente penalistico, le riserve si incentrano sul rispetto del principio della riserva di legge. Si rammenti invero che, al pari delle altre di cui all’art. 1, si tratta di attività sottoposta a riserva, essendo punito — ex art. 5, comma 3, d.lgs. n. 153/97 — l’esercizio da parte dei non iscritti all’elenco con una sanzione penale dai livelli edittali non indifferenti: da sei mesi a quattro anni di reclusione e con la multa da quattro a venti milioni di lire. Per quest’aspetto, sembra essersi introdotta surrettiziamente l’ennesima fattispecie penale in bianco, la cui compatibilità col principio di legalità è sempre stata dubbia. Sicché, appare lecito nutrire più di qualche perplessità sull’avvenuto rispetto delle dichiarazioni di principio contenute nella relazione illustrativa: « la ripartizione della disciplina in fonti di diverso livello è avvenuta — naturalmente — provvedendo a sancire nel provvedimento di rango primario tutti gli aspetti necessari per la compiuta definizione delle fattispecie previste e ad affidare al legislatore secondario la specificazione del relativo dettaglio ». Sul piano dei contenuti, il decreto legislativo mostra di collocarsi senza soluzione di continuità lungo l’arco di politica criminale già segnato dalla legislazione di settore. In particolare, si vuole mantenere una costante attenzione al profilo della trasparenza lungo il versante dei requisiti di accesso all’attività professionale, istituendo l’obbligo di iscrizione ad apposito elenco — sia pur solo per quelle attività il cui esercizio non sia già subordinato all’iscrizione in ruoli o albi tenuti da pubbliche autorità, ordini o consigli professionali, ovvero sottoposto a licenza del questore o del prefetto —, ed attribuendo i poteri di produzione normativa, ‘alta vigilanza’ e sanzione al Ministro del Tesoro, e quelli di amministrazione e controllo all’Ufficio Italiano Cambi. La relazione illustrativa si premura di chiarire gli obiettivi presi di mira dal legislatore: a) estendere la disciplina anti-riciclaggio a soggetti svolgenti attività non finanziarie; b) adeguare la disciplina vigente, modulata sulle caratteristiche strutturali ed operative degli intermediari finanziari, alla diversa natura delle nuove tipologie professionali; c) mantenere costante l’attenzione sull’evoluzione dei settori coinvolti onde poterne cogliere col dovuto anticipo gli eventuali segnali di infiltrazioni criminali. Venendo incontro alle esigenze segnalate dalle associazioni di categoria, e chiarite nei loro postulati economici e giuridici dalla dottrina, il testo intende evitare la duplicazione di obblighi e l’imposizione di oneri eccessivi a carico degli operatori. Per tal via, l’obbligo di iscrizione nell’apposito elenco, tenuto a cura dell’Ufficio Italiano Cambi, trova una significativa deroga in tutti quei casi in cui preesista un ruolo o un albo tenuto da pubbliche autorità, ordini o consigli professionali, ovvero in cui l’esercizio dell’attività sia subordinato al rilascio di una preventiva licenza. Tuttavia, l’ampiezza della deroga non va sottovalutata in quanto una buona parte delle attività sottoposte all’estensione della regolamentazione anti-riciclaggio necessitano della licenza del questore o del prefetto ai sensi del r.d. 18 giugno l931 n. 773, recante il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Sicchè, a ben vedere, le attività per il cui esercizio sarà necessario richiedere realmente l’iscrizione nel neo elenco risultano ben poche. Tale scelta, a giudizio del legislatore rispondente ad esigenze di economizzazione degli
— 1124 — oneri, in realtà pone non pochi interrogativi sotto il profilo dell’efficienza del sistema di controllo. Infatti, nella relazione illustrativa si legge che « possono ritenersi soddisfatte le esigenze di conoscibilità e di controllo che il legislatore ha inteso perseguire attraverso la formazione dell’elenco » in merito alle categorie professionali per cui è prescritta la preventiva licenza. Peraltro, il monitoraggio sulle attività parrebbe garantito dall’obbligo di comunicazione all’Ufficio Italiano Cambi « delle licenze rilasciate, delle relative revoche e di ogni variazione ». Tuttavia, la sostanziale equiparazione dei predetti provvedimenti amministrativi con gli albi e i ruoli professionali circa l’efficienza del controllo, rischia di rivelarsi più asserita che dimostrata, aprendo pertanto una pericolosa maglia nella tenuta complessiva del sistema. Invero, pur tralasciando i profili legati alla capacità di analisi e valutazione della questura o della prefettura circa il possesso dei requisiti di onorabilità, il problema più grave risiede nella celerità e nella uniformità della trasmissione all’Ufficio Italiano Cambi dei dati e delle informazioni che tali amministrazioni sono tenute a raccogliere, in via integrativa, in virtù dei diversi obblighi gravanti sui titolari delle predette licenze. A ben vedere, il sistema di segnalazione, ricezione e analisi dei dati e delle informazioni relative agli intermediari finanziari ed alle rispettive operazioni fonda le sue chances di successo sulla informatizzazione dei moduli e delle relative procedure. E del resto, non potrebbe essere altrimenti posto che l’Ufficio Italiano Cambi dev’essere sempre in condizione di poter sospendere le operazioni sotto osservazione, seppur per un massimo di 48 ore. Allo stato attuale, non è quindi peregrino il rischio che in tali settori il mantenimento di questo coacervo di competenze — probabilmente finalizzato a non urtare equilibri ormai consolidati negli apparati burocratici — possa costituire un serio ostacolo al raggiungimento degli standard di celerità fluidità e certezza nella trasmissione e valutazione delle informazioni già ottenuti dalla legge n. 197/91. Peraltro, una maggiore puntualità nella definizione degli standard di onorabilità ed affidabilità dei soggetti sarebbe stata opportuna. In proposito, l’art. 2 dello schema di decreto legislativo, richiama innanzi tutto i requisiti stabiliti eventualmente dalle singole leggi di settore; laddove tali disposizioni manchino o risultino carenti l’art. 2 rinvia ai requisiti di cui all’art. 11 del r.d. n. 773/1931. Quest’ultima norma, nel definire i casi di diniego dell’autorizzazione di polizia, individua quali condizioni ostative unicamente l’aver riportato sentenze di condanna — cui non ha fatto seguito la riabilitazione —, l’ammonizione o una misura di sicurezza personale, nonché l’essere stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza. Per cui parrebbe che, in assenza di altre disposizioni i requisiti di onorabilità sussistano per il semplice fatto di non aver riportato i precedenti esposti. Il medesimo art. 2, al secondo comma, nell’ipotesi in cui l’attività venga esercitata per mezzo di una società, prevede che i requisiti di onorabilità siano posseduti « dai soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo, dai soci delle società di persone, nonché dai partecipanti al capitale delle società di capitali in possesso di quote o azioni che attribuiscono diritti di voto superiori al 2% ». Se questa è la disciplina generale, non si comprende se è frutto di disattenzione, o se al contrario sottintende una precisa volontà, la differente scelta operata in relazione ai requisiti in capo agli esercenti l’attività di agenzia in attività finanziaria. In tal ultimo caso, infatti, l’art. 3, comma 3, dello schema di decreto rinvia agli artt. 108 e 109 del testo unico bancario, i quali, rispettivamente dedicati all’onorabilità dei partecipanti al capitale e alla professionalità ed onorabilità degli esponenti aziendali, dettano una disciplina estremamente più articolata ed integrata dalla normazione di dettaglio del Ministro del Tesoro. Lo schema di decreto legislativo, nell’individuare le categorie professionali cui estendere le disposizioni anti—riciclaggio, non prende in considerazione talune figure cui il Progetto di riforma della Direttiva comunitaria del ’91 dedica particolare attenzione. Si tratta dei contabili e revisori esterni, nonché dei notai e degli altri professionisti legali indipendenti svolgenti per conto terzi attività di gestione di beni, valori, titoli, depositi, conti, società e trust. All’evidenza, l’ambito professionale in esame è mutuato dall’esperienza svizzera, la quale conosce da tempo la proliferazione di simili ruoli fiduciari. Nella relazione illustrativa viene omessa
— 1125 — ogni indicazione al riguardo, presumibilmente in quanto il problema dovrebbe trovare una soluzione in seno al testo unico sul riciclaggio di cui si discute da qualche tempo. In particolare, le attività soggette all’estensione della normativa sul riciclaggio sono le seguenti: a) recupero crediti per conto terzi — sottoposta alla licenza del questore, art. 115 r.d. n. 773/1931; b) custodia e trasporto di denaro contante e di titoli o valori a mezzo di guardie giurate — soggetta a licenza del prefetto, art. 134 r.d. n. 773/1931; c) trasporto di denaro contante, titoli o valori senza l’impiego delle particolari guardie giurate di cui sopra — soggetta all’iscrizione nell’albo delle persone giuridiche e fisiche che esercitano l’autotrasporto di cose per conto terzi, legge n. 298/1974; d) agenzia di affari in mediazione immobiliare — soggetta all’iscrizione in apposita sezione del ruolo istituito presso la Camera di Commercio, legge n. 39/1989; e) commercio di cose antiche — soggetta a dichiarazione preventiva, art. 126 r.d. n. 773/1931; f) esercizio di case d’asta o gallerie d’arte — soggetta a licenza del questore, art. 115 r.d. n. 773/1931; g) commercio di oro per finalità industriali o di investimento — soggetta ad autorizzazione, art. 15 d.p.r. n. 148/1988; h) fabbricazione, mediazione e commercio di oggetti preziosi — soggetta a licenza, art. 127 r.d. n. 773/1931; i) gestione di case da gioco — soggetta ad autorizzazione in base ad apposita legge, cui si estendono le disposizioni riferite ai soggetti sottoposti a licenza del questore o del prefetto; l) fabbricazione di oggetti preziosi da parte di imprese artigiane — soggetta ad iscrizione nel registro degli assegnatari dei marchi di identificazione tenuto presso le Camere di Commercio; m) mediazione creditizia — soggetta all’iscrizione nell’apposito albo previsto dalle recenti disposizioni normative sull’usura, art. 16 della legge n. 108/1996; n) agenzia in attività finanziaria — soggetta all’iscrizione nell’albo di cui all’art. 3 dello schema di decreto in esame; o) agenti assicurativi e promotori finanziari — soggetti all’iscrizione negli appositi albi. L’estensione degli obblighi di cui alla legge n. 197/1991 alle suddette categorie professionali non è uniforme ed omogenea ma varia in rapporto al tipo di attività. La relazione illustrativa non si sofferma nel giustificare questa scelta, limitandosi a far riferimento a generiche esigenze di compatibilità con la natura delle attività di volta in volta coinvolte. In particolare, sono sottoposti agli obblighi di identificazione, registrazione, segnalazione delle operazioni sospette, nonché di riservatezza sulle medesime e di comunicazione delle violazioni, i soggetti svolgenti: l’attività di agenzia in servizi finanziari; l’attività di mediazione creditizia; l’attività di mediazione immobiliare; l’attività di recupero crediti per conto terzi; l’attività di custodia e trasporto di denaro contante, titoli e valori; le attività di commercio di oro; la gestione di case da gioco. I medesimi obblighi con l’importante eccezione di quello avente per oggetto la segnalazione delle operazioni sospette, vengono estesi a coloro che esercitano: il commercio di cose antiche; la gestione di case d’asta o gallerie d’arte; la fabbricazione, la mediazione ed il commercio di oggetti preziosi. Per i promotori finanziari e per gli agenti assicurativi, rileva il solo obbligo di segnalazione delle operazioni sospette. Peraltro il destinatario della segnalazione viene colto unicamente nell’intermediario per conto del quale l’agente o il promotore opera. Evidentemente, l’adempimento da ultimo indicato non assume un rilievo autonomo, costituendo piuttosto un momento dell’attività complessiva dell’intermediario finanziario, cui va imputata anche la titolarità formale dell’obbligo verso le autorità competenti. Lo schema di decreto in esame non sembra esente da rilievi neppure sotto il profilo delle sanzioni. L’art. 6, comma 1, stabilisce che « alla violazione degli obblighi di identificazione, registrazione e segnalazione delle operazioni sospette ... si applica la sanzione prevista dall’art. 5, comma 5, della legge n. 197/1991 ». Inoltre, il terzo comma della medesima disposizione, che delinea la procedura di contestazione per l’irrogazione della predetta sanzione, richiama esclusivamente la « violazione prevista nell’art. 5, comma 5, della legge n. 197/1991 ». Il problema risiede nel fatto che la norma richiamata punisce esclusivamente l’omessa segnalazione dell’operazione sospetta — e non già le altre pur citate dall’art. 6,
— 1126 — comma 1 — applicando una sanzione pecuniaria fino alla metà del valore della transazione, sempre che il fatto non costituisca reato. Orbene, delle due l’una. Ove l’art. 6 in esame avesse inteso punire tutte le violazioni riportate al primo comma con la sanzione di cui all’art. 5, comma 5, della legge n. 197/1991, verrebbe alterato il giudizio circa il disvalore delle diverse violazioni già espresso dalla legge del ’91, e confermato dal diverso trattamento sanzionatorio per esse previsto: infatti l’inadempimento agli obblighi di registrazione e identificazione è punito con una sanzione pecuniaria ridotta al 30% del valore dell’operazione. Adottando quest’interpretazione dell’art. 6, emergerebbe però un’incomprensibile disparità di trattamento fra le categorie professionali di cui al presente decreto, alle quali si applica unicamente l’art. 5, comma 5 della legge del ’91, e gli intermediari bancari finanziari, i quali per le medesime violazioni godrebbero di un trattamento meno rigoroso. L’eliminazione di siffatta irrazionalità del piano sanzionatorio del sistema anti-riciclaggio, oltre che poggiare su ragioni connesse al pari grado di disvalore per condotte del tutto identiche, risulta imposta dal limite insito nella legge delega n. 52/1996: come precisato nella stessa relazione illustrativa dello schema di decreto, « le disposizioni antiriciclaggio riferite ai soggetti esercenti le attività individuate come suscettibili di utilizzazione per fini di riciclaggio ... non possono essere diverse o ulteriori rispetto a quelle contenute nella legge n. 197/1991, così come modificata dal d.lgs. n. 153/1997 ». Un limite, dunque, che può trovare rispetto solo parificando — nonostante il diverso tenore dell’art. 6 — il trattamento sanzionatorio per le violazioni commesse dalle nuove categorie soggettive a quello previsto per gli intermediari finanziari e bancari dalla legge n. 197/1991. Infine, sul piano dei controlli interni, l’art. 7 dello schema di decreto legislativo riproduce un contenuto analogo a quello dell’art. 10 della legge n. 197/1991. Infatti, è fatto obbligo al collegio sindacale — dei soggetti di cui all’art. 1 — di verificare il rispetto delle disposizioni contenute nel decreto legislativo e negli ulteriori provvedimenti emessi ai sensi di quest’ultimo. Peraltro, il collegio sindacale deve informare l’Ufficio Italiano Cambi « di tutti gli atti o fatti di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei propri compiti, che costituiscono violazione delle disposizioni medesime ». 7. Cooperazione degli intermediari e « funzione di utilità »: modelli economici di analisi. Critica. — Al fine di riconciliare gli intermediari con i costi della strategia anti-riciclaggio, stimolandone quindi il livello di adesione, si è proposto il ricorso a taluni ‘modelli economici’ di analisi e valutazione dei comportamenti economici, e segnatamente a quelli elaborati in seno all’impostazione di Law and Economics. Punto di partenza di questo approccio è la ovvia considerazione circa la natura imprenditoriale dell’attività di intermediazione finanziaria e creditizia, come tale fortemente determinata dalla logica del profitto, che impone sopra ogni cosa la remunerazione dei fattori produttivi. Da questo punto di vista, invero, la rete di obblighi che ruota intorno alla documentazione, registrazione, conservazione, screening e segnalazione di operazioni sospette si traduce in un costo aziendale in termini di risorse sia finanziarie — programmi di addestramento e strutture informatiche di supporto — che umane — tempo lavorativo distratto dall’ordinaria attività (80). Non solo, ma una componente estremamente significativa che entra in gioco, e comunque difficilmente quantificabile nel suo segno negativo, è quella reputazionale (81). In un (80) MASCIANDARO, Il riciclaggio in economia aperta: teoria e caso italiano, in AA.VV., Il riciclaggio di denaro nella legislazione civile e penale, a cura di Corvese e Santoro, Padova, 1996, 192 s., il quale sul presupposto che le banche e gli intermediari finanziari siano delle organizzazioni « a-etiche », orientate al profitto, osserva come la loro collaborazione sia destinata ad arrestarsi oltre una certa soglia di costo non remunerabile. (81) Sul rilievo di tale componente nell’economia dell’impresa, cfr. SACCONI, Economia etica organizzazione, Bari, 1997, 79 s.
— 1127 — paese segnato da livelli altissimi di evasione contributiva (82), il fatto che anche le operazioni strumentalmente preordinate a tal fine rientrino nel novero di quelle ‘anomale’ — e per le quali sussiste parimenti l’obbligo di segnalazione — non può che rappresentare per l’intermediario una forte remora. La loro segnalazione all’autorità di controllo, in tal caso, non assumerà probabilmente la fisionomia del riciclaggio (83), ma con altrettanta certezza condurrà al recupero a tassazione di tali redditi e conseguentemente all’accertamento delle correlative responsabilità penali. Pertanto, la scrupolosa osservanza delle norme che impongono gli obblighi di segnalazione rischia di far cessare quel rapporto di mutua fiducia su cui il cliente, più o meno consapevolmente, ripone affidamento quando mira ad evadere il fisco. Il problema legato ai fattori diseconomici che la collaborazione attiva impone agli intermediari, viene affrontato da taluni esponenti della c.d. « Chicago School » (84) in seno all’approccio di Law and Economics. Senza volere approfondire tale complessa problematica, basti in questa sede ricordare che il modello beckeriano postula un soggetto razionale che agisce per un’utilità aspettata, determinandosi all’azione delittuosa in base alla relazione costi/benefici (85). Secondo quest’indirizzo occorrerebbe intervenire sulla relazione costi/benefici attraverso un complesso di incentivi/disincentivi — il c.d. ‘carrot-stick model’ — onde costringere l’intermediario che tollera o si presta al riciclaggio ad abbandonare tale opzione, perché antieconomica, così rendendo la collaborazione con le autorità la soluzione meno diseconomica. L’approccio in questione non può essere condiviso per molteplici ragioni. Preliminarmente, non appare convincente la premessa di fondo, in quanto è dimostrato come nella spirale criminogena si inseriscano fattori in senso lato emotivi, culturali, ambientali, in una pa(82) Al riguardo cfr. MONACELLI, Problemi di stima dell’evasione fiscale: una rassegna dei metodi e degli studi effettuati per l’Italia, in Econ. pubblica, 1996, 103 s.; SECIT, I controlli sugli scambi intracomunitari e l’evasione dell’IVA in Italia. A quanto ammonta, come si può contrastarla, Relazione 1996, in Quaderni, fasc. 1, 1996 (numero monografico). (83) La questione è infatti controversa non essendo del tutto chiaro se il delitto societario o tributario, col quale si occultano redditi lecitamente prodotti, possa rientrare nel novero dei predicate crimes del riciclaggio. Al riguardo v. FAUCEGLIA, L’antiriciclaggio tra priapismo legislativo ed incontinenza regolamentare, in AA.VV., Il riciclaggio dei proventi illeciti, cit., 250; GROSSO, Frode fiscale e riciclaggio. Nodi centrali di politica criminale nella prospettiva comunitaria, in questa Rivista, 1992, 1279. Problema diverso, anche se strettamente connesso, è quello della tassabilità dei proventi da attività illecite, fra cui possono collocarsi anche quelli provenienti da riciclaggio. In proposito v. Cass., 20 marzo 1996, in questa Rivista, 1997, 983 s., con nota di BERSANI, La tassabilità dei proventi da attività illecita: presupposti, criteri distintivi ed esistenza di obblighi di dichiarazione, ivi, 998; nonché TESAURO, La tassazione dei proventi di reato e gli enunciati del legislatore-interprete, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1996, II, 19; CAPOLUPO, La tassazione dei proventi illeciti, Padova, 1996. Per l’esperienza statunitense v. PEACE-MESSERE, Tax Deductions and Criminal Activities: The Effects of Recent Tax Legislation, in Rutg. Law Journ., 20, 1989, 415 s. (84) Il riferimento è alla Expected Utility Theory, elaborata da BECKER, Crime and Punishment: An Economic Approach, in Journ. of Political Econ., 76, 1968, 169 s., e successivamente generalizzata in ID., The Economic Approach to Human Behavior, Chicago, 1976, in seno alla teoria dell’analisi economica del diritto. Sull’approccio neo-classico di Law and Economics v. POSNER, Economic Analysis of Law, Boston, 1972; JOHNSON A.M. jr., An Appeal for the « Liberal » Use of Law and Economics, in Texas Law Rev., 67, 1989, 659; nonché POLINSKY, Una introduzione all’analisi economica del diritto, trad. it., Roma, 1992. Nella letteratura italiana cfr. AA.VV., L’analisi economica del diritto, a cura di Fabbri, Fiorentini, Franzoni, Roma, 1997; CHIASSONI, « Law and Economics ». L’analisi economica del diritto negli Stati Uniti, Torino, 1992; PARDOLESI, Un moderno minotauro, law and economics, in AA.VV., Ragioni del diritto e ragioni dell’economia, a cura di Pocar e Velicogna, Milano, 1990, 225. (85) Su tale paradigma, nella letteratura economica italiana, per tutti v. NUTI, La relazione costi benefici, Bologna, 1993.
— 1128 — rola ‘irrazionali’ (86). Tale modello è necessariamente basato su clausole/postulati arbitrariamente fissati; ma questa necessità — comune a tutte le teorie economiche — non rispecchia la realtà fenomenica ed ontologica dell’agire umano: ogni scelta d’azione non è condotta in un perfetto isolamento rispetto al mondo esterno, non è cioè decontestualizzata essendo piuttosto fortemente influenzata dalle scelte passate, presenti e future degli altri (87). Pertanto, il soggetto umano più che agire in condizioni di ‘rischio’ — da valutare attraverso la relazione costi/benefici — sembra agire in un contesto di ‘incertezza’ (88). Inoltre, il modello beckeriano postula l’acquisizione definitiva del concetto di ‘razionalità’ dell’agire, laddove già a livello epistemologico non è affatto chiaro cosa debba intendersi per razionalità. Oltre ciò, si deve osservare come l’assunzione della razionalità nell’accezione proposta dalla scuola di Chicago appaia senz’altro fortemente artificiale o comunque scarsamente utile poiché è calibrata sul singolo agente, piuttosto che su un soggetto collettivo e complesso qual è l’organizzazione criminale. Infine, in una prospettiva penalistica, il modello à la Becker è funzionale ad una concezione del sistema penale in cui l’‘efficienza’ della risposta è l’unico criterio di legittimazione della penalità, non rapportabile invece al profilo della ‘garanzia’ (89). Sempre in un’ottica di Law and Economics, recentemente si propone di risolvere il pro(86) Attenta valutazione merita altresì la c.d. « sindrome da ebbrezza da rischio » da cui, secondo taluni studi, risulterebbero spesso caratterizzate le scelte del management. A tal riguardo, v. GREEN, White-Collar Crime and the Study of Embezzlement, in AA.VV., WhiteCollar Crime, a cura di Geis e Jesilow, 1993, 104 (numero monografico di The Annals of Am. Academy of Political and Social Science n. 525). Sulle multiformi relazioni tra razionalità, rischio ed incertezza cfr. LUHMANN, Sociologia del rischio, trad. it., Milano, 1996, 10 s.; MARCH-SHAPIRA, Managerial Perspectives on Risk and Risk Taking, in Management Science, 33, 1987, 1404 s. (87) Le condizioni dell’agire umano e della razionalità dell’agente — limitata o assoluta che sia — presentano aspetti diversi i quali costituiscono oggetto di studio di una molteplicità di discipline. Per gli eventuali approfondimenti, e limitandosi alle indicazioni essenziali, si veda in una prospettiva marcatamente economica, SIMON, Models of Man. Social and Rational. Mathematical Essays on Rational Behavior in a Social Setting, London-New York, 1957. Sulla co-produzione delle scelte criminali ad opera del soggetto e delle strutture sociali, di recente v. HENRY-MILOVANOVIC, Constitutive Criminology. Beyond Post-modernism, London-Thousand Oaks-New Delhi, 1996. Per il contributo della scuola di Berna sull’analisi dell’azione in una prospettiva psicosociale si rinvia a von CRANACH-OCHSENBEIN, Agire. La forma umana del comportamento, trad. it., Bologna, 1994. Sui rapporti fra teoria dell’intenzionalità, comportamento ed azione v. GOZZANO, Storia e teorie dell’intenzionalità, Bari, 1997, spec. 51 s. In una prospettiva filosofica, per un’analisi delle relazioni logico-formali dei concetti normativi in rapporto al concetto di azione, von WRIGHT, Norma e azione. Un’analisi logica, trad. it., Bologna, 1989. (88) Sul rapporto fra « decisione », « rischio » ed « incertezza » si veda l’ormai classico studio di KNIGHT, Risk, Uncertainty and Profit, New York, 1921. Per la debita considerazione dei fattori sociali e culturali che determinano il grado di disponibilità al rischio v. AA.VV., The Social and Cultural Construction of Risk: Essays on Risk Selection and Perception, a cura di Johnson B.B. e Covello, Dordrecht, 1987; DOUGLAS-WILDAVSKY, Risk and Culture: An Essay on Selection of Tecnological and Environmental Dangers, Berkeley, 1982. (89) Sui rischi — e pertanto sui limiti — che un approccio di Law and Economics genera in materia penale, v. von WITTIG, Der rationale Verbrecher. Der ökonomische Ansatz zur Erklärung kriminenellen Verhaltens, Berlin, 1993; LÜDERSSEN, Law and Literature als Herausforderung von Law and Economics, in FS Günter Spendel, Berlin-New York, 1992, 108 s. Per una critica ‘a tutto tondo’ ed in particolare al neoliberismo sotteso all’approccio in parola, v. TAYLOR, The Political Economy of Crime, in AA.VV., The Oxford Handbook of Criminology, a cura di Maguire, Morgan e Reiner, Oxford, 1994, 496 s. Il modello elaborato da Becker, peraltro, non è esente da ulteriori obiezioni sul piano economico. In tal direzione, se ne è infatti rimarcata l’incapacità di tener conto della ‘deterrenza marginale’ prodotta dalla sua scarsa vocazione alla gradualità delle pene; secondariamente, esso non soddisfa adeguatamente l’esigenza di armonizzare « Efficiency and Equity ». Per tali osservazioni, ri-
— 1129 — blema delle diseconomie nascenti dal coinvolgimento dell’intermediario nelle strategie antiriciclaggio, entro le coordinate poste dalla teoria dei giochi (90). Pur avendo questa il vantaggio di studiare il problema senza ‘dimenticare’ il contesto sociale entro cui il soggetto matura ed opera la sua scelta, e pur senza pretendere di pervenire ad un concetto di ‘razionalità assoluta’ — superando per questi aspetti i limiti del modello esplicativo beckeriano — l’applicazione della teoria dei giochi non sembra comunque priva di serie obiezioni. Innanzi tutto, anch’essa non può fare a meno — per statuto ontologico — di postulare che tutti i soggetti del gioco siano degli agenti razionali, anche se la razionalità viene intesa come (a’) « consapevolezza del contesto di relazione » e (a’’) « prevedibilità delle reazioni altrui », in funzione delle quali ciascuno agisce calcolando l’« utilità aspettata ». Infatti, la teoria si fonda sulla duplice premessa che tutti i giocatori siano intelligenti, e che si muovano sulla base di un’ipotesi di razionalità — c.d. « bayesiana » —, per la quale le scelte di ciascuno trovano la loro giustificazione nella credenza circa il comportamento degli altri. Posto ciò, la soluzione del gioco è determinata dalla quantità di informazioni di cui dispone ogni giocatore e dal rispetto dell’assioma di coerenza — detto anche di « consistenza » — per il quale non è razionale cambiare le proprie scelte in costanza di equilibrio, salvo che un giocatore acquisisca un’informazione in più degli altri: nel qual caso viene meno l’equilibrio. Il gap di informazioni è ovviamente quello patito dal giocatore-Stato, cui corrisponde il giocatore-intermediario finanziario che è in possesso delle informazioni in oggetto. Il problema verrebbe allora risolto con la decisione del giocatore-Stato di sfruttare a proprio vantaggio le preziose informazioni in possesso del solo giocatore-intermediario, inserendo nel ‘gioco’ un complesso di regole che, per un verso, riducano le asimmetrie informative — ad es. con le normative sulla raccolta e registrazione dei dati — e, per altro verso, rendano ‘strategicamente conveniente’ la cooperazione per gli altri giocatori, e cioè per l’intermediario. Ebbene, se la teoria dei giochi ha contribuito parecchio allo sviluppo di alcune branche, quali la biologia e l’informatica, la sua applicazione in ambito penalistico suscita comunque non poche perplessità. Tralasciando per ovvie ragioni quelle legate alle ‘ipotesi’ di intelligenza, razionalità e coerenza nelle scelte di gioco — fattori che nelle dinamiche criminali, ed in particolare nel settore degli affari, possono anche difettare (91) — rimangono difficilmente superabili alcuni ostacoli. In primo luogo, è necessario che l’intermediario sia sempre posto in condizione di poter fornire l’informazione, che altrimenti il fattore determinante se non esclusivo alla collaborazione resterà la minaccia sanzionatoria; una componente senz’altro esogena, riflesso fra l’altro di un approccio orientato alla deterrenza. Ciò implica: a) che si chiariscano con la masspettivamente v. STIGLER, The Optimum Enforcement of Laws, in Journ. of Political Econ., 1970, 527 s.; THUROW, Equity versus Efficiency in Law Enforcement, in AA.VV., The Economics of Crime, a cura di Andreano e Siegfried, New York, 1980, 85. Da ultimo, per un approccio di ‘crime and economics’ cfr. AA.VV., The Economics of Organized Crime, a cura di Fiorentini e Peltzman, Cambridge, 1995. (90) Al riguardo, oltre ai classici studi di BRAITHWAITE, Theory of Games as a Tool for the Moral Philosopher, Cambridge, 1955, e von NEUMANN-MORGESTERN, The Theory of Games and the Economic Behavoir, Princeton N.J., 1944; più da recente cfr. HARSANYI, Games with Incomplete Information, in American Econ. Rev., 85, 3, 1995, 291 s.; KREPS, Teoria dei giochi e modelli economici, trad. it., Bologna, 1992; GIBBONS, Teoria dei giochi, trad. it., Bologna, 1994. Per una proposta di applicazione al problema in analisi, v. ZANCHETTI, Il riciclaggio di denaro, cit., 84 s. e 274 s. (91) La complessità del problema è inoltre strettamente determinata dalla struttura organizzata di tale criminalità, la quale implica la valutazione dell’impatto che l’elemento collettivo genera nei processi motivazionali dell’agente. Sul punto, cfr. le lucide riflessioni di THOMPSON, Organizations in Action, New York, 1967; nonché OLSON, The Logic of Collective Action, Cambridge (Mass.), 1982; SHAW, Group Dynamics. The Psycology of Small Group Behavior, New-York-London, 1981.
— 1130 — sima certezza e senza ombra di equivoco le condizioni in presenza delle quali quell’operazione assume quel carico di sospetto da diventare l’informazione che è richiesta dallo Stato, per le sole finalità di contrasto del riciclaggio; b) che l’intermediario sappia distinguere con estrema chiarezza i confini ed i limiti della propria responsabilità penale e civile in relazione al compimento o alla segnalazione dell’operazione sospetta, ancorché la segnalazione sia avvenuta successivamente al compimento dell’operazione. In secondo luogo, e probabilmente lungo una prospettiva che si colloca ancor più a monte, la teoria dei giochi — e quindi gli approcci normativi che ad essa fanno riferimento — scontano un preoccupante deficit legato alla estromissione teoretica delle implicazioni etiche sottese ad ogni ‘scelta d’azione’ (92). Lungo questa prospettiva, piuttosto, occorrerebbe valutare il livello di disponibilità sociale a recepire e (re)distribuire i costi sociali, economici e morali delle misure preventive. Non v’è dubbio, da questo punto di vista, che solo una comunità sociale la quale riesca ad abbinare, alla consapevolezza dei guasti prodotti dal riciclaggio, una seria predisposizione ad accettare limiti e vincoli alle proprie ordinarie attività economiche, possa realmente costituire quella situazione spirituale sulla quale innestare un effettivo sistema di prevenzione (93). 8. L’intermediario finanziario innanzi alla disciplina anti-riciclaggio: verso la creazione di una « posizione di garanzia »? — Le chances di effettività della legislazione anti-riciclaggio dipendono dal grado di collaborazione attiva che gli intermediari finanziari sono disposti ad offrire. La strategia normativa delineata, come già s’è accennato, ha infatti ritagliato loro un ruolo ed una collocazione ben precisi nella prevenzione del fenomeno criminale in esame. L’espressione più netta di questa richiesta di collaborazione si coglie nel regime delle segnalazioni e nei vari obblighi connessi all’attività professionale dell’intermediario; adempimenti unicamente finalizzati all’ausilio dell’amministrazione della giustizia ed alla preservazione della stabilità ed integrità dei mercati bancari e finanziari. A differenza di altre legislazioni che garantiscono l’adempimento dell’obbligo di segnalazione col ricorso alla sanzione penale, l’omessa segnalazione di un’operazione sospetta è punita dall’art. 5 comma 5o della legge n. 197/91 con una sanzione amministrativa. La scelta dell’illecito amministrativo si presenta dotata di razionalità, conforme ai criteri di riparto fra illecito penale ed amministrativo e quindi in linea coi principi di sussidiarietà e di proporzione nell’intervento penale (94). Invero, lungo quest’ultimo versante, essa appare sufficien(92) Per una radicale contestazione delle convenzioni di cooperazione, per definizione prive di natura etica, v. BARRY, Teorie della giustizia, trad. it., Milano, 1998. Peraltro, neppure l’analisi economica del diritto è esente da obiezioni di analogo tenore, giacché essa esclude dalla propria piattaforma epistemologica ogni considerazione attinente al concetto di « giustizia ». Per tutti, MATTEI, Fatto e valore. Il paradosso ermeneutico dell’analisi economica del diritto, in AA.VV., Diritto, giustizia e interpretazione, a cura di Derrida e Vattimo, Bari, 1998, 165 s. (93) In tale direzione cfr. pure EUSEBI, Dibattiti sulle teorie della pena e « mediazione », in questa Rivista, 1997, spec. 822 s., ove mette in luce l’esigenza che il contesto sociale sia consapevole e disponibile ad assumere gli oneri della corresponsabilizzazione sociale alla genesi del reato. Nella medesima prospettiva altresì v. NAEGELI, Il male e il diritto penale, in AA.VV., La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, a cura di Eusebi, Milano, 1989, 57 s. (94) Per un diverso ordine di idee, v. BRICOLA, Commento all’art. 30 della legge 19/3/1990 n. 55, in Legisl. pen., 1991, 554, il quale giudica questa scelta a dir poco singolare, sol che si consideri la notevole capacità offensiva che la condotta di omessa segnalazione denota circa l’accertamento dell’illecita provenienza. In chiave critica, cfr. altresì BARBIERA-CONTENTO, Lotta al riciclaggio del denaro sporco, Milano, 1991, 177; VALIGNANI, La segnalazione di operazioni sospette, cit., 332; MAMBRIANI, Riciclaggio e segnalazioni di operazioni sospette, cit., 469-70, che propende per la prefigurazione di una fattispecie contravvenzionale di agevolazione colposa.
— 1131 — temente dissuasiva in quanto l’ammontare della sanzione pecuniaria è proporzionale al valore dell’operazione. Lungo il piano segnato dalla sussidiarietà, l’omessa segnalazione è punita con la sanzione amministrativa « salvo che il fatto costituisca reato ». La clausola di riserva, dunque, individua un equilibrato spartiacque fra i due piani dell’illecito penale ed amministrativo: solo ove ricorrano gli ulteriori elementi di cui all’art. 648-bis c.p. — ed in particolare la consapevolezza dell’illecita provenienza — l’omessa segnalazione configura una responsabilità penale in capo all’operatore o all’intermediario obbligato. In dottrina si è suggerito, de iure condendo, di incardinare l’obbligo di segnalazione in seno ad una fattispecie incriminatrice appositamente strutturata lungo lo schema del « reato d’obbligo » (95). Tuttavia, al di là degli indiscussi obiettivi di razionalizzazione che questa proposta persegue, rimangono inevase delle perplessità sotto il profilo del rispetto del principio di legalità. Innanzi tutto, occorre scontare un deficit sul piano della sufficiente determinatezza: come l’esperienza comparativa attesta, le disposizioni che prevedono l’obbligo di denuncia e quindi i sintomi o le situazioni di anomalia, non possono essere in alcun modo tassative. L’evoluzione delle tecniche, la fantasia degli operatori, il continuo sviluppo di nuovi prodotti e servizi finanziari, richiedono una normazione elastica che non opponga segni di rigidità al dinamismo tipico dei professionisti del riciclaggio: una normazione, dunque, necessariamente extrapenale che giunga talvolta, nella sua specificazione di dettaglio, ad elevati livelli di capillarità ed invasività. Ed invero, ciò è quanto accade con la regolamentazione di dettaglio delle Autorità di vigilanza e controllo del settore, le quali contribuiscono a chiarire doveri, poteri, responsabilità, nonché il significato che il singolo operatore deve attribuire a determinate situazioni. Peraltro, una figura criminosa che punisse tout court l’omessa segnalazione, da un canto, dovrebbe inevitabilmente subire un processo di eterointegrazione del precetto, attraverso continui richiami alla disciplina non penale — e soprattutto a quella extralegislativa della Banca d’Italia — con ulteriore svuotamento delle prerogative sottese al principio della riserva di legge (96); dall’altro, tale eterointegrazione del precetto riproporrebbe i noti inconvenienti legati all’errore nell’interpretazione della fonte integratrice, sia essa legale o regolamentare, col prevedibile sconfinamento del giudizio verso atteggiamenti tipicamente colposi (97). Se dunque la prefigurazione de iure condendo di una fattispecie d’obbligo genera delle perplessità, occorre aggiungere che, sul piano del diritto positivo, dalla legislazione complementare sugli obblighi di registrazione, documentazione, identificazione e segnalazione, parrebbero emergere degli spunti che, seppur in maniera caotica ed asistematica, aspirano a porre le basi per la configurazione di una posizione di garanzia a carico degli intermediari e degli operatori bancari: e precisamente quella particolare e controversa posizione il cui contenuto è volto all’impedimento dei fatti illeciti altrui (98). Occorre pertanto valutarne con attenzione la plausibilità, sotto il duplice profilo dogmatico e politico-criminale, atteso che ai dubbi che già connotano questa particolare posizione di garanzia se ne aggiungono di ulteriori, legati al suo presumibile impatto sulle dinamiche dell’economia e dei mercati finanziari. È quindi indispensabile capire, in primo luogo, se sia possibile riscontrare nell’ambito (95) Cfr. MOCCIA, Tendenze autoritarie del sistema penale, cit., 94 s. (96) Per preoccupazioni di analogo tenore v. SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, 109 s. (97) Da ultimo, per una riconsiderazione del problema v. BELFIORE, Contributo alla teoria dell’errore in diritto penale, Torino, 1997, spec. 141 s. (98) In generale, per un convinto ridimensionamento di questa posizione v. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, 193 s. Diversamente, per la valorizzazione degli elementi categoriali di tale figura, sino ad inquadrarla in un tertium genus, cfr. GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obiettiva della fattispecie, Milano, 1983, 327 s.; BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in questa Rivista, 1997, 1365 s.
— 1132 — della disciplina anti-riciclaggio gli elementi qualificanti una norma di comando, il cui oggetto sarebbe l’impedimento del reato altrui; in secondo luogo, se la fattispecie commissiva tipica possa essere legittimamente convertita in una corrispondente ipotesi omissiva. Di recente si è tentato di cogliere gli elementi qualificanti di questa figura. In particolare, occorre che vi sia una specifica e puntuale individuazione del bene protetto (99), onde evitare che la responsabilità penale possa inopinatamente estendersi al mancato impedimento di tutti i possibili reati. Inoltre, è necessario che l’ordinamento riconosca al garante — proprio in tale sua qualità — un potere giuridico di comando, ingerenza e inibizione (100), da far valere — terza caratteristica — nei confronti di categorie determinate di soggetti qualificati (101). La legge n. 197/91 seleziona con estrema cura la posizione di talune categorie di soggetti: innanzi tutto, il personale dipendente ed il titolare dell’attività, e cioè il rappresentante legale dell’ente o un suo delegato; in secondo luogo, i sindaci. All’operatore di servizio spetta infatti il difficile compito di ‘cogliere’ prima facie la reale natura della transazione richiesta. A tal fine non deve svolgere investigazioni ma, valorizzando la propria professionalità, deve coordinare in un unico e preliminare giudizio sia le componenti oggettive dell’operazione — anomalie intrinseche alla transazione — sia, ove possibile, quelle soggettive, relative cioè alla posizione economico-finanziaria del cliente. L’operazione così evidenziata, viene sottoposta ad un’analisi maggiormente approfondita e ponderata da parte del responsabile dell’attività, il quale se la ritiene valida provvede ad inviarla all’Ufficio Italiano Cambi. Solo quest’ultimo è deputato a trasmettere la segnalazione — dopo averne completato l’analisi tecnico-finanziaria, unitamente ad una relazione illustrativa e senza alcun indugio — alla Direzione investigativa antimafia ed al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza; i quali a loro volta, ove emergano rapporti con la criminalità organizzata ne informano il Procuratore nazionale antimafia. La legge n. 197/91, ed in particolare l’art. 3, si sforza di determinare i poteri necessari per l’esigibilità dell’obbligo giuridico: il comma 6o grava gli intermediari del dovere di adottare tutte quelle misure idonee a non pregiudicare il corso di eventuali indagini; il comma 8o impone loro il dovere di adottare le procedure adeguate al fine di prevenirne il coinvolgimento in operazioni di riciclaggio, sia potenziando il sistema dei controlli sia utilizzando appositi programmi di addestramento del personale dipendente. Il contenuto di tale fattispecie sembra evocare un richiamo ben noto e collaudato in giurisprudenza: la posizione di cui all’art. 2392, comma 2o c.c. per gli amministratori di società, finalizzata all’impedimento di reati societari (102). Sulla medesima lunghezza d’onda, infatti, il dovere di vigilanza sull’attività, il dovere di adottare programmi, procedure e controlli interni, unitamente a tutte le altre disposizioni emergenti dalla legislazione sui mercati finanziari e bancari, sembrano attestare la sussistenza di un obbligo giuridico che, seppur venga colto in una pluralità di momenti, si rivela unitario (103). (99) In proposito, RISICATO, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo. Genesi e soluzione di un equivoco, in questa Rivista, 1995, 1282. (100) Cfr. GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 291 e 329. (101) ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, sub Art. 40/71. (102) In proposito, MARINUCCI-ROMANO M., Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in AA.VV., Il diritto penale delle società commerciali, a cura di Nuvolone, Milano, 1971, 111; PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. soc., 1962, 284 s.; CRESPI, Reato plurisoggettivo e amministrazione pluripersonale delle società per azioni, in questa Rivista, 1957, 542. Più recentemente cfr. MUSCO, La società per azioni nella disciplina penalistica, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, XI, Torino, 1994, 233 s.; ALESSANDRI, I reati societari: prospettive di rafforzamento, cit., 501 s.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 338 s. (103) Si veda pure l’art. 6, lett. h) della legge n. 1/1991 sulle S.i.m., il quale pre-
— 1133 — In particolare, gli intermediari non debbono limitarsi ad astenersi dal compiere talune transazioni, ma è loro richiesta un’ulteriore attività a carattere positivo: attivarsi per predisporre le apposite procedure interne, con cui fissare adeguati standard di prevenzione e sicurezza. Nell’ambito di queste misure, l’intermediario è tenuto a formare il personale e selezionare il soggetto responsabile per l’attuazione della specifica procedura — all’interno della quale, ad esempio, si stabiliscono le cautele e gli strumenti da utilizzare innanzi ad un cliente sospetto, nell’immediatezza della richiesta di transazione — predisponendo così tutte le cure necessarie per neutralizzare il possibile coinvolgimento in fatti di riciclaggio. Altra potenziale categoria di garanti, come accennato, è il collegio sindacale (104). L’art. 10 della legge n. 197/91 — riformulato dall’art. 156 del testo unico bancario — ha imposto ai sindaci l’obbligo di vigilare sull’osservanza delle norme anti-riciclaggio. Peraltro, in linea con quell’orientamento incline a rivitalizzare la funzione sindacale, le Indicazioni operative della Banca d’Italia ne arricchiscono ulteriormente la piattaforma di doveri e responsabilità: « predisporre programmi di accertamento e specifiche tecniche di riscontro per verificare l’osservanza della normativa antiriciclaggio, e, in particolare dell’art. 3; oggetto di controllo sarà anche la rispondenza delle misure organizzative adottate, con specifico riferimento all’adeguatezza delle procedure interne e alla formazione del personale ». I poteri di controllo e vigilanza, dunque, sono calibrati in una logica di corrispondenza con quelli attribuiti agli intermediari — sottoposti al controllo —, coprendo in effetti quelle porzioni di attività la cui attuazione è rimessa di volta in volta al responsabile della dipendenza o al titolare dell’attività. Se così è, sembra allora plausibile non nutrire dubbi sulla significativa funzionalizzazione del ruolo e dei poteri del collegio sindacale nell’ottica del contrasto al riciclaggio. Stupisce, anzi, l’attribuzione di poteri così penetranti, giacché ai sindaci viene chiesta una valutazione ‘a tutto tondo’ dei programmi di prevenzione, delle strutture e del personale impegnati. Le categorie soggettive indicate sono pertanto chiamate a svolgere ciascuna un ruolo ben preciso nelle procedure anti-riciclaggio, e proprio a tal fine la legge fornisce loro significativi poteri giuridici (105). Si tratta di poteri che, a ben vedere, si esplicano lungo dinamiche bilaterali: l’operatore nei confronti del cliente; il titolare dell’attività, il rappresentante legale o comunque altro soggetto delegato ad hoc, nei confronti del responsabile della dipendenza o della filiale o del servizio; infine, i sindaci nei confronti del titolare dell’attività e del responsabile dei programmi anti-riciclaggio. Entrambi i soggetti della relazione risultano poi avvinti da un unico legame col bene tutelato. L’obbligo di garanzia in questione corrisponde infatti ad istanze di protezione determinate, le quali si riflettono in altrettante specifiche relazioni fra il garante e quel nutrito fascio di interessi tutelati dall’art. 648-bis c.p. (106). scrive l’adozione di apposite procedure e programmi al fine di consentire alla società il controllo interno sulla propria attività. (104) Categoria sulla quale, come è noto, insiste ordinariamente una posizione di garanzia ex artt. 2403 e 2407 c.c., per l’impedimento dei reati societari. Al riguardo, MUSCO, La società per azioni nella disciplina penalistica, cit., 472 s.; STELLA-PULITANÒ, La responsabilità penale dei sindaci di società per azioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 555; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 357 s. (105) Un accenno merita la legge 12 agosto 1993 n. 310, la quale (art. 7) impone ai notai, i quali ricevano atti o autentichino scritture aventi ad oggetto il trasferimento di terreni o di esercizi commerciali, nonché ai segretari comunali (art. 8), i quali rilascino autorizzazioni all’esercizio o al trasferimento della gestione o della titolarità di attività ed imprese commerciali, l’obbligo di comunicare al Questore i dati relativi a tali atti qualora sospettino l’elusione delle disposizioni di cui all’art. 12-quinquies della legge n. 356/1992. (106) Sulla necessaria sussistenza di tali relazioni all’interno della posizione di garanzia la dottrina è pressoché unanime, v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., Bologna, 1995, 550; ROMANO M., Commentario sistematico, cit., 360; MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, 197; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 258; FIANDACA, Il reato commissivo, cit., 195.
— 1134 — All’interno di tali relazioni dinamiche, tuttavia, le situazioni di potere solo in parte riescono a porre un soggetto nelle condizioni necessarie per interferire lecitamente — attraverso un potere di comando/impedimento — sulla condotta di un terzo. Invero, la posizione di garanzia postula che le possibilità giuridiche di intervento del garante debbano indefettibilmente esplicarsi in un momento logico temporale antecedente alla commissione del reato. Ebbene, sostenere che tale possibilità rientri nel novero degli strumenti riconosciuti a quest’ipotetica categoria di garanti costituirebbe senz’altro un azzardo, atteso che risulta difficile riscontrare, dall’esame della legislazione, un siffatto potere giuridico. Per vero, gli unici mezzi di intervento — a parte l’accurata selezione del personale e i correlativi programmi di formazione — risiedono nell’adozione di un codice di comportamento interno che rispecchi e sviluppi le Indicazioni operative fornite dalla Banca d’Italia, ed a cui corrisponde l’individuazione di un soggetto responsabile per la sua attuazione; nonché nella predisposizione di adeguati modelli di comportamento atti a ‘riconoscere’, nell’indistinta neutralità delle transazioni, i fatti di riciclaggio da porre sotto osservazione. Se il programma di prevenzione si incentra su un ‘sistema verticale di comunicazione’, dall’operatore al responsabile della dipendenza o dell’attività sino ai sindaci, è chiaro che la responsabilità penale di questi ultimi — i potenziali garanti — non possa accontentarsi del mancato rispetto delle procedure adottate. Ed in effetti, laddove il filtro posto alla base della struttura aziendale non funzioni adeguatamente, si rischia di far dipendere il giudizio di responsabilità penale dei titolari dei ruoli di vertice da un processo ascrittivo fondato sulla mera posizione più che sull’effettiva sfera di controllo. Un modello di responsabilità di segno oggettivo quindi, in cui la colpevolezza sfuma sino a far coincidere tout court il rischio penale col rischio d’impresa. Le disposizioni che impongono tali comportamenti rivelano appieno la natura di regole di diligenza, a carattere squisitamente preventivo-precauzionale. Ed invero, s’è già visto come il fondamento della piattaforma di obblighi prevista per gli intermediari sia rinvenibile nei medesimi principi di prudenza e professionalità che connotano l’attività finanziaria. Il complesso di regole che la legislazione extrapenale provvede a dettare è pertanto finalizzato a costituire il tessuto connettivo della misura della diligenza e dell’impegno che l’ordinamento impone agli intermediari. Questi comportamenti, ad una valutazione pre-normativa, appaiono solo formalmente idonei a scongiurare il pericolo di consapevoli coinvolgimenti delle istituzioni bancarie e finanziarie in operazioni di riciclaggio. Infatti, il rimprovero che l’ordinamento intende muovere al responsabile della dipendenza, al titolare dell’attività nonché al sindaco, sembra innestarsi su un giudizio tipicamente colposo: non aver rispettato lo standard di diligenza imposto. Ma anche tale giudizio sembra rispecchiare un modello di imputazione più formale che sostanziale, poiché la colpa andrebbe giocoforza ancorata sull’inadeguatezza delle misure preventive adottate (107). Al di là di tale valutazione, dunque, non sembra possibile rintracciare una possibilità di intervento dell’ipotetico garante al di fuori dell’estremo segnato dall’avvenuta segnalazione interna effettuata dal funzionario addetto alla transazione. Ragioni sia dogmatiche che politico-criminali suggeriscono piuttosto di mantener ben saldo l’ambito della responsabilità penale esclusivamente sui comportamenti connotati dal dolo. Breve. Sia l’attività creditizia che quella finanziaria costituiscono lo snodo obbligato del riciclaggio dei capitali prodotti dalla criminalità organizzata. Da questo punto di vista, quindi, si tratta di attività che possono ben definirsi ‘a rischio’, e la cui componente pericolosa va in qualche modo neutralizzata. La soluzione prescelta è quella della finalizzazione di taluni poteri e capacità, al fine di circoscrivere la ‘fonte di pericolo’ insita nell’uso di tali strumenti a vantaggio di interessi superiori. Al mancato esercizio di essi si vorrebbe reagire (107) In chiave problematica, seppur in un contesto generale, v. le riflessioni di GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in questa Rivista, 1999, spec. 114; PALAZZO, Riflettendo su trasformazioni e proiezioni del diritto penale degli anni novanta, in AA.VV., Il diritto penale alla svolta di fine millennio, cit., 105.
— 1135 — ricorrendo alla pena. È ben vero che non sono mancati contributi dottrinali atti a sostenere come, in campi in cui emerge il paradigma del rischio d’attività, il rilievo penale di una condotta dolosa potrebbe incentrarsi, più che sulla volontà del fatto lesivo, sulla materiale inosservanza di regole cautelari finalizzate ad abbassare la carica di pericolosità entro soglie accettabili (108). Un’eventuale estensione della responsabilità penale su piani diversi rispetto a quelli insiti in una chiara cognizione del significato dell’operazione, rischierebbe però di sacrificare del tutto l’interesse socio-economico allo svolgimento dell’attività di intermediazione finanziaria e creditizia, quale fattore positivo che deve controbilanciare quello di segno opposto, individuato nel pericolo di strumentalizzazione delle relative istituzioni per fini di riciclaggio (109). Infatti, l’esercizio dell’attività utile ma pericolosa può scivolare nell’ambito della reazione penale solo nella misura in cui l’intermediario ne elevi consapevolmente il grado di rischio oltre la soglia consentita, sfruttando per un vantaggio particolare — personale o di terzi — le proprie conoscenze ed abilità professionali al fine di riciclare capitali illeciti. Ciò presuppone però un grado di consapevolezza incompatibile sia con la colpa che col dolo eventuale. Anzi, non v’è dubbio che il ricorso a quest’ultimo finirebbe, stante la neutralità oggettiva delle transazioni bancarie e finanziarie, col far dipendere il giudizio di responsabilità da un accertamento dell’elemento psicologico pressoché formale, adagiato sull’adozione di schemi presuntivi, atto a nascondere la realtà di un’imputazione prettamente obiettiva. Del resto se così non fosse, riuscirebbe difficile distinguere il piano della mera inosservanza dell’obbligo di segnalazione, per il quale l’art. 5 comma 5o della legge n. 197/91 prevede una sanzione amministrativa, e quello della responsabilità penale cui fa pur riferimento la medesima disposizione extrapenale attraverso la clausola di esclusione. Tant’è che fra i due versanti di imputazione deve senz’altro risaltare la fondamentale differenza relativa al grado di consapevolezza dell’intermediario: l’indizio infatti può razionalmente porsi come coerente spartiacque fra l’illecito amministrativo e quello penale solo nella misura in cui il parametro psicologico di quest’ultimo non sia il dolo eventuale. Ad una progressione del coefficiente di consapevolezza corrisponde dunque una progressione della risposta sanzionatoria. Per vero, il fatto che il legislatore abbia previsto una sanzione di natura non penale risulta sintomatico di un atteggiamento politico-criminale volto ad attribuire differenti livelli di disvalore lungo l’arco segnato da un coefficiente psicologico che, ragionevolmente, non può che essere quello del dolo diretto. In un diritto penale del fatto che voglia mantenersi ancorato al principio di colpevolezza, quale limite garantistico alle istanze politico criminali orientate alla prevenzione, la neutralità delle transazioni postula l’assoluta necessità che il rimprovero penale sia legato ad un atteggiamento psicologico effettivo — soprattutto nella sua componente conoscitiva — che si innesti su una situazione tipica ben chiara, cui corrisponda altrettanta nitidezza di contorni e contenuti della norma fonte della posizione di garanzia. Consentire che la responsabilità penale per riciclaggio si accompagni a coefficienti psicologici inferiori, quali la colpa o il dolo eventuale, come pur avviene in taluni ordinamenti, equivarrebbe ad alterare il rapporto necessariamente antagonistico tra il principio di colpevolezza e la prevenzione generale, sminuendo la funzione liberalgarantista del primo. In definitiva, l’attuale fisionomia dei poteri giuridici di comando ed impedimento non sembra tale da poter reggere il peso dogmatico di una posizione di garanzia volta all’impedimento di reati altrui. Ciò posto, occorre adesso valutare il problema sotto il profilo della compatibilità della clausola di equivalenza e del relativo procedimento di conversione, in relazione alle caratteristiche dell’art. 648-bis c.p. (108) Al riguardo, cfr. PREUSS, Untersuchungen zum erlaubten Risiko im Strafrecht, Berlin, 1974, 213 s.; MAIWALD, Zur Leistungsfähigkeit des Begriffs « erlaubtes Risikos » für die Strafrechtssystematik, in FS H.H. Jescheck, Berlin, 1985, 422. (109) In generale, su tale bilanciamento, per tutti v. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, 235.
— 1136 — Al riguardo, l’essenziale nodo da sciogliere è quello relativo alla struttura del delitto di riciclaggio, se esso cioè sia imperniato su un evento naturalistico o se al contrario si tratti di un reato di mera condotta. La fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p. è articolata su tre poli: « sostituzione », « trasferimento » ed « altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa » del bene o del denaro. Le prime due modalità non presentano alcuna difficoltà esegetica. La « sostituzione » è forse la più classica fra le condotte di riciclaggio, ed ha un sostrato sia materiale che giuridico dal contenuto sufficientemente definito (110). La seconda condotta, introdotta con l’ultima riformulazione del reato ad opera della legge n. 328/93, onde evitare scontate sovrapposizioni con quella di sostituzione, va intesa in un senso più ampio rispetto al semplice acquisto o alla mera ricezione: « trasferisce » vuol indicare l’avvenuto spostamento della titolarità o della disponibilità del denaro fra due o più persone, fisiche o giuridiche (111). Per quel che concerne la terza modalità di condotta, occorre precisare che la connotazione finalistica, pur testualmente formulata in relazione alle « altre operazioni », si estende anche alla « sostituzione » ed al « trasferimento » esprimendo dunque il disvalore dell’intera fattispecie (112). L’ostacolo alla ricostruzione della traccia cartacea in effetti rappresenta sul piano economico la finalità intrinseca ed indefettibile di ogni operazione di laundering. Per tal via, oltre a cogliersi l’essenza del riciclaggio, si rende la norma più aderente al principio di offensività poiché la punibilità viene ad essere ancorata alla concreta idoneità di una singola condotta ad impedire la puntuale ricostruzione della pista delittuosa che i capitali ‘sporchi’ lasciano dietro di sé (l’Achillesferse della criminalità organizzata). Per l’appunto, non si tratta di un elemento che, nell’economia della fattispecie, risolve il proprio ruolo lungo il versante della tipicità soggettiva; al contrario, esso vuole esprimere « l’esigenza ... di una idoneità lesiva del fatto, da apprezzarsi sul piano dell’ostacolo all’accertamento della provenienza » (113). Tale dato, inoltre, stempera l’autonomia delle condotte di sostituzione e trasformazione, attribuendo loro un significato pregnante sul piano dell’offesa altrimenti ca(110)
Per l’analisi di questa condotta, già sotto la precedente fattispecie v. MAZZAs. Per la giurisprudenza cfr. Trib. Siracusa, 16 dicembre 1994, in Giust. pen., 1995, II, 233. (111) La norma va a tal riguardo coordinata col delitto di cui all’art. 12-quinquies (trasferimento fraudolento di valori) previsto dal d.l. n. 306/1992 e conv. con la legge n. 356/1992. Questa disposizione incrimina, qualora il fatto non costituisca più grave reato, chiunque attribuisca a terzi fittiziamente la titolarità o la disponibilità di beni, denaro o altre utilità al fine di eludere l’applicazione delle norme in materia di misure di prevenzione patrimoniale, di contrabbando o di agevolare la realizzazione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p. Difficilmente tale disposizione speciale riuscirà a trovare uno spazio operativo proprio, in quanto laddove vi sia un fenomeno di intestazione fittizia della titolarità di beni finalizzata all’elusione delle norme indicate, prevale il più grave reato di riciclaggio. Pertanto, l’art. 12-quinquies potrebbe trovare un ambito residuale in quei casi in cui, per altri limiti, non sia possibile ricorrere all’art. 648-bis c.p.: nell’ipotesi in cui l’intestazione fittizia sia realizzata dall’autore del delitto presupposto, che in tal caso non è punibile per riciclaggio, stante il c.d. privilegio di auto-riciclaggio; nonché, nell’ipotesi in cui l’intestazione fittizia abbia ad oggetto beni o valori di cui l’agente non abbia la consapevolezza della delittuosa provenienza. In proposito, MARINI, Trasferimento e possesso ingiustificato di valori, in AA.VV., Il riciclaggio di denaro nella legislazione civile e penale, cit., 231 s.; MUCCIARELLI, Commento all’art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Legisl. pen., 1993, 158 s.; ROSSI VANNINI, Il riciclaggio: doveri e responsabilità del professionista, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 1305 s. (112) Per la valorizzazione di tale connotazione finalistica v. Cass., 1 ottobre 1996, in Foro it., 1998, II, 116. Contra, seppur sotto la vigenza della precedente formulazione del reato, v. Cass., 29 marzo 1993, in Cass. pen., 1994, 3008, per la quale la condotta di ostacolo costituisce una distinta ed autonoma modalità di realizzazione. (113) SEMINARA, L’impresa e il mercato, cit., p. 523; nello stesso senso già FIANDACAMUSCO, Diritto penale, p. spec., cit., 239. CUVA, Commento, cit., 506
— 1137 — rente. L’accertamento della idoneità ad ostacolare l’identificazione, quindi, ‘qualifica’ operazioni altrimenti neutre e prive di ogni lesività. Tale requisito, esprimendo il globale disvalore del fatto, svolge allora l’importante ruolo di selettore della punibilità (114). La collocazione sistematica di primario rilievo attribuita all’elemento dell’ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa, potrebbe forse schiudere la possibilità di inquadrare l’art. 648-bis c.p. nell’alveo dei reati d’evento: non sarebbe infatti priva di plausibilità la valutazione del pericolo concreto — per l’occultamento dell’origine del bene — quale evento materiale del delitto di riciclaggio (115). Ciò nondimeno, l’espressione linguistica adottata dal legislatore del ’93 — « in modo da ostacolare » — più che un risultato, seppur di pericolo, sembra esprimere un’attitudine offensiva della condotta per tal verso difficilmente compatibile con una lettura in termini di ‘evento’. Inoltre, la previsione di modalità di realizzazione del reato quali la « sostituzione » ed il « trasferimento », sia che rappresentino delle « complesse modalità naturalistiche » di verificazione della lesione, sia che configurino delle mere « espressioni normative » descrittive del fatto tipico, sembrano tradursi in un vincolo di condotta (116). L’assenza di una forma libera nella commissione del reato, dunque, renderebbe quest’ultimo insuscettibile di conversione ex art. 40 cpv. c.p. (117). Né tantomeno, il limite della fattispecie « causale pura » sembra agevolmente superabile sostenendo che, in sede di realizzazione concorsuale del reato, l’« evento non impedito » di cui all’art. 40 comma 2o c.p. si risolverebbe nel mero « reato » di cui all’art. 110 c.p. senza incontrare quei medesimi limiti presenti in caso di realizzazione monosoggettiva (118). Al di là delle specifiche obiezioni di ordine squisitamente dogmatico cui essa non sembra sottrarsi (119), appare fortemente discutibile che in un settore così delicato — qual è quello dei mercati ban(114) L’inidoneità in concreto di una certa transazione ad ostacolare l’identificazione dell’origine illecita del denaro, ovviamente, se esclude l’applicabilità dell’art. 648-bis c.p. non impedisce di per sé la possibilità di far ricorso ad altre fattispecie penali (ricettazione, incauto acquisto o favoreggiamento). (115) In generale, sulla configurabilità del pericolo concreto in termini di evento naturalistico, v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., cit., 192. (116) Sottolinea con efficacia l’impossibilità giuridica di pervenire ad un giudizio di equivalenza in relazione a delitti il cui fatto tipico è segnato da « complesse modalità naturalistiche » o descritto da « espressioni normative », SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, cit., 113. (117) La dottrina prevalente infatti circoscrive l’ammissibilità del delitto commissivo mediante omissione alle sole fattispecie causali pure, in cui cioè « la carica di disvalore si concentra tutta nella produzione del risultato lesivo, mentre appaiono indifferenti le specifiche modalità comportamentali che innescano il processo causale », così FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., cit., 536-37; analogamente v. ROMANO M., Commentario sistematico, cit., sub Art. 40/53; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 137; SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, cit., 108 s. In seno a quest’orientamento, una posizione ancor più restrittiva è assunta da FIANDACA, Il reato commissivo, cit., 45, il quale limita ulteriormente la portata dell’art. 40, comma 2o c.p. all’impedimento dei soli eventi lesivi della vita o dell’incolumità personale o pubblica. (118) Così invece GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 140 s.; ID., in ROMANO M.-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1990, sub Art. 110/73; ma già, VINCIGUERRA, Sulla partecipazione atipica mediante omissione a reato proprio, in questa Rivista, 1967, 310. Adottando l’orientamento in parola, dunque, la posizione di garanzia in esame conserverebbe la propria plausibilità, anche laddove l’art. 648-bis c.p. fosse privo di evento. Infatti, la combinazione fra l’art. 110 c.p. e l’art. 40 cpv. c.p., non farebbe venir meno la duplice funzione di disciplina e di incriminazione svolta dall’istituto concorsuale, e consentirebbe per tal modo di estendere la responsabilità penale ex art. 648-bis c.p., oltre che all’autore dell’operazione, anche all’operatore finanziario o al responsabile dell’attività — nonché eventualmente ai sindaci, nei limiti del mancato esercizio delle relative funzioni — a titolo di concorso mediante omissione e cioè nella qualità di compartecipi nel reato non causale puro. (119) Per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. gen., cit., 538; RISICATO, La par-
— 1138 — cari e finanziari, in cui l’intervento normativo è chiamato a complesse valutazioni di bilanciamento atte a soppesare costi e vantaggi di ogni regola — sia l’interprete a dover farsi carico di un’opzione politico-criminale volta ad un’incontrollabile estensione della penalità. 9. Il predicate crime e il riciclaggio: il problematico divieto della ‘doppia punibilità’ nei delitti di criminalità organizzata. — Il legislatore italiano, con un scelta confermata anche nelle successive versioni dell’art. 648-bis c.p., ha previsto sia nella fattispecie di riciclaggio, sia in quella di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita di cui all’art. 648ter c.p., l’inciso « fuori dei casi di concorso nel reato » (120), col quale si esclude la c.d. ‘doppia punibilità’ per il predicate crime e il riciclaggio commessi entrambi dal medesimo soggetto (121). Questa formula rappresenta in realtà un elemento di continuità con i delitti di ricettazione e favoreggiamento, nei quali il privilegio dell’esclusione del concorso col reato presupposto costituisce una costante strutturale (122). Pur sorvolando sulle improprietà tecniche insite nell’espressione codificata (123), l’opzione politico-criminale recepita rimane fedele a quella consolidata tradizione dogmatica che esclude il concorso, qualificando la condotta di ricettazione — e quindi anche quella di riciclaggio — quale mero post-factum non punibile rispetto al reato base, che verrebbe in tal modo ad assorbire l’intero disvalore di un comportamento finalisticamente unitario. Le fattispecie in esame presentano ulteriori difficoltà di coordinamento nelle ipotesi in cui il riciclaggio si ponga quale momento strutturale di un’organizzazione criminale. Al riguardo, la legge n. 328/93, nel riformulare gli attuali artt. 648-bis e 648-ter c.p., ha eliminato il problematico elenco dei reati-presupposto (rapina aggravata, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione, delitti concernenti la produzione o il traffico di stupefacenti e sostanze psicotrope), sostituendolo con un’espressione volutamente generica ed aperta: il « delitto non colposo » per il primo e, addirittura, il mero « delitto » per il secondo. tecipazione mediante omissione, cit., 1289 s.; BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui, cit., 1378 s. (120) In relazione a tal ultimo delitto, la formula di esclusione è ancora più netta in quanto, oltre a non essere consentito il concorso col predicate crime — analogamente all’art. 648-bis c.p. — è espressamente esclusa la punibilità ex art. 648-ter c.p. in tutti quei casi in cui siano applicabili gli artt. 648 e 648-bis c.p. Il che, considerando come sia sulla ricettazione che sull’impiego di beni di provenienza illecita prevalga sempre il riciclaggio, a conti fatti implica la concreta inapplicabilità di questo nuovo delitto, la cui funzione reale si apprezza allora sul piano « simbolico ». Per un tentativo di razionalizzazione di tale duplicazione di titoli di reato, MOCCIA, Impiego di capitali illeciti e riciclaggio, cit., 743 s. Di recente, sul punto cfr. MORGANTE, Riflessioni su taluni profili problematici dei rapporti tra fattispecie aventi ad oggetto operazioni su denaro o beni di provenienza illecita, in Cass. pen., 1998, 2500 s.; TOSCHI, Gli artt. 648-bis e ter c.p.: repressione vera o apparente?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, 787 s., nota a Trib. Busto Arsizio, 12 aprile 1994, ivi. (121) In termini esattamente opposti si orientano le legislazioni nordamericana (§ 1956, lett. d, 18 U.S.C.), britannica (art. 93C, Criminal Justice Act 1988) ed australiana (sec. 82, Proceeds of Crime Act 1987). (122) In generale, sui problemi posti dal concorso di norme, MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme in diritto penale, Padova, 1966; DE FRANCESCO G.A., Lex specialis, Milano, 1980; più da recente ROMANO B., Il rapporto tra norme penali. Intertemporalità, spazialità, coesistenza, Milano, 1996. (123) A tacer d’altro, basti considerare il difettoso coordinamento linguistico fra il « reato » presupposto del quale si esclude il concorso ed il « delitto non colposo » o il semplice « delitto » da cui, rispettivamente, provengono i beni oggetto di riciclaggio o di reimpiego in attività finanziarie: laddove l’espressione « reato », nella sua ambivalenza fra delitto e contravvenzione, ha poco senso atteso che per definizione il denaro da riciclare deve provenire esclusivamente da un « delitto ». Del resto, anche tale problema vale a tradire la comunanza di struttura con la ricettazione, la cui norma presentava già identico difetto di coordinamento. Sul punto, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. spec., cit., 230.
— 1139 — Col che, per un verso, si son voluti risolvere i problemi di natura processuale legati alla probatio diabolica dell’elemento conoscitivo del dolo di riciclaggio (124); ma, per altro verso, si è troncato quel legame caratterizzante con la criminalità organizzata, che, seppur in maniera approssimativa, era insito nella previsione normativa di taluni gravi delitti presupposti. Tuttavia, quest’ultimo profilo può risultare meno incisivo di quanto non sembri: non v’è dubbio infatti che, al di là dell’ampiezza del referente normativo — tale da rendere applicabili gli artt. 648-bis e ter c.p. a fatti di scarso rilievo, fatte salve comunque le diminuenti di cui al terzo comma di entrambi i delitti — il riciclaggio lato sensu di capitali illeciti rimane comunque un problema circoscritto prevalentemente a fenomeni di criminalità organizzata. In questo contesto, le predette clausole di non punibilità interagiscono in termini problematici con i delitti associazione per delinquere, sia essa semplice o di tipo mafioso (125). Siffatta interazione avviene però secondo modalità differenti legate alle caratteristiche strutturali dei due delitti associativi. È quindi opportuno analizzarne i risvolti avendo cura di distinguere i diversi piani tematici. Dando voce all’esperienza maturata nel corso delle indagini patrimoniali nei confronti dei membri delle associazioni a delinquere di tipo mafioso, emerge una fenomenologia caratterizzata dalla significativa presenza di « imprese paravento »: aziende, nell’economia mafiosa, finalizzate al lavaggio dei capitali illeciti prodotti da altre strutture operative criminali ed al loro impiego nei settori dell’economia lecita (126). Gli alti volumi di reddito illegalmente prodotto, infatti, impongono necessariamente l’attivazione di circuiti economici da utilizzare per fini di riciclaggio, autonomi e paralleli rispetto ai canali ufficiali rappresentati dalle istituzioni finanziarie. Quest’aspetto attiene ormai alla ‘fisiologia’ delle organizzazioni criminali, le quali possono ben dirsi riciclatori necessitati. Nella gestione di siffatte unità, spesso, si esaurisce e risolve il contributo organizzativo fornito dai soggetti a ciò deputati. Tale ruolo, per ovvie ragioni, viene per lo più svolto da ‘prestanome’ o da individui compia(124) Cfr. INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna, 1996, 148. Invero, di tale problema si è principalmente dovuta far carico la giurisprudenza, giungendo talvolta a ritenere che «pur non essendo necessario, con riguardo ai delitti presupposti, che questi siano specificamente individuati e accertati» sia sufficiente la mera astratta configurabilità, desumibile però da elementi di fatto e non da sospetti: Cass., 23 settembre 1997, in Cass. pen., 1998, 2621. Altre volte, si è ritenuto sufficiente un livello probatorio di tipo indiziari connotato però dalla gravità e univocità, così Cass., 6 aprile 1995, in Giust. pen., 1996, II, 317. (125) Su tale problema v. MUSCATIELLO, Associazione per delinquere e riciclaggio: funzioni e limiti della clausola di riserva, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, 97 s. Sull’associazione di tipo mafioso e sulla problematica compatibilità di tale modello criminoso con i principi che reggono la materia penalistica, per tutti, BRICOLA, Commento alla legge 13 settembre 1982 n. 646 (norme « antimafia »), in Legisl. pen., 1983, 237 s.; nonché, per il ‘punto di vista’ del processualista, ORLANDI, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell’inquisitio generalis?, in questa Rivista, 1996, 570 s. (126) In particolare, per quel che riguarda da vicino la criminalità mafiosa, questa tipologia d’impresa si caratterizza per la semplicità della struttura aziendale ed il basso livello tecnologico della dotazione. In fondo, ciò è connaturato all’assenza di abilità e strategie imprenditoriali di elevato livello in seno alle organizzazioni mafiose. Il che vale a spiegare, nell’ottica del riciclaggio, la predilezione per le organizzazioni mafiose di quelle attività commerciali o finanziarie a basso tasso tecnologico che però consentono un continuo flusso di cassa: esercizi di vendita al dettaglio o all’ingrosso, società finanziarie, ristorazione ed intrattenimento appaiono sicuramente quelli maggiormente consoni a tale scopo. Sovente, le medesime attività risultano utilizzate quale paravento per l’esercizio dell’usura, i cui proventi vengono così ripuliti e reimmessi in parte nell’economia legale ed in parte in quella illegale. Per approfondimenti v. CATANZARO, Impresa mafiosa, economia e sistemi di regolazione sociale: appunti sul caso siciliano, in AA.VV., La legge antimafia tre anni dopo, a cura di Fiandaca e Costantino, Milano, 1986, spec. 180 s.; BECCHI-REY, L’economia criminale, cit., 91 s., ove si puntualizza correttamente come la criminalità mafiosa sia tuttora ancorata ad una visione economica in cui prevale lo ‘stadio predatorio’ su quello professionale.
— 1140 — centi, i quali, per quel che concerne più in particolare l’associazione denominata ‘Cosa Nostra’, solo raramente sono affiliati o partecipano ad altre attività criminali del gruppo (127). Il problema posto dal privilegio dell’autoriciclaggio è allora evidente. Infatti, se il denaro da riciclare — per tramite dell’impresa paravento — proviene direttamente dal delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso oppure dalla innumerevole gamma dei delitti-scopo, ovvero ancora da ogni altro delitto commesso da un suo membro, nonché da quelli realizzati avvalendosi di essa o al fine di agevolarne l’attività (128), la sfera di applicabilità degli artt. 648-bis o ter c.p. tende a ridursi a vantaggio del reato associativo. Invero, la questione prioritaria risiede nella qualificazione giuridica della condotta del gestore dell’impresa paravento: se cioè sia possibile ricondurla all’art. 416-bis c.p., ovvero se difettandone le condizioni essenziali debba farsi ricorso ai delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p. A ben vedere, laddove il contributo da questi fornito risulti apprezzabile nell’economia del delitto associativo, ne discende la non punibilità a titolo di riciclaggio o di reimpiego in attività lecite. Questa conclusione s’impone per un duplice ordine di ragioni: per un verso, la giurisprudenza attribuisce a tale ruolo la qualifica di « organizzatore » dell’associazione (129); per altro verso, occorre fare i conti con la previsione della circostanza aggravante c.d. ‘del riciclaggio’ prevista dal 6o comma dell’art. 416-bis c.p. Il contenuto di quest’ultima infatti riproduce sostanzialmente una situazione analoga a quella delineata dall’art. 648-ter c.p., con l’ulteriore particolarità della indifferenza circa la fonte di produzione — se il delitto associativo, i delitti-scopo, od ogni altro delitto — delle risorse destinate al finanziamento delle attività economiche controllate o gestite dall’organizzazione criminale. Queste considerazioni inducono a ritenere la fattispecie associativa circostanziata prevalente sull’art. 648-ter c.p.: il conflitto fra le due norme si risolve a favore della prima in quanto esprimente il maggior disvalore penale del fatto. In parte differente è la posizione assunta dall’intermediario finanziario che si presti, dietro vantaggio personale, a fornire i propri servizi per soddisfare le esigenze di riciclaggio delle organizzazioni criminali. Per vero, se un’attività di copertura si può ben dire che rientri nella ‘fisiologia’ dell’associazione criminosa — sicché il paradigma normativo appare essere l’art. 416-bis comma 6o c.p. — non altrettanto agevolmente può così concludersi per l’apporto fornito dall’operatore in questione. Il problema è dato dalla dilatazione politico-crimi(127) Più in particolare, ogni gruppo criminale, o ‘famiglia’ mafiosa, provvede a gestire autonomamente le proprie imprese paravento, avvalendosi di ‘uomini di paglia’ e ricorrendo ad intestazioni fittizie delle quote sociali, secondo un’organizzazione capillare a ‘reticolo diffuso’. Tale caratteristica è una conseguenza sia della ‘conflittualità ciclica’ che contrassegna le relazioni di potere fra gruppi o famiglie differenti, sia della necessità di far fronte egli interventi delle forze dell’ordine. In via esemplificativa, nei primi anni di applicazione della legge n. 646/1982, le 10 imprese paravento attribuite dal Tribunale di Palermo alla famiglia Badalamenti risultavano controllate da due persone, entrambe non affiliate a Cosa Nostra; analogamente, delle 11 imprese paravento ricondotte alla famiglia Bontate, ben 7 risultavano gestite da un unico soggetto, parimenti non affiliato all’organizzazione. Sul punto, SANTINO-LA FIURA, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, Milano, 1990, cit., 248, (tabella 5.1); COSTANTINO, I provvedimenti patrimoniali del tribunale di Palermo: spunti per un’analisi sociologica, in AA.VV., La legge antimafia tre anni dopo, cit., 171 s. (128) L’art. 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, contenente provvedimenti urgenti in materia di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza dell’attività amministrativa, prevede una circostanza aggravante ad effetto speciale i cui presupposti sono la commissione del delitto base « avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale », ovvero « al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo ». Sul tema, DE VERO, La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in questa Rivista, 1997, 42 s. (129) Sia pure in relazione all’associazione per delinquere semplice, ma con un principio invero estensibile anche all’art. 416-bis c.p., v. Cass., 1987/176775, citata da FORTI, Sub Art. 416 c.p., in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi, Stella e Zuccalà, Padova, 1992.
— 1141 — nale e dalla forza attrattiva che contrassegna lo schema del concorso eventuale nell’art. 416bis c.p. Ed infatti, il comportamento del responsabile di una filiale bancaria o di una società di intermediazione finanziaria, se analizzato in rapporto alla valenza che il contributo così fornito assume per il mantenimento e lo sviluppo dell’associazione mafiosa di riferimento — prescindendo per semplicità dalla sua adesione formale all’associazione (130) — pur non ritenendolo afferente alla ‘fisiologia’ dell’organizzazione criminale, e pur sorvolando sulla sua pretesa «infungibilità», si rivela comunque significativo in termini di « consapevole agevolazione » per le finalità o per l’esistenza dell’associazione medesima. Il che, innanzi all’inevitabile elasticità che tuttora caratterizza in giurisprudenza i parametri selettivi del concorso esterno (131), rischia di condurre tali classi di condotte lungo l’orbita dell’associazione mafiosa in virtù dell’art. 110 c.p., col conseguenziale assorbimento dei delitti di riciclaggio nell’ipotesi circostanziata di cui al sesto comma dell’art. 416-bis c.p. (132). I problemi di concorso fra il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso e i delitti di riciclaggio, in realtà, debbono la loro esistenza all’univoca convergenza verso un contesto di criminalità organizzata: quest’ultima infatti non può fare a meno di porsi e risolvere il problema dell’occultamento dell’origine illecita delle ricchezze prodotte e del loro impiego in attività legali. L’acquisizione di siffatta consapevolezza si è risolta, a livello politico-criminale, nella scelta di estendere l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale, oltre che agli indiziati di appartenenza all’art. 416-bis c.p., anche a coloro che sono gravati da indizi relativi agli artt. 648-bis e ter c.p. (133). (130) Pur tuttavia, si noti che l’affiliazione rituale all’associazione mafiosa non costituisce più un criterio vincolante, ma conserva solo un valore indicativo per un giudizio di appartenenza. In giurisprudenza, fra le tante v. Cass., 1 agosto 1994, in Cass. pen., 1995, 542. (131) Per un quadro delle posizioni espresse e per un’analisi dei vari criteri adottati dalla giurisprudenza, cfr. INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragion di Stato e gli inganni della dogmatica, in Foro it., II, 1995, 423 s.; VISCONTI, Il concorso « esterno » nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali, in questa Rivista, 1995, 1329 s.; TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, 327 s. Da ultimo, v. MUSCATIELLO, Per una caratterizzazione semantica del concorso esterno, in questa Rivista, 1999, 184 s. (132) In dottrina non manca chi ammette la configurabilità del concorso eventuale oltre che nel ruolo di « partecipe » anche in quelli che si compendiano nella « organizzazione » e nella « direzione » dell’associazione mafiosa, così infatti SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, 49; TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., 334 s. (133) Tale estensione, avvenuta con una deprecabile ma ormai consueta tecnica legislativa di rinvio, è disposta dall’art. 11 del decreto legge 31 dicembre 1991 n. 419, convertito nella legge 18 febbraio 1992 n. 172, che ha modificato l’art. 14 della legge 19 marzo 1990 n. 55, il quale aveva provveduto ad ampliare il novero dei soggetti cui è possibile applicare le misure di prevenzione patrimoniale. In particolare, la sussistenza di tali indizi consente di pervenire all’adozione del sequestro e della confisca dei beni quando — ex art. 2-ter, comma 2o della legge n. 575/65 - il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Quest’ultima espressione, nel prendere in considerazione i capitali già riciclati, presuppone a monte l’avvenuta realizzazione di condotte penalmente rilevanti e consente di attivare, sulla base dell’indizio, gli ampi poteri di investigazione connessi alle indagini patrimoniali di cui all’art. 2-bis della medesima legge. Non solo, ma la legislazione antimafia prende in considerazione un’ulteriore ipotesi: quella connotata da un esercizio dell’impresa in condizioni di intimidazione o tali da agevolare individui appartenenti ad un’associazione mafiosa ovvero soggetti svolgenti le attività di cui agli artt. 648-bis e ter c.p. Ricorrendo questi presupposti, gli artt. 3-quater e 3-quinquies della legge n. 575/65 consentono, secondo un ordine progressivo, lo svolgimento di verifiche ed indagini patrimoniali, la sospensione temporanea dall’esercizio dell’attività, il sequestro, nonché, infine, la confisca dei beni che « si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego ». Per un rapido ma puntuale inquadramento delle misure patrimoniali del sequestro e
— 1142 — Se dunque il rapporto tra i delitti di riciclaggio e l’art. 416-bis comma 6o c.p. sembra destinato a risolversi unicamente — e quasi a prescindere dalla clausola di riserva — con la prevalenza di quest’ultimo, una maggiore ricchezza di sfumature contrassegna le relazioni tra gli artt. 648-bis e ter c.p. e l’associazione per delinquere semplice. La punibilità del socius riciclatore, stante la clausola di riserva prevista nei delitti di riciclaggio e reimpiego, dipende dalla sua partecipazione al predicate crime. Laddove i capitali sporchi costituiscano il provento del delitto associativo in quanto tale, la clausola di riserva de qua impedisce che egli possa rispondere del reato di cui all’art. 416 c.p. in concorso con le fattispecie di riciclaggio o reimpiego: la condotta di riciclaggio del socius sfocia, in tal caso, esclusivamente nell’applicazione del delitto associativo, col trattamento sanzionatorio previsto per il ruolo di organizzatore. Infatti, come già accennato, colui che in seno ad un’associazione per delinquere si occupa stabilmente del lavaggio dei profitti del sodalizio contribuisce per ciò solo all’« organizzazione » della societas sceleris (134). Diversamente, ove il denaro da riciclare provenga dai delitti-scopo dell’associazione, la punibilità per riciclaggio dipende dal contributo fornito alla loro commissione: in caso di concorso nei delitti-scopo, l’associato non può essere chiamato a rispondere anche per riciclaggio, ma solo per l’art. 416 c.p. e per i vari reati-fine cui abbia altresì partecipato. Al contrario, laddove siffatto contributo debba escludersi, il socio che provvede ad occultare l’origine illecita dei relativi proventi risponde sia per il delitto di riciclaggio che per quello associativo, giacché quest’ultimo non costituisce il predicate crime oggetto della clausola di esclusione (135). Questa ricostruzione delle relazioni fra i delitti di riciclaggio e reimpiego e l’associazione per delinquere semplice, animata dall’apprezzabile intento di razionalizzare un panorama segnato da un’eccessiva e caotica proliferazione di titoli di responsabilità, seppur condivisibile sul versante teorico, incontra sul piano processuale non poche difficoltà. Da un lato, essa è innanzi tutto esposta alle conseguenze connesse a quella prassi giurisprudenziale volta all’acritica estensione della responsabilità penale per i reati-fine in capo a coloro che detengono posizioni di vertice in seno a tali associazioni criminali (136): problema qui ulteriormente aggravato dalla qualifica di « organizzatore » che, nell’economia dell’art. 416 c.p., riveste il socio riciclatore. È presumibile che all’estensione verso l’alto della responsabilità penale per i delitti materialmente commessi da altri partecipi corrisponda, stante la clausola di riserva codificata, una proporzionale riduzione dell’area d’impiego degli artt. 648-bis e ter c.p. Dall’altro lato, distinguere e provare quali fra i proventi riciclati siano da attribuire ai reati-scopo cui ha — o all’inverso non ha — contribuito il socio riciclatore pare tradursi in una probatio ancor più diabolica di quella che, sotto la vigenza della precedente formulazione degli artt. 648-bis e ter c.p., obbligava a fornire la prova della consapevolezza circa l’appartenza del delitto presupposto all’elenco tassativo previsto da queste ultime disposizioni. Nell’economia del reato associativo, il più delle volte, non è affatto semplice poter fordella confisca, cfr. FIANDACA, voce Misure di prevenzione (profili sostanziali), in Dig. disc. pen., VIII, Torino, 1994, 123 s.; GALLO E., voce Misure di prevenzione, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990. Da ultimo, per i principali problemi emergenti dalla prassi, cfr. AA.VV., Le misure di prevenzione patrimoniali. Teoria e prassi applicativa, Bari, 1998. Sulla peculiare fattispecie preventiva della sospensione provvisoria dall’amministrazione dei beni, sia concesso rinviare a MANGIONE, La « contiguità » alla mafia fra ‘prevenzione’ e ‘repressione’: tecniche normative e categorie dogmatiche, in questa Rivista, 1996, 705 s. (134) Cass., 1987/176775, cit. Per un’analisi critica dei presupposti e dei contenuti relativi ai diversi ruoli di organizzatore e partecipe, cfr. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, cit., 85 s.; DE VERO, I reati associativi nell’odierno sistema penale, in questa Rivista, 1998, 408 s. (135) ZANCHETTI, Il riciclaggio del denaro, cit., 355. (136) Cfr. PADOVANI, Il concorso dell’associato nei delitti-scopo, in questa Rivista, 1998, 761 s.; DE FRANCESCO G.A., Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, ivi, 1992, 58 s.; DE MAGLIE, Teoria e prassi dei rapporti tra reati associativi e concorso di persone nei reati-fine, ivi, 1987, 924 s.
— 1143 — nire con sufficiente certezza una corrispondenza tra predicate crime e capitale riciclato. Questa difficoltà, a ben vedere, rischia di far dipendere il riparto di ruoli tra i titoli di responsabilità in esame da contingenti ed insondabili ‘variabili’ investigative, piuttosto che dalla puntuale applicazione della clausola che esclude il concorso del riciclaggio col delitto-presupposto (137). 10. Conclusioni. — Alla luce delle considerazioni sinora svolte, dunque, dovrebbero esser chiare le notevoli difficoltà, legate di volta in volta a ragioni dogmatiche o più semplicemente pratiche, che contribuiscono ad alimentare l’inefficienza della risposta penale al grave fenomeno del riciclaggio. Senza dubbio, la definizione di un modello giuridico dotato di reale efficacia non è certamente un compito facile né esente da rischi. Anzi, proprio in quest’ultima direzione, la fisionomia assunta dall’attuale legislazione anti-riciclaggio sembra svelare taluni aspetti le cui implicazioni, di ordine dogmatico e politico-criminale, attendono forse riflessioni più accurate. Il frutto più evidente di una politica criminale ormai concertata quasi del tutto in sede europea, è rappresentato dalla legislazione sugli obblighi di segnalazione e identificazione, sulla trasparenza e moralità degli intermediari. Una particolare attenzione, in tale quadro, va riservata alla regolamentazione dell’attività finanziaria e creditizia di fonte sublegislativa, e cioè alle prescrizioni dettate dall’Autorità di vigilanza, e ai codici di comportamento interno adottati dagli operatori. Si tratta di una prospettiva che pare aprire, per più di un verso, una finestra sul dibattito in corso, in ambito nordamericano, sulla criminalità d’impresa e sulle potenzialità preventive connesse allo sviluppo dei compliance programs (138). Ovviamente, più che di similitudini occorre parlare, senza alcuna enfasi, di richiami e convergenze, le quali pur nella loro sporadicità non mancano di rivelarsi per qualche aspetto significative. Al di là della comune opzione volta ad accentuare il peso da attribuire all’intervento ex ante su quello segnatamente repressivo, spicca la tendenza ad inserire in seno alle strutture aziendali specifici inputs atti a ‘rimodularne’ l’organizzazione (139). La disciplina extrape(137) Ciò nonostante, è forse il caso di precisare che il tema dei rapporti con l’art. 416 c.p. non merita di essere oltremodo problematizzato. Infatti, il riciclaggio dei capitali sporchi si caratterizza nella sua ontologia, e quindi nella sua gravità e nel relativo disvalore, in quanto momento tipico ed indefettibile dell’esistenza e dello sviluppo del crimine organizzato. Ed è altrettanto consolidato il punto di vista che coglie nell’art. 416-bis c.p., e non nell’associazione per delinquere semplice, il prototipo normativo della « criminalità organizzata ». Ciò induce a pensare che, in un contesto delittuoso dominato prevalentemente da fatti di criminalità organizzata, il problema posto dal divieto della ‘doppia punibilità’ tenderà a manifestarsi il più delle volte con riferimento all’art. 416-bis c.p., quale selettore specifico del paradigma criminale in oggetto, con una conseguenziale riduzione dell’area del conflitto tra l’associazione per delinquere semplice e i delitti di riciclaggio. Sui rapporti fra criminalità organizzata e sistema penale, quantomeno cfr. CONSO, La criminalità organizzata nel linguaggio del legislatore, in Giust. pen., III, 1992, 391 s.; FIANDACA, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. pen., 1991, 5 s.; INSOLERA, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., 36 s.; DOLCINI, Appunti su criminalità organizzata e reati associativi, in Arch. pen., 1982, 263 s. In una prospettiva prettamente criminologica v. MERZAGORA, Achille e la tartaruga. Riflessioni sulle teorie criminologiche in tema di criminalità organizzata, in Rass. it. criminologia, 1990, 99 s.; nonché ZAFFARONI, Il crimine organizzato: una categorizzazione fallita, in AA.VV., Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, cit., 63 s.; RUGGIERO, Economie sporche. L’impresa crinimale in Europa, Torino, 1996. (138) Per una puntuale panoramica, STELLA, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998,, 459 s.; e DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, cit., 137 s. (139) Nella letteratura economica si è puntualmente posto in risalto come ogni forma di regolamentazione dell’attività finanziaria tenda inevitabilmente a modificarne la struttura degli incentivi e, correlativamente, a riflettersi sulla condotta e sull’organizzazione dell’intermediario. Si tratta per l’appunto dei compliance costs da regolamentazione, i quali
— 1144 — nale dei mercati finanziari e bancari — nonché, con maggior invasività, quella di fonte subordinata — rivela direttrici d’intervento ben precise, volte ad imporre: a) l’adozione di programmi di formazione del personale; b) l’instaurazione di procedure interne di controllo e prevenzione del riciclaggio, con la predisposizione di un sistema di comunicazione verticale che dal singolo ‘sportellista’ giunga al responsabile della dipendenza, dell’ufficio o del punto operativo, sino al legale rappresentante o al titolare dell’impresa nonché ai sindaci; c) la rivitalizzazione e la funzionalizzazione dei compiti di controllo dell’organismo sindacale al rispetto e all’adozione delle medesime procedure interne anti-riciclaggio; d) l’innalzamento dello standard di diligenza richiesto, rispetto a quello tipico delle ‘relazioni d’affari’; e) la proliferazione di obblighi di giustificazione in capo al ‘cliente’, che l’intermediario è tenuto a far osservare innanzi a determinate transazioni (140); f) lo ‘studio’ dell’utente — basato peraltro su un approccio differenziato a seconda che questi risulti già annoverato fra i clienti oppure no — col quale muta la fisionomia delle ordinarie ‘relazioni di fiducia’, che per tal via appaiono sempre più orientarsi verso il sospetto e la diffidenza reciproci. Ebbene, se si volge lo sguardo alla realtà dei compliance programs è di immediato riscontro la sussistenza di taluni punti di contatto, ed in particolare: la predisposizione di un dovere di diligenza (due diligence) nell’espletamento dell’attività di prevenzione dei reati che possano coinvolgere l’impresa; l’individuazione in seno al vertice della struttura aziendale dei soggetti responsabili per l’attuazione del programma; la previsione di programmi di formazione ed istruzione del personale; l’adozione di sistemi di comunicazione verticale fra la base e le strutture di vertice dell’impresa (141). La strategia inaugurata con i compliance è finalizzata, da un lato, a precostituire in caso di insuccesso una chiara consapevolezza del fatto illecito, per tal modo rilevando sul piano dell’affermazione della colpevolezza dell’ente; dall’altro lato, mira a consentire lo sviluppo dall’interno dell’impresa di adeguati strumenti di controllo dell’illegalità. Ovviamente, quest’approccio — sorto dal fallimento della strategia orientata esclusivamente sulle fines — si comprende appieno nei suoi contenuti politicocriminali, considerando la peculiarità di un sistema giuridico che responsabilizza e punisce con la sanzione penale la persona giuridica. Al di là di tale considerazione, tuttavia, permangono delle assonanze di non poco rilievo in una prospettiva di contrasto al riciclaggio dominata dal profilo della prevenzione. Emerge quale leit-motiv la necessità di stimolare un maggior tasso di eticità nelle dinamiche d’affari, variano in relazione alla (dis)omogeneità della disciplina, al margine di discrezionalità rimesso all’intermediario, al grado di incertezza nella valutazione degli ambiti di libertà concessa, ed infine al livello di autonomia attribuito all’Autorità di controllo del settore. In proposito, per tutti cfr. MASCIANDARO, Analisi economica della criminalità, teoria della regolamentazione e riciclaggio finanziario, in AA.VV., Mercati illegali e mafie, cit., 268 s. (140) Cfr. BANCA D’ITALIA, Indicazioni operative, cit., p. 402, ed in particolare la Parte Seconda: « 4.4. frequenti richieste di travellers’ cheques, titoli o altri strumenti finanziari in valuta straniera, senza plausibili giustificazioni; - 4.5. frequenti versamenti di travellers’ cheques, di titoli o di altri strumenti finanziari, in valuta straniera, soprattutto se provenienti dall’estero, senza plausibili giustificazioni »; l’art. 5: « 5.3. prestazione di garanzie da parte di terzi non clienti della banca, né altrimenti conosciuti, dei quali non vengono fornite sufficienti indicazioni circa le relazioni col cliente beneficiario dell’affidamento o le ragioni che giustificano la prestazione di tali garanzie; - 5.4. acquisto o vendita di grandi quantità di monete, metalli preziosi o altri valori, senza apparente giustificazione ...; - 5.5. richiesta da parte di un cliente all’intermediario di erogare un finanziamento a un altro soggetto per il quale il cliente stesso fornisca una garanzia reale (ad esempio, immobili o titoli), qualora i rapporti tra detto cliente e l’altro soggetto non appaiano giustificati »; nonché infine l’art. 7.3: « clienti in situazione di difficoltà economica che provvedono inaspettatamente a estinguere totalmente o parzialmente proprie obbligazioni con versamenti inattesi di ingente ammontare, senza apparente giustificazione e senza precisare l’origine dei fondi » (corsivi aggiunti). (141) Cfr. anche per le ulteriori caratteristiche, DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, cit., 139 s.
— 1145 — in particolare in quelle realtà imprenditoriali tradizionalmente meno inclini a valutazioni di tal genere (142). Inoltre, come puntualizzato sia nelle Indicazioni operative della Banca d’Italia sia dalla dottrina nordamericana, gli strumenti preventivi in oggetto si propongono di ‘schermare’ l’impresa da possibili coinvolgimenti in pratiche criminali, nonché di ridurne la propensione a politiche aziendali remunerative ma illegali. Coerentemente ai presupposti di fondo dei rispettivi ordinamenti, mutano le conseguenze legate al mancato rispetto o all’inefficiente funzionamento di tali programmi di prevenzione, in particolare sotto il profilo dell’impatto sanzionatorio sull’impresa: nell’un caso la reazione penale coinvolgerà sia i soggetti che l’impresa, adeguando i suoi contenuti alle caratteristiche personali del reo; nell’altro occorrerà valutare il livello di consapevolezza dell’intermediario circa l’origine illecita dell’oggetto della transazione, al fine di distinguere i diversi piani dell’illecito amministrativo (art. 5 comma 5o della legge n. 197/91) e di quello penale (artt. 648-bis e ter c.p.). È però vero che — seppur in una prospettiva, come accennato, attualmente impraticabile — la legge n. 197/91 e la sottostante regolamentazione tendono ad enucleare situazioni d’obbligo cui riconnettere una responsabilità penale che, attraverso lo schema della posizione di garanzia, verrebbe a modularsi lungo la ‘spina dorsale’ dell’impresa finanziaria o creditizia. Ed è anche vero, peraltro, che proseguendo in questa direzione il rimprovero penale finirebbe coll’obiettivarsi al di fuori della effettiva sfera di controllo dell’ipotetico garante, in quanto unicamente innestato sull’inefficacia dei sistemi di prevenzione adottati (143). Infine, non può neppure sottacersi come, recependo un’esigenza sempre più avvertita a livello dottrinale oltre che politico-criminale — quella cioè della formazione di uno spazio penale a tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea —, un ruolo centrale venga a tal fine assegnato alla criminalizzazione delle imprese per fatti di riciclaggio. In quest’ottica i programmi di controllo, le procedure di formazione del personale, gli obblighi di segnalazione ed identificazione della clientela, nonché i sistemi di comunicazione infraziendale, potrebbero rappresentare — ancora una volta sulla scia dell’esperienza dei compliance programs — interessanti meccanismi di valutazione della colpevolezza dell’ente collettivo. Il pressante incedere del diritto della prevenzione, seppur condivisibile sul piano politico-criminale, solleva non poche perplessità legate alla fisionomia e all’incidenza che rischia di avere sul terreno degli operatori del credito e della finanza. Infatti, è sempre meno latente il pericolo di assistere ad una progressiva riduzione degli ambiti di autonomia e libertà nello svolgimento delle attività economiche e delle relazioni di vita che su esse ruotano. Il perseguimento di obiettivi quali la trasparenza, l’efficienza e la moralità nel settore bancario e finanziario, dunque, porta con sé degli interrogativi dovuti all’impatto giuridico, oltre che socio culturale, che essi producono sulle strutture portanti di tali mercati. L’impresa finanziaria e bancaria nonché una serie sempre più ampia di categorie professionali si trovano sempre più coinvolti nella soluzione di questioni di ordine pubblico ed economico. Questa corresponsabilizzazione invero non è un fenomeno isolato nel panorama giuridico italiano. La legislazione speciale sulla criminalità organizzata comincia col diventare un fertile terreno di coltura per la sperimentazione di nuovi e disinvolti modelli. Basti infatti pensare all’art. 3 della legge n. 82/1991 che si caratterizza per una ancor più marcata accentuazione delle dinamiche di collaborazione forzosa. Per fronteggiare l’odioso fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, i cittadini comuni — e non già meri soggetti qualificati quali gli intermediari — sono gravati da una serie di obblighi di collaborazione e denuncia all’autorità giudiziaria ben oltre i classici limiti segnati dall’art. 364 c.p. A ben ve(142) Un’interessante lettura del rapporto tra ‘virtù’ e ‘peccato’ nell’attività bancaria è in LE GOFF, La borsa e la vita, trad. it., Roma-Bari, 1987. (143) Si tratterebbe, in buona sostanza, di un modello giuridico penale che richiama per molti versi criteri d’imputazione ben noti sul terreno della responsabilità penale delle imprese: culpa in vigilando o colpevolezza d’organizzazione. Al riguardo cfr. PALIERO, La sanzione amministrativa come strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, 1045.
— 1146 — dere, non v’è nulla di episodico o casuale: al di là dei diversi contesti ‘emergenziali’ si tratta, come è stato lucidamente colto, di « profonde innovazioni di ‘‘sistema’’ nel quadro degli obblighi di collaborazione alle indagini e/o al processo, dagli sviluppi imprevedibili e comunque inquietanti », che inducono a riflettere sulle attuali spinte centrifughe cui è sottoposto il rapporto Stato liberale-cittadino (144). Nessuno dubita sull’opportunità che il mondo degli affari si doti di un ‘sistema di regole’ puntuale ed efficace. Ciò corrisponde ad una duplice necessità: garantire, in primo luogo, la trasparenza delle condizioni di accesso al settore, in tal modo assicurando quella parità di opportunità iniziali che costituisce il più chiaro pendant della tavola di valori costituzionali legati all’iniziativa ed alla libertà privata; in secondo luogo, consolidare l’ulteriore garanzia dell’integrità e della stabilità del sistema così legittimando la fiducia riposta dall’utente. I dubbi sorgono allorquando il ‘sistema di regole’ viene strumentalizzato per il perseguimento di scopi estranei all’habitus etico-economico dell’operatore; finalità che, peraltro, finiscono coll’imporre indistintamente, senza che sia possibile selezionare i soggetti sani da quelli inquinati, fattori la cui diseconomia non è compensata nel breve periodo, né riesce a trovare una legittimazione in un referente etico tuttora latente. Anzi, proprio in tal ultima direzione il ‘sistema di regole’ mira fra l’altro a stimolarne ed orientarne lo sviluppo attraverso gli obblighi legali di formazione ed istruzione del personale e di predisposizione di adeguate procedure interne. Uno sviluppo, inoltre, che si dirama a tutti i livelli dell’organizzazione aziendale, favorito da meccanismi di comunicazione verticale cui corrisponde l’accentuazione del ruolo delle posizioni di vertice. Queste ultime rappresentano infatti il delicato terminale di snodo di una complessa procedura di analisi, essendo gli unici soggetti legittimati a decidere se formalizzare la segnalazione all’Ufficio Italiano Cambi. A ben vedere, nonostante si insista sul richiamo all’ordinaria prudenza nelle relazioni d’affari, l’assorbimento del messaggio eticizzante è solo apparentemente rimesso all’autonomia privata degli operatori. In realtà, se è pur vero che l’impresa bancaria e finanziaria deve munirsi di appositi codici interni, è anche vero che il metro di diligenza del ‘buon operatore’ si concretizza nella valutazione di adeguatezza ed efficienza delle procedure e delle misure interne rispetto all’attuazione delle finalità specifiche prese di mira dal legislatore. Il che, a conti fatti, riduce notevolmente il tasso di autonomia privata sotto il profilo organizzativo dell’impresa — aspetto indiscutibilmente posto sotto l’ombrello protettivo del primo comma dell’art. 41 Cost. — e ne amplifica proporzionalmente il livello di ‘burocratizzazione’ verso orizzonti segnati dal c.d. private enforcement of law. Se così è, la tendenza in atto sembra allora collocarsi fra due estremi opposti. Lungo il primo, le condizioni in esame denotano un’accelerazione verso il raggiungimento e/o il mantenimento di opportuni standard di stabilità e concorrenza, cui debbono contribuire per tale aspetto anche i soggetti del mercato (145). Lungo il secondo, emerge una spinta verso la funzionalizzazione dell’impresa privata al perseguimento di obiettivi di politica criminale, se(144) PISA, La riforma dei reati contro l’amministrazione della giustizia tra adeguamenti ‘‘tecnici’’ e nuove esigenze di tutela, cit., 826-27; altresì v. CASTALDO, Accesso all’attività bancaria e strategie penalistiche di controllo, cit., 84 s., il quale rileva come « non si può non cogliere l’aspetto paradossale del passaggio: ed infatti si finisce per colpire economicamente, gravandoli delle spese necessarie a realizzare il programma politico-criminale ... i soggetti sani del mercato anziché selezionare i potenziali trasgressori ». (145) Invero, si è osservato come l’art. 41 comma 1o Cost., operi, oltre che in senso verticale — e cioè nei confronti dei pubblici poteri — anche in senso orizzontale, al fine di consentire ai soggetti privati le condizioni di parità nell’accesso al mercato garantendo quindi la libertà ‘nel’ e ‘del’ medesimo. In questa direzione, v. PACE, Libertà « del » mercato e « nel » mercato, in Pol. dir., 1993, 330. Diversamente però, OPPO, Costituzione e diritto privato nella « tutela della concorrenza », in Riv. dir. civ., 1993, I, 543, il quale riconduce la tutela del mercato nell’ambito del limite dell’« utilità sociale » di cui al secondo comma dell’art. 41 Cost. Da ultimo, in argomento v. CASSESE S., La nuova costituzione economica, Bari, 1998.
— 1147 — condo un modello la cui compatibilità col limite posto dal secondo comma dell’art. 41 Cost. è più che dubbia (146). Certo, la necessità di tutelare e preservare l’integrità del mercato bancario e finanziario dall’impatto con la criminalità organizzata costituisce, se non un interesse penalmente rilevante, quantomeno un obiettivo prezioso ed irrinunciabile dell’azione statale. Che la realizzazione di tale programma passi però attraverso un penetrante coinvolgimento degli operatori sani del mercato, rappresenta un’opzione non priva di rischi e contrappesi negativi, ulteriormente acuiti ove non controbilanciati da un accettabile tasso di effettività della risposta complessiva del sistema; specialmente se si tratta di settori altamente refrattari a quelle istanze solidaristiche nel cui segno sarebbe possibile chiedere o pretendere una chiara e consapevole assunzione di responsabilità, onde rinunciare — seppur in parte — a quegli spazi di libertà e dinamismo tradizionalmente connaturati all’essenza del mondo bancario e finanziario. ANGELO MANGIONE Ricercatore di Diritto penale nell’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’
(146) Per una denuncia dei tentativi di funzionalizzazione dell’impresa capitalistica al perseguimento di scopi sociali, cfr. ROSSI, Riforma dell’impresa o riforma dello Stato?, in Riv. soc., 1976, 455; MINERVINI, Contro la funzionalizzazione dell’impresa privata, in Riv. dir. civ., 1958, I, 626 s.; nonché, in una prospettiva penalistica, BRICOLA, Lo statuto penale dell’impresa: profili costituzionali, in Trattato di diritto penale dell’impresa, a cura di Di Amato, I, Padova, 1990, 122-23.
CONDOTTA DELLA VITTIMA E ANALISI DEL REATO PROFILI PROBLEMATICI E DI TEORIA GENERALE
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Un soggetto passivo non sempre tale. Cenni preliminari sulla vittimologia. — 3. Il ruolo del soggetto passivo nel codice Rocco. Spunti per un’analisi delle norme di parte generale. - 3.1. Premessa. - 3.2. Il fatto della vittima come causa di attenuazione della pena. - 3.2.1. La rilevanza attenuante del concorso del ‘‘fatto doloso’’ della vittima nella realizzazione del reato: l’art. 62 n. 5 c.p. - 3.2.1.1. L’evento del reato e il fatto doloso dell’offeso. Considerazioni critiche e primi spunti interpretativi de lege lata. - 3.2.2. La rilevanza attenuante della provocazione da parte della vittima: l’art. 62 n. 2 c.p. - 3.3. Il fatto della vittima come causa di esclusione della pena. - 3.3.1. La legittima difesa. - 3.3.2. Il consenso dell’avente diritto. - 3.3.2.1. La disponibilità del bene e l’oggetto del consenso in funzione di un’interpretazione estensiva dell’art. 50 c.p. Verso una valorizzazione (non indiscriminata) dell’autonomia del titolare del diritto. — 4. I principi della vittimodogmatica, ovvero: la valorizzazione della vittima attraverso la sua responsabilizzazione. - 4.1. Premessa. - 4.2. I presupposti. 4.3. I contenuti. - 4.3.1. I concetti di ‘‘extrema ratio’’ e di ‘‘autoresponsabilità’’. 4.3.2. Possibilità di autotutela, intensità del pericolo, bisogno di tutela. - 4.3.3. Meritevolezza di pena e meritevolezza di tutela, bisogno di pena e bisogno di tutela come componenti del concetto materiale di reato. — 5. La rilevanza della partecipazione della vittima al reato nel dibattito sulla ‘‘autoesposizione al pericolo’’ (eigenverantwortliche Selbstgefährdung) e sul ‘‘consenso ad un pericolo altrui’’ (einverständliche Fremdgefährdung). Alternative per un fondamento di tale rilevanza. - 5.1. Premessa. 5.2. Il ‘‘consenso ad un pericolo altrui’’ e il consenso dell’avente diritto. - 5.3. (Segue): il ‘‘consenso ad un pericolo altrui’’ e le regole obiettive di diligenza. - 5.4. Cenni conclusivi su di una rilevanza penale del ‘‘consenso ad un pericolo altrui’’ - 5.5. La ‘‘autoesposizione al pericolo’’. Cenni preliminari. - 5.6 In particolare: la ‘‘autoesposizione al pericolo’’ e le regole di diligenza. - 5.7. (Segue): la ‘‘autoesposizione al pericolo’’ ed il giudizio di imputazione oggettiva dell’evento. — 6. Considerazioni conclusive. - 6.1. Il fondamento costituzionale della rilevanza penale del comportamento della vittima. 6.2. Il problema della qualificazione dogmatica del comportamento della vittima: spunti per una soluzione diversificata. - 6.3. Limiti e presupposti di una razionale valorizzazione del comportamento della vittima nell’attuale contesto normativo. 1.
PREMESSA.
La figura della vittima del reato è ormai uscita dall’angolo buio in cui era stata da tempo relegata da studiosi e legislatori, per proporsi come oggetto di un interesse e di un approfondimento rinnovato. Questo non solo in campo criminologico, ma anche nell’ambito del diritto penale, sostanziale e processuale. L’interesse per tale figura non segue, inoltre, un unico piano di approfondimento, ma si sviluppa a tutto tondo, toccando vari profili che ad essa possono ricollegarsi: considerazione, disciplina e potenziamento della tutela delle vittime di un reato, sia nell’ambito del processo,
— 1149 — sia a prescindere da questo (1); rivalutazione del loro ruolo nel giudizio sulla meritevolezza e/o opportunità di pena in concreto relativamente a determinati fatti di reato (2); potenziamento della loro funzione di impulso processuale e di collaborazione all’accertamento della responsabilità attraverso misure di incentivazione (3); attribuzione alle vittime di un ruolo spesso determinante nella scelta di non irrogare la pena, in presenza di un integrale risarcimento dei danni (4), o comunque in correlazione con forme di composizione del conflitto (5) e ancora, in senso in questo caso sfavorevole alla vittima, la elaborazione di criteri, fondati scientificamente, volti a circoscrivere la responsabilità del soggetto agente, in pre(1) Manifestazioni concrete di tale aspetto sono, a titolo di esemplificazione, in Germania la Gesetz über die Entschädigung für Opfer von Gewalttäten, del 1976 poi riformata nel 1984; o la Opferschutzgesetz, c.d. legge di tutela delle vittime, del 1986; negli Stati Uniti il Victim and Witness Protection Act, del 1982; cfr. sul punto DEL TUFO, Vittima del reato, in Enc. dir., vol. XLVI, Milano, 1993, p. 996 ss. In Italia, il nuovo codice di procedura penale contiene, rispetto al precedente, una qualche maggiore attenzione alla persona offesa soprattutto sotto forma di estensione delle forme di partecipazione della stessa al processo cfr., tra gli altri, BRESCIANI, Persona offesa da reato, in Dig. Disc. pen., vol., IX, Torino, 1995, p. 530; G. CORDERO, La posizione dell’offeso da reato nel processo penale: una recente riforma nella Repubblica federale tedesca e il nostro nuovo codice, in Cass. pen., 1989, p. 115 ss.; RIVELLO, Riflessioni sul ruolo ricoperto in ambito processuale dalla persona offesa dal reato e dagli enti esponenziali, in questa Rivista, 1992, p. 608 ss.; più di recente le nuove norme contro la violenza sessuale nell’ottica di una maggior tutela della vittima prevedono misure a garanzia della privacy della stessa, come il divieto di divulgazione delle generalità e dell’immagine senza il consenso (art. 12 l. n. 26 del 1996) o la possibilità, su richiesta della persona offesa, che il dibattimento si svolga a porte chiuse (art. 15 l. n. 26 del 1996). Nello stesso senso le nuove norme antipedofilia contenute dalla l. n. 269 del 1998. Sulle prospettive europee, cfr. di recente DEL TUFO, La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Dir. pen. proc., 1999, 7, p. 889. (2) Si pensi all’aumento, in Italia, delle fattispecie perseguibili a querela di parte, a seguito soprattutto della l. n. 689 del 1981. Sul concetto di querela-opportunità, come mezzo di selezione in concreto del penalmente rilevante, cfr. GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Milano, 1993. In generale sul fenomeno della c.d. selezione come fonte di una depenalizzazione in concreto i cui maggiori protagonisti sono generalmente le vittime dei reati, cfr. PALIERO, Minima non curat praetor, Padova, 1985, p. 202 ss. (3) Si pensi al fondo di solidarietà previsto dalla l. n. 108 del 1996 in materia di usura, per l’erogazione di contributi destinati ad agevolare i mutui in favore delle persone offese dal reato, a condizione che abbiano presentato denuncia contro i responsabili. (4) Cfr., in Germania, la Gesetz zur Änderung des Strafgesetzbuches, der Strafprozeßordnung und anderer Gesetze-Verbrechensbekämpfungsgesetz (in Bundesgesetzblatt, Jahrgang, 1994, Teil I, 3186), in cui aspetto di notevole interesse è il tentativo di privatizzare il diritto penale, nel senso di attribuire alla vittima del reato (con o senza la mediazione del giudice), la possibilità di acconsentire ad una riparazione nei suoi confronti in modo da determinare la non applicazione della sanzione penale. In generale, sulla utilizzabilità del risarcimento del danno come rimedio penale in senso stretto e non solo come conseguenza civile del reato, cfr., tra gli altri, di recente M. ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in questa Rivista, 1993, p. 885 ss.; RIZZO, Il risarcimento del danno come possibile risposta penale?, in Dir. pen. proc., 1997, 10, p. 1171. Per la disciplina ed il dibattito spagnolo, cfr. MORALES PRATS, Funciones del derecho penal y sociedad civil, in AA.VV., Il diritto penale alla svolta di fine millennio, Atti del convegno in ricordo di Franco Bricola, Bologna, 18-20 maggio 1995, raccolti da S. Canestrari, Torino, 1998, p. 70 ss.; TAMARIT SUMALLA, La victima nel derecho penal, Pamplona, 1998, p. 202 ss. (5) Ci riferiamo in particolare alla mediazione. Cfr. sul tema, AA.VV., Tutela della vittima e mediazione penale, a cura di Gianluigi Ponti, Milano, 1995; AA.VV., La mediazione nel sistema penale minorile, a cura di Lorenzo Picotti, Padova, 1998.
— 1150 — senza ed in correlazione con determinati atteggiamenti dell’offeso, che possano aver contribuito alla realizzazione del fatto a suo danno (6). Nell’ambito di questo amplissimo ventaglio di prospettive (peraltro elencate senza alcuna pretesa di completezza, ma solo a fini esemplificativi), ci occuperemo, in questa sede, solo di quella indicata per ultima; ci occuperemo, cioè, solo di approfondire l’indagine sulla possibilità che sia attribuita una qualche rilevanza, per quanto concerne l’an ed il quantum di responsabilità del reo, ai casi nei quali anche il comportamento del soggetto passivo del reato abbia in un qualche modo contribuito alla sua realizzazione. In particolare, non poniamo in termini problematici la possibilità che la condotta della vittima sia valutata nell’ambito della commisurazione della pena; questo è un dato per lo più pacifico, sia in dottrina, sia in giurisprudenza (7). Cercheremo, invece, di verificare se (al di là delle ipotesi che integrano vere e proprie scriminanti) la condotta della vittima possa avere una incidenza più pregnante, sulla ricostruzione della tipicità o della colpevolezza. Da questo punto di vista, nel dibattito italiano, soprattutto da parte di chi applica il diritto, la chiusura è totale (8). Oltre ad uno scarso approfondimento ed un uso spesso confuso delle categorie dogmatiche di riferimento (9), si nota una carente sensibilità verso istanze, sempre più diffuse, rivolte ad un ampliamento della sfera di autonomia del titolare del bene giuridico e di una valorizzazione della sua libertà di scelta (10). Questo, evidentemente, in quanto il riconoscimento di un ruolo del soggetto passivo del reato come soggetto capace di autodeterminarsi, se da un lato amplia la sua sfera di libertà, dall’altro conduce necessariamente ad una riduzione della sua protezione a vantaggio di un’estensione della libertà d’azione del reo (11). Il principio di difesa sociale, che impone allo Stato un obbligo di protezione dei beni giuridici, viene erroneamente inteso come principio assoluto, avulso da ogni altra valutazione, unica condizione legittimante l’intervento penale. Così tuttavia non può essere. Cercheremo di dimostrare che, senza nulla togliere alla centralità di un tale principio, la presenza di una vittima, che abbia in qualche misura partecipato al reato, deve richiamare alla mente altri principi-cardine del nostro ordinamento penale, quali, come meglio vedremo, il principio di sussidiarietà, o il principio di offensività o ancora il principio che sancisce la personalità della responsabilità penale (12); e che, dunque, soluzioni di compromesso, quali quelle generalmente adottate, che aprioristicamente circoscrivono gli effetti di un contributo, qualunque esso sia, del soggetto passivo al reato, al piano della commisurazione della pena, sono poco soddisfacenti, sia dal punto di vista teorico-dogmatico, sia dal punto di vista sostanziale-applicativo. (6) Di questo aspetto tratteremo diffusamente in seguito. Ci riferiamo comunque sia alla vittimodogmatica, sia al dibatto concernente l’autoesposizione al pericolo della vittima come causa di esclusione della pena. (7) Anche se talvolta una tale valutazione non è univocamente chiarita nella decisione; cfr., in via esemplificativa, Cass. 22 gennaio 1992, in Cass. pen., 1993, 1530 (m). (8) Questo è il motivo fondamentale per cui nel corso del lavoro verranno in considerazione prevalentemente casi tratti dalla giurisprudenza straniera. (9) La condotta della vittima, infatti, viene per lo più considerata sotto il profilo prettamente causale, al fine di verificarne la riconducibilità, generalmente esclusa, all’art. 41 2o comma c.p., quale concausa sopravvenuta interruttiva del nesso causale. Cfr., in tema di infortuni sul lavoro, Cass. 22 settembre 1995, in Giur. it., 1997, II, 170; Cass. 4 giugno 1996, in Giust. pen., 1997, II, 515. (10) Vedi infra par. 3.3.2. (11) Su questi aspetti, cfr. STERNBERG-LIEBEN, Die objektiven Schranken der Einwilligung im Strafrecht, Tübingen, 1997, passim. (12) Da valutare positivamente per l’espresso riferimento all’art. 27, 1o comma Cost. e per la considerazione in concreto della capacità di autodeterminazione della vittima, a prescindere dall’erroneità del procedimento di accertamento del nesso causale e, conseguentemente, delle conclusioni, Trib. Roma 12 febbraio 1985, in Foro it., 1985, II, c. 213, con nota di FIANDACA.
— 1151 — 2.
UN SOGGETTO PASSIVO NON SEMPRE TALE. CENNI PRELIMINARI SULLA VITTIMOLOGIA.
Un soggetto passivo che partecipa alla commissione del reato sembra un paradosso. In effetti, la locuzione ‘‘soggetto passivo’’, di creazione puramente dottrinale, (non comparendo nel codice penale, né in quello di procedura, nei quali solo si fa riferimento all’ ‘‘offeso da reato’’ o alla ‘‘persona offesa’’ o al ‘‘danneggiato’’ o alla ‘‘parte lesa’’) ha probabilmente le sue origini in una visione del reato come fenomeno unilaterale, posto in essere, cioè, dall’agire di un solo soggetto, il soggetto agente, l’autore, che solo viola la norma penale, determinando conseguenze negative in capo ad un altro soggetto, il soggetto passivo appunto, che in quanto tale si limita a ‘‘patire’’ ad essere il ‘‘paziente’’ della situazione. Questa concezione, non più sufficiente a spiegare il reato nella sua completezza, necessita di essere definitivamente superata, ed in parte lo è già, almeno dal punto di vista dell’elaborazione teorica (13) e, in alcuni ambiti, pur senza la consapevolezza necessaria ad una razionalizzazione del principio, anche sul piano applicativo (14). In realtà, nella storia del diritto penale, senza considerare per il momento le tendenze degli ultimi anni, si possono distinguere due grandi fasi in relazione alla rilevanza del ruolo della vittima: nel diritto romano primitivo, nel diritto dei popoli germanici e in parte nel medioevo, la reazione al delitto era di pertinenza esclusiva dell’offeso dal reato; è il diritto penale della ‘‘vendetta privata’’ che poi, progressivamente, lascia il posto ad un diritto penale pubblico e, quindi, ad un monopolio statale nella giustizia penale (15). Da qui, nonostante le note eccezioni a tale monopolio (basti fra tutte la perseguibilità a querela di alcuni reati), comincia un progressivo processo di dimenticanza della vittima, di negazione della sua rilevanza, e, di conseguenza, di perdita di interesse scientifico per la stessa (16). È stato detto che il diritto statale nasce con la neutralizzazione (Neutralizierung) della vittima e che l’aver neutralizzato la vittima e generalizzato i suoi interessi sono grandi conquiste nell’ambito del controllo delle irregolarità sociali, segnali di un diritto penale statale (17). La vittima deve essere neutralizzata perché rappresenta una doppia minaccia: nel pericolo è portata a diventare autore in quanto tende a rispondere con la violenza alla violenza di cui è oggetto (18), inoltre crea il pericolo che l’interesse individuale della stessa si (13) Vedi infra, par. 4, i rilievi a proposito della vittimodogmatica. (14) Emblematico è il caso degli accertamenti in materia di reati sessuali, in riferimento ai quali la ricostruzione dell’atteggiamento della vittima diventa fondamentale per l’affermazione della responsabilità del colpevole, spesso anche molto al di là di quanto richiesto dalle norme incriminatrici; cfr. BERTOLINO, Libertà sessuale e tutela penale, Milano 1993, p. 144. L’autrice mette in evidenza come nei casi di furto o aggressione personale ‘‘nessuno muoverebbe mai alla vittima il rimprovero di avere, ad esempio, lasciato incustodito il denaro sottratto o di essersi recata da sola nel luogo in cui poi è stata aggredita. Elementi comportamentali di tal genere svolgono invece... un ruolo significativo nell’ambito dei reati sessuali, rispetto ai quali la condotta imprudente, provocante o semplicemente irriflessiva della vittima acquista un rilievo significativo nella valutazione del requisito della volontà nel rapporto sessuale’’. (15) Cfr. SCHNEIDER, Viktimologie. Wissenschaft vom Verbrechensopfer, Tübingen, 1975, p. 184 ss.; NEUMANN, Victimologia, Buenos Aires, 1984, p. 253 ss.; SILVA SANCHEZ, VIII Cursos de Verano en San Sebastian, Victimologia, Dirigido por Antonio Beristain, Josè Luis de la Cuesta, Servizio Editorial Universidad del Pais Basco, 1990, p. 77 ss. (16) Cfr. G. PONTI, Riparazione dei torti e giustizia conciliativa, in AA.VV., Tutela della vittima, cit. (nota 5), p. 3 ss. (17) Cfr. W. HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, II, München, 1990, p. 70 ss. (18) Forme di ‘‘giustizia privata’’ spesso con connotati di ‘‘vendetta’’ non solo sono tuttavia ancora diffuse, ma in alcuni casi sono addirittura legittimate dalle istituzioni, cfr. a questo proposito PALIERO, Minima, cit. (nota 2), p. 275 ss.; in relazione alla prassi austriaca, BURGSTALLER, Der Ladendiebstahl und seine private Bekämpfung, Wien, 1981, p. 80 ss. Sulla privatizzazione della tutela come risultato del diffuso senso di insicurezza e come fonte
— 1152 — socializzi, ossia che gruppi alla stessa legati (o che si sentano alla stessa legati) si facciano giustizia con faide e vendette (19). Queste solo alcune delle motivazioni sostenute per dare una spiegazione plausibile della dimenticanza della vittima del reato. In ogni caso, il diritto penale ‘‘moderno’’ è orientato all’autore (20); la riforma del diritto penale è stata, nel XX secolo, una riforma nell’interesse dell’autore e il polarizzarsi dell’attenzione sul criminale ha portato ad una visione del reato come fenomeno unilaterale e del rapporto criminale-vittima, come un rapporto di contrapposizione netta: l’uno colpevole, l’altra assolutamente innocente. Se è vero che il Ferri, e con lui la Scuola Positiva, non si è completamente disinteressato della vittima del reato, ma ha in qualche modo sottolineato l’importanza giuridico-sociale della stessa considerandola ‘‘il terzo protagonista della giustizia penale’’ (21), se è vero, inoltre, che in ambito scientifico, sempre tuttavia a livello disorganico, l’interesse al problema comincia a scorgersi nei precursori del pensiero criminologico e nei criminologi dei primi del novecento (22), una prima elaborazione sistematica del ruolo della vittima nella realizzazione del fatto di reato e del rapporto criminale-vittima, si ha solo con v. Hentig, generalmente ritenuto il fondatore della vittimologia (23). L’approfondimento dello studio della vittima del reato porta progressivamente ad un nuovo concetto di vittima, nel senso che questa non viene più vista come un ‘‘facteur passif’’ (24), ma come un elemento che in varie misure e in vario modo può entrare nella genesi o nell’esecuzione del fatto di reato. Nasce la c.d. ‘‘coppia penale’’ (25), che si accompagna ad una diversa concezione del reato stesso: il fenomeno criminale non più come atto unilaterale ma come fenomeno dinamico, come interrelazione complessa tra due soggetti, che non possono essere separati, senza che l’esistenza di quella determinata infrazione venga meno. Una siffatta valorizzazione, che si traduce inevitabilmente, già in questa fase, in una forma di tutela anche per l’aggressore in quanto, al comportamento della vittima si attribuisce, fin dall’inizio, un’efficacia come parametro di commisurazione della pena (26), ripropone in modo più completo e con valenza più generale alcuni spunti già presenti nelle varie legislazioni penali; ci riferiamo, tra l’altro, alle norme che, nel diritto italiano prevedono l’efdi nuova criminalità, cfr. ARZT, Das Ruf nach Recht und Ordnung, Tübingen, 1976, p. 44 ss. (19) Si noti come già Arturo Rocco inserisse tra le varie forme di ‘‘pericolo sociale mediato’’ conseguenti al reato, il pericolo di nuovi reati da parte della vittima o dei familiari o da gruppi sociali vicini alla vittima, cfr. Ar. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Roma, 1913, p. 385 ss. (20) W. HASSEMER, op. cit. (nota 15), p. 67; ROXIN, La posizione della vittima nel sistema penale, in Ind. pen., 1989, p. 5 ss. (21) Così FERRI, Prinzipii di diritto criminale, Torino, 1928, p. 408 ss. (22) TRANCHINA, Premesse per uno studio sulla rilevanza della vittima nella dinamica dei fatti criminosi, in Il Tommaso Natale, 1975, p. 41. (23) V. HENTIG, The Criminal and his Victim, New York, 1948. La vittimologia, secondo alcuni scienza autonoma (cfr. MENDELSOHN, Una nouvelle branche de la science biopsycho-sociale. La victimologie, in Rev. int. crim. pol. techn., 1956, 2, p. 95 ss.), secondo altri branca speciale della criminologia [cfr. TRANCHINA, op. cit. (nota 22), p. 46; GULOTTA, La vittimologia: aspetti criminologici. Il problema della criminalità, Padova, 1981, p. 107], sull’onda delle affermazioni espresse in modo evidente dal v. Hentig, si propone come scienza della vittima del reato e si pone, parallelamente alla criminologia, (e comunque anche in funzione strumentale rispetto ai mezzi ed ai risultati della stessa) originariamente come scienza dalla parte delle vittime, ossia a tutela delle stesse. (24) Così MENDELSOHN, op. cit. (nota 23), p. 96. (25) Ancora MENDELSOHN, op. cit. (nota 23), p. 97. (26) Cfr. già MENDELSOHN, op. cit. (nota 23), p. 107 ss.; in modo più consapevole cfr. SCHNEIDER, op. cit. (nota 15), p. 186, il quale afferma che ‘‘gli elementi vittimologici devono entrare nel giudizio di commisurazione della pena, ma senza essere svincolati dagli altri elementi di commisurazione’’.
— 1153 — ficacia attenuante del contributo doloso dell’offeso da reato, o della provocazione, o che prevedono l’efficacia scriminante della legittima difesa e del consenso dell’avente diritto, norme di cui ci occuperemo immediatamente nei paragrafi che seguiranno. 3.
IL RUOLO DEL SOGGETTO PASSIVO NEL CODICE ROCCO. SPUNTI PER UN’ANALISI DELLE NORME DI PARTE GENERALE.
3.1. Premessa. Volendo, per quanto riguarda l’analisi del codice penale italiano, limitare la nostra attenzione esclusivamente alle norme di parte generale, il dato che salta all’occhio ad un primo approssimativo sguardo è la presenza di due grandi gruppi di ipotesi, che prendono in considerazione, più o meno consapevolmente, una qualche forma di partecipazione del soggetto passivo al fatto di reato, e che si diversificano sulla base dell’intensità con cui una tale partecipazione va ad incidere sul giudizio di sussistenza e/o di quantificazione della responsabilità del colpevole. Caratteristica del primo gruppo, cui possiamo ricondurre la legittima difesa ed il consenso dell’avente diritto, è infatti l’effetto dell’esclusione della pena; caratteristica del secondo, nel quale rientrano le disposizioni in materia di concorso doloso dell’offeso e di provocazione, è l’effetto della mera attenuazione della pena (27). Al di là di questa generalissima suddivisione, basata sul risultato ultimo, non sempre è peraltro possibile individuare una ratio ed un’univoca opzione relativamente alla collocazione dogmatica delle situazioni tipiche disciplinate. Se infatti non sembra poter essere messa in dubbio (per lo meno per quanto concerne le scelte legislative attuali) la natura di cause di esclusione dell’antigiuridicità del consenso dell’avente diritto (salvo i casi in cui esclude la stessa tipicità) e della legittima difesa, poche certezze si hanno in relazione alla rilevanza attenuante della disciplina della provocazione, tale da assumere, in alcuni casi, effetti diretti anche sul piano della punibilità (vedi ad esempio l’art. 599 c.p.) e, ancora meno, a quella del concorso doloso dell’offeso. Nel passare all’analisi di tutte queste figure abbiamo perciò volutamente evitato qualunque aprioristica opzione sulla loro reale rilevanza dogmatica, limitandoci a differenziarle solo in relazione all’efficacia sulla pena loro attribuita dalle singole disposizioni del codice. 3.2. Il fatto della vittima come causa di attenuazione della pena. 3.2.1. La rilevanza attenuante del concorso del ‘‘fatto doloso’’ della vittima nella realizzazione del reato: l’art. 62 n. 5 c.p. Come noto, la circostanza attenuante prevista dall’art. 62 n. 5 c.p. nasce come soluzione per mitigare il rigore della scelta, fatta dal legislatore del ’30, di eliminare l’efficacia diminuente delle concause e di propendere per la loro irrilevanza ai fini dell’an e del quantum di responsabilità o, più precisamente, ai fini della interruzione del nesso causale (28). La ratio che è alla base di questa circostanza comune, quindi, è strettamente correlata (27) Non possiamo non notare come, tuttavia, il consenso venga talvolta ‘‘declassato’’ ad elemento degradante il titolo del reato (ci riferiamo ovviamente alla ipotesi dell’omicidio del consenziente, fattispecie meno grave rispetto all’omicidio comune), laddove la provocazione viene invece ‘‘surclassata’’ (nei delitti contro l’onore) a causa di esclusione della punibilità. (28) Nel codice Zanardelli la questione delle concause era trattata nella parte speciale, in relazione alle ipotesi di omicidio volontario e preterintenzionale: l’art. 367 c.p., regolante l’omicidio volontario dettava: ‘‘Quando nei casi previsti dagli articoli precedenti (omicidio volontario, aggravato e qualificato), la morte non sarebbe avvenuta senza il concorso di condizioni preesistenti ignote al colpevole, o di cause sopravvenute e indipendenti dal suo fatto, la pena è diminuita...’’. L’art. 368 c.p. definiva al 1o comma l’omicidio oltre l’intenzione riproducendo, al primo capoverso il testo del precedente articolo. In via interpretativa si riteneva inoltre rilevante la concausa anche nelle lesioni semplici.
— 1154 — all’opzione fatta dal legislatore nel senso di una separazione degli aspetti inerenti al rapporto causale da quelli inerenti alla ‘‘quantità di responsabilità’’ (29); secondo le dichiarazioni del Guardasigilli, infatti, ‘‘pur ammettendosi che l’esistenza di concause non esclude il nesso di causalità, si può ritenere che quella quota di causalità che è dovuta alla concausa, abbia da essere sottratta alla quantità di responsabilità che spetta al colpevole, in modo che si possa arrivare alla conseguenza pratica di una riduzione di pena’’ (30). Ma che cosa si deve intendere per ‘‘quantità di responsabilità’’? Il senso di questa locuzione suscita senz’altro qualche problema interpretativo e classificatorio, che si lega alla più ampia questione, relativa al fondamento dell’attribuzione di una qualsiasi rilevanza al comportamento della vittima del reato, ai fini di una diversa considerazione della responsabilità del soggetto agente. Se, infatti, la preoccupazione del Guardasigilli, che si evince da più di un passo della relazione ministeriale, è stata quella di tenere ben distinti l’aspetto oggettivo/causale da quello soggettivo, e, con l’art. 41 c.p., quella di negare, solo dal punto di vista dell’incidenza sul nesso causale, la rilevanza delle concause, qualsiasi natura esse avessero, una loro efficacia sembrerebbe residuare soltanto in ragione di una incidenza sull’elemento soggettivo del reo; il contributo della persona offesa, cioè, avrebbe un effetto attenuante della pena per il reo, in quanto dato indicativo di un ‘‘minor dolo’’ o di una ‘‘minor colpa’’ a questo riferibile. Conclusione, questa, che non emerge da nessun passo della relazione in maniera espressa, e, comunque, tutta da verificare nella sua configurabilità (31). In ogni caso, la limitazione della previsione al solo fatto doloso della vittima sollevò un ampio coro di critiche; da un lato, per la difficoltà di individuare plausibili ragioni di una tale discriminazione (32); dall’altro, in quanto questa aggiungeva un’ulteriore nota restrittiva (29) Il Codice Zanardelli, in effetti, non conteneva una disciplina del rapporto causale di carattere generale. L’unica norma da cui si poteva dedurre la necessità di un nesso di causalità tra condotta ed evento del reato ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’agente, era l’art. 45. La disposizione stabiliva in particolare che ‘‘nessuno può essere punito per un delitto se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico come conseguenza della sua azione od omissione’’. (30) Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, pubblicati a cura del Ministero di Giustizia e degli Affari di Culto, Roma, 1929, vol. IV, I, p. 123. (31) Problemi, analogamente, può suscitare anche l’affermazione del Guardasigilli secondo la quale ‘‘la colpa dell’offeso potrà essere valutata in base all’art. 133 c. p.’’, per le difficoltà che comporta il riferimento ad uno dei parametri di commisurazione della pena contenuti nella norma. In particolare ci si dovrebbe chiedere se, nell’ambito della gravità del reato, tale circostanza possa incidere su di un parametro oggettivo, quale ad esempio le modalità dell’azione, ovvero, anche in questo caso, su un parametro soggettivo, quale l’intensità del dolo o il grado della colpa, o ancora se possa invece avere un qualche riflesso sulla personalità dell’agente. (32) Il problema di una distinzione di effetti tra fatto colposo e fatto doloso della vittima si era posto già sotto la vigenza del codice Zanardelli che, non contenendo una norma ad hoc quale l’art. 62 n. 5 del codice attuale, lasciava la soluzione della questione al dibattito interpretativo. In particolare la giurisprudenza tendeva a non attribuire alcun effetto attenuante al fatto negligente o imprudente della vittima e ad ammetterne invece in presenza di un fatto volontario della stessa, (cfr. Cass. 5 giugno 1891, in Mon. trib., 1891, c. 725; App. Brescia 2 luglio 1891, ibidem, c. 595; Cass. 18 maggio 1892, ivi, 1892, c. 619; inoltre Cass. 10 luglio 1902, in Riv. pen., 1902, p. 442, n. 774; Cass. 5 novembre 1902, ivi, 1903, p. 209, n. 102. Per le poche ed isolate decisioni che ricomprendono nel concetto di concausa, ai fini di una minore responsabilità del feritore anche il fatto per così dire colposo dell’offeso, sul presupposto della totale indipendenza anche di tale fatto rispetto all’azione del colpevole, cfr. App. Torino 11 aprile 1891, cit., in Mon. trib., 1891, c. 595; App. Parma 14 settembre 1892, in Temi ven., 1892, c. 592; Cass. 27 ottobre 1892, in Giur. it., 1893, II, c. 342); in dottrina, invece, si riscontrava una notevole diversità di punti di vista con una prevalenza nel senso di una concezione estensiva della concausa, comprensiva anche del fatto negligente od imprudente della vittima. Con diverse motivazioni, cfr. in tal senso IMPALLOMENI, L’omicidio nel diritto penale, Torino, 1889, p. 22; LONGHI, La responsabilità del feritore, in Scuola pos.,
— 1155 — ad una norma che prevedeva un così ampio numero di requisiti necessari alla realizzazione della fattispecie, (e ciascuno con un significato così specifico e circoscritto) da far prevedere una sua totale impossibilità di applicazione (33). In effetti, la prima applicazione giurisprudenziale nota dell’art. 62 n. 5 c.p. si ebbe solo dieci anni dopo l’entrata in vigore del codice Rocco, e, peraltro, solo grazie ad un’interpretazione tanto estensiva quanto discutibile degli elementi di fattispecie ed, in particolare, sia del ‘‘fatto doloso’’, sia del termine evento, punti nodali del dibattito interpretativo sviluppatosi intorno all’articolo in questione (34). 3.2.1.1. L’evento del reato e il fatto doloso dell’offeso. Considerazioni critiche e primi spunti interpretativi de lege lata. — Due le linee interpretative relative alla circostanza attenuante di cui ci stiamo occupando: a fronte, infatti, di un’impostazione che, sensibile alle esigenze di un’effettiva possibilità di applicazione della norma, non richiede, per la configurabilità dell’attenuante, una coincidenza tra evento realizzato dal colpevole ed evento realizzato dall’offeso, né una convergenza delle volontà di entrambi i soggetti verso tale medesimo evento (35), se ne pone un’altra particolarmente restrittiva, molto diffusa in dottrina e nettamente prevalente in giurisprudenza. Secondo questa interpretazione, l’attenuante in questione rappresenterebbe una vera e propria forma di concorso di persone nel reato, con la conseguenza che sia l’autore, sia il soggetto passivo del reato dovrebbero, per la configurabilità della stessa, aver contribuito alla realizzazione dello stesso evento, inteso esclusivamente come evento costitutivo del reato, e dovrebbero averlo avuto di mira, nell’attuare la propria condotta (36). Per quanto, in particolare, concerne il concetto di ‘‘fatto doloso della persona offesa’’, tale impostazione si ricollega direttamente alla definizione di delitto doloso contenuta nel l’art. 43 c.p., ma va anche oltre la lettera dell’articolo, richiedendo la presenza del dolo intenzionale e, quindi, non considerando sufficiente né il dolo c.d. diretto, o di secondo grado, né tanto meno il dolo eventuale (37). È evidente che una tale interpretazione della fattispecie la renda di pressoché impossi1893, I, p. 419; STOPPATO, nota ad App. Parma 14 settembre 1892, in Temi ven., 1892, c. 592. (33) Si rinvia per la trattazione di tutte le tematiche relative, per tutti, a CONTIERI, L’attenuante del contributo causale della condotta dolosa dell’offeso da reato, in Foro pen., 1963, p. 219 ss. (34) Questo il fatto: un tal Lisanti dette alla sua amante delle cartine con stricnina affinché lei le propinasse ad un altro uomo, rivale in amore del suddetto. La donna le usò invece per avvelenare il Lisanti stesso. La Corte affermò sussistere l’attenuante in quanto, se il Lisanti, offeso dal reato, non avesse fornito il veleno, l’evento forse non si sarebbe verificato; Ass. Salerno 20 giugno 1941, D’Adamo, in Riv. pen., 1941, p. 1307, con nota di COLITTO. (35) Cfr. GULLO, L’art. 62 del codice penale, Napoli, 1941, p. 119; PANNAIN, Manuale di diritto penale, pt. g., Roma, 1942, p. 395; VANNINI, La persona offesa da reato e la diminuente dell’art. 62 n. 5 c.p., in Riv. pen., 1938, p. 389; in giurisprudenza, cfr. Cass. 29 giugno 1935, in Giust. pen., 1937, II, c. 669; Cass. 23 maggio 1938, in Ann., 1940, pp. 278, 279; per un riferimento più recente, cfr. Cass. 30 gennaio, 1989, in Cass. pen., 1990, I, 402. (36) Cfr. BATTAGLINI, Diritto penale, pt. g., Padova, 1949, p. 411; G. BONINI, La circostanza di cui al n. 5 dell’art. 62 del codice penale, in Ann., 1937, c. 278; CONTIERI, op. cit. (nota 33), p. 227; MESSINI, Il dolo dell’offeso e l’evento del reato, in Giur. it., 1940, II, c. 145; MINERVA, Il concorso doloso dell’offeso, in Giust. pen., 1981, II, c. 184; ZINGALI, I limiti sostanziali dell’applicabilità dell’attenuante del fatto doloso dell’offeso, in Ann. Catania, vol. III, p. 369 ss.; in giurisprudenza, cfr. di recente, Cass. 18 dicembre, 1991, in Cass. pen., 1993, 1700; Cass. 9 maggio, 1994, ivi, 1996, 806. (37) Cfr. invece, per l’estensione anche al dolo diretto e al dolo eventuale, MALINVERNI, Circostanze del reato, in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1961, p. 90; MINERVA, op. cit. (nota 36), c. 184. Per l’interpretazione restrittiva del concetto di fatto doloso, cfr. BONINI, op. cit. (nota 36), c. 278; CONTIERI, op. cit. (nota 33), p. 227; ZINGALI, op. cit. (nota 36), pp. 380, 381; per una posizione intermedia, cfr. NIERI CALAMARI, Osservazioni sul n. 5 dell’art. 62 del codice penale, in Arch. pen., 1948, p. 40.
— 1156 — bile realizzazione pratica (38). In effetti, in molti casi in cui sarebbe stata equa una riduzione di pena, le strette maglie della previsione normativa l’hanno preclusa. Si pensi ad esempio alle numerose pronunce in materia di corruzione di minorenne, che hanno negato la concessione dell’attenuante sulla base del postulato che un soggetto minore di età, che pure abbia in qualche modo consentito al fatto, in quanto incapace di intendere e di volere secondo il disposto degli artt. 86 e ss. del codice penale, non può agire dolosamente: ‘‘Per l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 5, occorre che il fatto sia doloso e cioè che risulti posto in essere con l’intenzione di produrre e di contribuire a produrre l’evento. Tale intenzione non può attribuirsi a persona minore degli anni quattordici, dalla legge stessa considerata come incapace. Il fatto di questa, quindi, anche se costituì una vera e propria concausa, non influisce e non attenua la colpevolezza del giudicabile, non potendo ritenersi doloso’’ (39). Il contenuto di siffatte pronunce fa venire alla luce un aspetto problematico, di sicuro interesse per la presente ricerca, e cioè la riferibilità delle categorie giuridiche e delle stesse definizioni normative, contenute nel codice penale, non più solo al reo ma anche al soggetto passivo (40). Nel codice penale, cioè, e in particolar modo nella parte generale, sono contenute e disciplinate le categorie penalistiche che contribuiscono a delineare la struttura del reato, di quel fatto, cioè, che presenti la caratteristica di essere in contrasto con un comando od un divieto penale, e che, comunque, sia posto in essere da un soggetto; questo soggetto è il reo, ed è a lui che secondo una connessione naturale si riferiscono le categorie penalistiche nel codice contenute. La ratio di un istituto quale l’imputabilità, non è altro che quella di evitare che soggetti che commettono un fatto di reato, ma che per particolari motivi non sono in grado di rendersene conto, in quanto ci sono plausibili ragioni per ritenere che non possano percepire il valore delle proprie azioni né controllare i propri processi volitivi, siano sottoposti ad un trattamento sanzionatorio che non potrebbe aver alcuna efficacia nei loro confronti se non di tipo meramente retributivo. La categoria della imputabilità, e tutta la disciplina che ad essa si rapporta, comprese le presunzioni legali relative ai soggetti minori di età, sono poste a tutela di colui che commette il reato. È difficile, di conseguenza, trovare (38) Si consideri inoltre che, nonostante il totale fallimento dal punto di vista applicativo, e le critiche generalizzate provenienti dal dibattito scientifico, solo negli ultimi anni ci si è indirizzati verso una revisione della sfortunata disposizione. La maggior parte dei progetti di riforma del codice penale succedutisi dal ’49 al ’73, pur reintroducendo, in molti casi, l’efficacia attenuante della concausa, mantenevano inalterata la disposizione in parola, che diveniva, così, definitivamente superflua. Le uniche eccezioni a questa linea di intervento sono rappresentate dal progetto Moro del ’56, e dal successivo progetto n. 1018 del ’63, i quali, nel riaffermare l’efficacia attenuante della concausa, eliminavano, coerentemente, la circostanza in oggetto. (39) Cass. 24 gennaio 1959, in questa Rivista, 1960, p. 930; in dottrina, cfr. MANGINI, Il fatto doloso della persona offesa del reato quale circostanza attenuante comune, in Ann., 1937, p. 977; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 2a ed., vol. I, Torino, 1920, p. 287; PANNAIN, Manuale di diritto penale, pt. g., Roma, 1942, p. 395. Sempre per la non applicabilità della circostanza si è pronunciata la giurisprudenza in materia di maltrattamenti seguiti da morte per suicidio del maltrattato: Ass. Venezia 24 ottobre 1953, in Riv. pen., 1954, p. 114; contra vedi però Ass. Lecce 20 gennaio 1951, in Giust. pen., 1952, II, c. 932. (40) Non ci soffermeremo invece sull’altra questione che emerge da tale pronuncia e che concerne i rapporti tra imputabilità e colpevolezza. Cfr. con espresso riferimento alle problematiche emergenti in relazione alla circostanza in questione, già MARINI, Fatto doloso della persona offesa, in questa Rivista, 1960, p. 938 in nota; MESSINI, op. cit. (nota 36), c. 186 ss.; MINERVA, op. cit. (nota 36), p. 185; SANTORO, Sulla circostanza attenuante del concorso causale della vittima del reato, in Scuola pos., 1950, p. 709; in generale sull’argomento, cfr. tra gli altri, BRICOLA, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano, 1961; M. GALLO, Colpa penale (dir. vig.), in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1960, p. 624; più di recente, BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990; DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991.
— 1157 — una legittimazione ad estendere tout court la disciplina dell’imputabilità e, per rimanere al caso di specie, la presunzione di mancanza di capacità di intendere e di volere del minore di età, al soggetto passivo, in ordine al quale sarebbe senz’altro più equa e più giustificata una valutazione caso per caso (41). Lo stesso ragionamento, in qualche modo peraltro riproposto da taluno anche in sede di determinazione della capacità a consentire, in tema di consenso dell’avente diritto (42), a (41) Per un cenno al problema, vedi già SANTORO, Sulla circostanza attenuante, cit. (nota 40), p. 709; MARINI, op. cit. (nota 40), p. 938. Un esempio molto indicativo, a proposito del quale il ragionamento sopra proposto viene in modo del tutto automatico utilizzato regolarmente, è, d’altra parte, offerto dal caso della morte del soggetto tossicodipendente in seguito all’assunzione di eroina e della relativa responsabilità dello spacciatore di droga per tale evento. In questo caso, infatti, la norma ritenuta generalmente applicabile è l’art. 586 c.p., ovvero la disposizione che prevede la fattispecie di morte o lesioni conseguenti ad altro delitto doloso (sul tema, cfr. MILITELLO, La responsabilità penale dello spacciatore per la morte del tossicodipendente, Milano, 1984; per una ricostruzione sintetica delle varie posizioni dottrinali, cfr. AMATO, La morte del tossicodipendente come conseguenza della cessione della sostanza stupefacente, in Cass. pen., 1993, p. 2627). La questione che si pone, tuttavia, in riferimento all’applicabilità di tale fattispecie concerne proprio l’efficacia che nell’iter causale può rivestire il fatto della vittima che assume la sostanza determinando così la propria morte. È chiaro che le alternative, sempre attenendoci allo stato del diritto positivo italiano, sono due (accettando come dato pacifico la natura di conditio sine qua non della condotta di cessione della sostanza). Da un lato c’è la possibilità che l’assunzione di droga da parte del soggetto tossicodipendente costituisca causa sopravvenuta (o meglio concausa rispetto alla cessione della droga) da sola sufficiente a cagionare l’evento, e in tal caso l’interruzione del nesso causale con la prima condotta farebbe venir meno ogni responsabilità per l’evento morte a carico dello spacciatore; tale ipotesi sembra tuttavia alquanto difficile da configurare, in quanto la condotta di assunzione di droga da parte del soggetto non può intendersi come fatto eccezionale rispetto alla cessione e svincolato dallo stesso, quanto piuttosto proprio come sviluppo ordinario della prima condizione. L’altra alternativa consisterebbe nell’applicazione dell’attenuante in esame, sempreché si segua un’interpretazione estensiva della norma e quindi, da una parte, non si intenda il dolo unicamente come dolo intenzionale; dall’altra non si richieda necessariamente una coincidenza degli eventi, oggetto di rappresentazione e volontà di entrambi i soggetti, attivo e passivo. Arrivati a questo punto del ragionamento si pone, però, l’interrogativo sulla possibilità, per un soggetto tossicodipendente, di agire dolosamente. L’aspetto che ci preme sottolineare con la citazione di questo gruppo di casi è proprio questo. Sembra infatti superfluo affermare che in ipotesi di tal genere non sia consentito riferirsi alla regolamentazione presente nel codice Rocco in materia di ubriachezza e intossicazione da sostanze stupefacenti, per stabilire la possibilità o meno che il soggetto tossicodipendente che assuma la droga sia, al momento dell’assunzione, capace di intendere e di volere. Il codice, come noto, in un’ottica di rigorosa repressione dei reati commessi da soggetti assuntori di droga e di alcool (ottica dovuta alla notevole frequenza con cui tali soggetti pongono in essere fatti di reato), stabilisce una serie di presunzioni (o forse meglio sarebbe dire finzioni) di imputabilità degli stessi, prescindendo così nell’accertamento della capacità di intendere e di volere (fatta eccezione per la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti) dal dato naturalistico. È infatti oggi ormai dato di comune dominio il fatto che lo stato di dipendenza psicofisica nei confronti di una sostanza stupefacente determina un’impossibilità più o meno totale del soggetto di opporsi alle spinte verso ulteriori e progressive assunzioni della sostanza e quindi, ‘‘in presenza di tale spinta la volontà del soggetto è più o meno ridotta fino all’annullamento’’: così MILITELLO, op. cit. (nota 41), p. 120. È pacifico, d’altra parte, che le norme in materia di ubriachezza siano state ideate in riferimento a soggetti che pongono in essere fatti di reato e per un’accentuazione repressiva nei loro confronti; questo rende ovvia la non estensione delle presunzioni, in quelle contenute, anche a casi in cui il soggetto tossicodipendente non commetta un reato, ma si limiti ad assumere la sostanza stupefacente provocando, in tal modo, la propria morte e divenendo così vittima. (42) Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. g., Milano, 1989, p. 256; in tema di imputabilità cfr. esplicitamente MESSINI, op. cit. (nota 36), c. 147.
— 1158 — nostro parere, deve, con gli opportuni adattamenti, valere anche in riferimento alle disposizioni in tema di colpevolezza e quindi, nel caso specifico, di dolo. Chiediamoci infatti quale sia la ratio sottesa al principio di colpevolezza, principio tanto importante da trovare, secondo un punto di vista ormai generalmente condiviso, un riconoscimento anche in campo costituzionale. La ratio risiede, senza alcun dubbio (è quasi superfluo ricordarlo), nella garanzia del soggetto che pone in essere un fatto lesivo (o pericoloso nei confronti) di un bene giuridico tutelato da una norma penale. Il principio di colpevolezza è, cioè, un principio che si rivolge esclusivamente al reo, in quanto posto a garanzia dello stesso. Gli stessi contenuti del dolo e della colpa si desumono dalla determinazione normativa dei concetti di delitto doloso e delitto colposo e, quindi, non sembrano concepibili (almeno nel nostro ordinamento) come svincolati dal reato. È per queste motivazioni che, anche in questo caso, sia da un punto di vista della formulazione della fattispecie, sia anche dal punto di vista, successivo, dell’interpretazione, ci sembra avventato trasferire tout court le definizioni contenute nel codice penale al soggetto passivo del reato. Dovendo fare i conti, dunque, con una norma che prevede la diminuzione di pena nel caso in cui ‘‘sia concorso a cagionare l’evento insieme all’azione od omissione del colpevole il fatto doloso della persona offesa’’ la linea da seguire sarebbe, a nostro parere, quella di svincolare senz’altro il significato di ‘‘fatto doloso’’ dalla definizione di ‘‘delitto doloso’’ contenuta nell’art. 43 c.p., intendendolo, invece, come semplice fatto volontario e consapevole, laddove la volontarietà si riferisce non alla realizzazione del reato, né tanto meno alla realizzazione del medesimo evento avuto di mira dal colpevole, ma alla condotta (43) dallo stesso soggetto passivo posta in essere (il quale dunque non necessariamente vuole contribuire alla verificazione del reato e/o comunque del medesimo evento oggetto della volontà dell’agente, ma senz’altro vuole porre in essere quella determinata condotta) e laddove la consapevolezza si riferisce, non solo alla condotta stessa, ma anche agli specifici rischi che il porla in essere può comportare. Lo stato soggettivo qualificante il contributo causale della vittima al reato (perché di contributo rilevante dal punto di vista causale deve comunque trattarsi), non deve, dunque, a nostro parere, essere necessariamente direttamente connesso all’evento (né a quello collegato all’agire del soggetto attivo, né, se diverso, a quello in concreto verificatosi) ma, in via mediata, non si può prescindere da un riferimento allo stesso attraverso la piena consapevolezza del rischio di una sua verificazione. La previsione della possibilità che un tale evento si realizzi va comunque sganciata da un’accettazione del rischio di siffatta realizzazione, essendo indifferente che il soggetto passivo accetti effettivamente tale rischio ovvero confidi nella non concretizzazione dello stesso nella lesione del proprio bene. 3.2.2. La rilevanza attenuante della provocazione da parte della vittima: l’art. 62 n. 2 c.p. Una conferma meno esplicita, e forse anche non del tutto consapevole, del fatto che il legislatore del 1930 abbia tenuto in considerazione il comportamento della vittima, come elemento che può, a determinate condizioni, incidere sulla responsabilità dell’autore del reato, si trova nell’art. 62 n. 2 c.p. (44). La norma disciplina la circostanza della c.d. ‘‘pro(43) Già la dottrina immediatamente successiva all’entrata in vigore della disposizione riteneva quasi unanimemente che il termine fatto equivalesse nel caso di specie a condotta e quindi che l’utilizzazione del termine fatto fosse una utilizzazione impropria, non potendosi intenderlo come comprensivo di una condotta e di un evento, diverso da quello del colpevole o comunque di una condotta e di una lesione di un bene giuridico diverso da quello offeso dal reo; cfr. CONTIERI, op. cit. (nota 33), pp. 238, 239; cfr. inoltre ZINGALI, op. cit., p. 383. Contra cfr. FROSALI, Sistema penale italiano, pt. I, Torino, 1958, p. 647; MINERVA, op. cit. (nota 36), c. 184. (44) Cfr. in questa prospettiva, F. MANTOVANI, Diritto penale, pt. g., Padova, 1992, p. 247.
— 1159 — vocazione’’, secondo la quale attenua il reato, ‘‘l’aver agito in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui’’ (45). Per quanto concerne il fondamento dell’attenuante, si ritiene comunemente che sia collegato ‘‘a considerazioni d’ordine pratico che la politica criminale ha fatto proprie’’; infatti, ‘‘nonostante l’evoluzione civilizzatrice, riesce invero difficile all’uomo frenare slanci istintivi e primigenie tendenze, sicché la coscienza sociale suole mostrare indulgenza verso i reati d’impeto, al cui contemperamento si sono cercate perciò provvidenze legislative’’ (46). In realtà la norma in questione può essere interpretata, lato sensu, come un limite all’art. 90 c.p., che, come noto, prevede l’irrilevanza sul piano dell’imputabilità degli stati emotivi e passionali. In tale prospettiva, l’elemento emotivo può, nell’ottica del legislatore fascista, essere preso in considerazione (ai fini di un atteggiamento più indulgente nei confronti dell’agente), non in quanto tale ma solo in quanto causalmente collegato ad un fatto altrui che abbia i connotati dell’ingiustizia (47). La diminuzione di pena, quindi, troverebbe la sua giustificazione negli antecedenti, estranei all’agente, che hanno cagionato la reazione dello stesso; in questa ottica si inserirebbe una valutazione di minore rimproverabilità, dal punto di vista soggettivo, del comportamento del soggetto attivo (48). Ora è pacifico che, pur non comparendo nella disposizione in oggetto alcun riferimento alla vittima, l’antecedente, che determina la reazione del soggetto, è, in linea di principio, costituito dal fatto ingiusto della stessa (o meglio di colui che è diventato vittima in seguito al proprio fatto di provocazione). Solo in casi eccezionali è, infatti, ammessa l’applicabilità dell’attenuante, qualora la condotta dell’agente si riversi nei confronti di un soggetto diverso da colui che l’ha provocato. In particolare nel caso in cui la vittima sia legata da un vincolo di parentela o affinità con il provocatore e sia riscontrabile anche un rapporto di interessi tra i due (49). Se da un lato, dunque, il fondamento della diminuzione di pena va ricercato nella comprensione per un atteggiamento che fa parte dell’uomo e che, se motivato da fattori ben (45) La gran parte delle legislazioni dell’Ottocento prevedevano la provocazione come ‘‘scusa nei reati di sangue’’, laddove per ‘‘scusa’’ doveva intendersi, secondo il significato del tempo, la diminuente legale, ossia prevista per legge. Se, tuttavia, la natura di scusa di indole soggettiva era dato pacifico, una notevole disparità di opinioni si manifestava in ordine al fondamento e alle ragioni dell’attenuazione della pena: ci si appellava così alla minore pericolosità del reo, alla minorazione della capacità di agire, ad una diminuzione dell’imputabilità dell’azione, o della responsabilità o ancora ad una diminuzione dell’intensità del dolo. Cfr. per tale ricostruzione storica, sia sul piano legislativo che dottrinale, della circostanza, MARCONI, Provocazione, in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, p. 811 ss. (46) Così MARCONI, op. cit. (nota 45), p. 811 e riferimenti bibliografici ivi citati. (47) Sul significato del ‘‘fatto ingiusto altrui’’, come fatto anche moralmente o eticamente ingiusto, cfr. MARCONI, op. cit. (nota 45), p. 820; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 2a ed., Milano, 1995, p. 634 art. 62. (48) Un’ipotesi di accentuazione di tale situazione e quindi dell’efficacia attribuita alla provocazione, si ha nell’art. 599 c.p. Questo è evidente in relazione a quanto previsto nel 2o comma dell’articolo, che sancisce la non punibilità dell’autore di un fatto di ingiuria o di diffamazione che abbia agito ‘‘nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso’’; è tuttavia riscontrabile anche in riferimento al 1o comma (che disciplina la c.d. ritorsione), nel momento in cui prevede la possibilità che il giudice mandi esente da pena uno od entrambi gli offensori e, dunque, anche colui che agisca per reazione all’ingiuria subita. Se infatti la non punibilità del primo autore ha senza dubbio il suo fondamento nel venir meno della necessità della pena statale (vedi, sul punto, P. SIRACUSANO, Diffamazione ed ingiuria, in Dig. Disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 48; SPASARI, Diffamazione e ingiuria, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1964, p. 496), la non punibilità del secondo agente sarebbe più verosimilmente legata ad una riduzione o ad un venir meno della sua rimproverabilità e quindi della sua colpevolezza (per una visione differenziata del fondamento delle due ipotesi, in relazione al § 199 StGB, cfr. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, AT, 5a ed., Berlin, 1996, p. 868). (49) Cfr. MARCONI, op. cit. (nota 45), p. 820; in giurisprudenza, cfr. Cass. 11 ottobre 1976, in Giust. pen., 1977, II, 694. Diversamente in Germania, dove il § 213 StGB, intito-
— 1160 — selezionati, non è indice di una particolare pericolosità del soggetto, non si deve, tuttavia, trascurare un punto di vista differente che pone maggiormente l’attenzione sul soggetto passivo (provocatore). In questa prospettiva (50), la norma potrebbe essere interpretata come espressione di una diminuzione della meritevolezza di tutela, e del bisogno di tutela, della vittima che, con il suo comportamento ‘‘ingiusto’’, mette in pericolo i propri beni giuridici esponendoli ad una reazione del soggetto provocato (51). Questo punto di vista, peraltro, darebbe una giustificazione plausibile anche al fatto che l’elemento emotivo sia, allo stato attuale, rilevante solo se determinato da un fatto dello stesso offeso dal reato e non da un qualsivoglia altro accadimento che abbia la stessa capacità di incidere sull’equilibrio del reo. 3.3. Il fatto della vittima come causa di esclusione della pena. 3.3.1. La legittima difesa. La prospettiva sopra evidenziata ricondurrebbe ad un rapporto di contiguità la circostanza attenuante della provocazione e la scriminante della legittima difesa, disciplinata dall’art. 52 c.p. Espressione emblematica del criterio del bilanciamento di beni, ritenuto per lo più il fondamento delle cause di giustificazione in genere, la norma in questione non viene nemmeno inserita, generalmente, nell’elenco delle ipotesi rappresentative di situazioni in cui il contributo del soggetto passivo vede riconosciuta una qualche rilevanza, a differenza di quanto avviene, invece, con la provocazione, o con il concorso doloso dell’offeso (52). Così, almeno, in Italia. Diversa è, invece, la situazione del dibattito scientifico nei paesi d’oltralpe. Qui il § 32 del codice penale tedesco, che prevede la causa di giustificazione della legittima difesa (Notwehr), è stato, anche se con meno frequenza di altre norme, ricompreso in un processo di rilettura del diritto positivo alla luce della più volte citata prospettiva vittimologica. In tale ottica, a fondamento della prevalenza dell’interesse di colui che si difende dall’aggressione, viene posto, infatti, il venir meno della meritevolezza di tutela (e quindi del bisogno di tutela) dell’originario aggressore, divenuto ora vittima. A quest’ultimo viene mosso il rimprovero di non essersi autotutelato: se avesse tralasciato di compiere l’aggressione illecita, infatti, avrebbe avuto la possibilità di non esporre il proprio bene al pericolo di un pregiudizio, derivante da una reazione difensiva (53). Pur riferendosi ad una norma che ha un contenuto parzialmente dissimile da quello dellato ‘‘Minder schwerer Fall des Totschlags’’, e che prevede come ipotesi specifica la provocazione da parte dell’offeso, viene ritenuto applicabile solo in caso di coincidenza assoluta tra provocatore e vittima; cfr. ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, StGB Kommentar, 22a ed., München, 1985, § 213. (50) Utilizzabile, come vedremo anche in relazione alla legittima difesa. (51) Vedi, infra, le considerazioni che saranno svolte in relazione alla vittimodogmatica. (52) Cfr. ad esempio F. MANTOVANI, Diritto penale, cit. (nota 44), p. 239. (53) Così ELLMER, Betrug und Opfermitverantwortung, Berlin, 1986, pp. 191, 192; R. HASSEMER, Schutzbedürftigkeit des Opfers und Strafrechtsdogmatik, Berlin, 1981, p. 89. Ellmer, peraltro, riconosce rilevanza al fatto della vittima nella legittima difesa anche se, invertendo i ruoli, si voglia considerare come vittima colui che viene originariamente aggredito e quindi si difende. Tale aspetto riguarda le ipotesi di legittima difesa provocata intenzionalmente (o comunque in modo illecito e colpevole anche se non intenzionale), per le quali si ritiene generalmente esclusa l’efficacia della scriminante. Nella disciplina italiana la non punibilità di tali casi è generalmente ammessa solo in presenza di una reazione sproporzionata e imprevedibile del provocato [M. ROMANO, Commentario, cit. (nota 47), p. 522]. È interessante notare come il disegno di legge di riforma al libro primo del codice penale, d’iniziativa dei senatori Riz ed altri, presentato al Senato in data 10 agosto 1995, recependo lo schema di legge delega presentato dalla commissione Pagliaro, preveda che per l’efficacia scriminante della legittima difesa il pericolo ‘‘non sia stato preordinato’’.
— 1161 — l’art. 52 c.p. (54), questo ragionamento può essere adattato anche alla legittima difesa come prevista dal nostro codice. In effetti il dato comune tra le due disposizioni è la presenza di due interessi in gioco e la scelta effettuata dal legislatore di tutelarne uno e di sacrificarne un altro. Tale scelta è a favore dell’interesse dell’aggredito, di colui che è costretto a difendersi, pregiudicando, a sua volta, il bene del suo aggressore (che diviene dunque vittima). Il dato peculiare della disciplina italiana è che tale perdita di tutela non è assoluta. La necessità di una proporzione tra offesa (originaria) e difesa, presupposto indispensabile per la configurazione della scriminante e quindi perché il processo di bilanciamento degli interessi risulti a favore di colui che si difende, fa sì che rimangano privi di tutela solo quei beni (della vittima) che, in base a tale giudizio di proporzione, risultino di valore inferiore o pari a quelli dalla stessa pregiudicati o messi in pericolo (55). È tuttavia possibile che, in caso di reazione sproporzionata, il bisogno di tutela del soggetto passivo, pur non venendo meno del tutto, risulti ridotto. La sua condotta aggressiva originaria potrebbe infatti rilevare come circostanza attenuante in base al disposto dell’art. 62 n. 2. 3.3.2. Il consenso dell’avente diritto. L’art. 50 del codice penale attuale è, nell’ambito della materia di cui ci stiamo occupando, una norma di fondamentale rilievo, esempio classico della capacità del soggetto passivo di incidere sulla determinazione della responsabilità penale o, ancora di più, sulla stessa configurabilità di un fatto, conforme alla fattispecie tipica, come reato (56). Il consenso del titolare del bene offeso esclude, in presenza dei requisiti individuati dall’art. 50 c.p., l’antigiuridicità del fatto e, quindi, la punibilità dell’autore. Come noto, al di fuori della previsione dell’art. 50 c.p., il consenso del soggetto passivo può agire ancora più in radice fino ad escludere la stessa tipicità del fatto. Questa duplicità di effetti del consenso è, nel dibattito scientifico italiano, a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti, un dato ormai incontestato, grazie proprio alla presenza dell’art. 50 c.p. che si inserisce sistematicamente tra le cause di giustificazione comuni. Non così, ad esempio in Germania (57), o in Spagna (58), dove, mancando una disposi(54) Il § 32 StGB, infatti, in modo molto più sintetico rispetto all’art. 52 c.p., stabilisce: ‘‘Chi commette un fatto per legittima difesa non agisce in modo antigiuridico. Legittima difesa è la difesa che è necessaria per respingere da sé o da un altra persona una aggressione illecita attuale’’. (55) Si tenga tuttavia presente che, pur in mancanza di un’espressa previsione legislativa sul punto, dottrina e giurisprudenza tendono a richiedere tale rapporto di proporzione anche in Germania, per esempio attraverso il principio del miglior trattamento possibile per l’aggressore, esigendo sempre il mezzo difensivo meno dannoso tra quelli a disposizione, oppure escludendo la configurazione della legittima difesa nei casi di sproporzione macroscopica tra l’offesa e la difesa (cfr. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, p. 269 ss.). (56) In generale sul tema del consenso dell’avente diritto cfr. i lavori monografici di ALBEGGIANI, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Milano, 1995; DELOGU, Teoria del consenso dell’avente diritto, Milano, 1936; GRISPIGNI, Il consenso dell’offeso, Roma, 1924; RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Milano, 1979. Cfr. inoltre ALTAVILLA, Consenso dell’avente diritto, in Nss. Dig. it., vol. IV, Torino, 1959, p. 115; GALLISAI PILO, Consenso dell’avente diritto, in Dig. Disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 71; GROSSO, Consenso dell’avente diritto, in Enc. giur., 1988; MARINI, Consenso dell’avente diritto, in Nss. Dig. it., App., vol. II, Torino 1981, p. 71; PEDRAZZI, Consenso dell’avente diritto, in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, p. 140 ss. (57) Ritorneremo sul dibattito tedesco nel corso del lavoro. In questa sede basti comunque evidenziare a fini conoscitivi, che le norme, che vengono in considerazione nell’ambito del dibattito sul consenso dell’avente diritto, sono il § 216 StGB, che sanziona, in misura attenuata rispetto all’omicidio comune, il fatto di chi uccide taluno su sua ‘‘espressa e seria richiesta’’ (norma analoga all’art. 579 del codice penale italiano); ed il § 226 StGB, che in materia di lesioni, stabilisce ‘‘Chi realizza una lesione personale con il consenso dell’of-
— 1162 — zione analoga, se è dato per acquisito il valore del consenso come causa di esclusione della tipicità, laddove vi siano indicazioni normative precise (implicite od esplicite) al riguardo, feso agisce antigiuridicamente solo se il fatto, nonstante il consenso, offende il buon costume’’; per una ricostruzione sintetica delle questioni, vedi FORNASARI, op. cit. (nota 55), p. 288 ss. Sul fondamento e sull’interpretazione delle due fattispecie, cfr., di recente, STERNBERG-LIEBEN, op. cit. (nota 11), p. 103 ss. (58) Per quel che riguarda la disciplina spagnola le norme che si occupano della materia sono gli artt. 155, 156 e 143 del nuovo codice penale. L’art. 143 è dedicato all’ ‘‘istigazione ed aiuto al suicidio’’. La fattispecie era già prevista dal codice abrogato, all’art. 409; tuttavia la riforma ha introdotto alcune correzioni che hanno mitigato la rigida disciplina precedente. La regolamentazione è oggi assai più articolata sia sotto il profilo della risposta sanzionatoria, sia sotto quello della descrizione delle modalità di realizzazione del fatto tipico e quindi della selezione di tali modalità. Sotto il primo dei profili citati, oltre alla previsione di una pena di molto inferiore rispetto all’omicidio (l’ipotesi più grave contenuta nell’art. 143, cioè la cooperazione esecutiva, è punita con la prision da sei a dieci anni, mentre l’omicidio è punito con la prision da dieci a quindici anni), si riscontra un’articolata graduazione sanzionatoria che porta ad un crescendo in parallelo alla (considerata) diversa gravità delle condotte tipizzate e quindi all’entità del contributo materiale alla realizzazione del fatto. Per quanto concerne la maggior articolazione nella tipicizzazione delle condotte rilevanti, si nota l’espunzione della cooperazione che non sia necessaria. La presente integrazione, unita alla differenziazione di sanzione a seconda che la cooperazione (necessaria, ovviamente) sia stata esecutiva o meno, viene considerata emblematica di un orientamento legislativo nel senso di un maggior rispetto per la libertà di disposizione della propria vita da parte del titolare della stessa e quindi nel senso di una maggiore valorizzazione del principio di autonomia della vittima del reato. Sempre nella stessa ottica viene interpretata l’introduzione dell’ultimo capoverso dell’art. 143, visto per lo più come riferito all’eutanasia c.d. attiva diretta, in cui, cioè, la condotta viene posta in essere con un comportamento positivo e, soprattutto, diretto in modo univoco alla causazione della morte. La disposizione richiede infatti espressamente la causazione e la cooperazione attiva con ‘‘atti necessari e diretti’’ alla morte del soggetto, con questo escludendo dalla propria sfera di efficacia le situazioni riconducibili alle ipotesi di c.d. eutanasia indiretta (in cui la condotta mira ad alleviare il dolore della vittima e solo indirettamente ne accorcia la vita) e dell’eutanasia c.d. passiva, posta in essere cioè con comportamenti di natura omissiva (ci riferisce ad esempio alla mancata adozione di misure che possano mantenere in vita il soggetto; dubbia invece è a nostro parere la natura omissiva dell’interruzione di trattamenti già in atto in quanto richiede in ogni caso un attivarsi dell’agente). L’art. 155 del nuovo codice penale spagnolo, infine, è dedicato alle lesioni consentite e stabilisce che ‘‘Nei delitti di lesione, se è intervenuto il consenso valido, libero, spontaneo ed espresso dell’offeso, si applicherà la pena inferiore di uno o due gradi. Non è valido il consenso dato da un minore o da un incapace’’. L’articolo in questione è l’unica disposizione del codice spagnolo in cui si faccia riferimento espressamente al consenso dell’offeso. La disciplina è stata notevolmente modificata rispetto al vecchio codice il quale, all’art. 428, sanciva come regola l’irrilevanza del consenso. D’altra parte però, il legislatore del ’96, pur dimostrando di voler attribuire un qualche valore alla volontà del soggetto vittima delle lesioni, purtuttavia non si è spinto oltre un valore meramente attenuante della responsabilità, a differenza di quanto proposto, invece, nei vari progetti di riforma del codice del 1983. La presenza di una norma dal contenuto più che esplicito, quale si può considerare l’art. 155 del nuovo codice non è bastata tuttavia a sopire il dibattito in ordine ad una rilevanza generalizzata del consenso nell’ordinamento penale spagnolo, né in materia di delitti contro la persona. Già vigente la precedente normativa, peraltro, ancora più drastica in materia, parte autorevole della dottrina spagnola sosteneva posizioni volte ad ammettere efficacia al consenso nelle lesioni. Cfr. sul tema, CANCIO MELIA, Conducta de la victima e imputación objetiva nel derecho penal, Barcelona, 1998; DE LA GANDARA VALLEJO, Consentimiento, bien juridico e imputación, Madrid, 1995, p. 57 ss.; MIR PUIG, Derecho penal. Parte general, Barcelona, 1998, p. 520 ss.; TAMARIT SUMALLA, La victima en el derecho penal, Pamplona, 1998, p. 57 ss.; ID., in AA.VV., Comentarios al
— 1163 — ancora aperta è invece la discussione sulla configurabilità dello stesso come causa di esclusione dell’antigiuridicità o addirittura, essendo il consenso dell’avente diritto preso in considerazione solo in alcune specifiche disposizioni di parte speciale, su di una sua valenza di portata generale o meno (59). La presenza di una norma ad hoc, quale quella contenuta nel codice penale italiano, se da un lato restringe gli ambiti del dubbio e dell’equivoco, dall’altro tende però a creare problemi qualora, come spesso accade, l’evoluzione storico-sociale dia origine a situazioni nuove cui mal si adatta la disciplina in quella norma contenuta e pensata per altre, diverse realtà. Più in concreto, le strette maglie dell’art. 50 c.p. e le interpretazioni scaturite da un collegamento sistematico con altre disposizioni che di volta in volta vengono in questione, sembrano, ad esempio, non legittimare la configurabilità di un consenso scriminante per tutta una serie di situazioni in cui venga in giuoco l’offesa a beni giuridici di rango primario, come l’integrità fisica, la vita, la libertà personale dell’uomo. Problemi sorgono sempre più frequentemente in ordine alla disciplina dell’attività medico-chirurgica (soprattutto in caso di esito infausto dell’operazione) (60); alla partecipazione alle attività sportive, anche solo eventualmente violente (61); alla pratica dell’eutanasia (62); alla posizione dello spacciatore di droga in relazione alla morte del tossicodipendente per assunzione della stessa (63); ai trattamenti nelle comunità di recupero per tossicodipendenti (64); ai rapporti sessuali non protetti con un soggetto affetto da virus HIV (65), alla sperimentazione sull’uomo (66). Sono tutte situazioni, ormai divenute di normale esperienza, che il senso comune potrebbe, in presenza di determinate condizioni, portare a ritenere non penalmente illecite per il valore sociale che rivestono e per la presenza di un’adesione consapevole volontaria del soggetto passivo, ma che non trovano, allo stato, in Italia, una collocazione giuridica adeguata. La loro riconducibilità nell’alveo dell’art. 50 c.p. sembra essere infatti preclusa da due elementi fondamentali: il fatto che l’offesa sia rivolta a beni generalmente ritenuti indisponiNuevo codigo penal, Pamplona, 1996, sub artt. 155-156, p. 748 ss.; VALLE MUÑIZ, ibidem, sub art. 143, p. 696 ss. (59) Nega qualsiasi rilevanza pratica alla questione relativa alla collocazione sistematica del consenso dell’avente diritto, data l’identità di funzione delle due categorie di riferimento, tipicità ed antigiuridicità, STERNBERG-LIEBEN, op. cit. (nota 11), p. 59 ss. (60) Sugli aspetti penali dell’attività medico-chirurgica, cfr., tra gli altri, DEL CORSO, Il consenso del paziente nell’attività medico-chirurgica, in questa Rivista, 1987, p. 53 ss.; IADECOLA, Potestà di punire e consenso del paziente, Padova, 1998; MANNA, Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico, Milano, 1984; RIZ, Il trattamento medico e le cause di giustificazione, Padova, 1975; ID., Responsabilità penale del medico, in Enc. giur., vol. XIX, 1990, p. 1 ss.; ZANCHETTI, Diritto all’autodeterminazione del paziente e distribuzione delle risorse, in Etica, risorse economiche e sanità, a cura di Bresciani, Milano, 1998, p. 171. (61) Cfr. ALBEGGIANI, Sport (diritto penale), in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, p. 548 ss.; G.A. DE FRANCESCO, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in questa Rivista, 1983, p. 53 ss. (62) Cfr. AA.VV., Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di Luigi Stortoni, Trento, 1992; MONTICELLI, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità, in Ind. pen., 1998, p. 63 ss.; SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in questa Rivista, 1995, p. 670 ss. (63) Cfr. MILITELLO, op. cit. (nota 41); AMATO, op. cit. (nota 41). (64) Cfr. PULITANÒ, Coazione a fin di bene e cause di giustificazione, nota a Trib. Rimini 16 febbraio 1985, in Foro it., 1985, II, c. 438 ss. (65) Cfr. CANESTRARI, La rilevanza penale del rapporto sessuale non protetto dell’infetto HIV nell’orientamento del Bundesgerichthof, in Foro it., 1989, IV, c. 149; CASTALDO, AIDS e diritto penale: tra dommatica e politica criminale, in St. urb., Nuova serie, A, 198889/1989-90, n. 41-42; CORNACCHIA, I delitti contro l’incolumità individuale, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, p. 320 ss. (66) Cfr. ALBEGGIANI, Profili, cit. (nota 56), p. 79 ss. e riferimenti bibliografici citati.
— 1164 — bili, anche alla stregua delle indicazioni legislative al riguardo (67); il fatto che in tali ipotesi la persona offesa consentirebbe sì alla condotta pericolosa, ma non all’offesa del bene (sperando anzi che tale offesa non si verifichi), mentre sarebbe proprio quest’ultima, secondo l’opinione maggioritaria, a dover costituire l’oggetto di un consenso valido ed efficace. Qualora, dunque, ci si voglia indirizzare ad un uso, per così dire, più ‘‘moderno’’ dell’art. 50 c.p., che dia ancora più rilievo all’autonomia e alla libertà di scelta del soggetto passivo, titolare del bene giuridico, bisogna sciogliere questi due nodi problematici e quindi, da un lato, accogliere una diversa interpretazione del concetto di disponibilità, tale da ricomprendere beni ulteriori rispetto a quelli che vi potrebbero essere inclusi in base alla interpretazione tradizionale; dall’altro, ampliare in qualche misura il contenuto generalmente richiesto per l’integrazione del momento ‘‘psicologico’’ del consenso scriminante, così da non identificarlo più solo e necessariamente con la volontà dell’evento lesivo. Queste sono le vie generalmente seguite nel dibattito scientifico italiano, sicuramente condizionato, come detto, dalla presenza di una norma specifica sul punto, ma in ogni caso per tradizione ancorato più di altri al dato positivo e quindi più propenso ad utilizzare interpretazioni, pur correttive, dello stesso, che ad esplorare nuovi percorsi teorici. Non così invece in altri paesi, dove, per rimanere all’argomento trattato in questa sede, la non punibilità di situazioni, quali quelle sopra esemplificate, è stata giustificata anche al di fuori del tema del consenso. Ci riferiamo in particolare a quanto, come vedremo, viene fatto nei paesi di lingua tedesca, attraverso la teorizzazione delle figure della autoesposizione al pericolo della vittima (eigenverantwortliche Selbstgefährdung des Opfers) o dell’esposizione al pericolo dalla stessa consentita (einverständliche Fremdgefährdung), teorizzazione che solo molto recentemente e tramite voci ancora isolate ha cominciato a penetrare anche nel dibattito (dottrinale) italiano, così da ampliare l’angolo visuale sotto cui considerare la rilevanza di un comportamento adesivo o (com)partecipativo della persona offesa nel reato. Di questo si tratterà tuttavia in seguito. Vediamo ora in dettaglio le due questioni sopra evidenziate. 3.3.2.1. La disponibilità del bene e l’oggetto del consenso in funzione di una interpretazione estensiva dell’art. 50 c.p. Verso una valorizzazione (non indiscriminata) dell’autonomia del titolare del diritto. — La ricerca di un’interpretazione dell’art. 50 c.p., che ci consenta di utilizzare tale norma anche al di fuori ed al di là di quello che è stato l’ambito di utilizzazione tradizionale, e che quindi apra le porte ad una prospettiva di ulteriore valorizzazione (se pure non indiscriminata) del ruolo del soggetto passivo e della sua libertà di autodeterminazione, deve inevitabilmente fare i conti con la pregressa valutazione di che cosa si debba intendere per diritto indisponibile. La questione rimane ancora sorprendentemente aperta per quei diritti, ‘‘personalissimi’’, alla cui qualificazione come disponibili sembrano irreparabilmente ostare ragioni di natura ora giuridico-normativa, ora morale o di giustizia sostanziale o di opportunità politico-criminale. (67) Le norme di riferimento, generalmente utilizzate per fondare la indisponibilità del bene vita, sono l’art. 579 c.p., che punisce l’omicidio del consenziente, l’art. 580 c.p., che punisce l’istigazione e aiuto al suicidio e, a livello costituzionale, l’art. 32 Cost., che tutela la salute come ‘‘diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività’’. Per giustificare, invece, una considerazione del diritto all’integrità fisica come diritto (questa volta relativamente) indisponibile, oltre all’art. 32 Cost. sopra citato, si fa riferimento, generalmente, all’art. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo, qualora siano contrari all’ordine pubblico e al buon costume e qualora determinino una menomazione permanente nel soggetto. Cfr., tra gli altri, ANTOLISEI, op. cit. (nota 42), p. 252; FIANDACA-MUa SCO, Diritto penale, pt. gen., 3 ed., Bologna, 1995, p. 232; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit. (nota 44), p. 262; M. ROMANO, Commentario, cit. (nota 47), p. 496. Per un’interpretazione dell’art. 5 c.c. come norma che vede limitato il suo ambito di disciplina agli atti ‘‘contrattuali’’ di disposizione del proprio corpo, vedi EUSEBI, Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico-penali, in Riv. it. med. leg., 1995, p. 727.
— 1165 — È necessario quindi trovare soluzioni che riescano a contemperare molteplici, spesso contrapposte, esigenze. La strada più di recente seguita da chi si è occupato della questione è quella di una rivendicazione, più o meno espressa, dell’esigenza di una valutazione della disponibilità che non si origini da una considerazione astratta delle fonti (68), ma della situazione in concreto verificatasi (69). Il problema viene incentrato sugli scopi dell’atto del consentire e sulle modalità di aggressione. In questo modo, ad esempio, si è giunti a considerare relativamente disponibile il diritto alla libertà personale e ad ammetterne una compressione, in seguito ad un giudizio di bilanciamento in concreto che tenga conto degli scopi della rinuncia, del valore del bene, del grado di pericolo cui il bene viene esposto: sarà dunque valido il consenso di chi rinuncia, per un tempo determinato o determinabile, alla propria libertà personale, per entrare in una comunità di recupero per tossicodipendenti (70). Ma anche laddove, diversamente dal caso di cui sopra, sembrano esserci ostacoli normativi espressi ad un’ammissione del consenso scriminante, il processo argomentativo non cambia. Così anche la comune affermazione di una indisponibilità assoluta del bene vita viene posta in discussione. In particolare, da rivedere sarebbe la trasferibilità automatica alle ipotesi colpose, del principio di indisponibilità fissato dall’art. 579 c.p. il cui contenuto si riferirebbe solo all’omicidio volontario. Data, quindi, per certa l’assoluta non disponibilità (71) del bene nell’ambito dei delitti dolosi, in relazione alle ipotesi colpose si dovrebbe, invece, ricorrere al bilanciamento in concreto tra beni sopra evidenziato (72). Sarebbe, così, possibile giustificare il comportamento di un tassista che guidi ad una velocità eccessiva incitato dal passeggero che debba raggiungere il padre moribondo; così come non sarebbe responsabile di omicidio colposo il boxeur che, nel ri(68) Desume, invece, la distinzione tra beni disponibili e beni indisponibili facendo riferimento alle fonti che regolano la disponibilità, così come la dottrina maggioritaria, Riz; l’originalità della sua tesi sta però nel fatto di ricomprendere tra le fonti rilevanti, per la definizione del concetto in questione, oltre ai principi generali dell’intero ordinamento giuridico, senza limitazione, quindi, rispetto ad alcun ramo del diritto, anche tutte le altre fonti, mediate o immediate, tra cui le discipline, gli ordini dell’autorità, i regolamenti e, soprattutto, la consuetudine. L’interprete dovrà, quindi, riferirsi, per stabilire se esista il presupposto della disponibilità del bene giuridico, ai fini dell’applicazione della scriminante del consenso, anche alla consuetudine ‘‘che acquista una particolare rilevanza quando la rinuncia alla tutela giuridica sia conforme al costume sociale, soprattutto in tema di consenso alla condotta pericolosa (sport, lavori rischiosi, gare ecc.)’’. Così RIZ, Il consenso, cit. (nota 56), p. 51. (69) Già il Ferri, d’altra parte, ponendosi l’interrogativo ‘‘se il consenso del paziente alla propria uccisione abbia valore giuridico, ed in quali limiti, per l’autore e l’ausiliatore della sua morte’’, si appellava ad una soluzione che tenesse conto ‘‘delle condizioni, non solo del paziente che dà il consenso, ma anche dell’agente che lo eseguisce’’. Egli si riferiva in particolare ai motivi che avevano spinto l’autore ad agire e concludeva nel senso che ‘‘chi uccide altri dietro suo consenso non è giuridicamente responsabile se egli è determinato all’azione, oltre che dal consenso della vittima, da un motivo giuridico o sociale, ed è invece giuridicamente responsabile se questo motivo della sua azione è antigiuridico od antisociale’’. Così FERRI, L’omicidio-suicidio, Torino, 1895, p. 32. (70) Mentre non lo sarà il consenso espresso dalla donna ad essere segregata in casa per più di un anno dal compagno particolarmente geloso. Per tale riferimento, cfr. ALBEGGIANI, Profili, cit. (nota 56), p. 64. (71) Cfr. ALBEGGIANI, Profili, cit. (nota 56), p. 102 ss. (72) Tale criterio, sia come ratio della causa di giustificazione in oggetto, sia come strumento per giungere ad una distinzione tra disponibilità ed indisponibilità di determinati beni giuridici, è già stato, in Germania, proposto da NOLL (Tatbestand und Rechtswidrigkeit: die Wertabwägung als Prinzip der Rechtfertigung, in ZStW, 1965, p. 9 ss.) e, più recentemente, da Dölling (cfr. DÖLLING, Fahrlässige Tötung bei Selbstgefährdung des Opfers, in G.A. StR. StP., 1984, p. 90 ss.). Sul punto, vedi infra, par. 5.5.
— 1166 — spetto delle regole, colpisca a morte il suo avversario: verrebbe in considerazione, in questo caso, l’interesse della collettività all’esercizio dello sport della boxe (73). Per quanto concerne il secondo nodo che, a nostro parere deve essere sciolto perché possa aprirsi la strada a quella utilizzazione ‘‘moderna’’ dell’art. 50 c.p. cui ci siamo poco sopra riferiti, la soluzione più appropriata sembra essere quella di chi ha voluto svincolare l’efficacia del consenso scriminante dalla volontà (della vittima) e, soprattutto, dalla volontà dell’evento lesivo. Già un passo in questa direzione era stato compiuto con il superamento della tesi che individuava la natura del consenso in un accordo, inteso come incontro di due volontà, tesi che veniva a costituire il presupposto per giustificare la non applicabilità della scriminante in oggetto ai fatti colposi (74). Ancora più in là ci si è tuttavia spinti nella misura in cui si è negata la stessa necessità che il consenziente voglia il fatto lesivo a suo danno dato che, come si è affermato ‘‘il fatto si svolge al di fuori del suo raggio d’azione’’, mentre la volontà ‘‘non può riferirsi che ad un comportamento dello stesso consenziente’’; affermazione solo parzialmente mitigata dal richiedere che la relazione psichica tra chi consente e il fatto di chi agisce non si risolva in una mera rappresentazione ma, almeno, in un’accettazione del rischio di verificazione dello stesso (75). Questo è il risultato cui si è giunti anche da parte di chi ha ritenuto che il punto di riferimento dell’atto del consentire debba in ogni caso essere l’evento offensivo (76). Le molteplici forme di partecipazione psichica del titolare del bene ad un tale evento, che sarebbero graduabili dal ‘‘semplice consenso ad una attività genericamente rischiosa, al consenso della stessa con consapevolezza, ma non accettazione del rischio, al vero e proprio rischio consentito (o accettazione del rischio), per arrivare, infine, alla vera e propria volontà (o consenso) dell’evento’’ (77), solo, infatti a partire dalla fase dell’accettazione del rischio acquisterebbero un’efficacia scriminante nei confronti del comportamento pericoloso o lesivo posto in essere dal soggetto agente. Le altre forme di adesione, dotate di minore intensità, potrebbero, comunque, svolgere una rilevanza in altri ambiti, come fattori di esclusione della colpa (78), di attenuazione della pena ex art. 62 n. 5 c.p. (79), di commisurazione della pena ex art. 133 c.p. (73) Cfr., per tali esempi, DÖLLING, op. cit. (nota 72), p. 93. (74) Per una ricostruzione del dibattito, cfr. di recente, ALBEGGIANI, Profili, cit. (nota 56), p. 94 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 67), p. 505. (75) Così PEDRAZZI, Consenso, cit. (nota 56), p. 147 ss., il quale precisa che ‘‘occorre che l’avente diritto accetti l’evento, inteso soprattutto come evento in senso giuridico, come lesione o minaccia al bene protetto, e lo accetti come conseguenza dell’altrui condotta: sì da abbracciare i momenti essenziali del fatto’’. (76) Così BRICOLA, Aspetti problematici del c.d. rischio consentito nei reati colposi, in Boll. Ist. dir. proc. pen., 1960-61, p. 90. (77) Così testualmente BRICOLA, Aspetti problematici, cit. (nota 76), p. 92. (78) Sul punto vedi infra (nota 126). (79) La possibilità che una partecipazione, non tale da avere efficacia scriminante ex art. 50 c.p., rilevi alla stregua della circostanza di cui all’art. 62 n. 5 è sicuramente ipotizzabile, salvi i limiti ristretti che, come visto, caratterizzano tale fattispecie; è evidente, comunque, che questo non si potrebbe verificare in tutti quei casi in cui la non configurabilità dell’art. 50 c.p. derivi dalla presenza di un elemento soggettivo di intensità inferiore alla linea sopra evidenziata, ma solo in relazione a casi carenti sotto altri profili, come ad esempio, la disponibilità del bene. Se per un consenso efficace è, infatti, dal punto di vista soggettivo, necessaria almeno l’accettazione del rischio di verificazione dell’evento, quindi un atteggiamento corrispondente a quello proprio del dolo eventuale, e se, secondo l’interpretazione più diffusa dell’art. 62 n. 5 c.p. è richiesto, come requisito di fattispecie, addirittura la presenza di un dolo intenzionale, è evidente che, da un punto di vista soggettivo, per l’applicabilità della norma in oggetto, sarà necessario un qualcosa in più rispetto a quanto richiesto per quella dell’art. 50 c.p. (o comunque uno stato soggettivo analogo, nel caso si accolga un’interpretazione in tal senso).
— 1167 — Sia, dunque, che si ritenga che oggetto del consenso possa essere la sola azione pericolosa posta in essere (80); sia che invece lo si identifichi sempre e comunque nell’evento, il risultato non cambia se, come succede, non si richiede affinché il consenso possa avere valore scriminante, che il titolare dell’interesse voglia la lesione a suo danno. Un siffatto modo di intendere l’oggetto del consenso, così come del momento psicologico che lo caratterizza, insieme ad un’interpretazione del requisito della disponibilità del diritto quale quella sopra schematicamente illustrata, sembra effettivamente consentire un’estensione dell’ambito di operatività dell’art. 50 c.p. più conforme alle attuali esigenze di politica criminale. 4.
I PRINCIPI DELLA VITTIMODOGMATICA, OVVERO: LA VALORIZZAZIONE DELLA VITTIMA ATTRAVERSO LA SUA RESPONSABILIZZAZIONE.
4.1. Premessa. La precedente disamina ci ha consentito di evidenziare come anche l’ordinamento italiano riconosca al fatto della vittima del reato una qualche rilevanza sulla punibilità. Come abbiamo cercato di dimostrare, varie sono, infatti, le disposizioni normative del codice Rocco che possono essere valorizzate in una tale ottica, pur senza poter essere considerate espressione consapevole e coerente di quella prospettiva vittimologica più volte, ma fino ad ora solo genericamente, richiamata e sulla quale, a questo punto, è sicuramente opportuno fornire indicazioni più complete. In particolare, dunque, ci si occuperà ora della vittimodogmatica, di quella corrente di pensiero, cioè, che vuole rielaborare una dogmatica penale orientata alla valorizzazione del comportamento della vittima, e che nasce e si sviluppa, come accennato, sulla scia degli stimoli offerti dai contenuti della vittimologia e, in particolare, dalla scoperta, o meglio dall’acquisita consapevolezza, di un possibile ruolo ‘‘attivo’’ della vittima nell’eziologia del reato, inteso come interrelazione tra due (o più) soggetti, l’autore e l’offeso. Facendo leva su tale prospettiva, i sostenitori di siffatta tendenza interpretativa si propongono di restringere l’ambito di operatività delle fattispecie, nel senso, cioè, di propugnare una decriminalizzazione di determinate condotte non ritenute meritevoli di pena, a salvaguardia del carattere frammentario del diritto penale e quale mezzo di limitazione dell’ipertrofia dello stesso (81). (80) Cfr. in tal senso FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 67), p. 505. Per quanto concerne i reati colposi, di un tale avviso è anche Albeggiani, il quale, tuttavia, precisa come si debba ravvisare ‘‘l’oggetto del consenso nei reati colposi in via principale nell’azione pericolosa, ma a condizione di specificare che il pericolo al quale si consente non può prescindere da un certo grado di concretezza determinato in riferimento a categorie di eventi e grado di probabilità della loro verificazione’’. Così ALBEGGIANI, Profili, cit. (nota 56), p. 117. (81) Riconosce il valore di tali mete, anche l’autore che in modo più completo ha criticato gli assunti della vittimodogmatica. Ci riferiamo ad Hillenkamp, il quale a tale proposito rileva come tuttavia una siffatta linea politico-criminale viene perseguita attraverso la creazione di situazioni che, in concreto, vanno a contrastare con altri parametri imprescindibili relativi alla funzione del diritto penale stesso e della pena. In questo senso, dunque, tra i costi e i benefici, sarebbero i primi a prevalere. Il rischio, cioè, legato ad una generalizzata decriminalizzazione, di una dilatazione incontenibile della criminalità, potrebbe essere accettato solo se potesse ritenersi controbilanciato da una redistribuzione degli ambiti di libertà dei singoli che appaia come equa e sensata. In realtà, si sostiene, così non è: non intervenendo a fondare l’esenzione dalla pena di determinate condotte, né un vero e proprio consenso, né un possibile riferimento alla prevalenza dell’interesse proprio dell’autore alla propria libertà di azione rispetto a quello del titolare del bene a che quell’azione non sia posta in essere, si perverrebbe ad un ampliamento dell’ambito di libertà concesso a comportamenti dolosi nei confronti di una vittima che,
— 1168 — Tale scopo è, senza dubbio, degno di apprezzamento; così come non si può disconoscere il merito che la vittimodogmatica ha avuto nel richiamare l’attenzione sulla necessità di valutare il comportamento della vittima nell’ambito dell’accertamento della responsabilità penale, e non solo in funzione della commisurazione della pena (82), favorendo così l’evoluzione di un dibattito che si è sviluppato, ed è ancora in una fase molto dinamica, anche al di fuori dei presupposti sui quali i vittimodogmatici fondano le loro tesi. Basti pensare alla stimolante discussione, con tangibili riflessi anche sul piano applicativo, che, in seno all’elaborazione dei criteri dell’imputazione oggettiva dell’evento (ma anche con riferimento all’antigiuridicità e alla colpevolezza), si sta articolando intorno all’istituto dell’autoesposizione al pericolo della vittima (83). Uno degli aspetti di rottura dell’impostazione de qua, rispetto al pensiero penalistico tradizionale, è il ritenere che i riflessi lato sensu ricollegabili al comportamento della vittima non si debbano valutare solo nell’ambito della commisurazione della pena. In questa direzione, infatti, anche se con una minore consapevolezza metodologica, si erano già espressi in molti, ritenendo, in particolare, che il comportamento della vittima potesse incidere in sede di commisurazione, soprattutto in riferimento a quei reati, c.d. di relazione (Beziehungsverbrechen), per la cui realizzazione fosse richiesta, già a livello di fattispecie astratta, l’esistenza di un rapporto tra autore e vittima (diversamente dai c.d. delitti di aggressione unilaterale) (84). 4.2. I presupposti. Secondo l’idea di base dei sostenitori della vittimodogmatica, la punibilità di un fatto di certo può essersi comportata in modo negligente o trascurato, ma di sicuro non contrario al diritto. Un tale ampliamento, nei delitti dolosi, sarebbe privo di valore politico-criminale (HILLENKAMP, Vorsatztat und Opferverhalten, Göttingen, 1981, cit., p. 192 ss.). Sempre sul terreno di un bilanciamento costi e benefici, inoltre, anche la funzione educativa, di sensibilizzazione e responsabilizzazione, che potrebbe essere riconosciuta come merito dell’utilizzazione della prospettiva vittimologica, viene ritenuta soccombente rispetto al pericolo della rottura della pace sociale e della creazione di una società di sospetto insito nell’impostazione criticata [HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 206 ss.; ma anche DEL TUFO, Profili critici della vittimo-dommatica, Napoli, 1990, p. 270; ROXIN, Strafrecht, A T, I, 3a ed., München, 1997, p. 507 ss.; SILVA SANCHEZ, Considerazioni vittimologiche nella teoria del reato? Introduzione al dibattito sulla vittimodogmatica, trad. dallo spagnolo a cura di MELCHIONDA, in Arch. pen., 1988, p. 674]. (82) Così anche W. FRISCH, Selbstgefährdung im Strafrecht, in NZSt, 1992, parte II, p. 4. (83) Vedi in dettaglio infra, par. 5. (84) Cfr. per una distinzione in tal senso già PEDRAZZI, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, il quale individuava, nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, quelle fattispecie di reato ‘‘che stanno sotto il segno della cooperazione tra il reo e la sua vittima’’, distinguendo così le ‘‘usurpazioni unilaterali’’ e le fattispecie ‘‘a cooperazione artificiosa’’. Cfr. inoltre H. SCHULTZ, Kriminologische und strafrechtliche Bemerkungen zur Beziehung zwischen Täter und Opfer, in SchwStr, 1956, p. 171 ss., il quale, prendendo come punto di riferimento la vittima, prospettava due gruppi di fatti punibili: i reati privi di una vittima determinata e comunque quelli in cui il rapporto autore e vittima non aveva rilievo alcuno ed i reati per la cui realizzazione era necessaria una relazione interpersonale tra i due soggetti. Il giudice, in presenza di un tale gruppo di fatti punibili, avrebbe così dovuto prendere in considerazione il ruolo avuto dalla vittima e tenerne conto nella graduazione della pena. Per una precisa ricostruzione di tale percorso, cfr. CANCIO MELIA, op. cit. (nota 58), p. 236 ss.; DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 30 ss.; HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 219 ss., il quale, anche, ritiene che l’unico luogo dogmatico in riferimento al quale il comportamento della vittima può essere considerato rilevante, nell’ambito del fatto doloso, è la commisurazione della pena.
— 1169 — reato può essere esclusa, se la vittima poteva, con i mezzi a sua disposizione, difendere in modo efficace il bene giuridico tutelato. Uno dei presupposti dell’origine e dello sviluppo di questa idea è identificabile nella necessità di individuare un criterio a cui uniformare l’intervento dello Stato nella regolamentazione della vita sociale. Il parametro da utilizzare a questo scopo viene indicato nel principio di sussidiarietà, inteso come principio che condiziona l’intervento statale al bisogno del singolo (85). Lo Stato, cioè, si ritiene debba garantire al cittadino la libertà di autodeterminazione e di gestione del proprio sviluppo; solo qualora egli non sia in grado di provvedervi autonomamente, lo Stato potrà intervenire in suo aiuto (86). A tale parametro viene riconosciuto un fondamento costituzionale. Ogni Carta costituzionale non può che delineare, secondo tale impostazione, un’immagine dell’uomo come ‘‘individualità sociale’’, come soggetto, cioè, capace di autogestirsi ma che, tuttavia, ha bisogno, per realizzare se stesso, anche del proprio simile, della collettività (87). Da questa visione dell’uomo e, soprattutto, dei rapporti tra singolo e collettività, vengono desunti due corollari: l’affermazione del principio di autoresponsabilità dell’individuo, da un lato; la conseguente limitazione dell’intervento statale nella sfera individuale, dall’altro. Ognuno di questi due corollari, poi, viene sviluppato ulteriormente in quelle che possono essere considerate le linee direzionali fondamentali, nell’elaborazione del modello interpretativo che stiamo illustrando: la rivalutazione del principio di autoresponsabilità anche in riferimento alla vittima; la caratterizzazione della sanzione criminale come extrema ratio. 4.3. I contenuti. 4.3.1. I concetti di ‘‘extrema ratio’’ e di ‘‘autoresponsabilità’’. È nota la portata, secondo la ricostruzione comune, del significato da attribuire all’affermazione per cui la sanzione penale deve intervenire come ultima ratio, a tutela dei beni giuridici (88). La nota caratteristica della vittimodogmatica si manifesta nella particolare interpretazione che di tale principio viene proposta (89). È una interpretazione estensiva che si ricol(85) L’utilizzazione del principio di sussidiarietà, come unico criterio informatore delle opzioni di criminalizzazione o meno di determinate condotte, è uno degli assunti che vengono fatti oggetto di critica da chi si è occupato in modo specifico delle tesi dei vittimodogmatici; in particolare si ritiene, infatti, che il rapporto tra Stato e cittadini dovrebbe invece invertirsi, in quanto sarebbe l’intervento del privato a divenire, secondo la visione costituzionale, sussidiario rispetto a quello statale nella salvaguardia dei beni giuridici; lo Stato sarebbe, infatti, preposto alla tutela dei beni in via principale, e il singolo potrebbe intervenire solo laddove lo Stato non fosse presente. Per una tale critica, in riferimento all’ordinamento italiano, cfr. DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 248. Analogamente in relazione all’ordinamento tedesco, HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 176; GÜNTHER, Das Viktimodogmatische Prinzip aus andere Perspektive: Opferschutz statt Entkriminalisierung, in Festschrift für Lenckner, München, 1998, p. 78. (86) Così A. KAUFMANN, Subsidiaritätsprinzip und Strafrecht, in Festschrift für H. Henkel, Berlin-New York, 1974, p. 89 ss., a cui si rinvia per tutta la problematica; cfr. anche DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 38 ss.; R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 34. (87) Cfr. DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 41; R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 51. (88) Per gli aspetti essenziali, nella dottrina italiana, si rinvia a BRICOLA, Teoria generale del reato, 1973, oggi in Scritti di diritto penale, a cura di Stefano Canestrari ed Alessandro Melchionda, Milano, 1997, vol. I, p. 539. (89) Cfr. R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 22, il quale mette in evidenza come la visione tradizionale del principio di ultima ratio o comunque di necessarietà della pena, come lo definisce (Erforderlichkeitsgrundsatzes), non attribuisca alcuna rilevanza all’individuale possibilità di autotutela del titolare del bene. Per una ricostruzione dei concetti in questione, cfr. anche ELLMER, op. cit. (nota 70), p. 233 ss.
— 1170 — lega, necessariamente, a quanto sopra esposto circa l’utilizzazione dei contenuti della vittimologia. Tra i mezzi di tutela del bene giuridico, la cui idoneità al raggiungimento dello scopo è elemento condizionante la legittimazione di un intervento penale, vengono ricompresi anche i mezzi di difesa a disposizione del privato, titolare del bene, cosicché, in caso di rinuncia all’autotutela, può venir meno l’esigenza concreta di una protezione penale (90) nei confronti di quel determinato bene giuridico e nei confronti della vittima: questa, infatti, non meriterebbe e non avrebbe, in tal caso, bisogno di alcuna tutela (non sarebbe né Schutzwürdig né Schutzbedürftig) per cui l’inflizione della pena pubblica non dovrebbe aver luogo (91). Ad una tale interpretazione del principio di ultima ratio dell’intervento penale, si collega la, sopra citata, rivalutazione del principio di autoresponsabilità, con riferimento anche alla vittima del reato: l’uomo, dunque, in quanto capace di autogestirsi e autorealizzarsi, si vedrebbe attribuito, da un lato, il diritto di disporre dei propri beni in modo assoluto; dall’altro, però, anche l’obbligo di difenderli dalle possibili aggressioni provenienti da terzi (92). Un tale obbligo di difesa andrebbe individuato (in concreto) in relazione ai mezzi a disposizione e dovrebbe, quindi, considerarsi trasgredito solo in presenza di un’omissione di misure di protezione possibili, ragionevoli, comuni ed esigibili (93). 4.3.2. Possibilità di autotutela, intensità del pericolo, bisogno di tutela. Uno dei problemi fondamentali, che hanno dovuto affrontare i vittimodogmatici, è stato proprio quello concernente l’individuazione di criteri univoci per la determinazione dei mezzi di autodifesa che la vittima dovrebbe attivare per essere considerata meritevole e bisognosa di tutela penale (94). La Selbstschutzmöglichkeit (possibilità di autotutela), sia in relazione al contenuto che alla misura, sarebbe infatti difficilmente individuabile a priori, in quanto influenzata da vari fattori: dallo stato dell’evoluzione della formazione sociale alla quale il titolare del bene appartiene; dall’intensità del pericolo cui è esposto il bene, varia(90) Così, tra gli altri, B. SCHÜNEMANN, Zur Stellung des Opfers im System der Strafrechtspflege, in NStZ, 1986, 5, p. 193 ss., il quale, nel collegarsi ad una visione della denuncia come mezzo di selezione dei comportamenti devianti e come segno di un turbamento evidente, e ad una considerazione della composizione del conflitto tra autore e vittima come mezzo per far venir meno la minaccia al senso di sicurezza e quindi il bisogno di pena del fatto, afferma che il comportamento della vittima può senz’altro essere inteso come indicatore dei fatti di reato che siano realmente bisognosi di pena secondo la collettività. (91) Cfr. ancora SCHÜNEMANN, Die Stellung, cit. (nota 113), p. 439 ss.; sul punto cfr. anche SILVA SANCHEZ, Considerazioni vittimologiche, cit. (nota 81), p. 669. (92) Cfr. ELLMER, op. cit. (nota 70), p. 234; R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 35 ss., il quale ricostruisce il fondamento del principio di autoresponsabilità, non solo nel principio di sussidiarietà, ma anche nella stessa funzione del diritto penale come tutela dei beni giuridici. (93) Cfr. SILVA SANCHEZ, Considerazioni vittimologiche, cit. (nota 81), p. 669. (94) Questo è stato, peraltro, l’aspetto su cui maggiormente si sono concentrate le critiche rivolte all’impostazione de qua. In particolare, viene posta in dubbio l’accettabilità del principio vittimologico da un punto di vista politico-criminale, sotto il profilo dell’indeterminatezza della fattispecie che all’utilizzazione di un tale principio conseguirebbe. Questo si verificherebbe in quanto, per l’effettiva configurabilità della fattispecie, i vittimodogmatici richiedono la presenza e l’accertamento di un elemento, tacito, identificabile con la meritevolezza di tutela della vittima. Richiedono cioè il riferimento ad un ‘‘modello comportamentale indeterminato e ipotetico’’ relativo al soggetto passivo. Gli stessi limiti della possibilità di autotutela del titolare del bene sono alquanto vaghi e difficilmente determinabili, e questo si ripercuoterebbe in particolar modo sulla funzione di prevenzione generale (sia sotto il profilo della deterrenza sia sotto quello dell’orientamento ai valori di una convivenza civile). Il fatto che divenga incerto il confine tra lecito e illecito, infatti, farebbe venir meno la forza intimidatoria della norma; [così DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 266 ss.; GÜNTER, op. cit. (nota 85), p.78].
— 1171 — bile, a sua volta, storicamente; dai rapporti sociali esterni (Ausserkontakt) dell’individuo, bisognoso della collettività in ogni fase della sua esistenza e del suo sviluppo (95). La valutazione della possibilità di autotutela dovrebbe andare, inoltre, correlata con quella del pericolo generale, concetto che indicherebbe le modalità, l’intensità e la probabilità che un bene tutelato subisca un’aggressione (96). Anch’esso non sarebbe costante ma varierebbe con l’evoluzione della società. La possibilità di tutela, quindi, dovrebbe, in relazione alle modificazioni cui è soggetto il pericolo generale relativo a quel determinato bene, essere riconsiderata e rideterminata ogni volta (97). Solo in base ad una valutazione congiunta dei due elementi (possibilità di autotutela e pericolo generale), si otterrebbe, così, l’intensità del pericolo cui verrebbe effettivamente esposto il bene giuridico tutelato. La crescita di tale intensità, dovuta al comportamento del titolare del bene giuridico, comporterebbe, poi, la riduzione del bisogno di tutela dello stesso (Schutzbedürftigkeit). In alcuni casi, e a determinate condizioni, il bisogno di tutela non solo potrebbe diminuire, ma, addirittura, venir meno del tutto: questo, ad esempio nell’ipotesi in cui la possibilità di una corrispondenza tra intensità di pericolo in concreto e in astratto fosse a priori esclusa; laddove, in altre parole, il pericolo estremamente alto per il bene tutelato fosse la conseguenza di un comportamento non socialmente adeguato dello stesso titolare. In questo caso, infatti, potendo il pregiudizio essere evitato con un comportamento socialmente adeguato, esisterebbe, a garanzia della protezione del bene, un mezzo idoneo e meno gravoso della pena criminale, la quale, quindi, perderebbe il connotato di necessarietà che ne legittimerebbe, altrimenti, l’intervento (98). Perché si possa parlare di mancanza di bisogno di tutela della vittima sarebbe comunque necessaria la presenza di alcuni elementi ulteriori che caratterizzino il comportamento dalla stessa tenuto (causa dell’aumento dell’intensità di pericolo concreto). In primo luogo, tale comportamento dovrebbe essere conseguenza di una decisione autonoma e responsabile; la vittima dovrebbe quindi essere consapevole del valore della propria condotta e delle conseguenze che ad una tale scelta potrebbero riconnettersi; in secondo luogo, la pretesa in ordine al mantenimento del pericolo ad un livello corrispondente a quello astrattamente tipiz(95) R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 51. Per spiegare il condizionamento dei rapporti sociali sulla capacità di autotutela dell’individuo e, tuttavia, il bisogno che lo stesso ha di vivere in una collettività, l’autore riporta, come esempio, la situazione esistenziale di Robinson Crusoè (in un’isola deserta, senza alcun contatto con altri uomini). Solo in una condizione corrispondente sarebbe immaginabile una piena e assoluta Selbstschutzmöglichkeit [cfr. R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 25]. La difficoltà di un criterio di individuazione e delimitazione del contenuto della possibilità di autotutela della vittima e quindi, correlativamente, dell’obbligo di adottare le relative misure precauzionali a tutela del proprio bene giuridico, emerge anche dall’opera di Ellmer, il quale se ne occupa, tuttavia, solo con riferimento alla fattispecie di truffa. In particolare, un punto fermo è che l’adozione di siffatte misure sia esigibile; l’esigibilità è da valutare in concreto, tenuti presenti molteplici fattori; ad esempio il significato che l’affare riveste per la vittima; il tipo di interesse in gioco, il rapporto che la stessa ha con l’autore. In linea generale è necessario, secondo l’autore, poter formulare un giudizio di colpa grave nei confronti del comportamento della vittima. Solo in questo caso la ‘‘corresponsabilità’’ della vittima può portare ad una non configurabilità del delitto di truffa [ELLMER, op. cit. (nota 70), p. 284 ss.]. (96) Così R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 26. (97) Così, per esempio, nel campo della circolazione stradale; l’enorme sviluppo dei mezzi di circolazione di massa avrebbe portato, da un lato, ad un aumento del pericolo per la sicurezza della persona, fino ad un grado inimmaginabile un secolo fa; dall’altro lato, e correlativamente, ad una diminuzione notevole delle possibilità di autodifesa del singolo; cfr. R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 26. (98) Cfr. R. HASSEMER, op. cit. (nota 53), p. 80.
— 1172 — zato in fattispecie dovrebbe essere esigibile (zumutbar): la vittima dovrebbe, cioè, avere la possibilità di porre in essere una condotta alternativa rispetto a quella tenuta (99). 4.3.3. Meritevolezza di pena e meritevolezza di tutela, bisogno di pena e bisogno di tutela come componenti del concetto materiale di reato. Il ruolo determinante che la vittimodogmatica assegna al bisogno di tutela della vittima del reato, come corrispondente sul piano individuale, concreto, del principio della necessità di pena, è emerso già dalla precedente illustrazione dei contenuti dell’orientamento in questione. In un rapporto corrispondente si troverebbero anche il concetto di meritevolezza di (99) Il principio del bisogno di tutela della vittima viene utilizzato da Hassemer per un’interpretazione teleologica delle fattispecie, in base a cui proporre una spiegazione del fondamento di alcuni istituti di parte generale (ci riferiamo in particolare alla legittima difesa e alle ingiurie od offese reciproche previsti rispettivamente dai §§ 33, 199 e 233 StGB) e ad una riduzione dell’ambito di operatività delle disposizioni di parte speciale (soprattutto in riferimento al delitto di truffa che rappresenta, peraltro il campo di indagine preferito dai sostenitori della prospettiva vittimologica). Diversa dalla ‘‘interpretazione teleologica’’ è la ‘‘riduzione teleologica’’, procedimento utilizzato, ad esempio, da Ellmer, il cui scopo è quello di selezionare i comportamenti apparentemente riconducibili alle fattispecie astratte di reato, ma che, anche (e soprattutto) sulla base di un giudizio sulla possibilità di autotutela della vittima del reato, non raggiungono un grado di pericolosità sufficiente per legittimare un intervento penale. La differenza tra l’interpretazione e la riduzione teleologica viene dalla dottrina dominante, e comunque dai vittimodogmatici, individuata principalmente nel fatto che la seconda supera i limiti del significato letterale della norma. Elimina, quindi, dalla sfera di efficacia della fattispecie, tutta una serie di ipotesi che sicuramente sono previste nel testo. La distinzione tra i due procedimenti metodologici si riferisce alla separazione, individuata dalla filosofia analitica del linguaggio, tra nucleo del concetto (Begriffkern) e area del concetto (Begriffhof). Gli elementi sicuramente riconducibili al contenuto della norma, sono detti elementi positivi (positive Kandidaten) e appartengono al Begriffkern; gli elementi la cui riconducibilità al contenuto della fattispecie è dubbio, sono elementi neutri (neutralen Kandidaten) e appartengono al Begriffhof; quelli sicuramente estranei al contenuto della norma, sono detti elementi negativi (negativen Kandidaten). La riduzione teleologica ha la peculiarità di incidere anche sugli elementi positivi, eliminandoli dal Begriffkern, laddove l’interpretazione si limita solo ad operare sugli elementi neutri e negativi. Ellmer così, applicando la riduzione teleologica alla fattispecie della truffa, giunge ad affermare che quei gruppi di casi, in cui la vittima avrebbe potuto evitare di cadere in errore senza uno sforzo particolarmente gravoso, sono elementi positivi, che, attraverso un tale procedimento metodologico, vengono ‘‘presi fuori’’ dal nucleo del significato della condotta tipica [cfr. ELLMER, op. cit. (nota 70), p. 287 ss.; sui concetti di riduzione teleologica e interpretazione teleologica cfr. DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 66 ss.; SILVA SANCHEZ, Considerazioni vittimologiche, cit. (nota 81), p. 671; SCHÜNEMANN, Methodologische Prolegomena zur Rechtsfindung im Besonder Teil des Strafrechts, in Festschrift für Paul Bockelmann zur 70. Geburtstag, 1979, p. 117 ss.]. Critico nei confronti del criterio distintivo sopra brevemente riportato, è invece Hillenkamp, secondo cui il ‘‘senso letterale’’, utilizzato dalla opinione dallo stesso criticata, come punto di riferimento per la costruzione di un criterio distintivo tra interpretazione e riduzione (così come tra analogia e interpretazione estensiva), sarebbe difficilmente tipizzabile per la stessa indeterminatezza dei vocaboli e quindi troppo flessibile sarebbe il confine tra i concetti da individuare [cfr. HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 176 ss.]. Per questo l’autore critica i procedimenti interpretativi utilizzati dai vittimodogmatici in quanto contrastanti con il principio, costituzionale, di legalità. Anche se in bonam partem, infatti, i procedimenti di riduzione teleologica delle fattispecie sarebbero da considerare illegittimi, in quanto porterebbero a delineare il principio di legalità come principio che, nel tutelare la libertà del cittadino dagli arbitri dello Stato, darebbe un valore prevalente alla tutela della libertà dell’autore, a scapito della vittima [HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 153 ss.].
— 1173 — pena (Strafwürdigkeit) del fatto e di meritevolezza di tutela (Schutzwürdigkeit) della vittima (100). Come noto, le categorie della meritevolezza e del bisogno di pena sono state oggetto, nei tempi recenti, di un diffuso interesse nella letteratura penalistica, soprattutto d’oltralpe. A volte utilizzate come indissolubilmente collegate tra loro, altre volte intese separatamente, si sono viste attribuire funzioni, natura, collocazioni dogmatiche, le più disparate e spesso confuse. Un approfondimento della tematica porterebbe troppo al di là dei limiti e degli spazi del presente lavoro (101). Sul punto, ci limitiamo ad evidenziare come sia duplice la funzione che ad esse deve essere riconosciuta: da un lato, senza dubbio, una funzione di politica criminale; le scelte di criminalizzazione possono cioè riguardare solo quelle condotte che siano meritevoli di pena, e per le quali quella pena sia quindi effettivamente necessaria; ma dall’altro, e questo aspetto sarà ripreso anche in seguito, anche una funzione di interpretazione, verifica e correzione del dato positivo esistente, motivata da esigenze, insopprimibili, di giustizia (102). I vittimodogmatici rivalutano le due categorie della meritevolezza e del bisogno di pena del fatto e (qui l’elemento di novità) le integrano con quelle della meritevolezza e del bisogno di tutela della vittima. La meritevolezza di tutela della vittima viene infatti intesa quale condizione per la meritevolezza di pena dell’autore (così come il bisogno di tutela sarebbe condizione per il bisogno di pena del fatto) (103), in quanto, come già illustrato, la pericolosità effettiva della condotta del soggetto agente dipenderebbe (soprattutto) dall’accertamento in ordine al rispetto (esigibile) da parte del titolare del bene giuridico dei doveri di protezione dello stesso (104). In base ad una tale impostazione, dunque, si giunge ad affermare che, con la previsione delle fattispecie astratte di reato, il legislatore avrebbe creato una presunzione di meritevolezza di tutela dei soggetti vittime di determinati fatti. La presunzione sarebbe, tuttavia, solo relativa potendo essere smentita da un accertamento in concreto che verifichi proprio, ad esempio, la mancanza della meritevolezza o bisogno di tutela di coloro che vedono pregiudicati i loro beni. Il giudice non dovrebbe, quindi, applicare la norma in tutti quei casi in relazione ai quali una verifica sull’effettiva mancanza di merite(100) Cfr., sul punto, in particolare ELLMER, op. cit. (nota 70). Per una critica radicale di tale aspetto, vedi GÜNTHER, op. cit. (nota 85), p. 76 ss. (101) Rinviamo, tra gli altri a LÄNGER, Das Sonderverbrechen, Berlin, 1972, p. 275 ss.; OTTO, Strafwürdigkeit und Strafbedürftigkeit als eigenständige Deliktskategorien?, in Gedächtnisschrift für H. Schröder, München, 1978, p. 53 ss.; SCHMIDHÄUSER, Strafrecht. A. T., 1975, p. 2/10 ss.; SCHÜNEMANN, Besondere persönliche Verhaltnisse und Vertretenhaftung im Strafrecht, in ZSchwR, 1978, p. 131 ss.; VOLK, Entkriminalisierung durch Strafwürdigkeitskriterien jenseits des Deliktsaufbaus, in ZStW, 1985, p. 870 ss. Per una ricostruzione del dibattito, cfr. M. ROMANO, ‘‘Meritevolezza di pena’’, ‘‘bisogno di pena’’ e teoria del reato, in Scritti in memoria di R. Dell’Andro, vol. II, Bari, p. 789 ss. (102) Così M. ROMANO, ‘‘Meritevolezza’’, cit. (nota 129), p. 803 e riferimenti bibliografici ivi richiamati. Secondo l’opinione dell’autore, da noi peraltro condivisa, tali due diverse categorie, strettamente connesse tra loro, non possono integrare un quarto gradino nella struttura del reato, che si aggiunga alla triade tipicità, antigiuridicità e colpevolezza, ma costituiscono, invece, la ‘‘connotazione autentica dell’illecito penale’’, e contribuiscono insieme all’identificazione del tipo di illecito, essendo entrambe il portato dei principi di sussidiarietà e del diritto penale come extrema ratio. (103) La stretta connessione tra le categorie in questione trova, secondo Ellmer, un chiaro riconoscimento normativo nell’ambito della c.d. ritorsione (§§ 199, 233 StGB): la provocazione effettuata dal primo agente, comporta una diminuzione della sua meritevolezza di tutela e, quindi, correlativamente, un’attenuazione della meritevolezza di pena del secondo agente. Il giudice può, di conseguenza ritenere di non punire uno od entrambi i colpevoli. (104) Cfr. ELLMER, op. cit. (nota 70), p. 240 ss.
— 1174 — volezza (o di bisogno) di tutela della vittima rendesse non configurabile la fattispecie e, quindi, non legittimato un intervento penale (105). Da questo procedimento interpretativo sembrerebbe, quindi, potersi desumere una collocazione delle quattro categorie citate nell’ambito della tipicità e il riconoscimento di una loro duplice funzione: non solo, come sopra indicato, di politica legislativa, ma anche di correzione in via interpretativa del dato positivo e di adeguamento dell’astratto al concreto (106). 5.
LA RILEVANZA DELLA PARTECIPAZIONE DELLA VITTIMA AL REATO NEL DIBATTITO SULLA ‘‘AUTOESPOSIZIONE AL PERICOLO’’ (EIGENVERANTWORTLICHE SELBSTGEFÄHRDUNG) E SUL ‘‘CONSENSO AD UN PERICOLO ALTRUI’’ (EINVERSTÄNDLICHE FREMDGEFÄHRDUNG). ALTERNATIVE PER UN FONDAMENTO DI TALE RILEVANZA.
5.1. Premessa. In sede di trattazione della disciplina e della interpretazione del consenso dell’avente diritto, abbiamo accennato al fatto che il dibattito concernente la rilevanza penale del comportamento della vittima del reato, in contesti che sono generalmente altri rispetto a quello italiano, si arricchisce spesso di prospettive alternative, o comunque ulteriori, rispetto al riferimento all’ambito dell’antigiuridicità. L’esigenza di soluzioni dogmatiche diverse è, peraltro, facilmente comprensibile se si pensa che oggetto del dibattito sono state soprattutto situazioni in cui il bene leso o messo in pericolo dal ‘‘concorso’’ di fatti posti in essere sia dall’agente che dalla vittima stessa è tradizionalmente ritenuto sottratto alla disponibilità del suo titolare (sono in genere ipotesi in cui viene messa in pericolo la vita o l’integrità fisica della persona). Per poter esaminare e comprendere le alternative che sono state proposte in relazione alla questione di cui ci stiamo occupando, non si può, tuttavia, prescindere da un dato preliminare: la maggior parte delle impostazioni teoriche in questione prende le mosse da una distinzione tra due tipologie di situazioni: vera e propria autoesposizione volontaria (responsabile) al pericolo da parte della vittima (eigenverantwortliche Selbstgefährdung) e consenso ad un pericolo posto in essere da altri (einverständliche Fremdgefährdung). La linea di demarcazione è individuata in ragione del soggetto che ha il dominio degli eventi: la vittima stessa, nel primo caso; l’agente, nel secondo (107). Una tale suddivisione è certamente opportuna ed equa; non sembra possa essere posto in dubbio, infatti, che ci sia una connotazione di disvalore meno pregnante (e quindi una rilevanza minore) in un fatto (della vittima) che sia riconducibile ad una mera adesione ad una condotta pericolosa (altrui), piuttosto che in un contributo (sempre della vittima) effettivo ed attivo (nel senso di costruttivo) alla realizzazione della situazione di pericolo. D’altra parte, anche uno sguardo alle indicazioni provenienti dalla nostra legislazione conferma una (105) Così ELLMER, op. cit. (nota 70), p. 242. (106) Critica, nei confronti di un’utilizzazione del principio vittimologico de lege lata ed in particolare di una restrizione giudiziale dell’ambito di efficacia della norma penale sulla base dei principi di sussidiarietà e di ultima ratio, è invece Del Tufo. Entrambi i principi citati, infatti, non sarebbero, come i vittimodogmatici implicitamente assumono, rivolti all’interprete, ma avrebbero come destinatario il legislatore, il solo in grado di formulare il giudizio sull’opportunità di sottoporre o meno a pena un determinato comportamento. Cfr., anche per i riferimenti bibliografici sul punto, DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 237 ss. (107) La distinzione è opera di Roxin, ed è oggi generalmente adottata da tutti coloro che si sono occupati della materia. Cfr. ROXIN, Strafrecht, cit. (nota 81), § 11, I, p. 335 ss.; Zum Schutzzweck der Norm bei fahrlässigen Delikten, in Festschrift für Gallas, zum 70. Geburtstag, Berlin, 1973, p. 243; tra gli autori italiani, cfr. tra gli altri CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, p. 210 ss.; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, pp. 607-608 in nota.
— 1175 — tale impressione. Basti infatti pensare al diverso trattamento sanzionatorio riservato, nelle ipotesi base, all’omicidio del consenziente (in cui la pena prevista è la reclusione da sei a quindici anni) e all’istigazione al suicidio (in cui la pena è la reclusione da cinque a dodici anni). Ancora più evidente questa divaricazione appare in quegli ordinamenti (come ad esempio quello tedesco) in cui non ha rilevanza penale la partecipazione al suicidio mentre è punito l’omicidio su richiesta (108). Pur accettando la distinzione tra einverständliche Fremdgefährdung e eigenverantwortliche Selbstgefährdung, va purtuttavia evidenziata la fluidità della linea di demarcazione individuata, per cui spesso appare problematico stabilire chi tra i soggetti, autore o vittima, abbia un effettivo dominio sul fatto. Si pensi proprio ai casi, generalmente menzionati come esempi rientranti nella prima delle due tipologie, di consenso a trasporti pericolosi, come il c.d. Memel-Fall (109) o come il Motorrad-Fall (110), o al caso, spesso citato, del soggetto che insista per avere un passaggio da un guidatore palesemente ubriaco o che sproni il conducente del mezzo a tenere una velocità eccessiva (111), ma anche ai casi, solo di recente giunti agli onori della cronaca, del c.d. ‘‘car surfing’’ (112). In tutte queste ipotesi, specie se, come sembra, si sia in presenza di una pressante insistenza della vittima nei confronti dell’agente affinché ponga in essere la condotta pericolosa, se pure è indubbio che il dominio del mezzo sia dell’autore, tuttavia è a nostro parere discutibile che un complessivo dominio (anche in senso psicologico) sugli avvenimenti appartenga effettivamente a quest’ultimo. Le posizioni appaiono talvolta rovesciate, e sembra quasi che sia l’autore ad ‘‘acconsentire’’ alla condotta pericolosa (pur alla fine da lui stesso posta in essere) (113). Pur con le perplessità evidenziate, riteniamo comunque opportuno attenerci alla distinzione sopra individuata e tenerne conto nel passare ora ad esaminare i possibili riflessi di un contributo della vittima del reato sulla punibilità dell’agente. (108) Il § 216 StGB (Tötung auf Verlangen), infatti, prevede la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni. (109) RGSt 57, 172. Il caso, frequentemente citato dagli autori che si sono occupati delle problematiche inerenti all’imputazione dell’evento, è il seguente: un traghettatore aveva accettato, dopo insistenti richieste, di portare due passeggeri da una parte all’altra del Memel, nonostante le condizioni del tempo e dello stesso fiume fossero quasi proibitive. I due passeggeri, che avevano insistito nonostante il traghettatore li avesse avvisati del pericolo, morirono affogati a causa del ribaltamento del traghetto. Cfr. tra gli altri, WALTHER, Eigenverantvortlichkeit und Strafrechtliche Zurechnung, Freiburg. i. Br., 1991, p. 9. (110) RGJW 1925, 2250; Tizio, futura vittima, accettò di salire sulla moto di Caio, essendo a conoscenza del fatto che questi fosse sprovvisto di patente. Inoltre i freni non funzionavano, ma di questo la vittima fu informata solo al momento della partenza. Cfr. WALTHER, op. cit. (nota prec.), p. 9. (111) Cfr. CASTALDO, L’imputazione, cit. (nota 107), p. 220. (112) Il gioco consiste nel salire sul tetto di una automobile che viene guidata ad una velocità di cinquanta chilometri all’ora da un amico il quale poi frena improvvisamente. La sfida, nella modalità di base, è quella di riuscire a sopravvivere dopo essere rotolati giù dal tetto, ma ci sono numerose varianti. Vedi ‘‘Usa, i dannati del car surfing’’, in La Repubblica, lunedì 28 dicembre 1998. (113) Le difficoltà evidenziate sono confermate anche dal fatto che molte situazioni vengono inserite ora nell’una categoria ora nell’altra. Si pensi al c.d. Kemptner-Fall, in cui la fidanzata sedicenne dell’imputato, aveva avuto un rapporto sessuale non protetto con lo stesso, pur essendo consapevole del fatto che fosse malato di AIDS. Il Tribunale Superiore della Baviera ritenne che la condotta del partner sano potesse integrare gli estremi di un’autoesposizione responsabile al pericolo, con conseguente non punibilità dell’imputato per lesioni pericolose, in quanto si poteva riscontrare una dominabilità degli eventi da parte della vittima [BayObLG, NStZ 1990, 81. Su tale pronuncia, e in generale sulla problematica inerente all’AIDS, cfr. W. FRISCH, op. cit. (nota 82), p. 2 e p. 66 e riferimenti ivi citati]. Ritiene, ad esempio, che questo caso non sia qualificabile come partecipazione ad un’autoesposizione al pericolo, ma come accettazione, da parte della vittima, di un pericolo posto in essere da altri, ROXIN, Strafrecht, cit. (nota 81), § 11, p. 345.
— 1176 — 5.2. Il ‘‘consenso ad un pericolo altrui’’ e il consenso dell’avente diritto. L’affinità strutturale delle ipotesi che vengono complessivamente accomunate sotto la denominazione di einverständliche Fremdgefährdung con la situazione tipica del consenso scriminante è, alla stregua di quanto sopra evidenziato, immediatamente percepibile. La loro riconducibilità effettiva alla disciplina del consenso è tuttavia ostacolata, in genere, da due fattori. Da un lato, come abbiamo già avuto modo di dimostrare, il frequente coinvolgimento di beni in linea di principio ritenuti indisponibili; dall’altro la mancanza, nel soggetto passivo consenziente, della volontà dell’evento offensivo. Tentativi di ampliare la sfera di operatività del consenso in modo da estenderla anche ai casi in cui vengano in gioco la vita o l’integrità fisica e/o ai casi in cui si sia in assenza di un consenso alla lesione (ma sia purtuttavia individuabile un consenso al pericolo) non sono, peraltro, riscontrabili solo nell’ambito della discussione scientifica italiana (114). In effetti, come abbiamo già avuto modo di accennare, il procedimento di ricostruzione della disponibilità del bene sulla base di un bilanciamento, in concreto, dello scopo per cui si consente, del grado di pericolo cui il bene verrebbe ad essere esposto, del valore dei beni (quello che sarebbe sacrificato in virtù del consenso e quello per la tutela del quale il consenso viene prestato), è stato proposto proprio in seno alla dottrina tedesca (115). La tesi è tutt’altro che priva di spunti interessanti, tanto più che cerca di convertire in una veste giuridica plausibile un sentire sociale ormai generalizzato: rispettare l’autonomia del titolare di un bene (quale ad esempio quello della vita), il quale decida, per scopi ricono(114) Per quanto concerne lo stato del dibattito italiano su questi due punti, vedi retro, par. 3.3.2. (115) Ci riferiamo in particolare a Dölling [ma vedi già NOLL, Tatbestand und Rechtswidrigkeit, cit. (nota 72)]. Per quanto concerne la questione dell’oggetto del consenso, secondo Dölling la competenza a consentire, attribuita al titolare dei beni giuridici, in relazione ad alcuni fra questi, comporterebbe la facoltà di dispensa dalla norma giuridica posta per la loro tutela. Il consenso, dunque, neutralizzerebbe il divieto rivolto alla condotta e renderebbe privo di tutela l’oggetto da quella minacciato. Oggetto di accertamento, nel caso concreto, sarebbe la volontà del titolare del bene di rinunciare alla tutela giuridica e di abbandonare il bene stesso alla condotta pericolosa; sarebbe invece irrilevante che voglia la lesione dell’oggetto o confidi, invece, in una non verificazione della stessa. La soluzione, invece, della questione relativa all’indisponibilità del bene vita, (dato che sembrerebbe impedire la operatività del consenso in materia di omicidio) dipenderebbe dalla soluzione di due ‘‘sotto-questioni’’: quale sia la ratio alla base dell’inefficacia del consenso nell’omicidio doloso (il § 216 StGB incrimina infatti l’omicidio su richiesta), da un lato; l’estendibilità di una tale ratio anche all’ipotesi colposa, dall’altro. L’inefficacia del consenso nell’omicidio si baserebbe, infatti, sulla necessità di una tutela rafforzata del bene vita, contro le aggressioni di terzi; tutela che, di conseguenza, verrebbe accordata anche quando la vittima si sia dimostrata in accordo con le stesse aggressioni; sarebbe quindi una garanzia per il rispetto della vita altrui. Un tale fondamento, comune a tutte le incriminazioni in tema di omicidio, non potrebbe, secondo l’autore, non valere anche nel caso di aggressione colposa alla vita. In troppe situazioni questa diventerebbe pienamente disponibile. Tuttavia in alcuni casi l’uccisione colposa con il consenso della vittima apparirebbe non meritevole di pena. L’inefficacia scriminante del consenso nell’omicidio colposo, dunque, non varrebbe illimitatamente: il consenso potrebbe eccezionalmente scriminare quando il valore dello scopo realizzato con il fatto, superi il disvalore insito nell’uccisione colposa. A questi fini sarebbe opportuno, quindi, effettuare un bilanciamento tra il grado del pericolo ed il valore in funzione del quale viene esercitato il potere di autodeterminazione dalla vittima (ad esempio la tutela della vita, dell’integrità fisica, interessi della collettività...). In base ad una tale costruzione, la punibilità sarebbe senza dubbio da affermare qualora il rischio per la vita fosse molto alto, mentre sarebbe con certezza da escludere qualora fosse bassissimo. Nei casi intermedi il consenso avrebbe efficacia scriminante, quando la condotta pericolosa fosse indispensabile per la realizzazione di un valore di alto rango [DÖLLING, op. cit. (nota 72), p. 82 ss.; sul punto vedi anche WALTHER, op. cit. (nota 109), p. 35].
— 1177 — scibili (non solo soggettivamente) come degni di approvazione, di esporsi ad una situazione potenzialmente pericolosa; nel rispetto di tale autonomia, dunque, non considerare reato il fatto di chi una siffatta situazione abbia contribuito a porre in essere. Certo è che una soluzione di tal genere può adattarsi solo ai casi nei quali la condotta pericolosa cui si consenta rientri nell’ambito di attività connotate da un’utilità tale da motivare uno scopo (lo scopo del consentire, appunto) bilanciabile con l’offesa a beni tanto rilevanti (come la vita, l’integrità fisica, la libertà personale). La tesi in questione ci sembra, dunque, adottabile, ma certo solo in relazione a situazioni quali l’attività medico-chirurgica, la sperimentazione sull’uomo, le attività sportive, i trattamenti nelle comunità di recupero per tossicodipendenti. Già problematica ne appare, invece, l’utilizzabilità in relazione all’attività sessuale (e quindi, ad esempio alle ipotesi di contagio da virus HIV tramite rapporti sessuali non protetti con partner consenziente), e certo improponibile nei casi di cessione di droga e morte dell’assuntore (116), ma anche in quelli, sopra citati, di consenso a trasporti pericolosi (117). 5.3. (Segue): il ‘‘consenso ad un pericolo altrui’’ e le regole obiettive di diligenza. A fronte dei tentativi sopra illustrati di mantenersi, nella ricerca delle soluzioni adottabili per i casi ‘‘problematici’’ più volte evidenziati, ancorati ai meccanismi propri del consenso scriminante, e quindi all’ambito dell’antigiuridicità, non mancano tuttavia iniziative volte ad individuare nella tipicità il livello in riferimento al quale l’adesione del titolare del bene possa esplicare un qualche effetto. Prescindendo dall’impostazione che ritiene che la partecipazione del titolare del bene offeso al reato incida sempre sulla tipicità del fatto (perché lo stesso ‘‘consenso dell’avente diritto’’, in senso proprio, opererebbe sempre come causa di esclusione della tipicità, e non dell’antigiuridicità) (118), la soluzione che qui ci preme verificare nei fondamenti e nelle conclusioni è quella che (pur con riguardo ai soli reati colposi) individua l’incidenza di una tale partecipazione — adesione — nell’ambito dei meccanismi di formazione e/o delimitazione della misura della diligenza. In quest’ottica, si è ritenuto in particolare che ‘‘laddove siano comunque ravvisabili i requisiti di validità ed efficacia della causa di giustificazione del ‘‘consenso dell’avente diritto’’ e dunque, in primis, si versi in materia non sottratta all’ambito di disponibilità del singolo, ...il consenso prestato dal titolare del bene all’evento lesivo dispiegherà senz’altro il proprio effetto scriminante, facendo venir meno l’antigiuridicità del fatto. E tuttavia la libera scelta dell’interessato di esporre a pericolo beni anche rilevanti e quindi propriamente sottratti alla sua disponibilità non potrà che incidere (e tanto più incisivamente quanto più il bene esposto, ancorché non disponibile, risulti pertinente ad una sfera di interessi individuali) su quel (116) In questo senso anche lo stesso DÖLLING, op. cit. (nota 72), p. 90 ss. I casi in questione, peraltro, vengono considerati come forme di autoesposizione al pericolo o di creazione del pericolo consentita a seconda che l’atto dell’iniettare la droga sia posto in essere dal tossicodipendente o dallo stesso cedente la sostanza; così ROXIN, Strafrecht, cit. (nota 81), § II, p. 337 ss. (117) Salvo che si ipotizzi uno scopo particolarmente degno di considerazione e tutela. Vedi retro, p. 23. (118) Cfr., in Germania, tra gli altri, ARTZ, Willensmängel bei der Einwilligung, Frankfurt, 1970, p. 10 ss.; ROXIN, Strafrecht, cit. (nota 81), § 13, p. 462 ss.; in Spagna, BUSTOS RAMIREZ, Manual de derecho penal español - Parte general, Barcelona, 1985, p. 223; DE LA GANDARA VALLEJO, op. cit. (nota 58), p. 247 ss. Il vero obbiettivo della tutela penale, secondo una tale impostazione, sarebbe infatti non il bene giuridico in sé, ma il dominio del titolare su di una determinata sfera e quindi la garanzia del libero sviluppo ed esercizio di un tale dominio. Secondo quest’ottica, prettamente individualistica, non si sarebbe in presenza di una lesione tipica ogni qualvolta l’aggressione alla sfera di dominio del singolo sia da questo consentita e quindi, in sostanza, autorizzata.
— 1178 — bilanciamento tra le grandezze pertinenti al rischio e all’utilità dell’attività pericolosa che si è visto essere alla base della stessa regola di diligenza’’. E ancora: ‘‘il bene esposto all’attività pericolosa risulterà tendenzialmente meno meritevole di protezione (i.e. meno pervasivo risulterà in capo all’agente il dovere di adottare cautele preventive) e, dunque, sarà lecito esporlo a rischi tendenzialmente più elevati e/o meno controllabili di quelli che, in assenza del consenso del titolare, sarebbero risultati compatibili con una condotta diligente’’ (119). La tesi prende spunto, in via esemplificativa, dai già citati casi dell’attraversamento del fiume Memel (c.d. Memel-Fall) e della corsa pericolosa in motocicletta (c.d. Motorrad-Fall), in relazione ai quali, peraltro, già la giurisprudenza tedesca si era pronunciata utilizzando analoghe argomentazioni; in relazione al Memel-Fall, il Reichsgericht, infatti, se, da un lato, escluse l’applicabilità del consenso scriminante a causa dell’indisponibilità del bene vita, dall’altro ritenne tuttavia non configurabile in capo al traghettatore una responsabilità per omicidio colposo, non ravvisando nel suo comportamento gli estremi di un’obbiettiva violazione delle norme di diligenza. Nel caso concreto, infatti, si era (a detta dei giudici) in presenza sia di una consapevolezza del pericolo da parte delle vittime, sia di una condotta dell’agente rispettosa, comunque, delle cautele dallo stesso esigibili in una condizione di normalità (cioè di assenza del consenso del titolare del bene) (120). Nel Motorrad-Fall il procedimento argomentativo non si diversificò di molto. La pronuncia però fu nel senso della condanna dell’imputato a titolo di omicidio colposo in quanto non fu riscontrato il rispetto delle norme cautelari cui si sarebbe comunque dovuto attenere in mancanza di una consapevole e volontaria adesione del soggetto passivo alla condotta pericolosa (121). Punto di partenza, dunque, per poter sostenere una siffatta impostazione, sembra essere il fatto che l’agente si sia trovato, in ogni caso, in una situazione di rischio consentito. In quest’ottica, il consenso del titolare del bene estenderebbe l’ambito del rischio consentito, e quindi di non tipicità della condotta pericolosa, relativizzando così la misura della cautela necessaria. Questo, si noti, anche in presenza di situazioni lesive di beni, sì individuali, ma purtuttavia sottratti dall’ordinamento alla disponibilità del singolo. Ancora più radicale, nelle conclusioni, l’opinione di chi considera che il consenso della persona offesa possa incidere sulla diligenza richiesta all’agente anche qualora questi ponga in essere condotte non coperte dal rischio consentito (o comunque non socialmente adeguate) e quindi di per sé illecite (122). In realtà non ci sembra che le soluzioni di cui sopra, se riferite ai casi di mero consenso (119) Così FORTI, op. cit. (nota 107), pp. 608-609 in nota. (120) RGSt 57, 172, cit. (121) RGJW 1925, 2250, cit.; stesso procedimento argomentativo e stesse conclusioni si possono riscontrare in ordine al c.d. Schlägerei-Fall, in cui la vittima aveva sfidato l’accusato in un combattimento sportivo in cui trovò la morte. Anche in questo caso, infatti il Bundesgerichthof negò l’applicabilità del consenso scriminante e non riscontrò le condizioni per assolvere il reo non ritenendo che questi avesse comunque rispettato le cautele normalmente richieste in una competizione sportiva [BGHSt 4, 88, 93, citato da WALTHER, op. cit. (nota 109), p. 9]. (122) Così tra gli altri, HIRSCH, Soziale Adäquanz und Unrechtslehre, in ZStrW, 1962, p. 68 ss. Hirsch parte dalla considerazione che nell’ambito dell’illecito colposo, il concetto di adeguatezza sociale non sarebbe in grado di svolgere, con valenza generale, il compito di delimitare le misure cautelari richieste e quindi la responsabilità a titolo di colpa. In particolare tra le situazioni che dovrebbero essere risolte con riferimento ad altri parametri, vi sarebbero quelle caratterizzate da un’autoesposizione al pericolo dello stesso titolare del bene tutelato. Non essendo, secondo l’autore, ipotizzabile ai nostri giorni un’esistenza umana priva di rischi per la vita o per la integrità fisica, accanto a casi di ‘‘rischi consentiti’’, posti in essere nell’ambito di attività socialmente adeguate, infatti, ce ne sarebbero altri, pur meno numerosi dei primi, legati a condotte non socialmente adeguate e, purtuttavia, non tipici. Questa particolare condizione sarebbe propria di alcune attività pericolose, non in armonia con i
— 1179 — o comunque adesione a situazioni di pericolo da altri poste in essere e dominate, possano essere condivise. Uno dei punti nodali è a nostro parere costituito dall’affermazione per cui le conclusioni sopra sostenute possono applicarsi anche in presenza di beni, pur individuali, ma tuttavia indisponibili. È un punto nodale, in quanto la necessità di individuare un ambito di rilevanza ad una partecipazione della vittima — che abbia i connotati sopra descritti, che sia, cioè una forma di einverständliche Fremdgefährdung — diverso da quello proprio del consenso scriminante, si pone, nella pratica, esclusivamente laddove il bene offeso sia un bene indisponibile. Ci sembra tuttavia proprio in questo punto di poter riscontrare la debolezza delle posizioni che qui si considerano: in presenza di beni — individuali — che l’ordinamento sceglie di sottrarre alla disponibilità dei singoli, non è a nostro parere ammissibile che l’adesione del titolare (alla condotta o all’evento non è in questa sede rilevante stabilirlo) sia capace — essa sola — di incidere sul livello di liceità di un comportamento, estendendolo. In presenza di indicazioni positive in senso opposto, un tale indirizzo è sostenibile, a nostro parere, solo se ci si ponga in un atteggiamento di indifferenza o quantomeno di superamento del dato positivo. Ma tale atteggiamento non ci sembra possa essere attribuito alle voci che abbiamo preso in considerazione in questa verifica. Conclusioni e procedimenti argomentativi quali quelli sopra brevemente ripercorsi sarebbero, invece, più coerentemente sostenibili da parte di coloro che riducono la funzione del diritto penale a tutela non dei beni giuridici in sé quanto dell’interesse del titolare di tali beni alla tutela degli stessi. In tal senso, infatti, perderebbe di valore la distinzione tra beni disponibili ed indisponibili e sarebbe incongruo un qualsiasi intervento dello Stato per vietare e punire condotte aggressive di beni (e quindi per proteggere tali beni) in presenza di un disinteresse del titolare ad un tale intervento (o comunque ad una tale protezione) (123). Una tesi siffatta è tuttavia concepibile solo sulla base di un’astrazione dalle indicazioni positive a favore di una distinzione, se pure non così netta, tra beni disponibili e beni indisponibili; la tutela di questi ultimi, diversamente, è impermeabile al disinteresse, o alla tendenziale rinuncia del singolo titolare (124). principi della convivenza sociale, la cui pericolosità, tuttavia, non violerebbe alcuna norma cautelare. Come esempio l’autore indica il rischio per la salute della paziente nell’interruzione della gravidanza, consentita o no, effettuata dal medico. Oppure il rischio per la vita o l’integrità fisica che corrono le prostitute nello svolgimento della loro attività. In questi casi mancherebbe la stessa configurabilità della fattispecie colposa, in quanto gli stessi titolari del bene si sarebbero esposti volontariamente ad un particolare pericolo (erhöhten Risiko) e quindi avrebbero in tal modo acconsentito a che fosse adottata dal terzo solo quel tanto di cautela esigibile in situazioni di rischio corrispondenti in condizioni di normalità. Per stabilire, dunque, se un dato comportamento pericoloso violi o meno le misure cautelari necessarie sarebbe indispensabile riferirsi al quantum di cautela che colui che si sia volontariamente posto nella situazione di pericolo può aspettarsi dal terzo. Su tale impostazione, che insieme a quelle di altri autori viene ricondotta ad un criterio generico di ‘‘assunzione del rischio’’ (Gefahrübernahme), vedi anche WALTHER, op. cit. (nota 109), p. 26. (123) Cfr. P. FRISCH, Das Fahrlässigkeitsdelikt und das Verhalten des Verletzen, Berlin, 1973, p. 120 ss. Secondo l’autore la protezione penale del titolare del bene rispetto ad azioni, non dolose, di terzi, dipenderebbe dal modo e dalla misura in cui lo stesso titolare protegga il proprio bene. La scelta nel senso di un intervento penale si baserebbe infatti su di un giudizio di bilanciamento di interessi contrapposti e su di un giudizio di prevalenza dell’uno rispetto all’altro: l’interesse alla circolazione, da un lato; l’interesse del titolare del bene a che non vengano poste in essere determinate condotte pericolose nei propri confronti, dall’altro. Questo secondo prevarrebbe ogni qualvolta il soggetto si astenga da azioni pericolose e non necessarie. (124) In questo senso W. Frisch il quale, pur riconoscendo che alla base della qualificazione di un determinato comportamento come vietato dalla legge penale, starebbe l’interesse di colui che venga leso nei suoi diritti a che una tale lesione non si verifichi e che, se un
— 1180 — 5.4. Cenni conclusivi su di una rilevanza penale del ‘‘consenso ad un pericolo altrui’’. Anticipando alcuni spunti delle conclusioni complessive che seguiranno, vorremmo a questo punto tracciare un breve e schematico riepilogo di quanto riteniamo si possa sostenere in relazione ad una possibile rilevanza (sulla punibilità) di comportamenti adesivi della vittima del reato che non possano essere ricompresi nell’alveo del consenso scriminante. È opportuno ricordare come una tale preclusione possa avere origine da due fattori fondamentali: i beni offesi non possono essere ritenuti beni disponibili nemmeno alla stregua di una valutazione in concreto della disponibilità; l’atteggiamento di adesione psichica della vittima non raggiunge la soglia (minima) della accettazione del rischio di verificazione dell’evento lesivo. Alla stregua di quanto sopra evidenziato possiamo dunque concludere come di seguito: a) se i beni in gioco sono indisponibili, e chi agisce si trova in una situazione di rischio consentito, non può porsi alcun problema di responsabilità, né (come è ovvio) in assenza né (tanto meno) in presenza di un’adesione della vittima (125). a1) Se (i beni in gioco sono indisponibili e) chi agisce si trova in una situazione che travalica i limiti del rischio consentito, l’adesione del titolare di tali beni non ha alcuna efficacia negativa della responsabilità in quanto non può, essa sola, ampliare i limiti del lecito (126). b) L’eventualità che si verta in una situazione in cui i beni offesi siano disponibili ma tale interesse manchi verrebbe meno il presupposto legittimante la limitazione della libertà di azione del terzo, tuttavia individua un limite fondamentale alla operatività di un tale parametro: la stessa configurazione della fattispecie che verrebbe integrata dalla condotta del terzo. Laddove infatti, alla stregua della fattispecie legale, rilevino altri interessi superiori, quello della vittima diverrebbe in una tale ottica privo di effetto. Ciò accadrebbe, ad esempio, in relazione ai casi di spaccio di sostanze stupefacenti. Il divieto di spaccio sarebbe infatti in funzione di un interesse generale, avente ad oggetto la prevenzione dei pericoli connessi con la tossicodipendenza; il disinteresse dell’assuntore di droga, nei confronti del divieto di una tale attività, sarebbe di conseguenza irrilevante ai fini di una non punibilità dell’agente. Lo stesso discorso potrebbe essere riferito ai casi in cui alla cessione della droga consegua la morte del tossicodipendente che ne abbia fatto uso. In una tale ipotesi, due, infatti, sarebbero le alternative praticabili: ritenere che la norma corrispondente sia funzionale esclusivamente ad una tutela dell’interesse individuale della vittima; in tal caso l’autoesposizione responsabile al pericolo della stessa sarebbe idonea ad escludere la tipicità, rispetto alla fattispecie di omicidio, del fatto del terzo; ovvero considerare che l’incriminazione dell’omicidio trovi una giustificazione, anche, sulla base di una prospettiva più ampia: quella di una tutela dell’interesse, generale, alla salvaguardia della salute del cittadino e della prevenzione della tossicodipendenza. In tal caso, il disinteresse dell’assuntore di droga a che tali condotte siano vietate dall’ordinamento, non avrebbe alcun rilievo per un arretramento della tutela Cfr. W. FRISCH, op. cit. (nota 82), II parte, p. 62 ss. (125) Pur condividendo dunque gli argomenti utilizzati dal Reichsgericht in relazione al già riportato Memel-Fall, ci permettiamo di esprimere forti perplessità in ordine al fatto che il traghettatore (soggetto agente) avesse in quella situazione rispettato la normale diligenza richiesta e quindi si trovasse in una condizione di rischio consentito. Pur collocando la questione nell’ambito dell’imputazione dell’evento, sembra concordare sul punto Romano quando afferma che (il barcaiolo) ‘‘in quelle condizioni poteva e doveva rifiutarsi di aderire alla richiesta’’ [M. ROMANO, Commentario, cit. (nota 47), p. 386, art. 41]. (126) L’unica apertura ad una tale conclusione negativa può in effetti essere rappresentata dall’ipotesi prospettata da Bricola. Il caso preso in esame è il seguente: ‘‘il capo fonditore di una fabbrica decide, previo consenso di due operai particolarmente esperti e dotati di sperimentata capacità, di compiere una determinata operazione con modalità diverse da quelle ordinarie e delle quali egli deve conoscere, in virtù della sua qualifica e delle sue specifiche cognizioni tecniche, il carattere rischioso. Dall’operazione i due operai consenzienti risultano l’uno ferito e l’altro ucciso...’’ [così BRICOLA, Aspetti problematici, cit. (nota 76), p. 89]. L’autore sembra ammettere un rilievo dell’affidamento riposto dall’agente nelle capacità e nello stesso consenso delle vittime sulla configurabilità di una responsabilità colposa. Se-
— 1181 — non si possa riscontrare in capo alla vittima nemmeno l’accettazione del rischio dell’evento lesivo, è ipotesi di scarsa rilevanza pratica ed infatti mai presa in considerazione negli esempi concreti cui nell’ambito del dibattito ci si riferisce (127). Ci sembra tuttavia di poter considerare eccessiva un’esclusione della tipicità di una condotta in conseguenza di un atteggiamento del soggetto passivo di ‘‘adesione colposa’’ in relazione all’offesa di beni, peraltro, disponibili (128). 5.5. La ‘‘autoesposizione al pericolo’’. Cenni preliminari. Abbiamo cercato di dimostrare come difficilmente, a nostro parere, si possa arrivare a giustificare, in presenza di un’adesione del soggetto passivo al fatto, che non assurga, per carenza dei requisiti costitutivi, a vero e proprio consenso scriminante, un venir meno della responsabilità in capo all’agente (129). Diverse ci paiono le conclusioni cui bisogna giungere, invece, quando si è in presenza di un contributo della vittima che integri una vera e propria condo Bricola, infatti, ‘‘il consenso di una persona, notoriamente avveduta e titolare dell’interesse esposto a pericolo, ad intraprendere un’attività genericamente rischiosa, può escludere in concreto il carattere negligente o imprudente del comportamento dell’agente. Trattasi di una valutazione che il giudice deve compiere caso per caso; ove però si riscontri che il consenso del soggetto passivo ha escluso l’evento dal raggio di rappresentabilità dell’agente, la conclusione positiva discende automaticamente dalle premesse fissate in sede teorica. Nessuna influenza può viceversa avere tale consenso sotto il profilo dell’evitabilità’’. Così BRICOLA, Aspetti problematici, cit. (nota 76), p. 117. (127) Certo è che dalle parole utilizzate da Forti, che parla di rinuncia (pur tendenziale) alla tutela del bene, sembra potersi desumere la presenza almeno di una tale accettazione. Le ipotesi quindi rientrerebbero nel consenso scriminante e verrebbe meno la necessità di una soluzione alternativa. Diversamente nella posizione di Peter Frisch che prende in considerazione anche casi di mera ‘‘colpa’’ della vittima. (128) Senz’altro più opportuna appare in tali casi una diminuzione di pena. (129) Nello stesso senso Roxin, secondo cui solo in casi eccezionali la responsabilità dell’agente verrebbe in tali ipotesi meno; solo in quei casi, in particolare, che appaiano negli elementi fondamentali analoghi a vere e proprie autoesposizioni al pericolo. L’autore ritiene di poter dare per una tale valutazione solo alcuni indizi, quali ad esempio, l’uguale livello di consapevolezza del rischio in entrambi i soggetti; o la pari responsabilità per l’avvenimento [cfr. ROXIN, Zum Schutzzweck, cit. (nota 107), p. 252]. Analoghe le conclusioni cui giunge Hillenkamp. L’autore, ritiene che il giudice debba, nella determinazione concreta della pena, avere come punto di riferimento per il suo giudizio, le valutazioni già effettuate dal legislatore. A questo scopo si dovrebbero selezionare tutte le norme che abbiano ad oggetto il comportamento della vittima del reato le quali costituirebbero ‘‘il valore limite’’ (Grenzwerte) al di sotto del quale possono essere formulati e raggruppati vari criteri di commisurazione. Seguendo il percorso illustrato, Hillenkamp individua, nell’ordinamento legislativo tedesco, quattro regole indicative del valore limite (Grenzwertregelungen), riferibili al comportamento del soggetto passivo: la scriminante del consenso dell’avente diritto; la legittima difesa, l’istituto della perdita del diritto, il concorso di persone nel reato. In riferimento a ciascuna di queste quattro ‘‘regole legislative’’, sarebbe quindi identificabile un gruppo di casi, per un totale, quindi di quattro gruppi, a sua volta suddivisibile in ulteriori sotto-gruppi a seconda delle note caratteristiche individualizzanti le varie situazioni. Si distinguerebbero così i casi affini al consenso (die einwilligungnahe Fälle), alla legittima difesa (die notwehrnahe Fälle), all’istituto della perdita del diritto (die verwinkungnahe Fälle) al concorso di persone nel reato (die beteiligungnahe Fälle). Il consenso (Einwilligung), in particolare, escludendo l’antigiuridicità del fatto sarebbe senza dubbio valutabile come valore limite, nel diritto penale, della rilevanza del comportamento della vittima. Qualora, tuttavia, il consenso non possa assurgere, per mancanza di uno o più dei requisiti citati, a causa di giustificazione, dovrebbe poter rilevare nell’ambito della commisurazione della pena. Ecco, allora, a seconda del requisito mancante, ulteriori sottogruppi di casi in cui l’atto del consentire, pur non potendo escludere tout court l’illecito, determinerebbe tuttavia una diminuzione dello stesso [HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 240 ss.]. Sulla rilevanza in sede
— 1182 — autoesposizione al (meglio sarebbe forse dire una ‘‘automessa’’ in) pericolo realizzata dalla vittima stessa che mantenga, entro certi limiti, il dominio degli avvenimenti (secondo la distinzione che, pur con le perplessità sopra rilevate, ci siamo proposti di seguire). A nostro avviso, infatti, in tali situazioni, è da condividere il riferimento alla categoria della tipicità come terreno fertile in relazione al quale trovare soluzioni eque al problema; e questo sotto due punti di vista, separati ma senz’altro complementari: quello della diligenza obbiettiva (nei reati colposi) e quello dell’imputazione oggettiva dell’evento. 5.6. In particolare: la ‘‘autoesposizione al pericolo’’ e le regole di diligenza. Per affrontare il primo profilo, quello cioè di una possibile interferenza del comportamento di autoesposizione al pericolo della vittima con il meccanismo di formazione (oltre che con la delimitazione della misura) delle regole cautelari, è senz’altro opportuno partire da una considerazione teleologica della regola di diligenza specifica in relazione alla situazione concreta. Se, infatti, il soggetto agente fosse rivestito di una posizione di garanzia avente ad oggetto la tutela dell’incolumità della vittima, la diligenza necessaria verrebbe ovviamente a ricomprendere anche l’onere di evitare il verificarsi di eventi determinati da comportamenti di autoesposizione al pericolo posti in essere dalla stessa vittima (130). Al di là tuttavia di una tale ipotesi specifica, è, a nostro parere evidente, in armonia con il principio di personalità della responsabilità penale, la impossibilità di ricomprendere nella sfera degli obblighi di diligenza richiesti all’agente il prevenire condotte, responsabili, della vittima che contribuiscano (in modo più o meno determinante) alla causazione dell’evento a suo stesso danno. Questo, però, solo se tali comportamenti non rientrino nella sfera di conoscenze (effettive o potenziali) dell’agente; in caso contrario, diviene invece necessario valutarli nella determinazione ex ante della diligenza necessaria (131). di commisurazione della pena delle ipotesi di einverständliche Fremdgefährdung, cfr. anche CASTALDO, L’imputazione, cit. (nota 107), p. 224. (130) Cfr., su di una tale preliminare verifica, in relazione alla morte del tossicodipendente e responsabilità del soggetto che ha ceduto la sostanza, DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 388 ss. (131) Cfr. DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 388 ss., il quale, espressamente: ‘‘la tipizzazione deve obbedire ad una logica del concreto, riportandosi l’idoneità dell’azione considerata ex ante sulla base delle conoscenze dell’agente (...), eventualmente corrette con quelle superiori socialmente esigibili... nel contesto dato’’; FORTI, op. cit. (nota 107), p. 612. Le conseguenze cui si giunge sono analoghe a quelle proprie del meccanismo di funzionamento del principio di affidamento: la ricomprensione nello standard di diligenza richiesto all’agente dei comportamenti trasgressivi altrui solo in presenza di indizi concreti che facciano venir meno per chi agisce la legittimità dell’aspettativa al comportamento corretto del terzo (in argomento, cfr. M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1998, passim). Al di là tuttavia delle conclusioni, peraltro a nostro avviso pressoché obbligate in un sistema che riconosce la personalità della responsabilità penale, è l’essenza stessa del principio di affidamento che non può essere trasferita ai rapporti agentevittima: l’esistenza di un’aspettativa giuridica prima che sociale ad un comportamento ‘‘corretto’’ del ‘‘partner’’. Questo, evidentemente, salvo che il legislatore stesso positivizzi a carico del soggetto passivo specifici obblighi di diligenza sanzionando, tra l’altro, l’eventuale trasgressione; è ciò, in particolare, che è accaduto con il decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, in materia di infortuni sul lavoro. In tal caso, tuttavia, il legislatore si è spinto ancora oltre, prevedendo un generico obbligo di autotutela al lavoratore che si aggiunge alla creazione, in capo allo stesso di una sorta di posizione di garanzia a tutela dei colleghi di lavoro. L’articolo, infatti, dispone al 1o comma, ‘‘Ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi dal datore di lavoro’’. (Sul decreto citato, cfr. TINDARI BAGLIONE, Nuove norme a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, Milano, 1995).
— 1183 — Cerchiamo di schematizzare il ragionamento sopra proposto ipotizzando le seguenti situazioni: a) colui che agisce non è consapevole e/o comunque non è in grado di riconoscere la presenza di un intervento della vittima tale da contribuire alla realizzazione dell’evento (si pensi, in via esemplificativa, all’ipotesi teorica in cui il passeggero si slacci improvvisamente, nel corso del viaggio, la cintura di sicurezza senza che il guidatore se ne possa rendere conto). In questo caso, tale intervento non può incidere sulla misura della diligenza richiesta all’agente. Non è cioè sostenibile che nella misura della diligenza necessaria rientri anche l’evitare eventi che sono conseguenza del comportamento pericoloso posto in essere dalla stessa vittima del reato; se la condotta dell’agente si svolge al di sotto dei limiti del rischio consentito e quindi della tipicità colposa (il conducente guida il mezzo rispettando la velocità consentita e con grande attenzione), l’evento offensivo che si venga a verificare non può essere imputato all’agente in nessun modo; il comportamento pericoloso della vittima, infatti, non amplia lo standard di diligenza a cui avrebbe dovuto attenersi nella corrispondente situazione di normalità (assenza dell’intervento della vittima). Diversamente si deve ragionare se la condotta dell’agente è configurabile già di per sé come ‘‘colposa’’ (il conducente viaggia ad una velocità eccessiva); in questo caso, nonostante non sia a conoscenza della circostanza (comportamento pericoloso della vittima), che si è inserita tra la sua condotta e l’evento, sarà comunque necessario procedere al giudizio di imputazione per stabilire se, in base ad una selezione dei rischi posti in essere dal fatto dell’autore (guida a velocità eccessiva) e di quelli connessi al fatto della vittima (l’essersi slacciata la cintura di sicurezza), l’evento, così come si è in concreto verificato, sia realizzazione degli uni o degli altri o di una connessione di entrambi. Ma questo profilo sarà trattato autonomamente. b) Colui che agisce è a conoscenza del comportamento della vittima del reato e della pericolosità che lo connota (sempre per ricollegarsi all’esempio precedente, si può ipotizzare che, nonostante gli inviti del conducente, il passeggero si sia rifiutato di allacciare la cintura di sicurezza). In questa ipotesi, diversamente che nella precedente, l’agente vede senza dubbio estendersi la misura di diligenza anche alle conseguenze dell’altrui condotta pericolosa (responsabile). Questo comporterà, dunque, il sorgere, in riferimento all’agente, di un obbligo di astensione dalla condotta o, quantomeno, di utilizzazione di una diligenza maggiorata in proporzione all’aumento del rischio determinato dal fatto della vittima (il conducente del mezzo dovrà dunque rifiutarsi di partire o comunque viaggiare ad una velocità tale da escludere ogni possibilità di verificazione di eventi offensivi, del tipo di quello verificatosi in concreto, nei confronti di soggetti sprovvisti di cintura di sicurezza). 5.7. (Segue): La ‘‘autoesposizione al pericolo’’ ed il giudizio di imputazione oggettiva dell’evento. Un’analisi e verifica delle teorie dell’imputazione oggettiva, comprensiva delle molteplici sfaccettature che a tutt’oggi la caratterizzano, esula dagli spazi e dagli scopi del presente lavoro (132). Ci limiteremo, dunque, a prendere in considerazione, e ad adattare alla materia in oggetto, solo quel parametro determinante nella ricostruzione della imputazione (132)
Data la quantità di riferimenti sul tema, si rinvia, per la dottrina tedesca, a RO-
XIN, Strafrecht, cit. (nota 81), p. 287 ss.; per la dottrina italiana, si veda CASTALDO, L’impu-
tazione, cit. (nota 107), passim; DONINI, Illecito, cit. (nota 40), passim; FORTI, op. cit. (nota 107), passim; in Spagna, cfr., CORCOY BIDASOLO, El delito imprudente. Criterios de imputación del resultado, PPU, 1985, passim; con specifico riferimento alla vittima del reato, CANCIO MELIA, op. cit. (nota 58), passim; TAMARIT SUMALLA, La victima, cit. (nota 4), p. 85 ss.
— 1184 — dell’evento al fatto dell’autore, che viene definito come Risikozusammenhang, o connessione del rischio. In presenza di una condotta, che si è accertato essere trasgressiva della diligenza obbiettiva necessaria, come già anticipato, il passo successivo per un definizione dell’an e del quantum di responsabilità dell’agente in relazione all’evento concreto prodottosi, sarà la verifica di una corrispondenza tra quest’ultimo ed il rischio connesso al fatto che l’agente ha posto in essere. Il riferimento al fatto e non alla semplice condotta non è casuale ma evidenzia la necessità di considerare come dati rilevanti nel giudizio di accertamento anche le conseguenze della condotta stessa (133). Nel caso, tuttavia, in cui intervenga nella sequenza un fattore che incida sulle modalità di verificazione dell’evento o sulla stessa quantità o qualità delle conseguenze della prima condotta, un tale originario parametro necessita di essere corretto ed integrato. Sono le ipotesi definite ‘‘di applicazione allargata del criterio della realizzazione del rischio’’ tra le quali vengono annoverati, tra gli altri, i casi in cui all’evento finale abbia contribuito un fatto, doloso o colposo di un terzo o, appunto, della vittima stessa (134). In queste ipotesi peculiari il procedimento di concretizzazione del parametro sopra schematicamente individuato segue un percorso che si arricchisce di alcune tappe intermedie ulteriori. Se pure, dunque, ‘‘anche in questo ambito la prima verifica da condursi sarà comunque quella relativa alla pericolosità intrinseca della condotta del primo agente in relazione al tipo di evento ‘finale’ realizzatosi’’, tuttavia l’accertamento in ordine alla realizzazione del rischio dovrà essere condotto ‘‘non soltanto prendendo in considerazione i due estremi della catena causale (condotta del primo agente - esito lesivo finale) ma anche gli stadi essenziali dell’accadimento concreto, così come enucleati in sede di spiegazione causale dell’evento e dunque, necessariamente comprensivi dell’anello costituito dalla condotta del terzo’’ (135). In particolare, con riferimento ai casi di intervento del fatto della vittima (ma i criteri di accertamento sono per lo più analoghi nei casi di intervento del fatto del terzo), si dovrà verificare se l’agente abbia, con la sua condotta (leggi: fatto), aumentato il rischio di verificazione della condotta (leggi: fatto) della vittima (che si configura come evento intermedio) o invece se quest’ultima sia legata solo occasionalmente al fatto dell’agente ed abbia così creato un rischio nuovo, prima inesistente (136). (133) In questo senso DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 384. (134) Così FORTI, op. cit. (nota 107), p. 547 ss. (135) Così FORTI, op. cit. (nota 107), p. 589. (136) Analogo nei risultati a questo secondo caso è quello in cui nel decorso causale si verifichi, precedentemente all’intervento del fatto della vittima (o del terzo), un elemento che estingua il rischio originariamente creato. Così FORTI, op. cit. (nota 107), p. 571 ss. Analogamente Donini, il quale ipotizza, in relazione all’intervento colposo del medico (ma lo schema è trasferibile ai casi di intervento della vittima) le seguenti fattispecie concrete: a) l’errore del medico si inserisce su lesioni non letali e determina processi nuovi, che solo in tal modo creano un pericolo per la vita; b) la colpa del medico si concretizza nell’aver omesso un trattamento necessario; c) la colpa del medico crea un decorso causale autonomo che si verifica nell’ambito di un trattamento destinato ad eliminare un pericolo per la vita già sussistente; d) la colpa interviene nell’ambito di un trattamento necessario ma solo dopo che il pericolo per la vita è già stato debellato. Ognuna di queste situazioni ha una propria autonomia e le soluzioni non possono essere ancorate ad un unico punto di vista. Mentre, infatti, nelle ipotesi di cui ai punti a) e d), affermare l’imputazione dell’evento morte al primo agente condurrebbe ad una forma di responsabilità per fatto altrui, in quanto con l’errore medico si viene a creare un pericolo prima inesistente e quindi la responsabilità non può che essere trasferita dal primo al secondo soggetto, nell’ipotesi di cui al punto c), la colpa stessa trova la sua ragione d’essere, e non solo l’occasione, nelle lesioni. In questo caso potrà essere decisivo stabilire se si sia trattato di colpa grave o lieve. L’ipotesi omissiva darà invece generalmente luogo ad un concorso di cause colpose indipendenti. Il limite, risulta essere, in ogni caso, nei rischi nuovi che non possono essere addebitati nel loro stesso insorgere al comportamento del primo soggetto [così DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 380].
— 1185 — Nella prima ipotesi, l’evento sarà da imputare all’agente e sarà solo ipotizzabile, eventualmente, una diminuzione di pena; nella seconda, invece, sarà da negare l’esistenza di un rapporto di imputazione tra fatto dell’autore ed evento con conseguente venir meno di una qualsivoglia forma di responsabilità penale a suo carico. Proviamo a questo punto a verificare i passaggi dei procedimenti argomentativi sopra schematicamente evidenziati in relazione a due fattispecie concrete. Ci riferiamo, in primo luogo, ad un recente caso oggetto di giudizio in Italia, che, in base al nome della vittima, indicheremo come ‘‘caso Moschella’’, in cui un ragazzo, tifoso di una squadra di calcio, durante un viaggio in treno venne aggredito verbalmente e fisicamente da un gruppo di tifosi della squadra avversaria, di ritorno dalla partita, in evidente stato di eccitazione. Rifugiatosi in uno scompartimento, ma anche lì sentitosi braccato dagli inseguitori che, pur ostacolati dai passeggeri, cercavano comunque di entrare, aprì il finestrino e si calò dal treno in corsa, trovando così la morte. La Corte d’assise di Catania, ritenendo che la decisione della vittima non fosse da considerare ‘‘ingiustificata e abnorme, ma come l’unica possibile in quel frangente’’ condannò gli imputati a titolo di omicidio preterintenzionale (137). Salta subito all’occhio come la situazione descritta sia analoga a quella caratterizzante un famoso caso giurisprudenziale, il caso Roberts, tratto dalla giurisprudenza anglosassone, già autorevolmente adottato quale oggetto per un’accurata dimostrazione del processo di accertamento ‘‘allargato’’ del nesso di imputazione oggettiva in ambito colposo. In questo caso, vittima del reato fu una ragazza che, all’uscita da una festa si era fatta riaccompagnare a casa da un uomo. Durante il viaggio in auto questi le fece pressanti avances, facendole capire che, in caso di suo rifiuto, avrebbe anche potuto agire con la forza. La ragazza si gettò dal veicolo in corsa procurandosi gravi lesioni. I giudici, anche in secondo grado, condannarono l’uomo per ‘‘aggressioni con conseguenti lesioni corporali’’ (138). Come abbiamo cercato di evidenziare, due sono i livelli di accertamento da approfondire: quello attinente alla formazione e/o misura delle regole di diligenza e quello relativo al nesso di imputazione oggettiva. Per quanto concerne il primo livello, è innanzi tutto fondamentale individuare il rapporto tra il fatto della vittima e lo stato delle conoscenze (effettive o potenziali) dell’agente. In particolare bisogna chiedersi se i tifosi della squadra avversaria (nel caso Moschella) erano in condizione di prevedere la condotta del Moschella (ad esempio perché a conoscenza dell’equilibrio psichico precario dello stesso; o perché lo stesso aveva minacciato seriamente di buttarsi dal treno). La mancanza di una qualsiasi forma di consapevolezza potenziale od effettiva del fatto della vittima da parte degli autori preclude la (137) La Corte, in particolare affermò che ‘‘seguendo i criteri tradizionali in base ai quali si ritiene possibile l’imputazione oggettiva nell’omicidio preterintenzionale non sembra dubbio che sussista la responsabilità degli imputati, dovendosi intendere... la decisione del Moschella... assolutamente coerente con l’insostenibilità della situazione... causazione umana, dunque, per non ricorrere fattori idonei, per eccezionalità e ingovernabilità da parte dell’uomo, a interrompere il nesso di causalità materiale’’, sposando quindi inequivocabilmente l’interpretazione secondo la quale la preterintenzione è forma di responsabilità oggettiva (se pur mista). Tuttavia si spinse ad una considerazione ulteriore che avrebbe voluto legittimare la pronuncia di condanna anche alla stregua di un richiamo al principio di colpevolezza, ma che rende evidente come tale richiamo, effettuato in modo del tutto svincolato da una descrizione in concreto dell’evento, è totalmente privo di contenuti: riconoscendo, infatti, l’esistenza di una recente tendenza giurisprudenziale che considera la preterintenzione come una forma di imputazione caratterizzata da dolo misto a colpa e che, quindi, richiede almeno la prevedibilità dell’evento ulteriore da parte dell’agente, ‘‘osserva la Corte che anche muovendosi su questo terreno, che è quello di una necessità di colpa minima, sussiste la responsabilità degli imputati, dovendosi riconoscere nella fattispecie che di colpa minima non si trattò, bensì di un atteggiamento psicologico che, come avviene di norma in tutti gli episodi di c.d. violenza urbana, rasenta il dolo, per l’accettazione del rischio dell’evento maggiormente lesivo, rischio perfettamente conosciuto dal gruppo perché costituisce la finalità estrema della condotta’’ (Ass. Catania 3 agosto, 1994, ined.). (138) Cfr. FORTI, op. cit. (nota 107), p. 57 ss. e p. 655.
— 1186 — possibilità che questo determini il sorgere di regole di diligenza specifiche ovvero innalzi lo standard normalmente richiesto. Se viceversa una siffatta consapevolezza può essere accertata, e quindi può essere ipotizzato un atteggiamento di colpa rispetto alla morte della vittima, avvenuta per quelle circostanze concrete, sarà necessario passare alla verifica dell’esistenza di un nesso di imputazione oggettiva tra questa morte e il fatto degli agenti, in base al parametro (allargato) della realizzazione del rischio (139). A questo riguardo riteniamo senz’altro di poter ancora una volta confermare la piena fondatezza del suddetto parametro, già autorevolmente proposto ed applicato al caso Roberts: ‘‘la reazione sproporzionata della vittima (b2) all’evento intermedio (b1) la quale determina il più grave esito lesivo (c), non impedisce l’imputazione di questo all’autore della condotta (a), allorché al momento di agire egli dovesse, anche alla luce delle sue conoscenze supplementari (ad esempio la fragilità emotiva della ragazza), prevedere comunque tale reazione; sempreché, ..., una tale ultima verifica non sia già resa superflua dal rilievo di come la reazione della vittima non potesse reputarsi sproporzionata, in quanto volta a sottrarsi a un’aggressione di particolare virulenza... e, dunque di per sé realizzazione del rischio creato dalla condotta dell’agente’’ (140). 6.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.
6.1. Il fondamento costituzionale della rilevanza penale del comportamento della vittima. Come abbiamo già potuto verificare, la considerazione di qualificati atteggiamenti della persona offesa dal reato ai fini di una diminuzione, o addirittura di una negazione della responsabilità dell’autore, non è estranea alle legislazioni penali moderne, e, in particolare, non lo è al codice Rocco, il quale, anzi, contiene un notevole numero di disposizioni che, in modo più o meno evidente, si pongono in una tale ottica. (139) Accogliendo una concezione della responsabilità penale come personale (colpevole), prescindiamo nell’esame di tale fattispecie dalla ricostruzione fatta dai giudici, ipotizzando l’applicabilità dell’art. 589 c.p. od, eventualmente, di un art. 584 c.p. interpretato conformemente al principio di colpevolezza. (140) Così FORTI, op. cit. (nota 107), p. 655. Per una conclusiva ma dettagliata ricostruzione del procedimento argomentativo, vedi p. 649 ss. In entrambi i casi sopra descritti la condotta posta in essere dall’autore integrava già di per sé un fatto doloso. Tuttavia questo non incide sul percorso argomentativo che potrebbe anche essere riproposto in riferimento a casi in cui non si sia in presenza di una tale circostanza. Si pensi al c.d. Polizeipistolen Fall, caso tratto dalla giurisprudenza tedesca, in cui un poliziotto lasciò incustodita la sua pistola carica con la quale la sua compagna si uccise. Anche in questo caso si tratterà di verificare lo stato delle conoscenze dell’autore in relazione al fatto della vittima (ad esempio consapevolezza dello stato psichico della stessa) ed in base a questo primo risultato verificare se la misura della diligenza dall’autore esigibile dovesse ritenersi aumentata o meno. Un’eventuale risposta positiva dovrà poi portare ad un’accurata selezione dei rischi nei termini indicati. Nella fattispecie concreta, il Bundesgerichthof ritenne non punibile a titolo di omicidio colposo il poliziotto sulla base di due argomenti connessi e consequenziali. Da un lato, infatti, in base al c.d. principio di accessorietà ritenne non punibile la compartecipazione volontaria all’altrui suicidio, non configurando il suicidio, di per se stesso, ipotesi di reato; dall’altro lato utilizzando il c.d. argumentum a majore ad minus, giunse a ritenere che non essendo punibile la compartecipazione volontaria al suicidio, tanto meno avrebbe potuto esserlo una partecipazione colposa. La pronuncia di assoluzione si ebbe nonostante il Bundesgerichthof avesse individuato un limite al procedimento argomentativo sopra descritto nella maggior consapevolezza del pericolo da parte del soggetto agente rispetto alla vittima e fosse stato accertato, nel caso concreto, la conoscenza dello stato di profonda depressione della donna da parte dell’accusato [BGHSt. 24, 343. Su tale caso giurisprudenziale, cfr., tra gli altri, ROXIN, Zum Schutzzweck der Norm, cit. (nota 107); WALTHER, op. cit. (nota 109), p. 112].
— 1187 — Abbiamo avuto anche modo di notare come manchi, allo stato della attuale disciplina, un criterio che consenta una valutazione unitaria delle suddette disposizioni in una prospettiva teorico-sistematica e politico-criminale razionale e consapevole. I tentativi, riferibili prevalentemente al dibattito scientifico d’oltralpe, di ricostruire una vera e propria dogmatica della vittima hanno, tuttavia, incontrato importanti ostacoli e sollevato molteplici critiche; ciò che ha trovato opposizioni perentorie, spesso, peraltro, pienamente condivisibili, è, in particolare, la stessa idea di un’utilizzazione generalizzata — in funzione interpretativa e correttiva del dato positivo, ma anche come indirizzo di politica legislativa — di quell’indicazione, proveniente dagli studi vittimologici, secondo la quale la vittima non sempre è un soggetto passivo nella dinamica del reato, ma, al contrario, può assumere anche un ruolo attivo determinante. Da un lato, pare, in effetti, fondata l’idea che una prospettiva siffatta possa comportare il rischio di una ‘‘privatizzazione’’ del diritto penale, con conseguente legittimazione di forme di autotutela; un dato che, inevitabilmente, porrebbe nel nulla le conquiste del controllo dei conflitti sociali da parte dello Stato (141), e, nello stesso tempo, potrebbe ricondurre ad una società basata sulla vendetta privata, o comunque, instaurare un clima generalizzato di sospetto e diffidenza. Da un altro lato, sono peraltro condivisibili anche quelle ulteriori argomentazioni critiche che fanno leva sul pericolo di una criminalizzazione della vittima del reato: a fronte dell’accertamento — che diverrebbe indispensabile — sulla sua possibilità di autodifesa e del relativo atteggiamento in ordine ad una tale possibilità, la vittima diventerebbe, infatti, il vero imputato nel processo (142), con conseguente ulteriore vittimizzazione della persona (143). Ferma l’indubbia serietà e rilevanza di tali perplessità, a nostro parere dalla prospettiva vittimologica possono, però, essere estrapolati spunti importanti ed utili, sia in chiave interpretativa dell’esistente, sia, e soprattutto, in chiave di indirizzo per scelte legislative future. Il principio di materialità del diritto penale e di ultima ratio sono, certamente, criteri guida imprescindibili per una politica legislativa conforme alle indicazioni costituzionali (144), ma, nello stesso tempo, non possono non essere tenuti in considerazione anche quali parametri fondanti una valutazione in concreto da parte del giudice sulla sussumibilità di un determinato fatto nell’ambito della fattispecie tipica. In tale prospettiva, il profilo contenutistico di sicuro interesse, che emerge dalle tesi dei vittimodogmatici, è il seguente: qua(141) Anche se, per la verità, come è stato autorevolmente rilevato, il controllo dei conflitti sociali non è dallo Stato realizzato solo attraverso lo strumento penale, ma anzi in via primaria attraverso altri strumenti in senso lato coercitivi (sanzioni civili ed amministrative, ad esempio) la cui possibilità di intervento rimarrebbe comunque inalterata. In tal senso cfr. AMELUNG, Recensione allo scritto di HILLENKAMP, Vorsatztat und Opferverhalten, in G. A. StR. StP., 1984, p. 581; SILVA SANCHEZ, Considerazioni vittimologiche, cit. (nota 81), p. 671. (142) Una tale situazione viene denunciata come esistente già nel campo dei reati sessuali. In particolare si rileva come per accertare che la vittima di una violenza carnale abbia effettivamente manifestato il proprio dissenso al rapporto sessuale, questa venga interrogata in modo tale che si ha l’impressione che sia la vittima ad essere l’imputato nel processo per la violenza ai suoi danni: cfr. BERTOLINO, Libertà sessuale e violenza carnale, cit. (nota 13). (143) Così DEL TUFO, Profili, cit. (nota 81), p. 270; vedi anche HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 201, il quale tuttavia parla espressamente di violazione dei doveri funzionali alla propria autotutela da parte della vittima. Secondo l’autore, infatti, la società non avrebbe motivo di tutelare nella stessa misura la vittima di un reato, qualora sia stata danneggiata nonostante il proprio comportamento rispettoso di tutte le cautele necessarie per provvedere ad un’autotutela, e qualora invece, tali cautele abbia violato: HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 296 ss. (144) Questo il contenuto della critica mossa in particolare da Del Tufo e riportata retro, par. 4.2.
— 1188 — lora una condotta non presenti di per sé un grado di pericolosità sufficiente nei confronti del bene giuridico tutelato, ma l’acquisti solo in presenza ed a causa del comportamento del titolare dello stesso bene, il fatto può essere considerato come non meritevole di pena e, quindi, l’intervento penale non necessario. A ben vedere, questa affermazione può, in effetti, essere intesa quale specificazione del principio di necessaria offensività dell’illecito penale, il cui ruolo non è oggi in alcun modo confutabile (145), sia che si voglia considerare l’offensività come già necessariamente implicita nella stessa tipicità (146); sia che, invece, la si consideri come elemento ulteriore rispetto alla tipicità, la cui esistenza, di conseguenza, richieda un’autonoma valutazione (147). Il fatto che un tale principio debba, in primo luogo, essere considerato un criterio vincolante di politica legislativa, non preclude la possibilità di un’estensione della sua efficacia, in modo che indirizzi anche il processo di valutazione giudiziale sul fatto concreto. Anzi un siffatto intervento da parte dell’interprete è necessario per far coincidere il piano applicativo con il piano di tipicizzazione dell’illecito (148). Qualora, pertanto, un fatto appaia conforme alla fattispecie di reato — e quindi meritevole e bisognoso di pena —, ma, tuttavia, in seguito ad un accertamento relativo alle modalità concrete di verificazione, risulti realizzato in tutti i suoi elementi solo grazie all’intervento di un comportamento, determinante, del soggetto passivo del reato, sembra legittima ed equa una pronuncia giudiziale di non punibilità (o di riduzione della pena) per l’agente per insussistenza del ‘‘fatto tipico’’. Una tale soluzione è, inoltre, a nostro parere, resa necessaria in maniera ancora più pregnante da un altro principio costituzionale fondamentale, e cioè quello che sancisce la personalità della responsabilità penale. Tale principio, soprattutto se inteso nel senso più moderno e ormai diffusamente condiviso, come principio che richiede una rimproverabilità soggettiva del fatto all’autore, esige, infatti, una delimitazione il più rigorosa possibile degli ambiti di responsabilità tra i soggetti che contribuiscono in qualche modo e misura alla realizzazione del fatto tipico (149). Una (145) Oggi è ormai convinzione generalizzata in dottrina che il principio di offensività sia principio di rilevanza costituzionale. In questo senso, pur con argomenti non sempre coincidenti, cfr., tra gli altri, BRICOLA, Teoria generale, cit. (nota 88), p. 772; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, 1974, p. 118 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 2a ed., Milano, 1999, p. 311. (146) Vedi, tra gli altri, FIANDACA, Note sul principio di offensività e sul ruolo della teoria del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di Stile, Napoli, 1991, p. 71 ss.; STELLA, La teoria del bene giuridico e i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 1 ss. Nella manualistica, vedi, FIANDACA-MUSCO, op. cit. (nota 67), p. 432; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit. (nota 44), p. 209; MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 145), p. 315. (147) Sulla c.d. concezione realistica del reato, cfr., tra gli altri, BRICOLA, Teoria generale, cit. (nota 88), p. 741; M. GALLO, Dolo (Diritto penale), in Enc. giur., vol. XII, Roma, 1988, p. 751; NEPPI MODONA, Il reato impossibile, Milano, 1965, passim. (148) Sul punto, vedi MARINUCCI-DOLCINI, op. cit. (nota 145), p. 315. Con specifico riferimento agli orientamenti della Corte costituzionale, cfr. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in questa Rivista, 1998, p. 350 ss. Sulla duplice dimensione del principio di offensività, non solo cioè come ‘‘canone di legislazione’’ ma anche ‘‘di interpretazione’’, in particolare, p. 355. (149) Applicazioni evidenti di una tale esigenza emergono, soprattutto in riferimento all’ambito colposo, nella disciplina di quelle attività svolte da più persone, (si pensi, ad esempio, all’attività medica di équipe), in cui si pone il problema dell’attribuzione dell’eventuale evento lesivo derivato da colpa di uno o più dei soggetti; la soluzione viene in tali casi generalmente trovata nel principio della divisione degli obblighi, insieme con l’utilizzazione del principio di affidamento; ovvero in relazione a quei casi, tradizionalmente definiti come casi di decorso causale atipico, in cui l’iter criminis passa attraverso l’intervento di un terzo soggetto che si interpone tra la condotta dell’agente e l’evento finale. Anche in tali ipotesi la
— 1189 — tale suddivisione dei rischi, una volta superato definitivamente il dogma che voleva un soggetto ‘‘completamente’’ colpevole ed uno ‘‘completamente’’ innocente come protagonisti del fenomeno criminale, deve necessariamente essere riferita anche ai casi in cui una qualsivoglia forma di partecipazione al fatto tipico sia posta in essere dalla vittima del reato (150); anche se, in questo caso, non bisogna perdere di vista un’altra esigenza fondamentale: la tutela della stessa vittima e dei beni giuridici di cui è titolare, esigenza che non può essere disattesa, in quanto connessa alla funzione precipua del diritto penale stesso. Il contemperamento ed il rispetto di tali due opposte prospettive porta, da un lato, a negare la congruità di un’estensione tout court del principio di affidamento anche al soggetto passivo (151), nel senso che non si può ammettere in modo generalizzato la legittimità di un affidamento dell’agente nella autotutela da parte della vittima e quindi, tanto meno, è pensabile ammettere in capo alla vittima un generico obbligo di autotutelarsi (152). Dall’altro lato, impone una selezione dei rischi conseguenti al fatto del reo e di quelli legati, invece, al fatto della vittima ed un’estensione, di conseguenza, del principio di autoresponsabilità anche al soggetto passivo. Sul piano politico-criminale, dunque, in funzione di una piena realizzazione del principio di personalità della responsabilità penale (oltre che di materialità e di sussidiarietà), riteniamo senz’altro opportuno prendere in considerazione, in corrispondenza ai concetti di meritevolezza di pena e bisogno di pena del fatto, anche quelli di meritevolezza di tutela e bisogno di tutela della vittima, e valutare, dunque, la condotta della stessa come fattore potenzialmente qualificato da una rilevanza sulla delimitazione della responsabilità del reo. 6.2. Il problema della qualificazione dogmatica del comportamento della vittima: spunti per una soluzione diversificata. La questione relativa alla collocazione dogmatica e/o sistematica di tale fattore è altra da quella concernente il riconoscimento di un suo ruolo dal punto di vista politico-criminale, e non è suscettibile di una soluzione aprioristicamente unitaria, data la molteplicità di manifestazioni e la variabilità di intensità che possono connotare una partecipazione della vittima al reato (153). Per risolvere tale complessa questione si dovrà, in particolare, tentare di dipanare tre nodi problematici, e cioè: a) identificare i requisiti in presenza dei quali il fatto della vittima può assurgere a fattore condizionante l’accertamento sulla responsabilità penale del colpevole; b) individuare il luogo dogmatico (o i luoghi qualora, come anticipato, ci si voglia discostare da una soluzione unitaria delle varie situazioni ipotizzabili) nell’ambito del quale (e/o dei quali) appare plausibile inquadrare la rilevanza di un tale fatto; c) individuare il quantum di rilevanza del suddetto fatto [aspetto quest’ultimo che va inscindibilmente contendenza, almeno a livello di dibattito teorico, dominante sembra essere quella di una rigorosa delimitazione dei rischi posti in essere dai comportamenti dei due soggetti e di una valutazione della rilevanza degli stessi in relazione all’evento in concreto verificatosi (cfr. retro, par. 5.7). (150) Cfr. per un’affermazione esplicita in tal senso DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 383. (151) Così già DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 381. (152) Come sostenuto, invece, dai vittimodogmatici, che arrivano talvolta ad identificare il contenuto di un tale obbligo addirittura in comportamenti attivi di difesa e di resistenza alle aggressioni contro il bene. Sul punto vedi quanto illustrato retro, par. 4. (153) Sul punto esplicitamente anche DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 381; FORTI, op. cit. (nota 107), p. 585 ss. Una diversa opinione contrasterebbe peraltro anche con le attuali scelte legislative, che pur senza seguire un filo conduttore univoco, attribuiscono, come abbiamo avuto modo di verificare, ad un tale elemento significati differenti che vanno spesso al di là di un mero effetto commisurativo. Per una distinzione aprioristica basata sul fatto che il comportamento della vittima sia connotato da colpa lieve o colpa grave, cfr. invece HILLENKAMP, op. cit. (nota 81), p. 302.
— 1190 — nesso sia alla soluzione prospettata per la questione sub a), in quanto l’entità dell’incidenza non può andare svincolata da un giudizio riguardante le caratteristiche della ‘‘partecipazione’’ dell’offeso; sia a quella prospettata per la questione sub b), in quanto l’opzione per un’efficacia meramente modificativa ovvero esclusiva della punibilità può essere condizionata anche dalla preventiva individuazione della categoria dogmatica di riferimento e dalla graduabilità o meno della stessa]. Il procedimento logico prende le mosse, dunque, dalla predeterminazione delle variabili che possono caratterizzare il fatto della vittima, e, quindi, delle possibili forme che un tale fatto può assumere; si snoda attraverso l’individuazione dei piani dogmatici di riferimento; si conclude con la quantificazione degli effetti sulla responsabilità dell’agente. Per quanto concerne il primo dei tre passaggi ipotizzati, il dato preliminare fondamentale è costituito, a nostro parere, dall’abbandono del riferimento ai concetti di dolo e di colpa, la cui elaborazione è, come abbiamo visto, vincolata ad un illecito penale e, quindi, difficilmente adattabile all’atteggiamento di un soggetto che un illecito penale non pone in essere ma, anzi, subisce (154). La seguente elencazione esemplificativa di situazioni ipotizzabili, qualificate in ragione dell’atteggiarsi dell’elemento soggettivo, pur volendo ricomprendere il numero più ampio possibile di situazioni (di plausibile verificazione), non può certamente considerarsi esaustiva, dato il pressoché infinito ventaglio di situazioni in concreto realizzabili. Due, in ogni caso, sono i limiti estremi entro cui effettuare l’opera di individuazione. In primo luogo, una questione di rilevanza della partecipazione della vittima al reato non si deve nemmeno porre, qualora tale partecipazione rappresenti una delle condizioni in senso materiale del reato, ma la realizzazione della stessa non sia in alcun modo riferibile dal punto di vista soggettivo alla vittima. Questa deve infatti essere capace di autodeterminarsi, altrimenti temi quali l’autoresponsabilità e, quindi, la realizzazione del principio della personalità della responsabilità penale per il fatto (che abbiamo visto essere uno dei fondamenti per un’attribuzione di effetti alla partecipazione al reato del soggetto passivo), non possono nemmeno venire in considerazione. È, dunque, necessario che la vittima, da un lato, abbia la possibilità di agire diversamente rispetto alla condotta in concreto tenuta, e, dall’altro, abbia quanto meno la possibilità di rendersi conto dei rischi connessi al proprio comportamento. A questo proposito riteniamo opportuno ribadire che il concetto di ‘‘responsabilità’’ della vittima va, ancora una volta, svincolato dai criteri prettamente normativi fissati dal nostro codice in materia di capacità di intendere e di volere, previsti anch’essi (così come la disciplina dell’elemento soggettivo) a garanzia di chi pone in essere un fatto di reato (155), per essere invece legato a parametri di accertamento di natura prevalentemente empirica e, comunque, ad un giudizio in concreto che tenga conto dei molteplici fattori che possono aver condizionato la scelta del soggetto in funzione di una certa condotta (156). (154) Sul punto vedi retro, par. 3.2.1.1. (155) Vedi retro, par. 3.2.1.1. (156) La questione inerente alla natura del giudizio sul carattere responsabile del comportamento della vittima è peraltro ancora aperta anche nell’ambito della discussione scientifica tedesca. In particolare ci si chiede se debba essere riferito ai criteri fissati legislativamente in materia di capacità di intendere e di volere del reo (§§ 19, 20 StGB), ovvero se, come in tema di consenso dell’avente diritto, ci si debba rifare a parametri diversi. Roxin sembra riferirsi alle norme in materia di Schuldfähigkeit, laddove si pone l’interrogativo sulla possibilità di ritenere esclusa l’imputazione oggettiva anche qualora, in base al disposto del § 21 StGB, la capacità di intendere e di volere sia nella vittima solo scemata, e non del tutto mancante. L’autore distingue a seconda che il soggetto passivo abbia piena consapevolezza del rischio e solo la sua capacità di inibizione (Hemmungsfähigkeit) sia ridotta, oppure sia diminuita la stessa capacità di comprensione (Einsichtsfähigkeit). Nel primo caso il partecipe andrebbe esente da pena, in quanto la vittima ha comunque potuto mantenere il dominio delle proprie decisioni; nel secondo caso, invece, sarebbe da punire in quanto l’evento
— 1191 — Il secondo estremo di questa fascia di ipotetiche forme di partecipazione soggettiva della vittima al reato si riferisce alle fattispecie dolose e può essere costituito dal caso in cui la vittima ponga in essere il fatto con la volontà di realizzare il medesimo evento avuto di mira dal colpevole. È un atteggiamento soggettivo corrispondente a quello caratterizzante il dolo intenzionale, solitamente richiesto, come abbiamo visto, per l’applicabilità dell’attenuante prevista dall’art. 62 n. 5 c.p., ma difficilmente riscontrabile in concreto. Dati i due estremi, si tratta ora di individuare, all’interno della fascia così delimitata, le altre forme di attribuibilità soggettiva del fatto alla vittima in funzione di una rilevanza dello stesso ai fini della definizione della responsabilità dell’agente. La vittima potrebbe, ad esempio, porre in essere il fatto con la volontà di realizzare l’evento che in concreto si verifica; in questo caso, a differenza che in quello precedentemente ipotizzato, il rapporto tra volontà del soggetto passivo ed evento non si instaura con l’evento oggetto della volontà dell’agente (che peraltro può anche non sussistere qualora si sia in presenza di un reato colposo: è ad esempio la situazione del già citato Polizeipistolen-Fall), ma con l’evento in concreto realizzatosi (i due eventi possono poi coincidere o meno). I casi, tuttavia, a nostro parere più frequenti sono quelli caratterizzati da una mancanza di volontà dell’evento da parte della vittima, che però pone volontariamente in essere una determinata condotta. Un qualche rapporto con l’evento deve, comunque, sussistere e questo potrebbe essere riscontrato nella consapevolezza del rischio di verificazione dello stesso, connesso al fatto realizzato. In tali frangenti, è peraltro indifferente, e difficilmente discriminabile, che la vittima possa avere anche accettato il rischio di verificazione dell’evento ovvero abbia confidato nella sua non realizzazione (si pensi ad esempio al tossicodipendente che si inietti la dose di eroina cedutagli dallo spacciatore, consapevole dei rischi che l’assunzione di droga comporta). La vittima, inoltre, può porre in essere una condotta gravemente imprudente o negligente, con consapevolezza dei rischi, o senza ponderare i rischi connessi, che, peraltro, sarebbero stati dalla stessa riconoscibili se avesse prestato una maggiore attenzione (si pensi ai citati casi Roberts e Moschella). Le condotte così soggettivamente individuate possono, infine, distinguersi, da un punto di vista oggettivo, secondo l’ormai noto criterio del dominio del fatto in relazione al quale ci limitiamo a quanto diffusamente già precisato (157). Con riguardo al secondo punto del procedimento argomentativo sopra schematizzato, e cioè l’individuazione del piano di operatività della rilevanza del fatto della vittima, è opportuno ribadire l’impossibilità di una soluzione unitaria ed aprioristica. sarebbe a lui imputabile [ROXIN, Strafrecht, cit. (nota 81), § 11, p. 337 ss.]. W. Frisch, riferisce le tre posizioni prevalenti sul concetto e sulla misura della responsabilità di chi si è posto in pericolo: quella che fa leva sui §§ 19, 20, 35 (Stato di necessità scusante) StGB, quella che invece ricorre ai criteri adottati per determinare l’efficacia del consenso scriminante nelle lesioni, quella infine che fa riferimento ai parametri utilizzati per delineare il concetto di ‘‘serietà della richiesta’’ nell’omicidio su richiesta (§ 216 StGB). Secondo Frisch sarebbe in ogni caso da escludere che la vittima sia privata della tutela anche solo in presenza di uno stato di diminuita capacità, ex § 21 e in presenza di una situazione necessitante, secondo il disposto del § 35. Egli ritiene, tuttavia, che una condotta di autoesposizione al pericolo, pur posta in essere da una persona responsabile, non necessariamente sia essa stessa responsabile (‘‘Die bewußte Selbstgefährdung einer verantwortlichen Person ist damit nicht per se eigenverantwortliche Selbtsgefährdung’’); nella decisione possono infatti giocare un ruolo importante molteplici elementi, di natura giuridica o morale per cui può assumere rilievo, tra l’altro, la ragionevolezza del comportamento o la serietà dei motivi che lo hanno determinato ‘‘L’autoresponsabilità dell’autoesposizione al pericolo è un concetto altamente normativo, ricco di sfaccettature, che è dunque pieno di pericoli per la certezza del diritto e l’uguaglianza ‘‘ [così W. FRISCH, op. cit. (nota 82), p. 3]. (157) Vedi retro, par. 5. Scarsa rilevanza riteniamo invece possa avere una distinzione cronologica, salvo che per i risvolti in relazione allo stato delle conoscenze dell’autore.
— 1192 — Una risposta fondata non può, infatti, prescindere da una valutazione di tutti gli elementi concreti, di volta in volta attinenti, sia al fatto dell’agente, sia al fatto della vittima. In entrambi i casi, tale valutazione dovrà ovviamente essere corredata da una considerazione dello stato delle conoscenze di entrambi i soggetti. A questo proposito, la presente indagine ha peraltro posto in evidenza l’esistenza di una grande varietà di proposte e di opinioni, tutte, in linea astratta, plausibili e condivisibili. Il comportamento della vittima può, infatti, nei delitti colposi, incidere sulla c.d. misura oggettiva della colpa, e quindi sulla tipicità, in quanto può avere o meno riflessi sulla creazione o sulla stessa determinazione delle regole cautelari (158); può poi incidere sull’elemento soggettivo della colpa, e quindi sulla colpevolezza, escludendo la prevedibilità dell’evento da parte dell’agente (159). Il fatto della vittima può, ancora, escludere l’imputazione oggettiva (e questo sia nei delitti colposi che dolosi, mantenendo perciò rilievo sul piano della stessa tipicità), qualora si possa in concreto accertare che nell’evento finale si sono realizzati i rischi connessi alla condotta (ma anche agli effetti della condotta) posta in essere dalla vittima e non quelli insiti nel fatto del reo (160). Può, infine, incidere sull’antigiuridicità, facendola venire meno (161). 6.3. Limiti e presupposti di una razionale valorizzazione del comportamento della vittima nell’attuale contesto normativo. Volendo schematicamente modellare quanto fin qui esposto sull’ordinamento italiano vigente, è opportuno, in primo luogo riprendere in considerazione l’ormai nota distinzione, di natura oggettiva, tra einverständliche Fremdgefährdung e eigenverantwortliche Selbstgefährdung, per occuparci, ancora una volta separatamente, delle due diverse situazioni. In relazione alla prima, infatti, abbiamo visto come non si possa ipotizzare alcun effetto di esclusione della pena al di fuori del piano dell’antigiuridicità, e quindi dell’ambito di operatività della disposizione in materia di consenso dell’avente diritto (pur interpretata estensivamente, secondo i criteri già evidenziati) (162); solo eccezionalmente, infatti, si potrebbe giungere a sostenere un’incidenza sull’elemento soggettivo della colpa (l’evento non potrebbe più ritenersi come prevedibile dal soggetto agente), ed in particolare esclusivamente laddove vi siano univoci elementi che comprovino l’avvedutezza e competenza della vittima stessa (dati noti all’agente e quindi idonei a far sorgere in questo un affidamento, ragionevole, nella non verificazione dell’evento) (163). In assenza di queste condizioni, l’unica possibilità residua è quella di ricondurre l’adesione del soggetto passivo al reato ad un rilievo di portata meramente quantificativa, come tale apprezzabile, perciò, solo in base ai criteri di commisurazione previsti dall’art. 133 c.p. (o quale fattore valutabile rispetto all’intensità del torto oggettivo, per l’accertato minor interesse del titolare del bene alla tutela dello stesso, ovvero in quanto idoneo a ridurre il grado di rimproverabilità soggettiva dell’agente). Diversa soluzione si prospetta, invece, nei casi di vera e propria autoesposizione al pericolo da parte della vittima, rispetto ai quali, come visto, il processo di individuazione del piano sistematico di riferimento deve, a nostro parere, avere riguardo al piano della diligenza obbiettiva (nei fatti colposi) e dell’imputazione oggettiva. Una tale, schematica, ricostruzione, sembra potersi adattare, in parte, anche all’attuale (158) Vedi retro, par. 5. (159) Vedi retro, par. 5, nota 126. (160) Vedi retro, par. 5. (161) Vedi retro, par. 3.3.2. (162) In relazione all’impossibilità di attribuire una rilevanza esclusiva della pena all’adesione della vittima, che non sia riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 50 c.p., vedi quanto argomentato retro, par. 5.3 e 5.4. Per quanto concerne, invece, i passaggi per un’interpretazione estensiva della norma, retro, par. 3.3.2.1 e par. 5.2. (163) Sul punto, vedi retro, nota 128.
— 1193 — disciplina legislativa, laddove si accetti, come è stato di recente prospettato (164), di interpretare l’art. 41 2o comma c.p. alla luce della teoria dell’imputazione oggettiva e non più sotto il profilo della mera causalità materiale. In questa prospettiva, infatti, anche allo stato del diritto vigente, il fatto della vittima, qualunque sia la caratterizzazione soggettiva, può escludere l’imputazione oggettiva, e dunque la punibilità dell’agente. Né a ciò si oppone, come è stato autorevolmente osservato, il contenuto dell’art. 62 n. 5 c.p., che infatti dà per presupposto il giudizio sull’imputazione oggettiva: solo l’esito negativo di questo giudizio consente quindi di accertare l’eventuale rilevanza del fatto della vittima sul piano modificativo della pena (165). Come visto, su questo versante, il nostro sistema si presenta invece inadeguato. A prescindere dall’inopportunità, che abbiamo già più volte evidenziato, dell’utilizzazione di concetti di dolo e di colpa in questa particolare materia; a prescindere, altresì, dalla scelta di attribuire al fatto della vittima un’efficacia modificativa oltre i limiti edittali della pena o all’interno di questa (il punto si inserisce nella complessa questione sui criteri utilizzati dal legislatore per la creazione delle circostanze del reato, questione che esula dai contenuti della presente ricerca), ciò che, ancora una volta, si contesta è infatti la presenza di una rigida ed aprioristica limitazione di rilevanza, con conseguente diversità di effetti, al solo ‘‘fatto doloso’’, anziché anche a quello ‘‘colposo’’, della vittima. A favore di un’equiparazione fra queste due possibili situazioni ha di recente optato lo schema di legge delega per un nuovo codice penale, presentato nel 1992 dalla Commissione Pagliaro. Nel testo rimane, infatti, la circostanza attualmente prevista al n. 5 dell’art. 62 c.p. (vengono invece soppresse le attenuanti generiche), che tuttavia viene estesa a ricomprendere anche il fatto colposo della persona offesa. Con questo ampliamento della sfera di operatività della norma, tale scelta va nel senso da molti auspicato fin dai tempi del dibattito nato sotto la vigenza del codice Zanardelli (166), e, per le ragioni già ampiamente esposte, è sicuramente degna di plauso. Nulla tuttavia viene chiarito in ordine alla ratio sottesa all’attenuante; inoltre, aspetto di maggiore rilevanza pratica, non muta la dizione ‘‘fatto doloso’’ con tutti i problemi interpretativi che, come abbiamo visto, questa comporta (167); problemi ai quali si aggiungono quelli inevitabilmente legati all’individuazione di che cosa si debba intendere per fatto colposo del soggetto passivo. In particolare, in relazione a tale soluzione ci si dovrà chiedere, ancora una volta, se si debba mutuare la definizione di colpa dal codice, comprensiva di tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ovvero se, come riteniamo, ci si debba preoccupare di specificare il concetto in relazione al particolare soggetto di riferimento, la vittima, appunto (168). SILVIA CAGLI Dottore di ricerca in Diritto penale Università di Parma
(164) Così DONINI, Teoria del reato, in Dig. Disc. pen., vol. XIV, Torino, 1998, 62 (dell’estratto); M. ROMANO, Commentario, cit. (nota 47), sub art. 41, p. 374. (165) Così DONINI, Illecito, cit. (nota 40), p. 381. (166) Sul punto vedi retro, par. 3.2.1. Il successivo disegno di legge di riforma al libro primo del codice penale, n. 2038, d’iniziativa dei senatori Riz ed altri, comunicato alla presidenza del Senato in data 2 agosto 1995, presentato al Senato in data agosto 1995, ha peraltro ripristinato la situazione attualmente esistente, mantenendo le attenuanti generiche ed eliminando il riferimento al fatto colposo dell’offeso da reato. (167) Vedi quando diffusamente argomentato retro, par. 3.2.1.1. (168) Ritiene, ad esempio, che nei confronti del danneggiato non possa parlarsi di colpa in senso proprio, in quanto non potrebbe parlarsi di antigiuridicità ed il fatto colposo sarebbe comunque un fatto riprovevole antigiuridico, DE CUPIS, Il danno, Milano, 1954, p. 127.
GIURISPRUDENZA
b) Giudizi di Cassazione
CASSAZIONE PENALE — Sez. I — 19 gennaio 1999 Pres. Teresi — Rel. Macrì P.M. (parz. diff.) Ranieri - Imp. Zumbo e altri Reo - Concorso di persone nel reato - Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti - Responsabilità per concorso anomalo - Ravvisabilità - Condizioni - Fattispecie: ‘‘spedizione punitiva’’ nel corso della quale uno dei partecipi ha usato un’arma da fuoco. In tema di concorso di persone di persone nel reato, per la sussistenza del così detto concorso anomalo (art. 116 cod.pen.), è necessaria, da un lato, la adesione psichica del soggetto alla commissione di un reato meno grave, dall’altro, la effettiva realizzazione — da parte di altro concorrente — di un diverso e più grave reato ed, infine, la esistenza di un nesso psicologico, in termini di prevedibilità, tra la condotta del soggetto che intendeva compiere il reato meno grave e l’evento diverso e più grave, che, in concreto, ebbe a verificarsi. Per la sussistenza di tale terzo requisito, non basta il mero nesso di causalità materiale, ma è necessario che il reato diverso e più grave, commesso dal concorrente, possa rappresentarsi nella mente dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (1). (Omissis). — FATTO. — Con sentenza in data 1 marzo 1997 la Corte di Assise di Reggio Calabria dichiarava Francesco Romeo, Carmelo Romeo e Giovanni Zumbo colpevoli del reato di omicidio per avere cagionato la morte di Paolo Bertone mediante l’esplosione di numerosi colpi d’arma da fuoco, di tentato omicidio in danno di Carmelo Mafrici e di detenzione e porto illegali di arma da sparo clandestina e, in concorso di attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante dei motivi abietti e futili, condannava Francesco Romeo alla pena di anni 25 di reclusione e Carmelo Romeo e Giovanni Zumbo a quella di anni 18 di reclusione. La Corte d’Assise ricostruiva i fatti sulla base del racconto fornito da Carmelo Mafrici, sopravvissuto all’aggressione. Nel pomeriggio del 3 dicembre 1994 il Mafrici, titolare di una ditta di spurgo di pozzi neri, e Paolo Bertone, operaio alle sue dipendenze, si stavano recando sul camion di proprietà del primo, presso l’abitazione di tale Francesco Romeo (solo omonimo di uno degli imputati), quando a un certo punto il camion, per la ristrettezza della carreggiata, urtava una Peugeot 205 ferma sulla destra della strada.
— 1195 — Il camion si arrestava e sul luogo sopraggiungeva un uomo che, qualificatosi proprietario dell’auto, ingiungeva agli investitori di denunziare il sinistro ai fini assicurativi per il risarcimento del danno. Alla risposta negativa del Mafrici, motivata dalla modestia dei danni, l’interlocutore tentava di buttare giù dalla cabina dell’autocarro i due interlocutori, ma veniva respinto. Il Mafrici e il Bertone ripartivano, raggiungendo l’abitazione del committente e dando inizio al loro lavoro. Mentre il Mafrici era intento a scoperchiare la botola di un pozzo nero, sopraggiungeva una Fiat Uno di colore bianco con a bordo tre persone, che si dirigevano verso i due. Uno dei tre si avventava sul Bertone sferrandogli dei pugni, ma il Bertone riusciva a scansarlo, fino a che sopraggiungeva una seconda persona, che lo colpiva con un bastone. A questo punto interveniva il Mafrici, il quale riusciva a disarmare l’aggressore e a difendersi dal terzo aggressore, togliendo anche a costui di mano un bloccasterzo di cui lo stesso si era dotato. Nel fare ciò perdeva l’equilibrio cadendo a terra. A questo punto uno degli aggressori apriva il fuoco contro il Bertone e poi rivolgeva l’arma verso il Mafrici, fermandolo. Subito dopo i tre si allontanavano a bordo della Fiat Uno, mentre il Bertone e il Mafrici venivano condotti all’ospedale di Melito Porto Salvo, ove il primo decedeva per le ferite riportate. All’udienza dibattimentale dell’11 novembre 1996 il Mafrici aveva identificato lo sparatore in Francesco Romeo, l’aggressore armato di bastone in Romeo Carmelo e quello armato del bloccasterzo nell’imputato Giovanni Zumbo. Francesco Romeo ammetteva di avere sparato. La Corte di primo grado riteneva la versione resa dal Mafrici pienamente credibile, ma riteneva che l’apporto di Carmelo Romeo e dello Zumbo all’azione dell’omicida dovesse essere valutato secondo i criteri di cui all’art. 116 c.p. Secondo i giudici di primo grado obiettivo del terzetto era quello di dar corso a una spedizione punitiva, ma non vi era alcuna prova che Carmelo Romeo portasse con sé un’arma. Proponevano appello il P.M. e gli imputati Carmelo Romeo e Giovanni Zumbo, essendo l’altro imputato Francesco Romeo deceduto in data 3 ottobre 1997, e la Corte di assise di appello di Reggio Calabria, con sentenza in data 13 luglio 1998, derubricava i reati di omicidio e di tentato omicidio rispettivamente in lesioni volontarie e tentate lesioni aggravate dall’uso dell’arma e dai motivi futili e concesse a entrambi gli imputati le attenuanti generiche subvalenti, li condannava ala pena di anni tre e mesi sei di reclusione ciascuno. Li assolveva dal reato di detenzione e porto d’arma per non aver commesso il fatto (Omissis) Passando alla definizione giuridica del concorso del Carmelo Romeo e dello Zumbo nella condotta di reato posta in essere da Francesco Romeo la Corte territoriale riteneva che le emergenze processuali non fossero tali da consentire di ravvisare un’ipotesi di concorso ex art. 110 c.p. A tale proposito rilevava in sintesi che l’obiettivo perseguito era quello di ‘‘dare una lezione’’, che la condotta posta in essere dagli agenti, conformemente a tale scopo, era quella di far valere pesantemente le loro ragioni e che nessuno dei
— 1196 — due aveva la consapevolezza della detenzione dell’arma da parte dello sparatore, il cui proposito omicida era subentrato in un secondo tempo. Era, pertanto, da escludere che i due fossero stati in grado di prevedere in concreto l’evento omicidiario come sviluppo logico della loro condotta sulla base di norme di esperienza. L’apporto di Carmelo Romeo e dello Zumbo andava, quindi, inquadrato nell’ambito del concorso anomalo di persone nel reato previsto dall’art. 116 c.p. per cui, non ravvisandosi un rapporto di causalità psichica, i due dovevano essere ritenuti responsabili di lesioni volontarie in danno del Bertone e di tentate lesioni nei confronti del Mafrici, ipotesi aggravate dall’uso dell’arma e dai motivi futili (Omissis) Hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale di Reggio Calabria, Giovanni Zumbo e Carmelo Romeo. Il primo ha dedotto violazione dell’art. 116 c.p., assumendo in sintesi che l’utilizzo dell’arma da fuoco da parte di Francesco Romeo non poteva essere considerato un evento atipico, insorto in virtù di circostanze eccezionali, posto che regole di comune prudenza, specie in presenza di una spedizione punitiva, richiedevano che tra i correi fossero ben chiari i limiti dell’azione e le modalità. Carmelo Romeo e lo Zumbo avrebbero, dunque, dovuto rispondere del reato effettivamente commesso per inosservanza delle regole di prudenza, essendosi affidati alla condotta di Francesco Romeo per realizzare il proposito criminoso concordato. (Omissis). DIRITTO. — 1. Il ricorso del P.G. si palesa fondato e va, pertanto, accolto. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte per la sussistenza del concorso anomalo previsto dall’art. 116 c.p. è necessario che ricorrano tre requisiti: a) l’adesione psichica del soggetto a un reato concorsuale meno grave; b) la commissione da parte di altro concorrente di un reato diverso e più grave; c) un nesso psicologico in termini di prevedibilità tra la condotta dell’agente compartecipe e l’evento diverso e più grave in concreto verificatosi. Per la sussistenza del terzo requisito non è sufficiente un rapporto di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento più grave commesso dal compartecipe ma è necessario che sussista un rapporto di causalità psichica nel senso che il reato diverso e più grave commesso dal compartecipe possa rappresentarsi alla psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto. Pertanto, in conformità dell’indirizzo espresso dalla sentenza n. 42 del 1965 della Corte Costituzionale la responsabilità penale del compartecipe va affermata nel caso che egli, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti nuovi, sia stato in grado di prevedere in concreto l’evento come sviluppo logico della sua condotta sulla base di norme di comune esperienza (cfr. ex pluribus, Sez., I, 23 febbraio 1995, Parolisi, rv. 200699; Sez.I, 9 novembre 1995, Fortebraccio, rv. 203347). Ai detti fini il mero motivo che ha determinato il concorrente a realizzare l’evento non voluto — in presenza di tutti gli elementi connotanti il rapporto psichico — non assume alcun rilievo in ordine alla prevedibilità in concreto da parte dell’agente, posto che non ha alcuna incidenza sull’oggetto del suo atteggiamento psicologico, per essere immutate le circostanze di svolgimento del reato voluto (Sez. I, 9 novembre 1995, cit.). La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei sopra menzionati principi di diritto. Infatti il fatto stesso, certo, che gli altri concorrenti, e cioè
— 1197 — il Romeo Carmelo e lo Zumbo, avessero accettato di partecipare all’aggressione, portando seco armi improprie — un bastone e un bloccasterzo — utilizzandole nella prima fase dello scontro, doveva far presumere con certezza nei loro confronti la consapevolezza di voler provocare almeno delle lesioni, con la conseguenza che la degenerazione dello scontro, a prescindere dalle specifiche modalità e dagli specifici mezzi adoperati, non poteva essere considerata come circostanza eccezionale tale da interrompere il rapporto di causalità psichica tra il reato concordato e l’evento diverso realizzatosi, rientrando nella ragionevole prevedibilità psichica di ciascun concorrente. Erroneamente, pertanto, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza del concorso ex art. 116 c.p. da parte degli odierni ricorrenti nel reato di omicidio volontario realizzato dal coimputato (poi deceduto) Francesco Romeo. (Omissis). —————— (1)
La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto tra versari in re illicita e principio di colpevolezza.
La continua ricerca di una ‘‘dimensione costituzionale’’ dell’art. 116 c.p rappresenta da tempo, senza alcun dubbio, il leit motiv della elaborazione dottrinale in materia (1). Le ragioni, facilmente intuibili, di un simile percorso interpretativo sono probabilmente da rinvenire nella particolare valenza simbolica di questa figura concorsuale, espressione delle esigenze proprie di ‘‘uno statualismo accentratore ed autoritario’’ il cui superamento si è accompagnato, nel nostro ordinamento, alla faticosa « restaurazione » del principio di colpevolezza (2). In questa ottica può forse comprendersi il vivo interesse sviluppatosi intorno all’ipotesi del ‘‘reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti’’, sebbene suoni sorprendente, quantomeno in considerazione della apparente unità di intenti, la contrapposizione, spesso anche aspra, di toni apprezzabile in sede interpretativa e di elaborazione teorica. Da questo specifico angolo visuale pare in effetti che la disposizione de qua più di altre si sia trovata « a metà strada tra le opposte concezioni finendo con il divenire il loro campo di battaglia » (3). Da ciò la necessità, a più riprese manifestata, come pure si cercherà di sottolineare, di porre fine agli in(1) Non sembra infatti di esagerare affermando che tale approccio al problema abbia forse rappresentato il solo elemento unificante i vari contributi succedutisi a partire dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 42 del 1965. Sul punto, per citarne solo alcuni, v. PANNAIN, Sull’art. 116 del c.p., in Arch. pen., 1965, 439; PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966; INSOLERA, Tentativo di una diversa lettura costituzionale dell’art. 116 c.p., in questa Rivista, 1978, 1489 ss.; NICOLOSI, Tendenze evolutive per la responsabilità ex art. 116 c.p., in Cass. pen., 1986, 730 ss.; STOCCO, Alla ricerca di una dimensione costituzionale dell’art. 116 c.p., in Cass. pen., 1990, 36 ss.; DE VERO, Compartecipazione criminosa e personalità della responsabilità penale, in Studium iuris, 1998, 253 ss. Nella manualistica più recente v. PADOVANI, Diritto penale, Parte generale, Milano, 1999, 388 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1998, 567 ss.; ANTOLISEI, Diritto penale, Parte generale, Milano, 1997, 576 ss.; GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1996, sub art. 116, 217 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, 464 ss.; FIORE, Diritto penale, Parte generale, II, Torino, 1995, 117 ss; MARINI, Lineamenti di diritto penale, Parte generale, Torino, 1993, 770 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1992, 538 ss. (2) PULITANÒ, voce Ignoranza (dir. pen.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 26. In argomento v. postea n. 5 (3) L’espressione è di MALINVERNI, voce Capacità a delinquere, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 119, che la adopera con riferimento ad altro campo di indagine ed in particolare alle difficoltà di individuazione del concetto di capacità a delinquere.
— 1198 — terventi di « ricostruzione ortopedica » (4), che hanno concorso, qualunque sia stata l’opzione teorica prescelta, a mutarne il volto, per imboccare, con decisione, la via della riforma legislativa. La sentenza che qui si commenta si inserisce a pieno titolo in tale querelle ed offre, in qualche misura, lo spunto per svolgere alcune riflessioni sulla natura giuridica della fattispecie descritta dall’art.116 c.p. e, in particolare, sul requisito della prevedibilità, che, individuato non senza incertezze — come vedremo (5)— dalla Corte costituzionale nell’ormai ‘‘storica’’ sentenza del 1965, si è rivelato l’anello debole della intera struttura. 2. La disputa di fondo che ha interessato l’art. 116 c.p. è, come sopra appena accennato, relativa alla sua qualificazione come figura di responsabilità oggettiva ovvero alla possibilità di rinvenire al suo interno un coefficiente di colpevolezza. I termini del problema sono ben evidenziati dalla decisione in oggetto che, in sintonia con certe tendenze interpretative, ricorre, al fine di fondare la responsabilità del concorrente ex art. 116 c.p., alla formuletta pigra dello « sviluppo logicamente prevedibile » ritenendo in tal modo ‘‘salvaguardato’’ il principio di colpevolezza ma nascondendo, invero con difficoltà, evidenti contraddizioni sul piano logico e giuridico (6). Antinomie interpretative che discendono in larga misura, come si vedrà, dalla mancata adesione da parte della Suprema Corte, al di là delle enunciazioni di principio, ad una precisa opzione teorica. Bene forse avrebbero fatto i Giudici di legittimità, come si può sin d’ora anticipare, a riconoscere il prevalere di valutazioni di prevenzione generale piuttosto che cedere a discutibili tentazioni ricostruttive. Tornando a talune premesse di ordine generale è quasi unanimemente condiviso che la disposizione in esame sia ispirata da esigenze fortemente repressive, costituendo esempio paradigmatico del modello causale di tipizzazione del contributo concorsuale (7), a sua volta, asse portante della piattaforma culturale del codice Rocco. Così pure si registra un diffuso sfavore nei riguardi della partecipazione criminosa, « vero archetipo giuridico della criminalità come fenomeno sociale generale » (8). Questo vale, certamente, ove si ponga (4) Così CANESTRARI, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto ed il principio di colpevolezza, in Studium iuris, 1996, 1399. Nello stesso senso v., tra i tanti, MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 539; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 2a ed., Milano, 1999, 325 ss.; PAGLIARO, Principi, cit., 567 ss. (5) V. infra, n. 4. Critico, tra gli altri, sulle scelte compiute dalla Consulta Insolera, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., Aggiornamento, Torino, 2000, 80, secondo cui esse rappresentano una delle ragioni fondanti della deviazione, nella ricostruzione della fattispecie in oggetto, « dai canoni di individuaizone tipica del profilo soggettivo ». (6) V. a mero titolo esemplificativo di un tale orientamento, Cass. pen., sez. I, 14 marzo 1996, in Riv.polizia, 1997, 437: « In tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe ai sensi dell’art. 116 c.p. (concorso ‘‘anomalo’’) richiede, anzitutto, l’adesione di tutti ad un reato concorsualmente voluto ed un evento diverso che costituisce un altro reato, voluto e cagionato da uno, soltanto, dei concorrenti nel reato voluto da tutti; richiede poi, un rapporto di causalità materiale tra i due reati ed, infine, un nesso di causalità psichica tra la condotta dei compartecipi che hanno voluto solo il reato concordato e l’evento diverso voluto e cagionato da altro concorrente, nel senso che il reato diverso deve potersi rappresentare nei suoi elementi essenziali, alla psiche del concorrente come sviluppo logicamente prevedibile del reato concordato e voluto ». Così pure Cass. pen., sez. I, 10 aprile 1996, ivi, 641: « Per la configurazione del concorso anomalo sono necessari tre elementi e, cioè, l’adesione dell’agente a un reato concorsualmente voluto, la commissione, da parte di altro concorrente, di un reato diverso o più grave e l’esistenza di un nesso causale, anche psicologico, fra l’azione del compartecipe al reato inizialmente voluto e il diverso o più grave reato poi commesso da altro concorrente, che deve essere prevedibile, in quanto logico sviluppo di quello concordato »; Cass. pen., sez. I, 23 febbraio 1995, in Cass. pen., 1996, 1129. Sul punto v. postea, n. 4. (7) Sottolinea INSOLERA, Profili di tipicità del concorso: causalità, colpevolezza, e qualifiche soggettive nella condotta di partecipazione, in questa Rivista, 1998, 449, come ne segni addirittura «il momento di massima espansione». (8) V., con ampiezza di argomentazioni, DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per
— 1199 — mente alla stretta formulazione letterale della norma, incentrata sul nesso di ‘‘conseguenzialità’’ tra l’evento non voluto e l’azione od omissione del partecipe. La conclusione pare meno sicura allorchè ci si soffermi su un esame, anche superficiale, dei lavori che hanno preceduto l’introduzione dell’art. 116 c.p. Se, infatti, da un lato, sembrava affermarsi in modo reciso, nel caso di specie, la natura rigorosamente oggettiva della responsabilità e l’assoluta preferenza per un’indiscriminata applicazione del modello causale(9), dall’altro emergevano in realtà, già in quella sede, profili di incertezza. A fronte delle critiche di coloro che denunciavano il rischio che così procedendo si sarebbe finito con il contraddire « il principio della coscienza e della volontà come causa della responsabilità », con l’effetto di determinare un’invasione, nel progetto, del concetto di responsabilità oggettiva (10), iniziava ad affiorare il principio secondo cui quando « l’evento si trova in rapporto di causalità con un’azione umana » il soggetto agente se lo debba « rappresentare come una conseguenza possibile » della sua condotta. In modo ancor più puntuale si sosteneva, nella Relazione ministeriale, che « la commissione ha ravvisato un caso di responsabilità oggettiva a torto, almeno in senso proprio », sottolineando come « non si tratti di responsabilità oggettiva in senso proprio ed assoluto perché l’individuo voleva concorrere con altri per commettere un reato », a nulla rilevando, in tale contesto argomentativo, che sia commesso un reato diverso, dal momento che — prosegue la Relazione — « questa diversità di specie, ma non di genere, non elimina l’elemento soggettivo della responsabilità, né fonda una responsabilità oggettiva vera e propria » (11). In breve, l’art. 116 c.p. non solo, ancor prima di far la sua apparizione nel codice, destava accese discussioni, ma in qualche misura recava già in nuce quello che si sarebbe rivelato il suo ‘‘tarlo’’ strutturale. Si finiva così con il prevedere una disposizione che, come risulta palese dal tono del dibattito in occasione della sua redazione, avrebbe comportato, in sede interpretativa, il ricorso ad un quid pluris attraverso cui si esplicitasse la, per certi versi, ambigua formulazione legislativa, ma che riuscisse al contempo ad allontanare l’ombra incombente del principio del versari in re illicita. 3. Gli sforzi in ambito dottrinale tesi a fornire una corretta lettura del disposto dell’art. 116 c.p., senza tuttavia mortificare le esigenze sopra delineate, hanno dunque finito con il privilegiare, a seconda dei casi, un’interpretazione, per così dire, oggettivistica di tale ipotesi, ovvero col dare prevalenza alla necessità di enucleare comunque una componente soggettiva. Tracce di questo differente approccio metodologico allo studio del meccanismo di attribuzione della responsabilità sotteso all’art. 116 c.p. si rinvengono parifatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in questa Rivista, 1983, 185. Analoghi rilievi in GRASSO, Commentario, cit., 218. (9) Illuminanti i passi della Relazione al Re richiamati anche nei Lavori della Commissione GROSSO istituita nel 1998 per la riforma del codice penale [il riferimento è, come noto, alla Relazione di sintesi così pure all’attività svolta dalla Sottocommissione Seminara che si è specificamente occupata dei problemi di disciplina del concorso di persone nel reato e dei reati associativi (Il testo della Relazione è ora pubblicato in questa Rivista, 1999, 609. I lavori della Commissione possono essere consultati nella loro interezza sul sito del Ministero di Grazia e Giustizia www.giustizia.it)]. (10) Sul punto v. amplius SANDULLI, L’art. 116 del codice penale, in Giust. pen., 1935, II, 1192 ss.; MIRTO, La responsabilità oggettiva e l’art. 116 del Codice penale, ivi, 657 ss. (11) V. Relazione al Re del Ministro Guardasigilli per l’approvazione del testo definitivo del codice penale, in Codice penale, a cura del Ministro della Giustizia e degli affari di culto, 1930. Criticamente osservava tuttavia FLORIAN come a nulla valesse sostenere che l’agente sebbene non avesse voluto quel reato, comunque aveva voluto un reato, dal momento che « qui il presupposto non è già una volontà generica di delinquere bensì una volontà specifica (in relazione a quel reato non commesso) ». Si sottolinea parimenti la solo apparente unitarietà di ispirazione dell’art. 116 c.p. nei lavori della Commissione Grosso, v. Relazione Grosso, Allegati, cit.
— 1200 — menti, come vedremo, nella prassi giudiziaria ove talora si assiste tuttavia a inopinati tentativi sincretici. Gli effetti risultano con chiarezza dalla sentenza che si commenta ed in particolare dalla lettura della parte in diritto in cui la condanna degli imputati si fa discendere, come si vedrà, dalla combinazione di elementi a dir poco eterogenei: « l’aver accettato di partecipare all’aggressione », l’assenza di « circostanze eccezionali tale da interrompere il rapporto di causalità psichica tra il reato concordato e l’evento diverso realizzatosi », il portare con sé « armi improprie » come elemento da cui desumere con certezza la prevedibile « degenerazione dello scontro ». Ciascuno di questi si presta infatti ad essere ‘manipolato’ a sostegno di tesi opposte in tal modo rischiando di determinare, per così dire, un effetto di ‘‘rimbalzo’’ sul piano dottrinale ove appaiono tuttavia più marcate le differenti posizioni espresse. Nella consapevolezza di doversi limitare alle prospettazioni più significative appare ad ogni modo necessario delineare un breve quadro riassuntivo anche al fine di comprendere appieno le ‘‘suggestioni’’ evocate dalla sentenza annotata. In un primo momento si era ritenuto che gli unici limiti alla rigorosa applicazione della fattispecie de qua derivassero dagli artt. 40 e 41 c.p., sia nel senso di escluderne la configurabilità in presenza di fattori interruttivi del nesso causale sia, soprattutto, di interpretare il legame tra azione ed evento ivi delineato in termini di causalità adeguata (12). Di diverso avviso invece coloro che sostenevano addirittura la natura dolosa della responsabilità in oggetto, richiamandosi ad una nozione di dolo di partecipazione che necessariamente ricomprendesse al suo interno « il calcolo della possibilità che colui che eseguirà in tutto o in parte l’azione collettiva [...] ecceda i termini del mandato » (13). In tal modo si ricostruiva una nozione di dolo di concorso « quantitativamente depauperata », in cui venivano a dissolversi tutti gli elementi di tipicità propri di una determinata fattispecie di reato, « ferma restando la esigenza che il fatto previsto e voluto corrisponda sempre ad una fattispecie penale » (14). (12) Sottolinea la necessità, richiamandosi peraltro alla posizione allora prevalente in dottrina, di delimitare sul piano oggettivo l’applicabilità della norma FLICK, Sui limiti di applicabilità dell’art. 116 c.p., in questa Rivista, 1964, 814 e soprattutto 821. Per quanto concerne il ricorso alla teoria della causalità adeguata v. ANTOLISEI, Il rapporto di causalità in diritto penale, Padova, 1934, 25 ss.; ID., Manuale di diritto penale, cit., 239 ss. e 578 s. Contra, tra gli altri, DIOGUARDI, Osservazioni critiche intorno all’art. 116 cod. penale, in Foro it., 1951, 65 ss. Anche PADOVANI, Diritto penale, cit., 390 riconosce come la formulazione letterale dell’art. 116 c.p. sia incentrata sul nesso causale tra il reato voluto e l’evento diverso realizzatosi. Riferimenti pure in MARINI, Lineamenti, cit., 771. Per ulteriori approfondimenti v. GRASSO, Commentario, cit., 220. Di tale opzione teorica si ritrova eco in talune, anche recenti, pronunce giurisprudenziali. V., tra le numerose, Cass.pen., sez. I, 9 novembre 1995, in Cass. pen., 1996, 3642: «In tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe ai sensi dell’art. 116 c.p. (concorso ‘‘anomalo’’) può essere esclusa soltanto quando il reato diverso e più grave si presenti come un evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non collegato in alcun modo al fatto criminoso su cui si è innestato, oppure si verifichi un rapporto di mera occasionalità idoneo ad escludere il nesso di casualità»; Cass. pen., sez. I, 11 maggio 1994, in Cass.pen., 1995, 1833; Cass. pen., sez. V, 17 dicembre 1991, in Cass.pen., 1993, 818. (13) Testualmente LATAGLIATA, voce Concorso di persone nel reato, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 585. (14) V. rispettivamente SERIANNI, L’art. 116 c.p. e la comunicabilità delle circostanze soggettive aggravanti al partecipe che non volle il reato diverso, in questa Rivista, 1964 , 518; RICCOMAGNO, Responsabilità ex art. 116 c.p. e scriminanti oggettive e soggettive, in questa Rivista, 1968, 858 ss. che attribuisce all’art. 116 c.p. il valore di norma « che definisce il contenuto minimo del dolo nella fattispecie concorsuale »; SORBARA, Ancora sull’art. 116 c.p., in Arch. pen., 1949, 403 e, in senso parzialmente diverso, DE MATTIA, La responsabilità qualificata dall’evento dell’articolo 116 c.p., in Giust. pen., 1948, II, 541 ss. Tale ricostruzione dell’elemento soggettivo ha fatto peraltro pensare ad un parallelo con la controversa figura del c.d. dolus generalis. Su tale concetto e sulle sue implicazioni nella problematica in oggetto v., per tutti, GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957, 109; ID., voce
— 1201 — In tempi più recenti sono venuti delineandosi, anche in relazione ai prevalenti indirizzi giurisprudenziali, quantomeno tre principali filoni interpretativi. L’impostazione più risalente inserisce l’ipotesi prevista dall’art. 116 c.p. nel quadro di una più articolata ricostruzione teorica delle figure di responsabilità oggettiva presenti nel nostro ordinamento. Più precisamente, se dal punto di vista politico criminale si individua la ratio della disposizione « nella situazione di concorso ivi prevista » e si giustifica il rigido trattamento sanzionatorio in forza dell’assunto che « l’affidarsi ad altri per la realizzazione di un proposito criminoso implica l’attivare forze che non possono poi essere controllate » (15), sotto il profilo dogmatico si ritiene la fattispecie de qua esemplificativa della c.d. responsabilità da rischio totalmente illecito. In estrema sintesi, si sostiene come, a ben vedere, nel nostro ordinamento, non esisterebbero ipotesi di responsabilità oggettiva vera e propria, poiché anche laddove non venga richiesta un’imputazione a titolo di dolo o colpa comunque sarebbe necessaria « una rimproverabilità etica per il fatto commesso », che si tradurrebbe in definitiva nel duplice requisito della prevedibilità ed evitabilità dell’evento in concreto (16). Soluzione, quest’ultima considerata, peraltro, semplice applicazione dei principi di carattere generale fissati nel nostro codice e, in particolare, in diretta connessione con il dettato dell’art. 45 c.p., che attribuirebbe rilievo al caso fortuito ed alla forza maggiore quali limiti a qualunque forma di attribuzione di responsabilità (17). Non del tutto dissimili le premesse teoriche da cui prende le mosse altra parte della dottrina, pervenendo tuttavia a conclusioni ben differenti. Pur riconoscendo la giustezza dell’intuizione secondo cui tra l’azione del partecipe e l’evento diverso sia da escludere la configurabilità di una casualità in senso naturalistico, si contesta il definitivo allontanarsi dal piano oggettivo - causale per ripiegare sul concetto di « logico condizionamento » (18). L’ancoraggio dell’art.116 c.p. al piano oggettivo costituisce invece, in questa ottica, un elemento di chiarificazione del meccanismo di attribuzione della responsabilità (19). Nella disposizione in esame, si rileva, il legislatore avrebbe infatti, in modo non dissimile dall’art.110 c.p., attribuito particolare rilievo al momento dell’organizzazione. Di tal che sarebbero individuabili due diversi momenti nell’esegesi dell’art. 116 c.p.: in una prima fase si dovrebbe accertare l’inserimento del contributo del singolo partecipe nel tessuto organizzativo predisposto alla realizzazione del reato determinato, e solo successivamente si tratterebbe di verificare il nesso causale tra la componente organizzativa ed il reato effettivamente realizzato, potendo tuttalpiù, in questa fase, acquiDolo, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 798 ss. Per alcuni rilievi critici v. tra i tanti, FIORE, Diritto penale, cit., 118 s. (15) PAGLIARO, La Responsabilità, cit., 38 s.; ID., Principi, cit., 568. (16) V. PAGLIARO, Responsabilità oggettiva, in Studi in onore di Vassalli, I, Milano, 1991, 185. (17) Ancora PAGLIARO, Colpevolezza e responsabilità obiettiva: aspetti di politica criminale e di elaborazione dogmatica, in STILE (a cura di), Responsabilità obiettiva e principio di colpevolezza, Napoli, 1989, 11 ss. Per più dettagliati chiarimenti v. ID., La Responsabilità, cit., 95 ss. ed in particolare 105. (18) È questa la posizione di INSOLERA, L’art. 116 c.p. come modello di responsabilità oggettiva: riflessioni interpretative e proposte di modifica, in Responsabilità oggettiva, cit., 461 ss. il quale si richiama, in parte criticandola, all’impostazione di PAGLIARO, op. ult. cit., 95. Quest’ultimo Autore afferma infatti come rimanendo nell’ambito del rapporto causale quale inteso nelle scienze naturalistiche si finirebbe con il « dissolvere la portata normativa » dell’art. 116 c.p. dal momento che « mai il partecipe, il quale non ha voluto l’evento, ne pone l’intero complesso delle condizioni fisiche ». (19) Con estrema nettezza afferma INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, 483, l’estraneità all’art. 116 di qualsiasi tentativo di interpretazione fondato sull’elemento psicologico. Ancora più rigoroso PANNAIN, Sull’art. 116 del codice penale, cit., 439, secondo cui si sarebbe in presenza di «un caso di responsabilità per fatto altrui, in senso fisico, nel senso, cioè, che il fatto appartenente esclusivamente ad un concorrente, è posto a carico anche degli altri concorrenti che nulla hanno operato in quel senso».
— 1202 — sire rilievo il riferimento al concetto di prevedibilità. Così, per un verso, si attribuisce a tale disposizione una portata derogatoria nei confronti dell’art.115 c.p. e, dall’altro, si polarizza l’attenzione, soprattutto nella prospettiva di una ‘‘armonizzazione’’ con la Costituzione, sul contrasto con il III comma dell’art. 27 cost., attesa la assoluta sproporzione tra sanzione e precetto (20). Vi è, infine, parte autorevole della dottrina che ravvisa nell’art. 116 c.p. una forma di responsabilità oggettiva anomala, in quanto l’agente risponderebbe a titolo di dolo, ma sulla base di un atteggiamento colposo. In particolare, i presupposti cui sarebbe subordinata l’operatività della disposizione in oggetto vengono individuati nella sussistenza di una situazione di concorso di persone nel reato, nella necessità che uno dei concorrenti commetta un reato diverso da quello originariamente programmato, e nell’esistenza di un legame di prevedibilità in concreto tra quest’ultimo ed il diverso evento realizzato, avuto riguardo al piano criminoso, alle modalità dell’accordo ed a tutte le altre circostanze relative alla vicenda concreta (21). Si deve tuttavia riconoscere come le diverse posizioni presentino un elemento unificante, costituito dall’assoluta preferenza per un concetto di prevedibilità in concreto, questione su cui torneremo più avanti e su cui si registra comunque ampio consenso in ambito scientifico (22), sebbene non manchino anche tra i fautori di quest’ultima tesi divergenze di opinioni circa l’effettiva natura della responsabilità de qua (23). 4. L’atteggiamento della giurisprudenza in subiecta materia non ha dal canto suo offerto un particolare contributo a chiarire i termini nebulosi del problema, accentuando per contro il solco esistente tra elaborazione dottrinale e concreta applicazione dell’art. 116 c.p. (24). Tale affermazione risulta incontestabile già ad un breve esame degli orientamenti nel tempo prevalenti e trova ulteriore conferma, come più volte sottolineato, nella sentenza de qua. In primo luogo è interessante rilevare come fin dall’inizio la giurisprudenza si premuri di escludere la natura rigorosamente oggettiva della responsabilità di cui all’art. 116 c.p. sostenendo che questo rappresenti uni(20) Riguardo la prima questione è evidente come l’incentrare l’intero disvalore sul momento dell’organizzazione equivale nei fatti a legittimare nel nostro ordinamento una sorta di tentativo di partecipazione e da qui la deroga all’art. 115 c.p. Quanto poi al profilo sanzionatorio INSOLERA, voce Concorso, cit., 488 ss., evidenzia come il rigore spropositato dell’art. 116 c.p. si sostanzi per l’appunto nel far dipendere la sanzione integralmente da quello dei due momenti sopra delineati (la relazione tra l’elemento organizzativo e l’evento diverso realizzato) in nessun modo coperto dal giudizio di colpevolezza. (21) V., per tutti, GRASSO, Commentario, cit., 218 ss., il quale sottolinea come mentre il primo requisito presuppone che il concorrente sia in dolo nei riguardi del reato inizialmente programmato, analogo atteggiamento psicologico viene richiesto nei riguardi del reato diverso in capo ad almeno uno dei compartecipi. (22) V., tra i tanti, PAGLIARO, La Responsabilità, cit., 109 ss.; MUSCO, in Commentario breve al codice penale, (a cura di) CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Padova, 1999, sub art. 116 c.p., 439 ss.; LEONCINI, in Codice penale commentato, (a cura di) PADOVANI, Milano, 1997, sub art. 116 c.p., 556. Per alcuni rilievi su tale concetto v. anche postea n. 5. (23) Per MANTOVANI, Diritto penale, cit., 540, ricorrono tutti i presupposti fondanti una responsabilità a titolo di colpa ossia la non volontà del fatto, l’inosservanza di regole di prudenza, l’evitabilità e prevedibilità dell’evento. Di diverso avviso FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 466. In argomento v., inoltre, GRASSO, Commentario, cit., 221. In giurisprudenza v. Cass. pen., sez. I, 23 settembre 1992, in Cass.pen, 1994, 1516, con nota di CLAUDIO: « Nell’ipotesi di concorso anomalo nel reato delineato dall’art. 116 c.p. il correo che ha voluto il reato meno grave risponde di quello effettivamente commesso sulla base di un atteggiamento psichico colposo, consistente nell’inosservanza delle regole di prudenza per essersi affidato all’altrui condotta per realizzare il proposito criminoso concordato ». (24) MORMANDO, Interpretazione letterale e interpretazione giurisprudenziale dell’art. 116 c.p., in Riv. pen., 1991, 673, osserva come in questo settore le discrasie tra dottrina e giurisprudenza « abbiano assunto il senso greve di una realtà ».
— 1203 — camente un’ipotesi di concorso particolarissima contenente « una deroga alla rigorosa applicazione dei principi sul dolo » (25). Ma è ancor più significativo come, ben prima dell’intervento della Corte Costituzionale del 1965, inizi a delinearsi la tendenza, nelle pronunce della Suprema Corte, ad introdurre la nozione di prevedibilità, anche se solo quale limite all’operare del rapporto di causalità, esigendo che « il secondo reato rappresenti il logico e prevedibile sviluppo del primo » (26). A ben vedere, dunque, la sentenza del 1965 non ha fatto altro che utilizzare uno ‘‘strumento’’ già a disposizione degli operatori del diritto senza riuscire però a depurarlo dai suoi connotati « ibridi » (27). Alcune riflessioni tuttavia si impongono. Che innanzitutto la Corte costituzionale fosse mossa dalla volontà di individuare, tramite il ricorso alla prevedibilità, un elemento che assicurasse la soggettiva rimproverabilità del fatto all’autore non convince appieno. Ad una lettura più attenta del testo della decisione emerge infatti come, sebbene sia evidente il rigetto di un’interpretazione « in senso rigorosamente oggettivo » dell’art. 116 c.p., con l’effetto di ritenere necessaria « la presenza anche di un elemento soggettivo », l’intero quadro argomentativo sembra più improntato alla necessità di escludere, nel caso di specie, l’esistenza di una ipotesi di responsabilità per fatto altrui, che alla ricerca di un effettivo coefficiente di colpevolezza (28). Da qui la nota conclusione secondo cui « il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto... », per quanto la stessa Corte eluda il compito, invero arduo, di « delimitare la natura e gli aspetti » della componente soggettiva così individuata (29). La indeterminatezza e l’ambiguità del concetto di « logica prevedibilità » sono vieppiù manifestate dalla prassi giurisprudenziale immediatamente successiva, ove si è venuta determinando una netta prevalenza della interpretazione ‘‘in astratto’’ di tale elemento (30). Né l’analisi delle tendenze attualmente prevalenti in sede giudiziaria consentono di affermare, con sufficiente margine di certezza, che tali tentazioni ermeneutiche siano del tutto abbandonate, apparendo paradossalmente i requisiti negativi della fattispecie maggiormente definiti dei suoi elementi qualificanti (31). (25) Così Cass. pen., sez. I, 30 luglio 1949, in Giust. pen., 1949, II, 115. Per alcune osservazioni sul tema v. GUADAGNO, Appunti sull’art. 116 c.p., in Foro pen., 1951, 155 ss. (26) V., tra le altre, Cass.pen., sez. I, 24 febbraio 1950, in Riv. pen., 1950, II, 518; Cass. pen., sez. I, 7 novembre 1958, in Giust. pen., 1959, II, 455. Sul punto v. anche supra, n. 2. In dottrina v., per tutti, GRASSO, Commentario, cit., 219 s. (27) INSOLERA, Concorso, cit., 483. ID., Concorso, Aggiornamento, cit., 80, il quale, richiamando le parole di Bricola (v. nota 134), sottolinea come la Corte abbia di fatto individuato un coefficiente di imputazione soggettiva « nuovo » rispetto alla previsione di cui all’art. 43 c.p. (28) Tale considerazione, peraltro dettata, in certa misura, dalla differente «temperie» culturale, emerge in modo inequivoco dalla stessa ordinanza della Corte d’Appello di Roma in cui specificamente si contesta che nell’art. 116 c.p. la responsabilità sia « ascritta per fatto non proprio », nonchè dalla lettura delle tesi difensive sostenute dall’Avvocatura dello Stato e dalla difesa che si incentrano assolutamente su tale ultima questione. V. Corte Cost., 31 maggio 1965, n.42, in Arch. pen., 1965, II, 598. Per alcune osservazioni in materia v. MARINI, voce Concorso di persone nel reato, in NN.D.I App., II, Torino, 1981, 311 ss.; GIULIANI, Sul problema giuridico dell’articolo 116 c.p., in Scuola Pos., 1967, 439. (29) A ragione INSOLERA, Tentativo, cit., 1493, individua proprio nell’aver riproposto «un concetto già logoro [...] senza ulteriori arricchimenti» il limite di fondo della pronuncia in oggetto. (30) Per una ampia rassegna giurisprudenziale v. BERNASCONI C., Orientamenti giurisprudenziali in tema di art. 116 c.p., in Ind. pen., 1994, 323 ss.; ZAINI, in Codice penale commentato, I, (a cura di) DOLCINI-MARINUCCI, Milano, 1999, sub art. 116 c.p., 957 ss.; ZAGREBELSKY-PACILEO, Codice penale annotato, Torino, 1999, sub art. 116 c.p., 606 ss.; PUTINATI, Il caso, in Ind. pen., 1999, 169 ss. (31) Risulta infatti affermato, con una certa coerenza e decisione, il principio secondo cui il con-
— 1204 — Semplificando i termini di una notoriamente ampia produzione giurisprudenziale, appare evidente come si sia comunque ben lungi dall’aver raggiunto l’auspicata uniformità applicativa. Accanto, infatti, a pronunce nelle quali il Supremo Collegio ha affermato senza equivoci la necessità di accertare ‘‘in concreto’’ il requisito della prevedibilità (32), non mancano casi in cui sembra prevalere una nozione di prevedibilità intesa in senso oggettivo (33) od ancora, come sopra accennato, quale rapporto ‘‘in astratto’’ tra fattispecie (34). Illuminante, a questo riguardo, il caso che ha dato occasione alla decisone che qui si commenta. La Corte di Cassazione, nel ripercorrere l’intera vicenda, ritiene di disattendere la qualificazione data al fatto dal giudice di merito, sul presupposto che l’avere gli imputati partecipato alla aggressione portando con sé armi improprie utilizzate nella prima fase dello scontro « doveva far presumere con certezza nei loro confronti la consapevolezza di voler provocare almeno le lesioni, con la conseguenza che la degenerazione dello scontro, a prescindere dalle specifiche modalità e dagli specifici mezzi adoperati, non poteva essere considerata come circostanza eccezionale tale da poter interrompere il rapporto di causalità psichica tra il reato concordato e l’evento diverso realizzatosi, rientrando nella ragionevole prevedibilità psichica di ciascun concorrente ». È sufficiente un breve esame dell’iter logico che ha condotto il giudice di legittimità alla pronuncia in oggetto, perché emerga con chiarezza la sovrapposizione di piani di indagine (35). Sotto un profilo propriamente tecnico - giuridico desta perplessità, in primis, il riferimento alla « consapevolezza di voler provocare delle lesioni », stante che quest’ultima viene, per adoperare le parole della Corte, « presunta con certezza » dall’avere i soggetti accettato di partecipare, muniti di armi, all’aggressione, di modo che tale « certa presunzione » sembrerebbe sostituire al doveroso, seppur corso ex art. 116 c.p. sia ad ogni modo da escludere ogni qual volta il soggetto agente versi in relazione all’evento diverso in dolo eventuale o indiretto trovando applicazione, in tale ipotesi, l’art. 110 c.p. (in questo senso v. Cass. pen., sez. I, 20 dicembre 1996, in Cass.pen., 1998, 2348 « In tema di concorso di persone nel reato, tutte le volte che il soggetto non soltanto si rappresenta l’evento, ma lo vuole, sia sotto il profilo del dolo diretto che del dolo indiretto (in tutte le sue accezioni), non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 116 c.p., ma quella del concorso di cui all’art. 110 c.p., essendo presenti entrambi gli elementi che caratterizzano il concorso di persone nel reato e cioè il nesso causale e la volontà di commettere il reato »; analogamente Cass. pen., sez. I, 10 aprile 1996, cit., « [...] qualora l’evento diverso materialmente cagionato da uno dei concorrenti, non sia rimasto nella sola prevedibilità, ma sia stato non solo previsto concretamente, ma anche accettato come rischio pur di realizzare l’obiettivo concordato da tutti, si versa non nell’ipotesi del concorso anomalo, bensì in quello del concorso pieno »). (32) V., tra le numerose, Cass. pen., sez. V, 10 febbraio 1998, in CED Cassazione 2998; Cass. pen., sez. I, 22 maggio 1992, in Giust. pen., 1993, II, 227 « dell’evento diverso e più grave, verificatosi, risponderà a titolo di concorso anomalo, ex art. 116 c.p., se sarà acquisita la prova che si è concretamente rappresentato detto evento come possibile conseguenza dell’azione concordata col correo, delle modalità di esecuzione di essa e di tutte le altre rilevanti circostanze di fatto, ovvero non nè risponderà se la detta rappresentazione sarà ritenuta insussistente »; Cass.pen., sez. I, 22 ottobre 1990, in Riv. pen., 1991, 636; Cass. pen., sez. I, 27 novembre 1987, ivi, 1989, 411. (33) V. Cass. pen., sez. I, 9 novembre 1995, in Giust. pen., 1996, II, 324 «In tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe ai sensi dell’art. 116 c.p. (concorso ‘‘anomalo’’) può essere esclusa soltanto quando il reato diverso e più grave si presenti come un evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non collegato in alcun modo al fatto criminoso su cui si è innestato, oppure quando si verifichi un rapporto di mera occasionalità idoneo ad escludere il nesso di causalità»; Cass. pen., sez. IV, 4 luglio 1994, in Cass.pen., 1996, 1129. Sul punto v. più estesamente ante nota 12. (34) V., a mero titolo esemplificativo, Cass. pen., sez. I, 28 giugno 1995, in Cass.pen., 1996, 2184 « [...] l’omicidio — o il tentato omicidio — appare legato alla rapina da un rapporto di regolarità causale e può considerarsi un evento che rientra, secondo l’id quod plerumque accidit, nell’ordinario sviluppo della condotta di rapina»; analogamente Cass. pen., sez. V, 17 dicembre 1991, ivi, 1993, 818. (35) Tale elemento, osserva autorevole dottrina, rappresenta la vera nota peculiare delle pronunce in materia. Sul punto v. amplius INSOLERA, Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti e mutamento del titolo di reato, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, (a cura di) BRICOLA-ZAGREBELSKY, II, Torino, 1996, 615 ss.
— 1205 — difficile, accertamento dell’elemento soggettivo una ipotesi di dolus in re ipsa. Ma tanto più non convince la proiezione del coefficiente di colpevolezza così individuato sino a coprire l’evento diverso non voluto (36). E comunque, anche a voler accedere a simile impostazione teorica, sembrerebbe, nel caso in esame, sussistere una normale ipotesi di concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p., piuttosto che la figura di responsabilità di cui all’art. 116 c.p. (37) Così pure equivoco appare il riferimento « alla ragionevole prevedibilità psichica di ciascun concorrente », o, ancora, il sottolineare con forza come « la degenerazione dello scontro » non possa comunque rappresentare « circostanza eccezionale tale da interrompere il rapporto di causalità psichica tra il reato concordato e l’evento diverso realizzatosi ». Se, infatti, il rapporto di logica connessione tra il reato di lesioni ed il successivo evento diverso realizzato potrebbe indurre a ritenere accolta un’interpretazione ‘‘in astratto’’ della prevedibilità, così come l’accenno alla mancanza di fattori interruttivi del nesso causale sembra comunque indirizzare verso una nozione oggettiva di tale requisito, l’espressione « ragionevole prevedibilità » da ultimo adoperata appare per contro alludere alla necessità di un rimprovero a titolo di colpa. Del resto, quest’ultima ipotesi ricostruttiva può forse trarre indiretta conferma dall’esame dei motivi di ricorso del Procuratore generale, laddove si individua la fonte della responsabilità per il reato effettivamente commesso « nell’inosservanza delle regole di prudenza » che avrebbero dovuto indurre i soggetti a non affidarsi ad altri per la realizzazione del proposito criminoso concordato. 5. Risulta evidente, dalle brevi osservazioni svolte, come la controversa natura della responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto abbia costituito un vero ‘‘rompicapo’’ giuridico. Ne è conferma il fatto che essa rappresenti, tuttora, una questione assolutamente aperta, al punto che vi è ancora chi mette persino in dubbio la sua stessa appartenenza alla tematica del concorso di persone nel reato (38). In tale quadro vanno inserite le note pronunce della Corte costituzionale nelle quali si è sancito in via definitiva il principio secondo cui il carattere personale della responsabilità penale esige non solo che « tutti e ciascuno gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore penale del fatto siano rimproverabili all’agente », ma che siano anche da lui « soggettivamente disapprovati », ed in modo ancor più puntuale ove si afferma la necessità almeno della colpa in relazione « agli elementi più significativi della fattispecie », di modo che il cittadino sia chiamato a « rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per com(36) Questa ricostruzione teorica sembra pertanto condurre ad altrettante ipotesi di dolus generalis. Per ulteriori chiarimenti v. supra n. 3. Sul dolus in re ipsa nella dottrina italiana v., in generale, BRICOLA, Dolus in re ipsa, Milano, 1960. (37) Si vuole solo sottolineare come portando alle estreme conseguenze tale ragionamento si dovrebbe concludere per una piena responsabilità a titolo dolo (eventuale) nel reato più grave commesso dal partecipe. Interessante può forse essere il riferimento a talune sentenze nelle quali la Corte ha fatto appunto applicazione dell’art. 110 c.p. V. Cass. pen., sez. I, 22 febbraio 1994, in Giust. pen., 1994, II, 422 « Qualora il reato voluto dal concorrente morale sia quello di lesioni con arma, ma quello commesso dall’autore materiale sia, sorretto da dolo eventuale, di omicidio, il mandante del delitto di lesioni risponde di concorso ex art. 110 c.p. in quest’ultimo delitto e non è a lui applicabile l’ipotesi di concorso anomalo ex art. 116 c.p. in quanto non poteva non prevedere e ne ha pertanto accettato il rischio che dalla condotta da lui voluta potesse derivare, così come è avvenuto, un risultato diverso ». Sul punto v. anche le osservazioni di cui alla nota 31. (38) Per PATERNITI, voce Concorso di persone nel reato, in Enc. giur. Treccani, VII, 1988, 4, l’art. 116 c.p. rappresenta una situazione solo apparente di concorso dal momento che mancherebbero già « gli schemi logici di una attività concorsuale »; ID., La responsabilità oggettiva nel diritto penale, Milano, 1978, p. 48 ss.
— 1206 — portamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate » (39). Pur non potendo indugiare, per ovvi motivi, sulla portata davvero « rivoluzionaria » di tali pronunce, e riconoscendo peraltro come la Corte non abbia sancito « un assoluto divieto della responsabilità oggettiva », immediati ne appaiono comunque i riflessi sistematici, e questo anche a voler ritenere tali interventi semplice stimolo ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni codicistiche (40). Ad ogni modo esse consentono, ai nostri fini, di individuare taluni punti fermi. Non appaiono, in primo luogo, percorribili le ‘‘scorciatoie’’ dogmatiche tese ad imputare al partecipe a titolo di dolo l’evento diverso non voluto sulla base della « preventiva accettazione dell’opera dell’esecutore », intrinseca nel suo « volontario affidarsi alla volontà di colui che eseguirà il reato » o comunque nella sua consapevolezza di concorrere alla realizzazione di un’offesa penalmente rilevante (41). L’elemento soggettivo verrebbe così « svuotato » di contenuto, esaurendosi nella sua componente rappresentativa senza alcun riguardo al momento della volizione, e inoltre ne resterebbe eluso, come traspare anche dalla decisione in esame, il necessario accertamento attraverso il ricorso a presunzioni (42). Ambiguo appare peraltro in tali ipotesi anche il riferimento al concetto di dolus generalis, di matrice essenzialmente tedesca, che, elaborato per risolvere casi in realtà differenti, sembra riportare, per vie traverse, al concetto di prevedibilità (43). Così argomentando si priverebbe infine di qualsivoglia funzione l’art. 116 c.p. escludendone in radice ogni ambito di operatività ed incoraggiando in definitiva le tendenze esasperatamente espansive della clausola generale di responsabilità di cui all’art. 110 c.p. Perplessità desta, sul versante opposto, la preferenza per una interpretazione rigorosamente oggettiva dell’art. 116 c.p., e questo non solo per la evidente ostilità che così si manifesta verso una qualunque ‘‘apertura’’ in senso costituzionale nell’interpretazione di tale disposizione (44). Attribuire all’art. 116 c.p. una forte (39) V. Corte cost., 24 marzo 1988 n. 364, in Foro it., 1988, I, 1385 ss.; Corte cost. 13 dicembre 1988 n.1085, in Giur. it., 1989, I, 1620 ss. Per una analisi più approfondita v., tra gli altri, PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista., 1988, 686 ss.; FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: « prima lettura » della sent. 364 del 1988, in Foro it., I, 1988, 1385; PADOVANI, L’ignoranza inevitabile della legge penale e la declaratoria di incostituzionale parziale dell’art. 5 c.p., in Leg. pen., 1988, 453 ss.; FLORA, La difficile penetrazione del principio di colpevolezza: riflessioni per l’anniversario della sentenza costituzionale sull’art. 5 c.p., in Giur. it, 1989, IV, 337 ss. (40) Sul punto v. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 325 ss. (41) V. ante n. 3 (42) A questo riguardo basti notare come seguendo tale impostazione sembra venir meno la ragione stessa dell’art. 116 c.p. a favore di un ricorso generalizzato alla clausola generale di cui all’art. 110 c.p. In argomento v. GRASSO, Commentario, cit., 219. (43) Tradizionalmente si trattava di casi in cui il soggetto credeva di avere, con la prima azione, realizzato l’evento che invece si veniva a determinare a seguito della seconda azione diretta a nascondere la prima. L’orientamento da tempo prevalente nella giurisprudenza tedesca è tuttavia nel senso di individuare altrettante ipotesi di dolo pieno ogni qualvolta si tratti di deviazione causale non essenziale (unwesentliche Kausalabweichung) ed in qualche modo prevedibile. Per maggiori approfondimenti v. ROXIN, Strafrecht, Allgemeiner Teil, 3 ed., 1997, 443 ss; MAIWALD, Der ‘‘dolus generalis’’. Ein Beitrag zur Lehre von der Zurechnung, in ZStW (78), 1966, 30 ss. Nella dottrina italiana v. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, in questa Rivista, 1991, 36, ad avviso del quale il dolo viene così « stravolto nel suo oggetto » attraverso « l’infiltrazione del nemico storico della colpevolezza — il versari in re illicita »; DE VERO, Compartecipazione, cit., 256, che parla di vera e propria « negazione del dolo come autentica e fondamentale forma di imputazione soggettiva ». (44) Il riferimento è ovviamente alle posizioni espresse da INSOLERA e da quanti, in ambito dottrinale, rimangono fermi nel «bollare» come oggettiva la responsabilità de qua. V., tra gli altri, GROSSO, Responsabilità penale personale e singole ipotesi di responsabilità oggettiva, in Responsabilità oggettiva,
— 1207 — carica stigmatizzante rispetto al momento organizzativo del concorso criminoso, se da un lato sembra richiamare esperienze proprie di altri ordinamenti (45), finisce con l’accentuarne, qualora ve ne fosse bisogno, la « draconiana operatività », rischiando peraltro di delineare anche in questo caso una responsabilità che in qualche modo è sempre di ‘‘posizione’’ (46). Ma ancor prima, è lo stesso meccanismo descritto a rivelarsi altrettanto ‘‘pericoloso’’. Si incentra infatti l’intero disvalore sull’inserimento del contributo del singolo nella ‘‘macchina’’ organizzativa concorsuale, subordinandone però la punibilità alla realizzazione del reato diverso, che fungerebbe così da evento-condizione. Sembra dunque emergere una condizione di punibilità ‘‘anomala’’ — l’art. 44 c.p. parla di reato la cui punibilità la legge fa dipendere dal verificarsi di una condizione — che, in base a quanto sopra affermato, si dovrebbe considerare intrinseca, con i conseguenti noti problemi di conformità al dettato dell’art. 27 cost. (47) Ed ancora si ottiene, così procedendo, quasi l’effetto di introdurre una disposizione che sanzioni il tentativo di concorso, come peraltro gli stessi fautori di tale tesi riconoscono, estendendo persino oltre la volontà dello stesso legislatore del 1930 l’ambito di applicazione dell’art. 116 c.p., senza che tuttavia esista nel nostro ordinamento il limite invalicabile costituito, nello Strafgesetzbuch, dal § 29 secondo cui « ciascun partecipe viene punito in base alla propria colpevolezza senza riguardo alla colpevolezza degli altri » (48). Non si sottrae a taluni rilievi critici neppure l’inquadramento dell’ipotesi in esame all’interno della categoria della c.d. responsabilità da rischio illecito (49). Le obiezioni riguardano in realtà la possibilità stessa di prevedere nel nostro ordinamento una siffatta figura di responsabilità, che presuppone l’esistenza di una situazione di base illecita e l’operare dei requisiti della prevedibilità e dell’evitabilità. A ben vedere, infatti, si ricollega, nel caso di specie, la punibilità del partecipe per il reato diverso alla « colpa particolarmente grave » in cui questi versa per essersi ‘‘spogliato’’ del dominio finalistico del fatto a favore dell’esecutore materiale del proposito criminoso (50). In questo modo tuttavia si ritorna, in un certo cit., 269 ss. ed in particolare 277 s. e, seppur in senso parzialmente diverso, PATERNITI, Concorso, cit., 4, secondo cui l’art. 116 c.p. non fa che prevedere « la possibilità di un inserimento causale, del soggetto cui obiettivamente si fa carico, nella realizzazione del fatto da altri voluto ». In argomento v. inoltre ante n. 3. (45) Si intende far rinvio a taluni istituti propri del sistema angolosassone quali la conspiracy cui si fa ricorso per punire ex novo condotte altrimenti non perseguibili. In tal modo si sono ad esempio incriminati i capi di un’organizzazione per i reati commessi dagli aderenti sulla base della semplice posizione di leadership (v. anche legge c.d. RICO). Tale funzione veniva ad essere agevolmente svolta da tale figura perché il suo ricorrere è assolutamente « svincolato sul piano oggettivo dalla richiesta di un qualunque legame eziologico tra le diverse attività poste in essere dai cospiratori ». In argomento v. GRANDE, Accordo e conspiracy, Padova, 1993, 135 ss. Per alcune note di diritto comparato v. FEDERLE, Racketeer influenced and Corrupt Organizations Act der USA (RICO) - Übertragbarkeit auf deutsche Verhältnisse, in ZStW (110), 1998, 767 ss. (46) L’art. 116 c.p. sarebbe in tal modo «una sorta di sanzione applicata a priori». Così DI PAOLO, La prevedibilità dell’evento diverso nell’art. 116 c.p. Cenni critici, in Arch. pen., 1973, 290. (47) In questo senso v. CIANI, Brevi considerazioni sulla responsabilità del concorrente per il reato diverso da quello voluto, in Cass. pen., 1996, 3648 s.. È interessante rilevare come si venga così ad attribuire a tale evento-condizione una funzione politico criminale di segno opposto rispetto a quella, di delimitazione dell’ambito della punibilità, solitamente svolta dalle condizioni di cui all’art. 44 c.p. e soprattutto non sembra convincere, nel caso di specie, il parallelismo con un’ipotesi quale quella delineata dall’art. 116 c.p. che presuppone necessariamente, a differenza dell’art. 44 c.p., un nesso di derivazione tra la condotta posta in essere dal soggetto e l’evento successivo realizzatosi. (48) Per più ampi riferimenti v. FORNASARI, Principi di diritto penale tedesco, Padova, 1993, 421 ss. e 497 ss. (49) V. supra n. 3 (50) Così PAGLIARO, Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, in questa Rivista, 1994, 6. A questo riguardo pare opportuno rilevare come le affermazioni richiamate denotino un’oscillazione tra la valorizzazione del requisito della prevedibilità tout court ed il rifugiarsi, in contraddizione con le premesse teoriche sostenute dallo stesso Autore, nel concetto di colpa. Per ulteriori conferme
— 1208 — senso, alla logica del versari in re illicita, facendo carico al soggetto di tutti gli effetti dannosi derivanti dalla propria iniziale condotta illecita, e tanto più si determina un circolo vizioso dal momento che la prova della violazione del dovere oggettivo di diligenza è in ultima istanza desunta in via implicita dallo stesso comportamento di ‘‘affidamento’’ del soggetto, con l’effetto di escludere un qualunque filtro selettivo all’applicazione dell’art. 116 c.p. (51). A questo riguardo appare conferente il riferimento a talune ipotesi prospettatesi nella prassi giurisprudenziale d’oltralpe, in cui il Bundesgerichtshof ha imputato all’agente, pur in assenza di una condotta dolosa nonché degli estremi della colpa, tutti gli effetti negativi derivanti da una sua condotta determinante un’iniziale situazione di pericolo, anche se tali conseguenze non erano prevedibili nel modo particolare in cui si sono realizzate, dando così ingresso ad una singolare ipotesi di Risikohaftung (52). In altri termini, il costruire una responsabilità che in ultima istanza si regge sulla semplice prevedibilità non sembra rappresentare che la riproposizione di schemi logici superati (53). In una certa misura la ragione è da rinvenire nell’insufficienza del ricorso ad un siffatto parametro, isolatamente considerato, anche se inteso in senso concreto, attesa la sua intrinseca ambiguità. Valgano per tutte le seguenti considerazioni. Il riferimento alle modalità dell’accordo presuppone non solo che tutti i partecipi ne abbiano preso parte, ma che sia possibile distinguerne concettualmente il diverso apporto, ferme restando peraltro le difficoltà in sede probatoria (54). Ed inoltre, assumere come indice della prevedibilità del diverso reato il fatto che esso « rappresentava uno dei possibili mezzi per commettere il reato concordato o per conseguirne o assicurare a sé od altri il prodotto, il profitto, il prezzo o l’impunità », richiedendo che « già nel momento della condotta di partecipazione sia riconoscibile la situazione di fatto, nell’ambito della quale appare verosimile l’instaurarsi di un rapporto di connessione tra il reato voluto e il reato diverso », non di questo atteggiamento interpretativo v., di recente, ID., Il Documento della Commissione Grosso sulla riforma del diritto penale: Metodo di lavoro e impostazione generale, in questa Rivista, 1999, 1191 ss. Interessanti risultano, a tal fine, talune pronunce in cui la Suprema Corte, anche di recente, dimostra di non aver abbandonato tentazioni repressive. V., tra le altre, Cass., sez. I, 22.09.1999, in CED Cassazione 214113: « Il fondamento della particolare ipotesi di concorso nel reato di cui all’art. 116 cod. pen., deve essere ravvisato nel fatto che, mentre colui il quale commetta da solo il reato è in grado, in ogni momento, di controllare lo sviluppo della sua condotta e dirigere la stessa verso l’evento previsto e voluto, invece colui il quale si unisce ad altri per porre in essere un’azione criminosa è costretto ad affidarsi anche alla volontà ed alla condotta dei complici, quale che ne sia il grado di partecipazione e il ruolo, per il compimento dell’azione stessa. Ne deriva che in tale situazione egli non deve sottovalutare il pericolo che i compartecipi o taluno di essi abbiano a deviare dall’azione principale con l’assumere iniziative per fronteggiare eventuali difficoltà sopravvenute improvvisamente, così eccedendo dai limiti del concordato concorso e realizzando un reato diverso e più grave di quello inizialmente dovuto ». (51) V. CANESTRARI, La responsabilità del partecipe, cit., 1399; DE VERO, Compartecipazione, cit., 256. (52) « Chi ha determinato colpevolmente (schuldhaft) una situazione pregna di pericolo (gefahrenschwangere Lage), chi colpevolmente ha per così dire aperto la porta, attraverso cui potevano penetrare indefiniti mali di ogni sorta (mannigfaches unbestimmtes Unheil), può, se il male si è infiltrato, essere chiamato a rispondere di ciò, nell’ambito della commisurazione della pena, senza lesione del principio di colpevolezza». V. BGH, 10, 1958, 258 ss. Per ulteriori chiarimenti v., per tutti, BRUNS, Das Recht der Strafzumessung, 2a ed. , 1985, 158 ss. Sul concetto di rischio come nuova ‘‘frontiera’’ dell’illecito penale v., nella dottrina italiana, le penetranti osservazioni di PALIERO, L’Autunno del patriarca, in questa Rivista, 1994, 1228 ss. (53) V. STOCCO, Alla ricerca, cit., 37. (54) Nella Relazione Grosso a ragione si sostiene come comunque tale criterio risulti di difficile applicazione nei riguardi di coloro che abbiano fornito il loro contributo prima della elaborazione di un piano criminoso o comunque ne abbiano una conoscenza approssimativa e generica. Si sottolinea inoltre il rischio di un generalizzato ricorso al parametro della colpa rispetto ai concorrenti che non abbiano preso conoscenza delle modalità dell’accordo dal momento che si potrebbe ritenere che essi non abbiano adempiuto ad un onere di preventiva informazione.
— 1209 — sembra discostarsi di molto da una relazione logico - astratta tra fattispecie (55), interpretazione che, come ben evidenziato dalla sentenza che si commenta, rappresenta indubbiamente un arretramento di prospettiva. 6. Alcune brevi riflessioni si indirizzano infine all’ipotesi che ravvisa nell’art. 116 c.p. una figura di responsabilità colposa; condivisibile nell’ispirazione di fondo, tale opinione si scontra con talvolta evidenti incongruenze sistematiche. Anche infatti a voler attribuire i crismi della colposità, sotto un profilo strutturale, al particolare meccanismo di attribuzione di responsabilità di cui all’art. 116 c.p., rimane comunque ferma la evidente sproporzione del trattamento sanzionatorio, trovando in ogni caso applicazione la pena prevista per il reato doloso, e, da un punto di vista dogmatico, la deviazione rispetto al principio generale espresso nel codice, che esige per la punibilità di un delitto a titolo di colpa un’espressa previsione legislativa (56). Sembra inoltre permanere, in taluno dei suoi sostenitori, la criticata tendenza ad individuare l’elemento della colpa nella rinuncia del soggetto al dominio finalistico sul fatto, espressa dalla sua condotta di affidamento ad altri per la realizzazione del programma criminoso (57). Così pure si è rilevato come mancherebbe la prova della violazione di una regola oggettiva di diligenza, e riserve sono state altresì manifestate sul ricorso, in tale ambito, alla figura dell’homo eiusdem professionis et condicionis (58). Queste, seppur fondate obiezioni, non conducono tuttavia all’abbandono di una siffatta opzione ermeneutica. La necessità di attenuare il rigore delle residue figure di responsabilità oggettiva esistenti nel nostro ordinamento nella direzione di un ‘‘adeguamento’’ al dettato costituzionale non solo sembra quantomeno ‘‘sollecitata’’, come già sottolineato, dalla più recente giurisprudenza in materia, ma è quel « soffio dello spirito » (59), evocato da autorevole dottrina, che dovrebbe indurre a rileggere le disposizioni codicistiche alla luce dei mutamenti intervenuti. Logica conseguenza è la opportunità, a più riprese richiamata, da un lato, di evitare che l’accertamento del nesso casuale venga a sostituire la ricerca di un coefficiente di colpevolezza e, dall’altro, di individuare parametri che restituiscano « succo e sangue » al concetto di prevedibilità (60). A questo riguardo è interessante ricollegarsi alle considerazioni sopra svolte sulla c.d. responsabilità da rischio totalmente illecito e, in particolare, polarizzare l’attenzione su una delle obiezioni sollevate, volutamente prima posta in secondo piano, ma che evidenzia invece il limite di fondo di tale costruzione dogmatica. Il voluto abbandono del terreno della colpa a favore di una forma di responsabilità fondata sulla sola prevedibilità mette definitivamente in ombra la necessità che l’evento più grave non voluto costituisca pur sempre un approfondimento dello specifico rischio insito nella condotta dell’agente, presupposto in assenza del quale sembra fare di nuovo la sua apparizione l’idea del versari in re illicita (61). (55) PAGLIARO, La Responsabilità, cit., 169 e soprattutto 171 ss. Sottolinea bene tale contraddizione DI PAOLO, Prevedibilità, cit., 292. Per alcune critiche al concetto di prevedibilità v., per tutti, MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., 10. Analoghi rilievi in RUDOLPHI,Vorhersehbarkeit und Schutzzweck der Norm in der strafrechtlichen Fahrlässigkeitslehre, in Jus, 1969, 549 ss. (56) V. CANESTRARI, La responsabilità del partecipe, cit., 1398. (57) Così MANTOVANI, Diritto penale, cit. , 540. In argomento v. amplius, n. 5. (58) V., rispettivamente FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 466; CANESTRARI, voce Preterintenzione, in Dig. disc. pen., X, Torino, 1995, 710 ss. (59) Testualmente PAGLIARO, Responsabilità oggettiva, cit., 187. (60) L’espressione di MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., 3, è in realtà dall’autore riferita al principio di colpevolezza. (61) Sul punto v. le penetranti osservazioni di PULITANÒ, Replica, in Responsabilità oggettiva, cit., 561 ss. secondo cui « la valutazione di illiceità è per definizione relativa » e dunque, a rigore, potrebbe
— 1210 — Sostenere, a fronte di tali rilievi, che nelle ipotesi da rischio totalmente illecito si sanzionano tali eventi, anche se non voluti proprio perchè conseguenze normalmente ricollegabili (rectius eventi prevedibili ed evitabili) alla realizzazione di un fatto base di reato, può forse spiegarne la ratio da un punto di vista politico criminale, ma ne conferma, in ultima istanza, la natura di ipotesi di responsabilità oggettiva occulta (62). Il ragionamento conduce così di nuovo a verificare l’effettiva possibilità di costruire una figura colposa. E più precisamente si tocca la complessa problematica dell’ammissibilità della colpa in un contesto illecito. Mentre però in dottrina si registra ormai una cospicua quantità di consensi nel sostenerne la assoluta configurabilità, minore è la concordia nell’individuarne contenuto e caratteristiche (63). Il nodo centrale è invero rappresentato dalla possibilità di individuare, in un ambito a rischio base non consentito, regole di condotta a contenuto cautelare cui l’agente si dovrebbe uniformare (64). Ai nostri fini tuttavia tale questione resta sullo sfondo, dal momento che entrambe le tesi finiscono con il riconoscere in modo più o meno esplicito come in re illicita prevalga, per così dire, « una dimensione eminentemente psicologica della colpa... come prevedibilità, piuttosto che come inosservanza di norme specifiche » (65). Il minus rappresentato dall’assenza di siffatte cautele sembra qui sostituito da tutti quei criteri giuridici, che frutto dell’elaborazione teorica tedesca nell’ambito degli studi sulla objektive Zurechnung, sono ormai da tempo divenuti patrimonio della nostra dottrina penalistica (66). qualificarsi illecito « soltanto quel rischio che il divieto di quel tipo di comportamento intende prevenire » e, seppur con sfumature diverse, Relazione Grosso, Allegati, cit. V. altresì ante, n. 5. (62) PAGLIARO, Responsabilità oggettiva, cit., 192. Sulla nozione di responsabilità oggettiva occulta v. diffusamente MANTOVANI, Responsabilità oggettiva espressa e responsabilità oggettiva occulta, in questa Rivista, 1991, 460 ss.; CANESTRARI, voce Responsabilità oggettiva, in Dig. disc. pen., XII, Torino, 1997, 129 ss. (63) Così, tra gli altri, CANESTRARI, Preterintenzione, cit., 707 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., 316 ss.; DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Padova, 1996, 346 ss. In senso critico v., per tutti, PAGLIARO, Colpevolezza e responsabilità oggettiva, cit., 12 ss.; ID., Principi, cit., 292 ss. (64) Per le opposte opinioni v. CANESTRARI, L’Illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989, 132 ss. e 148 ss.; DONINI, Teoria del reato, cit., 375 ss. (65) Testualmente DONINI, Teoria del reato, cit., 375. Che si tratti di una colpa ‘‘sui generis’’ sembra implicitamente confermato dallo stesso CANESTRARI, Illecito penale, cit., 130; ID., Preterintenzione, cit., 716 ss., allorchè sostiene che « le regole cautelari nell’agire umano illecito vanno stabilite con l’ausilio del solo indice di misurazione — degli elementi della evitabilità e della prevedibilità — oggettivo ». In senso contrario v., di recente, IDA, Inhalt und Funktion der Norm beim fahrlässigen Erfolgsdelikt, in Festschrift für Hirsch, 1999, 225 ss. ed in particolare 240, secondo cui « la necessità di norme cautelari nei delitti colposi d’evento non può essere sostituita dall’inserimento dell’imputazione obiettiva dell’evento ». In argomento v. infine le interessanti ed approfondite riflessioni di G.A. DE FRANCESCO, Opus illicitum, in questa Rivista, 1993, 1029 e soprattutto 1034 ss. (66) V., su tale aspetto, le lucide osservazioni di DONINI, Teoria del reato, cit., 376 ss. Nella dottrina tedesca la ripresa di interesse per tale tematica, di derivazione hegeliana, coincide con il notissimo scritto di ROXIN, Gedanken zur Problematik der Zurechnung im Strafrecht, in Festchrift für Honig, 1970, 133 ss. il quale si riallaccia agli studi sulla causalità dello stesso HONIG e di LARENZ. In considerazione della davvero vasta produzione scientifica in materia si rinvia, per un quadro d’insieme e per gli amplissimi richiami bibliografici, ai contributi di RUDOLPHI, SK-StGB, 6a ed., 1997, pre § 1, 32 ss.; PUPPE, NKStGB, 4a ed., 1997, pre § 13 , 17 ss. Nella dottrina italiana v., tra i tanti, DONINI, Lettura sistematica delle teorie sull’imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1989, 588 ss.; PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, 779 ss. CASTALDO, L’imputazione obiettiva nei delitti colposi d’evento, Napoli, 1989. In senso fortemente critico, v., per tutti, MARINUCCI, Non c’è dolo, cit., 9 ss. e, nella dottrina tedesca, KÜPPER, Grenzen der normativierenden Strafrechtsdogmatik, 1990, 100 ss; HIRSCH, Zur Lehre von der objektiven Zurechnung, in Festschrift für Lenckner, 1998, 119 ss. Per alcune repliche v. FRISCH, Die objective Zurechnung: Stand der Diskussion und Problematik, Relazione tenuta al Simposio organizzato dall’Università Pompeu Fabra sul tema ‘‘Present I Futur de la dogmatica penal europea’’, svoltosi a Barcellona nei giorni 26- 28 maggio 1998, 9 del dattiloscritto; ROXIN, Strafrecht, cit., 922923. Si caratterizza, infine, per un approccio, in parte, diverso a tale tematica JAKOBS, Bemerkungen zur objektiven Zurechnung, in Festschrift für Hirsch, cit., 45 ss.
— 1211 — Si tratta, come ben si può comprendere, di questioni che richiederebbero di certo più ampia ed approfondita trattazione, ma ciò che preme sottolineare, in questo contesto, è l’assoluta adattabilità al caso di specie quantomeno dei postulati di fondo di tale costruzione dogmatica. Per citarne solo alcuni, la verifica di un’assoluta corrispondenza tra il rischio ex ante e quello ex post, unitamente alla necessità che sia rispettato lo scopo di tutela della singola incriminazione, consentono finalmente di ‘‘recuperare’’ la imprescindibilità di un rapporto di rischio specifico tra la condotta del soggetto e l’evento non voluto (67). Nell’ipotesi in cui l’agente adotti tutte le attenzioni del caso al fine di evitare che il programma criminoso possa condurre alla produzione di altro evento non voluto ne deriva che, senza bisogno di presupporre alcuna regola di condotta a contenuto cautelare, tale risultato non sarà a lui imputabile obiettivamente, dal momento che la sua condotta, se non ha determinato una diminuzione del relativo pericolo, di certo non ha creato un ulteriore rischio non consentito o, per adoperare le parole di altra dottrina, disapprovato (68). L’ultimo ostacolo all’ipotesi ricostruttiva in questione è rappresentato dal dogma dell’unicità del titolo di reato, che tuttavia già da tempo la dottrina ha sottoposto a dura critica e di cui ha negato ogni efficacia euristica (69). Si individua in tal modo un meccanismo di attribuzione di responsabilità che ricorda, pur permanendo indubbie differenze, quello da taluni (70) prospettato con riferimento ai delitti aggravati dall’evento e alla preterintenzione ma che sembra sottrarre definitivamente il concetto di prevedibilità al ‘‘limbo’’ del versari in re illicita. 7. Da ultimo pare opportuno dedicare brevi cenni alle ‘attenzioni’ riservate dai progetti di riforma del codice succedutisi nel corso degli anni alla problematica del ‘reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti’ tornando così idealmente, seppur da un’angolazione diversa, alla questione invero centrale del recupero di quella dimensione costituzionale dell’art. 116 c.p. da cui si erano prese le mosse. È infatti proprio ponendosi in una prospettiva de iure condendo che si manifesta la necessità quantomeno di tentare di eliminare quei nodi interpretativi che pur residuano dall’individuazione di una componente di colpevolezza nella attuale strutturazione della fattispecie. Si può subito premettere come la diffusa insoddisfazione, più volte sottolineata, nei confronti del modello di disciplina prefigurato dall’art. 116 c.p. ha fatto sì che tale disposizione rappresentasse uno dei punti qualificanti di tali ipotesi di riforma. In questa sede ci si limiterà ad esaminare le iniziative più recenti non solo per (67) Tale necessità è bene evidenziata da GOLDONI, Osservazioni sulla partecipazione al reato diverso da quello voluto nella disciplina del concorso di persone, in Cass. pen., 1992, 629, la quale la riferisce tuttavia alla relazione tra l’inosservanza di regole cautelari e l’evento concretamente causato. (68) V. ROXIN, Strafrecht, cit., 314 ss.; FRISCH, Tatbestandmässiges Verhalten und Zurechnung des Erfolgs, 1988. In argomento v. altresì RUDOLPHI, Die Plifchtgemäße Prüfung als Erfordernis der Rechtfertigung, in Festschrift fùr Schröder, 1978, 81; MAIWALD, Zur Strafrechtssystematischen Funktion des Begriffs der objektiven Zurechnung, in Festschrift für Miyazawa, 1995, 465 ss; SCHÜNEMANN, Über die objektive Zurechnung, in Goltdammer’s Archiv für Strafrecht, 1999, 207 ss. Nella dottrina italiana riguardo il concetto di Schutzzweckzusammenhang v. CASTALDO, Imputazione obiettiva, cit., 176 ss. (69) V., per tutti, GRASSO, Commentario, cit., pre art. 110 c.p., 129 s.; PAGLIARO, Responsabilità, cit., 5. Di estremo interesse infine i rilievi di PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, 82 s. (70) DOLCINI, Dalla responsabilità oggettiva alla responsabilità per colpa: l’esperienza tedesca in tema di delitti qualificati dall’evento, in Problemi generali di diritto penale. Contributo alla riforma, (a cura di) VASSALLI, Milano, 1982, 255 ss.; CANESTRARI, voce Responsabilità oggettiva, cit., 123 ss. Sui delitti qualificati dall’evento v., nella dottrina tedesca, le recenti osservazioni di ALTENHAIN, Der Zusammenhang zwischen Grunddelikt und schwerere Folge bei den erfolgsqualifizierten Delikten, in Goltdammers’s Archiv für Strafrecht, 1996, 19 ss. e, per un quadro generale, ROXIN, Strafrecht, cit., 275 ss.
— 1212 — economia di indagine, ma altresì per l’intenzione, che almeno da queste traspare, di affrontare in modo organico le problematiche legate all’istituto del concorso di persone nel reato. La prima, in ordine cronologico, è la proposta formulata dal Progetto Vassalli - Pagliaro di introdurre una figura di agevolazione colposa del reato diverso da quello voluto. L’art. 29 dello Schema di disegno di legge delega precisamente stabilisce che « Se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, prevedere che questi risponda di agevolazione colposa di quel reato, qualora con il suo contributo ne abbia per colpa agevolato la commissione. Comminare la pena stabilita per il reato commesso, diminuita da un terzo alla metà », prevedendosi al n. 2 un aumento di pena se il reato commesso ricomprende in sé il reato voluto e sempre che la sua realizzazione in concreto fosse dall’agente prevedibile (71). Tralasciando di soffermarsi ulteriormente sulla scelta della Commissione di mantenere fermo il richiamo al concetto di prevedibilità in concreto con le inevitabili incertezze ermeneutiche che ne derivano e rinviando sul punto alle osservazioni sopra svolte (72), è interessante accertare se il concetto di agevolazione colposa alluda, come parrebbe logico, ad una reale ipotesi di colpa, o nasconda invece intendimenti diversi. A questo riguardo è illuminante un passo della Relazione al Progetto, ove si giustifica la particolare severità del trattamento sanzionatorio sulla base del già noto principio che il concorrere con altri « per commettere un reato comporta l’accettazione del rischio particolarmente elevato che qualcuno dei soggetti chiamati a realizzare insieme l’illecito apporti al piano comune una variante non concordata, determinando così l’offesa di altri beni giuridici. È questo uno dei casi, dunque, in cui non si può dare rilievo al noto principio di affidamento. Dal punto di vista sostanziale, dunque, il partecipe versa in una colpa particolarmente grave » (73). Ed in modo ancor più puntuale allorchè si precisa autorevolmente che il Progetto ha inteso, nell’ambito dei reati colposi, stigmatizzare quelli da « rischio totalmente illecito » (74). Si assiste così, ancora una volta, ad una ipotesi che non può definirsi propriamente colposa, in quanto la colpa viene, prima, presunta in forza della condotta di « affidamento » del soggetto ad altri per la realizzazione del reato concordato e, poi, sostituita dal concetto di prevedibilità, mentre « l’estensione e la misura della responsabilità » continuano a fondarsi « sul dolo di concorso in un reato diverso » (75). La configurazione inoltre di un’espressa ipotesi di agevolazione colposa pare (71) Il testo dello Schema di legge delega è ora pubblicato in PISANI, Per un nuovo codice penale, Quaderni de ‘‘L’Indice penale’’, Padova, 1993. (72) V. ante, nn. 5 e 6. (73) Relazione allo Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, Parte generale, in Doc. giust., 1992, 322 ss.; PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge delega per un nuovo codice penale, in Giust. pen., II, 1993, 185. Sul punto v. altresì Relazione Grosso, Allegati, cit., nella quale si sottolinea come l’affidarsi ad altri per la realizzazione di un proposito criminoso, mentre è di regola motivo di attenuazione del trattamento sanzionatorio, in questo caso, invece, determinerebbe effetti opposti. Una certa diffidenza nei riguardi dell’introduzione dell’elemento della colpa all’interno dell’art. 116 c.p. è già desumibile dalle argomentazioni addotte a riguardo dallo stesso PAGLIARO, La Responsabilità, cit., 171: « richiedere espressamente la colpa potrebbe determinare gravi difficoltà nell’accertamento della negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di norme da cui dipende l’evento lesivo. Ciò avrebbe come effetto o una presunzione di colpa.... oppure la esclusione della responsabilità ogni qual volta non sia possibile constatare una particolare negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di norme ». In argomento v. anche i rilievi formulati ante, nota 50. (74) PAGLIARO, Diversi titoli, cit., 11. (75) Così CANESTRARI, Responsabilità del partecipe, cit., p. 1400. Nello stesso senso PALIERO, Grunderfordernisse des Allgemeinen Teils für ein europäisches Sanktionrecht, in ZStW (110), 1998, 433, il quale sottolinea come forme di responsabilità oggettiva fondate sul principio del versari in re illicita permangano anche nel Progetto del 1992 anche se « sotto la falsa etichetta » di colpa; PULITANÒ, Replica,
— 1213 — inevitabilmente sortire l’effetto di un’ulteriore estensione dell’ambito di applicazione dell’odierno art. 116 c.p. sia sul piano dell’accertamento del nesso casuale sia, ancor più, sotto il profilo soggettivo, dal momento che, come acutamente rilevato, « l’imprudenza di essersi affidati ad altri per la commissione di un illecito sembra in grado di costituire un parametro del quale assai difficilmente può negarsi la ricorrenza nel caso concreto » (76). Da ultimo non persuade la mancata eliminazione della discrasia tra la affermata natura colposa di tale figura e la permanente vigenza nel sistema della punibilità a questo titolo delle sole ipotesi espressamente previste, principio che, in concreto, viene, nel caso di specie, palesemente disatteso (77). Ancora maggiori perplessità derivano dall’analisi dell’art. 99 del Disegno di legge n. 2038, in cui si prevede che « Se è stato commesso reato diverso e più grave di quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde se ha previsto l’evento come conseguenza inevitabilmente connessa e concretamente possibile della propria condotta, e ne ha accettato il rischio. 2. Fuori dall’ipotesi di cui al comma 1, il concorrente risponde degli altri reati commessi ». A stretto rigore di termini la formulazione prescelta risulta a dir poco infelice dal momento che l’inserimento dell’elemento della previsione da parte del compartecipe dell’evento non voluto « come conseguenza inevitabilmente connessa e concretamente possibile della propria condotta » insieme all’accettazione del rischio, conduce logicamente a configurare una normale ipotesi di responsabilità a titolo di dolo eventuale se non addirittura di dolo diretto, soluzione, che comunque risulterebbe dalla semplice applicazione dei principi generali in materia di imputazione dolosa e partecipazione criminosa, nei fatti equivalendo, dunque, la scelta operata ad un’abrogazione dell’art. 116 c.p. Appare invece meritevole di particolare attenzione la prospettiva metodologica seguita dalla Commissione Grosso istituita per la riforma del codice penale, e, nella specie, dalla sottocommissione Seminara (78), che si è occupata della tematica concorsuale, sebbene emergano, come si vedrà, talune divergenze tra le opzioni finali di tutela prescelte e le indicazioni delineate in sede di lavori preparatori. In particolar modo risulta assolutamente condivisibile il riferimento alle esperienze di quegli ordinamenti ove, seppur in una prospettiva parzialmente diversa, si è pervenuti a soluzioni equilibrate. Si è già in precedenza fatta menzione del § 29 del codice penale tedesco che, in un sistema di partecipazione fondato su di un modello differenziato (non a caso la Commissione Grosso mostra con evidenza di muoversi in tale direzione), fa si che i casi di deviazione dall’originario programma criminoso, con conseguente realizzazione di un reato diverso, non conducano a forme di responsabilità oggettiva. Nella dottrina tedesca si tratta di classicit., 562 secondo cui in tal modo alla « prospettiva del versari in re illicita » si offre « l’etichetta della responsabilità da rischio illecito » e, seppur in toni più sfumati, DE VERO, Compartecipazione, cit., 257. V. inoltre le perplessità già formulate in relazione a tale costruzione teorica ante nn. 3, 5, 6. (76) Testualmente Relazione Grosso, Allegati, cit. Per alcune riflessioni sul profilo causale v. MILITELLO, Agevolazione e concorso di persone nel progetto del 1992, in Ind. pen., 1993, 575 ss. e, più in generale, GRASSO, Disciplina normativa della compartecipazione criminosa e principio di tassatività della fattispecie, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, (a cura di) STILE, Napoli, 1991, 134 ss.; DE FRANCESCO G.A., Sul concorso di persone nel reato, in Studium iuris, 1998, 732 ss. ed in particolare 735. Il rischio è ovviamente di seguire l’esempio di quegli ordinamenti in cui, presente il necessario elemento psicologico, l’aver facilitato la commissione del reato costituisce sempre un’ipotesi di concorso. In argomento v. GRANDE, voce Concorso di persone nel reato nel diritto anglo-americano, in Dig. disc. pen., II, 1988, 505 ss. (77) V. Relazione Grosso, Allegati, cit. Per alcune repliche v. PAGLIARO, Il Documento della Commissione Grosso, cit., 1196. (78) Si intende ancora una volta operare un richiamo ai lavori della Commissione Grosso per la riforma del codice penale istituita nel 1998 dall’allora Guardasigilli Flick (sul punto v. nota 9).
— 1214 — che ipotesi di Exzeß der Beteligung afferenti alla tematica della Mittäterschaft, figura, che, a sua volta, ricorre ex § 25 allorchè più soggetti commettano insieme un fatto di reato. Se però di regola ciascuno dovrebbe essere punito come autore, si è assolutamente concordi, in ambito scientifico, nel ritenere che ogni qualvolta uno dei soggetti devii dal gemeinsamTatplan dovrà essere considerato alleinTäter, e dunque gli altri correi non potranno rispondere del reato diverso (79). Tale disciplina, unitamente a quanto previsto dal § 18 in tema di delitti aggravati dall’evento, assicura che ciascun partecipe risponda unicamente nei limiti della sua colpevolezza (80). Da qui la proposta di introdurre una norma in cui si stabilisca che « Ciascuno dei concorrenti è punito nei limiti della sua colpevolezza. Se è commesso un reato diverso o più grave di quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando il reato sia a lui imputabile almeno a titolo di colpa, sempre che il fatto sia previsto dalla legge come reato colposo. Se il fatto effettivamente commesso non è previsto dalla legge come reato colposo ma risulta commesso anche il reato voluto, la pena per quest’ultimo può essere aumentata » (81). A questo specifico riguardo si è già sottolineato come non manchino invero profili di ambiguità e pericolose oscillazioni tra differenti impostazioni. Più precisamente la scelta sopra delineata risulta, nella relazione di sintesi della Commissione Grosso, appena abbozzata a fronte invece della chiara preferenza per una soluzione di ‘‘parte speciale’’ (82) da individuare a seconda dei casi nella previsione di apposite figure di agevolazione colposa ovvero in un più diffuso ricorso a circostanze aggravanti speciali. Tale compromesso sembra tuttavia poggiare su di un’intima contraddizione. Delle due l’una: o ci si muove con convinzione nella direzione di un ‘‘recupero’’ della tipicità monosoggettiva colposa come sembrerebbe trasparire da taluni passaggi della relazione (83) ovvero si dovrebbe percorrere in modo coerente la via ‘‘abolizionista’’. Tacciare « l’estensione dell’ambito della responsabilità sulla base della colpa in relazione a fatti non previsti come reati colposi » di ‘‘incoerenza’’ con le scelte (79) In materia v. ROXIN, § 25, in LP-StGB, 8a ed., 1992, 175; SCHÖNKE-SCHRÖDER-CRAMER, Strafgesetzbuch Kommentar, § 25, 25a ed., 1997, 441; JESCHECK-WEIGEND,Strafrecht, Allgemeiner Teil, 5a ed., 1996, p. 677; FREUND, Strafrecht, Allgemeiner Teil, 1998, 380; KÖHLER, Strafrecht, Allgemeiner Teil, 1997, 519. È interessante tuttavia considerare come si abbia invece Mittàterschaft ogni qual volta tale deviazione era espressamente o in modo implicito desumibile dall’originario programma criminoso. Sul punto v. FRISCH, Täterschaft und Teilnahme, in Lexicon des Rechts, 2a ed., 1996, 980 e con ampi richiami bibliografici LACKNER-KÜHL, § 25, in Strafgesetzbuch, 23a ed., 1999, 211 ss. Per un più approfondito esame di taluni casi giurisprudenziali v. ESER , Strafrecht II, 3a ed., 1980, 185 ss. Analizza infine in modo compiuto ed esaustivo tale problematica ALTENHAIN, Die Strafbarkeit des Teilnehmers beim Exzeß, 1994. Sul problema della incomunicabilità dell’« intenzione criminosa » mantengono ancora integro il loro valore le riflessioni di CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, 6a ed., 1886, ristampa, Bologna, 1993, 274 ss. (80) Per comodità del lettore si riporta il testo del § 18 StGB: ‘‘Quando la legge prevede per una particolare conseguenza del fatto una pena più severa, questa si applica all’autore o al partecipe solo quando tale conseguenza è a lui imputabile almeno per colpa’’. Per ulteriori considerazioni in merito e riferimenti comparatistici v. Relazione Grosso, Allegati, cit. e ante n. 6. (81) Tale soluzione normativa, nei termini in cui viene riportata, è stata in realtà avanzata nell’ambito dei lavori della già citata Sottocommissione Seminara, laddove mantiene invece, come di seguito evidenziato, una connotazione « residuale » nell’assetto di tutela prefigurato nella Relazione di sintesi della Commissione. (82) Sul punto v. Relazione Grosso, cit. Nella stessa Relazione si sostiene infatti come si tratti in larga misura di problemi da risolvere in sede di redazione delle fattispecie di parte speciale o comunque sul piano del trattamento sanzionatorio ricorrendo ad esempio ad apposite circostanze aggravanti speciali senza la necessità dunque di mantenere una clausola generale di estensione della punibilità «sostanzialmente inutile». Tale posizione è ulteriormente confermata dalla inserimento di tale problematica all’interno della sez. III dedicata alla Realizzazione del principio di colpevolezza. In senso decisamente contrario ad una prospettiva abolizionista PAGLIARO, Responsabilità del partecipe, cit., 168 ss.; ID., Diversi titoli, cit., 8 s. (83) Relazione Grosso, cit.
— 1215 — di incriminazione operate dal legislatore mal si concilia con lo strumento, a più riprese invocato, dell’agevolazione colposa che strutturalmente si ‘‘contrappone’’ alla rigidità selettiva nella limitazione della punibilità ai soli delitti colposi espressamente contemplati dalla legge. Ed ancora la previsione di un possibile aumento di pena qualora al reato voluto acceda un fatto non previsto dalla legge come delitto colposo, sembra, da un lato, porsi in stridente contrasto con la recisa volontà di limitare la responsabilità di ciascuno nei limiti della propria colpevolezza e, dall’altro ‘‘scaricare’’, anche questa volta, sul piano del trattamento sanzionatorio le difficoltà di accertamento dell’elemento soggettivo. Sembra infine costruirsi un regime sanzionatorio ad hoc rispetto ad ipotesi che, per definizione, non sono colpose, rischiando così paradossalmente di legittimare per vie traverse l’istituirsi di ‘‘zone grigie’’ che potrebbero favorire lo svilupparsi di forme anomale di responsabilità. Ad un esame più approfondito della relazione della Commissione Grosso la scelta ‘‘conservatrice’’ sembrerebbe, a ben vedere e con gli opportuni correttivi, maggiormente coerente con le linee di riforma dell’istituto della partecipazione criminosa, che vengono tracciate dalla Commissione medesima. L’orientarsi infatti verso un modello di tipizzazione del contributo concorsuale maggiormente rispettoso del principio di determinatezza, unitamente alla indicazione di imputare ai singoli partecipi, a titolo di colpa, eventi più gravi derivanti dalla iniziale condotta criminosa, ma solo ove, beninteso, ne sussistano tutti i presupposti, ‘‘depotenzia’’ un meccanismo quale quello delineato dall’art. 116 c.p. ed in qualche modo ne mina le basi dogmatiche. Lo stato di incertezza e talvolta anche di confusione in cui si dibattono dottrina e giurisprudenza, quale emerge anche dalla breve indagine appena svolta, testimonia del resto le difficoltà di rinvenire soluzioni appaganti, ed al contempo richiama l’attenzione sugli inevitabili rischi legati ad un eventuale intervento ad hoc sull’art. 116 c.p. Le alterne ‘fortune’ del concetto di prevedibilità, i ripetuti tentativi, soprattutto in sede applicativa, di ampliarne contenuto e funzioni ed in definitiva la sua manipolabilità ad opera degli interpreti, mettono a nudo le debolezze di una siffatta soluzione. L’ampiezza delle problematiche sottese all’istituto della responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto impone dunque un intervento riformatore che ovviamente poggi su solide basi teoriche, senza dimenticare i necessari raccordi sistematici. Sembra infatti difficilmente contestabile che la revisione dell’art. 116 c.p. debba necessariamente ‘passare’ attraverso una riforma della partecipazione criminosa ed una concreta attuazione del carattere personale della responsabilità penale. In questa direzione, sembrano da valorizzare le indicazioni di metodo contenute nella Relazione Grosso, evitando una tanto sterile quanto artificiosa contrapposizione tra esigenze garantistiche e necessità repressive. Si è del resto opportunamente osservato che da un punto di vista politico criminale sono prospettabili o anche auspicabili soluzioni differenti, mentre non può negarsi il possibile insorgere di difficoltà probatorie. Ad ogni modo di fronte ad un cristallino e pieno riconoscimento del principio di colpevolezza, la domanda centrale verte ancora sulla ‘‘sufficienza’’ o meno di « un modesto arretramento della punibilità » (84). ANTONIO GULLO Dottorando di ricerca nell’Università di Messina
(84)
Testualmente Relazione Grosso, Allegati, cit.
— 1216 — c) Giudizi di merito
TRIBUNALE DI LECCE — 11 novembre 1999, n. 1546 SEZIONE DEI GIUDICI PER INDAGINI PRELIMINARI, Reati contro il patrimonio - Usura - Mutuo - Rilevanza degli interessi convenuti Insussistenza del delitto - Rapporto con le fonti di provvista della banca stipulante (c.p. art. 644). Il G.I.P., Osserva: Pur essendo ammissibile l’atto di opposizione, nel merito va disposta l’archiviazione del procedimento. Ed invero il contratto di mutuo sottoscritto dalla Rizzo Gina fu stipulato alle condizioni — relative agli interessi — esistenti al momento sul mercato. Trattasi di contratto in cui le parti non solo stabiliscono al momento della contrattazione il tasso di interesse ma quel tasso viene trasfuso nelle rate preordinate e concordemente accettate. La modifica dell’art. 644 c.p. non può incidere su siffatti contratti che hanno una loro precipua stabilità, anche con riferimento alle fonti di approvvigionamento della provvista da parte della banca stipulante; fonti che vengono acquisite sulla base del tasso di interesse al momento vigente. Non solo ma occorre considerare che il delitto di usura sino alla modifica legislativa era un reato istantaneo e che solo dopo tale modifica — vi è contrasto in giurisprudenza — ha acquisito la veste del delitto istantaneo con effetti permanenti. Sia che si consideri la prima ipotesi che la seconda non può mai ritenersi sussistente il delitto di usura in relazione ad un contratto di mutuo le cui condizioni erano state prefissate, concordate ed accettate dalle parti. Se ab inizio fosse stato concordato o proposto od accettato un tasso di interesse usurario sia perché contrario a legge sia perché ictu oculis usurario nessun problema sarebbe rilevabile, ma nel caso in esame non sussistono tali condizioni. P.Q.M. — Letti gli articoli di legge. Ordina l’archiviazione del procedimento e la restituzione degli atti del P.M.
—————— Alcune riflessioni in tema di mutui a tasso fisso, stipulati ante l. n. 108/1996 e superamento nel tempo della misura del tasso soglia. SOMMARIO: 1. La centralità del momento della pattuizione. — 2. I profili problematici relativi alla natura del reato. — 3. L’opinione dell’ABI e del Governatore della Banca d’Italia. — 4. La recente svolta giurisprudenziale: rilievi critici; un’interessante ordinanza del Giudice delle Indagini preliminari presso il Tribunale di Lecce a conferma della centralità del momento della pattuizione. — 5. La nozione di usurarietà affidata alla normazione secondaria: sue implicazioni sulla qualificazione del reato di usura.
1. La centralità del momento della pattuizione. — In ambito civilistico, la giurisprudenza formatasi in argomento ha mostrato un orientamento certamente
— 1217 — non univoco nell’affrontare la sorte dei contratti di mutuo stipulati anteriormente alla nuova normativa sull’usura, ma in corso di esecuzione dopo l’entrata in vigore della stessa. Il tema oggetto delle prime sentenze ed ordinanze (1) concerneva lo stabilire se gli interessi pattuiti prima dell’entrata in vigore della l. 7 marzo 1996 ed in mi(1) L’orientamento dei giudici civili, quale risulta dai pochi pronunciati finora in tema di interessi usurari, appare oscillante. Per un commento critico, vedasi MORERA, Interessi pattuiti, interessi corrisposti, tasso ‘‘soglia’’ e... usuraio sopravvenuto, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, II, p. 517 ss. Sul punto, cfr. in dottrina anche: QUADRI, La nuova legge sull’usura ed i suoi diversi volti, in Corr. giur., 1996, p. 363; ALPA, Usura: problema millenario, questioni attuali, in Nuova giur. civ., 1996, 11, p. 181; CARBONE, Usura civile: individuato il ‘‘tasso soglia’’, in Corr. giur., 1997, p. 506; SFORZA, Brevi notazioni sui profili civilistici dell’usura a seguito della l. n. 108 del 1996, in Nuovo dir., 1997, p. 1169; TETI, Profili civilistici della nuova legge sull’usura, in Riv. dir. priv., 1997, p. 465; MASUCCI, Disposizioni in tema di usura. La modificazione del codice civile in tema di mutuo ad interesse, in Nuove leggi civ. comm., 1997, p. 1328; BELLI-MAZZINL, Applicazione della legge antiusura: a che punto siamo, in Dir. banc., 1997, p. 357; MERUZZI, Usura, in Contr. e impr., 1996, p. 759; BONILINI, La sanzione civile dell’usura, in Contratti, 1996, p. 223; DOLMETTA, Contratti di credito e usura: la questione della disciplina di diritto intertemporale, in Atti del convegno Contratti di finanziamento - Rinegoziazione e oneri di estinzione anticipata, a cura dell’ITA s.r.l., Milano, 18 giugno 1998; CARBONE, Il meccanismo di determinazione del tasso medio e del tasso soglia, in Corr. giur., 1998, p. 435; GIOIA, Interessi usurari, rapporti in corso e ius superveniens, ivi, 1998, p. 192; ID., Usura: nuovi rintocchi, ivi, 1998, p. 811; ID., Difesa dell’usura?, ivi, 1998, p. 504; ID., I riflessi civilistici di una sentenza penale, nota a Cass. pen., Sez. I, 22 ottobre 1998, in Il corr. giur., 1999, p. 455 ss.; PALMIERI, Usura e sanzioni civili: un meccanismo già usurato?, in Foro it., 1998, p. 1609 ss.; CAPUTI, La rinegoziazione dei mutui ipotecari. Profili civilistici, penali e fiscali, in Il Fisco, Eti, 1998, Allegato n. 38 del 19 ottobre 1998; GRASSI, Il nuovo reato d’usura: fattispecie penali e tutele civilistiche, in Riv. dir. priv., 1998, p. 231; CERNIGLIA, La l. n. 108 del 1996 sull’usura e gli utenti dei servizi bancari, in Dir. della banca e del mercato finanziario, 1998, I, p. 585 ss.; ID., La rinegoziazione dei mutui: dal rischio di usura a nuove opportunità, in Temi romana, 1998, p. 282 ss.; BELLI-MAZZINI, Legge antiusura, tasso soglia e problemi relativi ai contratti in corso, in Dir. della banca e del mercato finanziario, 1998, I, p. 621 ss.; LA TORRE, La nuova giurisprudenza in materia di usura ed i suoi effetti sul leasing, in Atti del convegno ITA, 7 maggio 1999, Milano; ZORZOLI, Le norme, il fatto, la decisione, note a Tribunale di Salerno, 27 luglio 1998, in I contratti, 1999, p. 589 ss.; INZITARI, Il mutuo con riguardo al tasso ‘‘soglia’’ della disciplina antiusura e al divieto dell’anatocismo, in Banca, borsa, tit. cred., 1999, I, p. 257 ss.; FERRONI, La nuova disciplina civilistica del contratto di mutuo ad interessi usurari, Napoli 1997; ID., Jus superveniens e usurarietà, in Rass. dir. civ., 1999, 483; VANORIO, Il reato di usura ed i contratti di credito: un primo bilancio, in Contratto e impresa, 1999, 501 e ss.; MERUSI, Il contratto usurario tra nullità e rescissione, in Contratto e impresa, 1999, 410 e ss.; SINESIO, Gli interessi usurari. Profili civilistici, Jovene, 1999; LANDOLFI, Brevi note in tema di interessi usurari « sopravvenuti » ai sensi della L. n. 108/96, in Dir. fall., 1999, II, 916; MORESCHINI, Al momento della ricezione del denaro deve essere sempre rispettato il tasso soglia, nota a Cass., Sez. I civ., sent. 26 ottobre 1999-22 aprile 2000, n. 5286, in Guida al diritto, n. 17, 13 maggio 2000, 56 e ss. Si ricorda, brevemente, il contenuto di alcune delle pronunce ad oggi emanate. Il Tribunale di Milano, con sentenza del 13 novembre 1997, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, II, p. 501, decidendo su interessi convenuti in un contratto di leasing immobiliare stipulato il 4 ottobre 1990, nella misura dei 36,5% — dopo aver giudicato applicabile la sanzione prevista dall’art. 1815 del codice civile, in quanto legge in vigore al momento della decisione — ha dichiarato che ‘‘il contratto va ritenuto senz’altro nullo nella parte in cui stabilisce interessi superiori alla misura stabilita dalla legge in questione’’. La conseguenza è che ‘‘gli interessi vanno riconosciuti nella misura legale con decorrenza dal 4 ottobre 1990, data di stipulazione del contratto’’. Il Tribunale di Velletri, 3 dicembre 1997, in Corr. giur., 1998, p. 192: contratto di mutuo ipotecario, stipulato in data 12 febbraio 1982, con clausola di interessi al 20% annuo. Con articolata motivazione il giudice rileva che il tasso praticato è superiore al tasso soglia fissato dal d.m. 22 marzo 1997 e, dunque, affronta il problema dell’eventuale applicazione della nuova normativa sull’usura, pervenendo alle seguenti conclusioni: — esclude che possa essere applicabile la norma dell’art. 185 disp. att. c.c.; — afferma l’unitarietà, sotto il profilo della normativa civile e penale, della nuova nozione di usura, sottolineando che ‘‘la dazione di interessi usurari successiva alla data della pubblicazione della prima rilevazione trimestrale del tasso globale medio, da sola considerata, è sufficiente a integrare il reato di usura. Il carattere imperativo della norma di ordine pubblico, che reprime la dazione di interessi usurari, ne esclude la liceità anche sotto il profilo privatistico’’; esclude l’ipotesi della nullità sopravvenuta della clausola con cui sono convenuti interessi usurari nell’ottica della nuova normativa (con conseguente applicazione ex tunc della norma dell’art. 1815, comma 2), in quanto si finirebbe altrimenti per violare il principio dell’art. 11 delle preleggi, nonché quello della ‘‘irretroattività delle disposizioni sanzionatorie’’; — esclude, altresì, l’ipotesi della semplice inefficacia della clausola (con applicazione degli interessi legali, ex art. 1248), in quanto ‘‘contrasta con la volontà delle parti’’;
— 1218 — sura superiore al tasso-soglia, rilevato al 2 aprile 1997, dovessero essere comun— afferma l’utilizzabilità nella specie del principio di conservazione del contratto di cui all’art. 1367 c.c., nonché di quello dell’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.), per concludere che alla clausola va assegnato il ‘‘maggior effetto... consentito’’, effetto che corrisponde ‘‘alla sua riduzione a livello della soglia del tasso medio aumentato della metà’’; — infine, statuisce che detta riduzione vale solo per gli interessi maturati dopo la data del 2 aprile 1997 e non per tutti quelli comunque percepiti dal creditore; e ciò perché prima della data indicata mancava ‘‘il parametro di riferimento della soglia usuraria’’. Il Tribunale di Lodi, con sentenza del 30 marzo 1998, in Corr. giur., 1998, p. 810, decidendo su una controversia riguardante un contratto di mutuo stipulato ante l. n. 108, che prevedeva interessi al tasso dei 23% annuo, con liquidazione semestrale e interessi di mora del 27,5%, ha respinto la domanda diretta ad ottenere la declaratoria di nullità di questa clausola derivante dall’assunta natura usuraria di detti interessi e il riconoscimento dell’obbligo di corrispondere solo interessi nella misura legale. Ha posto, difatti, in rilievo la circostanza che ‘‘i tassi di interessi concordati nel contratto di mutuo erano in linea con quelli praticati da tutti gli istituti di credito: ciò esclude che gli interessi potessero considerarsi usurari’’. Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 4 giugno 1998, in Banca, borsa tit. cred., 1998, II, p. 501 ss., ha respinto l’istanza di sospensione dell’esecuzione avanzata da un mutuatario che sosteneva che il tasso di interesse iniziale annuo del 13,9%, stabilito nel contratto avvenuto nel 1991, risultava superiore, dopo il 2 aprile 1997 (data della prima rilevazione trimestrale ex l. n. 108 del 1996), al ‘‘tasso soglia di usura’’ del 12,43% vigente al momento dei pagamento degli interessi stessi; nella considerazione che il limite oggettivo del tasso usurario, determinato trimestralmente dal Ministro del tesoro, non valga anche per i rapporti bancari costituiti in data antecedente a quella dell’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996. Il Tribunale di Velletri, con sentenza del 30 aprite 1998, ha ribadito il concetto secondo cui, richiedendo l’art. 644 c.p., nella nuova formulazione, per la consumazione del reato di ‘‘usura’’, soltanto la ‘‘promessa’’ o la ‘‘riscossione’’ di interessi superiori al tasso-soglia, ‘‘il reato, di conseguenza, raggiunge la massima offensività all’atto della riscossione, cui deve, pertanto, necessariamente, collegarsi il momento consumativo’’. Lo dimostrerebbe, secondo il Tribunale, l’art. 644-ter, introdotto dall’art. 11 della l. n. 108 del 1996, secondo cui la prescrizione del reato decorre dal giorno dell’ultimo pagamento sia degli interessi che del capitale. Il Tribunale, inoltre, nel rilevare poi che il metro oggettivo del tasso-soglia va applicato ‘‘rispetto agli interessi maturati sotto il suo vigore (trimestrale)’’, ha concluso che ‘‘la quantificazione degli interessi corrispettivi maturati successivamente alla pubblicazione del tasso-soglia, in quanto superiori al limite oggettivo fissato dal decreto ministeriale, va effettuata mediante riduzione nei limiti del tasso-soglia’’. Il Trib. Firenze, 10 giugno 1998, in Corr. giur., 1998, p. 805 ss., ha esaminato un mutuo sottoscritto il 29 giugno 1990, con interessi convenzionali del 15% annuo, risultanti superiori al tasso soglia rilevato con d.m. 23 marzo 1998 (pari al 12,43%); il Tribunale ha affermato che, nella specie, ricorrono gli estremi del reato di usura e ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura per la valutazione della sussistenza del reato (perché l’istituto di credito si faceva dare dai mutuatari interessi usurari, ‘‘a nulla rilevando che l’accordo per il pagamento di tali interessi sia intervenuto prima dell’entrata in vigore della norma incriminatrice’’). Il Trib. Salerno, 27 luglio 1998, in I contratti, 1999, p. 589, ha affermato che nel contratto di mutuo l’obbligazione di restituzione rateale, se è sorta anteriormente alla data di entrata in vigore della l. n. 108 del 1996, rimane insensibile alla nuova normativa. Il Trib. Venezia, 20 settembre 1999, n. 2221, Sez. I civ., n. rep. 3023, in Giur. it., 2000, 955, con nota di PANDOLFINI, ha ritenuto che la riforma operata dalla l. n. 108 del 1996 non ha mutato il carattere istantaneo del delitto di usura, sicché presupposto della qualificazione in senso criminoso delle condotte successive è la qualificazione in termini di reato della condotta che ha dato origine al rapporto, costituita dalla pattuizione. Il Trib. Napoli, 20 luglio 1999, in G.U. 17 novembre 1999, I serie speciale, n. 46, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1815, comma 2, c.c., come modificato dalla l. n. 108 del 1996, in relazione agli artt. 3, 24 e 47 della Cost., nella parte in cui sanziona, con la non debenza di alcun interesse, la pretesa di interessi legittimamente pattuiti ma divenuti successivamente usurari. In particolare, il Tribunale di Napoli ha rilevato, con riguardo all’art. 24 della Cost., che ‘‘Il legislatore dopo avere scelto di riconoscere al creditore il diritto di richiedere interessi ad un tasso convenzionale, legittimo al momento della pattuizione, è tenuto, ai sensi dell’art. 24 della Cost., ad assicurare sul piano processuale la adeguata realizzazione di quel diritto. Appare, pertanto, in contrasto con l’art. 24 della Cost. l’art. 1815, comma 2, c.c. nella parte in cui, sanzionando con la non debenza degli interessi l’usurarietà sopravvenuta degli stessi, per effetto di un decreto ministeriale, limita la facoltà di esplicare, sul piano processuale, la posizione attribuita al creditore sul piano sostanziale, dal momento che quest’ultimo azionando in giudizio il proprio diritto, legittimamente sorto, si vede sanzionato con la negazione della possibilità di pretendere qualsiasi interesse. Tale situazione crea, inoltre, un’irragionevole ed ingiustificata disparità di trattamento tra operatori che pur legittimamente hanno concesso finanziamenti a tassi di interessi non genericamente usurari, soltanto in funzione del dato accidentale della variazione in diminuzione del tasso soglia, non prevedibile sia nel quantum che nell’an, posto che il predetto tasso può anche variare in aumento’’. Nel senso della mani-
— 1219 — que riconosciuti, e se dovessero, peraltro, essere ridotti entro la misura del tassomedio aumentato della metà. Brevemente, attesa la significatività della questione, si ricorda che il Giudice di Velletri ha ritenuto inapplicabile retroattivarnente lo jus superveniens in riferimento agli interessi maturati prima della data di entrata in vigore della l. n. 108/1996, e, quindi, ha riconosciuto il diritto alla riscossione integrale di essi fino a tale data. Lo stesso Giudice ha, però, affermato che, a partire dal 2 aprile 1997, gli interessi devono essere ridotti nella misura del tasso-medio aumentato della metà, con la motivazione che ‘‘la dazione di interessi usurari successiva alla data della pubblicazione della prima rilevazione trimestrale del tasso globale medio, da sola considerata, è sufficiente a integrare il reato di usura. Il carattere imperativo della festa inammissibilità delle questioni di legittimità sollevate, vedasi l’ordinanza della Corte Cost. n. 236/2000, depositata il 22 giugno 2000. Il Trib. Lecce, con sent. n. 745 depositata il 21 marzo 2000, inedita, in tema di mutuo, a tasso fisso (13,75% annuo, stipulato in data 17 giugno 1996, avente durata decennale) e di verifica del momento consumativo del reato di usura, ha ribadito la centralità del momento della conclusione del contratto, al fine di verificare la liceità della clausola relativa agli interessi, precisando che « il giudizio di validità del contratto non può che essere compiuto avendo come riferimento la situazione di fatto e le norme vigenti al momento in cui la volontà negoziale si perfeziona. Tale principio soddisfa l’esigenza di certezza che vuole che i rapporti giuridici che abbiano già trovato una loro regolamentazione nell’ambito dei limiti di liceità fissati dall’ordinamento, non siano di regola influenzati da eventi sopravvenuti che i soggetti del rapporto non potevano conoscere né prevedere al momento in cui lo stesso rapporto è sorto ed è stato regolamentato nell’ambito dell’autonomia dei privati ». Inoltre, la sentenza ha aggiunto: « Che il momento in cui fissare il giudizio di validità del contratto di mutuo concluso tra le parti debba essere il momento stesso in cui il contratto stesso si è perfezionato può desumersi anche da un ulteriore elemento desumibile dalla lettera della legge. « Ed infatti, l’art. 1815, comma 2 c.c. come novellato dall’art. 4 L. n. 198/96 prevede l’illiceità e la conseguente sanzione di nullità per il caso in cui le parti abbiano convenuto interessi usurari (se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla) lasciando intendere come la sanzione consegue alla violazione della norma che sia stata realizzata al momento della conclusione del contratto ». Concludendo così: « Ciò che si è voluto colpire con la nullità e gli effetti che se ne fanno derivare, è la possibilità, che, nel momento in cui si determina la volontà negoziale, vengano concordate condizioni del contratto espressamente in contrasto con la norma di legge che fissa il tasso usurario e non sicuramente la evenienza — peraltro assai probabile per quanto innanzi detto a proposito delle varizioni del tasso soglia — che gli interessi originariamente pattuiti entro limiti leciti, superino in un momento successivo tali limiti ». Sul tema si segnala, infine, la recente, Cass., sez. I civ., sent. 26 ottobre 1999-22 aprile 2000, n. 5286, in Guida la diritto, n. 17, 13 maggio 2000, n. 52 e ss., che, pur trattando una fattispecie inerente un rapporto di conto corrente, sorto in epoca precedente alla normativa anti-usura, ha ritentuo « usuraria » la pretesa della banca di riscuotere, a titolo di scoperto, interessi (pari al 28%) fissati in misura superiore al tetto massimo stabilito nei vari periodi di riferimento, con appositi decreti del Ministro del Tesoro. La sentenza, pur precisando che « una pattuizione intervenuta prima della entrata in vigore della L. n. 108/96 non può, stante il principio di cui all’art. 25, 2o comma, Cost., essere ritenuta penalmente rilevante sol perchè detti interessi risultino superiori alla soglia fissata », ha affermato che la L. n. 108/96 ha individuato un unico criterio ai fini dell’accertamento del carattere usurario degli interessi, sicchè anche con riguardo agli interessi moratori, ove essi risultino « di gran lunga eccedenti il tasso soglia », si manifesterebbe l’usurarietà. Inoltre, la Suprema Corte, richiamandola, ha aderito all’opinione dottrinale secondo cui in un contratto di mutuo (ma gli argomenti sono parsi del tutto sovrapponibili alla fattispecie esaminata) l’obbligazione degli interessi non si esaurisce in una sola prestazione, concretandosi in una serie di prestazioni successive e, in particolare, ai fini della qualificazione usuraria dell’interesse, il momento rilevante è la dazione e non la stipula del contratto, come si evincerebbe anche dall’art. 644-ter c.p. In sintonia con la giurisprudenza (Cass. Sez. I, 11055/98, imp. D’Agata e altri) di cui si dirà nel prosieguo. Per un commento a Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2000, n. 5286 e a Trib. Palermo, 7 marzo 2000, che affronta i problemi connessi allo ius superveniens, sostenendo la tesi che la previsione dei tassi soglia sostituisca, anche se successiva alla formazione del vincolo negoziale, la regolamentazione pattizia nell’evenienza dei tassi soglia sostituisca, anche se successiva alla formazione del vincolo negoziale, la regolamentazione pattizia nell’evenienza in cui la stessa se ne discosti in danno del mutuatario, vedasi GIOIA, L’impatto della legge n. 108/96 e lo ius superveniens, in Il corr. giur., 2000, 883. Sull’argomento, cfr. anche MANIACI, La nuova normativa in materia di usura ed i rapporti negoziali in corso, in I contratti, 2000, 691 e ss.
— 1220 — norma di ordine pubblico, che reprime la dazione di interessi usurari, ne esclude la liceità anche sotto il profilo privatistico’’. Il problema, in ipotesi di mutuo, a tasso fisso, stipulato ante l. n. 108/1996, in misura all’epoca congrua, e divenuto con l’avvento del primo decreto del Ministro del tesoro, d.m. 22 marzo 1997 (e cioè dal 2 aprile 1997), superiore al tasso soglia, pone all’attenzione degli interpreti la determinazione del momento consumativo del reato. Si tratta di stabilire se esso si configuri con la pattuizione degli interessi, ovvero, con l’ottenimento della relativa prestazione. L’art. 644 c.p. prevede quali condotte delittuose ‘‘il farsi promettere’’ o ‘‘il farsi dare’’ interessi usurari in corrispettivo di una prestazione. Ci si è chiesto se la condotta consistente nel ‘‘farsi dare’’ interessi usurari sia sufficiente a configurare la condotta ‘‘tipica’’, anche quando il momento genetico da cui promana, ossia l’incontro iniziale delle volontà ha per oggetto interessi non usurari? Detto in altri termini, se al momento della pattuizione gli interessi convenuti sono conformi a legge e dopo, nel tempo, a seguito della riduzione dei tassi, frutto del vario atteggiarsi del mercato monetario, essi superano quelli indicati dal decreto ministeriale che fissa i tassi soglia, si può ritenere configurato il reato di usura? Ad avviso dello scrivente non appare condivisibile il rilievo (2) secondo cui, nell’attuale struttura del reato di usura, è irrilevante la fase genetica del contratto, mancando qualunque riferimento all’approfittamento della condizione del mutuatario e concentrandosi il disvalore della condotta nella percezione (o nell’otteni(2) Sul punto, cfr. diffusamente MUCCIARELLI, Disposizioni in materia di usura, in Legislaz. pen., 1997, p. 543 ss., secondo cui non appare possibile una diversa conclusione, che finirebbe con il riconoscere ‘‘una non ammissibile prevalenza dell’accordo fra le parti rispetto ad una norma imperativa (come quella che fissa, sotto una comminatoria penale, il limite della liceità per il compenso delle prestazioni di denaro o altra utilità)’’. Aggiunge l’ A. ‘‘D’altro canto non sembra valorizzabile la distinzione fra la condotta di percezione e quella consistente nell’ottenimento della promessa: a ben vedere si tratta infatti di due diverse modalità di realizzazione del fatto punibile, che — entrambe — configurano un reato istantaneo; ciò non fa però venir meno l’aspetto cruciale del problema che ora interessa: propriamente che la condotta vietata (per quanto attiene alla modalità della percezione dell’interesse usurario) si realizza e si esaurisce nel momento in cui l’interesse illegale viene percepito dal mutuante, sicché a quel momento deve essere coerentemente valutata la (eventuale) eccedenza dell’interesse effettivo rispetto al limite legalmente fissato’’. Cfr. anche GIOIA, I riflessi civilistici di una sentenza penale, cit., p. 459, per la quale la tecnica di tutela del prestito ‘‘passo passo’’, è testimoniata anche dal dato testuale della norma, che nella nuova formulazione dell’art. 644 c.p. pone anzitutto l’accento sulla dazione degli interessi usurari e solo successivamente aggiunge nella previsione normativa la promessa di interessi o altri vantaggi usurari. Da ciò la necessità, al fine di controbilanciare l’eccessivo squilibrio delle condizioni contrattuali con parametri oggettivi, di conformare il contratto ai nuovi assetti economici scaturenti dal mercato. Nello stesso senso, cfr. INZITARI, Il mutuo con riguardo al tasso ‘‘soglia’’ della disciplina antiusura e al divieto dell’anatocismo, cit., p. 263 ss., il quale distingue le seguenti due ipotesi: — contratto di mutuo stipulato dopo l’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996, recante già in fase di pattuizione, un tasso convenzionale superiore al tasso soglia allora vigente. In detta circostanza, l’A. ritiene, e condividiamo l’assunto, che la sanzione penale e civile debba essere attuata in tutta la sua portata, tanto penale, quanto civile; — contratto di mutuo, stipulato ante l. n. 108 del 1996, oppure in costanza di detta legge, ad un tasso originariamente lecito, destinato, con il tempo, in virtù di una discesa generalizzata dei tassi, ad essere superiore al tasso soglia di cui alla legge anti-usura. In detta ipotesi, l’A. afferma che ‘‘pur dovendosi escludere la possibilità di applicare una qualche sanzione per aver pattuito, in epoca in cui era assente un divieto specifico, un tasso di interessi che solo la legge successiva ha poi definito quale illecito, è comunque evidente che, in ogni caso, non potrà essere consentito al mutuante di esigere la prestazione di interessi in una misura che è dalla legge considerata vietata, nel momento in cui dovrebbe essere effettuato il pagamento di interessi in misura superiore al tasso ‘soglia’ ’’. Aggiunge: ‘‘Ne deriva, pertanto, sul piano obbligatorio un’inesigibilità della prestazione almeno per quanto concerne la parte eccedente il tasso soglia’’.
— 1221 — mento della promessa) di interessi usurari, ossia superiori al limite stabilito per legge. Con la conseguenza, secondo quell’opinione, che l’interesse originariamente pattuito, divenuto illecito per un evento successivo ed indipendente dalla volontà dei contraenti, non autorizzi comunque il mutuante a percepire interessi (o altri vantaggi) in misura superiore a quella legalmente fissata. Se è pur vero che quello esposto è un orientamento che aderisce alla tesi che continua a qualificare il reato di usura come istantaneo, è altrettanto indubbio che non ne riconosce però il momento consumativo nella pattuizione, in conformità, peraltro, al principio sopra espresso dal Giudice di Velletri. Sicché, in detta ipotesi di illiceità sopravvenuta, quell’impostazione dottrinale ritiene che il mutuante abbia l’obbligo di ridurre la misura dell’interesse originariamente convenuto, fino a riportarlo al di sotto del tasso soglia, non avendo spazio applicativo il disposto dell’art. 1815, comma 2o, c.c., come modificato dall’art. 4 della l. n. 108/1996 (3). È un’interpretazione che non persuade, malgrado l’orientamento di recente espresso, in ambito civilistico da Cass., sez. I civ., sent. 26 ottobre 1999-22 aprile 2000, n. 5286 (vedasi nota n. 1), poiché pare non tenere in alcuna considerazione, da un lato, il mutato tenore letterale dell’art. 1815, comma 2o c.c. (la norma citata disciplina solo il caso che siano convenuti interessi usurari, non essendovi esplicita menzione di interessi dati né, tanto meno, di interessi divenuti usurari), dall’altro, la problematicità recata dalla concreta modalità di costruzione del c.d. tasso soglia, per le varie categorie di operazioni prese in esame (e dunque di quell’elemento integrativo dell’efficacia tanto dell’art. 644 c.p., quanto dell’art. 1815 del c.c.). Preliminarmente va, difatti, detto che, come in base al testo previgente (4), (3) Così MUCCIARELLI, op. cit., p. 545, il quale appare consapevole del rischio che gli operatori finanziari più scrupolosi, di fronte all’eventualità di una futura discesa dei tassi di interesse, tale da far sì che il tasso convenuto, originariamente lecito, possa col tempo superare il tasso soglia, convengano di non concedere il credito, con l’ovvia paradossale conseguenza che proprio i soggetti più deboli possano essere fagocitati dal mercato del credito illegale. Sul punto vedasi anche VANORIO, op. cit., 508 e ss., che critica la tesi della liceità della riscossione di interessi superiori ai tassi soglia, nel caso di pattuizioni precedenti alle rilevazioni ministeriali, in quanto « fondata su una sottovalutazione palese dei nuovi dati di diritto positivo ». Interessati, in senso critico, appaiono anche le riflessioni di SINESIO, op. cit., 40 e ss., il quale, se da una parte valuta negativamente l’applicabilità dell’art. 1815, 2o comma c.c., alla situazione di sopravvenuta usurarietà, in virtù del mutato tenore letterale di detta norma, dall’altro afferma l’incongruenza della tesi che escludesse non solo l’applicabilità dell’art. 1815, 2o c., c.c., ma qualsiasi altra conseguenza; la tesi cioè dell’assoluta irrilevanza della sopravvenuta usurarietà del tasso. Opinione, quest’ultima, sostenuta di recente dal Trib. di Lecce, sent. n. 745/2000, cit. (4) È vastissima la letteratura formatasi, storicamente, ante l. n. 108 del 1996; senza alcuna pretesa di completezza, vedasi i contributi di: CICALA, Il delitto di usura, Milano, 1927; ALTAVILLA, Il momento consumativo nel reato di usura: reati istantanei ad effetto permanente e reati esauriti, in Riv. it. dir. pen. ec., 1933, I, p. 245 ss.; Al. CANDIAN, Contributo alla dottrina dell’usura e della lesione nel diritto positivo italiano, Milano, 1946; DE CUPIS, Usura e approfittamento dello stato di bisogno, in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 504 ss.; LA PORTA, La repressione dell’usura nel diritto penale italiano, Milano, 1963; D’ALESSANDRO, Appunti in tema di usura, in Riv. pol., 1965, p. 552 ss.; MALINVERNI, Interessi usurari e stato di bisogno, in Giur. it., 1965, II, p. 259 ss.; NOCENTINI, Riflessioni sul delitto di usura, in Riv. pen., 1971, I, p. 346; VIOLANTE, Usura (delitto di), in Noviss. Dig. it., XX, 1975, p. 381 ss.; FERRI, Interessi usurari e criterio di normalità, in Riv. dir. comm., 1975, I, p. 285 ss.; LUCCIOLI, Brevi note in tema di usura, in Cass. pen. Mass. ann., 1979, p. 1527 ss.; D’AMBROSIO, Delitti contro il patrimonio, in Codice penale, Giur. sist. di dir. pen., diretto da Bricola e Zagrebelsky, 1984, p. 1350 ss.; MANTOVANI, Diritto penale. Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 191 ss.; DE FRANCESCO, Commentario breve al codice penale, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), 1986, p. 1083 ss.; GROSSO, Usura (voce), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, p. 1143; GAROFANO, Sullo stato di bisogno nel delitto di usura, in Cass. pen., 1993, p. 2281 ss.; DE ANGELIS, Usura, in Enc. giur. Treccani, vol. XXXII, Roma, 1994; TRONCONE, Le innovazioni legislative in materia di usura. Problematiche della c.d. usura impropria, in R.P., pp. 1211-1221; GALLO, L’usura nell’evoluzione dei tempi fino agli ultimi provvedimenti normativi, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 298 ss.; COLELLA, Usura e diritto canonico, in Foro it., 1995, V, c. 378 ss.; CAVALIERE, L’usura tra preven-
— 1222 — nel nuovo testo dell’art. 644 c.p. la condotta punibile e tipica dell’usura diretta, su cui si concentra la nostra analisi, consiste sempre nel ‘‘farsi dare o promettere’’ interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione. È utile ricordare che, nella vecchia formulazione dell’art. 644 c.p., il reato si riteneva perfezionato (5) nel momento e nel luogo della dazione degli interessi o vantaggi usurari (allorché non vi era stata una previa promessa) oppure della promessa (se questa vi era stata, anche se poi seguita dalla dazione). Più precisamente, si affermava che la consumazione coincideva cronologicamente con il momento in cui le parti concludevano l’accordo usurario (6). Ciò accreditava la tesi che faceva rientrare l’usura tra i ‘‘reati istantanei’’ (7); e se era pur vero che la dazione di interessi o altri vantaggi usurari poteva seguire la promessa, la dazione non appariva in grado di spostare il momento di consumazione dell’usura, risultando irrilevante nell’economia della fattispecie in esame. Il riferimento alla figura del reato istantaneo ad effetti permanenti (8) conservava un valore solamente descrittivo, in ordine alla possibile modalità di esecuzione dell’accordo. La circostanza che l’offesa potesse ‘‘eventualmente’’ perdurare nel tempo restava assorbita nel concetto di consumazione istantanea. D’altronde la figura del reato istantaneo ad effetti permanenti, in linea con la prevalente dottrina, non si caratterizzava per avere un fondamento autonomo, essendo la disciplina, a tutti gli effetti, analoga a quella dei reati istantanei, in quanto non vi era il protrarsi dell’offesa per effetto di una persistente condotta del soggetto (9). Ora, se è pur vero che la novella recata dalla l. n. 108/1996 (10) ha tratto zione e repressione: il controllo del ruolo penalistico, in questa Rivista, 1995, p. 1206 ss.; FIANDACA, La disciplina penale dell’usura: problemi e prospettive, in Economia e credito, Quaderno n. 1, 1995, p. 41 ss.; MASI, Mutualità e cooperazione contro l’usura, in Riv. pen. ec., 1996, p. 264 ss.; PISA, La lotta all’usura. Le difficoltà della giurisprudenza nell’attesa della nuova legge, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1283 ss.; PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 575 ss. (5) Così MANTOVANI, Diritto penale. Delitti contro il patrimonio, 1989, p. 195. (6) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, 9a ed., Milano, 1986, p. 320; il MANZINI, Trattato di diritto penale, 5a ed., Padova, 1963, p. 811, ritenne,invece, di individuare anche i caratteri del reato eventualmente permanente, ipotizzandone l’attributo tipico nei casi di percezione scadenzata dei vantaggi illeciti. (7) Cfr. VIOLANTE, Il delitto di usura, Milano, 1970, p. 184; GROSSO, Usura (diritto penale), in Enc. del dir., 1992, p. 1146, secondo il quale ‘‘essendo sufficiente la promessa, gli interessi e le utilità possono essere tuttavia corrisposte successivamente’’; ANTOLISEI, op. ult. cit., p. 320, il quale richiama, alla nota 115, a conforto della qualificazione del reato di usura come non permanente: Cass., 30 marzo 1982, in Riv. pen., 1983, p. 639 e Cass., 27 dicembre 1971, in Mass. pen., 1973, p. 303, che accennano a ‘‘reato istantaneo, sia pure con effetti permanenti’’. Esprime, invece, perplessità il DE ANGELIS, Usura, cit., p. 4, per il quale non si comprendono le ragioni che hanno portato ad escludere che l’usura in alcuni casi potesse assumere la forma del reato permanente. Propende, pertanto, per la tesi che reputava corretto qualificare l’usura come un reato eventualmente permanente. (8) La permanenza degli effetti era riscontrabile ove il soggetto passivo si impegnasse a corrispondere nel tempo interessi usurari in quanto, all’istantaneità della consumazione, farebbe seguito il perdurare delle conseguenze del patto usurario che rimane in vita senza alcuna ulteriore attività dell’agente. (9) Cfr. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 1992, p. 430; PETRAGNANI GELOSI, Il ‘‘nuovo delitto’’ di usura impropria previsto dal d.l. n. 306 del 1992 convertito nella l. n. 356 del 1992, in Giur. sist. di dir. penale, diretta da Bricola-Zagrebelsky, Utet, 1995, p. 926. (10) In generale, sui commenti alla disciplina penale dell’usura introdotta dalla l. n. 108 del 1996: AA.VV., Legge antiusura. L’analisi articolo per articolo. Per una legge dalla struttura complessa il percorso guidato all’applicazione, in Guida al diritto, II Sole-24 Ore, 23 marzo 1996, p. 34; 1996, p. 366; CALABRIA, L. 7 marzo 1996, n. 108 disposizioni in materia di usura: prime osservazioni, in Impresa, 1996, p. 914; LOCATELLI, Osservazioni sulla nuova legge antiusura, in Il Fisco, 1996, p. 5256 ss.; CAPERNA-LOTTI, La legge contro l’usura, in Il Sole-24 Ore, Documenti, 29 febbraio 1996; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, II, I delitti contro il patrimonio, Bologna, 1996, p. 206; IZZO-SOLOMBRINO, Le nuove norme sull’usura. Profili penali e civili, Napoli, 1996; PALOMBI, La nuova struttura del reato di usura, in Riv. pen. ec., 1996, p. 29; PETRAGNANI GELOSI, Emergenza usura. Riflessioni di politica crimi-
— 1223 — ispirazione dal modello di normativa anti-usura delineato dall’ordinamento francese, in cui il momento in relazione al quale va accertato l’eventuale superamento della soglia è stabilito per legge e coincide con ‘‘au moment où il est consenti’’ (11), nel nostro sistema, pur non essendovi un’esplicita previsione in tal senso, la stessa conclusione sembra confermata dalla ‘‘correlazione grammaticale e connale, in Crit. del dir., 1996, p. 148; PISA, Mutata la strategia di contrasto al fenomeno dell’usura, in Dir. pen. proc., 1996, p. 414; PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, in Stud. iur., 1996, p. 771; ID., Primi interventi tecnici in attuazione della strategia antiusura, in Dir. pen. e proc., 4, 1996, p. 4141 ss.; TENCATI, Certezza giuridica e discrezionalità giudiziaria nelle « disposizioni in materia di usura », in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 966; MACCARI-MAZZA, Usura e riciclaggio, ivi, 1996, p. 260 ss.; AMMIRATI, Il delitto di usura. Credito e sistema bancario (l. 7 marzo 1996 n. 108), Padova, 1997; MELCHIONDA, Le nuove fattispecie di usura. Il sistema delle circostanze, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 683 ss.; BERTOLINO, Le opzioni penali in tema di usura. Dal codice Rocco alla riforma del 1996, in questa Rivista, 1997; PICA, Il problema dell’usura: cause sociali del suo dilagare e insufficienze della risposta giudiziaria, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 66 ss.; DONATO-MORERA, Riflessioni intorno al tema dell’usura, in AA.VV., Problemi attuali del diritto penale dell’impresa, a cura di Insolera-Acquaroli, Ancona, 1997, p. 43; INSOLERA, Usura e criminalità organizzata, in questa Rivista, 1997, p. 126; SANTACROCE, La nuova disciplina penale dell’usura: analisi della fattispecie-base e difficoltà applicative, in C.P., 1997, p. 1529; STEFANELLI, Usura e banca, Roma, 1996; GIANFELICI, Le misure contro l’usura, Milano. 1998. Sugli aspetti economici e finanziari connessi al fenomeno dell’usura, anche con riferimenti alla l. n. 108 del 1996; AA.VV., Usura, economia, società e istituzioni. Una riflessione a più voci, a cura di Rossi, Torino, 1997; NOCERINO, Art. 644, in Codice penale, a cura di Padovani, Milano, 1997, p. 2400 ss.; TARGETTI, La legge sull’usura n. 108 del 1996: inquadramento giuridico ed esperienze operative dopo la sua entrata in vigore, in Atti del convegno in tema di Usura, organizzato dall’ITA s.r.l., il 20 aprile 1998 a Milano; FIORELLA, Le ultime sentenze in materia di usura nella prospettiva penalistica, in Atti del convegno a cura dell’ITA s.r.l., Milano, 18 giugno 1998; CARBONE, Il meccanismo di determinazione del tasso-medio e del tasso soglia, in Il corriere giuridico, 1998, p. 435 ss.; AA.VV., La legge sull’usura. Profili interpretativi ed effetti per le banche italiane, 1998, Bancaria Editrice (Saggi di Zadra, Cardile, Rossi, Lauria, Masciandaro, Severino, Bianchi); MASULLO, A due anni dalla riforma del delitto di usura: una riflessione sulla nuova scelta strategica, in Cass. pen., 1998, p. 2198 ss.; LI VECCHI, Le banche al cospetto del nuovo delitto di usura tra problematiche ed interrogativi senza una risposta, in Riv. pen., p. 929; PINELLI, Il nuovo volto del delitto di usura, in Riv. pol., 1998, p. 770; FIADINO, Irretroattività ed istantaneità del nuovo reato di usura nell’ultima giurisprudenza, in Indice pen., 1999, 374 e ss. Per un’indagine comparatistica, vedasi SATURNINO, Diritto penale europeo. I reati contro il patrimonio. Prospettive di riforma ed integrazione, Napoli, 1995, p. 109 ss.; DOLCINI-PALIERO, Il diritto penale bancario. Itinerari di diritto comparato, in questa Rivista, 1989, p. 1375; PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 575 ss.; FORNASARI, La disciplina penale dell’usura nella Repubblica federale tedesca: spunti per una comparazione, ivi, 1998, p. 101 ss.; BARRECA, La regolamentazione in tema di usura: l’esperienza francese, in A. ROSSI (a cura di), Usura, economia, società e istituzioni, Società editrice Internazionale, Torino. Vedasi, inoltre, il recente studio di NAVAZIO, Usura, La repressione penale introdotta dalla l. 7 marzo 1996, n. 108; dello stesso A., Carenze di tutela per la prevenzione dell’usura nella fase di accesso al credito, in AA.VV., Il fenomeno dell’usura e l’intermediazione finanziaria e bancaria, Cacucci Editore, pp. 141-147; MASULLO, Usura e permanenza: a proposito del termine di prescrizione, in Cass. pen., 2000, 544 e ss.; MANNA, voce Usura (la nuova normativa sull’), in Dig. discipl. penalistiche, Utet, IV ed., 2000, Aggiornamento, 648 e ss.; GARGANI, Usura semplice e usura qualificata, in questa Rivista, 2000, 71 e ss. In ordine alla particolare ipotesi di usura cosiddetta strumentale, si rinvia all’interessante studio di TAGLIAVINI, Fenomeni illegali e riflessi sul sistema bancario: l’usura strumentale, in L’usura in Italia: analisi economica e valutazione della nuova regolamentazione, Conv. Univ. Bocconi, 20 novembre 1996, Egea. Sul tema, in generale, cfr., anche, L. VIOLANTE, Le prospettive di un arginamento del fenomeno dell’usura, in AA.VV., Il fenomeno dell’usura e l’intermediazione finanziaria e bancaria, Cacucci Editore, 1997, pp. 155-158; CONTENTO, La rilevanza penale dell’usura. Il significato della nuova legislazione, in AA.VV., Il fenomeno dell’usura e l’intermediazione finanziaria e bancaria, Cacucci Editore, 1997, pp. 107-114; DONATO, Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura, Relazione al convegno di Studi: Usura e disciplina penale del credito, Frascati, 6-8 febbraio 1997; CAPERNA, Modelli investigativi correlati ai delitti in tema di usura, Relazione all’Incontro di studi sulle tecniche di indagine, Frascati, 3-7 marzo 1997; ALIBRANDI, Profili di responsabilità penale in relazione alla manifestazione del reato di usura, Relazione al convegno: Le istruzioni di vigilanza in materia di usura, Milano, 16 gennaio 1997. (11) Cfr. art. 313, comma 3, l. 26 luglio 1993, n. 93-949 (ma già art. 1, l. 28 dicembre 1966, n. 66-1010) ai sensi del quale: ‘‘Costituisce un prestito usurario ogni prestito concesso a un tasso effettivo globale che, al momento della concessione, supera per più di un terzo il tasso effettivo medio praticato, nel corso del trimestre precedente, dagli istituti di credito per operazioni della stessa natura comportanti rischi analoghi, quali definite dall’autorità amministrativa, sentito il Consiglio nazionale del credito’’.
— 1224 — cettuale istituita dal comma 1o del nuovo art. 644 tra pattuizione e interessi usurari: questi ultimi rappresentando l’oggetto che il reo si fa dare o promettere. Salva ovviamente l’ipotesi di successivi accordi sostanzialmente novativi, da valutare autonomamente’’ (12). Si è correttamente osservato che nell’intervenuta riforma del reato di usura, se pure risulta mutata rispetto a prima la modalità di commisurazione degli interessi usurari (13), avendo il legislatore nella fattispecie base utilizzato il paradigma della norma penale in bianco (14), oggetto di non poche perplessità per il sospetto di violazione del principio di legalità formale (15), è tuttavia rimasta intatta la struttura sinallagmatica della fattispecie; pur riconoscendosi che la stessa è Per una serie di spunti critici, cfr. CAVALIERE, L’usura tra prevenzione e repressione, il controllo del ruolo penalistico, cit., p. 1223; PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, cit., p. 592. (12) Così PEDRAZZI, Sui tempi della nuova fattispecie di usura, in questa Rivista, 1997, p. 665. (13) Nella connotazione del reato di usura, ante l. n. 108 cit., la nozione di usurarietà degli interessi era imprecisata. Il Guardasigilli ne aveva chiarito così le ragioni: ‘‘Si è rilevato che dovrebbesi definire quando riconoscere gli interessi o altri vantaggi usurari, previsti come elementi del reato: tale definizione non è possibile e non è necessaria. Si è fatto ricorso alla locuzione ‘interessi o altri vantaggi usurari’, perché appunto l’usura si nasconde nei più vari espedienti e non si realizza solo nell’alta misura degli interessi; e d’altra parte, non si può stabilire in un codice quando la misura degli interessi raggiunga tale grado da fornire materia di usura, essendo la misura degli interessi dipendente dalle più diverse circostanze di tempo, di luogo, di persona, di rischio’’ (Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1929, V, parte I, p. 467). La mancanza di una qualche determinatezza a livello normativo aveva indotto, in passato, la dottrina e la giurisprudenza ad attestarsi su formule di stile, poco più che tautologiche, alla cui stregua l’interesse e il vantaggio divenivano usurari quando erano ‘‘esorbitanti’’, ‘‘eccessivi’’, ‘‘manifestamente sproporzionati alla prestazione’’, oppure corrisposti sine causa, e cioè privi di una controprestazione adeguata (cfr. VIOLANTE, voce Usura, cit., p. 1145.). Tale valutazione era affidata all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito. Indubbiamente, i problemi applicativi ed interpretativi hanno spiegato l’esigenza di fissare una misura predeterminata per la determinazione della natura usuraria degli interessi. Ma non sono mancate con la nuova legge le contraddizioni. Sul punto, vedasi in senso fortemente critico, SELLAROLI, Il tasso di usura prefissato: una pericolosa illusione?, in questa Rivista, 1997, p. 220; CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, Torino, 1996, p. 28 ss., in specie con riguardo all’attuale formulazione dell’art. 644, comma 3, in cui si intravede l’accostamento del criterio normativo del tasso soglia a quello casistico e discrezionale del ‘‘tasso sproporzionato’’, nonché in ordine alla previsione contenuta nell’art. 3 della nuova legge. Per un primo commento relativamente al decreto ed ai metodi utilizzati per il calcolo dei tassi soglia, cfr. MASCIANDARO-PECCATI, Ma non è così che si debella lo strozzinaggio, in Il Sole-24 Ore, 25 marzo 1997, p. 27; in senso critico, vedasi anche PECCATI, La definizione dei tassi di interesse d’usura, nonché CIFARELLI-TAGLIANI, Possibili effetti del meccanismo moltiplicativo, entrambi i contributi in AA.VV., L’usura in Italia, a cura di Masciandaro-Porta, Milano, 1997. (14) In generale, sulle norme penali in bianco, cfr. LEONE, Le norme penali in bianco, in Scritti teorico-pratici sulla nuova legislazione penale italiana, I, Zanichelli, 1932; PETROCELLI, Norma penale e regolamento, in Studi De Marsico, II, Milano, 1959, p. 399 ss.; PECORARO-ALBANI, Riserve di legge, regolamento, norma penale in bianco, ivi, II, cit., p. 320 ss.; CARBONI, Norme penali in bianco e riserva di legge..., in Riv. it., 1971, p. 454; PAGLIARO, La legge penale, in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 1048 ss. Con riguardo alla normativa anti-usura, va detto che nell’ipotesi base la dipendenza della norma penale dal provvedimento amministrativo, cioè da un fonte sottordinata, caratterizza in modo esclusivo la fattispecie. Il rinvio in bianco trova conferma nel comma 4 dell’art. 2 della l. n. 108 del 1996, che, a sua volta, rinvia alla pubblicazione sulla G.U. dei TEGM rilevati trimestralmente dal Ministro del tesoro che si avvale della Banca d’Italia e dell’UIC. Il tasso soglia è dato dall’aumento del 50% dell’ultimo TEGM pubblicato sulla G.U. e riferibile all’operazione considerata. Per una fondamentale esigenza di certezza del diritto, si è detto che si deve del pari attribuire il medesimo potere vincolante alle Istruzioni di vigilanza diramate dalla Banca d’Italia e dall’UIC per la determinazione dei TEGM. Se così non fosse, si avrebbe una manifesta distonia tra la modalità di calcolo e di determinazione, rispettivamente del TEGM e del tasso soglia e l’applicazione di tale limite oggettivo alla fattispecie concreta: così LA TORRE, La nuova fattispecie di usura ed i suoi effetti sui contratti di leasing, in Atti del convegno Usura, le sentenze ‘‘shock’’ dei Tribunali di Milano e di Velletri: gli effetti sul sistema bancario e finanziario, a cura dell’ITA s.r.l., 20 aprile 1988. (15) Cfr. SEVERINO DI BENEDETTO, Riflessi penali della giurisprudenza civile sulla riscossione di interessi divenuti usurari successivamente all’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996, in Banca, borsa e
— 1225 — ora collocata in un contesto normativo che ha fatto uscire dall’ambito descrittivo del fatto il requisito dello stato di bisogno (16) per trasformarlo in circostanza aggravante. Dunque, il riconoscimento della permanente struttura sinallagmatica fa sì che ancora oggi la norma consideri tra gli elementi costitutivi del reato il momento della pattuizione. Allora, affinché la condotta del ‘‘farsi dare’’ (che nel caso del mutuo con piano di ammortamento, altro non è che il pagamento delle rate, comprensive di interessi e capitale) sia integrata dall’attività di adempimento dell’obbligazione (nata lecita e stipulata in precedenza), occorre ricorrere all’escamotage (17) di qualificare la preesistente pattuizione come mero presupposto della condotta. Ma, ed è questo il punto cruciale, nella disamina del mutuo oneroso, qualificato come contratto di durata a prestazioni corrispettive, come annota il G.E. del Trib. di Roma nell’ordinanza del 4 giugno 1998 citata in nota, l’obbligazione del mutuatario non sorge di volta in volta al momento della scadenza delle singole rate ma istantaneamente e unitariamente all’atto della consegna del denaro, assumendo sin da quel momento, come proprio oggetto determinato o determinabile la prestazione restitutoria, prestazione che in unica soluzione o in più rate dovrà essere eseguita dal mutuatario e che pertanto, nella seconda ipotesi, è sin dall’origine connotata dal suo frazionamento in rate successive, predeterminate o determinabili, in base ad un preciso piano di ammortamento. Nella fattispecie negoziale esaminata (mutuo a tasso fisso ante l. n. 108/1996, con tasso nato lecito e nel tempo divenuto usurario per superamento del tasso soglia), l’attribuzione, dunque, della rilevanza penalistica unicamente alla condotta del farsi dare, ossia al momento del pagamento di una rata, comprensiva di un interesse originario superiore al tasso soglia sopravvenuto, crea evidenti disarmonie, poiché: — non pare che la pattuizione (ossia l’incontro delle volontà, da cui promana il disegno del rimborso e dunque la modalità di esecuzione dell’obbligazione, ossia la condotta del ‘‘farsi dare’’ possa assumere i caratteri del mero presupposto della condotta, non rivestendo, essa, nell’economia del negozio, quei connotati dell’elemento indipendente dal comportamento del soggetto attivo (18); tit. cred., 1998, II, cit., p. 524; in tema anche, ma in senso meno critico, cfr. MANNA, La nuova legge sull’usura, Utet, 1997, p. 63 ss. La norma, così come è costruita, può, peraltro, far sorgere significativi problemi anche in termini di rilevanza dell’errore nella determinazione dei TEGM da parte dell’Autorità amministrativa, attesa l’opinabilità delle griglie dei tassi pubblicati o dei sistemi di ponderazione in concreto adottati, posto che non si tratta di una semplice media che fotografa l’andamento del mercato, ma i tassi vengono opportunamente corretti e ponderati in base all’andamento del TUS ed al diverso peso attribuito ai singoli intermediari che rappresentano il campione che partecipa alla rilevazione. Trattasi di perplessità destinate ad aggravarsi ove si consideri la variabilità temporale del dato di riferimento (tasso-soglia a rilevazione trimestrale) e le conseguenze che se ne vorrebbero far discendere dalla giurisprudenza civilistica in argomento. In tema, vedasi anche la riflessione critica di MUCCIARELLI, op. cit., p. 541 ss.; CARACCIOLI, op. cit., p. 1487, il quale ravvisa nel comma 3 dell’art. 644 c.p., in ordine al riferimento alle operazioni similari, contenute nelle figure di usura ‘‘subordinata’’ ed ‘‘intermedia’’, una violazione del principio di determinatezza della norma penale, poiché formula ‘‘aperta’’ e indeterminata. Analogamente il CRISTIANI, op. cit., p. 31, sottolinea come parametri concettuali quali quelli di cui alle formule ‘‘avuto riguardo alle concrete modalità del fatto’’, a ‘‘operazioni similari’’, non offrano un contributo alla chiarezza ed alla sicurezza giuridica. Per ulteriori rilievi ermeneutici dell’A. in ordine taluni spetti problematici di legittimità costituzionale, vedasi anche pp. 104-109. (16) Sullo stato di bisogno come circostanza aggravante, cfr. CRISTIANI, op. cit., p. 52 ss. In senso critico, cfr. VANORIO, op. cit., 508, secondo cui l’espunzione dell’approffittamento dello stato di bisogno, oltre all’art. 644 ter, ha mutato completamente la struttura del fatto tipico, anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo. (17) Il termine è efficacemente coniato dalla SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 527. (18) Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 1997, p. 214; MANTOVANI,
— 1226 — — collide con la nuova formulazione dell’art. 1815 c.c., che ha valore interpretativo della norma penale dell’art. 644 c.p., attesa l’affermata unitarietà del concetto di usura nel campo civile e in quello penale; d’altro canto, afferma l’ordinanza del G.E. di Roma (cfr. nota cit.), dalla riconosciuta ‘‘interdipendenza fra i due sistemi’’ consegue che il contenuto della norma penale non può prescindere dai connotati causali del negozio cui fa riferimento, di un negozio in cui l’alea contrattuale è distribuita su entrambe le parti e non solo su una di esse, come accadrebbe in ipotesi di mutui a tasso fisso, ove la misura degli interessi fosse soggetta unicamente alla possibile discesa del tasso soglia. Concordiamo con la dottrina più attenta (19) per la quale la riscossione degli interessi, a seguito della novellata normativa anti-usura, non può essere espunta dall’ambito di rilevanza penale, essendo ciò incompatibile con il nuovo regime della prescrizione, a condizione, però, che la riscossione degli interessi sia il naturale compimento della pattuizione usuraria. E riteniamo, altresì, condivisibile l’opinione che non nega valore assoluto alla dazione, in sé, ma ritiene tale condotta determinante per ricostruire i contenuti dell’incontro di volontà tra le parti, in quella particolare fattispecie in cui manchi la pattuizione, ovvero, pur essendo essa presente, il pagamento degli interessi avvenga in maniera difforme ed in misura più elevata rispetto a quanto concordato (20). Dunque, chiarito che l’accordo pattuito non può essere degradato (21) a un mero presupposto dell’unica condotta autonomamente rilevante (il ‘‘farsi dare’’), vale ora la pena soffermarsi sulla centralità del momento della pattuizione. Si è detto, correttamente, che è in questa fase che il comportamento del mutuante manifesta — se sono convenuti interessi usurari — la sua lesività sostanziale. Infatti, in quel momento le parti valutano i rischi e la convenienza dell’operazione: — il mutuante considera il costo del denaro oggetto di prestazione, lo proietta nel periodo di restituzione convenuto, soppesa il rischio insito nell’operazione, parametra gli interessi alle condizioni economiche del momento; Diritto penale, Padova, 1992, p. 170, per il quale i presupposti ‘‘pur essendo anch’essi oggetto della colpevolezza, tuttavia in quanto indipendenti dalla condotta dell’agente possono essere da lui soltanto conosciuti, ma mai voluti’’; SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 528. (19) Cfr. PEDRAZZI, op. cit., p. 661, per il quale si ha come un’omogeneizzazione delle due alternative, dazione e promessa: la dazione continua a rilevare penalmente anche se preceduta da una promessa. Il richiamo va alla tesi dominante in tema di corruzione, che, aggiunge l’A., vuole posticipato il momento consumativo quando all’accettazione della promessa (sufficiente a perfezionare il reato) fa seguito l’effettiva ricezione. Con la risultanza di una situazione assimilabile alla permanenza, e non solo agli effetti della prescrizione: si pensi p. es. alla responsabilità a titolo di concorso di chi, in tempo successivo alla pattuizione, operi quale collettore degli interessi usurari o si renda cessionario del diritto. (20) Così SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 533; vedasi anche MASULLO, Usura e permanenza, op. ult. cit., 548. (21) L’incongruenza rilevata dalla SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., 533, si ravviserebbe nella posticipazione della soglia di consumazione al momento della dazione, con conseguente ampliamento delle aree di impunità o di punibilità a mero titolo di tentativo. Anche BELLACOSA, voce Usura, in Dig., Disc. pen., Utet, 1998, p. 153, è dell’avviso che ‘‘qualora al momento della pattuizione sia previsto un tasso inferiore alla soglia limite, l’attuale formulazione della fattispecie di usura impedisce di ravvisare nella stipula del contratto un mero ‘presupposto della condotta’ rispetto al quale considerare significativo il successivo comportamento omissivo del creditore che non riduca il tasso frattanto divenuto usurario’’. Lo stesso A. sottolinea che ‘‘a voler imporre la verifica di usurarietà in un momento successivo alla stipula di un contratto ab origine lecito e regolare, si determinerebbe un’irragionevole ed inammissibile compressione dell’autonomia privata negoziale; si imporrebbe infatti al creditore l’obbligo di modificare — in senso a lui sfavorevole — le previsioni di un contratto che era pienamente legittimo al momento della pattuizione e che era parametrato alle condizioni di mercato, alle scelte imprenditoriali, ai rischi ed all’alea vigenti in quel preciso momento storico’’. Sul punto vedasi anche le considerazioni di Trib. Lecce, citata in nota 1.
— 1227 — — il mutuatario, a sua volta, giudica la congruità degli interessi pattuiti rispetto alla somma erogata ed al periodo di restituzione ed accetta, nel caso dì mutuo a tasso fisso, l’alea insita nella possibilità, a lui favorevole, che i tassi salgano, ovvero nella possibilità, a lui sfavorevole, che i tassi scendano. Va aggiunto che è nel momento della stipulazione del mutuo a tasso fisso che si disegna il piano di ammortamento del capitale concesso in prestito. Ora, facendo ricorso a facili nozioni tratte dalla matematica finanziaria ed attuariale (22), è nel momento della pattuizione che il mutuatario può verificare se sia rispettato il principio cosiddetto di equità finanziaria dell’ammortamento. In poche parole, il mutuatario può valutare se il capitale preso in prestito eguagli, al tempo zero, la somma dei valori attuali delle singole rate (comprensive ognuna di una quota parte capitale e di una quota parte di interesse) al medesimo tempo zero. In ipotesi affermativa, il piano di rimborso si ritiene equo dal punto di vista finanziario. Peraltro, come si vedrà, discorrendo in tema di modalità di calcolo del TEG, anche la normazione secondaria (le Istruzioni della Banca d’Italia), elegge il tempo della pattuizione come momento essenziale ai fini del calcolo del tasso soglia pro-tempore vigente e, dunque, ai fini della verifica dell’innaturale fecondità del denaro. Sul punto, giova, ancora una volta, richiamare testualmente il pensiero autorevole del Pedrazzi (23): ‘‘La rilevanza della pattuizione iniziale investe la qualificazione degli interessi o altri vantaggi come usurari, alla stregua dei parametri di fresca introduzione. I coefficienti dell’usura vanno riscontrati nel momento in cui l’agente si fa dare o promettere. La legge non conosce un’usurarietà sopravvenuta, determinata da parametri intervenuti successivamente: non valgono come usurari gli interessi riscossi sulla base di una pattuizione legittima, rispettosa del tasso soglia vigente, ancorché alla scadenza di qualche rata di interessi, a seguito di un calo generalizzato dei tassi, risulti superato il livello determinato ai sensi dell’art. 2 l. n. 108. È sempre il tasso effettivo globale medio vigente al momento della pattuizione iniziale al quale bisogna fare riferimento, per quanto si protragga nel tempo l’esecuzione del contratto’’. L’orientamento citato trova conforto anche nella menzionata ordinanza del G.E. del Trib. Di Roma che perviene alla corretta conclusione che nell’individuazione degli interessi usurari, la norma, nella sua interpretazione costituzionale, intende necessariamente riferirsi (e qui il riferimento è ai contratti sorti successivamente alla pubblicazione dei decreti ministeriali rilevanti il tasso soglia, ma il ragionamento vale anche per i contratti sorti antecedentemente alla l. n. 108, per i quali l’usurarietà del tasso dovrà essere verificata all’atto della pattuizione) al trimestre anteriore alla conclusione del contratto, non a quello anteriore al pagamento della rata. Nello stesso senso, vedasi il provvedimento della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, 27 novembre 1998, P.M. Padalino, che ha archiviato ‘‘in via amministrativa’’ la denuncia presentata da un’associazione (l’Adusbef), non avendo ravvisato nella vicenda (di mutui a tasso fisso, ante l. n. 108/1996, in cui gli interessi non usurari al momento della pattuizione, lo erano divenuti per (22) Cfr. LEVI, Matematica finanziaria ed attuariale, Ghisetti & Corvi, 1994, p. 178. (23) In op. cit., p. 665; cfr. sul punto, anche CERASE, L’usura riformata: primi approcci ad una fattispecie nuova nella struttura e nell’oggetto di tutela, in C.P., 1997, p. 2606, secondo cui il canone tempus regit actum deve funzionare sia a danno che a favore dell’imputato.
— 1228 — l’abbassamento del tasso soglia intervenuto nel frattempo) gli estremi del delitto di usura (24). Nel provvedimento si afferma che la riforma operata dalla l. n. 108/1996 non ha mutato il carattere istantaneo del delitto di usura e la circostanza che sia stato introdotto l’art. 644-ter, stabilendo espressamente che il reato di usura debba considerarsi permanente in relazione all’istituto della prescrizione, anzicché dimostrare la volontà del legislatore di ritenere permanente tale delitto, avvalora la convinzione che si sia voluto mantenere fermo il carattere istantaneo dell’usura, salvo intervenire sulla disciplina dei reati istantanei, con la suddetta deroga ai fini prescrizionali. D’altronde, contrariamente opinando, se si desse rilevanza autonoma unicamente alla fase della dazione, l’interpretazione del G.E. di Velletri (cfr. nota 1) non solo non consentirebbe più di negoziare mutui a tasso fisso, potendo detto tasso, nato lecito, divenire nel tempo usurario e decretare la decadenza dal diritto di percezione di qualunque interesse, ex art. 1815 c.c.; ma nemmeno sarebbe possibile individuare pattiziamente un tasso variabile in positivo, potendo le parti solo convenire un tasso variabile in negativo, ossia un tot punto percentuale in meno rispetto al tasso di usura trimestralmente rilevato. E se questa premessa è vera, come sembra, allora deve ritenersi corretto l’ulteriore rilievo critico che intravede in tale circostanza un possibile effetto penalizzante per gli stessi mutuatari. L’esemplificazione avanzata (25) è la seguente: si ipotizzi che il tasso medio sia pari al 10% e che, dunque, il tasso soglia si attesti al 15%. Qualora la condotta delle banche non voglia incappare nell’ambito di rilevanza penalistica della l. n. 108 cit., esse dovrebbero, seguendo il ragionamento avversato, negoziare mutui ad un tasso variabile di un tot percentuale (per semplicità si assume che sia pari ad uno) in meno rispetto al tasso soglia e dunque, per il primo trimestre, al 14%. Ciò significherebbe che, il trimestre successivo, il decreto ministeriale finirebbe col rilevare un tasso medio effettivo pari al 14% e, conseguentemente, un tasso soglia del 21%, con effetti, evidentemente, penalizzanti nel tempo per il mutuatario. Peraltro, non si dimostra provata l’affermazione secondo cui: ‘‘se si dà rilevanza esclusiva al tasso esistente al momento della pattuizione, si tutela la posizione di chi esercita il risparmio; se invece, si dà rilievo al tasso esistente al momento della condotta si attua uno strumento di controllo del risparmio a tutela del consumatore (26)’’. L’errore di siffatto ragionamento, si è fatto notare (27), sta nel ritenere che i tassi effettivi medi possano solo scendere. (24) Il provvedimento è pubblicato in Dir. pen. e proc., 1999, p. 746, a titolo Un anomalo provvedimento in tema di usura, con due note critiche, la prima di PISA, La configurabilità del delitto di usura, e la seconda di GIOSTRA, I limiti dell’archiviazione ‘‘in via amministrativa’’; secondo quest’ultimo A., non potendo,nella fattispecie in esame, la riconducibilità della condotta denunziata essere esclusa ad un primo esame delibativo, il P.M. avrebbe dovuto iscrivere la notizia di reato nell’apposito registro ai sensi dell’art. 335 c.p.p. e poi chiedere l’archiviazione al giudice per le indagini preliminari. (25) Così il chiaro ragionamento di MORERA, Interessi pattuiti, interessi corrisposti, tasso ‘‘soglia’’ e... usuraio sopravvenuto, cit., p. 521, per il quale ‘‘l’aver la nuova disciplina indicato un criterio oggettivo al fine di individuare l’usurarietà certa degli interessi pattuiti, renderebbe del tutto impossibile la pattuizione di interessi certamente non usurari’’. (26) BRANDA, I riflessi della l. n. 108 del 1996 sui contratti di mutuo con garanzia reale stipulati prima dell’entrata in vigore della normativa antiusura, con riferimento alle procedure esecutive, in Atti del convegno Le sentenze ‘‘shock’’ dei Tribunali di Milano e di Velletri: gli effetti sul sistema bancario e finanziario, a cura dell’ITA s.r.l. di Milano del 20 aprile 1998, p. 5 del dattiloscritto. (27) Cfr. MORERA, op. cit., p. 521.
— 1229 — In definitiva, appare condivisibile la riflessione espressa di recente, seppur in ambito civilistico, dal G.E. del Trib. Roma, con sentenza del 10 luglio 1998 (28). (28) In Foro it., 1999, I, c. 343; la sentenza osserva, in premessa, che nel calcolo del tasso applicato siano da comprendere anche gli interessi moratori, atteso che il legislatore avrebbe ‘‘inteso evitare ogni possibilità di facile aggiramento della norma, aggiramento che invece, ove gli interessi moratori venissero esclusi dal conteggio di quelli rilevanti ai fini usurari, verrebbe facilmente realizzato mediante la previsione (attraverso formule che non tarderebbero a divenire di stile) di termini di pagamento di improbabile rispetto, idonei a rendere ‘normale’ e legittima la corresponsione di interessi sostanzialmente usurari sotto forma di interessi moratori’’. Trattasi, a nostro avviso, di conclusione non condivisibile poiché, come correttamente chiarito di recente dal Trib. Salerno, 27 luglio 1998, in I contratti, 1999, p. 591, ‘‘l’apparato introdotto recentemente pare avere a che fare solo con gli interessi cd.compensativi (o corrispettivi), intesi cioè come parte di un sinallagma contrattuale, come senza ambiguità può derivarsi dal testo normativo. Come detto, gli interessi moratori accordati al creditore hanno funzione risarcitoria, rappresentando il ristoro, in misura forfettariamente predeterminata, della mancata disponibilità della somma dovuta’’. In questo senso, appare corretta l’esclusione degli interessi moratori dal calcolo del TEG, operata dalla Banca d’Italia nelle relative Istruzioni, con nota del 3 ottobre 1996, n. 37455, ribadite nella nota n. 25270 del 3 luglio 1997, nella circolare del 30 aprile 1998 e dell’agosto 1999. In dottrina, vedasi, LA TORRE, La nuova giurisprudenza in materia di usura ed i suoi effetti sul leasing, in Atti del convegno ITA s.r.l., Milano 7 maggio 1999; DOLMETTA, Contratti di credito e usura: la questione della disciplina di diritto intertemporale, ivi, Milano, 18 giugno 1998, p. 7 del dattiloscritto. Scrive sul punto CARBONE, Usura civile: individuato il tasso soglia, in Corr. giur., n. 5/97, p. 508: ‘‘la nuova disposizione concerne gli interessi corrispettivi e non anche gli interessi moratori sul capitale eventualmente non corrisposto o pagato con ritardo, posto che l’art. 1, comma 1 della legge ha inteso qualificare come usurari i soli interessi che costituiscono il corrispettivo di una prestazione di denaro e che la ratio della norma non intende incidere sull’inadempimento o sul ritardo delle obbligazioni pecuniarie e cioè su un aspetto funzionale del vincolo obbligatorio, ma solo sull’innaturale fruttuosità del denaro e cioè sul piano strettamente genetico della nascita o del rinnovo del vincolo obbligatorio’’. In senso conforme, vedasi anche MORERA, Interessi pattuiti, interessi corrisposti, tasso ‘‘soglia’’ e... usuraio sopravvenuto, in Banca, borsa e tit. cred., 1998, II, p. 519, secondo cui la l. n. 108 del 1996 è ‘‘chiaramente volta a disciplinare ed a sanzionare la dazione di interessi o altri vantaggi usurari ‘in corrispettivo di una prestazione’ altrui, ove all’evidenza, nell’ipotesi di interessi moratori, la dazione di interessi, lungi dall’essere in corrispettivo di una prestazione altrui — è in (melius: il) — corrispettivo della propria non prestazione (fattispecie dunque estranea, opposta potrei ben dire, a quella contemplata e sanzionata dalla l. n. 108 del 1996’’. Sulle conseguenze pregiudizievoli suscettibili di derivarne dalla mancata distinzione tra interessi corrispettivi e moratori, nella normativa anti-usura, cfr. SELLAROLI, Il tasso di usura prefissato..., cit., p. 223 ss. Interessante è lo spunto di riflessione svolto da INZITARI, Il mutuo con riguardo al tasso ‘‘soglia’’ della disciplina antiusura e al divieto dell’anatocismo, ult. cit., p. 273, secondo cui ‘‘la valutazione che, dunque, deve essere compiuta degli interessi moratori investe direttamente, anche in questo caso, il contenuto di una convenzione in ordine alla misura contrattualmente determinata degli interessi moratori. Non riveste sotto questo profilo alcuna rilevanza il fatto che, sul piano sistematico, tali interessi debbano essere ricondotti ad una categoria risarcitoria, piuttosto che corrispettiva, in quanto la misura di tali interessi moratori, pur sempre si discosta da quella per legge determinata, al pari di qualsiasi altra convenzione relativa alla pattuizione degli interessi’’. Pertanto, aggiunge l’A. ‘‘la convenzione sugli interessi moratori deve essere riguardata come un qualsiasi patto che può violare la disciplina dell’art. 644 c.p. allorquando contenga la promessa, sotto qualsiasi forma (per usare il linguaggio dell’appena citata disciplina contro l’usura) di un vantaggio usuraio, e cioè, nel nostro caso, sia superiore o possa divenire in futuro (con le modalità che abbiamo precedentemente delineato) superiore al tasso soglia’’. Di recente, si registra l’orientamento di Trib. Milano, Sez. VII civ., 28 gennaio 1999, Rel. Fiecconi, Ratti c. Citifin s.p.a., in Informazioni legali, n. 2/1999, p. 3, il quale, posto di fronte alla questione se la nuova disciplina antiusura sia applicabile ad ogni tipo di interesse, ovvero ai soli interessi corrispettivi, ha ritenuto che ‘‘insuperabili dati letterali ‘inducano’ la limitazione della diretta applicazione della nuova normativa ai soli interessi corrispettivi’’. In senso conforme anche Trib. Genova, sez. VI civ., n. 207 del 20 gennaio 2000, inedita. Entrambe queste ultime sentenze di segno contrario rispetto a Cass., sez. I civ., sent. 26 ottobre 1999-22 aprile 2000, n. 5286, cit. Il convincimento della Suprema corte, in tema di interessi moratori, finisce con il ritenere possibile una comparazione che, a modesto avviso di chi scrive, aldilà della differente natura e funzione degli interessi moratori rispetto a quelli corrispettivi, si rivela assolutamente disomogenea. Non si comprende, difatti, come si possa comparare un tasso soglia, costruito senza ritenere nel computo gli interessi moratori, con la misura di detti interessi. Del problema pare esserne consapevole VANORIO, op. cit., 524, il quale riconosce che « individuare il reato o comunque conseguenze civilistiche, in relazione a parametri che non concorrono a determinare i limiti legali sarebbe incongruente ». Tuttavia l’A. avverte che la previsione di tassi moratori elevati, accompagnata per esempio da un livello degli inte-
— 1230 — Di fronte all’interpretazione proposta dall’opponente, secondo cui la configurazione del nuovo delitto di usura sia ricavabile non dalla situazione normativa esistente al momento della pattuizione ma da quella esistente al momento della corresponsione di interessi e, quindi, sulla base dell’ultimo decreto emesso prima di tale momento, il G.E. menzionato ha criticamente obiettato che quell’opinione risulta condizionata da: — un contesto economico di discesa dei tassi di interesse; — il presupposto che parte creditrice sia la banca o comunque un soggetto economicamente forte. Pertanto, ove, al contrario, il contesto monetario fosse caratterizzato da una forte salita dei tassi, la norma penale, dettata per reprimere il fenomeno dell’usura e ispirata a criteri di particolare severità verso quanti alimentano tale ‘‘mercato’’, ‘‘si rileverebbe, se così interpretata, in un formidabile strumento di ‘difesa’ di tali soggetti, poiché in caso di salita del tasso di soglia oltre il tasso usurario deliberatamente pattuito, la condotta del farsi dare interessi originariamente usurari diverrebbe non più punibile (stante il riferimento al decreto anteriore alla dazione) con la conseguenza che l’unica condotta sanzionabile sarebbe quella del farsi promettere, a partire dalla quale comincerebbe anche a decorrere il termine di prescrizione. Se ne ricaverebbe una norma palesemente squilibrata a vantaggio di quanti professionalmente praticano l’usura, poiché particolarmente severa (in condizioni di discesa dei tassi) nei confronti di chi contratta legittimamente e ingiustificatamente benevola (in condizioni di salita dei tassi) di chi contratta con finalità usurarie. In tal caso perciò mentre il sistema sanzionatorio nell’ordinamento civile si manterrebbe equilibrato e coerente a principi di ragionevolezza, stante l’espresso richiamo in esso contenuto alla pattuizione di interessi usurari (art. 1815 c.c.) e stante il principio di non convalidabilità dei negozi originariamente illeciti, l’ordinamento penale si rileverebbe palesemente squilibrato in quanto irragionevolmente più severo verso condotte caratterizzate da minore offensività e meno severo verso condotte caratterizzate da offensività maggiore. Parimenti, afferma il G.E., una situazione squilibrata si verificherebbe ove la parte mutuante forte fosse sostituita da una parte mutuante debole (e l’esempio cade, all’interno del sistema bancario, sulle operazioni di raccolta del risparmio attraverso l’emissione di titoli obbligazionari). In siffatte ipotesi, ‘‘una forte discesa dei tassi di interesse rischierebbe di comportare il venir meno anche per il piccolo risparmiatore del diritto alla corresponsione degli interessi maturati verso società, banche ed enti pubblici (non essendo dubitabile l’appartenenza di tali operazioni alla categoria del contratto di mutuo) e la sua assoggettabilità, ove intendesse richiedere il pagamento dell’interesse previsto, alla sanzione penale prevista dall’art. 644 c.p.’’. ressi convenzionali appena al di sotto del limite legale, potrebbe prestarsi al classico meccanismo di frode alla legge. Per una visione delle teorie classiche ed attuali sulla frode alla legge, cfr. MORELLO, voce Frode della legge, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. VIII, Torino, 1992, 501 ss. Vedasi anche REALMONTE, Stato di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, in Riv. dir. comm., 1997, II, 780. Sostiene, inoltre, che il divieto di interessi usurari si estenda anche alle clausole relative agli interessi moratori, SINESIO, op. cit., cfr. nota 62, il quale, è, però, consapevole che manca, attualmente, il dato di raffronto a cui è connessa l’operatività della prima nozione di interesse usurario, ed, inoltre, qualche difficoltà, « potrebbe sorgere anche in relazione alla seconda nozione che richiede, comunque, il raffronto con il tasso medio praticato per operazioni similari ». Lo stesso A. rileva, inoltre, che anche ove vi fosse la rilevazione trimestrale degli interessi di mora, e dunque, un preciso tasso soglia di raffronto, potrebbe per gli interessi moratori fissati a priori, contestualmente alla conclusione del contratto, porsi il problema della sopravvenuta usurarietà. Sul punto, vedasi, anche GIOIA, L’impatto della legge n. 108/96 e lo ius superveniens, op. cit., 890, secondo cui la stessa norma penale, l’art. 644 c.p., fa riferimento alla corrispettività in senso ampio, senza presupporre un formale senso tecnico-civilistico dell’espressione. Di contrario avviso, MANIACI, op. cit., 704.
— 1231 — Conseguentemente, recita la sentenza, l’elemento centrale per verificare l’offensività della condotta è dato dal riferimento al decreto emesso ed alla situazione rappresentata anteriormente al momento della pattuizione degli interessi. È una tesi che trova ulteriore conforto in una serie di indicazioni ricavabili dalla novella stessa (29): a) l’art. 2 della l. n. 108, che regola la rilevazione trimestrale del tasso effettivo globale medio, nel comma 3o, fa obbligo alle banche, agli intermediari finanziari e ad ogni altro ente autorizzato all’erogazione del credito di affiggere nella rispettiva sede, e in ciascuna delle proprie dipendenze aperte al pubblico, in modo facilmente visibile, apposito avviso contente la classificazione delle operazioni e la rilevazione dei tassi ad opera delle competenti autorità: strumento pubblicitario ovviamente finalizzato ad un’adeguata informazione della clientela in fase di contrattazione e quindi di pattuizione degli interessi; b) a norma del nuovo comma 4o dell’art. 644, ‘‘per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per le imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito’’. Si tratta di oneri accessori che la stessa norma correla all’erogazione del credito e quindi pattuiti insieme con gli interessi (da ricomprendere, ai sensi del testè citato art. 2 l. n. 108, nella rilevazione del t.e.g.m.).Ancora una volta l’attenzione viene richiamata sulla pattuizione iniziale; c) fra gli elementi di cui tener conto nella classificazione delle operazioni creditizie per categorie omogenee, preliminare alla rilevazione trimestrale dei rispettivi tassi, accanto alla natura, all’oggetto, all’importo, ai rischi e alle garanzie, è menzionata la durata. Alla durata fa pure riferimento l’art 1 d.m. 23 settembre 1996, contenente la prima classificazione prescritta dalla legge. Orbene, se il fattore ‘‘durata’’, con tutte le sue implicazioni (in prima linea l’eventualità di un’oscillazione nel tempo del livello di mercato dei tassi di interesse), già influisce per volontà di legge sulla classificazione delle operazioni creditizie e quindi sulla rilevazione per categorie omogenee dei tassi effettivi, sarebbe incongruo farlo giocare una seconda volta, commisurando le singole rate di interesse al tasso soglia del momento (30); d) la sostituzione del nuovo comma 2o dell’art. 1815 c.c., ad opera dell’art. 4 l. n. 108: ‘‘se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi’’. La clausola concerne gli interessi convenuti e ‘‘non è sicuramente adattabile all’ipotesi di superamento dovuto a un successivo ribasso del tasso soglia. Il fatto che il legislatore abbia disciplinato, nei riflessi civilistici, la sola ipotesi della pattuizione di interessi usurari conferma che la qualificazione degli interessi va determinata con riguardo al momento in cui essi vengono pattuiti, cioè quello della dazione o promessa’’ (31). (29) Così PEDRAZZI, op. cit., pp. 665-666; contra cfr., BRANDA, op. cit. (30) È assai pertinente la riflessione del PEDRAZZI, op. cit., p. 666, secondo cui l’onerosità effettiva degli interessi deriva non solo dal tasso convenuto, ma anche dall’andamento dell’inflazione: più quest’ultima è elevata, meno gli interessi finiscono per gravare sul debitore. Sicché, scrive l’illustre A. ‘‘Ove si volesse riesaminare ex novo, a ciascuna successiva scadenza, la qualificazione di usurarietà, il tasso nominale andrebbe man mano depurato della svalutazione monetaria. Ed è significativo che la legge non offra alcuna apertura in tal senso’’. (31) Cfr. PEDRAZZI, op. cit., pp. 666 e 667, il quale sottolinea, con il consueto limpido rigore ermeneutico, che nel momento della pattuizione (o dell’accordo novativo che integri o modifichi le intese originarie) trovano collocazione anche le aggravanti del comma 5: — l’esercizio da parte del reo di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria (n. 1) rappresenta un pericolo solo se contestuale all’incontro delle due volontà; analogamente accade per la vittimizzazione di soggetti sovra esposti, in quanto in stato di bisogno (n. 3) o esercitanti attività imprenditoriale, professionale o artigianale (n. 4); o nell’ipotesi di sorvegliati speciali, la cui pericolosità va comprovata al momento dell’iniziativa delittuosa.
— 1232 — Non è possibile, dunque, vedere incentrato il momento consumativo del reato sul solo elemento della dazione di interessi superiori al tasso-soglia, relegando fuori dagli elementi costitutivi della fattispecie il momento della pattuizione tra le parti (32). Si consideri, in proposito, che tutte le norme di usura elencate e descritte in via alternativa e punite con identica pena dall’art. 1 della l. n. 108/1996 sono parametrate al momento della formazione dell’intesa iniziale tra le parti. Ciò appare evidente nella fattispecie delineata dal comma 2o dell’art. 1 della legge, in cui la condotta si incentra nel procurare a taluno una somma di denaro o altra utilità, facendo dare o promettere, a se o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario. Tale figura di reato pone in rilievo una serie di elementi focalizzati sulla condotta di procurare una somma di denaro, svolgendo un’opera di mediazione, strettamente ed inscindibilmente connessa alla promessa o seguente dazione di compensi usurari. Analoghe considerazioni possono essere svolte attraverso la comparazione con la figura di usura cosiddetta « residuale », descritta dal comma 3o dell’art. 1 della l. n. 108/1996. Pur essendo stato eliminato da essa il riferimento all’approfittamento delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria, la norma pone a confronto, in stretta connessione, due categorie di elementi: da un lato le concrete modalità del fatto e il tasso medio praticato per operazioni similari; dall’altro la sproporzione rispetto alla prestazione di denaro o altra utilità. Il collegamento tra le due categorie di elementi è dato dalla necessità che la seconda, e cioè la sproporzione rispetto alla prestazione, derivi dalla prima, e cioè dalla comparazione con le concrete modalità del fatto e con il tasso medio praticato. Si tratta, all’evidenza, di una comparazione che deve essere strettamente correlata alla prestazione e ai dati presenti al momento dell’effettuazione di essa. Circa la fattispecie della richiesta in garanzia di particolari beni, l’A. ritiene che, nonostante l’imprecisione testuale, l’aggravante presuppone che la richiesta dell’usuraio venga accettata; e sebbene si tratti di una clausola della pattuizione iniziale, non è escluso che possa innestarsi in un rapporto creditizio già in corso. Sulla valorizzazione del dato testuale del novellato art. 1815, 2o c., c.c., vedasi diffusamente Trib. Lecce, sentenza n. 745/2000, citata in nota 1, secondo cui « La circostanza che il legislatore abbia fatto espresso riferimento alla convenzione intervenuta tra le parti e non al mero fatto oggettivo per cui il contratto contiene la previsione di interessi oltre la misura consentita, è un dato testuale particolarmente significativo in una situazione in cui necessariamente il meccanismo di determinazione del tasso soglia porterà lo stesso a variazioni in aumento ed in ribasso che seguiranno l’andamento — positivo o negativo — del mercato finanziario (si pensi che l’oscillazione in un anno e mezzo è stata circa cinque punti in percentuale). Questa circostanza che certamente non poteva sfuggire al legislatore, deve far pensare ad una scelta ponderata nell’uso delle espressioni letterali contenute nella norma in esame ». (32) In dottrina si è anche individuato un possibile sdoppiamento tra la perfezione del reato (o momento consumativo formale), che si ha allorché si sono verificati tutti i requisiti richiesti dalla singola fattispecie legale nel loro contenuto minimo — cioè necessario e sufficiente per la punibilità del soggetto attivo — e la consumazione (o momento consumativo sostanziale), che si ha quando il reato perfetto ha raggiunto la sua massima gravità in concreto: MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1988, p. 404; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, cit., p. 502; PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, p. 139. Principio che ha trovato riscontro in alcune pronunce della Corte di cassazione: Sez. VI, 10 luglio 1995, Caliciuri, in Cass. pen., 1996, p. 2449, n. 1446, con osservazioni di RAMPIONI; e per analogo principio in altra fattispecie, cfr. Sez. II, 9 maggio 1994, Cipriano, in Giust. pen., 1995, II, c. 65. Nell’ambito di detta distinzione, si è allora ritenuto che il delitto di usura si consuma al momento della promessa, solo ove a detta promessa non consegua l’effettiva corresponsione di quanto pattuito; ‘‘ma se alla promessa segue la dazione siamo di fronte ad una condotta complessa, il cui ultimo segmento (la dazione) segna l’effettivo momento consumativo di un reato comunque già perfetto (ma non esaurito) al momento della promessa’’: così PISA, Le attuali difficoltà del delitto di usura, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1287, il quale sottolinea che ‘‘in realtà basta leggere la norma per accorgersi che la dazione degli interessi o vantaggi usurari è condotta prevista e punita dagli artt. 644 e 644-bis c.p.: fa parte a pieno titolo del fatto ‘‘aggiungendo che se la dazione avviene attraverso una pluralità di corresponsioni ogni singola dazione fa parte a pieno titolo del fatto incriminato’’.
— 1233 — Si può infatti parlare di ‘‘operazioni similari’’, solo con riferimento ad operazioni omogenee nel momento storico in cui è stata effettuata la prestazione; ed è sempre rispetto a questo parametro di partenza che si dovrà verificare se la dazione o la promessa rappresentino il momento esecutivo di un’operazione ab origine usuraria (33). La corresponsione di interessi divenuti usurari (o perché cambia il tasso soglia, o perché mutano i parametri di misura del compenso per mediazione, o perché si modifica il tasso medio per operazioni similari nella specie) non può, autonomamente considerata, avere rilevanza penale in alcuna delle tre fattispecie omogeneamente disciplinate dalla l. n. 108/1996. Orbene, nella fattispecie esaminata di mutuo a tasso fisso ed all’epoca della stipula lecito, l’assenza di una pregressa condotta penalmente rilevante non si vede come possa trasformare un effetto del reato, che presuppone l’integrale consumazione di esso già in un momento antecedente, in un elemento costitutivo di una condotta dotata di autonoma rilevanza penale. Il superamento nel tempo del tasso soglia non è di per sé sufficiente a determinare l’antigiuridicità del comportamento che, lo si ribadisce, era geneticamente lecito: viene a mancare il dolo, ed il comportamento del mutuante che pretende il pagamento del corrispettivo inizialmente pattuito, in assenza di un difetto genetico della causa del rapporto, non è censurabile in ambito penale, ‘‘in quanto trova la sua causa di giustificazione nell’esercizio di un diritto imposto da una norma giuridica, ai sensi dell’art. 51 c.p., che nel caso di specie richiama l’art. 1372 c.c., secondo il quale il contratto legittimamente stipulato ha forza di legge tra le parti e conserva, quindi, tutta la sua efficacia’’ (34). 2. I profili problematici relativi alla natura del reato. — Né condivisibile appare la tesi di un’asserita natura permanente (anziché istantanea con effetti permanenti) del reato di usura (35). Dall’indicazione del termine di decorrenza della prescrizione (ossia dall’art. 11 della l. n. 108/1996, ai sensi del quale « la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale »), taluno ha ritenuto non più sostenibile la tradizionale ricostruzione dell’usura, come reato istantaneo con effetti (eventualmente) permanenti, dovendo anche la dazione degli interessi rientrare a pieno titolo nel fatto di reato. Si è detto che il legislatore ha dettato un’interpretazione in ordine alla natura del reato, attribuendole la qualità di reato eventualmente permanente (36), anche (33) In questi termini, SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 529. (34) Cfr. LA TORRE, op. cit., p. 10. Sul punto, si ricorda Trib. Lecce, citato in nota n. 1, secondo cui « Ciò che si è voluto colpire con la nullità e gli effetti che se ne fanno derivare, è la possibilità, che, nel momento in cui si determina la volontà negoziale, vengano concordate condizioni del contratto espressamente in contrasto con la norma di legge che fissa il tasso usurario e non sicuramente la evenienza — peraltro assai probabile per quanto innanzi detto a proposito delle variazioni del tasso soglia — che gli interessi originariamente pattuiti entro limiti leciti, superino in un momento successivo tali limiti ». (35) AMMIRATI, op. cit., p. 93, parla espressamente di ‘‘abbaglio’’ del legislatore, in tema di art. 11 della l. n. 108, nel momento cui la ‘‘severità punitiva che caratterizza tutta la legge (e che è stata giustificata dall’emergenza), interviene sulla struttura giuridica del reato sì da trasformare quest’ultimo da ‘tipico reato istantaneo ad effetti permanenti’ in un vero e proprio ‘reato permanente’ seppur sui generis’’; si sono, in tal modo, letteralmente sconvolti ‘‘i parametri classici del momento consumativo del reato di usura, da sempre ritenuto istantaneo ad effetti permanenti e perfezionatosi già con la pattuizione usuraia’’. In questi ultimi termini, cfr. CRISTIANI, op. cit. (36) Cfr. MANNA, La nuova legge sull’usura, op. cit., p. 86, il quale reputa non convincente la classificazione del reato in oggetto come ‘‘quasi-permanente’’, oppure come reato a condotta complessa, in quanto entrambe le ricostruzioni dogmatiche negano che si tratti di reato permanente; propende, pertanto, per la classificazione del reato in esame come ‘‘eventualmente permanente’’, non intendendosi in tal modo far riferimento ad un’autonoma categoria di reati. Analogamente PADOVANI, sub art. 644 c.p., Milano, 1997, p. 2408, per il quale l’usura è divenuta un reato ‘‘eventualmente permanente’’, e ciò con
— 1234 — se, si è aggiunto, detta chiave di lettura appare ‘‘in contrasto con i termini con i quali il legislatore descrive la condotta tipica del reato, incentrata sulla dazione o sulla mera promessa di interessi usurari e, quindi, ben lontana dall’assumere un carattere di permanenza senza soluzione di continuità’’ (37). Sul punto, non sono mancate le obiezioni, attese le pregnanti implicazioni che la riconduzione del delitto in esame alla tipologia dei reati permanenti (o eventualmente permanenti) pone in una prospettiva sostanziale (si pensi all’applicazione della normativa più favorevole in caso di successioni di leggi, ovvero all’applicazione di altre cause estintive diverse dalla prescrizione, come l’amnistia o il condono) e processuale (si pensi alla competenza territoriale, alla disciplina dell’arresto, alla possibilità di instaurare un secondo giudizio), unitamente alla necessità, evidente nel mercato del credito legale, di avere come punto di riferimento parametri stabili e non fluttuanti (38). La disposizione dell’art. 644-ter, si è detto, giustamente, che risponde esclusivamente ad un’esigenza pratica: estendere nel grado massimo il termine di prescrizione del reato nell’evidente prospettiva di assicurare alla repressione dei fatti illeciti il maggior tempo per la celebrazione dei processi (39). La preoccupazione che una denuncia della vittima d’usura avvenisse oltre il maggiore aderenza alla realtà sociale ed economica del fenomeno, che si manifesta normalmente in rapporti stabili e continuativi. Sul punto vedasi anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, I, Delitti contro il patrimonio, II, 1998, p. 216; CAPERNA-LOTTI, Per una legge dalla struttura complessa il percorso guidato all’applicazione, in Guida al diritto, 1996 (12), p. 45; SILVA, op. cit., p. 132; TARGETTI, La legge sull’usura n. 108 del 1996: inquadramento giuridico ed esperienze operative dopo la sua entrata in vigore, cit.; ed anche vedasi GIOIA, Difesa dell’usura, in Atti del convegno in tema di Usura, organizzato dall’ITA s.r.l., il 20 aprile 1998 a Milano; ID., La peculiarità del caso affrontato dal provvedimento in esame, nota a Trib. Velletri, 3 dicembre 1997, in Il corr. giur., 1998, p. 196 ss.; ID., I riflessi civilistici di una sentenza penale, cit., p. 459. Ai fini della distinzione tra reati istantanei e permanenti, cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, 14a ed., a cura del Conti, Milano, 1997, p. 261, che definisce permanenti i reati nei quali il fatto che li costituisce dà luogo ad una situazione dannosa o pericolosa che si protrae nel tempo a causa del perdurare della condotta del soggetto. Sono istantanei tutti i reati in cui questa particolarità non si verifica. Pertanto, l’A. rileva che affinché si verifichi il reato permanente occorrono due condizioni: — che lo stato dannoso o pericoloso derivante dalla condotta del reo abbia carattere continuativo; non si esaurisca in un solo istante ma prosegua per un certo tempo; — che il protrarsi della situazione antigiuridica sia dovuto alla condotta volontaria del soggetto, la quale prosegue senza interruzione dopo la realizzazione del fatto che costituisce reato. Circa il richiamo operato dalla dottrina e dalla prassi alla nozione di reati istantanei con effetti permanenti l’ANTOLISEI reputa che tale ipotesi non meriti di assurgere a categoria autonoma di reato, perché quasi tutti i reati possono avere conseguenze dannose più o meno irreparabili e perché l’esistenza di simili conseguenze varia da caso a caso, anche nello stesso reato. Secondo il MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1997, p. 429, il reato permanente è reato unico. Si ‘‘perfeziona’’ non nel momento in cui si instaura la situazione offensiva, ma nel momento in cui si realizza il mimimum di mantenimento di essa, necessario per la sussistenza di tale reato. Prima di tale momento si avrà al più il tentativo. Si ‘‘consuma’’, invece, nel momento in cui cessa la condotta volontaria del mantenimento, il quale può essersi protratto ben oltre il minimo necessario. Sul tema, con i più ampi riferimenti bibliografici, si rinvia a COPPI, Reato permanente, in Dig., Disc. pen., XI, 1996, p. 318. (37) Cfr. PROSDOCIMI, La nuova disciplina del fenomeno usurario, cit., p. 779, nonché SANTACROCE, La nuova disciplina penale dell’usura, cit., p. 969; vedasi anche PISA, Effetti dei tassi di riferimento usurari sui rapporti negoziali in atto, in Dir. pen. e proc., 1988, 5, p. 536, per il quale il fatto che la norma incriminatrice includa, oltre il farsi promettere, anche il farsi dare interessi e vantaggi usurari, induce a ritenere che una condotta così tipizzata non possa divenire un post factum non punibile, estraneo alla struttura del delitto di usura. (38) In questi termini MANZIONE, op. cit., p. 80, il quale aderisce alla tesi del reato istantaneo ad effetti eventualmente permanenti. (39) Così MUCCIARELLI, op. cit., p. 567, secondo cui il reato di usura si consuma in due distinti momenti, dipendenti dalle due differenti modalità descritte dalla norma. L’A. richiama la distinzione, in dottrina, tra momento consumativo formale e momento consumativo sostanziale, e precisa che con riferimento alla ‘‘promessa’’, nessun dubbio che, per determinare il momento consumativo del reato, si dovrà aver riguardo al momento in cui la promessa viene fatta; quando alla ‘‘promessa’’ faccia seguito l’effettiva
— 1235 — tempo della sua perseguibilità, assai concreta nella precedente formulazione dell’art. 644 c.p., ha trovato, nell’attuale modificato ed omogeneizzato assetto sanzionatorio, una risposta sicuramente più appagante, risultando elevato, per ogni forma di usura, il termine prescrizionale a dieci anni. E la circostanza che la prescrizione sia stata fatta decorrere dalla restituzione del capitale mutuato, ha fatto considerare l’usura come un reato permanente, senza tuttavia essere divenuta tale (40). In senso particolarmente critico, il Cristiani (41) è ricorso ad un rilievo di tipo formale: ‘‘il fatto che per un particolare reato sia stata espressamente richiamata la regola di decorrenza della prescrizione prevista per i reati permanenti dimostra che a quella fattispecie, senza quello specifico dettato normativo, l’art. 158 c.p. non sarebbe stato applicabile. Ma la norma in esame contiene un dato, di schietta natura sostanziale, che offre uno spunto critico risolutivo: la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione, sia degli interessi che del capitale. Siamo, macroscopicamente, di fronte ad una regola innovativa assoluta, che stabilisce, nell’ambito di un reato, una decorrenza prescrizionale agganciata anche ad una condotta (la riscossione del capitale) del tutto irrilevante per la fattispecie. Ora, se le finalità pratiche cui il legislatore si è ispirato, sono evidenti ed intuitive, è altrettanto evidente che la portata dell’art. 644-ter va intesa nella sua originale autonomia e non può essere ingigantita fino alla pretesa, ed errata, metamorfosi di una figura delittuosa, il cui momento consumativo è, e resta, quello tipico del reato istantaneo ad eventuali effetti permanenti’’ (42). Un’altra serie di considerazioni, poi, vanno ricollegate proprio alla nuova struttura del reato; l’usura, come è noto, è individuata tramite il superamento dei tassi-soglia: ogni tre mesi l’apposito decreto dei Ministero del tesoro stabilisce quale è il limite al di sopra del quale gli interessi sono da considerare usurari. Essi, dunque, possono ricevere variazioni in un rapporto di durata, che ne accompagna tutta o parte della vita, sicché, se il reato in questione dovesse considerarsi permanente, l’illecito potrebbe essere riconnesso ad ogni « dazione » di interessi pretesi dall’usuraio, con la conseguenza che, anche a voler valutare il rapporto nella sua « interezza », si perderebbe il parametro di riferimento certo dell’usurarietà dei tassi che diventerebbe « flottante » di trimestre in trimestre. Ciò, oltre a ‘‘non essere sintonico’’ con le scelte legislative, comporterebbe, dazione dell’interesse usurario, sarà al momento della corresponsione dell’interesse stesso che dovrà farsi riferimento per stabilire il momento di consumazione del reato. Ritiene, pertanto, errata l’impostazione sistematica di quella parte della giurisprudenza che ha inquadrato il delitto di usura come reato istantaneo ad effetti permanenti; e non reputa condivisibile la tesi di chi vede nel reato di usura la natura del reato permanente. Precisa: ‘‘a venire in rilievo, quando alla fase della promessa segua la dazione degli interessi, è unicamente quest’ultima forma di realizzazione del reato, che, coerentemente, con la più attenta dottrina, corrisponde al momento nel quale il fatto raggiunge ‘la sua massima gravità concreta, (...) uno svolgimento completo dell’illecito’, essendo al di fuori di ogni logica far decorrere il momento iniziale della prescrizione da una fase nella quale l’offesa tipica non ha ancora raggiunto il suo termine massimo’’. In senso conforme, vedasi CERASE, op. cit. (40) Cfr. MANZIONE, op. cit., p. 83. Vedasi sul punto anche l’opinione critica della MASULLO, Usura e permanenza, op. cit., 545 e ss. (41) CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, Giappichelli, 1996, p. 39; cfr. dello stesso A., La nuova legge sull’usura al filtro della giurisprudenza sugli artt. 644 e 644-bis del codice penale, Relazione al convegno nazionale su Usura e riciclaggio: la recente normativa, Empoli, giugno 1996; contra anche MUCCIARELLI, op. cit., p. 568. (42) Contra CERASE, op. cit., p. 2597, secondo cui nel nuovo testo è confermata la superfluità delle nozioni di reato eventualmente permanente o istantaneo a effetti permanenti.
— 1236 — come si è rilevato (43), l’alternativa tra un costante « aggiornamento » del contratto che abbia come riferimento i tassi di volta in volta praticati ad ogni corresponsione di interessi, ovvero un andamento « sinusoidale » del delitto che potrebbe per avventura nascere come contratto lecito, divenire usurario alla variazione dei tassi (o viceversa) e così via discorrendo (44). Il parametro idoneo a verificare l’usurarietà dei tassi è, dunque, quello iniziale collegato alla promessa, intesa come condotta sufficiente e necessaria per la punibilità. Ogni singola dazione degli interessi, in ipotesi di usurarietà degli interessi acclarata nel momento iniziale dell’incontro delle volontà, assumerebbe la qualità di effetti successivi alla consumazione del reato. Questa tesi trova conforto anche nell’opinione dell’Antolisei (45), secondo cui ‘‘La consumazione si verifica nel momento in cui gli interessi o vantaggi usurari sono dati o semplicemente promessi, e cioè nel momento della pattuizione’’. Simili considerazioni rendono ancora preferibile l’opzione ‘‘per la coincidenza tra momento consumativo del delitto e perfezionamento della fattispecie negoziale a contenuto usurario’’ (46), con eventuale permanenza degli effetti ove il danaro o le utilità vengano successivamente versate in esecuzione del patto posto in essere. L’art. 11 cit. può avere un significato autonomo rispetto all’art. 158 c.p. — il quale, come è noto, stabilisce che la prescrizione decorre dal momento di consumazione del reato — solo se si pone come eccezione ad esso, rappresentando ‘‘altrimenti un inutile doppione di un principio generale già codificato’’ (47). In via d’eccezione, pur non consumandosi il reato all’atto dell’ultima riscossione, la prescrizione decorrerebbe invece da essa (48). L’art. 11 l. n. 108/1996, nella lettura sostanziale che se ne vuol dare, non contiene dunque alcun elemento di novità rispetto alla regola che individua nel momento di consumazione di un fatto costituente reato il dies a quo per la decorrenza degli interessi. La norma in questione finisce così per introdurre un’eccezione di tipo proce(43) Cfr. MANZIONE, Usura e mediazione creditizia, Milano, 1998, p. 83 ss.; nonché NAVAZIO, Usura, Giappichelli, 1998, pp. 178-179. (44) Cfr. MANZIONE, op. cit., p. 83, sottolinea in nota che l’esempio fatto nel testo non riguarda, ovviamente, i casi di novazione (o in genere quelli in cui le variazioni nel rapporto non consentano di considerarlo come mera « prosecuzione » del precedente) del contratto, rispetto ai quali l’aggiornamento delle condizioni ai tassi vigenti al momento della stipula appare doveroso (in questo senso, del resto, cfr. ABI, Lettera circolare). Esso, rileva l’A., è tutt’altro che ‘‘di scuola’’. Basti pensare, in proposito, ai primi due d.m. sui tassi-soglia: il primo (d.m. 22 marzo 1997, cit.) non prevedeva come autonoma categoria di operazione il prestito su cessione del quinto dello stipendio; il secondo (d.m. 24 giugno 1997, cit.) ha invece previsto tale categoria, segnalando la novità con un’annotazione che spiega l’autonoma rilevanza di operazioni rispetto alla categoria ove erano in precedenza ricompresi (‘‘finanziamenti alle famiglie di consumatori’’) sulla base delle loro caratteristiche uniformi. Chi avesse stipulato il contratto di mutuo con cessione del quinto dello stipendio nel periodo della prima rilevazione avrebbe avuto un ‘‘tetto’’ variabile tra il 16,12% (finanziamento effettuato da banche) ed il 28,81% o il 25,23% (finanziamento effettuato da intermediari non bancari) a seconda dell’entità prestito. La seconda rilevazione (nell’ambito della quale non si fanno differenze, a seconda dell’ente erogatore) avrebbe consentito nel primo caso una elevazione dei tassi fino al 24,39% o al 20,66% (a seconda della classe di importo), ma avrebbe potuto mettere ‘‘fuori legge’’ i contratti del secondo caso citato. (45) ANTOLISEI (12a ed. aggiornata ed integrata dal Conti), Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, 1996, p. 371. (46) Così, con riferimento alla vecchia ipotesi delittuosa, VIOLANTE, Usura (delitto di), in Nss. Dig. it., XX, Utet, 1975, p. 387; in relazione alla nuova figura di reato, cfr. MANZIONE, op. cit., p. 84, nota 164; CAVALLO, Una nuova disciplina, cit, p. 3228; PALOMBI, La nuova struttura, cit., p. 31. (47) Così SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 531. (48) Concorda sul punto il CARACCIOLI, op. ult. cit., in Guida al diritto, 27 marzo 1999, p. 85, secondo cui il fatto che la prescrizione per l’usura decorra dall’ultima riscossione non implica automaticamente che sia quello il momento consumativo del reato: ‘‘il reato può consumarsi anche in un momento antecedente e il legislatore prevedere un dies a quo eccezionale per la prescrizione’’.
— 1237 — durale, chiaramente sottolineata dalla Di Benedetto: ‘‘ancorché il reato di usura non sia a condotta permanente e quindi non si consumi con l’ultima riscossione di interessi o capitale, la prescrizione — in linea con una scelta legislativa di cui ben si intuiscono le matrici sociali e di politica criminale — inizia a produrre i propri effetti processuali solo da tale momento’’. Peraltro, sostiene efficacemente quell’A., anche a voler aderire alla tesi del reato permanente, ‘‘ciò non ascriverebbe, di per sé, autonoma rilevanza alla condotta di dazione o riscossione di interessi’’. Secondo autorevole opinione (49), infatti, il reato permanente « non è costituito da due o più condotte, ma da un’unica condotta che, protraendosi nel tempo, gli fa assumere carattere permanente ». Occorre, dunque, pur sempre un’iniziale condotta illecita che si protragga nella sua esecuzione. Nel caso di specie, ed a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 108/1996 e dei decreti ministeriali attuativi, o l’iniziale condotta illecita si radica nella pattuizione di interessi già in quel momento superiori al tasso-soglia, ed allora la dazione rappresenterà il protrarsi nel tempo della condotta ab origine criminosa; ovvero, se l’originaria pattuizione è inferiore al tasso-soglia del momento, o addirittura è fuori dall’ ambito di operatività della rilevazione del tasso perché perfezionata prima dell’entrata in vigore della legge, la dazione che ne rappresenti la puntuale esecuzione non trova alla sua origine un comportamento illecito di cui possa rappresentare la protrazione. La configurazione del reato come istantaneo ad effetti permanenti ovvero come permanente (pur preferendosi la prima soluzione), non è il vero nucleo centrale del problema (50), il quale consiste essenzialmente nel verificare se il momento della pattuizione sia stato o meno escluso — nella nuova configurazione della fattispecie — dal novero degli elementi costitutivi della condotta, per essere relegato al rango di mero presupposto di una condotta di dazione autonomamente sufficiente ad assumere rilevanza penale. La configurazione della pattuizione come mero presupposto del reato determinerebbe una posticipazione della soglia di consumazione al momento della dazione, con conseguente ampliamento delle aree di impunità o di punibilità a mero titolo di tentativo. Si finirebbe, avverte il limpido ragionamento dell’A., per spostare la punibilità a titolo di reato consumato alle sole ipotesi di promessa seguita da dazione, per far regredire a titolo di tentativo l’accettazione di una promessa di restituzione di interessi superiori al tasso soglia e per escludere la punibilità della pattuizione, in quanto essa, se configurata come presupposto della condotta, potrebbe rimanere esclusa dal novero degli atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere il reato. Sono evidenti le incongruenze, superabili, invece, se la norma fosse interpretata, così come il ‘‘testo, la ratio e la comparazione sistematica’’ inducono, nel senso che promessa e dazione rappresentano due modalità alternative della condotta, con la conseguenza che l’accettazione della promessa rappresenta un elemento necessario e sufficiente per la consumazione del reato, rispetto alla quale la dazione sposta eventualmente il termine da cui decorre la prescrizione. (49) Cfr. RAMPIONI, Contributo alla teoria del reato permanente, Padova, 1988, p. 65 ss. Sul tema vedasi anche DE FRANCESCO, Profili strutturali e processuali del reato permanente, in questa Rivista, 1977, p. 558; PAGLIARO, Principi di diritto penale, 6a ed., Milano, 1998, p. 500 ss., ribadisce che il reato permanente è reato unico e non una forma di connessione di reati. Difatti, gli effetti tipici del reato permanente sono sempre quelli del reato unico e mai quelli della pluralità di reati. (50) Cfr. SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., p. 533.
— 1238 — Peraltro, e trattasi di un ulteriore argomento speso con acume dalla dottrina appena richiamata, il legislatore, anche nella fase di passaggio dall’una all’altra regolamentazione, ha scelto un modello normativo strettamente legato alle modalità della pattuizione presenti nel momento in cui essa è stata concordata’’, precludendo ogni possibilità interpretativa che, scavalcando il momento della formulazione-accettazione della promessa conferisca autonoma rilevanza al solo momento della dazione-ricezione di interessi divenuti ex post superiori al tasso soglia’’. Questi argomenti assai logici e coerenti dal punto di vista della tecnica penale, rendono persuasiva quella tesi che elegge il reato di usura a ‘‘reato-contratto’’, la cui perfezione è proprio ciò che la legge intende vietare (51) e nel quale la condotta punita consiste nella conclusione di un negozio, in cui l’incontro delle volontà può essere sufficiente per la punibilità, senza che risulti necessaria un’attività di esecuzione del contratto (52). Altrimenti, contrariamente opinando, sarebbe assurdo e contrario ai principi di legittimità costituzionale (53), ritenere che una pattuizione lecita sia ai sensi dell’art. 644 c.p., sia ai sensi dell’art. 3 della l. n. 108/1996, sia anche al d.m. temporalmente riferibile per la rilevazione dei tassi soglia, possa un giorno, attesa la durata del contratto di mutuo (54), a tasso fisso, configurare un’ipotesi di usurarietà determinata esclusivamente dall’imperscrutabile dinamica del mercato monetario, frutto di mille variabili estranee all’originaria lecita pattuizione. 3. L’opinione dell’ABI e del Governatore della Banca d’Italia. — Sul punto, giova anche richiamare l’opinione espressa dall’ABI (55), con riguardo al problema della sorte dei rapporti posti in essere antecedentemente all’entrata in vigore della l. n. 108/1996, ed al momento consumativo del reato. Circa la sorte dei rapporti precedenti, si è sottolineato che essi non dovrebbero essere interessati dalla normativa citata, ove si tratti di operazioni a tasso fisso ovvero a tasso indicizzato in base a parametri oggettivi prestabiliti (tus, prime rate, libor, ribor, rolint, ecc.). Anche se i relativi tassi effettivi globali dovessero essere superiori ai tassi soglia, non vi sarebbe obbligo di alcun intervento di adeguamento, sulla scorta del principio di irretroattività sancito dall’art. 2 del c.p. (56). (51) Cfr. MANZIONE, op. cit., p. 85; nonché PERLINGIERI, Rapporti costruttivi tra diritto penale e diritto civile, in Rass. di dir. civ., 1997, p. 117; INGANGI, Concreta applicazione delle nuove norme sull’usura e conseguenze civilistiche del reato sui contratti usurari, in Riv. pen. ec., 1996, p. 314. In generale sul tema del reato-contratto, cfr. DOLCE, Considerazioni sul contratto penalmente illecito, in La Scuola positiva, 1959, p. 221 ss. (52) Cfr. CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, cit., p. 116. In generale, vedasi LEONCINI, I rapporti tra contratto, reati-contratto e reati in contratto, in questa Rivista, 1990, p. 997. (53) La SEVERINO DI BENEDETTO evidenzia il rischio di naufragio al vaglio di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3, 25 e 41 Cost., ove si aderisse ad un’interpretazione che non faccia retroagire gli effetti della rilevazione del tasso soglia al momento della pattuizione. (54) Di durata viene ritenuta, senza contrasti, l’obbligazione di interessi in favore del mutuante, cfr., FRAGALI, Del mutuo, nel Comm. del cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, artt. 1813-1822, BolognaRoma, 1966; TETI, Il mutuo, nel Trattato di dir. priv., diretto da Rescigno, 12, Torino, 1985, p. 663. (55) Cfr. Lettera circolare 20 marzo 1997, prot. n. LG/002047, recante chiarimenti alla normativa di cui alla l. n. 108 del 1996. (56) La circolare richiama a conforto l’opinione di ALIBRANDI, Profili di responsabilità penale in relazione alla manifestazione del reato di usura, cit. Come è noto, il panorama normativo si è di recente arricchito, con l’art. 10 della Legge 30 aprile 1999, n. 136, in G.U. n. 114 del 18 maggio 1999 — Supplemento Ordinario n. 97, e l’art. 29 della L. 13 maggio 1999, n. 133, in G.U. n. 113 del 17 maggio 1999 — Supplemento ordinario n. 96, che ha regolato la rinegoziazione dei mutui concessi per il finanziamento dell’edilizia agevolata e convenzionata, ed infine, con l’art. 46 della L. 23 dicembre 1999, n. 488 (legge finanziaria ’99) che ha autorizzato il Ministro del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica a rinegoziare tutti i mutui con oneri a totale o parziale carico dello Stato le cui condizioni siano disallineate rispetto a quelle medie praticate sul mercato per operazioni di natura analoga. Per quanto concerne i mutui concessi per il finanziamento dell’edilizia convenzionata, il legislatore con l’art. 10 della L. n. 136/99
— 1239 — Viceversa, in ipotesi di operazioni a tasso variabile di iniziativa dell’intermediario, l’Associazione ha precisato che ‘‘sarà necessario verificare se le eventuali variazioni da apportare risultino entro i limiti massimi stabiliti dalla legge. Tale fattispecie, infatti, pur innestandosi su un rapporto antecedentemente acceso, si atteggia nella sostanza quale nuovo rapporto per quanto attiene alla modifica del precedente trattamento economico, onde essa va valutata allo stesso modo dei rapporti accesi nel periodo di riferimento della rilevazione dei tassi medi’’. Con specifico riguardo al momento consumativo del reato, si è fatto notare che l’attuale dizione dell’art. 644 c.p. ricalca la formulazione della pregressa norma (vedasi anche il previgente art. 644-bis), per cui appare ragionevole ritenere ancora valido l’orientamento seguito dalla giurisprudenza formatasi prima della novella del 1996, secondo il quale il comportamento usurario si consolida all’atto della pattuizione del credito, qualificandosi il reato in parola come istantaneo nel caso di contestuale corresponsione ovvero come istantaneo ad effetti permanenti in caso di corresponsione successiva. Conclusione questa che non verrebbe contraddetta dall’innovazione recata dal menzionato art. 644-ter, che ‘‘trova esclusiva ragione nella volontà del legislatore non di mutare la configurazione dell’illecito in esame, ma di estendere allo stesso (inteso pur sempre come reato istantaneo) specifici effetti processualistici altrimenti inapplicabili’’ (57). A tali considerazioni, si aggiungono, le autorevoli riflessioni del Governatore della Banca d’Italia contenute della Relazione (cfr. p. 367) all’Assemblea dei partecipanti, in data 30 maggio 1998. Viene detto, difatti, a conferma della centralità del momento della pattuizione, che: ‘‘Le rilevazioni dei tassi effettivi globali medi sulle operazioni di finanziamento — fatta eccezione per le aperture di credito in conto corrente, per gli anticipi di sconto di effetti commerciali e per operazioni di factoring — si riferiscono ai tassi relativi ai contratti stipulati nel trimestre. Tale impostazione riflette il principio secondo il quale la presenza di tassi di usura deve essere valutata con riferimento alle condizioni di mercato all’atto dell’erogazione dei prestiti o dell’accensione dei mutui’’. 4. La recente svolta giurisprudenziale: rilievi critici; un’interessante ordinanza del Giudice delle Indagini Preliminari presso il Tribunale di Lecce a conferma della centralità del momento della pattuizione. — Si tratta di considerazioni ha dettato una norma quadro di natura programmatica disponendo che i tassi di interesse dei mutui concessi per interventi di edilizia agevolata possono essere oggetto di rinegoziazione sulla base del tasso medio effettivo globale rilevato ai sensi dell’art. 2 della L. n. 108/96. A distanza di pochi giorni dall’emanazione della L. n. 136/99, il legislatore ha integrato l’art. 10 con l’art. 29 della L. 13 maggio 1999, n. 133, che nel quadro delle disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale, prevede che gli enti concedenti contributi agevolati e le persone fisiche e giuridiche destinatarie di tali agevolazioni, possano chiedere all’istituto mutuante la rinegoziazione del mutuo, ove il tasso di interesse convenuto risulti superiore al tasso effettivo globale medio per le medesime operazioni, determinato ai sensi dell’art. 2 della L. n. 108/96, vigente alla data della richiesta. Il recente decreto ministeriale 24 marzo 2000, n. 110, in G.U. 9 maggio 2000, n. 106, ha adottato il regolamento per l’attivazione della rinegoziazione. In particolare, sia il soggetto mutuatario che l’ente concedente i contributi agevolati possono richiedere, anche in modo disgiunto, di rinegoziare il tasso dei mutui una sola volta per ciascun mutuo. L’unica condizione richiesta, affinchè il mutuatario possa beneficiare degli effetti della rinegoziazione, è il regolare pagamento delle rate già scadute. Per un breve commento, vedasi SAPORITO, Rinegoziazione per i mutui dell’edilizia, in Sole 24 ore, 11 maggio 2000, 27 e NIGRO, Il regolare pagamento delle rate scadute unica condizione per adeguare i tassi, in Guida al Diritto, 27 maggio 2000, 19 e ss. (57) Cfr. in tal senso, CRISTIANI, Guida alle nuove norme sull’usura, cit., pp. 32-40; DE NOVA, Il contratto di credito usurario, Relazione al convegno Le istruzioni di vigilanza, cit.; vedasi anche DOLMETTA, Contratti di credito e usura: la questione della disciplina di diritto intertemporale, in Atti del convegno Contratti di finanziamento - Rinegoziazione e oneri di estinzione anticipata, cit.
— 1240 — che non paiono superate dall’orientamento espresso dalla Corte di legittimità (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 1077 del 22 ottobre 1998) (58) che, in tema di qualificazione del reato di usura, cambiando il precedente orientamento, ha ritenuto che l’identificazione del momento consumativo debba essere approfondita alla luce della radicale riforma del quadro normativo delineatosi con la l. 7 marzo 1996, n. 108. In sostanza, la Suprema Corte non ha ravvisato nel momento della pattuizione la condotta tipica della fattispecie criminosa di cui all’art. 644 c.p., così degradandosi la periodica, talora prolungata per numerosi anni, corresponsione da parte della vittima dei medesimi interessi o vantaggi ad un post factum penalmente irrilevante. La tradizionale elaborazione giurisprudenziale che qualificava il reato di usura come reato istantaneo con effetti eventualmente permanenti, nel senso che esso si consuma nel momento della stipula del patto usurario pur perdurandone le conseguenze nel tempo — in caso di promessa seguita da dazione — senza il compimento di un’ulteriore attività da parte dell’agente (...), è parsa incompatibile con il rilievo assegnato all’ ‘‘ultima riscossione’’ degli interessi usurari pattuiti, ai sensi dell’art. 644-ter del codice penale, introdotto dall’art. 11 della l. n. 108/1996, in tema di prescrizione del reato. Alla Suprema Corte è sembrato più convincente e condivisibile, alla stregua dell’odierno assetto normativo dell’istituto, ritenere la dazione effettiva degli interessi, facente parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segnare, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo « sostanziale » del reato: una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria della « permanenza » — eventuale — del reato, ma configurabile secondo il duplice ed alternativo schema (...) della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione prolungata (quale, ad esempio, la truffa inerente al conseguimento di prestazioni ed erogazioni periodiche da parte della P.A.). (58) Cfr. l’Esperto risponde, in Il Sole-24 Ore, 21 febbraio 1999, l’inserto ‘‘ Banche e clienti’’, a cura di E. Gianfelici ed F. Gianfelici, in cui è riportato uno stralcio della sentenza. Sul punto, vedasi per un brevissimo commento anche Il Sole-24 Ore del 26 febbraio 1999, p. 31, Usura, la Cassazione riapre il dibattito. La sentenza è riportata in parte in Guida al diritto, Il Sole-24 Ore, n. 12 del 27 marzo 1999, con commento di CARACCIOLI, Di fronte al rebus sulla consumazione scelta la via della ‘‘condotta frazionata’’; è anche pubblicata in Il Foro italiano, 1999, p. 522 ss. con commento di ZANCLA. La si ritrova, inoltre, per esteso con commento adesivo di PISA, Una sentenza innovativa, in Dir. pen.e proc., 1999, p. 86 ss. Di quest’ultimo A., vedasi anche: Effetti dei tassi di riferimento usurari sui rapporti negoziali in atto, cit., p. 536, nonché La configurabilità del delitto di usura, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 747. In senso concorde, cfr. GIOIA, I riflessi civilistici di una sentenza penale, nota a Cass. pen., Sez. I, 22 ottobre 1998, cit.; SOANA, Novità sul momento consumativo del delitto di usura, in Cass. pen., 1999, p. 677 ss. Per un commento in ordine agli effetti del nuovo orientamento, scaturito dalla sentenza in esame, vedasi la relazione di LA GRECA, Sentenza della Corte di cassazione (n. 1077/98) e l’obbligo di rinegoziare i finanziamenti, in Atti del convegno ITA s.r.l., Milano, 7 maggio 1999, per il quale ‘‘se si tiene conto del contenuto decisorio e della motivazione della sentenza n. 1077/98, delle valutazioni che si sono fatte in ordine ai possibili sviluppi giurisprudenziali e dell’innegabile coerenza interna delle argomentazioni che valorizzano il carattere usurario anche sopravvenuto delle dazioni, deve ritenersi che l’esazione di interessi originariamente leciti ma successivamente divenuti tali da assumere carattere usurario espone il richiedente al rischio di incriminazioni ai sensi dell’art. 644 c.p., pur con l’ovvia considerazione che ogni singola situazione andrebbe considerata in modo specifico, ponendo attenzione all’intera configurazione della fattispecie. Quando il creditore abbia agito nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare, sotto il profilo penalistico, corrisponderebbe, quindi ad un criterio di prudenza l’aderire — se ne ricorrono le condizioni — alla rinegoziazione dei prestiti’’. In tema, cfr. anche Cass., sez. II, 30 aprile 1999, Lopez, in Gazz. giur., 1999, 28 25-26. Per un recente commento critico all’opinione della Suprema Corte, vedasi anche MASULLO, op. ult. cit., 546.
— 1241 — Aggiungendo che ‘‘sarebbe davvero distonico, rispetto al consueto atteggiarsi — nella realtà sociale ed economica — del fenomeno usurario, sostenere l’estraneità alla struttura della fattispecie criminosa di quella modalità di realizzazione dell’illecito — la dazione degli interessi —, nella quale indubbiamente s’identifica la completa esecuzione del delitto e il massimo approfondimento della concreta e progressiva lesione dell’interesse protetto’’. Nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte è sottolineata la rilevanza penale dell’effettiva dazione degli interessi usurari, in un particolare contesto in cui sin dal suo sorgere l’attività si appalesa usuraria. Sicché, il menzionato percorso argomentativo non si dimostra estensibile, in chiave generale, a situazioni del tutto differenti, ad esempio alle ipotesi di mutui bancari in cui la pattuizione degli interessi si dimostra, al contrario, lecita sin dall’origine e si è verificata antecedentemente all’entrata in vigore della l. n. 108/1996. Inoltre, anche a seguire il richiamo della Corte alla categoria dei delitti a condotta frazionata o a consumazione prolungata, in essi, si noti bene, sin dall’inizio l’autore è ben consapevole che la sua azione darà luogo ad un evento che continuerà a prodursi nel tempo con la realizzazione degli illeciti profitti man mano maturatisi con altrui danno, identificandosi, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria condotta illecita, la completa esecuzione del delitto e il massimo approfondimento della concreta e progressiva lesione dell’interesse protetto, e perciò il momento consumativo ‘‘sostanziale’’ del reato (così Cass. pen., Sez. II, 9 maggio 1994, Cipriano, in C.E.D. Cass. n. 198045 o in Giust. pen., 1995, II, c. 65; vedasi anche Sez. II, 25 novembre 1986, Di Lonardo, in Cass. pen., 1988, 871, n. 730). In sostanza, anche nella categoria dei delitti a condotta prolungata o frazionata la riscossione degli interessi usurari è legata, sempre, ad una iniziale illecita pattuizione degli stessi. Peraltro, anche il richiamo, operato dalla Corte, al reato di truffa in assunzione in un pubblico impiego, appare poco calzante alla luce del recente orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (59), incentrato su due ordini di problemi strettamente connessi sotto un profilo logico-giuridico: quello concernente la natura e conseguentemente il momento consumativo del reato e quello attinente all’individuazione del danno patito dalla Pubblica Amministrazione che assume il soggetto. In ordine al primo punto, che in questa sede interessa, già oggetto in passato di varia interpretazione giurisprudenziale (60), le Sezioni unite aderiscono, infatti, alla tesi secondo cui il reato avrebbe natura istantanea, configurandosi il momento (59)
Cfr. Cass., Sez. un., 19 gennaio 1999, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 860 ss., con nota di PAO-
LILLO, La natura giuridica della truffa ‘‘in assunzione in un pubblico impiego’’; anche in Cass. pen., 1999,
p. 1414 ss., con nota di FENU, Truffa ai danni di ente pubblico per assunzione all’impiego. Momento consumativo del reato. Profitto e danno; ed ancora sul tema vedasi il contributo di LEONCINI, La truffa in assunzione ad un pubblico impiego, in Cass. pen., 1999, p. 2482 ss., e di ARIOLLI, La truffa volta al conseguimento di un pubblico impiego: qualificazione giuridica del fatto, consumazione del reato e termine prescrizionale, in Cass. pen., 1999, p. 2098 ss. (60) Secondo un primo indirizzo, il reato sarebbe istantaneo, consumandosi con la nomina del soggetto al pubblico impiego (cfr. Cass., Sez. II, 13 giugno 1985, in Giust. pen., 1987, II, p. 268; Cass., Sez. II, 24 ottobre 1983, in Giur. it., 1984, II, p. 281); altra opinione ha affermato nell’ipotesi di riscossione di assegno di studio ottenuto con frode, che la riscossione di assegni successivi al primo costituisca una pluralità di eventi dannosi e quindi una serie di atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, cioè un reato continuato (Cass., Sez. I, 27 febbraio 1979, in Riv. pen., 1980, p. 55); infine, si è sostenuto che il reato perdura fino a che non siano interrotte le riscossioni — per la volontà del soggetto attivo o iniziativa di quello passivo — e il momento consumativo viene a coincidere con la cessazione dell’attività (illecita). Il reato non si configurerebbe come continuato o permanente, ma come reato a consumazione prolungata, perché l’azione ha dato luogo a evento che si riproduce nel tempo permettendo all’agente di rea-
— 1242 — consumativo nell’indebita nomina al pubblico impiego, mentre la successiva percezione delle retribuzioni assurgerebbe a post factum penalmente irrilevante e non punibile (costituendo la retribuzione la controprestazione per l’attività lavorativa svolta; essa, sebbene prestata in forza di un rapporto lavorativo nullo per violazione di norme imperative, legittimerebbe ugualmente il soggetto a percepire la retribuzione medesima). Insomma, è solo dal momento della nomina all’impiego, ottenuta con la presentazione di documentazione falsa certificante il possesso di determinati requisiti, che si realizzerebbe il profitto ingiusto con l’altrui danno. Ritornando alla fattispecie del mutuo bancario, stipulato ante l. n. 108/1996, a tasso all’epoca congruo, giova segnalare l’ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Lecce, in data 11 novembre 1999, la prima, a quanto consta, ad affrontare lo specifico tema in esame, disponendo, a fronte di una richiesta di archiviazione del P.M. (motivata da consulenza tecnica accertante la congruità del tasso contrattuale del mutuo) e di un atto di opposizione da parte del denunciante, l’archiviazione del procedimento e la restituzione degli atti al P.M. In sostanza, una volta acclarata la liceità del tasso contrattuale del mutuo, stipulato nell’ottobre del 1982, il G.I.P., dato atto che ‘‘trattasi di contratto in cui le parti non solo stabiliscono al momento della contrattazione il tasso di interesse ma quel tasso viene trasfuso nelle rate preordinate e concordemente accettate’’, precisa che ‘‘la modifica dell’art. 644 c.p. non può incidere su siffatti contratti che hanno una loro precipua stabilità, anche con riferimento alle fonti di approvvigionamento della provvista da parte della Banca stipulante; fonti che vengono acquisite sulla base del tasso di interesse al momento vigente’’. La sensibilità del Giudice in ordine alla congruità del tasso convenzionale e, dunque, al profilo del confronto tra il tasso contrattualmente convenuto per il mutuo erogato ed il costo della provvista, sostenuto dalla Banca, induce qualche riflessione sul versante dell’attività di provvista (ossia della raccolta dei fondi) nel comparto del credito fondiario. Giova ricordare che, storicamente (61), gli Istituti di credito fondiario si approvvigionavano mediante emissione e collocamento di titoli denominati ‘‘cartelle fondiarie’’. Esse costituivano veri e propri titoli di credito recanti la diretta obbligazione dell’Istituto emittente di pagare al possessore alla scadenza la somma indicata e i relativi interessi, nonché caratterizzate dal requisito della letteralità ed autonomia. L’intero meccanismo, dall’emissione all’annullamento titoli, era disciplinato dal T.U. approvato con r.d. 16 luglio 1905, n. 646 e dal relativo regolamento approvato con r.d. 5 maggio 1910, n. 472, i quali s’ispiravano al sistema germanico, basato su una strettissima correlazione tra provvista ed impiego; infatti le cartelle erano emesse a fronte delle singole operazioni attive al momento della loro definizione. In perfetta armonia con il sistema germanico, anche con l’emanazione della legge bancaria del 1936 (62), l’unico limite al principio della libera emissione divenne quello della preventiva definizione delle singole operazioni di mutuo. lizzare illeciti profitti maturati via via con danno altrui (Sez. II, 9 maggio 1994, in Giust. pen., 1995, II, c. 65; v. anche Sez. II, 25 novembre 1986, in Cass. pen., 1988, p. 871, n. 730). (61) Cfr. in dottrina: FABRIZI, Il credito fondiario ed il credito edilizio, Angeli, Milano, 1977; ONADO, Evoluzione del credito fondiario in Italia nel secondo dopoguerra, Milano, 1967; NOTO, Il credito fondiario, Milano, 1989; TARDIVO-VENTOLA, Il credito fondiario ed edilizio nella legislazione vigente, 2a ed., Roma, 1988; MURÈ, voce Credito fondiario, in Enc. dir., Milano, 1962, vol. XI; MOGLIE, Credito fondiario ed edilizio, Milano, 1989; nonché i materiali raccolti in ABI, Il credito fondiario ed edilizio nella legislazione vigente, Bancaria, Roma, 1987; COSTI, L’ordinamento bancario, 1994, p. 367 ss. (62) Che, nel disciplinare la raccolta del risparmio a medio e lungo termine, subordinò l’emissione
— 1243 — La corrispondenza tra provvista e impieghi non si riscontrava solo al momento del perfezionamento del prestito ma si conservava inalterata durante l’intera fase di ammortamento di quest’ultimo (63). Tuttavia, va detto che la rigorosa rispondenza fra mutui erogati e cartelle emesse, perfetta originariamente, andò gradualmente affievolendosi, a causa del verificarsi, ormai sistematico, del c.d. fenomeno dello ‘‘scarto cartelle’’, dovuto alla circostanza che gli Istituti non erano sempre in grado di corrispondere ai mutuatari il 100% della somma pattuita ma soltanto il netto ricavo ottenuto dalla vendita dei titoli (64). Gli inconvenienti andarono accentuandosi agli inizi degli anni settanta con il crescente processo inflazionistico e la lievitazione dei tassi di interesse, i quali determinarono una notevole difficoltà nella fase della raccolta e, di conseguenza, in quella di erogazione dei finanziamenti. Così, il sistema risultò radicalmente modificato dalla l. n. 492/1975, che separò le operazioni di provvista da quelle di erogazione, consentendo agli enti erogatori di raccogliere quando lo ritenevano più opportuno i mezzi necessari per la propria attività, disancorando i tempi e i modi della provvista da quelli dell’impiego. La storica cartella cedette il posto all’obbligazione fondiaria, ma il costo previsto per l’obbligazione fondiaria rimase e rimane, comunque, un parametro essenziale per valutare la congruità del costo del credito all’epoca erogato. Difatti, un semplice esempio scolastico renderà comprensibile la circostanza e indurrà inevitabili riflessioni sul momento consumativo del delitto di usura. Si ipotizzi (il caso è assai frequente) un contratto di mutuo pattuito ed erogato da un Istituto di credito fondiario nel gennaio 1983, con periodo di ammortamento di durata quindicennale, ad un tasso convenzionale all’epoca pari al 20%. Si ipotizzi che, in seno all’atto di consegna e quietanza, sia previsto che le obbligazioni emesse per la provvista siano remunerate ad un tasso pari al 17,50% annuo nominale ed abbiano una scadenza con pari data rispetto al piano di ammortamento del mutuo, ossia il gennaio 1998. Orbene, è di facile evidenza che il tasso contrattuale del mutuo sia da ritenere all’epoca congruo (comparando il costo della provvista con il costo del mutuo e con il tasso ufficiale di sconto all’epoca vigente), ma è indubbio che, ove fosse disconosciuta la centralità del momento della pattuizione, anche i sottoscrittori (tra cui il possibile piccolo risparmiatore) di quelle obbligazioni diverrebbero, con l’avvento del primo tasso-soglia inferiore al 17,50% (ossia al costo della provvista), alla preventiva autorizzazione della Banca d’Italia, ma stabilì (art. 44, comma 2) che analoga autorizzazione non fosse richiesta per l’emissione di cartelle fondiarie. (63) Pertanto, il rimborso delle cartelle doveva avvenire in perfetta rispondenza di ogni restituzione delle quote di debito. Infatti, le somme versate semestralmente dai mutuatari dovevano essere ripartite, per la quota capitale al rimborso delle cartelle estratte e, per la quota interessi, al pagamento di quelli cedolari; e il naturale ammortamento dei mutui o le parziali o totali anticipate estinzioni comportavano correlativamente l’estrazione o l’annullamento del corrispondente valore di cartelle circolanti; come risultato finale doveva sempre ottenersi che il valore nominale delle cartelle estratte fosse pari all’ammontare delle somme restituite dai mutuatari (così NOTO, Il credito fondiario, cit., p. 22). Scrive COSTI, L’ordinamento bancario, cit., p. 371, ‘‘La corrispondenza fra operazioni passive ed operazioni attive, che si estendeva anche ai tempi dell’ammortamento e al tasso dei relativi interessi, comportava che nel concetto stesso di credito fondiario e di credito edilizio fossero ricomprese non solo le caratteristiche dell’impiego, ma anche quelle della raccolta, come dimostra il fatto che le relative definizioni erano imperniate proprio sull’emissione delle ‘cartelle’, fossero poi esse fondiarie o edilizie’’. (64) Così PETRAGLIA, Il credito fondiario dopo il Testo Unico: profili giuridici, modalità operative e di recupero crediti, in AA.VV., La nuova disciplina del credito fondiario, a cura dell’ABI, Bancaria editrice, 1997, p. 34 ss. Cfr. anche BALDINELLI, Profili evolutivi della legislazione sul credito speciale: dalle origini al Testo Unico, in AA.VV., La nuova legge bancaria, a cura di Ferro-Luzzi e Castaldi, Milano, 1996, p. 590 ss.
— 1244 — suscettibili di sanzione penale ex art. 644 c.p., nel momento in cui riscuotessero il pagamento periodico degli interessi. Il che francamente non persuade, come correttamente ha rilevato il G.E. del Trib. Roma, con sentenza del 10 luglio 1998 (65). 5. La nozione di usurarietà affidata alla normazione secondaria: sue implicazioni sulla qualificazione del reato di usura. — Sempre in ordine alla verifica della natura del reato, assolutamente utile appare, inoltre, il rilievo matematicoamministrativo previsto nella modalità di calcolo del limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, rilievo trascurato del tutto dalla riflessione della sentenza n. 1077 citata e dalla dottrina adesiva ad essa. È fondamentale ripercorrere la procedura di carattere amministrativo prevista dall’art. 2 della l. n. 108/1996, atteso che sulla sua precisione si fonda la determinatezza delle fattispecie incriminatrici (66). La procedura — a cura del Ministro del Tesoro, ‘‘sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano cambi’’, prevede la raccolta dei dati relativi agli interessi praticati (nel trimestre precedente a quello di rilevazione) da banche e intermediari finanziari regolarmente iscritti negli elenchi di cui agli artt. 106 e 107 del T.U. bancario. La rilevazione, trimestrale, ha per oggetto il TEGM (tasso effettivo globale medio), comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno. I valori medi derivanti da tale rilevazione, corretti in ragione delle eventuali variazioni del valore medio del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento, sono poi pubblicati nella G.U. I vari decreti ministeriali che hanno proceduto alla ‘‘Rilevazione dei tassi globali medi ai fini dell’applicazione della legge sull’usura’’, pubblicati in G.U. (67), hanno espressamente stabilito (68) che ‘‘le banche e gli intermediari finanziari, al fine di verificare il rispetto del limite di cui all’art. 2, comma 4o della l. n. 108/1996, si attengono ai criteri di calcolo delle ‘‘Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura’’ emanate dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano dei cambi. Dunque, è necessario esaminare, con attenzione, il contenuto dei criteri previsti dalle Istruzioni (69) applicative della Banca d’Italia. (65) In Foro it., 1999, I, c. 343. (66) Condividiamo sul punto l’opinione di MUCCIARELLI, op. cit., p. 538, ma dissentiamo ove egli afferma l’irrilevanza della fase genetica del contratto (p. 543). (67) Il primo d.m. reca la data del 22 marzo 1997 e compare in G.U., 2 aprile, n. 76; esso fa seguito al d.m. 23 settembre 1996, recante la ‘‘Prima classificazione delle operazioni creditizie, per categorie omogenee, ai fini della rilevazione dei tassi effettivi globali medi praticati dagli intermediari finanziari’’ (in G.U., 26 settembre 1996, n. 226). (68) Cfr. il relativo art. 3 di vari d.m., via via succedutisi, concernenti la ‘‘Rilevazione dei tassi globali medi ai fini dell’applicazione della legge sull’usura’’. (69) Cfr. Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura (30 settembre 1996), del 3 ottobre 1996, n. 37455, ribadite nella nota n. 25270 del 3 luglio 1997, e nella circolare del 30 aprile 1998 e dell’agosto 1999. In ordine al tema relativo all’emanazione di provvedimenti generali nei confronti di soggetti vigilati, costituente una tradizionale modalità di esercizio dell’attività di controllo della Banca d’Italia, vedasi CAPOLINA, I provvedimenti generali, in AA.VV., La nuova legge bancaria, a cura di Ferro-Luzzi e Castaldi, 1996, p. 117 ss.; CERULLI IRELLI, La vigilanza regolamentare, in AA.VV., La nuova disciplina dell’impresa bancaria, a cura di Morera-Nuzzo, vol. I, Milano, 1996, p. 47 ss. Trattasi di atti amministrativi generali che non sono soltanto espressione di supremazia gerarchica nell’ambito della P.A., ma possono costituire anche manifestazione di una mera potestà di vigilanza (cfr. in proposito GELATERIA-STIPO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 1993, p. 71). Nella categoria rientrano i provvedimenti di carattere generale a contenuto vincolante per i destinatari, aventi una sfera di efficacia limitata, che non può essere estesa cioè oltre l’ambito amministrativo. Detti provvedimenti non
— 1245 — Al fine di attribuire ad esse maggiore ufficialità (e quindi maggiore vincolatività) (70), il Ministro del tesoro le ha fatte proprie, pubblicandole sulla G.U., in calce al decreto del 24 settembre 1998, relativo alla rilevazione dei tassi medi in vigore dal 1o ottobre 1998. Nella sezione dedicata alle metodologie di calcolo del TEGM, l’Organo di vigilanza precisa, al punto C3, sub lett. b), che, con riguardo alle ‘‘Altre categorie di operazioni’’, e dunque con riferimento alle operazioni di mutuo (senza distinguo tra tasso fisso e variabile), la formula di calcolo del TEGM è costruita ‘‘in analogia a quanto previsto dal decreto del Ministro del tesoro dell’8 luglio 1992 per il calcolo del TAEG’’ (71). sono fonti di diritto, in quanto non operano nell’ordinamento generale ma in un ambito particolare. In detto ambito, essi possono comunque svolgere una funzione di tipo ‘‘normativo’’ (A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, p. 87), priva però di portata innovativa nel sistema delle norme giuridiche preesistenti. Il loro carattere di atti generali o plurimi non incide sulla loro natura di atti amministrativi (cfr. COSTI, L’ordinamento bancario, cit., p. 101). (70) Così LA TORRE, La nuova giurisprudenza in materia di usura ed i suoi effetti sul leasing, cit., p. 4, del dattiloscritto. (71) Il decreto 8 luglio 1992, pubblicato in G.U. 20 luglio 1992, n. 169, titolato ‘‘Disciplina e criteri di definizione del tasso annuo effettivo globale per la concessione del credito al consumo’’, spiega all’art. 2 che il tasso annuo effettivo globale (TAEG) è il tasso che rende uguale, su base annua, la somma del valore attuale di tutti importi che compongono il finanziamento erogato dal creditore alla somma dei valore attuali di tutte le rate di rimborso. Il TAEG è calcolato mediante la formula riportata in allegato al presente decreto e va indicato con due cifre decimali. Il TAEG è un indicatore sintetico e convenzionale del costo totale del credito, da determinare mediante la formula prescritta qualunque sia la metodologia impiegata per il cal colo degli interessi a carico del consumatore. Nel calcolo del TAEG sono inclusi: a) il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi; b) le spese di istruttoria e apertura della pratica di credito; c) le spese di riscossione dei rimborsi e di incasso delle rate, se stabilite dal creditore; d) le spese per le assicurazioni o garanzie, imposte dal creditore, intese ad assicurargli il rimborso totale o parziale del credito in caso di morte, invalidità, infermità o disoccupazione del consumatore; e) il costo dell’attività di mediazione svolta da un terzo, se necessaria per l’ottenimento del credito; f) le altre spese contemplate dal contratto, fatto salvo quanto previsto dal comma seguente. Sono escluse dal calcolo del TAEG: a) le somme che il consumatore deve pagare per l’inadempimento di un qualsiasi obbligo contrattuale, inclusi gli interessi di mora; b) le spese, diverse dal prezzo di acquisto, a carico dei consumatore indipendentemente dal fatto che si tratti di un acquisto in contanti o a credito; c) le spese di trasferimento fondi e di tenuta di un conto destinato a ricevere gli importi dovuti dal consumatore, purché questi disponga di una ragionevole libertà di scelta e le spese non siano anormalmente elevate; d) le quote di iscrizione ad enti collettivi, derivanti da accordi distinti dal contratto credito, anche se incidenti sulle condizioni di esso; e) le spese per le assicurazioni o garanzie diverse da quelle di cui alla lett. d) del comma precedente. Il comma 5 dell’art. 2 precisa che il calcolo del TAEG di un’operazione di credito al consumo è eseguito al momento della stipulazione del relativo contratto con riferimento alle condizioni in esso praticate. Tale calcolo è effettuato nell’ipotesi che il contratto sia in vigore per il periodo di tempo convenuto e che il creditore ed il consumatore soddisfino agli obblighi nei termini ed entro le date concordate. Nel comma 6 dell’art. 2 cit., è chiarito che nei contratti di credito contenenti clausole che permettono di modificare il tasso interesse e l’importo o il livello di altre spese, il TAEG è calcolato nell’ipotesi che il tasso e le altre spese si mantengano fissi rispetto al livello iniziale e si applichino fino alla scadenza del contratto di credito. Allegata al d.m. 8 luglio 1992 è la formula per il calcolo del TAEG (art. 2, comma 1) nonché la formula per il calcolo del capitale residuo (art. 3, comma 2). Le Istruzioni della Banca d’Italia prevedono, al par. C4 che, ai fini del calcolo del TEGM, sono ‘‘inclusi’’: le spese di struttoria e di revisione del finanziamento; le spese di chiusura della pratica; le spese di riscossione dei rimborsi e di incasso delle rate se stabilite dal creditore; il costo dell’attività di mediazione svolta da un terzo, se necessaria per l’ottenimento del credito; le spese per le assicurazioni o garanzie, imposte dal creditore, intese ad assicurare al creditore il rimborso totale o parziale del credito in caso di morte, invalidità, infermità o disoccupazione del debitore; ogni altra spesa contrattualmente prevista connessa con l’operazione di finanziamento. Sono invece ‘‘esclusi’’: a) le imposte e tasse; b) il recupero di spese, anche se sostenute per servizi forniti da terzi; c) le spese legali ed assimilate; d) gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo; e) gli oneri applicati al cliente indipendentemente dalla circostanza che si tratti di un rapporto di finanziamento o di deposito; f) le spese connesse con i servizi accessori; g) le spese per le assicurazioni e garanzie diverse da quelle di cui al precedente punto 5. La Banca d’Italia ha poi precisato che ‘‘le penali a carico del cliente previste in ipotesi di estinzione
— 1246 — Trattasi, in definitiva, della stessa formula prevista per il calcolo del TAEG, ossia di quell’indicatore che il legislatore all’art. 122, comma 1o, del T.U. bancario definisce come il costo totale del credito a carico del consumatore espresso in percentuale annua del credito concesso, comprensivo degli interessi e di tutti gli oneri da sostenere per utilizzare il credito. Il TAEG, notoriamente uno strumento di analisi dall’impiego universale, idoneo a fungere da indicatore chiaro ed attendibile del costo effettivo di un’operazione finanziaria, è sotto il profilo matematico quel tasso ‘‘che rende uguali, su base annua, i valori attuali di tutti gli impegni (prestiti, rimborsi e oneri) esistenti o futuri presi dal creditore e dal consumatore’’ (72). L’equazione ha, in entrambi i suoi membri, una sommatoria di più termini, tutti a carattere frazionario: al primo membro i numeratori delle frazioni sono dati dagli importi che il creditore, anche in tempi diversi, versa al consumatore oppure paga a terzi (tipicamente al fornitore) nell’interesse del consumatore; al secondo membro i numeratori delle frazioni sono dati dagli importi che il consumatore deve pagare al creditore, normalmente in tempi diversi, per rimborsare il credito ottenuto. Il denominatore di ciascuna frazione, sia del primo che del secondo membro, costituisce il fattore di attualizzazione del rispettivo numeratore. Gli elementi variabili di tale fattore sono la durata, posta quale esponente della parentesi in esso presente, e il tasso d’interesse, collocato all’interno della stessa parentesi: la durata, per ciascun termine frazionario, è nota, poiché corrisponde al tempo di durata del prestito; il tasso di interesse è l’incognita dell’equazione, ossia è l’elemento da ricercare. Data la struttura della formula del TAEG, la ricerca del valore del tasso di interesse che permette l’eguaglianza fra i due membri avviene ricorrendo ad un processo di interpolazione a carattere iterativo, cioè convergendo sul risultato, con la precisione desiderata, attraverso tentativi successivi. Il decreto ministeriale citato precisa, ed è questo l’aspetto più significativo per la nostra indagine, che il calcolo del TAEG debba avvenire al momento della stipulazione del contratto con riferimento alle condizioni in questo praticate (73). Analogamente, in ipotesi di calcolo del TEGM di un mutuo, che con riguardo ai suoi componenti, giova precisarlo, differisce (74) dal calcolo del TAEG, il anticipata del rapporto, in quanto meramente eventuali, non sono da aggiungere alle spese di chiusura della pratica’’ e sono, quindi, da escludere dal calcolo del TEGM. (72) Cfr. Direttiva 87/102/CEE, art. 1-bis, par. 1, lett. a). La Direttiva 90/88 del 22 febbraio 1990 (in GUCE n. L61/74, del 10 marzo 1990) si fa carico della necessità di instaurare un solo metodo di calcolo del TAEG nell’insieme della Comunità (2o considerando), elaborando una formula matematica unica e determinando le componenti da prendere in esame nel calcolo ‘‘mediante l’indicazione dei costi che non devono essere presi in considerazione’’ (3o considerando). Sul punto vedasi anche, PINELLI, Il Tasso Annuo Effettivo Globale (TAEG): definizione; scopo; metodo di calcolo, in AA.VV., La nuova legge bancaria, a cura di Ferro-Luzzi e Castaldi, cit., p. 1865 ss.; GORGONI, Il credito al consumo, Padova, 1994, p. 53 ss. Ogni studio avente ad oggetto il credito al consumo, tanto di stampo consumeristico-privatistico quanto di stampo pubblicistico, si è occupato del TAEG: nel primo senso, cfr. UBERTAZZI, Credito bancario al consumo e direttiva CEE: prime riflessioni, in Giur. comm., 1988, I, p. 335; CASTALDI, Trasparenza delle condizioni di finanziamento nei rapporti di credito al consumo, in CAPRIGLIONE (a cura di), La disciplina comunitaria del credito al consumo, Quaderni della consulenza legale della Banca d’Italia, Roma, 1987, p. 79; nel secondo senso, cfr. CAPRIGLIONE, Commento alla direttiva del consiglio del 22 dicembre 1986, in Codice commentato della banca, a cura di Capriglione, Mezzacapo, Milano, 1990, p. 2097. (73) Vedasi l’art. 2, comma 5, d.m. tesoro 8 luglio 1992, conforme all’art. 1-bis, par. 4, lett. a), Direttiva 87/102/CEE: ‘‘Il tasso annuo effettivo globale è calcolato al momento in cui si conclude il contratto, fatte salve le disposizioni dell’art. 3 relativo agli avvisi e offerte pubblicitarie’’. (74) Come annota PECCATI, La definizione dei tassi di interesse d’usura, in AA.VV., L’usura in Italia (a cura di Masciandaro-Porta), Egea, 1997, il TEG della normativa anti-usura non coincide con il TAEG poiché nel primo indicatore sono esclusi i pagamenti richiesti al finanziato a titolo di ‘‘imposte e
— 1247 — TEGM, utilizzando la stessa formula di calcolo del TAEG, è rilevato dalla Banca d’Italia, per le ragioni matematiche e di tecnica normativa del rinvio sopraesposte, al momento della stipulazione del contratto (non si comprende, altrimenti, come il calcolo matematico possa essere svolto). In sostanza, il d.m. che rileva, nel trimestre considerato, il tasso soglia (TEGM aumentato della metà), in ordine alla categoria dei mutui, costruisce detto indicatore analizzando i mutui accesi (o stipulati) (75) nel periodo di riferimento della rilevazione e correggendo il dato estrapolato in ragione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento. Pertanto, malgrado la l. n. 108 cit. non contenga, a differenza della francese da cui è mutuata, alcuna indicazione espressa di ordine temporale circa la riferibilità del tasso di interesse usurario, l’imputabilità del TEGM al momento della pattuizione consegue da un’attenta disamina della normazione secondaria (76). In sintesi, correndo il rischio di esser ripetitivi, le Istruzioni applicative della Banca d’Italia affermano che il TEG per le operazioni di mutuo va calcolato ‘‘in analogia a quanto previsto dal decreto del Ministro del tesoro dell’8 luglio 1992, per il calcolo del TAEG’’. Detto decreto all’art. 2, comma 5o, precisa che ‘‘il calcolo del TAEG di un’operazione di credito al consumo è eseguito al momento della stipulazione del relativo contratto con riferimento alle condizioni in esso praticate’’. Viene recepito così il contenuto (77) della Direttiva del Consiglio delle Comunità europee del 22 dicembre 1986 (87/102/CEE), poi ribadito dalla Direttiva del Consiglio delle Comunità europee del 22 febbraio 1990 (90/88/CEE). Ora, appaiono sufficienti tali considerazioni per svuotare di contenuto lotasse’’ e ciò non si verifica nel calcolo del TAEG, dal quale per contro sono escluse le quote di iscrizione ad enti collettivi. (75) Il corsivo è nostro. Le note metodologiche di cui al Decreto del ministro del Tesoro 23 marzo 2000, in G.U. del 29 marzo 2000, n. 74, ma anche nei precedenti D.M., affermano e ribadiscono che « Per le operazioni di ‘‘credito personale’’, ‘‘credito finalizzato’’, ‘‘leasing’’, ‘‘mutuo’’, ‘‘altri finanziamenti’’ e ‘‘prestiti contro cessione del quinto dello stipendio’’, i tassi rilevati si riferiscono ai rapporti di finanziamento accesi nel trimestre; per esse è adottato un indicatore del costo del credito analogo al TAEG definito dalla normativa comunitaria sul credito al consumo. (76) Non è di questa opinione BRANDA, I riflessi della l. n. 108 del 1996 sui contratti di mutuo con garanzia reale stipulati prima dell’entrata in vigore della normativa antiusura, con riferimento alle procedure esecutive, in Atti del convegno Le sentenze ‘‘shock’’ dei Tribunali di Milano e di Velletri: gli effetti sul sistema bancario e finanziario, cit., p. 6 del dattiloscritto, il quale scrive: ‘‘Se è vero che è stato preso a modello il sistema francese, come mai non è stata riproposta la disposizione più importante ovvero il riferimento — come criterio di giudizio — al tasso-soglia esistente al momento dell’accordo: sarebbe sufficiente rispondere ubi non dixit non voluit; ciò è peraltro confermato dalla necessità di un’espressa previsione al fine di giustificare l’ultrattività del tasso’’. Riteniamo, al contrario, che una previsione in tal senso è proprio contenuta nel meccanismo di calcolo del TAEG, spiegato dall’art. 2, comma 5, del d.m. 8 luglio 1992, cui rinvia la Banca d’Italia. Sul punto, cfr. BELLACOSA, op. cit., p. 154, per il quale sia l’art. 644, comma 4, c.p. (che individua le voci di costo dell’operazione rilevanti ai fini della determinazione del tasso usurario), sia l’art. 2, comma 2, l. n. 108 del 1996 (che fa riferimento anche alla ‘‘durata’’ tra gli elementi da tener presenti nella classificazione delle operazioni creditizie) fissano l’attenzione sul momento della pattuizione iniziale. (77) Cfr. art. 1-bis, comma 4, lett. a). Per una riflessione, in generale, sui meccanismi comunitari in campo bancario, la letteratura è vastissima. Senza alcuna pretesa di completezza, vedasi GODANO, La legislazione comunitaria in materia bancaria, Il Mulino, 1996; BROZZETTI-SANTORO, Le direttive comunitarie in materia bancaria e l’ordinamento comunitario, Milano, 1990; PADOA-SCHIOPPA, Il mercato finanziario italiano nel mercato europeo, intervento al convegno I mercati finanziari verso l’Unione economica e monetaria europea, Monte dei Paschi di Siena, incontri di Rocca Salimbeni, 20 novembre 1992, in Bollettino economico, Banca d’Italia, n. 20, febbraio 1993; A. PATRONI GRIFFI, Riflessioni sulla seconda direttiva bancaria, in Banca, Impresa e società, n. 3, 1991; AA.VV., Il recepimento della seconda direttiva CEE in materia bancaria, Laterza, Bari, 1993; BELLI, La seconda direttiva di coordinamento e le altre direttive in materia bancaria emanate nel 1989, in Banca, borsa e tit. cred., 1990; COSTI, L’ordinamento bancario, Il Mulino, cit.; DESIDERIO, Commento alla Seconda direttiva comunitaria, in Codice commentato della banca, tomo II, Milano, 1990.
— 1248 — gico (78) la comparazione disomogenea (79) tra il ‘‘tasso soglia di riferimento’’ (78) Scrive TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, p. 83 ‘‘il ragionamento giuridico, e più in generale il ragionamento normativo (o se più piace, ‘pratico’), inteso come ragionamento che corrisponde ad uno schema logico-normativo, è (null’altro che) un ragionamento logico: se non è un ragionamento logico, non è un ragionamento affatto’’. (79) Nella dottrina della matematica finanziaria è notorio il principio fondamentale ‘‘secondo il quale non si possono addizionare, sottrarre o confrontare tra loro valori differiti nel tempo, se prima non si rendono omogenei, cioè se non si riferiscono allo stesso momento. Se due o più capitali, infatti, si rendono disponibili in tempi diversi, è come se si trattasse di beni differenti tra loro e quindi non sommabili. Il farlo sarebbe come addizionare tra loro frumento e cavoli, beni tra loro eterogenei. Pertanto, in forza del principio per cui un valore differito ad una determinata epoca non può essere addizionato o sottratto con un altro riferito ad epoca diversa se non quando ambedue i valori siano resi omogenei, e cioè riferiti alla stessa epoca, ne consegue che uno dei due valori deve essere riportato all’epoca dell’altro, oppure che ambedue devono essere riportati ad una terza epoca’’: così MICHIELI, Elementi di estimo, Edagricole, 1983, p. 2; DI LAZZARO, Lezioni di matematica finanziaria, Cisu, 1984, p. 14, per il quale nella matematica del credito ‘‘capitali riferiti ad istanti diversi non sono grandezze omogenee tra loro, per cui non è possibile operare tra i valori rappresentativi delle prestazioni dei soggetti con le operazioni aritmetiche e neppure procedere ad alcun tipo di confronto; vicerversa questo e le operazioni sono possibili se le prestazioni sono riferite ad un medesimo istante in quanto risultano grandezze omogenee’’. La paventata disomogeneità può, forse, esser utile per affrontare il delicato e complesso tema dell’identificazione del tipo di vicenda successoria che la variazione delle norme extra-penali (i decreti ministeriali che rilevano trimestralmente il tasso soglia), sottese alla condotta incriminatrice, può porre in essere, in ipotesi di mutui stipulati successivamente alla prima rilevazione del tasso soglia. Per effetto della successione della norma extra-penale si può, difatti, verificare una restrizione o un ampliamento della portata applicativa della fattispecie penale, in considerazione, rispettivamente, di un incremento o decremento del tasso soglia, pro-tempore, successivamente rilevato. La valorizzazione del carattere di norma penale in bianco dell’art. 644, comma 1 e 2, c.p. (atteso che il requisito dell’usurarietà è determinato nel suo contenuto quantitativo dai decreti ministeriali che fissano, per il singolo periodo di vigenza, il tasso effettivo medio globale e la classificazione delle operazioni) e la non omogeneità dei dati periodali esaminati, in occasione di ogni singola rilevazione, dovrebbero indurre a ritenere che sia applicabile la disciplina della successione delle leggi penali al mutamento dei precetti richiamati. In senso concorde CAVALLO, Una nuova disciplina per la repressione del fenomeno dell’usura, cit., p. 1813, per la quale la modifica trimestrale del decreto ministeriale di fissazione dei tassi si risolve di fatto in una periodica variazione del regime sanzionatorio, determinando un vero e proprio fenomeno di successione di leggi penali nel tempo: in particolare, il fenomeno successorio previsto dalla nuova normativa si configurerebbe come una particolare ipotesi di successione di leggi temporanee, assoggettata, ex art. 2, comma 4, c.p., alla diversa regola tempus regit actum. Inquadrato il fenomeno in esame come ipotesi di successione modificativa di leggi temporanee, l’A. ritiene che dovranno considerarsi irrilevanti le variazioni del regime sanzionatorio intercorse tra il momento della consumazione dell’illecito e quello della decisione giudiziale poiché l’art. 2, comma 4 impone, per le leggi temporanee ed eccezionali, l’applicazione della disciplina vigente al momento della commissione del fatto, quand’anche alla stessa abbia fatto seguito un trattamento più favorevole. In senso concorde, vedasi MANNA, Usura (La nuova normativa sull’), op. cit., 663, per il quale, ad ogni modifica del provvedimento integrativo del precetto, si accompagna inevitabilmente la vigenza di un, parzialmente, « nuovo » precetto, destinato, per sua stessa statuizione, a durare solo tre mesi e poi ad essere a sua volta sostituito. Contra PEDRAZZI, Sui tempi della nuova fattispecie di usura, cit., p. 667, secondo cui le periodiche variazioni del tasso soglia, mediante atti amministrativi non valgono come successione di leggi penali, ai sensi dell’art. 2 c.p. Sul tema, cfr. anche MUCCIARELLI, op. cit., p. 547, e CERASE, L’usura riformata, cit., p. 2606, il quale evidenzia il problema della modifica mediata della legge penale pervenendo alla conclusione che il canone tempus regit actum deve funzionare sia a danno che a favore dell’imputato. Affronta la questione anche BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 155, secondo cui il raffronto tra le abrogate disposizioni incriminatrici in materia di usura e la nuova figura di cui all’art. 644, comma 1 e 3, c.p., parametrata al superamento del tasso soglia, mette in luce una disomogeneità e frattura degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte. Si delinea, a parere dell’A., ‘‘una situazione di ‘specialità reciproca o bilaterale’ che evidenzia una discontinuità tra la vecchia e la nuova fattispecie astratta a causa della diversità strutturale degli elementi costitutivi delle varie fattispecie, la modifica normativa in esame descrive pertanto non una successione meramente modificativa di leggi penali (art. 2, comma 3, c.p.) bensì un fenomeno di ‘nuova incriminazione’, ex art. 2, comma 1, c.p., con la conseguente regola dell’irretroattività della nuova disposizione incriminatrice’’. In generale, in dottrina, vedasi, oltre alla manualistica: SIRACUSANO, Successione di leggi penali, I, Messina, 1988; PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali. La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie penale incriminatrice o della sua sfera di applicazione nell’ambito dell’art. 2, comma 3, c.p., in questa Rivista, 1982, p. 1354 ss.; PAGLIARO, voce Legge penale nel tempo, in Enc. dir.,
— 1249 — (TEGM, risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella G.U., aumentato della metà), relativo in generale alla categoria del mutuo (costruito, come si è visto, assumendo come base di analisi, i mutui pattuiti nel periodo di rilevazione e correggendo detto dato con le variazioni del valore medio del TUS), con il TEGM di un mutuo contratto, ad esempio, dieci anni prima, o, senza estremizzare, anche un anno prima, rispetto al periodo di rilevazione del tasso soglia. Un semplice esempio potrà meglio chiarire la questione. Si ipotizzi che: il TEGM di un mutuo, per semplicità espositiva A, stipulato il 15 luglio 1997, sia pari al 10%; che il tasso soglia (TEGM aumentato della metà) dei mutui, in vigore dal 1o gennaio 1999, sia sceso all’8,70% e consegua dalla rilevazione dei mutui pattuiti nel periodo luglio-settembre 1998, poi corretti dalle eventuali variazioni del valore medio del TUS nel trimestre successivo; viene spontaneo, a questo punto, chiedersi come si possano comparare due dati disomogenei, rilevati cioè con basi di riferimento periodali del tutto distinte? In definitiva, il TEGM di A, per la modalità matematica con cui è costruito, potrà essere comparato, significativamente, solo con il tasso soglia che trova applicazione dal 1o luglio 1997 al 30 settembre 1997, atteso che detto indicatore consegue dalla rilevazione dei mutui pattuiti nel periodo dal 1o gennaio 1997 al 31 marzo 1997, e tiene conto delle eventuali variazioni del valore medio del TUS verificatesi nel trimestre successivo. Dunque, anche, ai fini di una corretta esegesi della norma penale che disegna la condotta incriminabile, ossia l’elemento costitutivo della fattispecie, ricorrendo ad un meccanismo di eterointegrazione della norma, non dissimile da quello delle c.d. norme penali in bianco, non possono assolutamente essere trascurati i criteri applicativi dettati dalla Banca d’Italia, a cui il d.m. che rileva il tasso soglia fa espresso rinvio. Perché delle due l’una, o si mutano (80) tali criteri per offrire coerenza alla lettura del delitto di usura, a condotta frazionata o a consumazione prolungata, XVIII, 1973; ID., La legge penale tra irretroattività e retroattività, in Giust. pen., 1991, II, p. 1; PODO, voce Successione di leggi penali, in Noviss. Dig. it., XVIII, 1971, p. 667 ss.; SINISCALCO, Irretroattività delle leggi in materia penale, Milano, 1966, p. 35 ss.; GALLO, La legge penale (appunti dalle lezioni), Torino, 1967, p. 39 ss.; TRAPANI, Legge penale, in Enc. giur., Roma, 1990; PALAZZO, Legge penale, in Dig., Disc. pen., Torino, 1993, p. 338; GROSSO, Successione di norme integratrici di norme penali e successioni di leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen. ec., 1960, p. 1208 ss.; SEVERINO DI BENEDETTO, Successione di leggi penali nel tempo, in Enc. giur., XXX, Roma, 1993; DEL CORSO, Successione di leggi penali, in Dig., Disc. pen., Utet, 1997. In giurisprudenza, in ordine alla discussa e controversa questione dell’applicabilità del principio di successione di leggi penali per effetto della successione delle norme giuridiche integrative di una norma penale in bianco o anche soltanto di un elemento normativo di una norma penale, vedasi di recente Cass., Sez. III, Ud. 29 dicembre 1998 (dep. 7 aprile 1998), in Cass. pen., 2000, 896 e ss., con nota di GARGIULO, In tema di successioni di leggi penali. Per un più completo panorama dottrinale e giurisprudenziale sul punto, si rinvia a GARGIULO, In tema di successione di leggi nel tempo e di modifica « mediata » delle norme penali, in Cass. pen., 1998, 113, n. 36. (80) Condividiamo l’opinione di LA TORRE, La nuova giurisprudenza in materia di usura ed i suoi effetti sul leasing, cit., p. 9, del dattiloscritto, secondo cui ‘‘una concezione istantanea del reato di usura è alla base della metodologia di rilevazione dei TEGM adottata dalla Banca d’Italia e dall’UIC. Infatti, per i contratti a tempo indeterminato, come il mutuo o il leasing, si rileva il tasso medio dello stipulato nel trimestre di riferimento; al contrario, invece, per i contratti a tempo indeterminato, come il conto corrente, la rilevazione non tiene conto dello stipulato, ma viene effettuata sull’intero portafoglio delle operazioni in essere. Se dovesse, quindi, affermarsi l’orientamento sulla natura permanente del reato di usura, sarà necessario, da un lato, modificare il sistema di rilevazione anche per i contratti a tempo determinato, e, dall’altro, provvedere a rideterminare anche i tassi soglia pubblicati a partire dall’aprile del 1997, posto che cambiando la natura della fattispecie penale considerata si dovrà adeguare la metodologia di calcolo ai mutati criteri di riferimento’’. Dissentiamo da VANORIO, Il reato di usura ..., op. cit., 514, secondo cui non pare possibile che un criterio tecnico scelto dalle autorità che devono dare attuazione ai precetti della riforma possa influenzare ex post l’interpretazione normativa e le concrete decisioni giurisprudenziali. Riteniamo, invece, che la concreta modalità di costruzione del T.E.G.M. abbia una significativitià che non possa essere trascurata, essendo il TEGM essenziale nella determinazione dell’usurarietà.
— 1250 — oppure in essi pare esservi una conferma (81), corroborata dalle menzionate annotazioni del Governatore della Banca d’Italia, alla lettura del momento consumativo del reato ancorato alla fase della stipulazione del contratto. Come detto, la nozione di usurarietà degli interessi va valutata, soprattutto per come è costruita la relativa formula del TEGM, con riguardo al solo momento della pattuizione, in linea, peraltro, con la nuova espressione normativa dell’art. 1815 c.c. (82) ed, in ossequio, al principio di determinatezza della norma penale (83). Principio, altrimenti mortificato (84), ove si disconoscessero, con le Istruzioni della Banca d’Italia, anche i connotati causali del negozio cui la norma penale fa riferimento, di un negozio, cioè, in cui l’alea contrattuale deve essere giustamente distribuita su entrambe le parti e non solo su una di esse (85) (come avverrebbe, in ipotesi di mutuo a tasso fisso ed in un contesto che preveda soltanto, nel tempo, una discesa dei tassi c.d. soglia). Se, dunque è vero che la riforma operata dalla l. n. 108/1996 ha individuato un criterio unico, ai fini dell’accertamento del carattere usurario degli interessi, valevole sia nel settore civile che in quello penale, ed ha fissato una soglia oltre la quale si determinano la nullità della stipulazione e la consumazione del reato, ciò, evidentemente, si verifica quando un interesse superiore al tasso soglia sia convenuto successivamente all’emanazione del decreto ministeriale che fissa, nel periodo di vigenza, il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari (86). In altri termini, appare validamente provata, anche in una prospettiva di lo(81) Contra DOLMETTA, Contratti di credito e usura..., cit., p. 9, il quale ritiene che la normativa secondaria non offra grandi ausili, trascurando, però, di verificare come si costruisca, matematicamente, la formula del TEGM. (82) Per la valutazione dell’usurarietà al momento della conclusione del contratto senza che rilevino le successive variazioni, vedasi anche, TETI, Profili civilistici della nuova legge sull’usura, cit., p. 481; ZORZOLI, Le norme, il fatto, la decisone, cit., p. 596, secondo cui il tasso soglia aumentato della metà riferito ad un determinato arco di tempo, non può essere il metro di valutazione dell’usurarietà o meno di interessi previsti convenzionalmente in un periodo diverso caratterizzato da condizioni generali differenti; BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 155; contra GIOIA, I riflessi penalistici di una sentenza penale, cit., p. 459, per la quale il congegno della legge, basata sui rilevamenti trimestrali, impone un adeguamento continuo ai tassi successivamente riscontrati. In definitiva, a parere di codesto A., ‘‘l’andamento dei tassi rispecchia l’andamento economico del mercato e l’adeguamento ai nuovi tassi non è altro che un sistema dello Stato di controllare il mercato dei prestiti per tutelare i contraenti più deboli. Tutela che per essere efficace non può intervenire una tantum, al momento della pattuizione, ma deve accompagnare l’intero svolgimento del contratto, che si dipana durante un lungo lasso di tempo, fino alla dazione finale’’. L’A. definisce la tecnica di tutela del prestito ‘‘passo passo’’, conformando, così, di volta in volta, il contratto ai nuovi assetti economici scaturenti dal mercato. È una riflessione che non persuade, efficacemente superata dal principio di unitarietà del contratto alla base della motivazione dell’ordinanza del 4 giugno 1998 del G.E. del Tribunale di Roma, nonché dall’imputabilità della nozione di usurarietà al momento della pattuizione, come si evince dalla normazione secondaria che disegna il contenuto precettivo dell’art. 644 c.p. novellato. (83) In generale, cfr. PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979; ID., Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen. ec, 1991, p. 327; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 97 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 63 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 69 ss. Sui rischi politici della scelta della tecnica di costruzione della fattispecie, vedasi CONTENTO, Corso di diritto penale, vol. I, 1998, p. 57 ss. (84) Parla, infatti, con espressione suggestiva, di delitto ‘‘sinusoidale’’, il MANZIONE, op. cit., p. 83. (85) Scrive BELLACOSA, voce Usura, cit., p. 154, ‘‘il riconoscimento di una verifica di usurarietà relativa ad un momento successivo all’attivazione del rapporto finanziario determinerebbe un’irragionevole ed ingiustificata disparità di trattamento (rilevante ex art. 3 Cost.) tra le parti contrattuali, perché addosserebbe esclusivamente sul creditore non già la normale alea sottesa a qualsiasi contratto sinallagmatico, bensì il rischio ulteriore — collegato al modificarsi del tasso medio — non prevedibile al momento della stipula, con evidente trattamento di favore per il debitore’’. L’argomento è, di recente, accolto da Trib. Napoli, 20 luglio 1999, cit., in nota 1. (86) Cfr. G.E. del Trib. Roma, sentenza del 10 luglio 1998, cit.; ma anche Trib. Venezia, 20 settembre 1999, cit.; contra Trib. Palermo, 7 marzo 2000, cit.
— 1251 — gica matematica, l’affermazione di quell’autorevole dottrina (87), già citata, secondo cui la legge non conosce una usurarietà sopravvenuta, determinata da parametri definiti successivamente: è sempre il tasso effettivo globale medio vigente al momento della pattuizione iniziale cui bisogna fare riferimento, durante l’esecuzione del contratto. Solo ulteriori accordi integrativi o modificativi, intervenuti nel corso del rapporto e comportanti un aggravio della posizione del debitore, possono acquisire autonoma rilevanza penale. Se, dunque, si adotta il criterio della rilevanza del tempo della stipulazione, i contratti di mutuo, anteriori all’entrata in vigore della l. n. 108 cit., resteranno fuori dalla stessa (88), non saranno possibili comparazioni tra il TEG, relativo a quel mutuo, ed il TEG, pro-tempore vigente, frutto delle rilevazioni ministeriali; sarà assegnato al giudice il compito di determinare, ai sensi del vecchio art. 644 c.p., l’usurarietà nel caso concreto, avendo il concetto carattere extragiuridico, tenendo conto delle specifiche peculiarità del caso singolo, in cui la liceità degli interessi pattuiti andrà ritenuta alla luce delle altre circostanze negoziali. GIORGIO MANTOVANO Dottore commercialista
(87)
Cfr. PEDRAZZI, Sui tempi della nuova fattispecie di usura, cit., pp. 663-664, e SEVERINO DI BE-
NEDETTO, op. cit., p. 533.
(88) Cfr. Trib. Salerno, 27 luglio 1998, cit., che osserva come l’assenza, nella l. n. 108 del 1996, di disposizioni transitorie imponga l’applicazione dei principi generali sulla successione delle norme nel tempo, così come precisato dalla Corte costituzionale (Corte cost., 27 giugno 1997, n. 204, in Giust. civ., 1997, I, p. 2379), la quale, pronunziandosi sulla disciplina della fideiussione omnibus, in relazione a quei contratti stipulati prima della l. n. 154 del 1992, ha statuito che ‘‘l’innovazione legislativa, che stabilisce la nullità delle fideiussioni per obbligazioni future senza limitazione di importo, non tocca la garanzia per le obbligazioni principali già sorte, ma esclude che si producano ulteriori effetti e che la fideiussione possa assistere obbligazioni principali successive al divieto senza limiti’’. Si è notato in dottrina che, mentre l’art. 3 l. n. 108 del 1996 disciplina specificamente le ipotesi di contratti conclusi dopo l’entrata in vigore della legge, ma anteriormente alla prima rilevazione dei tassi soglia, non è, invece, presente nella nuova normativa alcuna disposizione transitoria che riguardi i contratti conclusi prima dell’entrata in vigore. Con la conseguenza che la l. n. 108 non abbia inteso in alcun modo regolare i rapporti pregressi (così ZORZOLI, Le norme, il fatto, la decisone, cit., p. 595).
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Rogatorie, termini di durata delle indagini preliminari, prescrizione. Più volte ci siamo trovati (inutilmente) ad insistere sull’irragionevole brevità dei termini (due anni) previsti, dall’art. 407, comma 2, lett. c), per le indagini preliminari ‘‘che richiedono il compimento di atti all’estero’’ (Indagini sull’estero: appena due anni, in Ind. pen., 1989, p. 540; Lungaggini all’estero e tempi brevi in Italia, ibid., p. 719; I rapporti giurisdizionali con autorità straniere, tre anni dopo, ibid., 1992, p. 526; Il caso di Ustica: 60 rogatorie internazionali, ibid., 1993, p. 681; Indagini all’estero: l’inidoneità del termine biennale, ibid., p. 683; Blocchi delle rogatorie, corsie preferenziali, prescrizioni, in questa Rivista, 1999, p. 364). Risulta che le difficoltà derivanti da quella perdurante disciplina erano anche state a suo tempo rappresentate, a cura dei magistrati del pool di Milano, al ministro della giustizia Flick (Rogatorie lente: verso il congelamento dei termini di indagine e prescrizione, in Il Sole - 24 Ore del 4 marzo 1997). Entro questo contesto, e ad ogni modo a seguito della presa d’atto della situazione, e dell’intendimento di superarla, pochi giorni dopo venivano depositati alla Camera dei Deputati due disegni di legge, di cui passiamo a pubblicare i testi. (Quanto al loro iter, non sembra che abbiano superato la fase della prima lettura). A) Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Veltri, Siniscalchi, Malgieri, Jervolino Russo, ed altri (**) - Proroga del termine per le indagini preliminari ed interruzione della prescrizione per taluni reati in pendenza di rogatorie, presentata alla Camera dei Deputati il 5 marzo 1997 (n. 3361). ART.. 1. — All’articolo 406 del codice di procedura penale è aggiunto, in fine, il seguente comma: ‘‘8-bis. Il termine previsto dall’articolo 405 è prorogato di due anni ai sensi del secondo comma del presente articolo, in pendenza di rogatoria dei magistrati del pubblico ministero per il recupero di denaro trasferito all’estero illecitamente nell’ambito di procedimenti per i reati di finanziamento illecito dei partiti politici, concussione, corruzione, estorsione, ricettazione, riciclaggio, falso in bilancio e false comunicazioni sociali’’. ART. 2. — 1. Dopo il secondo comma dell’articolo 160 del codice penale è inserito il seguente: ‘‘In pendenza di rogatorie dei magistrati del pubblico ministero per il recupero di denaro trasferito all’estero illecitamente nell’ambito di procedimenti per i reati di finanziamento illecito dei partiti politici, concussione, corruzione, estorsione, ricettazione, riciclag(*) A cura di MARIO PISANI. (**) Seguono altri 33 nomi.
— 1253 — gio, falso in bilancio e false comunicazioni sociali, la prescrizione è interrotta fino alla comunicazione dell’esito della rogatoria al magistrato richiedente e comunque per non più di cinque anni’’ (1). B) Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Danieli, Piscitello, Scozzari - Disposizioni in tema di sospensione dei termini di prescrizione dei reati, presentata alla Camera dei Deputati l’11 aprile 1997 (n. 3572). ART. 1. — 1. Al primo comma dell’articolo 159 del codice penale, dopo le parole: ‘‘o di questione deferita ad altro giudizio’’ sono aggiunte le seguenti: ‘‘o di rogatoria all’estero’’. ART. 2. — 1. All’articolo 727 del codice di procedura penale dopo il quinto comma è aggiunto il seguente: ‘‘5-bis. La richiesta di rogatoria sospende il corso della prescrizione del reato’’ (2). (1) Questo il testo della relazione: Onorevoli Colleghi! — La presente proposta di legge ‘‘salva rogatorie’’ si rende necessaria per evitare che i proventi illeciti di ‘‘tangentopoli’’ portati all’estero e al sicuro nelle banche di molti paesi del mondo, vengano perduti definitivamente a causa della prescrizione di molti reati e senza alcuna responsabilità dei magistrati inquirenti, dal momento che i paesi destinatari delle rogatorie, richieste con tempestività, non hanno risposto o hanno risposto solo parzialmente. Non si conoscono i dati precisi delle rogatorie, ma considerato che la sola Procura milanese ne ha richieste più di 400 e che anche le altre Procure che si sono occupate di reati contro la pubblica amministrazione e di reati societari, ne hanno richieste molte, verosimilmente sono più del doppio. Esse riguardano i reati tipici di ‘‘tangentopoli’’ e fanno riferimento a somme cospicue, il cui recupero è tanto più necessario nel momento in cui il Governo si predispone alla terza manovra finanziaria che la maggioranza delle forze parlamentari ritiene necessaria. Il Parlamento, d’altronde, aveva già manifestato la propria volontà approvando l’ordine del giorno del 15 ottobre 1996, con il quale si impegnava il Governo ad attivarsi per recuperare i finanziamenti illeciti delle tangenti. Questa proposta di legge, quindi, costituisce soltanto il completamento dell’iniziativa già assunta nel mese di ottobre del 1996 ed è rispettosa della volontà già manifestata dal Parlamento. Essa, infine, esula da tutte le polemiche che hanno accompagnato le inchieste sulla corruzione, perché si limita a fornire gli strumenti per il recupero all’erario del denaro della collettività (...). (2) Questo il testo della relazione: Onorevoli Colleghi! — L’inchiesta ‘‘Mani pulite’’ e quelle delle altre Procure impegnate sul fronte della corruzione politica ed amministrativa, hanno dimostrato che sono stati esportati all’estero migliaia di miliardi derivanti da attività illecite. Con grande difficoltà i magistrati impegnati su questo fronte sono riusciti ad individuare i luoghi dove buona parte di questi capitali sono stati occultati, superando le difficoltà dovute sia alla grande mobilità del denaro, sia all’impenetrabilità dei paradisi fiscali. Il solo ‘‘pool’’ milanese ha inoltrato in 31 Paesi esteri ben 382 rogatorie internazionali allo scopo di acquisire atti ed altri riscontri probatori: a fronte di questa attività, avviata sin dai primi mesi del 1992, sono state ricevute solo 46 risposte. L’iter delle rogatorie, dipendendo dall’attività o dalla inattività di altre autorità giudiziarie — ed a volte dalle decisioni di autorità politiche di altri Paesi — si svolge spesso con tempi lunghissimi, contribuendo con ciò allo scadere dei termini di prescrizione: cosa che si sta verificando per i procedimenti relativi a numerosi reati connessi alle inchieste di ‘‘Tangentopoli’’. E peraltro, rimanendo in quest’ambito, i proponenti non cesseranno mai di rimproverare lo sciagurato dimezzamento da 10 a 5 anni operato dal Parlamento nel 1994 in merito alla perseguibilità dei reati contro la pubblica amministrazione da parte della Corte dei conti. Esiste quindi un concreto rischio di prescrizione per i reati per i quali sono stati richie-
— 1254 — Il decreto ministeriale di estradizione: natura e modalità temporali. Con decreto 9 luglio 1997 il ministro della giustizia disponeva l’estradizione negli Stati Uniti d’America (Stato del Nevada) di una signora (Adams) per il reato di sottrazione di minore. Facevano seguito la sentenza del T.A.R. del Lazio, in data 6 ottobre 1999, che respingeva tutti i motivi di censura proposti dall’estradata contro il decreto (v. in Cass. pen., 2000, p. 2124), e, poi, l’appello avverso la sentenza, in data 21 ottobre. Tale appello veniva respinto con la decisione 14 marzo - 8 aprile 2000, n. 1996 del Consiglio di Stato, sezione IV. Riportiamo qui di seguito la parte essenziale di questa decisione. ‘‘...3. Scendendo all’esame del merito dell’appello in trattazione — con il quale vengono, nella sostanza, riproposte le doglianze sollevate in primo grado — la sezione premette in diritto quanto segue. La procedura di estradizione passiva presenta due fasi, una amministrativa ed una giurisdizionale strettamente connesse ma facenti capo a poteri dello Stato distinti. Il ministro della giustizia è l’esclusivo titolare del potere di attivarla e disporre, quindi, la trasmissione della domanda estera di estradizione al procuratore generale presso la Corte di appello, competente ratione loci; quest’ultimo procede agli accertamenti preliminari, sulla scorta del fascicolo pervenuto dall’estero. Successivamente si attiva la fase giurisdizionale. Questa ha inizio quando il procuratore generale investe del procedimento la Corte di appello, presentando la sua richiesta di concedibilità o meno dell’estradizione (art. 703, comma 4o, c.p.p.). La fase giurisdizionale è predisposta a tutela dell’interessato, sicché essa non ha ragion d’essere allorché questi esprime il consenso all’estradizione. Il procedimento giurisdizionale di estradizione passiva, ponendosi quale mezzo di garanzia, conferisce alla sentenza favorevole del giudice efficacia di condizione necessaria, ma non sufficiente per l’estradizione, non essendo [il ministro] obbligato a concederla, salva la contraria previsione contenuta in una norma di diritto internazionale consuetudinario o convenzionale, come esplicitamente riconosciuto dall’art. 696 c.p.p. (nel caso di specie, in forza della convenzione in materia di estradizione conclusa fra l’Italia e gli Stati Uniti d’America in data 13 ottobre 1983, e ratificata con legge 26 maggio 1984, n. 225, l’estradizione per il tipo di reato attribuito alla signora (...) — sottrazione di minore dal genitore titolare del diritto di fargli visita — e posto a fondamento del provvedimento restrittivo emanato dalla Corte di giustizia di Carson-City, è obbligatoria). La scelta codicistica, in definitiva, ha confermato « ... per il procedimento di estradizione c.d. passiva il sistema misto; che al potere del ministro, nel senso di concedere o meno l’estradizione, abbina la garanzia giurisdizionale, sotto il profilo sia dell’accertamento delle condizioni legittimanti l’estradizione sia della tutela della libertà personale dell’estradando » (cfr. relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, p. 152). Il decreto che concede o nega l’estradizione conclude la complessa procedura, ma al miste le rogatorie: trascorsi i termini, centinaia di miliardi diverranno irrecuperabili e decine di rei, anche confessi, non saranno più pienamente perseguibili. Con la presente proposta intendiamo ovviare a questo ennesimo vulnus alla certezza del diritto nel nostro Paese; con due semplici modifiche agli artt. 159 del codice penale e 727 del codice di procedura penale si dispone la sospensione dei termini di prescrizione per tutto il lasso di tempo intercorrente dall’invio della rogatoria alla conclusione dell’iter della medesima. Per inciso, si rammenta che il presente progetto, presentato con urgenza allo scopo di impedire la decadenza di reati contro la pubblica amministrazione, ha efficacia anche in tutti i casi per i quali è stata richiesta la rogatoria internazionale e per i quali ancora si attende risposta.
— 1255 — nistro resta precluso l’accertamento in ordine alla concedibilità della stessa sul piano tecnico-giuridico, atteso che tale adempimento è riservato dal legislatore all’autorità giudiziaria (nel caso in esame, la Corte di appello di Roma, prima — sentenza 21 settembre 1995 — e la Corte di Cassazione, poi — sentenza 28 gennaio 1997, n. 4222 — hanno accertato la presenza di tali condizioni). Se è vero che può ritenersi rientrare nella categoria degli atti di natura politica la stipulazione e la sottoscrizione di convenzioni internazionali in tema di estradizione, altrettanto non può affermarsi del decreto che concede l’estradizione di un determinato imputato o condannato, trattandosi di una determinazione, sia pure latamente discrezionale, ma riferita ad una situazione specifica e circoscritta, tale da non coinvolgere gli interessi superiori e indivisibili dello Stato, ma, al contrario, idonea a ledere in modo diretto e immediato interessi individuali. Ne discende la natura di atto di alta amministrazione del decreto de quo — per l’oggettiva connessione con la sfera dell’attuazione dell’indirizzo politico internazionale dello Stato — e la conseguente sindacabilità, in sede di legittimità per vizi suoi propri, da parte del giudice amministrativo, dei soli aspetti lesivi di interessi legittimi (cfr. nel senso della natura non politica dell’atto concessivo dell’estradizione Corte cost. 27 giugno 1996, n. 223; C.d.S., sez. IV, 11 maggio 1966, n. 344) (3). Rimane doverosamente precluso ogni tipo di accertamento che si traduca nel riesame di provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice penale e concernenti lo status libertatis, ovvero del riscontro della sussistenza delle condizioni tecnico giuridiche di estradabilità, o di altre posizioni di diritto soggettivo coinvolte e vulnerate dalla procedura di estradizione. In questa rigorosa prospettiva — rispettosa dell’autonomia logica e funzionale delle singole fasi in cui si articola la procedura di estradizione — la stessa Corte di Cassazione ha affermato che non è consentito proporre incidente di esecuzione avverso l’ordinanza impositiva di una misura cautelare nei confronti di persona per la quale è stata già pronunciata sentenza favorevole alla estradizione, qualora la richiesta sia fondata su aspetti attinenti alla non concedibilità della estradizione, atteso che la sede esclusiva per la trattazione e la decisione di simili questioni è il giudizio di estradizione regolato dagli artt. 704 seg. c.p.p. (fattispecie nella quale era stata richiesta la sospensione della esecuzione della misura dell’obbligo di presentazione giornaliera alla polizia giudiziaria sul presupposto che il reato per il quale era stata richiesta l’estradizione era estinto per prescrizione, Cass. pen., sez. VI, 12 marzo 1998/8 maggio 1998, n. 922). 5. Con il secondo motivo articolato in primo grado, la ricorrente ha dedotto la violazione, da parte del Ministro della Giustizia, del termine di 45 giorni, sancito dall’art. 708, comma 1o, c.p.p., per l’emanazione del decreto di estradizione (avvenuta il 9 luglio 1997) e decorrente dalla data del deposito della sentenza della Corte di Cassazione (n. 4222 del 28 gennaio 1997), resa sul ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello (del 21 settembre 1995), pronunciata a mente dell’art. 706 c.p.p. Il giudice di prime cure ha respinto la censura in considerazione della natura non perentoria di tale termine. L’art. 708 c.p.p. « rappresenta una novità assoluta. Esso ha per oggetto la fase del procedimento successiva alla garanzia giurisdizionale o, in caso di consenso all’estradizione, al deposito del relativo verbale ed è inteso a disciplinare nel dettaglio, mediante la fissazione di alcuni termini perentori, gli adempimenti che in tale fase fanno carico al ministro di grazia e giustizia » (cfr. relazione cit., p. 153). (3) La sentenza della Corte — che peraltro non affronta il problema in modo esplicito — è pubblicata in Foro it., 1996, I, c. 2586 (con nota DI CHIARA); quella del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 1968, p. 533 (con nota CHIAVARIO). Cfr., quanto a questa seconda pronuncia, QUADRI, voce Estradizione (Dir. int.), in Enc. del dir., vol. XVI, 1967, p. 7.
— 1256 — Come si evince dalla lettura sinottica dell’intero art. 708 c.p.p., il carattere perentorio dei termini è riferito allo status libertatis dell’estradando. In particolare, i commi 2o e 6o del suddetto articolo stabiliscono che la persona da estradare, se detenuta, venga posta immediatamente in libertà tanto nell’ipotesi di mancata tempestiva adozione del provvedimento di estradizione entro il termine di 45 giorni indicato nel secondo comma, che in quella cronologicamente successiva, di omessa presa in consegna dell’estradando da parte dello Stato richiedente entro il termine massimo di 35 giorni previsto dal comma 5o dello stesso articolo. Coerentemente (cfr. Cass. pen., sez. V, 30 gennaio 1991, n. 6225), la scarcerazione dell’estradando si verifica solo quando il ministro non adotta entro i 45 giorni la sua decisione di concedere l’estradizione e non anche quando questa sia successivamente attuata, sicché l’estradizione resta legittima anche quando avviene oltre tale termine (sul carattere non perentorio, salvo che la legge non disponga diversamente, dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi fissati dalle singole leggi di settore o in via generale ai sensi dell’art. 2, legge n. 241 del 1990, cfr. C.d.S., 20 gennaio 1997, n. 353 del 1994; sez. II, 16 ottobre 1996, n. 1154 del 1996). Nonostante la assodata non perentorietà del termine, la sezione ritiene che una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame — avuto riguardo ai valori espressi dagli artt. 13, sulla inviolabilità della libertà personale, e 97, in tema di buon andamento dell’azione amministrativa — debba conformarsi ai principi generali dell’ordinamento enucleabili tra l’altro: a) dalle disposizioni della legge n. 241 del 1990 — cfr. in particolare l’art. 2, comma 2o, che impone la conclusione del procedimento amministrativo entro un dato termine; l’art. 4, comma 1o, che esige l’individuazione di un’unità amministrativa responsabile della conclusione del procedimento; l’art. 5, comma 1o, che impone di individuare un responsabile dell’adozione del provvedimento finale; b) dall’art. 328 c.p., che sanziona i reati di rifiuto ed omissione di atti propri dell’ufficio del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio; c) dall’art. 1, del d.P.R. n. 29 del 1993, nella parte in cui impone di accrescere l’efficienza delle organizzazioni pubbliche nazionali in relazione ai corrispondenti uffici e servizi dei Paesi comunitari; d) dall’art. 12, d.P.R. n. 29 del 1993, che nell’istituire gli uffici per le relazioni con il pubblico assegna a questi il compito di informare costantemente l’utente sullo stato di avanzamento e conclusione dei procedimenti; e) dal complesso delle norme introdotte dal d.lgs. n. 286 del 1999, al fine del riordino e potenziamento dei meccanisni e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, rendimenti e risultati dell’attività svolta dalle pubbliche amministrazioni. L’esegesi della disposizione divisata dal citato art. 708 c.p.p., condotta secondo i criteri ora illustrati, conduce a ritenere illegittimo, il superamento, in modo esorbitante da parte del ministro della giustizia, del termine di 45 giorni ivi fissato. In linea teorica, la prolungata inerzia dell’amministrazione, priva di valide ragioni giustificative (istruttorie, politico - internazionali et similia), sostanzia un’ipotesi di eccesso di potere sotto molteplici profili: a) per lesione dell’affidamento incolpevole del privato nella rapida conclusione del procedimento di estradizione, dopo la favorevole valutazione da parte dell’autorità giudiziaria penale delle condizioni di estradabilità; b) per violazione del criterio di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa, da valutarsi comunque in termini rigorosi, attesa la compenetrazione di taluni indubbi elementi di valutazione politica, con quelli più strettamente amministrativi; c) per la situazione di incertezza in ordine alla libertà personale dell’estradando, che, sebbene non costretto in vinculis nel territorio nazionale per scadenza del più volte menzionato termine di 45 giorni, sancito dall’art. 708, comma 2o, c.p.p., è comunque passibile di una coatta traditio allorquando sarà emanato il relativo decreto di estradizione. Nella specie, però, non ricorrono tali indici di eccesso di potere. Il lasso di tempo in concreto trascorso, oltre il termine di 45 giorni è, infatti, di per sé non esorbitante (quattro mesi circa); inoltre, come risulta dalla documentazione allegata al fascicolo d’ufficio, la difesa della signora (...) ha interloquito nella fase prodromica all’emanazione del decreto impugnato, presentando due memorie (rispettivamente del 7 marzo
— 1257 — 1997 e del 27 maggio 1997) con cui richiedeva all’amministrazione di valutare una serie di circostanze, di attendere gli esiti dell’indagine preliminare aperta a carico della (...) dalla Procura della Repubblica di Roma per il reato di sottrazione di minore (evento questo capace di determinare la sospensione della consegna a mente dell’art. 709 c.p.p.), nonché di attendere gli sviluppi della udienza di comparizione dei genitori della minore, fissata dal Tribunale per i minori di Roma nell’ambito del procedimento di affidamento di quest’ultima attivato a richiesta della nonna materna, per il giorno 10 luglio 1997. Nell’atto di appello (pp. 14 e 25) la ricorrente nel presupposto della non perentorietà del termine solleva questione di costituzionalità della norma. A cagione dell’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella disciplina della materia — anche in relazione ai delicati aspetti di responsabilità internazionale nei confronti degli altri Stati che potrebbero venire in luce — nonché della assenza di una situazione di danno grave nell’ipotesi in cui il ministro non si pronunci nel termine di 45 giorni (per la rimessione in libertà del detenuto estradando), e fermo restando, per quanto sopra detto, che la decisione ministeriale intervenga in un tempo ragionevole, la questione di costituzionalità appare manifestamente infondata, avuto riguardo ai parametri invocati: artt. 3 e 24 della Costituzione. 7. Con il quarto ed ultimo dei motivi originari di ricorso, la signora (...) deduce, da un lato, l’avvenuta prescrizione del reato oggetto del provvedimento di estradizione, secondo le leggi dello Stato del Nevada; dall’altro la violazione dell’art. 708, commi 5o e 60, c.p.p., essendo il decreto divenuto inefficace per il decorso del termine di 15 giorni sancito per la consegna dell’estradando allo Stato richiedente. Entrambe le doglianze sono state affrontate e risolte nella sede propria dalla Corte di Cassazione (sez. VI, 8 maggio 1998, n. 922). La Corte ha affermato che in tema di estradizione per l’estero, il vano decorso del termine di quindici giorni previsto dall’art. 708, comma 5o, c.p.p., per la consegna dell’estradando produce la perdita di efficacia del decreto ministeriale di estradizione solo nella ipotesi in cui la mancata consegna sia attribuibile all’inerzia dello Stato richiedente « che non provvede a prendere in consegna l’estradando »; nella specie, il termine era decorso a seguito della decisione dello Stato italiano di rinviare la consegna in attesa della decisione del Consiglio di Stato sul ricorso promosso dalla signora (...) per l’ottenimento della sospensione dell’esecuzione del decreto ministeriale. Da qui l’inammissibilità della censura perché attinente allo status libertatis dell’estradando e quindi a posizioni di diritto soggettivo e non di interesse legittimo’’.
Italia-Spagna: un ‘‘Protocollo di cooperazione’’ e una ‘‘Dichiarazione congiunta’’. Il 20 luglio 2000 sono stati firmati a Madrid i testi di un ‘‘Protocollo di cooperazione in materia di estradizione tra Italia e Spagna, e di una ‘‘Dichiarazione congiunta’’ dei due guardasigilli ‘‘per la creazione di uno spazio comune di giustizia, sicurezza e libertà fra entrambi i Paesi’’ (4). 1.1. Il Protocollo — di cui è prevista l’entrata in vigore ‘‘nel momento in cui le Parti abbiano reciprocamente notificato l’adempimento delle procedure previste dai rispettivi ordinamenti’’ — muove da una serie di ‘‘considerazioni’’ a guisa di premesse. Ne riportiamo alcune: — ‘‘(...) Considerando che il dovere di cooperazione dei Paesi democratici, che aderiscono ad uno spazio comune di libertà di circolazione transnazionale comporta un obbligo (4)
In altra sede ci si riserva di pubblicare i due testi in forma integrale.
— 1258 — particolarmente rafforzato, diretto ad evitare spazi di impunità o espedienti che consentano l’utilizzo di tale libertà di spostamento per sottrarsi alle norme di ciascuno dei due Stati; — (...) Considerando l’utilità di migliorare le procedure di estradizione tra i due Paesi e di incrementare la cooperazione tra di loro, nonché di completare ed agevolare l’applicazione dei principi della Convenzione europea di estradizione e del Secondo Protocollo in relazione alle sentenze pronunciate in contumacia’’. 1.2. Il Protocollo è articolato in una serie di previsioni e di impegni, di cui ci limitiamo a richiamare quello prioritario, oltre ad una più generale e connessa intesa di carattere funzionale ed organizzativo: ‘‘(1) Entrambe le Parti si impegnano, fino al raggiungimento [si noti] dell’obiettivo della soppressione del procedimento formale di estradizione, ad adottare tutte le misure necessarie per agevolare la trattazione delle richieste di estradizione tra entrambi i Paesi, indipendentemente dalla situazione processuale e giuridica della persona richiesta in estradizione; (...) (5) Allo scopo di ottenere un maggiore coordinamento tra i firmatari del presente Protocollo saranno utilizzati i rispettivi Magistrati di Collegamento designati in conformità all’azione comune approvata dal Consiglio dell’Unione Europea nella riunione del 22 aprile 1996’’ (5). 1.3. La formulazione dell’impegno sub (1) nei termini sopra riferiti (che sembrano perfino eccessivi: ‘‘... indipendentemente dalla situazione processuale e giuridica della persona richiesta’’), lascia intendere che potrà essere avviata ad una consistente semplificazione anche la tematica dell’estradizione in caso di ergastolo (pena non prevista nell’ordinamento spagnolo) (6). 2.1. La ‘‘Dichiarazione congiunta’’ muove tra l’altro dalla premessa (punto 3) secondo cui ‘‘Le nuove e complesse forme di criminalità, con le conseguenti ramificazioni internazionali, richiedono l’adeguamento dei tradizionali principi di cooperazione al fine di assicurare che chi commette un reato sia perseguito, giudicato, e, se condannato, sconti effettivamente la pena inflittagli’’, e fa espresso riferimento al Trattato di Amsterdam ed alle successive conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere. In quella sede è stato affermato (punto 6) ‘‘che il principio del riconoscimento mutuo delle decisioni giudiziarie penali deve essere il pilastro della cooperazione nell’Unione, partendo dalla considerazione che un miglior riconoscimento delle decisioni e delle sentenze ed una maggiore e più efficace approssimazione delle legislazioni, non solo faciliterà la cooperazione tra le autorità, ma servirà anche come strumento efficace per l’adeguata protezione dei diritti individuali’’ (7). 2.2. Per ‘‘definire accordi e programmi’’ è stata prevista la costituzione di un gruppo di lavoro ‘‘con rappresentanti dei Ministeri della Giustizia, Interno ed Affari Esteri dei due Paesi’’. (5) Come contributo alla genesi di tale impegno si può forse menzionare la richiesta di cui si era fatta eco una lettera dello scrivente al dott. Giorgio Lattanzi, in data 15 marzo 2000: ‘‘... di ritorno da Salamanca [XII Congreso Universitario Alumnos de Derecho Penal], a seguito di uno scambio di idee con l’ecc.mo D.Siro García [Presidente de la Sala de lo Penal de la Audiencia Nacional] in tema di estradizioni dalla Spagna di cittadini italiani perseguiti per reati da ergastolo (ultimo caso: il caso Puntorieri), lo stesso alto magistrato ha prospettato l’opportunità di istituire, come nei rapporti Italia-Francia, dei magistrati di collegamento Spagna-Italia. E ciò attesa l’elevata percentuale di richieste di estradizione, e i non pochi problemi che si pongono (esempio emblematico: in tema di contumacia). Mi faccio avanti — come ben intendi — come semplice nuncius’’. (6) In ordine a tale tematica, riproposta dal ‘‘caso Puntorieri, v. in questa Rivista, 2000, p. 850 (e, in termini più ampi, Estradizione ed ergastolo nei rapporti Italia-Spagna, in Scritti Pototschnig, in corso di st.). (7) Il documento approvato a Tampere (ottobre 1999) è in gran parte pubblicato (Per un autentico spazio di giustizia europeo) in questa Rivista, 2000, p. 393. Su tale tematica v. un ampio studio di SALAZAR, in Cass. pen., 2000, p. 1114 ss.
— 1259 — Estradizione e detenzione ingiusta: il nuovo trattato col Paraguay. A suo tempo (v. in questa Rivista, 1998, p. 1438) si era fatto rilevare che — anticipando assai più recenti prese di posizione —, dopo il trattato bilaterale con la Bolivia (1890), l’art. 7 del trattato di estradizione col Paraguay (30 settembre 1907) aveva previsto: ‘‘In tutti i casi di arresto preventivo le responsabilità che da esso emanano spetteranno al governo che sollecitò la detenzione’’. Può colpire la circostanza che, nel nuovo trattato di estradizione — che per lo più abroga il precedente —, e cioè nel ‘‘trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica del Paraguay, fatto ad Assunzione il 19 marzo 1997’’ (l. 27 gennaio 2000, n. 14), non è dato rinvenire una norma corrispondente a quella dell’abrogato art. 7.
La nuova disciplina francese dell’assistenza giudiziaria internazionale. La legge n. 99 - 515 del 23 giugno 1999 (JO, 24 giugno, p. 9247) contiene una nuova disciplina relativa alla materia che il nostro codice (art. 723 ss. c.p.p.) designa come « Rogatorie dall’estero ». Presentiamo qui di seguito la traduzione dei nuovi testi normativi, che sono stati direttamente inseriti nel Code de procédure pénale: ART. 694. Alle domande di assistenza formulate dalle autorità giudiziarie straniere viene data esecuzione, a seconda della provenienza o della natura degli atti richiesti, nelle forme previste dal presente codice per l’enquête [art. 53 ss.], l’istruttoria o l’udienza dibattimentale. Alla domanda di assistenza si deve dare esecuzione nelle forme previste per l’istruttoria quando essa richiede determinati atti processuali che non possono essere ordinati od eseguiti se non da un giudice istruttore. Alla domanda di assistenza si deve dare esecuzione nelle forme previste per l’udienza dibattimentale quando essa deve essere espletata in udienza pubblica e con le modalità del contraddittorio. Essa è allora di competenza, a seconda dei casi, del tribunal correctionnel nella composizione prevista dal terzo alinea dell’art. 398 o del tribunal de police. ART. 695. Per l’applicazione dell’art. 53 del Trattato di Schengen del 19 giugno 1990, il procuratore generale presso la Corte d’appello di competenza è incaricato di trasmettere le domande di assistenza alle competenti autorità giudiziarie e di curare la consegna [le retour] della documentazione relativa all’esecuzione. ART. 696. Per la consegna degli atti di esecuzione in forma urgente tra le autorità giudiziarie francesi e gli altri Stati parte del Trattato di Schengen del 19 giugno 1990, le competenze attribuite al ministro della giustizia dal § 2 dell’art. 15 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959, sono esercitate dal procuratore generale della Corte d’appello di competenza. ART. 696-1. Le autorità giudiziarie che richiedono un atto urgente di assistenza giudiziaria in materia penale possono, nel quadro delle convenzioni in vigore, investire le autorità competenti dello Stato richiesto, allo scopo di ottenere, entro il più breve termine, la consegna della documentazione relativa all’esecuzione degli atti richiesti. ART. 696-2. Le autorità giudiziarie investite da una domanda di assistenza giudiziaria in materia penale internazionale la cui esecuzione esse ritengano potrebbe essere tale da compromettere la sicurezza, l’ordine pubblico o altri interessi essenziali della Nazione, adottano le
— 1260 — determinazioni necessarie per consentire alle autorità competenti di valutare il seguito da riservare a tale domanda (8).
La cooperazione internazionale: un percorso di guerra. ‘‘En France comme à l’étranger, les marchés financiers sont devenus libres. La révolution technologique permet désormais, à Paris comme à Tokyo, d’effectuer en temps réel les opérations bancaires les plus complexes à n’importe quel endroit du globe. Chacun peut comprendre l’absurdité de la situation. L’argent est totalement libre d’aller et de venir, pendant que les enquêtes judiciaires restent confinées à l’intérieur des frontières. La coopération internationale est en effet un parcours du combattant. Les procédures ont été conçues à une époque où il s’agissait de rendre la collaboration la plus difficile possible afin de garantir l’indépendance des États. Lorsque je suis arrivée à la galerie financière, une commission rogatoire internationale (c’est-à-dire une demande de renseignements à un magistrat étranger) devait remonter jusqu’au Garde des Sceaux, être transmise au ministre des Affaires étrangères, qui la communiquait à son homologue, lequel la faisait redescendre jusqu’au magistrat correspondant... Et au retour, il fallait employer la même procédure. Quand une enquête ne plaisait pas aux autorités françaises, il suffisait de laisser le dossier en souffrance six mois ou un an à chaque étape, ou de négocier discrètement avec le pays en cause une enquête en pointillé. Ce circuit archaïque a été simplifié depuis, mais il reste particulièrement lourd. Le déséquilibre de la situation est d’autant plus vif que nous assistons depuis vingt ans à la montée en puissance d’une pléiade de micro pays, villes-États et territoires protégés offshore (c’est-à-dire « hors rivages »), qui semblent pousser comme des champignons à la sarface du globe financier’’. (EVA JOLY, Notre affaire à nous, Paris, les arènes, 2000, pp. 152153).
In tema di « paradisi fiscali »: il Liechtenstein... ‘‘...Altezza; (9) per quasi trecento anni il principato del Liechtenstein è stata un’oasi tranquilla: tasso di criminalità di qualche decimale sopra lo zero, nessuna importante inchiesta giudiziaria. Perché questa tempesta? Perché ora? E poi le accuse e la messa al bando della comunità internazionale che vi accusa di non combattere il riciclaggio di denaro sporco... « Ancor prima della seconda guerra mondiale il Liechtenstein era un paradiso fiscale. Il Terzo Reich ci accusò di agevolare la fuga dei capitali degli ebrei. Fummo quindi nuovamente tacciati dalla Germania di essere un paradiso fiscale negli anni ’60 e ’70. Adesso, (8) Cfr. il comma 1 dell’art. 723 del nostro codice, dove si configurano come possibili limiti all’esecuzione della rogatoria la salvaguardia della sovranità, della sicurezza o di altri interessi essenziali dello Stato. A proposito della recente ed omologa previsione francese si è fatto rilevare (BOULOC, in Rev. sc. crim., 2000, p. 231) che essa avrebbe meritato di venire più chiaramente esplicitata, con particolare riferimento all’ordre public. Al contempo si è anche lamentato che la nuova normativa non disciplini il controllo circa la regolarità dell’esecuzione degli atti richiesti. (Sul tema v. Il controllo sulla regolarità degli atti compiuti a seguito della rogatoria, in questa Rivista, 1998, p. 1438). (9) Si tratta di un’intervista al principe Hans Adam II (salito al trono del Liechtenstein nel 1989).
— 1261 — però, dobbiamo riconoscere che la situazione è diversa e più seria. Per almeno due buone ragioni. Primo: la cornice politica internazionale è cambiata. Anche a causa dello sviluppo dell’e-commerce, i Paesi dell’Ocse sono molto più preoccupati di un tempo e l’evasione fiscale è diventata un’urgenza paragonabile a crimini come il sequestro di persona, il traffico di droga, la criminalità organizzata. In secondo luogo, la lotta contro il crimine oganizzato e i reati dei colletti bianchi — non voglio considerare l’evasione fiscale un reato — è diventata costosa e complicata per ogni Paese. E su questo devo ammettere che il Liechtenstein non si è impegnato a sufficienza negli ultimi decenni. Certo, non ha aiutato l’influenza della politica sui nostri magistrati. Le nostre leggi sono più o meno adeguate agli standard europei. Non lo è la loro applicazione (...). Dobbiamo migliorare la cooperazione con gli altri Paesi nella lotta al crimine organizzato e ai reati dei colletti bianchi. Sono necessarie alcune modifiche della legge, ma tenete presente che qui in Liechtenstein il problema non è la legge, ma la sua applicazione »’’. (C. BONINI-V. MALAGUTTI, « Sì, il Liechtenstein non ha vigilato », in Corriere della Sera del 17 luglio 2000, p. 7). ‘‘(...) Ha trovato prove di legami tra il riciclaggio di denaro sporco nel Liechtenstein e la corruzione di funzionari pubblici in Paesi come la Germania, l’Italia, la Francia e l’Austria? (10) « Nella pratica, tutto il denaro proveniente dalla criminalità organizzata che arriva nel Liechtenstein è già stato riciclato una prima volta. E questo denaro arriva attraverso le banche di quei Paesi che evidentemente nella lotta al riciclaggio di denaro sporco hanno una reputazione migliore di quanto non meritino. Intendo Paesi come l’Italia, il Lussemburgo, la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Svizzera, tanto per nominarne solo alcuni. Molti Paesi invece non si mostrano collaborativi nella lotta al riciclaggio di denaro sporco e non rispondono nemmeno alle richieste di assistenza legale, come la Russia, la Romania o Cipro »’’. (C. BONINI-V. MALAGUTTI, « Nel Liechtenstein soldi già riciclati in Italia », in Corriere della Sera del 18 luglio 2000, p. 11).
(...) il Principato di Monaco. « Le 27 juin, le gouvernement monégasque avait déjà dénoncé les conclusions auxquelles étaient parvenus les experts du GAFI (11) et les députés français (12), qualifiant notamment le rapport de la mission parlementaire d’« opération de dénigrement menée au mépris des faits dans une vision délibérément orientée ». Particulièrement vindicatif, le prince Albert indique qu’à l’automne prochain, lors de la réunion de la commission mixte franco-monégasque, « l’ordre du jour comportera une réactualisation, voire un dépoussiérage, du traité de 1918 entre Monaco et la France ». Dans leur rapport, les députés français qualifiaient la principauté de « paradis fiscal, bancaire, fiduciaire et judiciaire ». Les parlementaires déploraient que l’Etat monégasque se contente d’une « legislation lacunaire et de façade » alors que, selon eux, « l’afflux inévitable de capitaux résultant de l’existence d’une fiscalité privilégiéé nécessite, en contrepartie, la mise en place d’un système bancaire rigoureux, l’existence d’une législation permettant de se prémunir contre l’anonymat des transactions, la (10) Da un’intervista al magistrato austriaco Kurt Spitzer, nominato dal Liechtenstein Procuratore speciale ad hoc, per indagare in ordine al dossier sul riciclaggio consegnato dai servizi segreti tedeschi (Bnd). (11) Si tratta della sigla del ‘‘Groupe d’action financière sur le blanchiment des capitaux’’. (12) Si fa riferimento ai lavori della commissione diretta dai deputati socialisti V. Peillon e A. Montebourg.
— 1262 — garantie d’une coopération internationale policière, judiciaire, efficace, accordée en matière pénale ». De critiques similaire ont été portées par le GAFI dans son propre rapport. Cependant, le Groupe d’action financière a décidé au tout dernier moment de ne pas coucher Monaco sur la « liste noire » des pays blanchisseurs d’argent sale, préférant faire figurer la principauté sur une liste intermédiaire dite « grise », provoquant les réactions indignées de membres de la mission parlamentaire française ». (F. LHOMME, Le prince Albert de Monaco se déclare « choqué » par les accusations françaises contre la principauté, in Le Monde del 25 luglio 2000, p. 34).
Sulla Corte penale internazionale. Nei giorni 17 e 18 luglio 2000 si è svolta a Roma, in Campidoglio, a cura dell’associazione ‘‘Non c’è pace senza giustizia’’, la ‘‘Conferenza europea sullo statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale’’. (Sull’istituzione della Corte v. da ultimo, anche per i richiami, le Brevi riflessioni di PATRUNO, in Cass. pen., 2000, p. 1476, e, inoltre, JESCHECK, La Corte Penale Internazionale, in Ind. pen., 2000, p. 297). La conferenza, dopo la cerimonia di celebrazione, si è articolata in tre sessioni seminariali, così rispettivamente intitolate: ‘‘Lo Statuto di Roma e i suoi allegati: aggiornamento sui lavori della Commissione preparatoria’’; ‘‘L’Europa e lo Statuto di Roma: ruolo delle istituzioni e della società civile’’; ‘‘Ratifica ed esecuzione dello Statuto di Roma: obblighi internazionali e ordinamenti interni’’. Sotto quest’ultimo profilo, risulta che il lavoro parlamentare di adeguamento interno alla Convenzione, a suo tempo stralciato dall’iter della ratifica, procede con una certa lentezza (13).
Germania: verso la ratifica dello statuto della Corte penale internazionale. Il 1o dicembre 1999, il Consiglio dei Ministri della Repubblica Federale ha presentato un disegno di legge di ratifica, passato poi all’esame, in prima lettura, del Bundesrat il 4 febbraio e sottoposto poi al Bundestag. L’approvazione del testo da parte del Parlamento era stata programmata come prerequisito essenziale per il deposito dello strumento di ratifica (preventivato per il giugno 2000). Un particolareggiato memorandum esplicativo accompagna il disegno di legge. Alcune importanti indicazioni — concernenti, rispettivamente, l’emendamento all’art. 16 § 2 della Costituzione Federale e l’integrazione della ‘‘Legge sulla cooperazione internazionale in ma(13) A tale riguardo il sen. Senese ci comunica (9 luglio): ‘‘·.. Speriamo almeno che l’iter possa essere completato entro la fine della legislatura’’. Sempre a proposito di lentezze, riproduciamo l’inizio di un resoconto giornalistico della Conferenza: ‘‘Il futuro della Corte penale internazionale è appeso alle resistenze di troppi parlamenti nazionali che finora non hanno preso in seria considerazione questo strumento per combattere i crimini contro l’umanità. Sono passati due anni dalla conferenza di Roma, quella in cui vide la luce il tribunale mondiale, ma il bilancio delle adesioni è deludente: solo 14 Paesi hanno ratificato lo statuto ma per far decollare la Corte è necessario raggiungere quota 60. E ora, dal procuratore Carla Del Ponte (Tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia) arriva un segnale d’allarme contro l’impunità dei potenti: « Abbiamo bisogno subito di queste ratifiche. Altrimenti, visto che la giurisdizione della Corte non è retroattiva, chi si occuperà dei crimini compiuti in Cecenia, in Sierra Leone, in Burundi e in tanti altri Paesi, compreso il Kosovo? »’’. (D. MARTIRANO, Da Roma appello per salvare la Corte penale internazionale, in Corriere della Sera del 18 luglio 2000, p. 11).
— 1263 — teria penale’’— sono state offerte in una nota illustrativa che reca la firma del ministro della giustizia Claus Kress: ‘‘L’emendamento investe il Parlamento del potere di autorizzare la consegna di cittadini tedeschi ai Tribunali Penali Internazionali nonché di concedere la loro estradizione verso un altro Stato membro della Unione Europea (UE). Sulla questione della consegna alla Corte penale internazionale vi è disaccordo tra i costituzionalisti tedeschi, i quali ritengono quest’emendamento affatto necessario. Nonostante alcune precedenti decisioni della Corte costituzionale possano essere lette in tal senso, è tuttavia opinione dell’autore che gli argomenti costituzionali abbiano un significato molto più importante. L’emendamento costituzionale dovrebbe essere, infatti, considerato come un utile chiarimento, elaborato contestualmente alla revisione della Costituzione in materia di estradizione verso un altro Stato Membro dell’UE (...). Gli obblighi di cooperazione con la Corte penale internazionale, previsti alla Parte 9 dello Statuto, richiedono un perfezionamento normativo. Dato che il regime di cooperazione dello Statuto differisce notevolmente da quello previsto a livello interstatale, nella legge über die Internationale Rechtshilfe in Strafsachen (IRG) è stata decisa l’adozione di una disciplina speciale e analoga a quella sulla cooperazione coi due Tribunali ad hoc. Questa disciplina speciale potrebbe includere anche le disposizioni necessarie perché la Germania possa rendere esecutive le sentenze di condanna emesse dalla Corte penale internazionale’’.
DOTTRINA
TRAMONTO DEL DOLO?
1. Le sentenze di merito del Tribunale e della Corte di Milano nella vicenda del Banco Ambrosiano sono state dissezionate con la consueta perizia da Alberto Crespi, che ha messo a nudo radicali deviazioni dai principi comunemente ricevuti in tema di dolo (1). La forma principe della componente soggettiva viene dai giudici milanesi depauperata della vis che la caratterizza e appiattita su tracciati non più che colposi. Quando ‘‘la ragionevole possibilità per l’amministratore estraneo alla concreta gestione delegata di rilevare l’illiceità lato sensu del comportamento distrattivo addebitabile al delegato’’ viene letteralmente ‘‘senz’altro (sic) equiparata alla consapevolezza concretamente raggiunta dal singolo componente del collegio’’ (2), passando disinvoltamente dal piano della possibilità (sempre tale anche se ‘‘ragionevole’’) al piano dell’attualità psicologica, quasi fossero unum et idem, altro non si fa che rivestire la colpa delle mentite spoglie del dolo, se non addirittura ‘‘contrabbandare come dolo ciò che in realtà è soltanto applicazione non richiesta di una non prevista responsabilità oggettiva per fatto altrui’’ (3). E quando poi si statuisce ‘‘l’affermazione di responsabilità degli amministratori in relazione ed in conseguenza dell’inadempimento degli obblighi legislativamente previsti dalle norme di diritto societario (e in particolare, dall’art. 2392 c.c.), dalle norme speciali di diritto bancario e di quelle convenzionali, regolanti la vita della società’’ (4) si indulge a un semplicistico sincretismo normativo entro il quale va disperso il proprium della responsabilità penale, fatta discendere omisso medio da violazioni pertinenti ad altri rami del di(1) CRESPI, La giustizia penale nei confronti dei membri degli organi collegiali, in questa Rivista, 1999, p. 1147 (dal volume Il governo delle banche in Italia, a cura di Riolo e Masciandaro, Milano, 1999). (2) Così Trib. Milano, 16 aprile 1992, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 1477 (il brano trascritto a p. 1489). Si veda anche la Rassegna di diritto societario del CRESPI, in Riv. soc., 1994, p. 1076. (3) CRESPI, La giustizia penale, cit., p. 1154. (4) App. Milano, 16 giugno 1996, nella Rassegna del CRESPI, in Riv. soc., 1998, p. 274 (nonché in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 571). Sostanzialmente evasiva la pronuncia della Cass., 22 aprile 1998, in Guida al diritto, 1998, n. 33, nonché Cass. pen., 1999, p. 651 (per un commento CRESPI, La giustizia penale, cit. p. 1157).
— 1266 — ritto, quasi fossimo in presenza di incriminazioni puramente e semplicemente ‘‘sanzionatorie’’. Il fantasma del dolo eventuale viene, come c’era da aspettarsi, evocato per coonestare la confusione di piani, l’equivoco tra potenza e atto. Si va oltre il mero strattagemma probatorio per avvalorare il pervertimento di concetti e istituti. Paradossalmente: in quanto depotenzia il momento volitivo la figura del dolo eventuale dovrebbe segnare la riscossa della Vorstellungstheorie; e invece, in siffatte applicazioni deviate, finisce per vanificare proprio il momento rappresentativo, cui sottrae l’oggetto suo proprio. Rinculando sull’antefatto della potenzialità allo stato puro, la rappresentazione si diluisce, riversandosi su di una serie indefinita di eventualità giuridicamente negative: si riduce a prospettazione senza contorni né confini, praticamente ‘‘in bianco’’. A mo’ di esempio: al semplice consigliere di amministrazione si impresta la consapevolezza che gli operativi — i delegati — possano commettere abusi rappresentati solo nel genus dell’etichettatura giuspenalistica, accantonando come superfluo ogni specifico innesto fattuale. L’oggetto della rappresentazione nello straripare si disperde: svanisce l’oggetto del dolo tout court. 2. Se il dolo vuol essere proiezione del fatto esteriore sullo schermo mentale del soggetto, l’evento che deve essere previsto e voluto a mente dell’art. 43 è necessariamente l’evento concreto, calato nel divenire e quindi storicamente circostanziato (5): l’evento, come precisato testualmente, che in fatto consegue all’azione od omissione, previsto e voluto congiuntamente alla condotta di cui si pone come sbocco. Concentrare la rappresentazione su di un modello cartaceo — ridurre il fatto alla fattispecie — vorrebbe dire abbandonare il terreno concreto della ‘‘coscienza e volontà’’ dell’azione od omissione, psicologicamente ambientata ancorché ridotta a ‘‘suitas’’, sganciando il 2o dal 1o comma dell’art. 42; soprattutto vorrebbe dire disarticolare i due momenti del dolo, spezzando un disegno normativo unitario: la previsione, infatti, deve fornire un congruo alimento al volere, anche nella versione attenuata della semplice ‘‘accettazione’’ (6). (5) In tale ordine di idee vedi soprattutto PECORARO ALBANI, Il dolo, Napoli, 1955, p. 607; ROMANO, Contributo all’analisi della ‘‘aberratio ictus’’, Milano, 1970, p. 43; ID., Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., Milano, 1995, pp. 405 e 734; MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’, Milano, 1971, p. 156; PULITANÒ, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, 3a ed., Padova, 1999, sub IV ad art. 43; G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale e colpa cosciente, in questa Rivista, 1988, pp. 124, 136, 146; DONINI, Teoria del reato, in Digesto pen., IV, Torino, 1999, p. 287; PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, 1993, p. 46. (6) Fra gli autori che accentuano la realtà psicologica del dolo, oltre alle citazioni di
— 1267 — Se non ci inganniamo il momento intellettivo si propone quale zoccolo duro del dolo, filtro razionale senza cui non può darsi un volere consapevolmente indirizzato, ma solo un impulso cieco, atto a fare affiorare gli strati profondi della psiche, ma non a ricollegare il soggetto al fatto. Dell’impostazione cui aderiamo non ci nascondiamo i limiti e i costi: riteniamo però che solo un dolo razionalizzato in radice grazie a un robusto basamento intellettivo risponda allo spirito di una repressione penale istituzionalmente orientata sul ‘‘fatto’’ (7). Poiché del fatto il reo è chiamato a rispondere, il fatto quale si realizza deve risultare consapevolmente voluto nella forma corrente e più impegnativa di soggettività criminosa (8). Le preoccupazioni repressive non devono prendere la mano: le falle del sistema sanzionatorio non si chiudono indebolendo i presupposti sostanziali della responsabilità (la certezza... della condanna quasi a surrogare la svanita certezza della pena) (9). 3. Una direttrice di concretezza informa, merita osservare, l’intera trama dell’emisfero soggettivo. L’errore negativo del dolo, di cui all’art. 47, non cade sulla fattispecie legale, ma sui dati storici nei quali essa di volta in volta si incorpora (10); come la putatività delle scriminanti si risolve nella supposizione di situazioni concrete atte a elidere l’antigiuridicità. Il realismo si estende all’ambito della colpa, per quanto assai meno psicologizzato: è l’evento storicamente tangibile, con i suoi comprovati antecedenti causali, che deve raccordarsi alla rosa delle finalità preventive cui alla nota che precede, vedi di recente ALESSANDRI, Il 1o comma dell’art. 27, nel Commentario della Costituzione, diretto da Branca e Pizzorusso, Artt. 27-28, Bologna-Roma, 1991, pp. 85 e 115; EUSEBI, Il dolo come volontà, Milano, 1993, passim; ID., In tema di accertamento del dolo: confusioni fra dolo e colpa, in questa Rivista, 1987, p. 1062; GROSSO, voce Dolo (diritto penale), in Enc. giur. Treccani, Roma, XII, 1988, p. 1; MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1988, p. 449; PICOTTI, Il dolo specifico, Milano, 1993, p. 605. (7) Sul collegamento tra colpevolezza e singolo fatto antigiuridico v. ora MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, 3a ed., Milano, 2001, p. 644. (8) Diversamente EUSEBI, Il dolo, cit., p. 77, il quale tende a svalutare il momento rappresentativo, che taccia di labilità. Rifiuta la razionalizzazione del dolo, che ricostruisce in termini di psicologia del profondo, MORSELLI, L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, in questa Rivista, 1991, p. 95; ID., Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, passim. (9) Segno dei tempi? Sulla tendenza all’indebolimento dell’elemento psicologico cfr. PALIERO, L’autunno del patriarca, in questa Rivista, 1994, p. 1229; SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990, p. 23. Sul diritto penale ‘‘moderno’’ che va contrapponendosi al diritto penale ‘‘classico’’, per tutti, FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, 1997, p. 211. (10) Per tutti FLORA, voce Errore, in Digesto pen., IV, Torino, 1990, p. 260; GROSSO, voce Errore (diritto penale), in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma, 1988, p. 47.
— 1268 — attribuibili alla regola di condotta che si assume violata, per potersi ricondurre alla violazione (11). Per non dire della colpa cosciente: per l’art. 61, n. 3 a fungere da aggravante non è la previsione di un evento (fosse pure omogeneo), bensì la previsione dell’evento, ovviamente lo stesso che di fatto consegue alla condotta inosservante (12). Ci domandiamo quindi come potrebbe il dolo eventuale segnare un arretramento, sul piano intellettivo, rispetto alla colpa cosciente; come cioè si possa supporre un dolo eventuale sprovvisto di un’adeguata raffigurazione dell’evento, del fatto concretamente conforme al tipo (13). Se non ci inganniamo la teorica del dolo, in cui la nostra dottrina ha profuso ammirevoli energie, deve misurarsi con una duplice preoccupazione che sembra propiziare un alleggerimento concettuale. Innanzitutto l’assillo dell’accertamento, ineludibile dato il quotidiano impatto sulla prassi giudiziaria. Poi l’evidenza sperimentale di frequenti, affatto fisiologici scostamenti del realizzato dal voluto, dovuti tanto all’anticipazione cronologica del disegno sull’attuazione, quanto a una visuale molto spesso lacunosa delle condizioni di contorno in cui maturano i processi deliberativi. Donde, si diceva, una propensione minimalista di cui fa le spese essenzialmente il momento rappresentativo. Ovviamente è doveroso rifuggire da una concezione semplicistica del medesimo, tutt’altro che sgombro di ombre problematiche. Quanto all’oggetto la sua estensione è oscillante: per un verso la proiezione mentale dell’accadimento concreto tollera sommarietà e approssimazioni senza degenerare nell’errore di fatto. Sul versante opposto si profila la possibilità di rappresentazioni allargate, estese a una gamma cangiante di sviluppi visti come tutti ugualmente possibili, magari con diverso grado di verosimiglianza, sì da comporre una cornice entro la quale dovrà iscriversi la realizzazione effettuale. Il dolo ‘‘alternativo’’ si risolve per l’appunto nella prospettazione plurima di varie eventualità autoescludentisi, che il volere (11) Vedi di recente CASTALDO, L’imputazione oggettiva del delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, p. 179; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 369; ID., La descrizione dell’ ‘‘evento prevedibile’’ nei delitti colposi: un problema insolubile?, in questa Rivista, 1983, p. 1567. Sull’esigenza di prevedibilità in concreto, per tutti, MANTOVANI, voce ‘‘Colpa’’, in Digesto pen., II, Torino, 1988, p. 299; MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 272. (12) Vedi in particolare CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999, p. 38; G.A. DE FRANCESCO, Dolo eventuale, cit., p. 126; ROMANO, Commentario, cit, I, p. 627. (13) Sull’elemento conoscitivo del dolo eventuale v. CANESTRARI, op. cit., p. 202; G.A. DE FRANCESCO, op. ult. cit., pp. 124 e 136; EUSEBI, Il dolo, cit., p. 198; PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 32 (v. però a p. 136 sul ruolo preponderante del momento volitivo).
— 1269 — assume a suo contenuto nel loro complesso, astenendosi da una specifica presa di posizione (14). Sotto il differente profilo dell’intensità non è dato esigere un’immagine mentale ‘‘ad alta definizione’’, difficilmente compatibile con la proiezione nel futuro: la rappresentazione anticipata del fatto costituente reato non può postulare una visione chiara e distinta di tutti i dettagli giuridicamente significativi. La dottrina ritiene sufficiente, nei confronti di singoli particolari, una consapevolezza allo stato latente, non riflessa né attualizzata, assorbita in consapevolezze più comprensive (15). Non è però rinunciabile una rappresentazione del fatto storico nella sua globalità abbastanza nitida, da avvertirne l’incidenza sull’ambiente esterno e quindi la portata sociale; tale cioè da offrire adeguata materia al travaglio motivazionale e alla deliberazione che ne consegue. L’ ‘‘evento’’ storico deve potersi dire previsto e voluto non come silhouette incolore, ma nella sua concretezza esistenziale, nei tratti che ne esprimono il disvalore attuale. 4. Quanto all’eventualità di più o meno ampi sfasamenti tra voluto e realizzato, è pacifico che il dolo quale requisito si definisce indipendentemente da un’integrale valorizzazione del dato psicologico. Un momento di astrazione concettuale è codificato nel parametro del ‘‘fatto che costituisce il reato’’, che obbliga a ritagliare sul vivo dell’accadimento concreto i lineamenti dai quali dipende la conformità al tipo: i soli dei quali è indispensabile la consapevolezza, restando invece psicologicamente sguarniti gli aspetti inessenziali (16). Come dire un realismo psicologico temperato da una riduzione contenutistica. Sappiamo però che, in ipotesi tutto sommato marginali, la legge positiva si spinge più innanzi, fino a svincolare l’anticipazione mentale dal connaturato riferimento all’accadimento concreto, pur ridotto al suo profilo essenziale: dando così ingresso a un dolo ‘‘per equivalente’’, in termini peraltro ben diversi a seconda che si tratti di realizzazione monosog(14) Per un’analisi del dolo alternativo v. soprattutto PECORARO ALBANI, Il dolo, cit., p. 399; vedi inoltre FIANDACA-MUSCO, Dirittto penale, Parte generale, 3a ed., Bologna, rist. 1999, p. 324; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 3a ed., Padova, 1992, p. 330 in nota; PADOVANI, Diritto penale, 5a ed., Milano, 1999, p. 266; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, 7a ed., Milano, 2000, p. 282. (15) Vedi in argomento FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 124; ID., Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Arch. pen., 1983, p. 34; PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 183; ID., voce Ignoranza (diritto penale), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 43; ID., in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario, cit., sub III ad art. 43; MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore, cit., p. 79; FIANDACA-MUSCO, Parte generale, cit., p. 311; MANTOVANI, Parte generale, cit., p. 317; ROMANO, Commentario, cit., I, p. 409. In senso critico MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, in questa Rivista, 1991, p. 35. (16) Per tutti GALLO, voce Dolo (diritto penale), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, pp. 753 e 759.
— 1270 — gettiva oppure concorsuale. Nel primo ambito l’art. 82 tiene ferma l’attribuzione dolosa prescindendo dall’individuazione dell’offeso (mentre in caso di divergenza qualitativa dell’evento cagionato l’art. 83 ripiega su di una responsabilità a titolo di colpa). Invece in ambito concorsuale — certo in considerazione del moltiplicarsi dei rischi di deviazioni operative per il fatto stesso della divisione dei ruoli — l’art. 116 giunge a imputare il dolo anche al concorrente che voleva un reato qualitativamente diverso (17). Nell’uno e nell’altro caso, in differente misura, assistiamo a un’assimilazione ex lege che segnala — ne va dato atto — una normativizzazione avanzata del dolo (18). Ma attenzione: ambedue le discipline richiamate non conculcano lo psichismo proprio del dolo, caratterizzato, anche nelle varianti immuni da finalismo, da una direzionalità immanente, mirata alla realtà circostante. Al contrario: nell’aberratio ictus l’imputazione del diverso si innesta su di un volere indirizzato a un bersaglio concreto predeterminato (per non dire della pennellata ‘‘veristica’’ insita nel richiamo all’art. 60) (19). Del pari è la volontà di un reato diverso, ovviamente concreto, e quindi un (17) Sul dolo ‘‘per equivalente’’ nell’art. 82 cfr. ROMANO, Contributo, cit., p. 84; ID., Commentario, cit., I, p. 735. In analogo ordine di idee cfr. PECORARO ALBANI, Il dolo, cit., p. 438; G.A. DE FRANCESCO, Aberratio, Torino, 1998, p. 74; FIANDACA-MUSCO, Parte generale, cit., p. 343; CORNACCHIA, voce Reato aberrante, in Digesto pen., XI, Torino, 1996, p. 172; DONINI, Teoria, cit., p. 287; RIZ, Lineamenti di diritto penale, Bolzano, 1998, p. 296. È noto però che altra corrente di pensiero attribuisce all’art. 82 portata meramente dichiarativa: v. GALLO, voce Aberratio ictus, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 68; CONTI, voce Aberratio (ictus, delicti, causae), in Nss. Dig. it., I, 1, Torino, 1974, p. 39; REGINA, voce Reato aberrante, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991, p. 4; MARINI, Lineamenti, cit., p. 560; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 303; PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, p. 809; ID., Principi, cit., p. 613; TRAPANI, La divergenza tra il ‘‘voluto’’ e il ‘‘realizzato’’, Milano, 1992, p. 24. (18) Una concezione decisamente normativa del dolo è sostenuta da PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, p. 472; ID., Discrasie tra dottrina e giurisprudenza?, in Cass. pen., 1991, p. 323; ID., Principi, cit., p. 278. Vedi inoltre G.V. DE FRANCESCO, Il ‘‘modello analitico’’ fra dottrina e giurisprudenza, in questa Rivista, 1991, p. 119; TRAPANI, op. cit., p. 172. Per una critica v. EUSEBI, In tema di accertamento, cit., p. 1063. Comunemente ammesso, peraltro, un procedimento di generalizzazione, o astrazione, del contenuto rappresentativo, sul quale cfr. GALLO, voce Dolo, cit., p. 800; ID., Lineamenti di una teoria del concorso di persone nel reato, Milano, 1957, p. 108; PAGLIARO, Imputazione obiettiva, cit., p. 809; ID., La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, p. 120; ROMANO, Contributo, cit., p. 84; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 287; TRAPANI, op. cit., p. 38. (19) Cfr. GALLO, voce Aberratio ictus, cit., p. 71; ROMANO, Contributo, cit., p. 23; G.A. DE FRANCESCO, Aberratio, cit., p. 111; CORNACCHIA, voce cit., p. 179. Sulla componente dolosa dell’aberratio delicti, per tutti, PALAZZO, ‘‘Voluto’’ e ‘‘realizzato’’ nell’errore di fatto e nell’aberratio delicti, in Arch. giur., 1973, p. 59.
— 1271 — substrato almeno in potenza doloso, a fare da supporto alla responsabilità anomala dell’art. 116 (20). ‘‘Insopportabili finzioni’’ (21)? Sia pure: ma il lavorio normativo di assimilazione, nell’atto in cui depura il dolo di correlati empirici tutt’altro che insignificanti, li presuppone e valorizza, sui medesimi innestando una configurazione allargata della categoria soggettiva. Una normativizzazione, viene da dire, rispettosa della struttura. Sulla scia della legge dottrina e giurisprudenza estendono il distacco del dolo dal referente storico ad altri passaggi rappresentativi, soprattutto al percorso causale (22). Verrebbe da dubitare della legittimità di una normativizzazione oltre la norma. Certo l’estensione all’aberratio causae del regime dell’aberratio ictus non può richiamarsi a una pretesa estraneità del nesso causale all’oggetto del dolo, quasi che l’evento potesse dirsi preveduto e voluto altrimenti che come esito di una particolare condotta causalmente efficiente, anticipata quanto meno nelle grandi linee (23). Senonché, di fronte a discrepanze troppo vistose, a concatenazioni conseguenziali affatto inattese, si usa ricorrere a un rimedio di ordine oggettivo, ravvisando un’interruzione dello stesso nesso di causalità materiale. La dottrina dell’aberratio causae trova qui il suo temperamento, scongiurando, grazie a tale commodus discessus, la riduzione dell’oggetto del dolo alla nuda tipicità; in definitiva salvaguardando nel dolo per equivalente un minimo di attendibilità psicologica. 5. La nostra riflessione deve ora trasferirsi sul terreno del concorso di persone. Possiamo accantonare le controversie circa l’architettura dogmatica dell’istituto. Fermo però che la fattispecie plurisoggettiva eventuale non può intendersi come la landa dell’indifferenziato, nel cui grigiore uniforme sbiadisca ogni differenziazione tra i contributi dotati di tipicità originaria e le condotte irrilevanti al di fuori del contesto concorsuale: o perché intrinsecamente ‘‘preparatorie’’, o perché tipiche solo frammentariamente, come si osserva nell’esecuzione frazionata; le une e le (20) Per tutti GALLO, Lineamenti, cit., p. 98; PAGLIARO, La responsabilità del partecipe, cit., p. 43. (21) Così MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’, cit., p. 156. (22) Vedi in particolare GALLO, voce Aberratio delicti, causae, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 65; CONTI, voce cit., p. 42; ROMANO, Commentario, cit., I, p. 461; TRAPANI, op. cit., p. 38. Per qualche riserva cfr. DURIGATO, Aberratio causae: un tema marginale?, in Ind. pen., 1993, p. 31. (23) Nel senso del testo v. GROSSO, voce Dolo, cit., p. 5; FIANDACA-MUSCO, Parte generale, cit., p. 315; CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, Padova, 1998, p. 299; MARINI, Lineamenti, cit., p. 455; PECORARO ALBANI, Il dolo, cit., p. 449; PULITANÒ, in CRESPI-STELLAZUCCALÀ, Commentario, cit., sub II ad art. 43. Con riguardo al problema dell’aberratio causae v. CORNACCHIA, voce cit., p. 170.
— 1272 — altre bisognose di integrazione ab extrinseco (24). Distinzione soprattutto incancellabile nell’ottica della componente dolosa: essendo pacifico che soltanto le condotte concorrenti incapaci di qualificazione autonoma non possono fare a meno della rappresentazione di riferimento data dalla confluenza con l’altrui agire tipico (complementarmente tipico nel caso di esecuzione frazionata) (25). Una dipendenza strutturale — comunque la si chiami — che si ripropone sul piano psicologico. Di tale indispensabile scientia sceleris non è agevole disegnare il contenuto e i limiti: il riferimento a comportamenti altrui, futuri o ancora in fieri, accentua la tendenza all’approssimazione e moltiplica le occasioni di sviamento effettuale. Un minimo di affidamento all’iniziativa altrui è in re ipsa, specie quando manchi un previo concerto, e difficilmente i rischi inerenti possono sfuggire all’avvertenza dello stesso concorrente. A seconda delle modalità di partecipazione varieranno verosimilmente gli spazi soggettivi di indeterminazione. Se l’istigazione ingloba un indirizzo tendenzialmente univoco (26), l’ausilio materiale si presta di massima a più ampie aperture. Per immaginare un caso limite, si pensi a colui che dietro compenso, e senza null’altro attendersi, ‘‘noleggi’’ a un malvivente uno strumento atto a molteplici impieghi delittuosi: ove manchi un previo accordo circa l’uso programmato, il dolo del complice o ausiliatore si dilaterà fino a riflettere l’intera gamma degli impieghi che lo stesso partecipe si raffiguri come possibili. Un dolo alternativo, dunque, e (24) Rinviamo in particolare alle considerazioni del SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, p. 290. Vedi anche MORSELLI, Note critiche sulla normativa del concorso di persone nel reato, in questa Rivista, 1983, p. 414; MUSCO, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario, cit., p. 418; RIZ, Lineamenti, cit., p. 367. Con riguardo alle ipotesi di c.d. reità mediata v. PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973, p. 190. (25) Per tutti GALLO, Lineamenti, cit., p. 98; ID., Le forme del reato, Torino, 1967, p. 104; FIANDACA-MUSCO, Parte generale, cit., p. 457; GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, 2a ed., Milano 1996, p. 168; GROSSO, voce Dolo, cit., p. 10; INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, p. 64 (dello stesso v. però la voce Concorso di persone nel reato, in Digesto pen., II, Torino, 1988, p. 474); MANTOVANI, Parte generale, cit., p. 531; MARINI, Lineamenti, cit., 435; MUSCO, op. ult. cit., p. 424; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 384; PAGLIARO, Principi, cit., p. 541; PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 194; RIZ, Lineamenti, cit., p. 384; STORTONI, Agevolazione e concorso di persone nel reato, Padova, 1981, p. 139 (per una diversa soluzione v. LATAGLIATA, voce Concorso di persone nel reato, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 582). Nella cooperazione colposa dell’art. 113 basta invece la prevedibilità dell’altrui condotta lesiva: cfr. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988, pp. 103 e 114 (per una diversa impostazione v. ora ALDROVANDI, Concorso nel reato colposo e diritto penale d’impresa, Milano, 1999, p. 81). (26) Sul dolo di istigazione v. DE MAGLIE, L’agente provocatore, Milano, 1991, p. 357; MORMANDO, L’istigazione, Padova, 1994, p. 69; PROSDOCIMI, voce Reato doloso, in Digesto pen., XI, Torino, 1996, p. 254; VIOLANTE, voce Istigazione (in generale), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, p. 992.
— 1273 — ad amplissimo spettro di indifferenza; una rappresentazione-volontà non fissata su esiti prestabiliti e tuttavia non del tutto indeterminata e sconfinata: i cui limiti psicologici risulteranno mentalmente segnati dall’attuale percezione soggettiva sia della natura e delle attitudini dello strumento, sia della persona del fruitore. Urge nuovamente sottolineare che il dolo, anche il dolo di concorso, non può sradicarsi dall’humus esistenziale in cui matura senza perdere l’ubi consistam: per costituzione deve appuntarsi su qualche prospettazione contingente, anticipata almeno nelle grandi linee, nelle movenze da cui desume valenza sociale (magari entro un ventaglio di alternative più o meno divaricato, a seconda dei casi). In altre parole, quale fenomeno psicologico la rappresentazione dell’opus concorsuale non può fissarsi su esangui astrazioni tipologiche: solo calandosi nella concretezza dell’attualità incombente e delle relative proiezioni in fieri può reggere la volizione di un personale contributo. 6. Ciò assodato in punto di struttura, resta un problema di congruenza effettuale che non trova una soluzione esauriente nella drastica statuizione dell’art. 116, circoscritta alle deviazioni sfocianti nella commissione di un reato diverso qualitativamente da quello voluto dal singolo concorrente. Quid nel caso di sfasature di minor angolatura, che investano p.es. la persona dell’offeso o l’oggetto materiale, oppure i previsti svolgimenti modali? Basterà la fissità dell’inquadramento di base a far salva in ogni caso la corresponsabilità dolosa? L’opinione tedesca dominante, non vincolata da direttive legali, propende per un’impostazione concreta, orientando il dolo dell’Anstifter e del Gehilfe sul fatto principale, colto nel suo potenziale di illiceità (Unrechtsgehalt) e nella sua direzionalità offensiva (Angriffsrichtung): però — avvertono gli autori — ridotto all’essenziale, sfrondato dei particolari storici di secondario rilievo (27). Anche nel nostro ordinamento non si può eludere un problema di contenuto minimale del dolo di concorso in rapporto all’effettualità riscontrabile a posteriori: per certi versi pregiudiziale, a ben vedere, anche (27) Vedi nella dottrina recente ROXIN, in StGB Leipziger Kommentar, 11. Aufl., 8. Lieferung, Berlin-New York, 1993, n. 85 ad § 26 (vedi però sub n. 88 un riferimento al fatto tipico) e n. 45 ad § 27; JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, 5. Aufl., Berlin, 1996, pp. 688 e 695; JACOBS, Strafrecht Allg. Teil, 2. Aufl., Berlin-New York, 1993, p. 669; SAMSON, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON-GUNTHER, SK StGB, 6. Aufl., Neuwied-Kniftel-Berlin, ab 1993, n. 7 ad § 26 e n. 19 ad § 27. In termini di riferimento astratto del dolo di partecipazione v. invece INGELFINGER, Anstiftervorsatz und Tatbestimmtheit, Berlin, 1992, p. 105 e passim; v. inoltre CRAMER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, StGB Kommentar, 25. Aufl., München, 1997, pp. 448 e 452.
— 1274 — alla responsabilità pur anomala dell’art. 116 (28). Ora, se è scontata l’impraticabilità di un puntuale adeguamento del consuntivo all’anticipazione mentale; se quindi si impone un ampio grado di astrazione del dolo concorsuale, nel suo momento rappresentativo, dalla contingenza storica, non è detto che quest’ultima vada accantonata in blocco siccome inconferente: andrà piuttosto ridotta a un nucleo essenziale e qualificante. Un ‘‘essenziale e qualificante’’ — occorre subito precisare — soggettivamente apprezzato e delimitato. Un primo coefficiente di concretizzazione — tanto ovvio da passare quasi inosservato — è dato dalla preventiva individuazione (almeno parziale, almeno indiretta o per relationem) dei possibili concorrenti, soprattutto degli esecutori. Non si concorre dolosamente — neppure in base all’art. 116 — al fatto realizzato da soggetti estranei alla cerchia dei concorrenti previsti (non risponde di concorso doloso il magazziniere infedele che omette di sbarrare una porta di accesso per favorire l’impresa ladresca concordata con certe conoscenze, qualora della condizione di vantaggio approfittino invece terzi sconosciuti). Ma non basta: all’infuori della fattispecie particolare dell’art. 116, la congruenza tra rappresentazione anticipata e concretizzazione storica non si pone come superfetazione fuorviante, da scartare a priori, bensì come esigenza da concentrare sui profili della fase esecutiva psicologicamente condizionanti. Ci spieghiamo: a seconda dei casi potrà essere questo o quel passaggio cruciale (p.es. quel soggetto passivo o quell’oggetto materiale, eccezionalmente certe modalità esecutive o magari speciali circostanze di tempo o di luogo) ad assumere per qualche concorrente una tale pregnanza di significato, a rivestire un tale interesse, da individuare e delimitare l’obiettivo programmato e da polarizzare l’adesione, escludendo fin l’accettazione a titolo eventuale di varianti difformi (sia pure giuridicamente equivalenti) (29). Com’è altrettanto possibile (e risulterà di fatto più frequente) che l’atteggiamento psicologico del concorrente risulti alieno da rigide chiusure e ampiamente possibilista. Incidentalmente: lo stesso schema dell’art. 116 presuppone un reato diverso che si dirami da un tronco comunemente consentito, e pertanto almeno un inizio di cooperazione concorde: questo è forse il senso riposto del requisito di ‘‘prevedibilità’’ (concretamente intesa) ormai incorporato al dettato legislativo. 7. Tirando le fila: per quanto si conceda a ragionevoli esigenze di astrazione o generalizzazione contenutistica, permane un residuo irriduci(28) Sul punto in particolare BRICOLA, Dolus in re ipsa, Milano, 1960, p. 222. (29) Per un’interessante vicenda processuale, conclusasi con un annullamento con rinvio per difetto di motivazione, cfr. Cass., 31 gennaio 1980, in questa Rivista, 1983, p. 1121 (furto di un arazzo in luogo del quadro commissionato dal mandante).
— 1275 — bile di realizzazioni collettive che, pur senza spostare il nomen iuris, fuoriescono a tal segno dalle attese di qualche concorrente da contrapporsi come aliud al fatto da lui previsto e voluto, così esorbitando dal fuoco del suo dolo, come psicologicamente postulato. L’equivalenza giuridica non è da sola risolutiva: lo sbocco esecutivo non deve estraniarsi dagli orizzonti mentali dell’istigatore o ausiliatore, dalle prospettazioni cui risulti concretamente legato il suo assenso (30). Non ci sfugge che in pratica la diagnosi differenziale potrà riuscire malagevole e malcerta. Un’indicazione non poco sintomatica potrà attingersi dal sottofondo della motivazione: si profilerà come aliud la variante che non risponda assolutamente agli impulsi sottesi al piano condiviso; che si dimostri ispirata a interessi affatto estranei alle aspettative iniziali (31). Occorre appena avvertire che ha senso parlare di estraniazione interruttiva della trama dolosa comune solo in presenza di un consapevole mutamento di rotta, di un’iniziativa deliberatamente divergente da parte di altri concorrenti. Non di fronte a responsabilità dolose degli esecutori basate sull’art. 47 o sull’art. 82, che si estenderebbero a tutti i compartecipi. Malgrado l’elasticità del metro e l’opinabilità di non poche misurazioni, riteniamo che a un dolo di concorso concretamente orientato, con le applicazioni che ne conseguono, non si possa in linea di principio rinunciare, se anche la responsabilità del partecipe deve ancorarsi al fatto, pur nella versione plurisoggettiva. Neanche ci sembra corretto argomentare a maiori ad minus da una disciplina extra ordinem come quella dell’art. 116: dalla responsabilità a titolo di dolo per il reato qualitativamente diverso deducendo sic et simpliciter l’irrilevanza di qualunque deviazione effettuale nell’ambito del tipo. In ogni caso la clausola finale del 1o comma suggerisce una via d’uscita sulla quale ripiegare almeno in subordine, in parallelo con il trattamento dell’aberratio causae comunemente ricevuto: di fronte a esiti affatto divergenti ed eterogenei rispetto alle attese di un concorrente, sarà quanto meno da contestare la persistente efficienza del contributo atipico (30) Ai normali criteri dell’imputazione dolosa si richiama, per questo genere di ipotesi, MUSCO, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario, cit., p. 425. Per l’applicazione dell’art. 82 c.p. in caso di mutamento della persona offesa v. PAGLIARO, La responsabilità del partecipe, cit., p. 66; analogamente, muovendo da una concezione normativa del dolo, MANTOVANI, Parte generale, cit., p. 538 in nota. Sulla possibilità di far ricorso all’art. 115, per non essere stata accolta l’istigazione, oppure di escludere il dolo del mandante, v. SEMINARA, Riflessioni sulla condotta istigatoria come forma di partecipazione al reato, in nota alla sentenza richiamata alla nota che precede, con un’approfondita rimeditazione del problema. Propende a ricondurre all’art. 116 anche i casi di mutamento dell’oggetto materiale GRASSO, in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, p. 162. (31) Si vedano, per qualche spunto, le direttive della Cassazione al giudice di rinvio nella sentenza di cui alla nota 29.
— 1276 — a un’impresa comune che a un certo punto ha cessato di essere anche sua (32). 8. Dalla pregnanza psicologica del dolo, e segnatamente dalla concretezza del preludio rappresentativo, tanto meno è consentito prescindere quando si affronti il capitolo del concorso omissivo: quando cioè l’apporto atipico si configuri come mancato impedimento di un fatto criminoso altrui, in spregio a una posizione di garanzia gravante sul concorrente inerte (33). Non sfioreremo l’arduo problema dell’atteggiarsi del dolo in rapporto alla matrice normativa dell’omissione propria o impropria: ci limiteremo ai riflessi psicologici del substrato fattuale. Ora non si vede come possa darsi previsione e volontà di un evento costituito dall’operare esecutivo di altri, se non muovendo dalla percezione delle relative avvisasaglie, e quindi dell’incombente minaccia per l’interesse affidato al garante, la quale funga da ‘‘situazione tipica’’ che attualizzi la garanzia e reclami un’attivazione tesa all’impedimento; e insieme dalla contestuale rappresentazione di una concreta possibilità di intervento efficace: quanto meno intravista nelle grandi linee, con l’indispensabile corredo di specifiche modalità attuative, avvertite come praticabili, che delineino almeno un abbozzo iniziale del quid agendum (34). Ovviamente l’obbligo del garante non ha di mira eventualità ancora congetturate, solo tipologicamente descrivibili: scatta di fronte ad aggressioni in atto o per lo meno imminenti, che per ispirare il dolo omissivo de(32) In quest’ordine di idee, ci sembrano, salvo preoccupazioni di ordine politico-criminale, FIANDACA-MUSCO, Parte generale, cit., p. 455 (ma limitatamente all’istigazione). Si veda inoltre SEMINARA, Riflessioni, cit., p. 1135 (a p. 1131 la ‘‘prevedibilità’’ del reato diverso viene prospettata come riconducibilità all’oggetto concreto dell’istigazione). (33) Per tutti, in argomento, GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, pp. 139 e 327. Si vedano però le riserve di FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 181, nonché di CARACCIOLI, Manuale, cit., p. 620 e di CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, ed. 1996, II, p. 478. Per un’ampia rassegna v. BISORI, L’omesso impedimento del reato nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in questa Rivista, 1997, p. 1339. (34) Sulla nozione di ‘‘situazione tipica’’ e sulla necessità della relativa conoscenza, per tutti, FIANDACA, op. ult. cit., pp. 76 e 124. Con riguardo all’omissione propria v. CADOPPI, Il reato omissivo proprio, II, Padova, 1988, p. 998. Nel senso che il dolo presuppone la consapevolezza dell’azione dovuta e della propria capacità di porla in essere v. FIANDACA, op. ult. cit., pp. 77 e 123 (escludendo però, a p. 124, che occorra la consapevolezza di specifiche modalità di realizzazione); ID., voce Omissione, in Digesto pen., VIII, Torino, 1994, p. 546. Vedi del pari MUSCO, voce Omissione di soccorso, ibid., p. 567; STILE, Omissione, rifiuto e ritardo di atti di ufficio, Napoli, 1974, p. 178. Esclude il dolo omissivo in caso di convincimento soggettivo dell’idoneità della condotta tenuta dal garante GRASSO, Il reato omissivo, cit., p. 368. Con specifico riferimento ai garanti societari vedi ACCINNI, Fatti di bancarotta e responsabilità penale degli amministratori senza delega, in Riv. soc., 1992, p. 1514; MELCHIONDA, La responsabilità penale dei sindaci di società commerciali, in Ind. pen., 2000, 64.
— 1277 — vono essere colte o presagite con un’anticipazione sufficientemente nitida — sebbene in chiave evolutiva — da poter innescare una reazione commisurata del garante; reazione la cui pratica efficacia sia vista dal medesimo, se non come certezza, almeno come possibilità consistente, beninteso nella luce della situazione del momento e del suo presumibile evolversi, così come presagito. In ordine a tali referenti necessari non potrà neppure bastare una consapevolezza crepuscolare, un incipiente vago sospetto. La volontà omissiva presuppone, si è già detto, uno stimolo proporzionato e perciò cosciente: il rapporto minaccia-impedimento costituisce l’autentico fulcro della rappresentazione del garante chiamato in causa, non un dettaglio periferico che possa sfuggire all’attenzione senza compromettere la visione panoramica (35). I famosi ‘‘segnali di allarme’’, come la dottrina ha ripetutamente ammonito, assumono valore indiziante solo in quanto effettivamente e adeguatamente percepiti, e intesi nella loro attitudine evocativa: comode ma fuorvianti, inutile dire, le valorizzazioni ex post (36). E l’allarme, per essere apprezzato come tale, dovrà profilarsi in termini abbastanza univoci da indirizzare la reazione impeditiva. L’allarme ambiguo genererà nel garante soltanto un onere preliminare di approfondimento, di indagine e interpello, la cui inosservanza recherebbe le stigmate della negligenza e quindi della colpa in ordine all’evento che ne consegua (37). Mobilitare il deus ex machina del dolo eventuale vorrebbe dire indulgere ancora una volta a un abuso, la cui denuncia è quasi divenuta un tema obbligato (38). La variante eventuale non è, come risaputo, una comoda scorciatoia: non abbrevia l’itinerario psicologico, semmai lo rende più tortuoso, a meno di appagarsi di disinvolte presunzioni. Non si (35) Ritiene sufficiente una conoscenza implicita della possibilità di agire FIANDACA, Reato omissivo e responsabilità penale, cit., p. 34. Osserva esattamente G.A. DE FRANCESCO che tale discorso non può valere per i requisiti su cui si fonda la prognosi causale: cfr. Opus illicitum, in questa Rivista, 1993, p. 1025. Quanto alla causalità dell’omissione, che deve riflettersi nel dolo, v. in particolare PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 844. (36) V. in particolare CRESPI, La giustizia penale, cit., p. 1154; STELLA-PULITANÒ, La responsabilità penale dei sindaci di società per azioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 553; PULITANÒ, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario, cit., sub IX ad art. 43; G.A. DE FRANCESCO, op. ult. cit., p. 1026; EUSEBI, In tema di accertamento, cit., p. 1061; ACCINNI, op. cit., p. 1522. (37) Cfr. STILE, Omissione, cit., p. 166; ACCINNI, loc. ult. cit. (38) Per tutti JACOVIELLO, Il falso in bilancio nei gruppi di società: come il processo penale modifica il diritto penale, in Cass. pen., 1998, p. 3161. Sul dolo eventuale come ‘‘grimaldello’’ v. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 228; come ‘‘escamotage’’ v. G.A. DE FRANCESCO, Fatto e colpevolezza nel tentativo, in questa Rivista, 1992, p. 719. V. inoltre G.V. DE FRANCESCO, Il ‘‘modello analitico’’, cit., p. 119.
— 1278 — esclude che alla mente del garante l’immagine di un illecito in itinere possa affacciarsi circonfusa da un alone di dubbio, come semplice possibilità, purché meritevole di attenzione (39). Ma l’intensità della visione non va scambiata con l’oggetto relativo: una risoluzione consapevole di contenuto negativo — di non impedire — può trarre spunto solo da una visuale concreta sufficientemente lucida, da un richiamo tanto appariscente da attirare l’attenzione e stimolare la riflessione. 9. Queste considerazioni ricevono perentoria conferma dalla disciplina testuale di una delle posizioni di garanzia ormai familiari alla prassi giudiziaria del concorso omissivo: voglio dire la posizione degli amministratori, che per diffuso consenso affonda la radice normativa nella responsabilità civile verso la società amministrata, come delineata nell’art. 2392 c.c. (e nella situazione di obbligo che ne costituisce il presupposto sottinteso). Proprio e soltanto dalla ‘‘conoscenza’’ di fatti pregiudizievoli il 2o comma fa discendere l’obbligo di fare quanto possibile per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (ma un collegamento causale riconducibile al capoverso dell’art. 40 c.p. presupporrà ovviamente un’effettiva possibilità di impedimento preventivo dell’altrui illecito, e non di semplice eliminazione o attenuazione ex post delle conseguenze). Il disposto legale è chiaro e tassativo: prescindere da una conoscenza reale e comprovabile — come l’orientamento giurisprudenziale richiamato all’inizio — equivale a travisare la posizione di garanzia, forzandola al di fuori dei suoi precisi termini normativi (40). A mo’ di riscontro, nel campo dell’omissione propria, si ricordi la ‘‘notizia’’ di un reato di cui agli artt. 361-364 c.p., nonché la percezione implicita nel ‘‘trovando’’ dell’art. 593, 2o comma. Vero è che la giurisprudenza si lascia spesso abbacinare dal contestuale obbligo degli amministratori (specie dei non operativi: i ‘‘deleganti’’) di vigilare sul generale andamento della gestione, esso pure fonte alternativa di responsabilità civile solidale. Ma l’equiparazione non regge (39) Vedì però, per l’esclusione del dolo eventuale dal reato omissivo, PAGLIARO, Principi, cit., p. 294; CADOPPI, op. cit., II, p. 1032; EUSEBI, Il dolo, cit., p. 207; MILITELLO, La consapevolezza nell’omissione: il dolo e la colpa del fatto omissivo, in Cass. pen., 1998, p. 986. (40) Nello stesso senso CRESPI, Rassegna, in Riv. soc., 1992, p. 1031; ACCINNI, op. cit., p. 1514; MELCHIONDA, op. cit., p. 64; MUSCO, Diritto penale societario, Milano, 1999, p. 38; PROVERBIO, Brevi note in tema di responsabilità penale degli amministratori senza delega, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 571. Sulla posizione di garanzia di amministratori e sindaci e sulle rispettive possibilità di intervento impeditivo rinviamo, anche per gli opportuni richiami, al nostro commento all’art. 223 l. fall., in PEDRAZZI-SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna-Roma, 1995, p. 276.
— 1279 — sul terreno dei riflessi penali, che non ammette contaminazioni tra dolo e negligenza. Sembra evidente che l’obbligo di vigilanza, non a caso testualmente anteposto, ha una sua funzione ben distinta, preliminare e strumentale: serve per l’appunto, per quanto qui interessa, a promuovere la tempestiva percezione di atti pregiudizievoli e a rendere operante l’obbligo primario di impedimento. I due obblighi appartengono quindi a piani distinti. Solo l’effettiva conoscenza, anche a livello eventuale, obbliga all’impedimento; e indipendentemente dall’origine: sia effetto di vigilanza o di scoperta fortuita. Nessun obbligo di impedimento ove manchi un’attuale conoscenza, ancorché a seguito di omessa o insufficiente vigilanza. Di per sé l’impegno di vigilanza — quali ne siano gli esatti termini, che i rigorismi giurisprudenziali tendono a esasperare, dimentichi del parametro del ‘‘generale andamento’’ — fornisce soltanto un metro di conoscibilità e impedibilità, atto a fondare un addebito di colpa (cui non mancano adeguati campi di applicazione: basti pensare alla bancarotta societaria impropria dell’art. 224 l. fall., non a caso ‘‘rimossa’’ dalla prassi). CESARE PEDRAZZI
PRIVACY E OMISSIONE DELLE MISURE A TUTELA DELLA SEGRETEZZA DEI DATI
Una delle tematiche più attuali ed oggi più discusse è quella della sfera privata che la persona ha il diritto di salvaguardare. L’importanza della materia è chiara a tutti; basti pensare, da un lato, alla circostanza che, al fine di non vanificare il contenuto di alcuni diritti personali, determinate informazioni debbano essere non accessibili a chiunque. Dall’altro lato, si pensi a quale sarebbe la condizione psicologica di ciascuno di noi qualora non ci fosse la tutela dei dati personali. La situazione è estremizzata da Orwell in 1984: frutto del pregiudizio, del mito, della superstizione per cui tutto ciò che può essere realizzato, può essere progettabile, pianificabile, è controllabile dall’uomo e dalla sua ragione. In fondo, è lo stesso concetto del Panopticon di Bentham, penitenziario modello, proprio perché nessun momento restasse privo di controllo da parte dei secondini-osservatori. Fondamentale, oggi più che mai, quindi, il problema della riservatezza, dati i dispositivi di controllo finalizzati alla registrazione di tutte le tracce lasciate da un individuo nel corso della sua vita quotidiana: comunicazioni personali, acquisti e consumi, frequentazioni di siti internet, spostamenti fisici. Questo fa in modo che sia addirittura possibile tracciare un vero e proprio profilo virtuale dell’individuo, creando una sorta di alter ego telematico (1). Occorre, perciò, badare che non vengano violate le libertà fondamentali dell’individuo. Questo lo sfondo. Vogliamo ora occuparci non delle diverse — tutte di rilievo — questioni che il tema della riservatezza comporta; bensì dell’analisi degli artt. 15 e 36 della l. n. 675/1996: norme che, aldilà del valore che posseggono come sintomi ed espressioni di consapevolezza delle problematiche di cui la materia è intessuta, danno luogo a delicate questioni interpretative. Intendo per analisi la disamina della struttura delle norme nell’accezione tecnico-giuridica più stretta. Non, dunque, considerazioni di politica legislativa che, seppur pregevoli, o precedono la norma (1) Per un approfondimento dei profili filosofico-giuridici, cfr. P. HERITIER, L’individuo preso nella rete: l’incubo del controllo telematico, CIDAS, Torino, 1999.
— 1281 — o, a cose fatte, non possono che seguire la conoscenza della norma stessa. Certo, non è possibile giudicare il valore di una norma indipendentemente dalla valutazione degli obiettivi che essa persegue: buona legge è quella in cui la violazione del precetto porta con sé la lesione o la messa in pericolo dell’interesse tutelato. Ma per comprendere questo non è possibile prescindere dal dato normativo, che deve essere chiarito nelle sue componenti contenutistiche, anche se certo la sua analisi non esaurisce il compito del giurista. Il diritto alla riservatezza fa parte dei cosiddetti diritti della personalità; l’annoverarlo fra questi, tuttavia, è conquista recente. Lungo, infatti, è stato il percorso attraverso cui la riservatezza è diventata bene giuridico da tutelare autonomamente. Ben presto, poi, ci si è accorti di come la tutela della riservatezza non potesse essere scissa dalla considerazione delle nuove tecnologie, che intervengono a modulare il concetto di invasione, interferenza nella sfera dell’individuo e, dunque, lo stesso concetto di riservatezza. È in questo contesto che è nata la l. n. 675/1996. Pur ponendosi come risposta alle crescenti esigenze di disciplina normativa, questa legge non può superare l’inevitabile iato tra la regolamentazione e la materia regolata che muta con la stessa rapidità degli sviluppi tecnologici (2). È il prezzo da pagare quando ci si serva della tecnica normativa cosiddetta analitica, quella, cioè, che impone prescrizioni minuziose, per ciò stesso destinate a restare un passo indietro rispetto agli stimoli forniti dai sistemi informativo-normativi della società complessa (3). In ipotesi siffatte potrebbe essere preferibile che il legislatore si limitasse a fornire i principi di disciplina della materia che, mantenendo salde le linee guida, rimanesse aperta ai cambiamenti. Non può sottacersi, però, che la tecnica normativa di principi, proprio perché non contiene prescrizioni puntuali, corre il rischio di essere sfuggente. E se una tale caratteristica può essere tollerata in materia civile o amministrativa, più complessa diventa la questione in materia penale, ove il principio di certezza del diritto, data la particolare natura afflittiva delle norme in esame, va interpretato in senso stretto. Si è già a lungo dissertato sulle problematiche sollevate dalla l. n. 675/1996 (4), tuttavia v’è un aspetto su cui solo ora si è potuta incentrare l’attenzione e che è inscindibilmente connesso alla tutela della riserva(2) Si veda, in proposito, S. FIORE, voce Riservatezza (diritto alla), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1999, p. 1 ss. (3) Per un approfondimento del concetto in esame: E. DI ROBILANT, Economia, diritto e persona nella società complessa, Giuffrè, Milano, 1989; dello stesso autore, La competizione dei sistemi informativo-normativi, in Una società libera per l’Europa, Francoangeli, Milano, 1992. (4) Si vedano: G. BUTTARELLI, Banche dati e tutela della riservatezza. La privacy nella realtà dell’informazione, Giuffrè, Milano, 1997; E. GIANNANTONIO-M. LOSANO-V. ZENCOVICH, La tutela dei dati personali. Commentario alla l. n. 675/1996, Cedam, Padova,
— 1282 — tezza. Va da sé come i dati personali non possono essere protetti appieno se non si predispongono tutte le misure necessarie a limitarne l’accesso alle sole persone autorizzate, cioè a coloro che abbiano osservato le prescrizioni della legge in questione: notificazione o autorizzazione al garante, consenso informato (5) del soggetto passivo e via dicendo. Il tema della sicurezza informatica passa attraverso la lettura del combinato disposto degli artt. 15 e 36 della l. n. 675/1996. L’art. 15 è rubricato ‘‘sicurezza dei dati’’ e dispone che: ‘‘I dati personali oggetto di trattamento devono essere custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati e alle specifiche caratteristiche del trattamento, in modo da ridurre al minimo, mediante l’adozione di idonee e preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita, anche accidentale, dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta. Le misure minime di sicurezza da adottare in via preventiva sono individuate con regolamento emanato con decreto del presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 17, comma 1o lett. a), della l. 23 agosto 1988, n. 400, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del ministro di Grazia e Giustizia, sentiti l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione e il Garante. Le misure di sicurezza di cui al comma 2o sono adeguate, entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge e successivamente con cadenza almeno biennale, con successivi regolamenti emanati con le modalità di cui al medesimo comma 2o, in relazione all’evoluzione tecnica del settore e all’esperienza maturata. (...)’’. L’art. 36 commina le sanzioni per l’omessa adozione delle misure necessarie alla sicurezza dei dati. Poiché quest’ultimo articolo punisce l’inosservanza del precetto dell’art. 15 con la reclusione, se ne deduce che siamo in presenza di norme penali che configurano delitti. Il che conduce 1997; RI. IMPERIALI-RO. IMPERIALI, La tutela dei dati personali, Il Sole 24 ore, Milano, 1997. In generale, sull’affacciarsi di una nuova criminalità sulla elaborazione elettronica di dati, si veda F. MUCCIARELLI, I computer crimes nel disegno di legge 1657 del 1984, in questa Rivista, 1985, p. 785. (5) Dalla seconda metà degli anni ’80 il mondo scientifico è venuto attribuendo importanza al significato, soprattutto morale, ma anche giuridico, del consenso informato. Prima applicazione si è avuta in campo medico, ove da tempo, ormai, è richiesto il consenso informato dei pazienti per qualsiasi trattamento. Il che implica da un lato informazione precisa, dall’altro congrua manifestazione di assenso da parte del destinatario dell’informazione. La necessità di ottenere tale consenso è giustificata anche dal punto di vista deontologico, come rispetto fondamentale per la persona, agente razionale. Sul tema si vedano: M. BRAZIER, Competence, Consent and Proxy Consents, in Protecting the vulnerable, Routledge, London, 1991; J. C. CALLAHAN, Ethical Issues in Professional Life, Oxford University Press, Oxford, 1988.
— 1283 — ad individuare quella che a buon diritto può definirsi una pecca nella tecnica legislativa di stesura dell’art. 15. Infatti, le norme penali ricadono sotto la disciplina della parte generale del codice penale e di tutte le norme costituzionali che regolano la materia penale. In tale campo vige il principio della riserva di legge (artt. 25 Cost. e 1 c.p.): in tema di criminalizzazione dei comportamenti umani il costituente ha stabilito che la fonte debba essere la legge, cioè quel tipo di atto normativo prodotto attraverso un procedimento che offra alle minoranze la facoltà di intervenire sugli indirizzi e sulle scelte politiche della maggioranza (6). Dunque, le fattispecie di reato si producono, si modificano o si eliminano attraverso una legge o un atto normativo equiparato, cioè decreto legge o decreto legislativo, cui lo stesso costituente attribuisce forza di legge (7). Come si è visto, l’art. 15 della l. n. 675/1996 definisce il suo comando attraverso un regolamento, che è fonte secondaria e che assicura minori garanzie perché proviene dall’esecutivo: non è un atto parlamentare. Si impone, pertanto, il quesito se l’art. 15 risponda o no al principio di legalità dettato in materia penale. Ebbene, si ritiene di aderire alla tesi (8) secondo cui, se la previsione regolamentare è già entrata in vigore nel momento in cui è prodotta la norma penale, allora il principio di legalità deve dirsi rispettato: il legislatore non si affida alla cieca ad una fonte subordinata che definisca il precetto, ma la esamina e la fa propria. Non è altro che un espediente di tecnica normativa. C’è, invece, contrasto col principio costituzionale allorché la norma penale cosiddetta aperta operi un rinvio a regola secondaria non ancora entrata in vigore. Qui, infatti, il legislatore dispone che venga sanzionato il comportamento contrario ad una regola di cui, al momento della statuizione, si ignora il contenuto. (6) Per una completa analisi del principio di riserva di legge in materia penale, cfr. M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Giappichelli, Torino, 1999, p. 38 ss. (7) Il controllo del potere legislativo si attua anche sui decreti legislativi, pur se in forma meno diretta di quanto avviene per i decreti legge che, a pena di decadenza, debbono essere convertiti in legge formale: con tutte le possibilità di discussione e di vaglio che questa procedura offre. Ma non va trascurato che la legge delega deve fissare principi e criteri direttivi e determinare con precisione la materia della normazione (oggetti definiti). Il mancato rispetto del dettato posto dalla delega dà luogo ad illegittimità costituzionale, e quindi permette l’intervento della Consulta. (8) Cfr. M. GALLO, La legge penale, cit., p. 58 ss. Contra, in vario senso: B. PETROCELLI, Norma penale e regolamento, in Scritti de Marsico, Milano, 1960; A. PECORARO ALBANI, Riserva di legge, regolamento, norma penale in bianco, ivi, p. 283; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale (parte generale), Zanichelli, Bologna, 1995.
— 1284 — Ed è proprio questo che è accaduto attraverso l’art. 36, che sanziona l’inosservanza delle disposizioni regolamentari dell’art. 15, il quale, a sua volta, prevede che tali regolamenti saranno emanati addirittura successivamente all’entrata in vigore della legge. Così è stato: il tema delle misure di sicurezza informatica è quanto mai attuale, posto che il regolamento è stato emanato nel luglio 1999; oltretutto, ben oltre i previsti 180 giorni successivi all’entrata in vigore della l. n. 675/1996. Con la necessaria quasi totale paralisi di operatività dell’art. 36. Ma la conseguenza più diretta di quanto detto è il contrasto dell’art. 36, attraverso l’art. 15, con il principio di legalità, da cui deriva la prospettabilità della questione di illegittimità avanti la Corte Costituzionale. Invero trattasi di problema che spesso involge la disciplina normativa dei settori caratterizzati da costante e rapida evoluzione tecnologica, ove è necessariamente privilegiata l’integrazione tra fonte primaria e regolamentare per la maggior aderenza alla realtà da disciplinare propria della fonte secondaria. La maggior duttilità della fonte regolamentare non deve, però, condurre a trascurare la riserva di legge. Meglio ipotizzare forme di depenalizzazione: benché molti principi della materia penale siano estesi alle materie depenalizzate, per queste non vige il principio di riserva assoluta di legge. Il combinato disposto degli artt. 15 e 36 conduce ad ulteriori riflessioni. L’art. 36, come sappiamo, sanziona chiunque, essendovi tenuto, omette di adottare le misure necessarie a garantire la sicurezza dei dati, violando il regolamento indicato dall’art. 15. Le condotte individuate e punite dall’art. 36 sono più d’una. Prima fra tutte v’è quella omissiva, che segue i principi generali. È fattispecie di mera condotta, ove, cioè, non rileva modificazione del mondo esterno conseguente alla condotta stessa (c.d. evento naturalistico). Non si profilano, quindi, problemi di causalità (9) posti dalla fattispecie astratta, anche se è sempre possibile dimostrare che, nel caso concreto, determinate precauzioni hanno evitato la messa in pericolo dei dati, pur se sono state omesse le prescritte misure di sicurezza. Non basta, infatti, a configurare il reato la mera inosservanza del precetto, non accompagnata dalla lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato: non ci si può fermare al dato della mera conformità al tipo descrittivo. È inoltre sanzionato con pena più grave il fatto omissivo da cui derivi nocumento. Infine, alle due fattispecie dolose, il legislatore affianca la previsione colposa, che estende la punibilità alle omissioni poste in essere per (9) Non che non si presentino mai. Esistono casi in cui i reati di mera condotta possono dar luogo a problemi di causalità. Si veda: M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. II, Il reato, Giappichelli, Torino, 2000, p. 94.
— 1285 — imprudenza, negligenza, imperizia, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Una prima considerazione: la seconda parte del comma 1o dell’art. 36 configura una fattispecie aggravata dall’evento. Si tratta di reati in cui alla condotta dell’agente consegue un evento in senso naturalistico, cioè — come già detto — una modificazione del mondo esterno che viene imputata all’agente sulla base di un criterio psicologico che non è quello usuale, fondato sulla bipolarità dolo-colpa (che presiede all’imputazione di tutti gli elementi oggettivi del fatto di reato). L’attribuzione dell’evento all’agente avviene qui sulla base del mero nesso eziologico intercorrente fra condotta ed evento. Tuttavia, si ritiene di aderire alla dottrina (10) secondo cui il principio costituzionale della responsabilità penale personale (art. 27 Cost.) ha necessariamente inciso anche su queste fattispecie, imponendo, oltre all’esistenza del nesso causale, la rappresentabilità dell’evento in base ai criteri di valutazione dell’id quod plerumque accidit. La circostanza che vi sia espressa previsione della fattispecie aggravata dall’evento porta a dedurre che la prima parte del comma 1o dell’art. 36 dispone la punibilità dell’omessa adozione delle misure di sicurezza sulla base della valutazione che accerti che, attraverso questa omissione, si è creato un pericolo per i dati. La messa in pericolo, in fattispecie del genere, non si configura come evento naturalistico, bensì costituisce la ratio della stessa incriminazione. Ciò che rileva è che, non essendo la messa in pericolo dei dati evento, non occorre fornirne prova. È quello che può definirsi reato a pericolo astratto: la non punibilità si avrà solo se si accerti che, nel caso concreto, non poteva verificarsi lo stato di pericolo. In questo caso si avrà reato impossibile ai sensi dell’art. 49 c. p. Limitarsi a punire la mera inottemperanza che, in base ad una valutazione normativa, si ritenga costituisca di per sé messa in pericolo ha lo stesso significato, sul piano penale, di quello che, in materia civilistica, ha l’art. 2050 c.c., sul quale avremo modo di tornare nel prosieguo della trattazione. Va rilevato, inoltre, che le fattispecie aggravate dall’evento costituiscono autonome fattispecie di reato, ne discende che l’evento-danno che aggrava non è circostanza, cioè elemento eventuale del reato, pertanto non può inserirsi nel cosiddetto giudizio di bilanciamento, che riguarda soltanto le circostanze (attenuanti e aggravanti). Se ne comprende l’incidenza nel meccanismo di repressione penale. La differenza fra reato circostanziato e reato aggravato dall’evento non si limita agli effetti sanzionatori. Anche il dies a quo della prescrizione si verifica in un momento diverso, così come la competenza territoriale del giudice: le conseguenze processuali sono di notevole importanza. (10)
Cfr. M. GALLO, Il reato, cit., pp. 91 ss.
— 1286 — Tutto ciò depone nel senso che il legislatore si serve del reato aggravato dall’evento quando vuol offrire una maggior tutela a determinati interessi. Detto questo, occorre por mente al significato dell’espressione ‘‘se dal fatto deriva nocumento’’. Il processo ermeneutico passa attraverso la ratio dell’intera l. n. 675/1996. Il bene giuridico che si vuole tutelare è la riservatezza dei dati personali, pertanto il nocumento non può essere altro che la realizzazione di quanto la previsione della seconda parte del 1o comma dell’art. 15 vuole evitare: la diffusione, il trattamento e così via, non autorizzati dei dati stessi. Non occorre che tale diffusione comporti un danno ulteriore per il titolare dei dati, vuoi patrimoniale, vuoi morale. Il solo fatto che il dato sia divenuto accessibile a terzi non legittimati costituisce nocumento. Si prescinde, altresì, dalle reazioni individuali dei titolari dei dati diffusi: il danno va valutato secondo criteri ispirati all’id quod plerumque accidit. L’ipotesi del reato aggravato dall’evento, profilata in tal modo, non è infrequente e, naturalmente, comporta una pena che nel nostro caso è notevolmente più grave. Il nocumento ci porta a spendere qualche parola sul risarcimento dei danni. La l. n. 675/1996 vi dedica due articoli: l’art. 18 che concerne i danni cagionati per effetto del trattamento di dati personali, e l’art. 29, comma 9o, concernente la risarcibilità dei danni non patrimoniali. Di fondamentale importanza è l’art. 18, secondo cui ‘‘chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del c. c.’’. Abbiamo già avuto modo di menzionare l’art. 2050 c.c., che fissa i parametri per il risarcimento dei danni prodotti durante lo svolgimento di attività pericolose. In tali situazioni si è tenuti alla riparazione se non si prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il pregiudizio. Nel caso di specie, v’è uno stretto collegamento tra l’art. 18 e l’art. 15. Infatti, provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno significa proprio l’aver messo in atto le misure che l’art. 15 prescrive di adottare per la sicurezza dei dati (o misure diverse, ma ugualmente, o più, efficaci di quelle espressamente richieste). Non può ritenersi, infatti, che il legislatore, dopo aver individuato, attraverso il regolamento, le misure necessarie a tutelare la riservatezza dei dati, obblighi i destinatari della norma ad altri comportamenti per soddisfare quanto richiesto dall’art. 2050 c.c. Una cosa deve essere chiara: se ho adottato le misure prescritte, non mi si può muovere l’addebito di aver omesso ulteriori prescrizioni. Va rilevato che, come sempre, il danno risarcibile non è valutabile alla stregua di criteri medi, ma è quello effettivamente subito. Oltretutto, si noti che l’art. 3 l. n. 675/1996, che riguarda il trattamento di dati per fini esclusivamente personali, pur sottraendo questi dati all’applicazione della legge stessa, impone, comunque, le misure di sicu-
— 1287 — rezza di cui all’art. 15. L’importanza di questa norma non può essere sottovalutata: occorrerà stare attenti a non abbandonare il proprio note book personale, perché si potrebbe essere chiamati a risarcire il danno in caso di trattamento dei dati. Ancora un cenno sulla natura del danno risarcibile. Da quel che si è detto, è chiaro che il danno risarcibile non si identifica con il nocumento della seconda parte del comma 1o dell’art. 36: è innanzitutto pregiudizio patrimoniale, danno emergente o lucro cessante, che va provato in concreto. L’art. 29 estende la risarcibilità al danno non patrimoniale. Trattasi di norma davvero opportuna. Non tanto perché il danno cagionato dal trattamento dei dati personali è non patrimoniale nella maggior parte dei casi, ma per il motivo più stringente che qui la risarcibilità del danno non patrimoniale può prescindere dalla commissione di un reato (11). Ciò posto, si prospetta il problema del nesso intercorrente tra l’art. 36 della l. n. 675/1996, che sanziona l’inosservanza delle misure necessarie per la sicurezza dei dati e l’art. 18, concernente il risarcimento dei danni. Non è un collegamento diretto, bensì mediato, tuttavia è innegabile, stante la ratio che regge la tutela della riservatezza dei dati. Infatti, che sia tenuta al risarcimento la persona la quale cagiona danno ad altri ‘‘per effetto del trattamento di dati’’ è espressione di non facile interpretazione. È da ritenersi, comunque, che la locuzione ‘‘per effetto’’, certamente lata, porti a comprendere i comportamenti in cui non si pongono in essere le misure di sicurezza necessarie a tutelare la riservatezza dei dati che vengono trattati (12) e, a cagione di questo, il sistema informatico è violato ed i dati divengono accessibili a terzi non autorizzati. Insomma, non sarà il trattamento di per sé, a cagionare il danno, ma le modalità con cui esso è stato svolto. Se così non fosse, ci saremmo imbattuti in altre locuzioni: durante il trattamento, con il trattamento e via dicendo. Tornando all’art. 36, si è visto che, accanto alla condotta dolosa, cioè con riferimento al normale criterio di imputazione soggettiva per i delitti, è prevista quella colposa. Viene in evidenza innanzitutto lo stretto rapporto logico che intercorre fra l’omissione e la colpa: si pensi alla contiguità, che è assai spesso (11) Secondo l’art. 29 ‘‘il danno non patrimoniale è risarcibile anche nei casi di violazione dell’art. 9’’. L’art. 9 stabilisce le modalità di raccolta e i requisiti dei dati: non tutte le violazioni dell’art. 9 costituiscono reato. (12) Per il concetto di trattamento si veda l’art. 1 della l. n. 675/1996: ‘‘qualunque operazione o complesso di operazioni, svolti con o senza l’ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati’’.
— 1288 — identità, fra gli obblighi giuridici richiamati dall’art. 40, comma 2o, c.p. e gli obblighi la cui violazione dà luogo a colpa per violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Qui l’omissione è direttamente posta in relazione alla inosservanza del regolamento previsto dall’art. 15, il che accade anche nella previsione dolosa. Quando la condotta è colposa, occorre distinguere le ipotesi di colpa generica da quelle di colpa cosiddetta specifica. Nessun problema sussiste in ordine all’omissione, correlata all’inosservanza di un regolamento, posta in essere per imprudenza, negligenza o imperizia. Quando, però, la colpa è specifica, si pone una questione di duplice valutazione logico-concettuale dello stesso elemento: si tratta, infatti, di omissione, cioè inosservanza di un regolamento, posta in essere per inosservanza di quello stesso regolamento. La sovrapposizione diviene pressoché tautologica: condotta ed elemento psicologico del reato sembrano sfumare l’uno nell’altro (13). Ma procediamo ad un’analisi più specifica del testo. A prima vista, potrebbe sembrare che tanto il reato commesso per dolo, quanto quello colposo siano puniti con la reclusione fino ad un anno. Sia chiaro: è il legislatore che individua quali comportamenti punire e con quale tipo e misura di sanzione farlo. Tuttavia colpire con pena di uguale misura edittale la realizzazione dolosa e la realizzazione colposa di una certa condotta suona in contrasto con ciò che di regola è disposto. Non è il caso di rifarci a considerazioni del tutto ovvie, ma la stessa pericolosità sociale di chi commetta un reato rappresentandosi e volendo la condotta che lo realizza è ben diversa da quella di colui che commetta lo stesso fatto per negligenza, imprudenza, imperizia. Ricollegare allo stesso fatto oggettivo, commesso tanto con dolo che con colpa, la medesima pena edittale significa utilizzare lo schema normativo tipico delle contravvenzioni, ove ‘‘ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa’’ (14). Naturalmente, anche se la pena edittale è identica, sarebbe il giudice, nell’ambito del suo potere discrezionale, a graduare la pena proprio in ragione dell’elemento psicologico del reato: dolo o colpa. (13) In realtà, la sovrapposizione non è perfetta: diverso è il criterio alla stregua del quale si definisce il contenuto dell’obbligo, a seconda che rilevi agli affetti dell’accertamento del rapporto causale, ovvero della colpa. Nel primo caso l’obbligo si pone come valore oggettivo, valido, cioè, per chiunque; nel secondo la destinatarietà dell’obbligo dipende dalle condizioni di cultura, socio-professionali dei singoli soggetti: si atteggia, in altri termini, secondo quello che si definisce ‘‘modello d’agente’’. (14) Per spiegare le figure ad elemento soggettivo equivalente, taluno ha fatto ricorso alle contravvenzioni, parlando di reati ontologicamente contravvenzionali. Contra, C. PEDRAZZI, Ontologia fuori luogo. (A proposito di una contravvenzione punita con la multa), in questa Rivista, 1958.
— 1289 — L’anomalia legata a queste fattispecie, comunque, resterebbe ed è innegabile. Proseguiamo lungo questa linea interpretativa: ipotesi dolosa e colposa punite allo stesso modo (15). Nel caso di realizzazione per colpa non parrebbe ricorrere la forma aggravata dalla causazione di un nocumento. Sul piano del trattamento sanzionatorio, quindi, ciò delineerebbe i tratti della maggiore severità con la quale sarebbe considerata la realizzazione per dolo, in ordine alla quale è contemplato un notevole aumento di pena ove dal fatto derivi nocumento. Consideriamo, allora, le ragioni di politica legislativa che avrebbero indotto il legislatore a punire allo stesso modo, malgrado l’apparente previsione distinta, l’ipotesi dolosa e quella colposa della realizzazione pura e semplice della condotta costitutiva di reato formale. L’unica ragione che avrebbe potuto spingere ad una simile previsione è la considerazione che l’inosservanza di particolari doveri, cui è attribuito rilievo penale, costituisce momento così rilevante, nella sua obiettività, da superare la distinzione fra realizzazione dolosa e realizzazione colposa: come avviene nelle contravvenzioni. Ed ancora: il legislatore non avrebbe voluto escludere, nel caso di ipotesi commessa con colpa particolarmente grave, la possibilità di punire con pena identica a quella irrogabile in ipotesi dolosa. Elemento centrale nelle scelte legislative sarebbe, dunque, la condotta, cioè la violazione degli obblighi; in definitiva, un’applicazione del principio culpa lata dolo equiparatur. Questo spiegherebbe l’identità di pena edittale tra fattispecie dolose e fattispecie colpose. Ma se il legislatore non intendesse rinunciare a punire con pena uguale alle ipotesi dolose quelle di colpa grave, la ricostruzione della intentio legis ora prospettata non consentirebbe di spiegare come mai per la fattispecie colposa non sembra ricorrere la punibilità nel caso aggravato dal nocumento. Ed allora occorre tentare un ulteriore percorso interpretativo della norma. Come si è visto, il comma 1o dell’art. 36 prevede due ipotesi: quella omissiva dolosa e quella omissiva, dolosa, aggravata dal verificarsi del nocumento. Il comma 2o prevede l’ipotesi colposa in questi termini: ‘‘se il fatto di cui al comma 1o è commesso per colpa...’’. Ora, di fatti al comma 1o ne sono previsti due. Da qui si aprono altre due vie prospettabili, oltre a quella già deli(15) Sostengono la tesi della fattispecie ad elemento soggettivo equivalente S. FIORE, voce Riservatezza (diritto alla), cit, p. 13 ss.; G. CORRIAS LUCENTE, in La tutela dei dati personali. Commentario alla l.n. 675/1996, cit. p. 373.
— 1290 — neata. Il comma 2o si riferisce al fatto, globalmente considerato, del comma 1o: in tal caso anche l’ipotesi colposa potrebbe essere aggravata dall’evento e la pena della reclusione fino ad un anno andrebbe estesa sia alla realizzazione per colpa meramente omissiva sia a quella aggravata dal nocumento. Ma questo non si concilierebbe con quanto il legislatore ha manifestato, punendo in misura notevolmente più severa l’ipotesi dolosa aggravata dall’evento. Sarebbe assurdo che, per l’ipotesi colposa, perdesse rilevanza il verificarsi del nocumento e fosse lasciato tutto alla discrezionalità della graduazione del giudice, nei limiti della pena fino a un anno. Meglio concludere, allora, che il comma 2o dell’art. 36, nel menzionare il fatto del comma 1o, si riferisce a quello corredato dal nocumento. Ne deriva che la mera ipotesi colposa, non seguita dal nocumento, dovrebbe andare esente da pena (16). Si comprende agevolmente che aderire ad una piuttosto che all’altra interpretazione comporta notevoli implicazioni applicative: si va da un estremo all’altro. L’ipotesi colposa non seguita da nocumento potrebbe essere punita nella stessa misura dell’ipotesi dolosa oppure potrebbe essere ritenuta esente da pena. Come si vede, non si tratta di mera questione teorica. Analizzate le sanzioni — che, in senso lato, sistematico, possono comprendere anche il risarcimento del danno, spesso più afflittivo, nella sostanza, di una pena detentiva che venga, ad esempio, sospesa condizionalmente — occorre individuare il soggetto attivo. L’art. 36 l. n. 675/1996 stabilisce che risponde chiunque ‘‘essendovi tenuto’’, omette di predisporre le misure di sicurezza dei dati. Non chiunque in senso generico, quindi, ma chi è tenuto a porre in essere tali misure. L’attenzione si sposta, allora, su questo soggetto, che non è individuato dall’art. 36. Neppure l’art. 15 viene in aiuto a tal fine. Occorre, allora, ripercorrere l’intiera normativa, cominciando proprio dall’art. 1, che fornisce finalità e definizioni utili alla comprensione del complesso dispositivo. Alla lettera d) dell’art. 1 è indicato il titolare, che è ‘‘la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo cui competono le decisioni in ordine alle finalità ed alle modalità del trattamento di dati personali, ivi compreso il profilo della sicurezza’’. Trascurando i problemi di coordinamento — il capo della legge dedicato in modo specifico agli obblighi del titolare del trattamento non fa menzione alcuna delle misure di sicurezza — è possibile accontentarsi di (16) Sembrerebbe orientarsi in questo senso anche G. BUONOMO, Osservazioni sulle ‘‘misure minime di sicurezza’’ introdotte dal d.P.R. n. 318/1999. L’approccio penale alla sicurezza informatica, www.privacy.it, che parla costantemente di pene dimezzate per l’ipotesi colposa.
— 1291 — questo dato, che parrebbe assicurare notevole certezza applicativa. Il titolare è un soggetto non solo sempre individuabile, ma individuato una tantum attraverso la notificazione che la l. n. 675/1996 dispone debba essere presentata al Garante. Il titolare, però, secondo la lettera della legge, può essere persona fisica o persona giuridica, mentre la responsabilità penale ex art. 27 Cost. è personale. Ne discende che, quando il titolare sia persona giuridica o pubblica Amministrazione, si deve fare riferimento a chi, all’interno della struttura, possegga la specifica competenza e responsabilità della materia in oggetto. Naturalmente, a titolo di colpa risponderanno anche i vertici della struttura, quando non abbiano provveduto alla delega o l’abbiano conferita a persona incompetente. Ma non è detto che sia solo il titolare a rispondere penalmente. Bisogna fare i conti col concorso di persone e con la cooperazione nel delitto colposo. Per tal via la responsabilità si estende, secondo i principi generali, anche ad altri soggetti, che pongano in essere gli elementi necessari ad un atto di partecipazione ex art. 110 c.p. o di cooperazione ex art. 113 c.p. MARISTELLA AMISANO Avvocato in Torino
LA CONFESSIONE DEL MINORE NELLA « SOSPENSIONE DEL PROCESSO E MESSA ALLA PROVA »
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La disciplina della « sospensione del processo e messa alla prova ». — 3. I presupposti per l’applicazione dell’istituto. — 4. La confessione come presupposto tacito della « messa alla prova »: a) le diverse argomentazioni della dottrina e della giurisprudenza. — 5. Segue: b) l’inaccettabilità della tesi in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 28 del d.P.R. 448/1988. — 6. Conclusioni.
1. Premessa. — Con la riforma del processo penale minorile attuata dal d.P.R. 448 del 22 settembre 1988 è stato introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della « sospensione del processo e messa alla prova »: in seguito alla previsione di questo istituto, che si ispira « alla cosiddetta probation processuale — da tempo nota e applicata con successo in molti ordinamenti soprattutto di origine anglosassone (1) — il diritto minorile è venuto ad assumere il ruolo di « pioniere » (2) nella sperimentazione di (1) Così la Relazione al testo definitivo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, pubblicata in Gazz. Uff., Serie gen. n. 250, Suppl. ordin. n. 2, p. 221; cfr. anche L. FADIGA, Le regole di Pechino e la giustizia minorile, in Giust. e Cost. 1989, n. 2, p. 16 e C. LOSANA, Commento agli artt. 28 e 29, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, Leggi collegate, Il processo minorile, vol. I, Utet, 1994, coordinato da M. CHIAVARIO, p. 291. Per una ricostruzione del sistema di giustizia minorile in Inghilterra dalle sue origini ad oggi, v. V. MUSACCHIO, Brevi cenni sulle misure alternative alla pena in diritto penale comparato, in Giust. pen.1994, II, p. 275; V. PATANÈ, L’individualizzazione del processo penale minorile. Confronto con il sistema inglese, Giuffrè, 1999, p. 8 ss. e P. PEPE, Il trattamento della delinquenza giovanile in Inghilterra, in Rass. it. crim. 1998, pp. 327 ss.; sul diritto penale americano, invece, v. V. FANCHIOTTI, Speranze e delusioni in U.S.A. nella ricerca di alternative al processo penale, in Giust. pen. 1983, III, p. 227. Si vedano inoltre: C.M. CAMPANINI, Alternative al giudizio penale nell’ordinamento nordamericano: le tecniche di « diversion », in questa Rivista 1983, p. 131; NUVOLONE, « Probation » e istituti analoghi nel diritto penale comparato, in AA.VV., Trent’anni di diritto e procedura penale, I, Cedam, 1969, pp. 213 ss.; T. PADOVANI, Evoluzione storica ed aspetti di diritto comparato nelle misure alternative, in Cass. pen. 1979, p. 492; F. PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, 1989, p. 44. (2) Così A. GERMANÒ, Processo penale minorile e processo per gli adulti: diversa funzione e diverse disposizioni. Ruolo « pioniere » del processo penale minorile, in AA.VV., Questioni nuove di procedura penale — Le riforme complementari, Il nuovo processo minorile e l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario, Cedam, 1991, p. 65. Nel senso che la « sospensione del processo e messa alla prova » costituisce « l’innovazione più significativa e
— 1293 — quella che può a ragione essere considerata una delle più importanti novità di diritto sostanziale della riforma (3), per certi aspetti tale da rivoluzionare l’intero sistema (4). D’altra parte, alla luce delle sollecitazioni da tempo provenienti dalla Corte costituzionale (5) e dalla comunità internazionale (6), era improcracoraggiosa operata dal nuovo codice di procedura penale », C. cost., 27 aprile 1990, n. 412, in Giur. cost. 1990, p. 2510; analogamente GIAMBRUNO, Sospensione del processo e messa alla prova dell’imputato: un’opportuna innovazione nel sistema processuale penale minorile, in Giur. merito 1991, II, p. 608. (3) Pacifica è in dottrina la natura sostanziale delle disposizioni che prevedono: il proscioglimento per irrilevanza del fatto, l’estinzione del reato per esito positivo della prova, l’ampliamento a due anni della sfera di applicazione della semidetenzione e della libertà controllata e la variazione degli ambiti di applicabilità della libertà vigilata e del riformatorio giudiziario: cfr., fra gli altri, F. BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Il nuovo processo penale — Studi di diritto straniero e comparato, Vol. III, Giuffrè, 1991, pp. 87 e ss. e in Ind. pen. 1989, pp. 338 ss.; G. FUMU, Le difficili scelte del legislatore minorile tra accertamento, educazione e sanzione, in AA.VV., Questioni nuove di procedura penale, cit., p. 70; S. GUARINO, Norme di diritto sostanziale nel progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, in Riv. pen. 1988, p. 917; S. LARIZZA, Criminalità minorile e ruolo residuale del diritto penale, Pavia, 1992, p. 3; C. LOSANA, Commento agli artt. 28 e 29, cit., p. 314; A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale, in questa Rivista 1990, p. 37; D. SPIRITO, Principi e istituti del diritto penale nel nuovo processo a carico di imputati minorenni, in Giust. pen. 1990, III, p. 137 ss. (4) Peraltro, è solo operando una evidente forzatura che il legislatore delegato è riuscito ad inserire queste importanti novità di diritto sostanziale nel processo penale minorile, oggetto della delega ai sensi dell’art. 3, l. 16 febbraio 1987 n. 81. A questa conclusione, del resto, è pervenuta la Corte costituzionale nel dichiarare illegittimo, per eccesso di delega, l’art. 27 d.P.R. 448/1988 relativo alla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (cfr. C. cost. 6 giugno 1991 n. 250, in Giust. pen. 1991, I, p. 230) (istituto poi reintrodotto con l’art. 1, l. 5.2.1992 n. 123). Anche in tema di sospensione del processo e messa alla prova sono stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 76 Cost.: si veda il parere dell’Università di Perugia al progetto preliminare disp. proc. min., in G. CONSO, V. GREVI, G. NEPPI MODONA, Il codice di procedura penale dalle leggi-delega ai decreti delegati, VII, 1990, p. 367, nonché il parere espresso dal C.S.M., op. cit., passim. Nel senso però che la questione sia manifestamente infondata, in quanto « deve ritenersi che l’estinzione del reato prevista dal legislatore delegato all’art. 29 d.P.R. 448/1988 in caso di esito positivo della prova, si configuri come la naturale ed obbligata conseguenza del tipo di ‘‘probation’’ delineato nella citata previsione della direttiva di cui alla lett. e) art. 3 legge delega », Cass. sez. VI, 12 aprile 1994, in Arch. nuova proc. pen. 1994, pp. 844 e ss. (5) Per un panorama degli interventi principali della Corte costituzionale in tema di minorenni, cfr. S. LARIZZA, Criminalità minorile e ruolo residuale del diritto penale, cit., p. 9 e ss.; ID., Corte costituzionale e sistema di giustizia minorile, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, I, 2000, pp. 89 ss.; F. PALOMBA, Il sistema, cit., pp. 39 ss. Fra le sentenze più importanti, v.: C. cost. 23 marzo 1964, n. 25, in Giur. cost. 1964, pp. 228 ss. e C. cost., 30 aprile 1973, n. 49, in Giur. Cost. 1973, pp. 425 ss. In dottrina v. G. DE LEO, Tramonto o eclisse della delinquenza minorile?, in Rass. criminol. 1983, p. 57; ID., La natura del rapporto fra giovani e istituzioni nella legislazione penale minorile, in Del. e pene 1983, pp. 329 ss., in partic. p. 338; G. LA GRECA, Appunti sul processo penale minorile, ivi, p. 316; T. BANDINI, U. GATTI, Evoluzione e crisi del sistema della giustizia minorile. Una difficile scelta tra punizione ed educazione, ivi, p. 341; F. PALOMBA, Quale sistema penale per minorenni?, in Giust. e Cost. 1981, n. 3-4, p. 59. (6) Si segnalano per la loro importanza e la notevole influenza che hanno avuto sul
— 1294 — stinabile una riforma del diritto penale minorile che realizzasse i principi di « unidirezionalità » della pena in senso rieducativo (7), di adeguatezza del processo e della sanzione alla personalità e alle esigenze educative del minore, nonché di extrema ratio della sanzione penale (8). 2. La disciplina dell’istituto della « sospensione del processo e messa alla prova ». — Gli artt. 28 e 29 del d.P.R. 448/1988 prevedono la possibilità che il giudice dell’udienza preliminare (9) o del dibattimento, qualora ritenga opportuno valutare la personalità del minorenne all’esito della prova, sospenda il processo ed affidi il minore ai servizi minorili per le opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno (10). Dopo un periodo massimo di uno o di tre anni, a seconda della gravità del nostro legislatore: le Regole di Pechino (o Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile), approvate dall’ONU nel 1985 e la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (87/20) del 1987, pubblicate in G. CONSO, V. GREVI, G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalla legge penale ai decreti delegati, Il processo penale a carico di imputati minorenni, Cedam, 1990, pp. 1659 e ss. (7) Così D. SPIRITO, Principi e istituti del diritto penale nel nuovo processo a carico di minorenni, cit., p. 138; in senso fortemente critico per la commistione, dimostratasi fallimentare, fra sostegno e terapia, da un lato, e punizione e difesa sociale, dall’altro, P. GALLINA FIORENTINI, Sul ruolo « materno » della giustizia minorile, in Rass. it. crimin. 1993, pp. 247 e ss. (8) M.G. BASCO, S. DE GENNARO, La messa alla prova nel processo penale minorile, Giappichelli, 1997, p. 1; G. BREX, E. FIORENTINO BUSNELLI (a cura di), Adolescenti a rischio tra prevenzione e recupero: un impegno per tutti, Franco Angeli, 1994, p. 64; F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 432; A. CASALINOVO, Orientamenti e prospettive del nuovo processo a carico di imputati minorenni, in Giust. pen. 1990, III, p. 264; G. FUMU, Le difficili scelte del legislatore minorile tra accertamento, educazione e sanzione, cit., p. 67; V. PEROZZIELLO, Il processo minorile, in C. CASTELLI, G. ICHINO, (a cura di), Il nuovo processo penale, Franco Angeli, 1991, p. 125. (9) Nel processo penale minorile il legislatore ha privilegiato la conclusione del processo in udienza preliminare, qualora sia possibile una decisione « allo stato degli atti », al fine di realizzare quella tutela del minore dal processo che costituisce uno degli aspetti peculiari del diritto minorile. Il giudice dell’udienza preliminare, infatti, è giudice collegiale (art. 50-bis, comma 2 r.d. 12/1941 come modificato dall’art. 14 d.P.R. 449/1988) e, fra l’altro, ex art. 32, comma 2 d.P.R. 448/1988, può pronunciare, su richiesta del PM, « sentenza di condanna quando ritiene applicabile una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva. In tal caso la pena può essere diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale ». Deve segnalarsi, inoltre, che la sospensione del processo con messa alla prova è (oggi) applicabile anche nel caso in cui l’imputato chieda il giudizio abbreviato o il giudizio immediato: l’originaria preclusione, contenuta nel comma 4 dell’art. 28, è stata infatti dichiarata incostituzionale per contrasto con gli artt. 3, 31, secondo comma e 24, secondo comma Cost. (cfr. C. cost. 14 aprile 1995, n. 125, in Foro it. 1995, pp. 2394 ss., con nota di G. DI CHIARA, In tema di modelli differenziati speciali: riti semplificati minorili e messa alla prova; e in Giurisp. cost. 1995, p. 2172, con nota di P. C. PAZÈ, Un riesame complessivo della messa alla prova per i minorenni). (10) A questa disciplina si deve aggiungere quella prevista nelle disposizioni di attuazione all’art. 27 d.lgs. 272/1989 (per il testo integrale cfr. infra nota 15 e 17).
— 1295 — reato (11), il giudice dichiarerà estinto il reato in caso di esito positivo della prova, « tenuto conto del comportamento del minorenne e dell’evoluzione della sua personalità » (12); in caso contrario, il processo riprenderà ed il giudice adotterà i provvedimenti che riterrà più idonei fra quelli possibili in quella fase processuale (13). Con il provvedimento di « sospensione » (14), l’imputato risulta destinatario di un progetto di intervento contenente alcune prescrizioni (15), che ha l’onere di rispettare se vuole beneficiare dell’effetto estintivo: gravi e ripetute trasgressioni, infatti, comportano la revoca della (11) La sospensione non può superare la durata di tre anni quando « si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni »; negli altri casi non può superare la durata di un anno. Tale limite massimo di durata della sospensione, proporzionale alla pena comminata per il reato per il quale si procede, è inderogabile: non è quindi ammissibile la proroga della sospensione che superi tale limite, come ha affermato: Cass., sez. V, 24 febbraio 1994, in Giust. pen. 1994, III, p. 627. (12) Adotterà la formula dell’art. 425 c.p.p. se la sospensione è stata disposta nel corso dell’udienza preliminare; adotterà, invece, la formula prevista dall’art. 531 c.p.p. se è stata disposta in dibattimento. (13) Benché il legislatore non sembra aver escluso, in caso di esito negativo della prova, nessuna fra le possibili pronunce sia dell’udienza preliminare (sentenza di non luogo a procedere, sentenza di condanna a pena pecuniaria o a sanzione sostitutiva, su richiesta del PM, o decreto che dispone il giudizio) sia del dibattimento (sentenza di assoluzione o sentenza di condanna, anche a sanzione sostitutiva), sorgono forti dubbi circa l’ammissibilità da parte dello stesso giudice di un giudizio di proscioglimento o assoluzione (nel merito o per mancanza di imputabilità), poiché l’accertamento sulla responsabilità e maturità del minore doveva già essere esaurito prima della sospensione. Allo stesso modo, suscita perplessità l’ammissibilità del perdono giudiziale e della sospensione condizionale della pena all’esito negativo della prova. Si vedano per un panorama sulle diverse soluzioni prospettate: M.G. BLASCO, S. DE GENNARO, op. cit., p. 73; M. BOUCHARD, Processo penale minorile (voce), in Dig. pen., vol. X, Utet, 1995, p. 152; G. DI PAOLO, Riflessioni in tema di « probation » minorile, in Cass. pen. 1992, p. 2874; P. GIANNINO, Il processo penale minorile, Cedam, 1997, p. 246; C. LOSANA, op. cit., p. 318; A.C. MORO, Manuale di diritto minorile, Zanichelli, II ed., 2000, p. 461; F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 483; ID., Commento all’art. 28, in Esp. giust. min. 1989, pp. 205 ss.; L. PEPINO, Sospensione del processo e messa alla prova (voce), in Dig. pen. 1997, vol. XIII, p. 487. (14) Si può configurare, in questo caso, una sospensione « impropria » (per la distinzione fra sospensione propria e impropria si vedano G. UBERTIS, Sospensione del processo penale, in Enc. dir., vol. XLIII, 1990, p. 71 e M. CHIAVARIO, La sospensione del processo penale, Giuffrè, 1967, pp. 19 ss.). (15) Oltre a quanto previsto dall’art. 28, comma 2 d.P.R. 448/1988 circa il contenuto dell’ordinanza di sospensione e le prescrizioni « dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa », l’art. 27 delle disp. di attuaz. stabilisce che « il giudice provvede [...] sulla base di un progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali. Il progetto di intervento deve prevedere fra l’altro: a) le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; b) gli impegni specifici che il minorenne assume;
— 1296 — sospensione e la ripresa del processo (art. 28, ultimo comma d.P.R. 448/1988) (16). L’imputato non è quindi lasciato a se stesso, ma è affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, che lo sostengono e promuovono il suo impegno nel rispetto delle prescrizioni, che possono peraltro essere modificate in corso di prova (17). Tale aspetto rende questo istituto un’importante alternativa rieducativa alla detenzione nei casi più difficili (ad esempio, soggetti con precedenti penali o imputati di reati molto gravi), anche quando non possano (o non possano più) essere applicati il perdono giudiziale, la sospensione condizionale della pena o la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Attraverso questa disciplina il legislatore ha ritenuto così di realizzare, nel processo penale minorile, quel difficile bilanciamento fra il principio di adeguatezza alle esigenze educative del minore e il pieno rispetto di tutte le garanzie previste dal processo penale per gli adulti (18), cui fa riferimento lo stesso art. 1 del d.P.R. 448/1988: « nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale. Tali c) le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente locale; d) le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa ». Sul contenuto del progetto si vedano, in dottrina, fra gli altri: M.G. BLASCO, S. DE GENNARO, op. cit., p. 35; L. PEPINO, op. cit., pp. 485 ss.; F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., pp. 450 e ss. Sui dubbi interpretativi sorti in dottrina circa il possibile contenuto delle prescrizioni indicate dall’ordinanza con cui si dispone la sospensione si vedano: A. GHIARA, op. cit., pp. 90 e 91; A.V. SEGHETTI, Processo minorile sospeso con obbligo di leggere libri, in Dir. pen. e proc. 1996, p. 1144. (16) Proprio per questo sembra potersi concordare con chi afferma che la « sospensione del processo e messa alla prova » costituisce una forma di probation. Il tratto peculiare del probation, infatti, « risiede nelle sorti dell’azione penale nascente dal reato: se, in seguito a una valutazione del tutto discrezionale, l’esito della prova non è soddisfacente, il procedimento riprende il suo corso » proprio come è stato stabilito dal nostro legislatore all’art. 29 d.P.R. 448/1988. « Nell’ambito della diversion, invece, il potere si consuma al momento della relativa decisione (...) » (C.M. CAMPANINI, op. cit., in questa Rivista 1983, p. 147 e bibliografia ivi citata). Si è anche sostenuto che l’istituto della sospensione costituisce una sorta di via di mezzo fra probation e diversion »: M. ZANCHETTI, La riforma del processo penale dei minorenni fra procedura penale e politica criminale, in B. BARBERO AVANZINI, Minori, giustizia penale e intervento dei servizi, p. 92. Una parte minoritaria della dottrina assimila la sospensione del processo con messa alla prova alla diversion (MANTOVANI, Il problema della criminalità, Cedam, 1984, p. 503). (17) In tal senso è previsto all’art. 27 disp. att. che « il presidente del collegio che ha disposto la sospensione del processo e l’affidamento riceve le relazioni dei servizi e ha il potere, delegabile ad altro componente del collegio [uno dei giudici onorari], di sentire, senza formalità di procedura, gli operatori e il minorenne ». Il comma 3 dell’art. 27 disp. att. prevede, infatti, che « i servizi informano periodicamente il giudice dell’attività svolta e dell’evoluzione del caso, proponendo, ove lo ritengano necessario, modifiche al progetto, eventuali abbreviazioni di esso ovvero, in caso di ripetute e gravi trasgressioni, la revoca del provvedimento di sospensione ». (18) PALOMBA, Il sistema, op. cit., pp. 94 ss.
— 1297 — disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne » (19). Nel processo penale minorile, infatti, il giudice ha il compito di valutare, oltre al fatto-reato, la personalità dell’imputato (20), non solo quale appare al momento del giudizio, ma anche nella sua possibile evoluzione (21), avendo presente, come finalità primaria, quella educativa, alla quale occorre dare attuazione già nel processo (22). 3. I presupposti per l’applicazione dell’istituto. — Per l’applicabilità della « messa alla prova », la disciplina prevista dagli artt. 28 e 29 del d.P.R. 448/88 si limita a richiedere espressamente che siano « sentite le parti » e che il giudice « ritenga di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova ». Il legislatore, per ampliare il più possibile l’ambito di operatività dell’istituto in esame, non ha previsto preclusioni oggettive, connesse alla gravità del reato (23), né preclusioni « soggettive »: come è stato opportu(19) La Corte costituzionale, già da tempo, del resto, aveva rilevato che « la giustizia minorile ha una particolare struttura in quanto è diretta in modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei minorenni »: così Corte cost. 25/1964, cit., pp. 228 ss. A queste esigenze di recupero sociale del minore deviante « è addirittura subordinata la realizzazione della pretesa punitiva »: in questo senso, C. cost. 49/1973, cit., p. 425. (20) M. BROUCHARD, Processo penale minorile (voce), in Dig. pen., 1995, vol. X, p. 140; G. DE LEO, P. PATRIZI, Trattare con adolescenti devianti, Carocci, 1999, pp. 75 ss.; E. ROLI, Dal reato alla personalità. Il modello diagnostico nella giustizia minorile, Giuffrè, 1996, pp. 23 ss. (21) F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., pp. 169 ss.; A. CERETTI, Come pensa il Tribunale per i Minorenni, Franco Angeli, 1997, p. 176; L. PEPINO, op. cit., p. 482; S. GIAMBRUNO, Sospensione del processo e messa alla prova dell’imputato: un’opportuna innovazione nel processo penale minorile, cit., p. 607; G. SCARDACCIONE, F. MERLINI, Minori, famiglia, giustizia. L’esperienza della messa alla prova nel processo penale minorile, Unicopli, 1996, p. 34; C. LOSANA, op. cit., p. 293, secondo il quale « il giudice è chiamato ad una valutazione non statica ma dinamica della personalità (per così dire, non ad una fotografia bensì ad un film, che parte dal passato, si concretizza nel presente, e si proietta nel futuro) ». (22) « Le anomalie delle figure sostanziali sono tutte da valutare, se non da giustificare, in questa diversa luce »: così F. BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, cit., p. 89. Nello stesso senso: F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., pp. 30 e 31; L. PEPINO, op. ult. cit., p. 483; D. SPIRITO, Funzioni e poteri del giudice minorile, in Arch. pen. 1993, pp. 140 e ss. (23) L’applicabilità della sospensione sembrava essere stata esclusa, dal legislatore delegato, nel caso di reati per cui fosse prevista la pena dell’ergastolo. La Corte costituzionale ha però affermato che bisogna « all’opposto ritenere che gli articoli impugnati [28 d.P.R. 448/1988 e 30 d.lgs. 272/1989] già consentono l’applicabilità del probation anche allorché si proceda per reati punibili con la pena dell’ergastolo »: così Corte cost. 27 settembre 1990, n. 412, in Giur. Cost. 1990, p. 2505. L’espresso riferimento anche ai reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo è stato successivamente introdotto nell’art. 28 con l’art. 44 del d.lgs. 12/1991; tuttavia, come è noto, il problema è stato completamente superato da una successiva pronuncia della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
— 1298 — namente osservato, infatti, la sospensione « è reiterabile illimitatamente, è suscettibile di estensione in corso di esecuzione, può essere concessa in caso di nuovi processi per fatti sia precedenti che successivi, è applicabile anche a chi sia stato in precedenza perdonato o condannato » (24). Di fronte all’ampia discrezionalità attribuita al giudice nella valutazione circa l’applicabilità o meno della « messa alla prova » (25) e alla assenza, nelle norme citate, di indicazioni precise e univoche sul contenuto e sui presupposti dell’istituto (26), dottrina e giurisprudenza hanno rilevato il pericolo che dalle inevitabili incertezze interpretative derivino discriminazioni e disuguaglianze applicative (27). Allo scopo di colmare le lacune lasciate dal legislatore e di circoscrivere l’operatività della misura in esame, si è quindi pervenuti all’individuazione di ulteriori presupposti, che se in parte sono implicitamente ricavabili dalla disciplina legislativa, per altra parte sembrano invece frutto di autonoma elaborazione degli interpreti (28). Costituiscono senz’altro presupposti impliciti della « messa alla prova », nonostante l’imprecisione del dettato normativo, tanto l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato rispetto al fatto per cui si procede, quanto la prognosi favorevole circa l’evoluzione della sua personalità attraverso il « progetto di intervento » attuabile nei suoi confronti. degli artt. 17 e 22 c.p. nella parte in cui non escludono l’applicazione dell’ergastolo al minore imputabile, cfr. C. cost. 28 aprile 1994, n. 168, in Giur. it. 1995, I, p. 357, con nota di M. RUTOLO, L’illegittimità costituzionale della pena dell’ergastolo nei confronti del minore: un segno di civiltà; e in Giur. cost. 1994, p. 1254, con note di E. GALLO, Un primo passo per il superamento dell’ergastolo, e di G. GEMMA, Pena dell’ergastolo per i minori: davvero incostituzionale? (24) L. PEPINO, La sospensione, op. cit., p. 483. Ha ritenuto, inoltre, che « ove, in ordine ad uno specifico episodio criminoso, sia stata disposta, previa sospensione del processo, la ‘‘messa alla prova’’ del minore, conclusasi, al termine del periodo di prova, con esito positivo, tale esito deve ritenersi direttamente estensibile — senza, dunque, necessità di disporre una nuova e distinta ‘‘messa alla prova’’ — anche ad altro reato, commesso dal medesimo minore in epoca precedente al primo episodio, sempre che i due fatti siano unificati dal vincolo della continuazione »: TM Genova, 30 novembre 1994, in Foro it. 1996, II, p. 50. (25) V. in giurisprudenza infra nota 36. (26) In tal senso: D. CIBINEL, Sistema penale minorile, in Dig. pen., vol. XIII, 1997, p. 343; L. PEPINO, La sospensione, op. cit., p. 483. (27) D. SPIRITO, Funzioni e poteri del giudice minorile, cit., p. 13; G. DI PAOLO, op. cit., p. 2867; G. BREX, E. FIORENTINO BUSNELLI, Adolescenti a rischio tra prevenzione e recupero: un impegno per tutti, cit., p. 90; L. PEPINO, op. cit., p. 483; G. SPANGHER, Lineamenti del processo minorile riformato, in Giust. pen. 1992, III, p. 213; P. GAETA, Il processo penale minorile: condanna o messa alla prova?, in Question. giust., 1993, 1, pp. 41 ss.; S. DI NUOVO, G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè, 1999, p. 316; C. SCIVOLETTO, C’è tempo per punire. Percorsi di probation minorile, Franco Angeli, 1999, p. 82. (28) G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 67; G. BREX, E. FIORENTINO BUSNELLI, op. cit., p. 89; F. MAZZA GALANTI, I. PATRONE, op. cit., p. 170; G. FUMU, op. cit., p. 80; M. COLAMUSSI, Una risposta alternativa alla devianza minorile: la « messa alla prova » profili controversi della disciplina, in Cass. pen., 1996, p. 2811.
— 1299 — Benché, infatti, il legislatore abbia adottato una « soluzione ardita », consistente nel rendere applicabile con ordinanza il probation prima di un’esplicita dichiarazione di responsabilità (29) — che dovrebbe avvenire invece con sentenza —, si riconosce univocamente che « l’ordinanza deve essere pronunciata come se fosse stata già accertata la responsabilità penale » (30). In caso contrario, l’istituto della « messa alla prova » non potrebbe essere inquadrabile fra le misure « penali », ma dovrebbe essere considerato una misura amministrativa, applicabile indipendentemente dalle garanzie del processo penale, con tutti i dubbi di legittimità costituzionale che questa soluzione comporterebbe (31). Del resto, all’accertamento della responsabilità dell’imputato quale presupposto della misura implicitamente ha fatto riferimento lo stesso legislatore: il secondo comma dell’art. 28, infatti, prevede per il giudice la possibilità di impartire con l’ordinanza di ammissione alla « messa alla prova » « prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato » (32). In questa direzione si è chiaramente orientata anche la Corte (29) F. BRICOLA, op. cit., p. 88. Nel senso che questa scelta discenda dalla circostanza che le disposizioni del processo minorile impongono ‘‘un ulteriore parametro di valutazione rappresentato dall’assicurazione della continuità dei processi educativi, cui il procedimento deve cercare di portare la minore offensività possibile’’, F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 103. (30) Così F. PALOMBA, op. cit., pp. 414 ss. Analogamente, G. DI PAOLO, op. cit., p. 2867; D. CHINNICI, La sospensione del processo e messa alla prova (art. 28 D.P.R. 448/1988): analisi dell’applicazione dell’istituto nel distretto di Palermo, in Giur. merito 1996, p. 841; L. PEPINO, La sospensione, op. cit., p. 484; S. DI NUOVO, G. GRASSO, Diritto, cit., p. 316; L. SCOMPARIN, Sospensione del processo minorile e ‘‘messa alla prova’’: limiti di compatibilità con i riti speciali e altri profili processuali dopo l’intervento della Corte costituzionale, in Legisl. pen. 1995, p. 512; P. GIANNINO, Il processo penale minorile, Cedam, 1994, p. 233; A. GHIARA, La ‘‘messa alla prova’’ nella legge processuale minorile, cit., p. 88; M.G. BASCO, S. DE GENNARO, op. cit., p. 16; G. DI CHIARA, op. cit., p. 2397; V. PUGLIESE, La messa alla prova del minore al vaglio della Cassazione, in Min. giust., 1996, I, 103; A. CARNEVALE, R. PANEBIANCO, A. COLAGRECO, La ‘‘messa alla prova’’ del minore autore di reato, in Riv. it. di med. leg., 1996, p. 686. Considerano la mancata previsione espressa della responsabilità dell’imputato fra i presupposti della ‘messa alla prova’ la ‘‘lacuna più vistosa’’ nella disciplina F. MAZZA GALANTI, I. PATRONE, op. cit., p. 162. Da questa interpretazione, dovrebbe discendere a nostro parere la necessità che il giudice abbia previamente accertato anche l’imputabilità del minore: in questo senso V. PATANÈ, op. cit., p. 162 contra, però, di recente TM Milano, 1 luglio 1999, in Foro ambros., 1999, p. 488. Sostengono, invece, che la responsabilità penale non sia un presupposto necessario: M. ZANCHETTI, La riforma del processo penale dei minorenni fra procedura penale e politica criminale, in B. BARBERO AVANZINI, Minori, giustizia penale e intervento dei servizi, p. 93, in particolare nota n. 43; C. SCIVOLETTO, op. cit., p. 83. (31) F. PALOMBA, op. cit., pp. 415 ss. Le misure rieducativo-amministrative già previste dall’art. 25 R.d.l. 1404/1934 sono state ampiamente contestate in dottrina: v. A.C. MORO, op. cit., pp. 410 ss. (32) Così F. BRICOLA, op. cit., p. 88.
— 1300 — costituzionale, allorché ha affermato che « costituisce un presupposto concettuale essenziale del provvedimento di sospensione del processo e messa alla prova ... il giudizio di responsabilità penale che si sia formato nel giudice, in quanto altrimenti si imporrebbe il proscioglimento » (33). Ulteriore presupposto implicito per l’applicabilità della « messa alla prova » può essere ravvisato nella necessità che il giudice formuli un giudizio prognostico positivo sulla evoluzione della personalità dell’imputato « verso modelli socialmente adeguati » (34): il giudice deve cioè previamente accertare che la misura abbia una qualche utilità in relazione all’evolversi della personalità del minore, considerando peraltro che la funzione di responsabilizzazione svolta dalle « dinamiche socializzanti » realizzate all’interno del processo minorile suggerisce il ricorso alla « messa alla prova » ogniqualvolta non vi siano specifiche controindicazioni (35). A parte questi due presupposti implicitamente ricavabili dalle disposizioni in esame, e sui quali non si può che concordare, dottrina e giurisprudenza tendono poi ad attribuire rilevanza ad ulteriori aspetti, allo scopo di circoscrivere, secondo criteri oggettivi, l’operatività della « messa alla prova » ai soli casi in cui sia più probabile l’esito positivo della prova e di attenuare i rischi di disuguaglianze applicative. Tuttavia, il tentativo di individuare dei presupposti taciti nella disciplina dell’istituto in esame solleva non poche perplessità: il legislatore sembra aver voluto condizionare il meno possibile in modo aprioristico l’ambito di applicazione della « messa alla prova », con l’evidente intenzione di dare piena attuazione a quei principi di flessibilità e adeguatezza alle esigenze educative del minore, che sono ritenuti fondamentali nel sistema di giustizia minorile (36). Le disposizioni sul processo penale minorile impongono infatti al giudice di svolgere un’approfondita indagine sulla personalità del minore, acquisendo elementi « circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertare l’imputabilità, il grado (33) C. cost. 14 aprile 1995, n. 125, cit., p. 2403. (34) Cass., sez. I, 9 febbraio 1993, in Mass. dec. pen., agosto 1993, p. 124. Si sostiene che, in assenza di questa prognosi positiva, il rischio sarebbe quello di attivare ‘‘inutilmente interventi ed aspettative’’ e ‘‘di provocare delusione e frustrazione aumentando e rafforzando l’immagine negativa che il ragazzo ha di se stesso’’: così C. LOSANA, op. cit., p. 299; nello stesso senso L. PEPINO, op. cit., p. 484 e F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 466. (35) F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 420. (36) La Corte di Cassazione ha più volte dichiarato che l’applicazione della sospensione del processo con messa alla prova è rimessa alla piena discrezionalità del giudice il quale deve unicamente dare congrua e logica motivazione: Cass, sez. V, 7 aprile 1997, in Giust. pen., 1998, III, p. 433; Cass., sez. I, 7 luglio 1994, in Giust. pen., 1995, II, p. 329; Cass., sez. I, 9 febbraio 1993, cit., p. 124; Cass., sez. IV, 13 novembre 1992, in Mass. dec. pen., settembre 1993, p. 46; si veda anche Corte cost. 27 settembre 1990, n. 412, in Giur. Cost., 1990, p. 2508.
— 1301 — di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili » (così l’art. 9 del d.P.R. 448/1988). Solo dopo questa approfondita indagine il giudice potrà valutare se, fra le misure penali astrattamente applicabili al caso sottoposto al suo esame, rientri la « messa alla prova »; in caso affermativo, l’applicazione di quest’ultima misura parrebbe dipendere esclusivamente dalla verifica dei presupposti che abbiamo indicato: il giudice dovrà cioé sentire le parti, acclarare, anche allo stato degli atti, la responsabilità penale dell’imputato e ritenere opportuno sospendere il processo per valutare la personalità del minore all’esito della prova, in base alla prognosi di una sua positiva evoluzione. Non sembra quindi condivisibile la scelta di subordinare la sospensione del processo con messa alla prova alla presenza di ulteriori presupposti taciti, come, ad esempio, il consenso dell’imputato (37), la sua confessione (38), la minore età al momento della sospensione (39), l’occasionalità dell’episodio contestato (40), la circostanza che l’imputato non sia collaboratore di giustizia (41). Del resto, l’irrilevanza delle specifiche scelte comportamentali del minore ai fini della applicazione della « messa alla prova » è stata chiaramente sottolineata dalla stessa Corte costituzionale, che in una importante sentenza della metà degli anni ’90 ha non solo dichiarato illegittima ogni preclusione collegata alla eventuale richiesta di giudizio immediato o abbreviato da parte dell’imputato, ma ha anche affermato, sia pure in via in(37) La dottrina maggioritaria afferma che senza il consenso la sospensione ‘‘si porrebbe come una sorta di trattamento penale di generico contenuto rieducativo, deciso arbitrariamente dal giudice e destinato a sicuro insuccesso’’, F. MAZZA GALANTE, I. PATRONE, op. cit., p. 161. Nello stesso senso v. F. PALOMBA, op. cit., pp. 424 e ss.; A. GHIARA, op. cit., p. 88; G. DI PAOLO, op. cit., p. 2868; L. PEPINO, op. cit., p. 484; A. PULVIRENTI, Sulla consensualità della messa alla prova, in Riv. pen., 1996, III, p. 300; ID., I presupposti applicativi del probation minorile, in A. MESTITZ, cit., p. 194; V. PATANÈ, op. cit., p. 166; M.C. CANZIANI, A. POLI, M.G. DOMANICO, Competenze dell’‘‘autorità’’ giudiziaria nel settore penale minorile e rapporti con i servizi sociali, in B. BARBERO AVANZINI, Minori, giustizia penale e intervento dei servizi, p. 115; C. SCIVOLETTO, op. cit., p. 83. Sembrano escludere invece la rilevanza del consenso: G. FUMU, Le difficile scelte del legislatore minorile tra accertamento, educazione e sanzione, cit., p. 84; G. DI CHIARA, op. cit., p. 2396; L. SCOMPARIN, op. cit., p. 511. (38) Cfr. infra, par. 4, in particolare nota 43 e 44. (39) C. App. Caltanisetta, 6 aprile 1991, in Giust. pen., 1991, III, p. 443; contra Cass., sez. I, 20 gennaio 1994, in Giust. pen., 1995, III, p. 370; Cass., sez. V, 8 luglio 1992, in Giust. pen., 1994, III, p. 28; con qualche riserva: TM Catania, ord. 29 marzo 1995, in Foro it., 1996, II, p. 270. (40) Cass., sez. I, 27 settembre 1993, in Giust. pen., 1995, p. 230; TM Ancona, ord. 1 marzo 1990, cit., p. 449. (41) TM Catania, ord. 29 marzo 1995, cit., p. 270.
— 1302 — cidentale, che il dissenso del minore all’applicazione della misura non può assumere un rilievo decisivo (42). 4. La confessione come presupposto tacito della « messa alla prova »: a) le diverse argomentazioni della dottrina e della giurisprudenza. — Come si è visto, una parte della giurisprudenza (43) e della dottrina (44) ha affermato che la confessione costituisce uno dei presupposti necessari, ancorché taciti, per l’applicazione della « messa alla prova ». Tale interpretazione merita, a nostro parere, un’attenzione particolare per le obiezioni che solleva sul piano della compatibilità con alcuni fondamentali principi costituzionali. In primo luogo, si sostiene che la « messa alla prova » costituirebbe un istituto non solo rieducativo, ma anche premiale: il giudice cioè potrebbe applicare la misura all’imputato solo come premio per il suo atteggiamento collaborativo, dimostrato con la confessione (45). Un’altra argomentazione, inoltre, si fonda su motivazioni di carattere (42) C. cost. sent. 125/1995, cit., pp. 2403 ss., ove, fra l’altro si legge: ‘‘il legislatore non ha condizionato il provvedimento de quo alla prestazione del consenso da parte del minore (né del pubblico ministero), ma ha rimesso al giudice la decisione circa l’opportunità di sospendere il processo al fine di valutare la personalità del minorenne all’esito della prova, prescrivendo soltanto che tale decisione sia adottata « sentite le parti ». (43) Ha affermato espressamente la necessità della confessione: Trib. Min. Bologna, 10 settembre 1992, in Giur. merito, 1994, p. 509 e in Foro it., 1993, II, p. 582; cfr. anche TM Ancona, ord. 1 marzo 1990, Foro it., 1990, II, p. 449. Hanno sancito, al contrario, la compatibilità fra la messa alla prova e la mancanza di confessione dell’imputato: Trib. Min. Genova, 16 dicembre 1992, in Giur. merito, 1994, p. 509 e Cass., sez. I, 7 luglio 1994, cit., p. 330. Ci risulta, inoltre, da una indagine in corso presso il Tribunale dei Minorenni di Milano che su un campione di 85 messe alla prova disposte dai giudici dell’udienza preliminare fra il 1999 e i primi mesi del 2000 solo in due casi la misura è stata concessa senza una previa confessione. (44) Così M. BROUCHARD, Processo penale minorile (voce), cit., p. 153; P. PATRIZI, Tutela del minore eprocessi di responsabilizzazione nella sospensione del processo e messa alla prova, in A. MESTITZ, La tutela del minore tra norme psicologia ed etica, Giuffrè, 1997, p. 180; C. SCIVOLETTO, op. cit., p. 83. Sostiene, invece, che la confessione sia necessaria per l’applicazione della messa alla prova solo se questa è disposta in udienza preliminare, poiché, in presenza di una proclamazione di innocenza, la sospensione dovrebbe essere ammissibile solo dopo il dibattimento: A. GHIARA, La « messa alla prova » nella legge processuale minorile, in Giust. pen., 1991, III, p. 88. Negano che la confessione costituisca un ‘‘presupposto processuale’’ per ottenere la sospensione del processo ma ne riconoscono l’utilità: M.C. CANZIANI, A. POLI, M.G. DOMANICO, Competenze dell’‘‘autorità’’ giudiziaria nel settore penale minorile e rapporti con i servizi sociali, cit., p. 115. Escludono, invece, la necessità della confessione: N. BENATELLI, A. ZOTTI, La messa alla prova nel processo penale: minori, protagonisti, progetti, difficoltà ed esiti, in Min. giust., 1997, I, p. 159; F. MAZZA GALANTI, I. PATRONE, op. cit., p. 162; G. MARRAS, La sospensione del processo e messa alla prova: problemi e nodi, in Min. giust., 1994, 3, p. 84; M. COLAMUSSI, op. cit., p. 2812. (45) TM Bologna 10 settembre 1992, cit., p. 509; per una critica a questa impostazione v. F. MAZZA GALANTI, I. PATRONE, op. cit., p. 162; si veda anche quanto sostenuto dal-
— 1303 — pedagogico; si sostiene cioè che « se l’imputato non fosse convinto della propria colpevolezza l’intero rapporto verrebbe impostato su base di falsità e si precluderebbero le finalità rieducative della prova » (46). Da ultimo, si fanno valere esigenze di economia processuale, che sarebbero salvaguardate solo attraverso la confessione del minore: qualora infatti la prova si concludesse con esito negativo, la previa confessione renderebbe superfluo lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale volta ad accertare la responsabilità del minore, e ovvierebbe alle possibili difficoltà connesse all’acquisizione della prova dopo molto tempo dal fatto (47). Si è affermato quindi in giurisprudenza che « soltanto la confessione piena dell’imputato o, quantomeno, una sua inequivoca accettazione dell’addebito penale, giustifica la sospensione del processo, soprattutto in ordine ad imputazioni gravi, per le quali di maggiore durata tale sospensione dovrebbe essere » (48). Quest’ultima argomentazione sembra, peraltro, da ritenersi superata alla luce di quella pronuncia della Corte costituzionale, più volte ricordata, con la quale si è dichiarata l’illegittimità del quarto comma dell’art. 28 del d.P.R. 448/1988 — che sanciva l’effetto preclusivo della richiesta del giudizio abbreviato e immediato —, e si è subordinata la rilevanza di eventuali costi processuali al pieno rispetto dei diritti della difesa (49). Nella sentenza 125 del 1995 la Corte costituzionale ha infatti affermato, con riferimento alla richiesta di giudizio immediato da parte dell’imputato, che « spetterà alla giurisprudenza valutare se l’esigenza del convincimento del giudice in ordine alla responsabilità penale dell’imputato — che costituisce, come s’è detto, un presupposto logico essenziale del provvedimento dispositivo della messa alla prova — richieda ... che la sospensione non possa intervenire nella fase predibattimentale, occorrendo, viceversa, l’avvocatura generale di Stato in Corte cost., sent. n. 412, 27 settembre 1990, in Giur. Cost. 1990, p. 2508. (46) Trib. Min. Bologna, 10 settembre 1992, cit., p. 509; in questo senso ci sembra: P. PATRIZI, op. cit., p. 180; G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 148. (47) A. CARNEVALE, R. PANEBIANCO, A. COLAGRECO, op. cit., p. 688. (48) Trib. Min. Bologna, 10 settembre 1992, cit., p. 512. Sostanzialmente nello stesso senso, ci sembra, M. BROUCHARD, Processo penale minorile (voce), cit., p. 153. (49) « Riemerge, in ultima analisi, il principio di fondo per il quale la « messa alla prova » non giustifica scorciatoie di sorta: solo — secondo la Corte — a seguito di un ben fondato giudizio di colpevolezza può fisiologicamente dischiudersi il meccanismo di probation, finalizzato al proficuo sviluppo della personalità del minore nel più pieno rispetto dei suoi diritti processuali inviolabili »: così G. DI CHIARA, In tema di modelli differenziati speciali: riti semplificati minorili e « messa alla prova », cit., p. 2397. Addirittura sostengono che, « se l’imputato negasse la propria responsabilità, il provvedimento di messa alla prova dovrebbe essere pronunciato soltanto nel giudizio » A. GHIARA, op. cit., p. 88 e G. SCARDACCIONE, F. MERLINI, op. cit., p. 33.
— 1304 — affinché possa ritenersi adeguatamente formato quel convincimento, che il giudice tenga conto anche dell’istruzione dibattimentale » (50). 5. Segue: b) l’inaccettabilità della tesi, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 28 del d.P.R. 448/1988. — Diverse argomentazioni si oppongono, a nostro parere, all’accoglimento della tesi che richiede la confessione per l’applicazione della sospensione del processo con messa alla prova: oltre alla assenza di qualunque riferimento normativo in questo senso, tale tesi ci sembra contrastare con inderogabili principi costituzionali (51). a) Considerare la confessione tra i presupposti della « messa alla prova » comporta innanzitutto una grave violazione del diritto di difesa, sancito dal secondo comma dell’art. 24 Cost. (52): ne deriva infatti l’impossibilità di applicare la misura all’imputato che abbia scelto di esercitare il diritto al silenzio, che rappresenta uno dei più importanti corollari del diritto di difesa (53). Si deve convenire che « nella proposta esplicita di un vantaggio per chi confessa, in quanto contribuirebbe ad un più facile raggiungimento dei ‘‘fini del processo’’, si annida una presunzione di colpevolezza dell’imputato ed il desiderio inespresso di una sanzione per chi sceglie il silenzio: quindi la negazione, seppure implicita, di quell’aspetto del diritto di difesa costituito dal nemo tenetur se detegere » (54). Il rispetto del diritto di difesa non consente nemmeno di accogliere l’interpretazione che riconduce la « sospensione del processo e messa alla prova » tra gli istituti di carattere premiale. Anche trascurando le perples(50) C. cost. 125/1995, cit., p. 2404. (51) L. PEPINO, op. cit., p. 484; F. MAZZA GALANTI, I. PATRONE, La messa alla prova nel procedimento penale minorile, op. cit., p. 157; M. COLAMUSSI, op. cit., 2812. (52) In questo senso si veda anche: L. PEPINO, op. cit., p. 484; F. MAZZA GALANTI, I. PATRONE, op. ult. cit., p. 163, in particolare nota 19; M.C. CANZIANI, A. POLI, M.G. DOMANICO, cit., p. 115. (53) Si vedano: M. SCAPARONE, Il IIo comma dell’art. 24. Il diritto di difesa nel processo penale, in G. BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione, Rapporti civili (artt. 24-26), Zanichelli, 1981, p. 87; V. GREVI, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’, 1972, pp. 118 e ss. (54) G. UBERTIS, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’ e dialettica processuale, in Giust. pen., 1994, III, p. 98. Similmente, esclude la rilevanza ai fini della commisurazione della pena delle condotte successive al reato, soprattutto la confessione e il rifiuto di riconoscere la propria colpevolezza E. DOLCINI, La commisurazione della pena, Cedam, 1979, p. 317, che afferma: ‘‘il rispetto dei diritti di difesa, costituzionalmente garantiti, ed in particolare del principio, secondo cui l’imputato non è tenuto a contribuire alla prova della propria colpevolezza, vieta di valutare a suo sfavore nella commisurazione della pena qualsiasi condotta realizzata nell’esercizio di tali diritti. Al pari di inasprimenti di pena per un comportamento processuale « indocile », non possono anzi applicarsi « sconti » di pena nell’ipotesi opposta, identica risultando la lesione del diritto di difesa, si spinga l’imputato a confessare con la minaccia oppure con la prospettiva di un « premio »’’.
— 1305 — sità che tali istituti — previsti per gli adulti sia nel codice Rocco (55), sia in alcune leggi speciali, soprattutto in materia di terrorismo (56) — hanno sollevato in dottrina (57), è indubbia la diversità che intercorre, nel rapporto confessione-beneficio, tra questi istituti e la « messa alla prova » (58). In base all’art. 28 d.P.R. 448/1988, infatti, da un lato non è prevista l’automatica concessione della « sospensione del processo » al minore reoconfesso; il Tribunale potrebbe, infatti, ritenere comunque inapplicabile la misura e condannare il minore « fondando il suo convincimento proprio sull’avvenuta confessione » (59). Dall’altro lato, considerando invece come « premio » l’estinzione del reato, questa non interviene in conseguenza della confessione del minore, venendo piuttosto dichiarata dal giudice solo qualora, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritenga che la prova abbia dato esito positivo (60). Il legislatore, quindi, ha condizionato l’estinzione del reato — ossia il riflesso sostanziale di natura premiale della misura in esame — non già alla confessione, bensì al positivo evolversi della personalità del minore, da valutarsi alla fine del periodo di prova, durante il quale l’imputato ha ricevuto l’aiuto e il sostegno dei servizi minorili, sotto il controllo dello stesso Tribunale che ha disposto la misura. Particolarmente gravi appaiono, per contro, le conseguenze che l’eventuale confessione può produrre in caso di esito negativo della prova, e quindi allorché il processo riprenda il suo corso (art. 29 d.P.R. 448/1988). Alla ripresa del processo, infatti, l’imputato che ha confessato per ottenere l’applicazione della « messa alla prova » si troverà in una si(55) Si pensi alla disciplina della desistenza o del recesso attivo nel delitto tentato (art. 56, comma 3 e 4 c.p.), all’attenuante comune prevista dall’art. 62, n. 6 c.p., oppure ancora ai casi di non punibilità nei delitti di cospirazione cospirazione politica (art. 308 c.p.) e di banda armata (art. 309 c.p.) ecc. Per un quadro completo si veda T. PADOVANI, La soave inquisizione, in questa Rivista 1981, pp. 529 e ss. (56) Ad esempio l’art. 4 d.l. 625/1979 o l’attenuante introdotta nell’art. 630 c.p. (l. 890/1980) e le più recenti modifiche apportate dal’art. 6 del d.l. n. 8/1991, convertito nella legge n. 82/1991. (57) D. PULITANÒ, La funzione coercitiva, in Dem. e dir., 1978, p. 139; D. GROSSO, Misure premiali, dichiarazioni dell’imputato e riflessi sull’accertamento processuale, in Giust. pen., 1984, III, p. 514; A. BERNARDI, Dissociazione e collaborazione nei delitti con finalità di terrorismo, in Quest. giust. 1982, I, p. 1. (58) T. PADOVANI, op. ult. cit., in questa Rivista 1981, p. 532. (59) F. MAZZA GALANTI, I. PETRONE, op. cit., p. 163; così anche G. SCARDACCIONE, F. MERLINI, cit., p. 33. Si deve rilevare, infatti, che la disciplina in esame configura una ipotesi di sospensione ‘‘facoltativa’’: v. M. CHIAVARIO, La sospensione del processo penale, in Enc. giur., vol. XXX, 1993, p. 3. (60) Sui criteri per la valutazione dell’esito positivo si rinvia alla dottrina citata ed in particolare: G. DI PAOLO, op. cit., p. 2873; F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., pp. 478 ss.; C. LOSANA, op. cit., p. 313; P. GIANNINO, op. cit., pp. 243 ss.
— 1306 — tuazione di evidente svantaggio e non potrà più esercitare in pieno il suo diritto di difesa, poiché avrà a suo carico le dichiarazioni auto-incriminatorie rese precedentemente. Il periodo di prova trascorso, tra l’altro, non ha alcun effetto per l’imputato, dal momento che la legge « nulla ... dice, in caso di revoca della sospensione, circa l’eventuale scomputo del periodo di affidamento del minore ai servizi minorili dall’eventuale sanzione irrogata al termine del giudizio » (61). b) Anche sotto il profilo del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., l’interpretazione che richiede la confessione fra i presupposti della « sospensione del processo e messa alla prova » suscita notevoli perplessità (62). Sono previste infatti nell’ordinamento minorile altre misure sospensive, prive di quei contenuti anche fortemente afflittivi e limitativi della libertà personale che caratterizzano la « messa alla prova » (63), che non sono subordinate alla confessione dell’imputato: si pensi alla sospensione condizionale della pena e al perdono giudiziale (che producono, parimenti, l’estinzione del reato). E va sottolineato che la « sospensione del processo e messa alla prova » può essere disposta anche in ipotesi in cui sarebbe applicabile la sospensione condizionale della pena (64) o addirittura il perdono giudiziale (65). D’altra parte, questa irragionevole difformità di disciplina fra la misura in esame — che, è bene ribadirlo, fra le cause di estinzione del reato, è certamente la più affittiva — e le altre cause estintive del reato appena (61) F. BRICOLA, op. cit., p. 88; P. GIANNINO, op. cit., p. 46; F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 486. (62) Cfr. A. S. AGRÒ, Commento all’art. 3, I comma Cost., in G. BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali, (artt. 1-12), Zanichelli, 1991, pp. 123 ss. (63) Sui contenuti del progetto: F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 450 e ss.; G. DI PAOLO, op. cit., p. 2869; M.G. BLASCO, S. DE GENNARO, op. cit., p. 33. Hanno rilevato che in alcuni casi è disposto anche il collocamento in comunità: A. MESTITZ, M. BIBBIANI, Sospensione del processo e messa alla prova nell’esperienza del Tribunale per i Minorenni di Milano, in A. MESTITZ (a cura di), op. cit., p. 231. (64) Pacifico in dottrina; anzi si sostiene la sospensione condizionale sia applicabile a conclusione della prova anche qualora l’esito sia stato negativo: v. F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., pp. 483 ss.; C. LOSANA, op. cit., p. 318. (65) Così V. M. M. CORRERA, P. MARTUCCI, G. SCARDACCIONE, L’applicazione dell’istituto della sospensione del giudizio con messa alla prova nell’attività giudiziaria dei Tribunali per i Minorenni di Roma e Trieste, in Riv. pol. 1992, p. 543; A. CARNEVALE, R. PANEBIANCO, A. COLAGRECO, op. cit., p. 695; F. PALOMBA, ibidem; C. LOSANA, op. cit., p. 319. Ammette tale soluzione ma auspica che la giurisprudenza la adotti con prudenza G. DI PAOLO, op. cit., p. 2874; solleva qualche perplessità: A.C. MORO, op. cit., p. 460. Contrari invece a questa interpretazione: G. BREX, E. FIORENTINO BUSNELLI, Adolescenti a rischio tra prevenzione e recupero: un impegno per tutti, cit., p. 90; R. RICCIOTTI, La giustizia penale minorile, Cedam, 1998, p. 69.
— 1307 — menzionate non si giustifica, a nostro parere, nemmeno in base alla valutazione dei fini educativi che l’istituto in esame si prefigge: si tratta, infatti, come già rilevato, di una misura penale principalmente diretta alla rieducazione dell’imputato, autore di reati anche gravi, da realizzarsi attraverso le attività di trattamento, aiuto e sostegno predisposte dai servizi. Questo percorso rieducativo deve essere raggiunto all’esito della prova: la pretesa di anticipare, con la confessione, questa tappa prima della « sospensione » non corrisponde a quanto previsto dalla disciplina in esame e comporterebbe l’inapplicabilità dell’istituto a soggetti che più di altri meriterebbero sostegno e aiuto (66). c) La tesi che vuole precludere al reo non-confesso l’applicazione di questo istituto si espone poi ad obiezioni sotto il profilo del principio della rieducazione del reo, sancito, per i minori, oltre che dall’art. 27, comma 3, Cost., anche dall’art. 31, comma 2, Cost. Dal combinato disposto di queste due norme può farsi infatti discendere per i minorenni un vero e proprio « diritto alla rieducazione » (67), che costituisce lo scopo precipuo non solo della pena — come per gli adulti —, ma del processo stesso (68). (66) Si è rilevato, infatti, che « esperienza insegna che dopo un periodo iniziale di rigidità il minore, se correttamente guidato, accetta l’aiuto che gli viene offerto ed intraprende il cammino di crescita senza vivere l’esperienza come l’espiazione di una condanna »: A. CARNEVALE, R. PANEBIANCO, A. COLAGRECO, La « messa alla prova » del minore autore di reato, cit., p. 688. (67) F. MAZZUCCHELLI, Disadattamento sociale e psicoterapia: i minori del penale tra prescrizioni ed opportunità, in B. BARBERO AVANZINI, op. cit., p. 276; G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 54; si veda anche C. SCIVOLETTO, op. cit., pp. 70 ss.; A. BORSANI, Istituzioni e devianza minorile, Franco Angeli, 1997, p. 91. (68) Si è affermato, in questo senso, che ‘‘questa funzione di recupero sociale, propria della pena specialmente per i minorenni, è assunta a prerogativa del processo stesso. La funzione di rieducazione che la nostra Costituzione attribuisce alla pena si trasferisce a tutto il processo’’ in D. SPIRITO, Funzione e poteri del giudice minorile nel processo penale, cit., p. 5. Questa interpretazione sembra, fra l’altro, accolta dalla stessa Corte costituzionale che più volte ha sottolineato l’assoluta centralità della rieducazione in ambito minorile. La Consulta sembra aver riconosciuto un vero e proprio diritto in tal senso nella sentenza n. 204, 4 luglio 1974, in Giur. cost., 1974, 1707 con nota di LA GRECA e nella sentenza n. 49, 30 aprile 1973, cit., ove si è stabilito espressamente ‘‘davanti all’esigenza del recupero sociale del minore, la stessa realizzazione della pretesa punitiva può arretrare’’; si veda anche la già citata sentenza della C. cost. n. 125, 14 aprile 1995, cit., p. 2403. La diversa importanza che assume la rieducazione in ambito minorile rispetto al diritto penale degli adulti è stata rilanciata di recente dalla Corte costituzionale in una serie di pronunce sull’ordinamento penitenziario. I giudici della Consulta, alla luce della perdurante inerzia del legislatore, si sono attivati per diversificare l’esecuzione penale dei minorenni da quella prevista per gli adulti: anche in queste sentenze il richiamo agli artt. 27 e 31 della Costituzione consente di rimuovere dall’ordinamento quegli istituti che, prevedendo rigidi automatismi, non consentono la flessibilità e individualizzazione necessarie per dare piena attuazione alla finalità rieducativa, che deve essere assolutamente preminente nell’esecuzione penale minorile (cfr. Corte cost., 30 dicembre 1998, n. 450, in Cass. pen., 1999, p. 1376; Corte cost., 17 dicembre 1997, n.
— 1308 — Con la « sospensione del processo e messa alla prova » il legislatore ha per la prima volta valorizzato il ruolo che la riconciliazione con la vittima assume nel processo di responsabilizzazione dell’imputato (69), così innestando nel nostro ordinamento uno strumento già da tempo utilizzato all’estero (70) per i suoi innegabili effetti positivi (71). Il secondo comma dell’art. 28 del d.P.R. 448/1988, a questo proposito, prevede espressamente la possibilità che il giudice disponga prescrizioni dirette a « riparare le conseguenze del reato e promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa », con ciò ponendo le premesse affinché la responsabilizzazione dell’imputato avvenga in itinere (72). Se spetta al giudice il compito di dettare le prescrizioni conciliativorisarcitorie, spetta, però, ai servizi il compito di individuarne nel progetto le modalità di attuazione (ex art. 27 disp. att.): il legislatore ha quindi vo403, in Foro it., 1998, I, p. 980; Corte cost., 30 luglio 1997, n. 296, ivi, p. 981). In dottrina si vedano: G. FIANDACA, Commento all’art. 27, III comma, in G. BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione. Rapporti civili (artt. 27-28), Zanichelli, 1991, pp. 294 ss.; S. LARIZZA, op. cit., pp. 16 ss. (69) A. PETRUZZI, I sentieri della messa alla prova, in Min. Giust., 1994, 3, p. 72; M. BROUCHARD, La mediazione come terza via per la giustizia penale?, in Quest. giust., 1992, p. 757; A.C. BALDRY, Vittima e autore del reato nella giustizia penale minorile. Indagine su campione, in A. MESTITZ (a cura di), op. cit., p. 212; F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 454; M. PISANI, A. MOLARI, V. PERCHIUNNO, P. CORSO, Manuale di procedura penale, Monduzzi, 1994, p. 633; A. COPPOLA DE VANNA, Messa alla prova-conciliazione-mediazione, in Min. giust., 1996, 1, p. 59; C. SCIVOLETTO, op. cit., pp. 42 ss., in particolare, p. 77. (70) F. DÜNKEL, J. ZERMATTEN, Nouvelles tendances dans le droit pénal des minoeurs, Médiation, Travail au profit de la communauté et traitement intermédiaire, Max-PlankInstitut, Freiburg, 1990, pp. 14 ss.; C. MESSNER, Ermete ovvero sul ruolo delle sanzioni alternative nella politica penale minorile e l’idea della mediazione, in Min. giust., 1996, 1, p. 76; V. PATANÈ, op. cit., p. 85; C. PFEIFFER, Täter-Opfer-Ausgleich im Allgemeinen Strafrecht, Nomos, Baden Baden, 1997; E. GATTI, M.I. MARUGO, La vittima e la giustizia riparativa, in Margin. e soc., 1994, 4, p. 12; C. SCIVOLETTO, op. cit., pp. 53 ss. (71) ‘‘Il minore non ha solo modo di prendere piena coscienza dell’altro che ha offeso ma ha soprattutto modo di presentarsi alla collettività attreverso le parti buone di sé, in una parola, di ritrovarsi a parti intere e di superare il senso di colpa e l’etichettamento del sé come delinquente’’: M. BROUCHARD, Le nuove tendenze del diritto penale minorile, in Min. giust., 1997, 1, p. 123; si vedano anche sulla mediazione: G. PONTI (a cura di), Tutela della vittima e mediazione penale, Giuffrè, 1995; ID., Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè, 1985; L. PICOTTI, La mediazione nel sistema penale minorile, Cedam, 1998; G. SCARDACCIONE, A. BALDRY, M. SCALI, La mediazione penale, Giuffrè, 1998; G. PISAPIA, D. ANTONUCCI (a cura di), La sfida della mediazione, Cedam, 1997; si rinvia, inoltre, al fascicolo 2 della rivista Min. giust., 1999, interamente dedicato allo studio, sotto diversi aspetti, della mediazione. (72) Si afferma, infatti, che ‘‘la responsabilità si rappresenta sia quale condizione di partenza che fine specifico dell’intervento di giustizia il quale intende porsi come « occasione » perché l’imputato e, successivamente, il condannato possano, all’interno di un contesto giuridicamente controllato e garantito, avviare percorsi di apprendimento di responsabilità’’: così G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 65. Si veda in tal senso anche F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 93; A. CERETTI, op. cit., p. 202; C. SCIVOLETTO, op. cit., p. 80.
— 1309 — luto, a nostro parere, che l’assunzione di responsabilità in relazione al fatto commesso si realizzi fuori del processo, ai soli fini educativi, per evitare che possa assumere valenze autoincriminatorie. Si potrebbe dire addirittura che nei confronti del reo non-confesso la « messa alla prova » costituisce la risposta educativa più efficace: il giudice, infatti, potendo disporre le prescrizioni conciliative, potrebbe altresì realizzare « un confronto attivo fra l’autore del reato e le conseguenze delle proprie azioni » (73) ed attivare proprio quei processi di responsabilizzazione che l’autore del reato non è stato in grado di elaborare da solo. d) Significative conferme all’esclusione della confessione dai presupposti della « messa alla prova » possono poi essere tratte da alcune pronunce della Corte costituzionale sull’istituto in esame o su altri istituti del diritto penale minorile. Nella più volte citata sentenza del 1995 (74), la Corte costituzionale ha affermato l’indisponibilità per il minore della scelta sull’applicabilità della prova: da un lato, si nega infatti che il legislatore abbia condizionato la « messa alla prova » alla prestazione di un previo consenso da parte dell’imputato (75), dall’altro lato, poi, si afferma l’illogicità del meccanismo preclusivo introdotto dall’art. 28, comma 4 d.P.R. 448/1988, che sgancia la « messa alla prova » da un previo consenso dell’imputato, ma al contempo attribuisce a quest’ultimo « un anomalo potere di veto » (76). In sostanza la Corte ha negato che la « messa alla prova » possa essere condizionata dalla strategia processuale del minore: in quel caso si trattava della richiesta di giudizio abbreviato o immediato, ma le stesse motivazioni potrebbero, a nostro parere, fondare l’illegittimità di una disciplina che attribuisse al minore un « potere di veto » ugualmente anomalo, correlato all’atteggiamento non collaborativo tenuto dal minore. In un’altra sentenza (77) la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’art. 25, comma 1 d.P.R. 448/1988 nella parte in cui esclude dal processo minorile l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) previsto dagli artt. 444 e ss. c.p.p. La Corte afferma che « non è irragionevole aver escluso la richiesta di patteggiamento là dove è ammessa la richiesta di rito abbreviato da parte del minore, dato che in quest’ultimo giudizio l’accordo delle parti non incide (73) G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 67. (74) C. cost. n. 125, 14 aprile 1995, cit., pp. 2394 ss. (75) Tale drastica affermazione, in netto contrasto con la dottrina prevalente (si veda supra, nota n. 37), viene, peraltro, poco oltre mitigata dalla Corte: si riconosce, infatti, ‘‘l’indubbio peso che — in considerazione della natura e delle modalità di attuazione della misura — deve in concreto assegnarsi al parere del minore in ordine all’adozione del provvedimento’’. (76) G. DI CHIARA, op. ult. cit., p. 2396. (77) C. cost., 27 aprile 1995, n. 135, in Foro it., 1995, I, p. 2393.
— 1310 — sul contenuto della decisione né sugli effetti della sentenza del giudice che lo recepisce » (78). Da questa sentenza giunge quindi un’ulteriore conferma: poiché infatti nel processo minorile va esclusa la rilevanza delle scelte del minore sul merito del processo o sulla misura della pena, anche le sue scelte sulla confessione non possono condizionare l’applicabilità della « sospensione del processo e messa alla prova ». 6. Conclusioni. — In base alla disciplina vigente, non ci sembra dunque che possa essere accolta la tesi che considera la confessione uno dei presupposti della « messa alla prova » e, soprattutto, deve ritenersi che la mancata confessione non possa determinare l’automatica inapplicabilità di questo istituto. La disponibilità del minore ad assumersi la responsabilità del fatto commesso costituisce un fattore importante (79) all’interno della « prova », che spetta agli operatori (educatori, psicologi, ecc.) promuovere e verificare, ma non può essere assolutamente strumentalizzata come presupposto applicativo di questa misura che, intervenendo nel processo penale, deve evidentemente rispettare tutte le garanzie proprie dell’imputato. Sebbene siano comprensibili le motivazioni che hanno spinto la dottrina e la giurisprudenza a subordinare l’applicazione della misura alla confessione dell’imputato — e cioè, come già rilevato, l’esigenza di circoscriverne l’operatività ai casi in cui sia più probabile l’esito positivo della « prova » attraverso l’introduzione di presupposti oggettivi che riducano lo spazio di discrezionalità lasciato al giudice — l’attuale disposizione sulla « sospensione del processo e messa alla prova » e le esplicite pronunce della Corte costituzionale non sembrano consentire questa interpretazione se non a costo della violazione di principi fondamentali del nostro ordinamento. Si può auspicare, semmai, un intervento legislativo che risponda all’esigenza, più volte rilevata (80), di conferire maggior precisione alla di(78) C. cost., 27 aprile 1995, n. 135, cit., p. 2401. (79) F. PALOMBA, Il sistema, op. cit., p. 454; M. PISANI, A. MOLARI, V. PERCHIUNNO, P. CORSO, Manuale di procedura penale, cit., p. 633; A. COPPOLA DE VANNA, op. cit., p. 59. Si veda anche: S. ABBRUZZESE, La messa alla prova del minore omicida, in Min. e giust., 1996, I, p. 20; L.A. MASCOLO, Che cosa c’è dietro l’angolo? Note a margine di una messa alla prova per omicidio, ivi, p. 45. (80) G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 67; G. BREX, E. FIORENTINO BUSNELLI, op. cit., p. 89; F. MAZZA GALANTI, I. PATRONE, op. cit., p. 170; G. FUMU, op. cit., p. 80; M. COLAMUSSI, op. cit., 2811; U. GATTI, M.I. MARUGO, La sospensione del processo e messa alla prova: limiti e contraddizioni di un « nuovo » strumento della giustizia minorile italiana, in Rass. it. criminol., 1992, I, p. 85; P. VADORA, La sospensione del processo e messa alla
— 1311 — sciplina dell’istituto, eventualmente riducendone l’ambito di operatività (81). Del resto, come è stato giustamente osservato, le direttive che hanno ispirato la riforma del 1988 « sono più che valide, ma le regole del nuovo processo devono essere un punto di partenza, non un punto di arrivo » (82). MELISSA MIEDICO Dottoranda di ricerca in Diritto penale italiano e comparato Università degli Studi di Milano
POSTILLA. — Nel mese di ottobre 2000, quando il presente lavoro era già in corso di stampa, la Commissione ministeriale nominata dal Ministro della Giustizia con D.M. 1 ottobre 1998 (c.d. Commissione Grosso) ha presentato il Progetto preliminare di riforma del codice penale (consultabile sul sito www.giustizia.it) composto dall’articolato e dalla relazione. Il Progetto riguarda l’intera ‘Parte generale’ del codice penale e coinvolge anche il diritto penale minorile: il titolo V (artt. 106 - 111) dedicato al ‘trattamento dei minori imputabili’ riunisce in un ‘‘corpus normativo unitario’’ tutti gli istituti di natura sostanziale ed introduce interessanti modifiche. prova, in Difesa penale, 1993, p. 49; C. LOSANA, Cenni sui criteri adottati in Piemonte per la messa alla prova, in AA.VV., Il processo penale minorile: prime esperienze, Unicopli, 1991, p. 145; A. GHIARA, op. cit., p. 180; M. COLAMUSSI, op. cit., p. 2813; G. DI PAOLO, op. cit., p. 2867; A. PETRUZZI, I sentieri della messa alla prova, in Min. giust. 1994, 3, p. 81; G. MARRAS, op. cit., p. 90; A. LUZZAGO, L. DE FAZIO, A. TRENTI, M.G. MARANGHI, Un’esperienza di prevenzione terziaria: la sospensione del processo con messa alla prova. Risultati di una indagine condotta presso il Tribunale per i minorenni di Bologna, in Rass. it. crim., 1997, p. 500; C. SCIVOLETTO, op. cit., p. 138. (81) Si auspica, in primo luogo, un intervento del legislatore che razionalizzi i rapporti tra le misure penali esistenti che oggi, molto spesso, si sovrappongono senza un disegno coerente: ci riferiamo, in particolare, alla irrilevanza del fatto, alla sospensione condizionale, al perdono, alla ‘messa alla prova’, e alle sanzioni sostitutive (D. CIBNEL, op. cit., p. 344). Potrebbe, inoltre, essere rivista la soluzione adottata nell’art. 28 d.P.R. 448/1988 di disporre la messa alla prova prima della pronuncia di una sentenza sul merito (si veda in dottrina F. MAZZA GALANTE, I. PATRONE, op. cit., p. 171; R. RICCIOTTI, Aspetti discutibili della giustizia penale minorile, in Crit. pen., 1997, I-II, p. 49). Sotto il profilo dei presupposti, infine, merita una riflessione più consapevole, da parte del legislatore, la scelta sulla necessità o meno del consenso per l’applicazione della ‘messa alla prova’: punto di riferimento importante, tra l’altro, in questo ambito potrebbe assumere l’esperienza di altri ordinamenti, con riguardo ad istituti simili (V. PATANÈ, op. cit., p. 87; P. NUVOLONE, « Probation » e istituti analoghi nel diritto penale comparato, in AA.VV., Trent’anni di diritto e procedura penale, Cedam, 1969, p. 217; F. DÜNKEL, J. ZERMATTEN, Nouvelles tendances dans le droit pénal des minoeurs, Médiation, Travail au profit de la communauté et traitement intermédiaire, cit., pp. 14 ss.). (82) D. SPIRITO, Principi e istituti del diritto penale, cit., p. 152.
— 1312 — La Commissione propone, infatti, l’introduzione di un sistema sanzionatorio finalizzato principalmente all’educazione, istruzione e socializzazione del minore (art. 106, comma 2) ed altamente diversificato, in cui la pena detentiva assume il ruolo di extrema ratio (art. 107). Anche l’istituto della messa alla prova (art. 111) è interessato dalla riforma: la Commissione si è sforzata di disciplinare con maggior precisione i presupposti per la concessione di questa misura, pur riconoscendo la necessaria discrezionalità del giudice. Si richiede quindi espressamente il previo accertamento della responsabilità del minore (art. 111 comma 1) e la preventiva elaborazione del progetto d’intervento (art. 111 comma 2) del quale, per maggiore uniformità, si indicano i contenuti minimi (art. 111 comma 3). In merito alla durata del periodo di prova, si prevede la possibilità di disporre periodi più lunghi nel massimo (fino a tre anni o fino a quattro anni nel caso di commissione dei delitti più gravi); inoltre, merita particolare apprezzamento la determinazione del minimo di durata, che non può essere inferiore a sei mesi (un anno nei casi più gravi). Anche nella versione proposta dal Progetto la messa alla prova mantiene la qualifica di causa estintiva del reato che consegue all’esito positivo della prova. Un’importante novità, poi, è prevista in caso di condanna conseguente all’esito negativo della prova allorché si stabilisce (art. 111, comma 9) che ‘‘il periodo trascorso in comunità o in permanenza obbligata in casa si detrae dalla pena da eseguire’’. Quanto al consenso e alla confessione, infine, la Commissione sembra aver lasciato ancora una volta al giudice piena discrezionalità sulla rilevanza da attribuire a questi due elementi: in primo luogo, infatti, nell’articolato non si prevede affatto che la misura sia subordinata all’esistenza di questi due presupposti; nella relazione, poi, la Commissione sottolinea che il testo proposto ‘‘non richiede formalmente la confessione ed il consenso del minore, che non costituiscono dunque presupposti vincolanti, ma potranno essere presi in considerazione nella valutazione prognostica sull’idoneità della misura, da effettuare avendo riguardo alla personalità e alla situazione familiare e sociale del minorenne’’ (corsivi nostri).
GIUDICE UNICO E « LEGGE CAROTTI » (*)
SOMMARIO: 1. Le ragioni di politica giudiziaria che hanno condotto all’eliminazione della competenza pretorile. — 2. L’inedito regime di controllo in ordine alla competenza del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. — 3. Il criterio ispiratore della ripartizione tra la composizione monocratica e collegiale del tribunale. — 4. Gli effetti provocati, in relazione a questa tematica, dalla connessione e dalla riunione dei processi. — 5. Le conseguenze derivanti dall’inosservanza delle norme in tema di attribuzione. — 6. La diversificazione soggettiva tra il giudice per le indagini preliminari e quello dell’udienza preliminare e le relative ipotesi di incompatibilità.
1. Le ragioni di politica giudiziaria che hanno condotto all’eliminazione della competenza pretorile. — La riforma operata dal d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 ha voluto realizzare l’abbattimento delle diseconomie gestionali dovute alla dispersione del personale fra preture e tribunali (1). L’operazione diretta a porre fine alla duplicazione delle sedi giudiziarie appariva sorretta da robuste considerazioni volte a far ritenere non più necessaria, in quanto ispirata ad una visione ‘‘arcaica’’ delle tematiche ordinamentali (2), una simile configurazione. In effetti già da alcuni decenni era stata sviluppata ed analizzata la proposta di pervenire ad un’unificazione degli uffici di pretura e di tribunale nell’ambito di un unico ufficio giudiziario di primo grado; tuttavia l’iniziativa, che apparentemente « avrebbe dovuto condurre alla rapida acquisizione di un ampio consenso di tutte le categorie a vario titolo interessate all’amministrazione della giustizia », aveva incontrato « forti remore frapposte da interessi particolari, da situazioni contingenti, da pregiudizi o da reazioni umorali » (3). Eppure l’unificazione dei ruoli, prima distinti, dei pretori e dei magistrati di tribunale era già stata realizzata dalla l. 24 maggio 1951 n. 392; (*) Testo, parzialmente modificato, dalla Relazione tenuta a Frascati, il 31 gennaio 2000, nell’ambito dell’incontro di studio sul tema: « Giudice unico e riforme processuali », organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura. (1) V. ZAGREBELSKY, Modelli organizzativi delle risorse disponibili, dimensioni e collocazione degli uffici giudiziari, in Doc. giust., 1996 (10), 1965 ss. (2) P. GIORDANO, Il giudice monocratico di prima istanza, in La Magistratura, 1996 (3), 13. (3) V. NICOSIA, Efficienza giudiziaria: riforme e linimenti, in Dir. pen. proc., 1997 (9), 1063.
— 1314 — successivamente, con l’eliminazione della qualifica di ‘‘aggiunto giudiziario’’, venne anche abolito l’obbligo di esercitare nel biennio iniziale le funzioni pretorili, considerate come le meno ‘‘qualificanti’’. In passato le preture avevano indubbiamente esercitato un ruolo fondamentale nella storia del nostro Paese. Esse costituivano le strutture giudiziarie di base già nel Regno sardo-piemontese e poi nello Stato italiano unitario, rappresentando un reticolo di uffici capillarmente diffuso sul territorio e traendo proprio da tale connotazione spunto e stimolo per impostazioni di politica giudiziaria caratterizzate da una spiccata sensibilità nei confronti delle problematiche locali. Ciò garantì, soprattutto in un determinato arco di tempo, una particolare attenzione verso fattispecie criminose incidenti in maniera estremamente significativa sulla vita della collettività, quali le violazioni alle norme sulla sicurezza del lavoro ed i reati ambientali. Nell’analizzare le esatte connotazioni del concetto di ‘‘naturalità’’ del giudice, valutabile autonomamente rispetto a quello di ‘‘precostituzione’’ (4), per evitare quello che è stato autorevolmente definito come un « suicidio interpretativo » (5), era stata lucidamente sottolineata la necessità « di un legame tra uomo e uomo mediato dal fatto di avere vissuto nello stesso luogo e di avere assorbito i valori dello stesso ambiente socioeconomico », in quanto il principio di ‘‘naturalità’’ del giudice mira a « far sì che non sia il popolo (o un suo rappresentante) in astratto ad emettere il giudizio, ma quel popolo tra cui il cittadino ha vissuto i momenti fondamentali della sua formazione e da cui ha tratto i modelli comportamentali (o quanto meno un popolo che non sia a tali modelli pregiudizialmente ostile) » (6). Peraltro questa connotazione a livello diffuso sul territorio (destinata ora a caratterizzare la nuova figura del giudice di pace) era venuta in gran parte meno già nel 1989, con la l. 1 febbraio 1989, n. 30, che determinò l’abolizione dei mandamenti, sopprimendo l’organizzazione degli uffici di (4) V. sul punto, tra gli altri, G. CONSO, La costituzionalità dell’art. 55 c.p.p. alla luce di una sentenza provvidenziale, in questa Rivista, 1963, 538 e 539; F. CORDERO, Relazione su « Connessione e giudice naturale », in Connessione di procedimenti e conflitti di competenza (Atti del X Convegno Enrico De Nicola), Milano, 1976, 54 ss.; ID., Guida alla procedura penale, Torino, 1986, 113; ID., Procedura penale, IV Ed., Milano, 1998, 115; GIUS. SABATINI, La competenza surrogatoria e il principio del giudice naturale precostituito per legge, in questa Rivista, 1962, 950 ss.; G. SPANGHER, La rimessione dei procedimenti, Milano, 1984, 277 e 278; C. TAORMINA, Giudice naturale e processo penale, Roma, 1962, 82; G. UBERTIS, « Naturalità » del giudice e valori socioculturali nella giurisdizione, in questa Rivista, 1977, 1062 ss. (5) Cfr. F. CORDERO, Relazione su « Connessione e giudice naturale », cit., 54 ss.: « chi intende ‘‘naturale’’ come sinonimo di ‘‘precostituito per legge’’ dimezza il contenuto della frase... l’aggettivo ‘‘naturale’’ contiene molte valenze; considerarlo non scritto è quasi un suicidio interpretativo ». (6) Cfr. G. UBERTIS, « Naturalità » del giudice, cit., 1072 ss.
— 1315 — pretura su base mandamentale ed istituendo invece le preture circondariali (7), cancellando così un’impostazione che risaliva all’epoca antecedente all’unificazione del nostro Stato. Alle preture fu quindi attribuito un ambito territoriale più esteso, seppur con la previsione del mantenimento di sezioni distaccate, che altro non erano se non le precedenti preture mandamentali non aventi sede nel capoluogo del circondario. Nonostante questo intervento, al di là del caso delle preture ubicate presso i grandi centri, la polverizzazione degli organici, conseguente alla perdurante frammentazione delle sedi — ridotta solo parzialmente dalla l. n. 30 del 1989 —, continuava a rivelarsi dannosa e controproducente in termini di razionalità organizzativa (8), e tale da compromettere la possibilità di un’effettiva crescita professionale dei magistrati. Basti pensare che presso le sedi giudiziarie minori spesso le concrete esigenze imponevano la formazione di competenze ‘‘promiscue’’, civili e penali, difficilmente compatibili con una preparazione a livello specialistico. Negli ultimi anni inoltre erano sempre più frequenti, a causa della consistenza numericamente ridotta, i rischi di difficoltà e disfunzioni operative, connessi all’accentuata possibilità del verificarsi di ipotesi di incompatibilità in relazione alle reiterate pronunce del Giudice delle leggi concernenti il disposto dell’art. 34 c.p.p. La stessa Corte costituzionale aveva evidenziato l’incombenza di tale pericolo. Con la sent. n. 131 del 1996 (9), pur rilevando come ciò non valesse ad escludere un eventuale ulteriore allargamento dell’area dell’incompatibilità, in quanto l’opportunità di eliminare intralci nell’organizzazione degli uffici non poteva certo prevalere sulla fondamentale esigenza di garantire la terzietà dell’organo giudicante, la Corte aveva sottolineato la necessità che, al fine di evitare rischi di paralisi operative, gli organi (7) Sulle problematiche conseguenti a tale riforma v. P. CASADEI MONTI, La concentrazione delle preture nella pretura circondariale secondo la l. 1 febbraio 1989 n. 30, in LP, 1989, 132 ss.; F.P. LUISO, L’istituzione delle preture circondariali e le controversie di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1989, I, 500 ss.; A. PROTO PISANI, Costituzione delle preture circondariali e nuove norme relative alle sezioni distaccate di pretura, in Foro it., 1989, V, 219 ss.; B. SASSANI, Preture circondariali e sezioni distaccate: prime considerazioni sui riflessi processualcivilistici della legge n. 30 del 1989, in Riv. dir. proc., 1990, 319 ss.; L. SCOTTI, Preture circondariali: violazione dei criteri di distribuzione del lavoro e capacità del giudice, in Foro it., 1990, V, 180 ss.; P. STURIALE, La riforma delle preture: contributo alla soluzione di una crisi, in Cass. pen., 1990, 2226 ss.; R. VACCARELLA, Pretura circondariale e questioni di competenza, in Giur. it., 1991, I, 481 ss.; R. VANNI, Morte (e trasfigurazione?) delle preture mandamentali, in Cass. pen., 1992, 2257 ss. (8) Cfr. L. MARINI, Distribuzione degli uffici giudiziari, in Corr. giur., 1998 (3), 353. (9) Corte cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, in Dir. pen. proc., 1996, 579, con commenti di P.P. RIVELLO e di G. SPANGHER.
— 1316 — competenti adottassero « appropriati interventi e riforme di ordine organizzativo ». La sovracitata pronuncia rappresentò, indubbiamente, uno stimolo ulteriore all’accelerazione dei tempi di realizzazione della riforma (10). D’altro canto, come comprovato da numerosi esempi, il venir meno delle connotazioni che differenziano un determinato organismo rispetto al paradigma di base che caratterizza il modello generale attenua inevitabilmente la validità delle motivazioni addotte al fine di giustificare la persistente vigenza di detto organismo, in una chiave di separatezza nei confronti del regime « ordinario ». Ebbene, con riferimento alla tematica in esame va appunto osservato come il meccanismo erosivo che aveva cancellato alcune fra le più tipiche connotazioni della giustizia pretorile avesse finito con il ridurre la valenza delle ragioni che sorreggevano la tesi favorevole al mantenimento della diversificazione fra le preture ed i tribunali. Al riguardo assunse un significato decisivo l’eliminazione della disciplina in base alla quale, con un’esasperazione parossistica del modello inquisitorio, il pretore tendeva a ricoprire contemporaneamente, durante la fase istruttoria, le vesti di pubblico ministero e di giudice, con conseguente grave compromissione della distinzione fra l’organo dell’azione penale e quello della giurisdizione (11). Il d.p.r. 22 settembre 1988, n. 499, in omaggio alla scelta di un modello accusatorio, aveva invece introdotto un apposito ufficio del pubblico ministero presso la pretura. La distinzione tra preture e tribunali risultava non di rado fonte di ritardi e rallentamenti. Si avvertiva semmai la necessità di pervenire ad una diversa bipartizione, legata all’attribuzione di competenze anche nel settore penale al giudice di pace. Mentre in passato con riferimento alle preture si poteva forse parlare, seppur impropriamente, di una giustizia « minore », come tale differenziabile rispetto a quella esercitata innanzi ai tribunali, l’aumento di competenze operato dalla l. 30 luglio 1984, n. 399, aveva definitivamente fatto venir meno il senso di tale affermazione. L’esigenza di giungere ad un’unificazione fra tribunale e pretura, lungi dal costituire il frutto di un artificioso disegno teorico, era dunque nella logica delle cose. È stato ad esempio puntualmente osservato, relativamente al rito civile, che « con la scelta della l. n. 353 del 1990 di generalizzare, con poche eccezioni, il modulo decisorio unipersonale nei tribunali, la distinzione tra competenza del tribunale e competenza del pretore finiva con il perdere ogni sostanziale ragion d’essere. La valenza di un giudizio pretorile o di tribunale era divenuta identica: quella propria di un (10) Tale dato è stato rimarcato da G.M. FLICK, Il giudice unico nel quadro della politica per la giustizia, in Doc. giust., 1998 (1-2), 1 ss. (11) Cfr. G. UBERTIS, Il procedimento pretorile (1990), in Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema, Torino, 1993, 224.
— 1317 — giudizio avanti ad un giudice di carriera (mediamente della stessa esperienza), senza neppure tendenzialmente una diversa specializzazione » (12). Lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, nel corso della Relazione annuale al Parlamento (13), aveva rilevato che i tempi apparivano pienamente maturi per realizzare l’ambizioso disegno diretto finalmente a fare delle due entità un unico corpo. Si poteva tutt’al più osservare, come già abbiamo accennato, che la precedente diversificazione tra tribunale e pretura appariva ragionevolmente destinata a riproporsi, seppur su basi nuove, rispetto al giudice di pace, chiamato a svolgere i compiti propri di un organo giudiziario operante a stretto contatto con le realtà locali e ad occuparsi, con una particolare attenzione alle esigenze di celerità processuale, di tutta una serie di problematiche giuridiche solo apparentemente di fascia « minore », ma tali da assumere comunque indubbia importanza nella vita quotidiana della popolazione. L’unificazione tra preture e tribunali è avvenuta, anziché attraverso la creazione di nuove strutture giudiziarie, mediante la soppressione delle preture, che sono così risultate « sacrificate », a seguito del loro accorpamento ai tribunali e dell’eliminazione di una serie di norme, non solo codicistiche, che facevano riferimento a tali organi (si pensi all’intero capo II del titolo I dell’ordinamento giudiziario). Considerazioni di carattere economico hanno condotto a privilegiare la soluzione diretta alla conservazione di una struttura già esistente, ed a sua volta di lunga tradizione (14), rispetto a quella della formazione ex novo di ulteriori organismi. Al tribunale è stata attribuita la competenza per tutti i reati non rientranti nella cognizione della corte di assise (15). Così, quasi per un’ironia della sorte, proprio nel momento in cui il criterio della monocraticità, tipico del rito pretorile, appariva destinato ad un sensibile incremento, si (12) C. CONSOLO, L’avvento del giudice unico fra riorganizzazione e timidezze, in Corr. giur., 1998 (3), 253. (13) C.S.M., Giudice unico di primo grado e revisione della geografia giudiziaria. Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, in Quad. CSM, 1996 (91), 53 ss. (14) L’introduzione di un organo giudiziario almeno parzialmente assimilabile all’attuale tribunale risale alla rivoluzione francese, e più precisamente ai decreti 24 marzo 1790 e 16/24 agosto 1790: v. R. MARENGO, Tribunale ordinario, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 1 ss. (15) Non hanno dunque più ragion d’essere, a prescindere dalla loro formale abrogazione, una serie di previsioni, contenute in varie leggi speciali, che riservavano al tribunale una specifica competenza « qualitativa » in ordine a taluni reati, i cui rispettivi tetti sanzionatori avrebbero invece comportato la competenza del pretore: si pensi alle violazioni penali alle leggi finanziarie, agli illeciti commessi a mezzo stampa, attraverso trasmissioni radiofoniche o televisive, per mezzo della cinematografia o della rappresentazione teatrale, nonché a quelli in materia di discriminazione razziale, etnica o religiosa.
— 1318 — perveniva all’eliminazione della struttura giudiziaria a cui esso risultava tradizionalmente correlato. La scelta del legislatore in materia appare comunque condivisibile: il tribunale aveva rappresentato infatti il punto di riferimento per le trasformazioni che accompagnarono l’ultima fase di vita delle preture; al contempo le sue dimensioni e la consistenza numerica del personale apparivano maggiormente adatte a supportare i nuovi complessi giudiziari. Non si è peraltro assistito alla « fagocitazione » di un organo all’interno di un altro, rimasto inalterato nelle sue connotazioni, ma, secondo un più ampio disegno riformatore, è stata operata una radicale modifica rispetto alle strutture dell’organismo accorpante, essendo rimasta immutata solo la precedente denominazione di tribunale (16). 2. L’inedito regime di controllo in ordine alla competenza del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. — Gli effetti derivanti dall’introduzione dell’art. 54-quater nel codice di procedura penale risulterebbero sicuramente sottovalutati qualora non fosse posto in luce come tale nuova normativa s’inserisca in un quadro di progressivo mutamento del ruolo attribuito alle indagini preliminari, e contribuisca a sua volta ad apportare una decisa variazione di prospettiva al riguardo. Appare innegabile la differenza rispetto al modello originario, che avrebbe dovuto essere caratterizzato dalla fluidità di indagini svincolate da particolari « confini » in quanto destinate comunque a non « pesare » in sede di giudizio, ed in relazione al quale autorevolissima dottrina aveva sottolineato come la stessa disciplina dei termini massimi di durata dell’attività investigativa e l’istituto della « riapertura delle indagini » costituissero un anacronismo inquisitorial-garantistico (17). Appare logico, se non inevitabile, che nel momento in cui il « baricentro » ideale del processo torna nuovamente a spostarsi e ad arretrare, in un pendolarismo ben noto al settore processuale, si manifesti al contempo la necessità di disciplinare in maniera più rigida l’attività investigativa, comprimendone alcuni precedenti spazi di « libertà ». Bisogna però rilevare come la creazione di un meccanismo assolutamente anelastico, in una fase in cui le indagini risultano forzatamente basate su dati ricostruttivi non ancora stabilizzati e su ipotesi suscettibili di progressivi sviluppi e modifiche, possa tradursi in un ostacolo rispetto ad ulteriori accertamenti. Questo rischio era evidentissimo nella stesura originaria. La volontà di evitare « straripamenti » investigativi, dal punto di vista territoriale, dei vari pubblici ministeri, aveva infatti dato vita ad un (16) A. PORCELLA, L’istituzione del giudice unico di primo grado. Profili organizzativi e ordinamentali, in Doc. giust., 1998 (8), 1307. (17) F. CORDERO, Procedura penale, cit., 735.
— 1319 — sistema macchinoso e burocratico, caratterizzato da numerosi appesantimenti procedurali; si sarebbe così assistito verosimilmente ad una preoccupante proliferazione di sub procedimenti incidentali incentrati sulla tematica della competenza del pubblico ministero, esperibili a fini meramente dilatori. Apparivano inoltre eccessivi gli strumenti di ricorso avverso i provvedimenti adottati; in particolare si era prevista un’inedita ipotesi di gravame inoltrabile alla Corte di cassazione, da parte della persona sottoposta alle indagini o del suo difensore, nei confronti del decreto emesso dal Procuratore generale. Tale continuo passaggio di carte processuali, e la contestuale discovery necessaria per giustificare la soluzione prescelta nell’individuazione del pubblico ministero competente, avrebbero vanificato ogni effettiva possibilità di conservazione del segreto investigativo. Al contempo, una previsione fortemente discutibile tendeva a far sì che, dopo la presentazione della richiesta di trasmissione degli atti, il pubblico ministero procedente potesse solo più compiere « gli atti aventi carattere di particolare urgenza », sotto la sanzione della comminatoria di inutilizzabilità degli altri atti effettuati, in caso di successiva dichiarazione di incompetenza. Poiché spesso è tutt’altro che agevole esprimere giudizi di certezza in ordine alla competenza nel corso delle indagini preliminari, una simile soluzione da un lato avrebbe finito con lo scoraggiare l’autorità requirente dal compimento delle ordinarie attività investigative, con la conseguente creazione di una grave situazione di « stallo » (in assenza, tra l’altro, di previsioni volte a ravvisare in quest’ipotesi una causa di sospensione dei termini di durata concessi per lo svolgimento delle indagini preliminari), e dall’altro, qualora si fosse accettato di « correre il rischio » di una futura dichiarazione di incompetenza, avrebbe fatto gravare sull’intero procedimento una temibilissima nube minacciosa, in quanto la conseguenza rappresentata dall’inutilizzabilità degli atti appariva assolutamente spropositata rispetto all’interesse tutelato. Oltretutto, era palese la difformità rispetto al trattamento riservato ai contrasti negativi o positivi tra uffici del pubblico ministero, in relazione al quale, per effetto degli art. 54 comma 3 c.p.p. e 54-bis comma 4 c.p.p., gli atti di indagine preliminare precedentemente compiuti risultano utilizzabili « nei casi e nei modi previsti dalla legge ». Paradossalmente alla luce di tale soluzione il pubblico ministero, nell’incertezza derivante dalla stessa difficoltà di individuazione degli atti da ritenere di « particolare urgenza », stante la mancanza di alcun preciso parametro identificativo, avrebbe dovuto cercare di non cadere nella « trappola » rappresentata dall’acquisizione di elementi decisivi, potendo questi essere poi sottratti alla cognizione del giudice per effetto della rilevata inutilizzabilità. Un ulteriore segno di scarso approfondimento era poi rappresentato dal fatto che nella dizione progettuale veniva richiamata soltanto la disci-
— 1320 — plina della competenza per territorio del pubblico ministero, omettendosi così di far riferimento alla competenza per connessione e trascurandosi al contempo la competenza funzionale delle Direzioni Distrettuali Antimafia in relazione alle indagini concenenti i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. Questa impostazione è stata peraltro, almeno in parte, corretta nel testo definitivo. Ai sensi dell’art. 54-quater c.p.p. la persona sottoposta alle indagini e l’offeso dal reato che abbiano avuto rituale conoscenza del procedimento, nonché i loro difensori, qualora ravvisino la competenza di un giudice diverso da quello presso cui il pubblico ministero procedente esercita le sue funzioni, possono chiedere la trasmissione degli atti al pubblico ministero competente. Il richiedente deve indicare a pena di inammissibilità le ragioni poste a sostegno della domanda; in assenza di tale indicazione, si sarebbe del resto in presenza di affermazioni apodittiche, prive della possibilità di ogni effettivo riscontro. Non può negarsi che la norma sia ispirata ad un’ottica volta a rafforzare le garanzie di legalità del procedimento. In precedenza l’indagato non aveva alcun mezzo per eccepire l’eventuale incompetenza del pubblico ministero. In base all’art. 54-quater c.p.p., depositata la richiesta di trasmissione degli atti, il pubblico ministero ha dieci giorni per decidere e per provvedere a detta trasmissione, qualora accolga la richiesta. In caso di mancato accoglimento, a differenza di quanto imponeva il testo inizialmente licenziato dalla Camera, non occorre una formale pronuncia di rigetto. L’eliminazione di un simile adempimento, oltre ad evitare l’accumularsi di ulteriori incombenti sull’ufficio del pubblico ministero, a tutto discapito della possibilità di un suo proficuo concentrarsi sulle effettive esigenze investigative, vale ad impedire che la motivazione del provvedimento permetta all’indagato di aggirare gli ostacoli posti a presidio della segretezza investigativa, offrendogli preziosi spunti per capire in quale senso si stanno sviluppando le indagini nei suoi confronti. Con riferimento all’ipotesi del mancato accoglimento della richiesta di trasmissione degli atti, il legislatore ha delineato un meccanismo che recepisce sostanzialmente le indicazioni offerte dall’art. 54 comma 2 c.p.p. e dall’art. 54-bis comma 2 c.p.p., in tema di contrasti negativi o positivi fra pubblici ministeri: l’interessato può infatti domandare al Procuratore Generale presso la Corte d’appello o, laddove venga ritenuto competente il giudice di un altro distretto, al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, di determinare quale sia l’ufficio del pubblico ministero che deve procedere. Il Procuratore Generale « assunte le necessarie informazioni » provvederà a tale determinazione entro venti giorni dal deposito della richiesta.
— 1321 — Qualora il procedimento attenga alla materia della criminalità organizzata, si prevede che il Procuratore Generale debba intervenire osservando le disposizioni di cui all’art. 54-ter c.p.p. Per evitare l’inoltro di richieste finalizzate a scopi meramente defatigatori, il quarto comma dell’art. 54-quater c.p.p. esclude, a pena di inammissibilità, la riproposizione della richiesta di trasmissione degli atti, fatta salva l’ipotesi in cui essa risulti basata su fatti nuovi o diversi. Va infine ribadito come, a seguito di un salutare ripensamento rispetto all’impostazione accolta nella fase progettuale, sia stata prevista l’utilizzabilità degli atti compiuti dal pubblico ministero ritenuto successivamente incompetente. L’inutilizzabilità scatta dunque solo qualora, successivamente alla formale comunicazione del provvedimento del Procuratore Generale in tema di competenza, il pubblico ministero prosegua nella propria attività investigativa. 3. Il criterio ispiratore della ripartizione tra la composizione monocratica e collegiale del tribunale. — L’art. 14 del d.lgs. n. 51 del 1998 ha operato la sostituzione dell’art. 48, comma I, ord. giud. nei seguenti termini: « in materia civile e penale il tribunale giudica in composizione monocratica e, nei casi previsti dalla legge, in composizione collegiale ». Emerge dunque da tale norma, introdotta dalla riforma, un’impostazione che, lungi dal riservare alla composizione monocratica soltanto i procedimenti per fatti di scarsa rilevanza, considera « normale », e cioè « ordinaria », detta composizione. Al di fuori dei casi espressamente configurati, opera dunque l’attribuzione « generale » del giudice monocratico, come del resto risulta confermato anche dal nuovo testo dell’art. 33-ter c.p.p. Per quanto concerne i criteri di ripartizione, si deve rilevare criticamente che alcune fra le indicazioni emergenti dalla legge delega 16 luglio 1997, n. 254, a causa della loro estrema vaghezza, non costituivano certo degli inequivoci parametri di riferimento e si prestavano conseguentemente alle più svariate traduzioni concrete in sede normativa (18). Tale affermazione risulta ad esempio pienamente confermata, relativamente al processo civile, dalla direttiva in base alla quale il legislatore delegato, nel delineare ulteriori ipotesi di riserva della collegialità oltre a quelle espressamente indicate in sede di delega, avrebbe dovuto tener conto « della og(18) In sede di Parere del Consiglio superiore della magistratura sullo schema di decreto legislativo recante: « norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », espresso in data 26 novembre 1997, in Doc. giust., 1998 (3), 667, è stata ravvisata al riguardo « una sorta di ‘‘delega in bianco’’ al potere esecutivo; delega in ogni caso così ampia da espropriare in pratica il Parlamento di scelte politico-criminali che dovrebbero invece, in considerazione della loro particolare importanza e delicatezza, rimanere ad esso riservate ».
— 1322 — gettiva complessità delle materie e della rilevanza economico-sociale delle controversie ». Nel settore penale, il legislatore delegante, con una scelta che ha finito col riversare sul delegato il compito di operare le scelte definitive, aveva soltanto stabilito che la composizione collegiale del tribunale dovesse essere adottata, oltreché per l’applicazione delle misure di prevenzione personali e reali (19) e per i giudizi concernenti una serie di illeciti tassativamente determinati, anche relativamente ad « ogni delitto punito con la pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni ». Si era così posto a fondamento della complessiva operazione di riparto un abbinamento tra un parametro « quantitativo », basato sull’entità della pena, ed uno di natura « qualitativa », volto cioè a tener conto del titolo del reato, e dunque della specifica natura dell’illecito costituente oggetto del giudizio. Nell’ambito dei delitti specificamente indicati dal legislatore delegante ricordiamo quelli delineati dall’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p.; i delitti previsti dagli artt. 644 c.p. (usura) e 648-bis c.p. (riciclaggio); dall’art. 2621 c.c. (false comunicazioni ed illegale ripartizione di utili o di acconti sui dividendi); i delitti di cui al titolo II, capo I, libro II c.p., commessi dai pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione — fatte salve alcune esclusioni specificamente indicate, relative ai reati configurati dagli artt. 329, 331 primo comma, 332, 334 e 335 c.p., concernenti rispettivamente il rifiuto o ritardo di obbedienza da parte di un militare o di un agente della forza pubblica, l’interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità, purché non commesso da uno dei capi, promotori od organizzatori del reato, l’omissione di doveri di ufficio in occasione di abbandono di un pubblico ufficio o di interruzione di un pubblico servizio, la sottrazione o il danneggiamento di cose sottoposte a sequestro, la violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di beni sequestrati —; una serie di reati elencati nel testo approvato con r.d. 16 marzo 1942, n. 267, (19) Nella Relazione illustrativa al decreto legislativo recante: « norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », in Gazz. uff., 20 marzo 1998, n. 66, Suppl. ord. n. 2, 32, si osserva come tale formulazione « sia comprensiva delle misure di prevenzione ‘‘ordinarie’’ e ‘‘antimafia’’, di cui alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423 e 31 maggio 1965, n. 575; si è ritenuto di dover escludere, per contro, la riconducibilità alle misure di prevenzione, cui fa riferimento il legislatore delegante, degli istituti previsti dall’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, in tema di divieto di accesso ai luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche, e dall’articolo 2 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, che richiama detto divieto tra le misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa »; viene sottolineato del resto che « in tal senso depone, invero, la diversità di ratio e soprattutto di disciplina rispetto alle misure di prevenzione stricto sensu: si tratta, infatti, di misure atipiche di convalida di provvedimenti adottati dall’autorità locale di pubblica sicurezza e confermati dal pubblico ministero, connotate da esigenze di particolare celerità ed urgenza, rispetto alle quali appare del tutto razionale il mantenimento dell’attuale competenza del giudice per le indagini preliminari ».
— 1323 — in materia fallimentare, e più precisamente quelli ipotizzati dagli artt. 216 (bancarotta fraudolenta) 222 (fallimento della società in nome collettivo e in accomandita semplice) e 223 (fatti di bancarotta fraudolenta); i delitti previsti dalla l. 20 giugno 1952, n. 645, in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, concernente il divieto di ricostituzione del partito fascista; nonché quelli sanzionati dall’art. 2 della l. 25 gennaio 1982, n. 17, in tema di associazioni segrete, e dall’art. 29, secondo comma, della l. 13 settembre 1982, n. 646, relativo alle misure di prevenzione; infine i reati « ministeriali », commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dai singoli Ministri nell’esercizio delle loro funzioni, di cui si occupa la l. 5 giugno 1989 n. 219, ed i reati in tema di discriminazione razziale, etnica e religiosa, previsti dall’art. 6, commi 3 e 4, del d. l. 26 aprile 1993, n. 122, conv., con modificazioni, nella l. 25 giugno 1993, n. 205. Il legislatore delegante pertanto non si è limitato a delineare un impianto generale connotato da una precisa opzione a favore della monocraticità, con conseguente notevole ampliamento rispetto all’ambito precedente, in cui il giudizio monocratico interessava i soli reati riservati alla competenza pretorile. Infatti la legge-delega, oltre a contemplare la riserva di collegialità per una serie di specifiche ipotesi criminose, ha precisato che tale riserva avrebbe potuto estendersi anche ad altre fattispecie delittuose, evidenziabili dal legislatore delegato, caratterizzate dai requisiti rappresentati dal particolare allarme sociale o dalla rilevante difficoltà di accertamento (20). In sede di attuazione della delega, come emerge dalla Relazione di accompagnamento allo schema di decreto trasmesso dal Governo al Senato della Repubblica e alla Camera dei deputati per il prescritto Parere, nell’individuazione del « particolare allarme sociale » si tenne conto delle caratteristiche del bene giuridico tutelato e del valore del fatto di reato, anche in relazione alla sua diffusività. Così, in base al testo dell’art. 33-bis c.p.p., introdotto dall’art. 169 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (21), ed ora modificato dalla « legge Carotti », sono stati giudicati di particolare allarme sociale, con conseguente riserva alla cognizione collegiale, numerosi reati contro l’ordine pubblico, tra cui l’associazione per delinquere, l’associazione di tipo mafioso e lo scambio elettorale politico-mafioso. Nell’ambito della riserva di collegialità risultano parimenti ricom(20) G. INSOLERA, La riforma del giudice unico nello specchio del diritto penale sostanziale, in Il giudice unico nel processo penale (Atti del Convegno della Associazione Giovani Avvocati di Parma), Milano, 1998, 26, ha osservato come i concetti di « allarme sociale » e di « difficoltà di accertamento », ricomprendendo una « miriade » di possibili fattispecie criminose, non costituissero un preciso punto di riferimento per il legislatore delegato. (21) Per un’analisi di tale norma v. L. BRESCIANI-C. DI BUGNO, sub art. 169, nel Commento al d.lgs. 19 febbraio 1988, n. 51, in LP 1988, (2/3), 390 ss.
— 1324 — presi alcuni delitti contro l’incolumità pubblica, inseriti al titolo VI, libro II del codice penale, essendosi ritenuto che in tal caso fossero presenti entrambe le condizioni delineate dall’art. 1 comma 1 lett. c) n. 7) della l. 16 luglio 1997, n. 254. Da un lato era infatti evidente il particolare allarme sociale, connesso alla natura di simili fenomeni delittuosi, caratterizzati dalla messa in pericolo di un numero indeterminato di persone, con una serie di effetti negativi « la cui capacità espansiva supera largamente, da un punto di vista effettuale, i beni singoli, per insidiare la sicurezza di tutti i cittadini contro i danni fisici personali (alla vita, alla salute, ecc.) » (22). Questi episodi criminosi, coinvolgendo « il complesso delle condizioni garantite dall’ordine giuridico, che costituiscono la sicurezza della vita, dell’integrità personale e della sanità, come beni di tutti e di ciascuno, indipendentemente dal loro riferimento a determinate persone » (23), appaiono « suscettibili di turbare il complesso delle condizioni che costituiscono la sicurezza interindividuale » (24). Al contempo essi implicano una rilevante difficoltà di accertamento, emergente dalla constatazione che molto spesso si rendono necessarie al riguardo complesse perizie tecniche. In considerazione del particolare allarme sociale sono poi stati inseriti nell’ambito riservato alla collegialità anche reati del codice della navigazione (25), e più precisamente quelli previsti dall’art. 1136, concernenti episodi di pirateria (26). La riserva di collegialità è stata estesa a reati quale quello di violenza sessuale, di atti sessuali con minorenne e di corruzione di minorenne. Militava a favore di detta soluzione il rilievo volto a sottolineare come in tal caso sussistesse sia il requisito del particolare allarme sociale sia quello della rilevante difficoltà di accertamento, in considerazione della quasi costante mancanza di testimoni e dei comprensibili condizionamenti psicologici delle vittime. Tenuto conto della particolare gravità del reato e dei riverberi che esso determina sull’opinione pubblica è stata poi ricompresa nell’alveo dei delitti richiamati dall’art. 33-bis c.p.p. la situazione configurata dall’art. 18 l. 22 maggio 1978, n. 194, che sanziona l’aborto su donna non consenziente. Ulteriori riserve di collegialità sono state introdotte dal legislatore de(22) G. SAMMARCO, Incolumità pubblica (reati contro la), in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, 29. (23) V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. VI, Torino, 1962, 222. (24) G. SAMMARCO, loc. cit. (25) In ordine alle connotazioni di tali reati v., per un’analisi generale, P.P. RIVELLO, Reati marittimi ed aeronautici, in Dig. disc. pen., vol. XI, Torino, 1996, 114. (26) Relativamente a tale fattispecie delittuosa v. M. ROSELLA, Pirateria, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, 576 ss.
— 1325 — legato, nell’ambito dell’art. 33-bis c.p.p., per evitare stridenti difformità di ripartizione nelle attribuzioni rispetto ad ipotesi sostanzialmente affini a quelle delineate dalla legge delega. Così, poiché la l. n. 254 del 1997 menziona i delitti previsti dall’art. 2621 c.c., in tema di false comunicazioni societarie, non si è ravvisata alcuna ragione per non ricomprendere anche l’art. 2629 c.c. (valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisiti della società), essendosi rilevato che « nella generalità dei casi, il delitto di cui all’articolo 2629 del codice civile si risolve in una forma speciale di falsa comunicazione sociale, caratterizzata da analoga carica lesiva e da similari difficoltà di accertamento » (27). Sempre al fine di garantire una sostanziale omogeneità nei criteri di ripartizione, avendo il legislatore delegante riservato alla composizione collegiale la cognizione del reato sanzionato dall’art. 648-bis c.p. (riciclaggio), detta riserva è stata estesa al reato configurato dall’art. 12-quinquies comma 1 del d. l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modificazioni nella l. 7 agosto 1992, n. 356, relativo al trasferimento fraudolento di valori. Parimenti, poiché l’art. 1 l. n. 254 del 1997 fa rientrare nell’ambito della riserva di collegialità i delitti indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p., ivi compresi dunque i « delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’articolo 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 110 », nel testo dell’art. 33-bis, lett. q) c.p.p. sono state giustamente richiamate, per la loro omogeneità, le ipotesi concernenti i « delitti previsti dall’articolo 10 della legge 18 novembre 1995, n. 496, in materia di produzione e uso di armi chimiche ». Il particolare allarme sociale ha determinato l’inserimento, nell’art. 33-bis lett. h), anche dei delitti confi(27) Cfr. Relazione illustrativa al decreto legislativo recante: « norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », cit., 31, ove si osserva altresì che « sempre in materia societaria, si è ritenuto di accogliere il suggerimento del Parlamento di inserire una ulteriore riserva relativa al delitto di aggiotaggio societario, previsto dall’articolo 2628 del codice civile, trattandosi di fattispecie che può presentare difficoltà di accertamento e generare allarme sociale in misura non dissimile da quella degli altri reati societari già ricompresi nell’elencazione di cui all’articolo 33-bis del codice di procedura penale ». Per quanto invece concerne l’inserimento ad opera del legislatore delegato, tra i reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale, anche del delitto configurato dall’art. 2637 c.c. (interesse privato dell’amministratore giudiziario e del commissario governativo), tale soluzione è stata giustificata nella Relazione (loc. cit.) « in ragione della riconducibilità dell’ipotesi criminosa all’area dei delitti contro la pubblica amministrazione (demandati al collegio per espressa volontà del legislatore delegante) e per la rilevanza degli interessi coinvolti ». La ricomprensione di detta fattispecie fra quelle riservate al collegio ha poi comportato un ulteriore effetto di « trascinamento », determinando l’inclusione in tale ambito anche del delitto, concernente la materia fallimentare, di interesse privato del curatore, previsto dall’art. 228 l. fall., e « costituente l’omologo dell’ipotesi criminosa contemplata dall’articolo 2637 del codice civile ».
— 1326 — gurati dall’articolo 1 del decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43, ratificato dalla l. 17 aprile 1956, n. 561, in materia di associazioni di carattere militare. Superando il silenzio serbato sul punto dalla legge delega, il d.lgs. n. 51 del 1998, intervenendo, in virtù degli artt. 179, 180 e 181, in senso modificativo rispetto agli artt. 309 comma 7, 322-bis comma 1-bis e 324 comma 5 c.p.p., ha poi espressamente ribadito, in linea di continuità con il passato, che le decisioni in sede di riesame e di appello nei confronti delle misure cautelari, sia personali che reali, devono essere adottate dal tribunale in composizione collegiale (28). Va a questo punto sottolineato come, nell’ambito delle modifiche apportate dalla « legge Carotti » alle disposizioni sull’attribuzione degli affari penali al tribunale in composizione collegiale o in composizione monocratica, uno degli elementi di maggiore differenziazione rispetto all’impostazione accolta dal d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 sia rappresentato dal drastico abbassamento del limite edittale volto a costituire il limite generale di discrimine tra la collegialità e la monocraticità. Infatti, mentre l’originario disposto dell’art. 33-bis c.p.p. al comma 2 prevedeva l’attribuzione al tribunale in composizione collegiale dei delitti « puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni », in base al nuovo testo dell’art. 33-bis comma 2 c.p.p. tale attribuzione è stata estesa a tutti i delitti « puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni ». Sono ben note le battaglie sostenute, soprattutto dalla classe forense, al fine di ridurre l’ampiezza delle attribuzioni del tribunale in composizione monocratica. Comunque già il d.lgs. n. 51 del 1998 aveva operato verso un allargamento dell’area della collegialità, almeno rispetto alle indicazioni emergenti dalla legge-delega n. 254 del 1997. Estremamente significativa sotto questo aspetto appare la scelta di ricomprendere in via uniforme nell’am(28) Peraltro G. AMATO, sub art. 169 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in Giudice unico di primo grado, a cura di C. Riviezzo, Milano, 1998, 184, osserva che « può apparire non perfettamente in linea con un sistema che privilegia la scelta della monocraticità l’aver mantenuto la collegialità per il tribunale del riesame e dell’appello in materia di misure cautelari reali, tenuto conto degli interessi coinvolti, all’evidenza di minor valore rispetto a quelli connessi alla libertà personale ». In senso contrario a tali affermazioni si esprime invece E. MARZADURI, L’introduzione del giudice unico di primo grado ed i nuovi assetti del processo penale, in LP, 1998 (2/3), 375 e 376: « non si può fare a meno di constatare come l’esigenza di tutela nei confronti dei provvedimenti di sequestro, almeno quelli conservativi e preventivi, spesso si avverta a livelli che possono anche risultare prevalenti rispetto a quelli legati all’applicazione delle misure cautelari personali meno incisive; e la citata previsione della legge delega concernente le misure di prevenzione personali e reali rappresenta una conferma di questo dato empirico che non poteva essere trascurato dal Governo, il quale, al più, avrebbe potuto innovare l’attuale regime con l’attribuzione ad un giudice monocratico delle impugnazioni concenenti i sequestri probatori ».
— 1327 — bito delle attribuzioni del tribunale collegiale, accanto ai reati consumati, anche quelli tentati, garantendo in tal modo una maggiore uniformità nella sfera di attribuzioni del collegio (29), e ponendo così termine alle perplessità suscitate dal testo della l. 254/1997, laddove si faceva riferimento in alcuni casi ai « delitti consumati o tentati » ed in altri, genericamente, ai « delitti ». L’aver accomunato i delitti tentati a quelli consumati, nell’elencazione delle ipotesi ricondotte entro la riserva di collegialità, ha oltretutto permesso di evitare che i dubbi relativi alla riconduzione di una determinata fattispecie entro lo schema del reato tentato o di quello consumato si traducessero in altrettante incertezze circa l’attribuzione del procedimento al tribunale in composizione monocratica o collegiale (30). Al contempo il d.lgs. 51/1998, attraverso la disposizione volta a dar vita al comma 1-bis dell’art. 17 c.p.p., aveva configurato un’ulteriore serie di ipotesi di spostamento, per effetto della riunione, dalle attribuzioni del tribunale monocratico a quelle del tribunale collegiale. Alla luce di tali rilievi appare corretto affermare che, con le modifiche al codice di procedura penale apportate dalla « legge Carotti », ed in particolare con il mutamento della linea ideale di « confine » fra tali attribuzioni, mediante la riduzione da venti a dieci anni del tetto edittale previsto, si poteva correre il rischio, opposto rispetto ai timori iniziali, di una riduzione così massiccia dell’ambito della monocraticità da far venir meno uno dei pilastri della riforma. La valenza di simili considerazioni è stata recepita al momento della stesura definitiva di detta legge, ed ha condotto ad un’ulteriore significativa modifica, in chiave riequilibratice, dell’art. 33-bis, comma 2, c.p.p.; è risultato variato il criterio di computo per la (29) V. al riguardo i conformi rilievi espressi sia nel Parere della Camera dei Deputati sullo schema di decreto legislativo recante: « Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », espresso nella seduta del 19 dicembre 1997, in Doc. giust., 1998 (3), 677; sia nel Parere del Senato della Repubblica sullo schema di decreto legislativo recante: « Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », espresso nella seduta del 22 dicembre 1997, ivi, 1998 (3), 692. (30) Peraltro G. IZZO, Capacità e competenza del giudice penale. Rapporti tra giudice monocratico e giudice collegiale nella riforma sul giudice unico di primo grado, in Doc. giust., 1998 (12), 1967, esprime forti dubbi in ordine alla « scelta del decreto di discostarsi dalla lettera della delega laddove riserva la collegialità soltanto alle forme tentate di taluni delitti. L’avallo ed anzi la sollecitazione delle Commissioni Parlamentari ad una disciplina omogenea che evitasse trattamenti ondulatori della forma tentata, discostandosi dalle diverse cadenze della legge di delega, per quanto sostenuti dall’intento di prevenire possibili disorientamenti dell’interprete e, quindi, sorretti da una giustificazione razionale, non fugano, da soli, il dubbio di eccesso di delega nella scelta del legislatore delegato di estendere la collegialità a tutte le forme tentate. Meglio sarebbe stato se, non in forma generalizzata ma selettiva, per quei delitti indicati dal delegante senza riferimento al tentativo, se ne fosse recuperata alla collegialità la forma tentata facendo leva o sul particolare allarme sociale o sulla complessità di accertamento ».
— 1328 — determinazione della pena adottabile ai fini dell’attribuzione del procedimento al tribunale collegiale o monocratico. L’art. 10, comma 2 della legge in esame infatti richiama le disposizioni dell’art. 4 c.p.p. in tema di determinazione della competenza; viene in tal modo escluso dal calcolo, oltre all’aumento di pena dovuto alla continuazione ed alla recidiva, anche quello conseguente al riconoscimento delle circostanze del reato, con la sola eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e delle circostanze ad effetto speciale. L’attuale testo di legge si riallaccia idealmente all’iniziale disegno progettuale, poi trasfusosi nel d.lgs. 51/1998, che faceva appunto richiamo al criterio di computo previsto dall’art. 4 c.p.p. Detta soluzione, emergente dall’originario schema di decreto, non aveva peraltro incontrato all’epoca il favore delle Commissioni parlamentari. Era stato infatti osservato come, nell’ambito di un testo che fissava a venti anni lo spartiacque tra la monocraticità e la collegialità, il giudice monocratico, utilizzando il canone delineato dall’art. 4 c.p.p., in caso di ritenuta applicabilità delle circostanze aggravanti avrebbe potuto irrogare condanne fino a trenta anni. Prevalse l’opposta tesi ispirata al modello offerto dall’art. 157 c.p. per il computo della pena in tema di prescrizione; fu affermato che così il limite discriminante dei venti anni di reclusione avrebbe recuperato « uno spessore ‘‘sostanziale’’, come pena massima in concreto irrogabile dal giudice monocratico » (31). Venuta meno l’esigenza di un’ulteriore contrazione della monocraticità, il ‘‘ripensamento’’ che ha condotto a richiamare il disposto dell’art. 4 c.p.p. appare tutt’altro che irrazionale. Nell’esaminare le principali differenze fra il ‘‘vecchio’’ ed il ‘‘nuovo’’ testo dell’art. 33-bis c.p.p. bisogna altresì aggiungere come, almeno formalmente, risulti più ridotta rispetto al precedente disposto l’elencazione dei reati espressamente attribuiti al tribunale in composizione collegiale. La ragione di tale riduzione nella realtà è dovuta in alcuni casi a mere esigenze di razionalizzazione; così l’abbassamento da venti a dieci anni del tetto edittale volto a costituire il discrimine tra attribuzione collegiale e monocratica ha reso inutile la previsione di una serie di delitti che, in quanto puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, risultano ora comunque ricompresi nell’ambito delle attribuzioni collegiali, mentre nel testo originario solo la loro espressa indicazione valeva a sottrarli al tribunale in composizione monocratica. Si tratta dunque di una riduzione apparente. È questo il caso dell’art. 434 c.p. (crollo di costruzioni o altri disastri dolosi), il cui comma 2 prevede la pena della reclusione da tra a dodici anni, qualora avvenga il crollo o il disastro. Analoghe considerazioni possono essere ripetute per il comma 1, numero 1 (31) Relazione illustrativa al decreto legislativo recante: « norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », cit., 30.
— 1329 — dell’art. 452 c.p. (delitti colposi contro la salute pubblica); per gli artt. 499 c.p. (distruzione di materie prime o di prodotti agricoli o industriali ovvero di mezzi di produzione), 578 comma 1 c.p., concernente l’infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale, 609-octies c.p. (violenza sessuale di gruppo), 648-bis c.p. (riciclaggio) e 648-ter c.p. (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita); nonché, con riferimento al codice della navigazione, per gli artt. 1135 (pirateria), 1137 (rapina ed estorsione sul litorale della Repubblica da parte dell’equipaggio), 1138 (impossessamento della nave o dell’aeromobile), 1153 (nave destinata alla tratta). Parimenti è stato espunto il richiamo all’art. 25 comma 1 della l. 9 luglio 1990, n. 185, concernente l’effettuazione di esportazione, importazione o transito di materiali di armamento in assenza della prescritta autorizzazione. Nell’ambito delle materie riservate al tribunale in composizione collegiale è invece stato inserito, secondo un criterio non del tutto comprensibile, il reato di cui all’art. 234 (esercizio abusivo di attività commerciale) del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in materia fallimentare. Al riguardo va ricordato che l’art. 1, comma 1, n. 5 della legge-delega 254/1997 aveva ricompreso tra i delitti riservati all’attribuzione collegiale quelli delineati dagli artt. 216, 222 e 223 della legge fallimentare; il legislatore delegato, come già sottolineato, aveva poi fatto rientrare in detto contesto, per ragioni di coerenza sistematica, anche il delitto di interesse privato del curatore, previsto dall’art. 228 l. fall., essendosi rilevato che esso presentava forti elementi di corrispondenza con l’ipotesi criminosa contemplata dall’art. 2637 c.c. (interesse privato dell’amministratore giudiziario e del commissario governativo), ed attribuita al tribunale collegiale. Analoghe considerazioni non sembrano invece poter valere per l’art. 234 r.d. n. 267 del 1942. Si segnala infine come la riscrittura dell’art. 33-bis c.p.p. abbia indotto ad una maggior precisione linguistica: così, mentre in precedenza il comma 1, lett. o) della norma faceva riferimento al delitto « previsto dall’articolo 12-quinquies comma 1 della legge 7 agosto 1992, n. 356 », l’attuale disposto richiama il delitto « previsto dal’articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 ». Parimenti è avvenuto in ordine al rimando alla l. 25 giugno 1993, n. 205, contenuto al comma 1, lett. p) dell’art. 33-bis c.p.p. Per quanto concerne il nuovo testo dell’art. 33-ter c.p.p., introdotto dalla « legge Carotti », bisogna rilevare come il legislatore, mantenendo salva la soluzione precedentemente delineata, preveda che, al di fuori dei casi espressamente configurati, debba comunque farsi rinvio all’attribuzione a carattere generale del giudice monocratico, in quanto attribuzione « ordinaria ». È stata inoltre affidata al tribunale in composizione mono-
— 1330 — cratica la celebrazione dei procedimenti relativi ai delitti concernenti la produzione e il traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope, purché non risultino contestate le circostanze aggravanti specifiche di cui all’art. 80, commi 1, 3 e 4 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309. Tale attribuzione può suscitare qualche perplessità, in quanto, almeno nell’ottica volta a privilegiare la composizione collegiale, sembrerebbe denotare una valutazione di minore attenzione nei confronti delle problematiche connesse al traffico di stupefacenti; essa inoltre finirà col dar vita a continui spostamenti di attribuzioni, dovuti al passaggio a diverse qualificazioni giuridiche o all’eventuale riconoscimento di talune circostanze aggravanti. 4. Gli effetti provocati, in relazione a questa tematica, dalla connessione e dalla riunione dei processi. — Occorre preliminarmente chiarire come dal punto di vista metodologico, pur nella consapevolezza dell’assoluta peculiarità della materia attinente alla composizione collegiale o monocratica del tribunale, e dell’errore in cui si cadrebbe qualora, ad esempio, essa venisse confusa o comunque assimilata alla competenza, si possa purtuttavia tentare di trarre spunto dalle considerazioni sviluppate in sede dottrinale e giurisprudenziale con riferimento ad altri settori per verificarne l’eventuale validità in relazione allo specifico oggetto della nostra disamina. Alla luce di tale premessa, cerchiamo di analizzare la portata dell’art. 17, comma 1-bis c.p.p., in base al quale « se alcuni dei processi pendono davanti al tribunale collegiale ed altri davanti al tribunale monocratico, la riunione è disposta davanti al tribunale in composizione collegiale. Tale composizione resta ferma anche nel caso di successiva separazione dei processi ». Va parimenti esaminato il disposto dell’art. 33quater c.p.p. (concernente l’intera fase « procedimentale », e dunque anche quella antecedente all’instaurazione dell’azione penale, a differenza dell’art. 17 c.p.p., riferibile alla sola fase « processuale »): ai sensi di tale norma « se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla cognizione del tribunale in composizione collegiale ed altri a quella del tribunale in composizione monocratica, si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, al quale sono attribuiti tutti i procedimenti connessi » (32). La lettura di tali norme vale a meglio inquadrare l’effettivo ambito (32) Appare conforme l’impostazione accolta dall’art. 281-nonies c.p.c. (connessione), inserito dall’art. 68 d.lgs. n. 51 del 1998, secondo cui « in caso di connessione tra cause che debbono essere decise dal tribunale in composizione collegiale e cause che debbono essere decise dal tribunale in composizione monocratica, il giudice istruttore ne ordina la riunione e, all’esito dell’istruttoria, le rimette, a norma dell’articolo 189, al collegio, il quale pronuncia su tutte le domande, a meno che disponga la separazione a norma dell’articolo 279, secondo comma, numero 5 ».
— 1331 — delle attribuzioni monocratiche. Infatti, poiché le sovrarichiamate disposizioni determinano una vis attractiva della composizione collegiale, una rilevante quota di cause altrimenti ricomprese nella cognizione del tribunale in composizione monocratica è comunque destinata a rientrare nella sfera del giudice collegiale. In questo caso il legislatore sembra accogliere il criterio volto a ritenere che il giudice collegiale apporti nel processo un « tasso » di garanzia maggiore rispetto a quello offerto dal tribunale monocratico, e debba perciò prevalere detta composizione, a prescindere dal criterio temporale con cui sono stati assegnati i procedimenti (che sarebbe altrimenti vincolante, ai sensi dell’art. 2 disp. att. c.p.p.) (33), e cioè anche laddove il procedimento spettante alla cognizione del giudice monocratico sia stato assegnato antecedentemente rispetto a quello attribuito all’organo collegiale. Si potrebbe parlare, sebbene impropriamente, di una sorta di « gerarchia ideale », che tende a privilegiare la composizione collegiale. Più di un’assonanza, sia pur senza dimenticare la differenza dei rispettivi profili, sembrerebbe ravvisabile rispetto al previgente art. 15, comma 2, c.p.p.: « Se alcuni dei procedimenti appartengono alla competenza del tribunale ed altri a quella del pretore, è competente per tutti il tribunale ». Ovviamente, va messo in luce un dato fondamentale, che emerge ad esempio analizzando le ipotesi di riunione dei processi: nel caso di diversa composizione del tribunale, monocratica e collegiale, non si è in presenza di una distinzione fra diversi organi giudiziari, uno dei quali « prevale » rispetto all’altro. L’art. 17 c.p.p. evidenzia infatti come la riunione di processi possa operare solo laddove questi risultino pendenti nello stesso stato e grado « davanti al medesimo giudice », ed al riguardo non v’è dubbio che con detto termine il legislatore, pur non avendo inteso fare necessariamente riferimento al medesimo giudice-persona fisica, ha tuttavia vo(33) In base al primo comma dell’art. 2 disp. att. c.p.p. « se più processi che possono essere riuniti a norma dell’articolo 17 del codice pendono davanti a diversi giudici o a diverse sezioni dello stesso ufficio giudiziario, il dirigente dell’ufficio o della sezione designa per la eventuale riunione il giudice o la sezione cui è stato assegnato per primo uno dei processi, salvo che sussistano rilevanti esigenze di servizio ovvero la designazione possa pregiudicare la rapida definizione dei processi medesimi. In tali ultime ipotesi provvede con decreto motivato ». Ai sensi del successivo comma 1-bis, introdotto dall’art. 208 d.lgs. n. 51 del 1998, « il dirigente dell’ufficio o della sezione designa per l’eventuale riunione il giudice o la sezione che procede in composizione collegiale cui è stato assegnato per primo uno dei processi. Se la riunione non viene disposta, gli atti sono restituiti ». Deve affermarsi, alla luce delle chiare indicazioni provenienti dall’art. 17 comma 1-bis c.p.p., che il criterio della priorità temporale può valere in caso di pluralità di processi, pendenti innanzi a diverse sezioni dello stesso tribunale, riservati alla celebrazione del giudice collegiale; laddove invece si sia in presenza di alcuni processi spettanti al tribunale in composizione monocratica e di altri attribuiti al tribunale in composizione collegiale, la riunione dovrà comunque essere disposta innanzi al collegio. Per un’analisi di detta norma v. C. DI BUGNO, sub art. 208 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in LP, 1998, 439.
— 1332 — luto indicare il requisito dell’appartenenza allo stesso ufficio giudiziario (34). L’art. 17 comma 1-bis c.p.p., disciplinando la riunione fra processi pendenti davanti al tribunale collegiale e processi incardinati davanti al tribunale monocratico, conferma pertanto come in tal caso si configurino diverse composizioni di un unico organismo giudiziario, atte dunque a dar vita al presupposto rappresentato dalla pendenza dei processi innanzi al medesimo giudice. La norma prevede che la composizione del tribunale, disposta a seguito di riunione dei processi, rimanga ferma anche nel caso di successiva separazione dei processi, evitando così gli incombenti derivanti altrimenti da una ritrasmissione degli atti innanzi allo stesso tribunale ma in una diversa configurazione, e cioè innanzi al giudice la cui composizione risulterebbe ora quella « corretta », essendo decadute le esigenze connesse alla riunione. Dobbiamo esaminare se sia possibile ricavare spunti interpretativi al riguardo dell’analisi concernente la tematica della perpetuatio jurisdictionis, ispirata al criterio riassunto nel brocardo secondo il quale ubi semel acceptum iudicium ibi et finem accipere debet. Certamente è necessario limitarsi a tener conto di alcuni valori sottesi a tale disciplina, dovendosi invece prescindere dalle specifiche problematiche sulla competenza (35). Si potrà osservare come, alla base dell’istituto, vi sia la volontà di prevedere una vis attractiva destinata ad operare una (34) V. al riguardo L. KALB, Il processo per le imputazioni connesse, II, Torino, 1995, 300. (35) Per un’analisi del canone della perpetuatio jurisdictionis sotto la vigenza del codice abrogato, e quindi con specifico riferimento all’art. 46 c.p.p. 1930, v. M. G. AIMONETTO, Sulla separazione di procedimenti connessi di competenza di un diverso giudice, in Cass. pen., 1987, 1472; M. GARAVELLI, Il mito della perpetuatio jurisdictionis ad opera della connessione, ivi, 1988, 1051 ss.; ID., Connessione, riunione e separazione dei procedimenti tra vecchio e nuovo codice, Milano, 1989, 74 ss.; G. IADECOLA, Il principio della « perpetuatio iurisdictionis » e gli effetti della sua violazione, in Giust. pen., 1988, III, 47 ss.; M. MAZZANTI, Osservazioni sulla perpetuatio jurisdictionis riguardo alla competenza per territorio, in questa Rivista, 1962, 308 ss. In relazione al mutamento d’impostazione operato in materia dal c.p.p. 1988 v. per tutti A. MACCHIA, sub art. 12 c.p.p., in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, Milano, 1989, 82, che sottolinea come nel codice attuale trovi « integrale applicazione il principio della perpetuatio iurisdictionis anche nel caso di successiva separazione », ricordando che « l’espressa previsione » dei casi di connessione, postulata dalla delega, finisce pertanto per equivalere alla esclusione di qualsiasi margine di discrezionalità nella determinazione del giudice competente, che tale rimane, proprio perché ‘‘naturale’’ e ‘‘precostituito’’, a prescindere dall’epilogo di dinamica processuale che i procedimenti connessi possono subire, sul piano della relativa riunione o separazione ». Per quanto concerne il settore processualcivilistico il concetto di « perpetuatio jurisdictionis », che già in passato costituì oggetto di attenta disamina (v. G. CHIOVENDA, Sulla « perpetuatio jurisdictionis », in Foro it., 1923, I, 362 ss.), viene attualmente approfondito con riferimento al disposto dell’art. 5 c.p.c., così come sostituito dall’art. 2 della l. 26 novembre 1990, n. 353, in base al quale « la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al mo-
— 1333 — modificazione rispetto alle regole ordinarie, ed i cui effetti perdurano, per un principio di economia e speditezza processuale, anche una volta venute meno le circostanze che avevano determinato la modificazione, le cui conseguenze risultano così definitivamente cristallizzate. Un simile criterio, a cui si contrappone l’opposta soluzione in base alla quale a seguito della cessazione delle vicende dotate di forza attrattiva si dovrebbe ripristinare la situazione originaria, è stato indubbiamente accolto anche con riferimento all’ipotesi in esame, in quanto la composizione collegiale viene ritenuta dapprima prevalente, per effetto della riunione, su quella monocratica e poi è mantenuta ferma anche dopo il venir meno dei fattori che avevano giustificato la riunione. L’impostazione così delineata dal legislatore impone peraltro di affrontare gli interrogativi concernenti l’individuazione del giudice naturale e l’eventuale violazione del disposto dell’art. 25, 1o co., Cost. Infatti, sebbene il passaggio dalla composizione monocratica a quella collegiale non equivalga allo spostamento di competenza ad un diverso organo giudiziario, appare pienamente legittimo l’interrogativo se, venute meno le ragioni che determinarono l’originario spostamento di attribuzione, possa ancora essere definito giudice naturale il magistrato al quale la causa è stata assegnata in virtù di una ragione attrattiva poi decaduta a seguito della separazione dei processi, o se invece non sia sostenibile la tesi in base alla quale il puntuale rispetto del canone di cui all’art. 25 Cost. imporrebbe il totale ripristino della situazione antecedente alla riunione. Il problema, a ben vedere, s’inserisce nella stessa tematica attinente al quesito se la garanzia offerta all’imputato di essere giudicato dal giudice naturale precostituito per legge vada « riferita all’organo decidente oggettivamente inteso oppure alla persona fisica del giudice, ai componenti cioè l’organo giudiziario » (36). Accogliendo la prima soluzione, non potrebbe ravvisarsi alcuna violazione dei princìpi costituzionali, non verificandosi nel caso della diversa attribuzione lo spostamento da uno ad un altro organo giudiziario. A conclusione ben diversa deve giungersi qualora, al contrario, il principio venga rapportato alla posizione di ogni singolo giudice, giacché allora il passaggio dall’attribuzione collegiale a quella del tribunale monocratico potrebbe costituire un’inammissibile deroga al principio del giudice naturale. E, sebbene la stessa Corte costituzionale ancora recentemente abbia fornito una versione restrittiva del principio della precostituzione per legge del giudice naturale, escludendo che esso si estenda mento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo »: v. al riguardo R. ORIANI, La « perpetuatio iurisdictionis » (art. 5 c.p.c.), in Foro it., 1989, V, 35 ss.; ID., Novità e conferme in tema di « perpetuatio iurisdictionis », ivi, 1990, I, 2544 ss. (36) ROMBOLI, Giudice naturale, in Enc. dir., Aggiornamento, vol. II, Milano, 1998, 375.
— 1334 — ai conflitti di attribuzione tra giudici facenti parte dello stesso ufficio giudiziario (37), sembrerebbe invece necessario pervenire ad una visione ampliata del disposto dell’art. 25 Cost., giacché la garanzia della precostituzione per legge del giudice, proprio in quanto intimamente correlata alla tutela dell’imparzialità, fa riferimento « al momento in cui il giudice è chiamato concretamente a decidere su un caso reale e specifico, ad un momento cioè che richiama non tanto l’attività dell’organo oggettivamente inteso, quanto quella del giudice come persona » (38). 5. Le conseguenze derivanti dall’inosservanza delle norme in tema di attribuzione. — Per quanto concerne gli effetti ricollegabili alla violazione dei criteri fissati per la ripartizione delle cause tra il giudice monocratico ed il giudice collegiale, il legislatore ha cercato, con una normativa tutt’altro che soddisfacente, di attenuarne fortemente la portata, in un’ottica che sembra ricondurre le regole di attribuzione entro un ambito esclusivamente regolamentare ed organizzativo, e che proprio per questo tende a giustificare una reazione « debole », affievolita, alla loro inosservanza. Si è voluto in particolare evidenziare normativamente l’estraneità di questa tematica rispetto alla competenza per materia, rimarcando che in tal caso non è in gioco la correttezza della ripartizione fra diversi organi giudiziari, dovendosi unicamente esaminare se, con riferimento all’organo giudiziario effettivamente competente, la composizione collegiale o monocratica concretamente adottata risponda alle prescrizioni di legge (39). La legge-delega n. 254 del 1997, all’art. 1 comma 1 lett. f), ha posto quale vincolo al legislatore delegato quello di « stabilire che l’attribuzione degli affari al giudice in composizione collegiale o monocratica non si considera attinente alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante ». Il contenuto di tale direttiva è stato trasfuso dal legislatore delegato, in virtù dell’art. 169 d.lgs. n. 51 del 1998, nel nuovo testo dell’art. 33 (37) C. Cost., ord. 22 gennaio 1992, n. 15, in Giur. Cost., 1992, 70, ove, con riferimento all’art. 28, comma 2, c.p.p., nella parte in cui disciplina il contrasto tra il giudice dell’udienza preliminare ed il giudice del dibattimento, si esclude che la norma coinvolga il principio fissato dall’art. 25 Cost. « dal momento che la stessa non investe la competenza, ma risulta preordinata a risolvere i dissensi tra giudici facenti parte del medesimo ufficio giudiziario ». (38) ROMBOLI, Giudice naturale, cit., 378. (39) Come già osservato da G. VERDE, Giudice monocratico e collegiale (divagazioni su Costituzione e processo), in Riv. dir. proc., 1991, 957, poiché il giudice unico ed il collegio appartengono allo stesso ufficio « sarebbe stravagante concepire che tra di loro possano correre rapporti di competenza ».
— 1335 — comma 3 c.p.p. (40). Con riferimento al processo penale (41), sembra dunque doversi ritenere che i criteri volti a stabilire l’ordine di riparto tra la composizione collegiale e quella monocratica, essendo diretti ad operare una distribuzione delle cause interna all’organo giudiziario, diano vita unicamente ad un problema di « attribuzione » (42); il legislatore tende dunque ad escludere che una loro eventuale violazione rientri tra le nullità di ordine generale, attinenti alla regolare costituzione del giudice, di cui all’art. 178 comma 1 lett. a) c.p.p. (43), configuranti ipotesi di nullità assolute ai sensi dell’art. 179 c.p.p. Del resto si potrebbe ricordare che, accolta la distinzione tra una capacità d’« acquisto » ed una capacità « d’esercizio », relativa al compimento delle funzioni giurisdizionali, ed operata all’interno dell’ambito concernente la capacità « d’esercizio » un’ulteriore bipartizione, tra la capacità d’esercizio « generica » (che presuppone la nomina, il compimento del prescritto periodo di uditorato e l’ammissione alle funzioni giurisdizionali) e la capacità d’esercizio « specifica », sussistente unicamente in presenza delle condizioni necessarie per svolgere l’attività giurisdizionale in relazione al singolo processo nel quale il magistrato viene chiamato a giu(40) Per un orientamento decisamente negativo nei confronti della soluzione adottata dal legislatore delegante e recepita da quello delegato, v. P. FERRUA, Primi appunti critici sul giudice unico in materia penale, in Crit. dir., 1998, (2-3), 24 ss., il quale osserva come in tal modo, attraverso un artificio semantico, si finisca per pervenire allo snaturamento di una situazione che avrebbe invece imposto una diversa regolamentazione. Viene al riguardo sostenuto, ironicamente, che « nella stessa logica, ci si potrebbe attendere che in un prossimo futuro, di fronte al rischio di massicce scarcerazioni ma anche alla necessità di contenere in tempi ragionevoli la custodia cautelare, il legislatore intervenga in questo modo singolare; senza estendere formalmente i termini di carcerazione, ma specificando che oltre un dato tempo il detenuto non si considera più detenuto ». L’Autore (ivi, 19), nel sottolineare che il vero scopo perseguito dalla normativa in esame era quello di evitare la configurazione di una nullità assoluta ai sensi dell’art. 178 lett. a) c.p.p., rileva come il legislatore « anziché dirlo schiettamente, introducendo una espressa riserva nel testo di questa disposizione, ha preferito affermare che l’essere il tribunale composto da tre giudici (giudice collegiale) o da uno solo (giudice monocratico) è questione che non attiene ai... numeri! ». In senso parimenti critico v. altresì E. MARZADURI, L’introduzione del giudice unico di primo grado ed i nuovi assetti del processo penale, cit., 371. (41) Relativamente al processo civile l’art. 50-quater d.lgs. n. 51 del 1998 stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione monocratica o collegiale del tribunale non si considera attinente alla costituzione del giudice e prevede che alla nullità derivante da detta inosservanza si applichi l’art. 161, primo comma, c.p.c. È stata così accolta un’impostazione volta ad attribuire soltanto alla parte soccombente la possibilità di far emergere tale vizio mediante l’impugnazione della decisione di merito. (42) In relazione a questa tematica v. l’analisi di A. AVANZINI, Un nuovo vizio concernente il giudice: il difetto di attribuzione, in Il giudice unico nel processo penale, cit., 59. (43) A favore della tesi volta a negare la sussistenza di una simile nullità in caso di mancato rispetto delle regole di riparto, cfr. G. SPANGHER, Processo penale da adeguare all’istituzione del giudice unico, in Dir. pen. proc., 1998, 681.
— 1336 — dicare (44), la nullità assoluta configurata dall’art. 178 lett. a) c.p.p. è prevista « solo in relazione al difetto di capacità del giudice, inteso quale mancanza dei requisiti occorrenti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali e non anche in relazione al difetto delle condizioni specifiche per l’esercizio di tali funzioni in un determinato procedimento » (45). Ma nel caso in esame, potrebbe obiettarsi, non viene in gioco un problema di capacità, ma di composizione « numerica ». Ebbene, sotto questo aspetto il comma 3 dell’art. 33 c.p.p., introdotto dal d.lgs. n. 51 del 1998, sembra in effetti muoversi lungo una direttrice diversa rispetto alla già riduttiva impostazione accolta nel testo previgente (46). Anche se detta norma non era pienamente idonea a tutelare nella sua assolutezza il principio di precostituzione del giudice (47), quantomeno non si poneva in contrasto con il disposto dell’art. 178 lett. a) c.p.p.; infatti la composizione numerica dei collegi giudicanti risultava sicuramente incidente sulla capacità del giudice-organo (48). Le interpretazioni giurisprudenziali dirette ad escludere una nullità assoluta di ordine generale in ipotesi apparentemente caratterizzate dall’inosservanza delle norme concernenti il « numero dei giudici » apparivano ispirate ad argomentazioni volte non già a negare che essa configurasse una simile nullità ma a tratteggiare diversamente le vicende in esame, onde contraddire l’affermazione tendente a ravvisare la sussistenza di detta inosservanza; veniva ad esempio sostenuto che « quando più g.i.p. adottano congiuntamente uno stesso provvedimento di custodia cautelare non trasformano l’organo da monocratico in collegiale perché non costituiscono un collegio » (49). (44) In ordine a tale bipartizione cfr. V. CAVALLARI, sub art. 178 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, 291. (45) Cass., sez. un., 17 aprile 1996, D’Avino, in Cass. pen., 1996, 2507, n. 1420; negli stessi termini Cass., sez. I, 7 marzo 1994, Toso, ivi, 1995, 2629, n. 1578. (46) F. CORDERO, Procedura penale, cit., 168, aveva valutato in termini duramente critici la norma, affermando che: « al lettore viene il sospetto che sia un ectoplasma quest’articolo eretto a Capo VI del Titolo I ». (47) Come osservato da G. CONSO, Relazione introduttiva, in Il principio di precostituzione del giudice. (Atti del Convegno di Roma, 14/15 febbraio 1992), Quad. CSM, 1993 (66), 18 ss., la scelta di « non estendere la previsione di nullità agli aspetti organizzativi, limitandola, invece, come già in passato, ai soli aspetti relativi alla capacità del giudice propriamente intesa » ha fatto sì che le regole dell’ordinamento giudiziario, « poste con tanta cura, con tanta attenzione, nei minimi dettagli », e finalizzate a contemplare « tutte le situazioni organizzative del lavoro giudiziario per una puntuale, obiettiva sua distribuzione all’interno dell’ufficio competente », fossero destinate a « restare semplici indicazioni, esposte continuamente al rischio di violazioni, magari necessitate o addotte come tali, senza riscontro sanzionatorio ». (48) V. in tal senso, e per la distinzione tra la capacità del giudice-organo e la capacità del giudice-persona, O. DOMINIONI, sub art. 33 c.p.p., in Commentario del nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, cit., 217 e 220. (49) Così Cass., Sez. Un., 12 febbraio 1993, Alvaro e a., in Foro it., 1993, II, 626; parimenti Cass., sez. I, 5 luglio 1990, Gargano, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 289, sem-
— 1337 — Laddove non si poteva pervenire a tale conclusione, veniva dichiarata la nullità, per illegittima costituzione dell’organo giudicante (50). Con il nuovo art. 33 comma 3 c.p.p. si è invece giunti, mediante quello che non a torto è stato definito come un mero artificio semantico (51), a ribaltare normativamente una situazione di fatto, contraddicendo così la soluzione a cui si perverrebbe altrimenti sulla base dell’analisi dei dati concreti sottoposti all’esame dell’interprete e finendo con il negare che attenga ad un problema « numerico », tale da configurare la nullità di cui all’art. 178 lett. a) c.p.p., la circostanza che a giudicare sia un solo giudice anziché una terna di magistrati (52). D’altra parte, con riferimento alla violazione delle norme concernenti il riparto tra la composizione monocratica e quella collegiale non potrebbero neanche valere i rilievi che erano stati sviluppati al fine di giustificare la previsione di cui all’art. 33 comma 2 c.p.p., ispirata a quella che è stata definita la « concezione normativa della capacità » (53), in base alla quale non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni sulla destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici. Si affermava infatti, nella Relazione al progetto preliminare delle norme di adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo codice di procedura penale, che la nullità di cui all’art. 178 lett. a) c.p.p. implica l’inosservanza di regole prive di rilevanti spazi di discrezionalità, e si aggiungeva che con riferimento alle ipotesi delineate dall’art. 33 comma 2 c.p.p., nonostante l’avvenuto recepimento del criterio tabellare per l’assegnazione delle cause (54), non si può invece parlare di un’assoluta, stretta pre con riferimento ad un provvedimento volto a disporre una misura cautelare che risultava firmato da due, anziché da un solo giudice delle indagini preliminari. Anche sotto la vigenza del c.p.p. abr. la giurisprudenza era giunta a tali conclusioni relativamente all’adozione ed alla conseguente sottoscrizione ad opera di due o più giudici istruttori di un’ordinanza di rinvio a giudizio: così Cass., sez. I, 4 marzo 1985, Trombin, in Foro it., 1986, 1975, n. 1576; la dottrina si era peraltro espressa in senso contrario, ravvisando una nullità ai sensi dell’art. 185 comma 1 lett. a) c.p.p. 1930: così C. MORSELLI, La monocraticità del giudice istruttore: un principio in crisi?, in Giust. pen., 1987, III, 703 ss.; G. TRANCHINA, La « collegialità » del giudice istruttore: una sicura causa di nullità, in Cass. pen., 1986, 1976 ss. (50) Cass., sez. I, 27 giugno 1990, Rossi, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 128. (51) P. FERRUA, loc. ult. cit. (52) Rimandiamo nuovamente alle osservazioni di P. FERRUA, Primi appunti critici sul giudice unico, cit., 19. (53) V. sul punto, da ultimo, C. CONTI, Sistema tabellare e precostituzione del giudice: una disciplina solo apparentemente innocua, in Dir. pen. proc., 1999, 1287 ss. (54) In relazione a questa tematica v. L. BRESCIANI, Assegnazione degli affari penali, in Dig. disc. pen., vol. X, (Appendice), Torino, 1995, 617 ss.; nonché, con riferimento al ruolo svolto dalla disciplina tabellare per l’attuazione concreta del principio costituzionale della precostituzione del giudice, A. PIZZORUSSO, L’organizzazione della giustizia in Italia,
— 1338 — automaticità nella determinazione, ad esempio, dei criteri di formazione dei collegi e di assegnazione delle cause (55). Al contrario, la ripartizione tra la composizione monocratica e quella collegiale è disciplinata da norme che non offrono spunti di discrezionalità, e pertanto la giustificazione sovraesposta non risulta adattabile a detta materia. L’unica logica spiegazione alla scelta del legislatore va ricercata nella volontà di eliminare possibili « nubi » incombenti pericolosamente sull’iter dei processi, limitando le conseguenze derivanti dalla violazione delle regole relative a tale ripartizione. Preso atto della soluzione così adottata in sede normativa, ed a prescindere dalle critiche che ad essa sono state mosse, si è tentato da parte di numerosi interpreti di ravvisare quantomeno « una figura di ‘‘nullità a regime intermedio’’, rilevabile dal giudice o eccepibile dalle parti entro limiti ben determinati » (56). In senso contrario a tale impostazione sembra peraltro militare il principio di tassatività delle nullità (57); è stato infatti affermato che la prospettazione di una nullità in simili ipotesi va giudicata « improponibile », risultando « esclusa sia dall’assenza di previsioni speciali che generali » (58). Di fronte all’incertezza suscitata dallo stesso inquadramento del riparto di attribuzioni, ed alla difficoltà di ammettere Torino, 1990, 112 ss.; R. ROMBOLI, Giudice naturale, in Enc. dir., Aggiornamento, vol. II, Milano, 1998, 377. (55) E. ZAPPALÀ, sub art. 33 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, 1989, 181, ha sottolineato al riguardo « in primo luogo la difficoltà di tracciare una disciplina d’individuazione del giudice del processo tanto puntuale da eliminare qualsiasi discrezionalità di qualunque organo amministrativo-giudiziario; in secondo luogo l’inopportunità di stabilire una nullità processuale per la violazione di disposizioni che sono sottomesse anche a valutazioni di organi amministrativi e che certamente introdurrebbero nel processo degli appesantimenti dovuti alle questioni legate ai punti d’interferenza ». (56) M. P. BIANCHI, La riforma per l’istituzione del giudice unico ed il processo penale: in particolare i « vizi di composizione » del tribunale ed i « difetti di assegnazione » degli affari alle sezioni distaccate, in Arch. nuova proc. pen., 1999, 323; GIUS. AMATO, sub art. 170 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in Giudice unico di primo grado, cit., 187; analogamente G. FIDELBO, Il giudice unico tra la legge delega e gli orientamenti del legislatore delegato, in Il giudice unico nel processo penale, cit., 17; C. RIVIEZZO, Giudice unico e processo penale, in Cass. pen., 1998, 3500. (57) Per un’analisi del principio di tassatività delle nullità cfr. V. CAVALLARI, sub art. 177 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. II, cit., 279; G. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, Milano, 1955, 83 e 84. (58) N. GALANTINI, Juge unique, juge inique: appunti sulla esperienza francese, in Il giudice unico nel processo penale, Milano, 1998, 69. Così pure A. AVANZINI, Un nuovo vizio concernente il giudice: il difetto di attribuzione, cit., 61: « se è inibito inquadrare come difetto di competenza l’errata attribuzione della causa al giudice collegiale o a quello monocratico, ci si deve chiedere a quale vizio ed a quale sanzione possa dar vita una tale situazione. Infatti, è da escludere che la violazione delle norme in questione possa dar luogo a nullità. Non si può certamente ravvisare una nullità generale... Nè può parlarsi di una nullità speciale, stante il principio di tassatività enunciato dall’art. 177 c.p.p. e l’assenza di una previsione espressa di nullità ».
— 1339 — che l’inosservanza della normativa in oggetto possa configurare una mera irregolarità, si ipotizza « la nascita di una nuova specie di imperfezioni processuali assumibile sotto la definizione di difetto di attribuzione » (59). D’altra parte, appare difficile ritenere che, a livello giurisprudenziale, venga accolta la tesi volta a ravvisare la sussistenza di una « incompetenza funzionale ». L’istituto dell’incompetenza funzionale (60), seppur non espressamente previsto dal legislatore, è generalmente ritenuto parificabile, quanto ai suoi effetti, alla situazione discendente dalla violazione di norme sanzionate a pena di nullità assoluta, ritenendosi che esso determini una rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (61). Invece l’art. 1, comma 1, lett. g) della legge-delega n. 254 del 1997 imponeva al legislatore delegato di « stabilire che, nella materia penale, le parti hanno facoltà di chiedere, e il giudice di disporre, l’attribuzione del procedimento alla composizione ritenuta corretta non oltre la conclusione dell’udienza preliminare e, ove questa manchi, non oltre il compimento delle formalità di apertura del dibattimento ». Lo schema di riferimento nell’individuazione dei limiti per la rilevazione dell’eventuale violazione delle regole sulla composizione del tribunale appariva dunque ricavato dal disposto, concernente la nullità ricollegabile all’accertata sussistenza dell’incompetenza per territorio, delineato dall’art. 21 comma 2 c.p.p., le cui previsioni valgono altresì, ai sensi del successivo terzo comma, rispetto all’incompetenza derivante da connessione. Sulla base della sovracitata direttiva della legge-delega n. 254 del 1997 l’art. 33-quinquies c.p.p. (inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale), inserito dal d.lgs. n. 51 del 1998, così stabilisce: « l’inosservanza delle disposizioni relative all’attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preli(59) A. AVANZINI, Un nuovo vizio concernente il giudice: il difetto di attribuzione, cit., 61. (60) In ordine a tale istituto v. per tutti S. RICCIO, La competenza funzionale nel diritto processuale penale, Torino, 1959. Per quanto concerne la giurisprudenza, cfr. Cass., sez. un., 20 luglio 1994, De Lorenzo, in Giust. pen., 1995, III, 545, secondo cui « l’incompetenza funzionale equivale al disconoscimento della ripartizione delle attribuzioni del giudice in relazione allo sviluppo del processo e riflette i suoi effetti direttamente sulla idoneità specifica dell’organo all’adozione di un determinato provvedimento. Essa, pur non avendo trovato un’esplicita previsione neppure nel nuovo codice di procedura penale, proprio perché connaturata alla costruzione normativa delle attribuzioni del giudice ed allo sviluppo del rapporto processuale, è desumibile dal sistema ed esprime tutta la sua imponente rilevanza in relazione alla legittimità del provvedimento emesso dal giudice, perché la sua mancanza rende tale provvedimento non più conforme ai parametri normativi di riferimento ». (61) V. in tal senso Cass. S.U., 20 luglio 1994, De Lorenzo, cit.
— 1340 — minare o, se questa manca, entro il termine previsto dall’articolo 491 comma 1. Entro quest’ultimo termine deve essere riproposta l’eccezione respinta nell’udienza preliminare » (62). In tal modo « una volta superata la soglia d’ingresso dello scenario dibattimentale, non sarà più consentito di mettere in discussione il preteso difetto di composizione dell’organo adìto, presso il quale la cognizione rimarrà definitivamente radicata » (63). Abbiamo rilevato precedentemente come sotto alcuni aspetti sia stato recepito il meccanismo delineato con riferimento all’incompetenza per territorio. Peraltro, relativamente alla « graduazione », e dunque alla diversificazione delle conseguenze derivanti dall’inosservanza delle regole di riparto il legislatore, agli artt. 33-sexies, 33-septies, 33-octies c.p.p., tutti inseriti dall’art. 170 d.lgs. n. 51 del 1998, mostrava di aver accolto, almeno parzialmente, e pur nella diversità dei presupposti, l’impostazione prevista in tema di incompetenza per materia dagli artt. 23 e 24 c.p.p., volta ad operare una differenziazione fra le ipotesi di « ipocapacità » del giudice, in cui il processo spetterebbe nella realtà ad un giudice « superiore » rispetto a colui al quale è stato concretamente affidato, e le ipotesi di « ipercapacità » (cha danno luogo ad esiti assai meno significativi), realizzabili nella situazione inversa (64). Anche nel nostro caso, almeno nel testo originario, appariva particolarmente evidente la distinzione basata su di una sorta di « gerarchia », in un’ideale scala ove l’attribuzione « superiore » è affidata al tribunale collegiale, mentre quella « inferiore » è riservata al giudice monocratico. Su questa impostazione ha peraltro inciso, introducendo ulteriori varianti, la c.d. « legge Carotti ». Esaminiamo distintamente i vari casi prospettabili. L’originario art. 33-sexies c.p.p., inserendosi in un contesto volto a disciplinare secondo le modalità del rito pretorile la celebrazione dei processi attribuiti al tribunale in composizione monocratica, disponeva che qualora nell’udienza preliminare il giudice avesse ritenuto che il reato apparteneva alla cognizione del tribunale in composizione monocratica, avrebbe dovuto emettere decreto di citazione a giudizio, trasmettendo poi gli atti al pubblico ministero. A seguito della sostituzione del libro ottavo del codice di procedura penale, e con la prevista celebrazione dell’udienza preliminare anche per i reati di « fascia superiore » riservati all’attribuzione monocratica (e cioè, ad esempio, per quelli puniti con la (62) Sembra potersi affermare che la relativa questione, non accolta nel corso dell’udienza preliminare a seguito di eccezione di parte, sia riproponibile non solo dalle parti, ma anche a seguito di un’iniziativa officiosa. (63) Cfr. L. BRESCIANI, sub art. 169 d.lgs. 19 febbraio 1998 n. 51, in LP, 1998 (2/3), 397. (64) V. sul punto G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, III Ed, Torino, 2000, 76; A. MACCHIA, sub art. 23 c.p.p., in Commentario del nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, cit., 137.
— 1341 — pena della reclusione superiore nel massimo a quattro anni), la distinzione non poteva più intercorrere tra i procedimenti che, in quanto destinati alla celebrazione collegiale, dovevano transitare all’udienza premliminare, ed i procedimenti riservati all’attribuzione del tribunale monocratico, privi dello snodo rappresentato dalla celebrazione di tale udienza; era invece ormai necessario differenziare dai restanti casi solo le ipotesi in cui l’azione penale viene esercitata dal pubblico ministero mediante la citazione diretta a giudizio, senza celebrazione dell’udienza preliminare. L’art. 33-sexies c.p.p., nel testo derivante dalla recente sostituzione legislativa, prevede che qualora nel corso dell’udienza preliminare il giudice accerti che in relazione al reato costituente oggetto del procedimento avrebbe dovuto procedersi con citazione diretta a giudizio egli sia tenuto a pronunciare ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’emissione del decreto di citazione a giudizio. Occorre a questo punto analizzare quanto può invece verificarsi in sede di dibattimento di primo grado. Ai sensi del nuovo testo dell’art. 33septies c.p.p., risultante dalla sostituzione operata dalla « legge Carotti », purché risulti celebrata l’udienza preliminare, sia in presenza di un’attribuzione « per eccesso » — e cioè laddove il collegio ritenga che nella realtà il reato appartenga alla cognizione del giudice monocratico —, sia nel caso inverso, in cui il giudice monocratico ravvisi un’attribuzione collegiale, sarà sufficiente la pronuncia di un’ordinanza diretta a disporre la trasmissione degli atti innanzi al giudice competente (65). In entrambe le situazioni infatti non risulta essere stata lesa la garanzia offerta dalla celebrazione dell’udienza preliminare. Qualora invece si verta nella situazione prevista dall’art. 33-septies comma 2 c.p.p., e cioè non sia stata celebrata l’udienza preliminare ed il giudice monocratico ritenga che il reato appartenga alla cognizione del collegio, questi dovrà operare una regressione del procedimento, trasmet(65) Nell’eventualità che il giudice al quale sono stati trasmessi gli atti dissenta da tale provvedimento, si deve valutare se sia possibile fare ricorso al disposto dell’art. 28 comma 2 c.p.p., diretto a disciplinare il conflitto di competenza « in casi analoghi ». Si esprimeva a favore di tale soluzione la Relazione illustrativa al decreto legislativo recante: « norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », cit., 33. Purtuttavia questa conclusione appare molto problematica, in quanto formamente antitetica rispetto all’impostazione volta a non considerare attinente alla competenza la distinzione di attribuzioni nell’ambito del tribunale in composizione monocratica o collegiale. Si sarebbe comunque in presenza di un conflitto assolutamente atipico; a rigore anzi dovrebbe escludersi la sussistenza di un vero conflitto, in base alla considerazione secondo cui vi è « conflitto » solo qualora « una questione, di natura incidentale, circa la legittimazione attiva del giudice veda contrapposti due organi giudiziari, ordinari o speciali, che con riguardo alla medesima regiudicanda insieme affermino o insieme neghino la propria legittimazione » (così G. BONETTO, sub art. 28 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. I, 1989, 163); infatti in tal caso il contrasto non concerne diversi organi giudiziari fra loro contrapposti ma attiene alla diversa composizione di un unico organo.
— 1342 — tendo gli atti al pubblico ministero, onde evitare che il soggetto interessato venga privato delle garanzie connesse all’attribuzione collegiale, ed in particolare di quella rappresentata dalla celebrazione dell’udienza preliminare. Sotto questo aspetto, al fine di comprendere adeguatamente il perché della soluzione accolta dal legislatore all’art. 33-septies c.p.p., possono essere ricavate alcune preziose indicazioni dalla sent. n. 76 del 1993 della Corte costituzionale (66), con cui fu rilevata l’illegittimità dell’art. 23, comma 1, c.p.p. « nella parte in cui dispone che, quando il giudice del dibattimento dichiara con sentenza la propria incompetenza per materia, ordina la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo ». Ovviamente, dobbiamo limitarci a parlare di semplici « spunti », essendo necessario sottolineare la sussistenza di non poche difformità tra queste ipotesi. In particolare va osservato come la situazione fatta oggetto della pronuncia della Corte costituzionale andasse riferita sia alle violazioni « in eccesso » che a quelle « in difetto » rispetto alla regolare attribuzione di competenza; inoltre la Corte, nella parte motiva della pronuncia di illegimità, aveva affermato che simili violazioni riguardavano « non soltanto l’individuazione dell’organo chiamato in concreto a esercitare la giurisdizione, ma anche la sostanza stessa dell’azione penale », accogliendo così l’impostazione fatta propria dai giudici rimettenti, secondo cui i poteri d’iniziativa dell’organo dell’accusa non potrebbero ritenersi validamente esercitati dal pubblico ministero presso il giudice incompetente. Nel caso configurato dall’art. 33-septies c.p.p. non siamo in presenza di una vicenda di incompetenza, e non entra in gioco l’individuazione dell’organo giurisdizionale, ma semplicemente la sua composizione; soprattutto non si può sostenere che risulti invalida l’instaurazione dell’azione penale operata dal pubblico ministero innanzi ad un tribunale composto irregolarmente, giacché, se così fosse, la rimessione degli atti dovrebbe essere effettuata anche laddove, in presenza di un reato la cui cognizione sia riservata al tribunale in composizione monocratica, il pubblico ministero abbia invece esercitato l’azione penale ravvisando un’attribuzione collegiale. Relativamente alla normativa in esame, l’unico dato atto a giustificare la ritrasmissione degli atti al pubblico ministero è rappresentato dalla necessità di garantire che il soggetto imputato in ordine ad incriminazioni rientranti nella sfera di attribuzioni riservata al collegio possa fruire del vaglio dell’udienza preliminare; proprio per questo la rimessione non è prevista qualora tale udienza sia stata comunque celebrata. (66) Corte cost., sent. 11 marzo 1993, n. 76, in Giur. cost., 1993, 687, con nota di M. MARGARITELLI, Questioni nuove in rapporto alle declaratorie di incompetenza del giudice penale.
— 1343 — La ritrasmissione degli atti al pubblico ministero riattribuisce a questi la pienezza dei suoi poteri valutativi in ordine alla vicenda, restaurando l’alternativa tra l’esercizio dell’azione penale e la domanda di archiviazione, conformemente a quanto già rilevato dalla dottrina a seguito della pronuncia di incostituzionalità 76/1993: in tale occasione fu infatti sottolineato come il provvedimento di rimessione degli atti rendesse il pubblico ministero nuovamente libero di accertare, in assenza di condizionamenti di sorta dovuti al pregresso iter procedimentale, la sussistenza o meno dei presupposti per la richiesta di rinvio a giudizio, dovendosi considerare ormai dissolta l’efficacia della precedente imputazione « che rimane un mero precedente storico privo di giuridico rilievo » (67). Gli stessi criteri caratterizzanti il disposto dell’art. 33-septies c.p.p. sono stati accolti anche dall’art. 33-octies c.p.p. con riferimento alla fase delle impugnazioni. Anche in tal caso la ritrasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado, anziché direttamente a detto giudice, appare rispondere ad una ratio garantistica, in conformità al richiamo contenuto, relativamente all’incompetenza per materia, in un’ulteriore pronuncia della Corte costituzionale, e più precisamente nella sent. n. 214 del 1993 (68), che dichiarò l’illegittimità dell’art. 24 comma 1 c.p.p. « nella parte in cui dispone che, a seguito dell’annullamento della sentenza di primo grado per incompetenza per materia, gli atti siano trasmessi al giudice ritenuto competente, anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo ». Va osservato come ai sensi dell’art. 33-octies c.p.p. debba pervenirsi alla pronuncia di una sentenza di annullamento ed alla trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado solo qualora in sede di impugnazione si ravvisi una violazione « per difetto » dei criteri di attribuzione, e cioè laddove in primo grado il tribunale abbia erroneamente giudicato in composizione monocratica anziché collegiale (e purché l’inosservanza concernente le disposizioni in tema di attribuzione sia stata tempestivamente eccepita e l’eccezione risulti riproposta nei motivi di impugnazione). Laddove, al contrario, appaia individuabile una violazione « per eccesso » delle regole di attribuzione, il giudice d’appello, pur ritenendo che in primo grado la cognizione spettasse all’organo monocratico anziché al collegio, è comunque tenuto a pronunciarsi direttamente nel merito, in omaggio a ragioni di economia processuale ed in assenza di controindicazioni dovute ad esigenze garantistiche. (67) M. MARGARITELLI, Questioni nuove in rapporto alle declaratorie di incompetenza, cit., 700; analogamente P.P. RIVELLO, Riconoscimento in sede di appello dell’incompetenza per materia del giudice di primo grado ed individuazione dell’organo al quale devono essere trasmessi gli atti, in Giur. cost., 1993, 1611. (68) Corte cost., sent. 5 maggio 1993, n. 214, in Giur. cost., 1993, 1603, con nota di P.P. RIVELLO, Riconoscimento in sede di appello, cit., 1609 ss.
— 1344 — Nel giudizio di legittimità, instaurato all’esito del giudizio di appello o mediante ricorso immediato per cassazione, l’unica possibilità, in caso di inosservanza verificatasi in primo grado — tempestivamente eccepita e riproposta in sede di impugnazione — dei criteri di riparto nell’attribuzione della cognizione del reato al tribunale nelle sue diverse composizioni, è invece quella consistente nella trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado (69). L’art. 33-nonies c.p.p. (inserito, al pari di tutti gli altri contenuti nel capo VI-bis del titolo I, libro I, del codice di procedura penale, ad opera dell’art. 170 d.lgs. n. 51 del 1998), volto a disciplinare la validità delle prove, stabilisce che l’inosservanza delle norme sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina né l’invalidità degli atti del procedimento, né l’inutilizzabilità delle prove già acquisite. Gli effetti di tale previsione non si estendono comunque al di là dell’ambito che attiene alla composizione del collegio, e non possono in particolare operare come una sorta di « sanatoria » in relazione a vizi propri degli atti, « esterni » in relazione alla problematica concernente l’attribuzione di un procedimento al tribunale nella composizione monocratica o collegiale (70). Rispetto all’invalidità degli atti, la norma conferma in modo espresso una conclusione che poteva già ritenersi desumibile in base al principio di tassatività delle nullità. L’esclusione dell’inutilizzabilità delle prove sembra invece ricalcare, in un diverso contesto, l’impostazione accolta dall’art. 26 comma 1 c.p.p., secondo cui l’inosservanza delle norme sulla competenza non produce l’inefficacia delle prove già acquisite. Non è stato accolto il criterio limitativo introdotto dal secondo comma del predetto art. 26 c.p.p., ed in base al quale « le dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia, se ripetibili, sono utilizzabili soltanto nell’udienza preliminare e per le contestazioni a norma degli articoli 500 e 503 ». Si è osservato che nell’ipotesi relativa al difetto di attribuzione occorre procedere, per la riacquisizione degli atti già assunti innanzi al tribunale in una diversa composizione, alla loro lettura od almeno all’indicazione specifica di utilizzabilità, ai sensi dell’art. 511 c.p.p. (71); è stato affermato che « trattandosi per l’appunto di mera lettura, ne risulta eviden(69) V. sul punto D. MANZIONE, sub art. 170, cit., 417. (70) D. MANZIONE, sub art. 170, cit., 418, sottolinea come « una nullità che affligga un atto per ragioni ‘‘centrifughe’’ rispetto alla celebrazione del giudizio davanti al giudice collegiale anziché monocratico o viceversa, per esempio una invalidità derivante da omessa notifica o da omessa partecipazione del difensore e così via discorrendo, non potrebbe ritenersi ‘‘coperta’’ dalla disposizioni in esame ». (71) C. RIVIEZZO, Giudice unico di primo grado, in Gazz. giur., 1998 (13), suppl., 71. In relazione al ricorso alla lettura o al meccanismo dell’indicazione degli atti utilizzabili (che, come noto, fece per la prima volta comparsa nel nostro ordinamento in virtù dell’art.
— 1345 — temente ‘‘superata’’ ogni ipotesi di ‘‘tentativo di rinnovabilità’’ degli atti probatori assunti » (72). In senso contrario a tale ultima affermazione viene peraltro obiettato, con riferimento al caso in esame, che la mera lettura del verbale di una testimonianza precedentemente assunta non potrà ritenersi ammessa « quando l’esame è ancora possibile ed è richiesto » (73). Riteniamo che per una corretta analisi al riguardo sia necessario richiamarsi all’ormai vasta elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi relativamente alla tematica concernente il mutamento della composizione del collegio giudicante e che ha condotto, sia pur dopo non pochi contrasti, a sostenere la legittimità della lettura, ai sensi dell’art. 511 c.p.p., con conseguente « recupero », ai fini della decisione, dei verbali degli atti precentemente assunti ed inseriti nel fascicolo dibattimentale, ma ha al contempo evidenziato il diritto spettante alle parti di chiedere un nuovo esame dei soggetti già escussi. Appaiono estremamente significativi alcuni riferimenti contenuti nella sent. n. 17 del 1994 della Corte costituzionale (74), ove si afferma che « la disciplina relativa alla utilizzabilità dei verbali di mezzi di prova assunti nella precedente fase dibattimentale dal diverso giudice non può che essere rinvenuta nell’art. 511 c.p.p. Detti verbali, invero, fanno già parte del contenuto del fascicolo per il dibattimento a disposizione del nuovo giudice... Ne deriva, pertanto, la integrale applicabilità della disciplina dettata dall’art. 511 del codice in tema di lettura degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento; in particolare, quando trattisi di verbali di dichiarazioni, è previsto che la lettura debba seguire l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo ». Nel richiamare l’impostazione accolta dalla pronuncia n. 17 del 1994 la Corte costituzionale, con l’ord. n. 99 del 1996 (75), escludendo l’illegittimità dell’art. 511 comma 1 c.p.p., denunciata con riferimento agli artt. 3, 76 e 97 Cost., nella parte in cui esso prevede il potere-dovere del giudice di dare lettura dei verbali delle prove assunte nello stesso procedimento penale in fase dibattimentale da un diverso giudice, dichiaratosi successivamente incompatibile, dopo aver ribadito che i verbali dei mezzi 466-bis c.p.p. abr., introdotto nel codice di procedura penale del 1930 ad opera dell’art. 3 l. 17 dicembre 1987, n. 29, e successivamente recepito e riproposto, almeno nei suoi contenuti essenziali, dall’attuale art. 511 comma 5 c.p.p.) v. M. NOBILI, sub art. 511 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., vol. V, 1991, 423; P.P. RIVELLO, Letture dibattimentali e maxiprocessi, Milano, 1989; ID., Letture consentite e vietate, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, 405 ss.; ID., Utilizzazione degli atti, ivi, vol. XV, Torino, 1999, 176. (72) D. MANZIONE, sub art. 170, cit., 419. (73) G. FRIGO, Difesi gli spazi del collegio nel rito penale, cit., 82. (74) Corte cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 17, in Cass. pen., 1994, 1172, n. 681. (75) Corte cost., ord. 3 aprile 1996, n. 99, in Cass. pen., 1996, 2844, n. 1601.
— 1346 — di prova assunti da un altro giudice fanno comunque parte del fascicolo per il dibattimento, ha escluso che « la disciplina impugnata — la quale, come chiaramente risulta dal tenore letterale della norma, impone al giudice la lettura (ovvero, a certe condizioni, la sola indicazione) dei verbali di dichiarazioni, di regola dopo il nuovo esame della persona che le ha rese, con conseguente utilizzabilità degli atti stessi ai fini della decisione — violi alcuno dei parametri costituzionali », in quanto « la pregressa fase dibattimentale conserva indubbiamente il carattere di attività legittimamente compiuta, per cui certamente non è irragionevole, né lesivo dei princìpi di oralità e immediatezza del dibattimento, che la medesima, attraverso lo strumento della lettura... entri nel contraddittorio delle parti e venga recuperata ai fini della decisione ». Su questa tematica è altresì intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite (76), chiamata a pronunciarsi sul disposto dell’art. 511 c.p.p., laddove detta norma prevede che la lettura dei verbali di dichiarazioni sia effettuata solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo. L’intervento è stato reso necessario dalla sussistenza di profonde divergenze giurisprudenziali in materia, in quanto, mentre secondo alcune decisioni l’esame — fatte salve le ipotesi in cui esso non poteva avere luogo o le parti avevano espressamente consentito a non effettuarlo innanzi al nuovo giudice — costituiva presupposto indefettibile per la lettura del verbale delle dichiarazioni rese precedentemente innanzi al giudice poi sostituito, altre pronunce avevano invece sostenuto che tali dichiarazioni erano comunque legittimamente utilizzabili dal nuovo giudice, a prescindere dal consenso delle parti e senza dover necessariamente procedere ad una nuova audizione del dichiarante. Le Sezioni Unite della Cassazione, risolvendo il contrasto giurisprudenziale, hanno affermato che « nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto dalle parti ». Dunque la lettura può prescindere dal nuovo esame non solo qualora esso risulti impossibile, per fattori sopravvenuti, ma anche laddove le parti non abbiano formulato richiesta di riaudizione del dichiarante. Una simile conclusione, tendente a contemperare il rispetto del principio di immediatezza con quello della conservazione degli atti legittimamente compiuti innanzi ad un diverso giudice, può essere recepita anche in relazione alla tematica in esame. (76) Cass., Sez. Un., 15 gennaio 1999, Iannasso e a., in Guida dir., 1999 (9), 31, con nota di R. BRICCHETTI, In presenza di una nuova richiesta delle parti il giudice deve disporre d’ufficio la lettura.
— 1347 — È stato peraltro ritenuto difficoltoso adattare il disposto dell’art. 33nonies c.p.p., volto a sancire l’utilizzabilità delle prove già acquisite, con la previsione, contenuta negli artt. 33-septies e 33-octies c.p.p., concernente la ritrasmissione degli atti al pubblico ministero. Si è affermato che, stante l’utilizzabilità ai fini della decisione delle risultanze delle prove assunte innanzi ad un diverso giudice « occorre che il giudice ‘‘nuovo’’ sia messo in condizione di poterle leggere: e siccome il ‘‘regresso’’, ove si realizzi, implica la restituzione, anche degli atti dibattimentali, alla pubblica accusa, occorrerà ‘‘usare violenza’’ al sistema per consentire al giudice deputato alla lettura di ‘‘venire in possesso’’ dell’oggetto di quell’esercizio, considerata la difficoltà di ricorrere all’art. 238 c.p.p. (che si riferisce a verbali di prova di « altri procedimenti »), ovvero all’art. 431 c.p.p. (che non prevede gli atti in questione tra quelli inseribili nel fascicolo dibattimentale), a meno di non pensare all’ancor più problematica ipotesi di una trasmissione degli atti ‘‘in copia’’ al p. m. con contestuale ‘‘trattenimento’’ del fascicolo dibattimentale, che finirebbe per divenire l’esatto contrario di ciò che si è voluto espressamente affermare » (77). 6. La diversificazione soggettiva tra il giudice per le indagini preliminari e quello dell’udienza preliminare e le relative ipotesi di incompatibilità. — La Corte costituzionale, nella sent. n. 131 del 1996, aveva osservato che le varie pronunce di illegittimità in chiave additiva, volte ad ampliare l’area dell’incompatibilità, « chiamavano alle proprie responsabilità gli altri organi costituzionali », tenuti a porre rimedio alle gravi problematiche, coinvolgenti la funzionalità dell’intero apparato giudiziario, derivanti da dette pronunce (78). Il contenuto di tale pressante indicazione venne recepito dall’art. 1 lett. h) della legge-delega 16 luglio 1997, n. 254, secondo cui il legislatore delegato avrebbe dovuto « prevedere che il giudice per le indagini preliminari sia diverso dal giudice dell’udienza preliminare, apportando le necessarie modifiche alle disposizioni dell’articolo 7-ter dell’ordinamento giudiziario ». A questa direttiva è stata data realizzazione attraverso un intervento plurisettoriale, diretto a interessare sia il profilo ordinamentale che quello codicistico specificamente attinente all’ambito delle incompatibilità. (77) D. MANZIONE, sub art. 170, cit., 420. (78) La Corte costituzionale, pur sottolineando di essere « consapevole delle difficoltà di ordine pratico che, come conseguenza della propria giurisprudenza, possono derivare alla formazione concreta degli organi giudicanti », aveva rilevato che ciò tuttavia non poteva esimerla « dalla propria essenziale funzione di garanzia, quando se ne richieda l’intervento in presenza di norme costituzionalmente illegittime », osservando, appunto, che « alle anzidette difficoltà, con appropriati interventi e riforme di ordine normativo ed organizzativo, devono porre rimedio altre istanze costituzionali alle quali appartengono i relativi doveri e le relative responsabilità ».
— 1348 — Mediante la modifica dell’art. 7-ter dell’ordinamento giudiziario, ad opera dell’art. 6 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, il legislatore ha attuato la diversificazione soggettiva fra il giudice delle indagini preliminari e quello dell’udienza preliminare nell’ambito dello stesso procedimento. Non è stata accolta invece la soluzione volta ad imporre un radicale iato, a livello strutturale, tra l’ufficio del giudice per le indagini preliminari e quello del giudice dell’udienza preliminare, mediante la creazione di due differenti organi giurisdizionali. Si è preferito adottare un criterio maggiormente flessibile ed articolato, che prevede la necessaria distinzione soggettiva tra la figura del g.i.p. e quella del g.u.p. in relazione ad ogni singolo processo, ma ammette al contempo l’interscambiabilità dei ruoli, consentendo a chi svolge l’incarico di g.i.p. in un determinato processo di rivestire le funzioni di g.u.p. in relazione ad un’altra causa (79). Nella Relazione ministeriale illustrativa al d.lgs. n. 51 del 1998 sono stati indicati alcuni dei motivi in base ai quali tale impostazione ha prevalso su quella, ancora più « rigida » e « rigorosa », volta a operare una separazione tabellare tra il ruolo del giudice per le indagini preliminari e quello dell’udienza preliminare, e conseguentemente a radicalizzare la distinzione tra le due figure, marcando in maniera indelebile la distanza intercorrente fra esse. È stato osservato come a sfavore di questo criterio abbiano giocato considerazioni eminentemente pratiche, e in particolare abbia militato negativamente il rilievo secondo cui il suo accoglimento avrebbe potuto dar vita a evidenti diseconomie e a notevoli problemi organizzativi, in quanto, stante l’estrema variabilità del carico di lavoro dei g.i.p., derivante dal carattere necessariamente discontinuo dei flussi di fascicoli provenienti dal pubblico ministero, in tal modo alcuni magistrati sarebbero stati costretti a una forzata inattività, o comunque a esercitare un’attività ridotta, durante periodi più o meno prolungati di tempo. Al contempo, la settorialità del campo di intervento loro (79) Peraltro, in senso critico nei confronti di tale criterio, v. quanto già osservato da P. DELLA SALA-A. GARELLO, L’udienza preliminare, Milano, 1989, 63: « l’idea..., che appartengano tutti ad uno stesso ufficio giudiziario sia il giudice delle indagini preliminari sia il giudice dell’udienza preliminare, implica che persone fisiche legate da un continuativo rapporto di lavoro e di familiarità debbano divenire reciprocamente controllori l’uno dell’altro. Infatti, se è vero (come certamente è) che l’intervento del giudice delle indagini preliminari, soprattutto nei processi di una certa rilevanza, sarà espressione di sue precise convinzioni e opzioni, ne discende che la decisione dell’udienza preliminare sarà anche — indirettamente — una verifica dell’operato di quel giudice delle indagini preliminari. Pretendere che tale verifica sia compiuta da persone che si troveranno il giorno successivo in posizione reciproca; che avranno concordato, in riunioni d’ufficio, prassi e criteri comuni di comportamento; che avranno costituito, formalmente o informalmente, gruppi di lavoro su temi specifici; pretendere che nella naturale contiguità di un unico ufficio giudiziario si sviluppi un sereno rapporto di verifica e di critica dell’operato altrui è semplicemente illogico ».
— 1349 — riservato avrebbe potuto andare a decremento delle possibilità di crescita professionale (80). Sulla base di tali considerazioni, la citata Relazione illustrativa rileva come, tra le varie strade astrattamente percorribili, il legislatore abbia voluto imboccare quella volta a « sancire semplicemente l’obbligo di differenziare la persona che si occupa delle indagini da quella che procede all’udienza preliminare nell’ambito del singolo procedimento ». La differenziazione soggettiva tra il g.i.p. ed il g.u.p. evidenzia comunque l’acquisita consapevolezza della disomogeneità tra le due rispettive funzioni, ampiamente sottolineata del resto in sede dottrinale (81), ove proprio in considerazione di tale dato era stata da tempo ribadita la necessità di evitare il loro cumulo in capo ad uno stesso magistrato. L’intervento di riforma, come già accennato, ha inciso, con una chiara finalità di garanzia, anche sul piano strettamente codicistico, delineando, con l’art. 171 d.lgs 51/1998 (82), un’ulteriore serie di incompatibilità, mediante l’inserimento dell’art. 34 comma 2-bis c.p.p., in base al quale il magistrato che nel medesimo procedimento abbia esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari non può tenere l’udienza preliminare, nè emettere il decreto penale di condanna o partecipare alla successiva fase del giudizio. In sede di Relazione ministeriale illustrativa al d.lgs. n. 51 del 1998 è stato ribadito (83) che tale soluzione risultava almeno parzialmente imposta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1997, volta a dichiarare l’illegittimità dell’art. 34 comma 2 c.p.p., laddove detta norma non impediva che potesse pronunciarsi sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna il giudice per le indagini preliminari che, non ac(80) La Relazione illustrativa al decreto legislativo recante: « Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado », in Gazz. uff., 20 marzo 1998, n. 66, Suppl. ord. n. 2, 8, sottolinea infatti che la soluzione concretamente prescelta è apparsa come la più idonea « non soltanto perché maggiormente in linea con la lettera della legge delega, ma anche per ragioni di ordine sostanziale, afferenti segnatamente alla necessità di rafforzare gli uffici del giudice per le indagini preliminari (cui non sarebbe consentanea la rigida distinzione tra giudici per le indagini preliminari e giudici dell’udienza preliminare); all’esigenza di assicurare una razionale ripartizione dei carichi di lavoro (altrimenti ostacolata dalla discontinuità del flusso dei fascicoli dall’ufficio del pubblico ministero); all’opportunità, infine, di utilizzare al meglio la professionalità dei magistrati (certamente impoverita e svilita dalla radicale separazione delle due funzioni) ». (81) L. BRESCIANI, Giudice per le indagini preliminari, in Dig. disc. pen., vol. V, Torino, 1991, 485; P. DELLA SALA-A. GARELLO, L’udienza preliminare, cit., 60 ss.; E. LUPO, Il giudice nel nuovo sistema processuale, in Quad. CSM, 1989 (28), 68; F. RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia nelle indagini preliminari, Milano, 1996, 7 ss. (82) Per un’analisi di tale norma cfr. C. RIVIEZZO, Giudice unico di primo grado. Commento al d.lgs. n. 51 del 1998, in Gazz. giur., 1998, (Suppl. al n. 13), 72. (83) Relazione illustrativa, cit., 34.
— 1350 — cogliendo la richiesta di archivazione, avesse disposto l’imputazione coatta (84). Nella realtà occorre sviluppare un’analisi più articolata, non essendo sufficiente limitarsi a queste considerazioni. L’intervento legislativo operato sull’art. 34 c.p.p. ha infatti una valenza assolutamente innovativa, e non si pone sulla scia di precedenti pronunce della Corte costituzionale, nella parte in cui prevede l’incompatibilità alla partecipazione all’udienza preliminare nei confronti del magistrato che abbia precedentemente esercitato, con riferimento allo stesso procedimento, le funzioni di giudice per le indagini preliminari. In tal caso si è in presenza di un’ipotesi che la Corte ritenne estranea all’area dell’incompatibilità, in considerazione della natura meramente processuale del giudizio emesso all’esito dell’udienza preliminare, non coinvolgente valutazioni di merito sulla res iudicanda (85). Invece la Corte costituzionale aveva individuato un sensibile numero di casi di incompatibilità tra l’esercizio delle funzioni del giudice per le indagini preliminari e la celebrazione del successivo giudizio di merito. L’area dell’incompatibilità era stata tuttavia limitata alle sole ipotesi in cui (84) Corte cost., sent. 21 novembre 1997, n. 346, in Giur. cost., 1997, 3411, con nota di P.P. RIVELLO, Incompatibile a decidere sulla richiesta di emissione del decreto di condanna il giudice che abbia precedentemente disposto l’imputazione coatta. (85) Tale impostazione, già delineata con la sent. 12 novembre 1991, n. 401, in Giur. cost., 1991, 3487, con nota di P.P. RIVELLO, Un articolato intervento della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giudice, ed in Arch. nuova proc. pen., 1991, 695, con nota di F. NUZZO, Conoscenza degli atti delle indagini preliminari e presunte incompatibilità, era stata poi ribadita con le pronunce di manifesta infondatezza 30 dicembre 1991, n. 502, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 695; e 25 marzo 1992, n. 124, in Giur. cost., 1992, 1064. Peraltro, a seguito del « nuovo volto » assunto dall’udienza preliminare con l’intervento novellistico operato in relazione all’art. 425 c.p.p. dalla l. 8 aprile 1993, n. 105, che aveva eliminato il richiamo alla nozione di « evidenza », onde ampliare le possibilità di pervenire ad una sentenza di non luogo a procedere, appariva assai meno agevole rispetto al passato continuare a negare che il giudizio emesso all’esito dell’udienza preliminare avesse le connotazioni di un vero e proprio esame di merito. Venne pertanto riproposta, alla luce di tale modifica normativa, la questione di legittimità costituzionale concernente la sussistenza di un’eventuale incompatibilità a partecipare all’udienza preliminare per il giudice che abbia precedentemente compiuto una valutazione contenutistica sugli esiti delle indagini preliminari, quale quella che conduce all’imputazione coatta. La questione fu peraltro nuovamente dichiarata infondata dalla Corte costituzionale, con la sent. 5 febbraio 1996, n. 24, in Cass. pen., 1996, 1733, n. 981, essendosi ritenuto che anche dopo detto intervento novellistico potesse continuarsi ad affermare che il giudice dell’udienza preliminare non si esprime sul merito dell’accusa, dovendo valutare unicamente la legittimità della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero. Il giudice delle leggi ha invece ravvisato l’incompatibilità con riferimento alla partecipazione all’udienza preliminare nel rito penale minorile, in considerazione delle sue assolute peculiarità, che la rendono assolutamente disomogenea rispetto all’udienza celebrata nel rito « ordinario »: v. al riguardo Corte cost., sent. 22 ottobre 1997, n. 311, in Giur. cost., 1997, 2922, con nota di P.P. RIVELLO, Una particolare incompatibilità per l’udienza preliminare nel rito penale minorile.
— 1351 — l’attività del g.i.p. avesse condotto ad un intervento valutativo non formale, ma « contenutistico », in ordine ai risultati delle indagini preliminari. Ad esempio la sent. 496/1990 (86) ravvisò l’incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato per il magistrato che avesse disposto l’imputazione coatta ai sensi dell’art. 554 comma 2 c.p.p.; a detta pronuncia fece idealmente seguito dapprima la sent. 401/1991 (87), con cui fu dichiarata l’illegittimità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. « nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al successivo giudizio abbreviato il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale che abbia emesso l’ordinanza di cui all’art. 409 comma 5 del medesimo codice », e poi la sent. 502/1991 (88), che estese detta incompatibilità alle ipotesi di partecipazione al giudizio dibattimentale, nonché alla situazione verificabile qualora fosse stato chiamato a partecipare al giudizio il giudice per le indagini preliminari che avesse precedentemente rigettato la richiesta di decreto penale di condanna. A sua volta la fondamentale sent. 432/1995 (89) dichiarò l’illegittimità dell’art. 34 comma 2 c.p.p. « nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato »; nel solco di tale pronuncia vanno a loro volta inserite le successive decisioni 131/1996 (90) e 155/1996 (91). L’attuale intervento normativo si è comunque mosso in un’ottica più estesa, al fine di evitare la frammentazione casistica necessamente imposta dalle varie pronunce della Corte costituzionale, ed ha inglobato anche ipotesi estranee all’ambito interessato dagli interventi del giudice delle leggi. Si è così ulteriormente ampliata l’area delle incompatibilità (92), recependosi in tal modo tutta una serie di considerazioni già formulate all’e(86) Corte cost., sent. 26 ottobre 1990, n. 496, in Cass. pen., 1991, II, 1, con nota critica di M. VESSICHELLI, Ancora una discutibile pronuncia di illegittimità costituzionale. (87) Corte cost., sent. 12 novembre 1991, n. 401, cit. (88) Corte cost., sent. 30 dicembre 1991, n. 502, in Giur. cost., 1991, 4028. (89) Corte cost., sent. 15 settembre 1995, n. 432, in Giur. cost., 1995, 3371, con nota di P.P. RIVELLO, Un significativo mutamento d’indirizzo della Corte costituzionale: finalmente riconosciuta l’incompatibilità del magistrato chiamato a partecipare al dibattimento dopo aver adottato quale g.i.p. una misura cautelare personale; ed in Cass. pen., 1996, 433, con nota di E. SQUARCIA, Incompatibilità tra giudice della misura cautelare e giudice del dibattimento: un significativo « ripensamento » della Corte costituzionale. (90) Corte cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, cit. (91) Corte cost., sent. 20 maggio 1996, n. 155, in Cass. pen., 1996, 2858, n. 1606, annotata da P.P. RIVELLO, Con la sentenza n. 155/96 si avvia verso la conclusione una travagliata, ma feconda « stagione » di interventi additivi della Corte costituzionale sulla tematica dell’incompatibilità; e da C. CARRERI, Il bollino rosa. L’incompatibilità come misura della giurisdizione. (92) V. le considerazioni di R. BRICCHETTI, « Consacrata » l’incompatibilità tra g.i.p. e g.u.p., in Guida dir., Dossier mensile, 1998 (3) Il giudice unico di primo grado, Parte II, 161.
— 1352 — poca dell’elaborazione dell’attuale codice, ma che non avevano trovato una concreta traduzione normativa, proprio per il timore delle difficoltà pratiche derivanti da un’estensione del predetto ambito delle incompatibilità (93). In effetti la Commissione parlamentare in sede di Parere definitivo sul codice di procedura penale aveva espresso numeri dubbi circa l’eventualità che potesse partecipare all’ulteriore fase del giudizio il magistrato che in precedenza, relativamente alla stessa causa, avesse già emesso un provvedimento nel corso delle indagini preliminari, e nella Relazione al testo definitivo era stata sottolineata la fondatezza di simili perplessità, lucidamente esposte dalla dottrina con le seguenti affermazioni: « per evitare il rischio che il g.i.p. ‘‘perda la p’’ e torni ad essere surrettiziamente un g.i., occorre che il soggetto interveniente nel corso delle indagini preliminari con funzioni di garanzia (specialmente riguardo alle materie della libertà personale e delle comunicazioni, nonché della formazione ‘‘anticipata’’ della prova) non sia lo stesso che partecipa alla fase conclusiva delle medesime svolgendovi funzioni decisorie » (94). Tali considerazioni erano peraltro state ritenute subvalenti rispetto all’esigenza di garantire la funzionalità dell’apparato giudiziario, essendosi obiettato che, particolarmente nelle piccole sedi, un ulteriore incremento delle cause di incompatibilità avrebbe potuto condurre a situazioni di vera e propria paralisi (95). È quasi superfluo sottolineare la valenza dell’intervento riformatore operato, anche sotto questo aspetto, dal d.lgs. n. 51 del 1998. Per quanto concerne in particolare il divieto posto a carico del g.i.p. di esercitare nell’ambito dello stesso procedimento le funzioni di giudice per l’udienza preliminare va rilevato come in tal modo vengano rafforzate « le garanzie di neutralità del momento di ‘filtro’ » rappresentato dall’udienza preliminare (96), in un’ottica che, come osservato dalla dottrina, anche con riferimento all’intervento che ha interessato il profilo ordinamentale, appare finalizzata a rispondere « all’esigenza di estendere al giudice dell’udienza (93) Per un’analisi al riguardo si rinvia a V. GREVI, Il giudice come organo di garanzia e di controllo nelle indagini preliminari, in Quad. CSM, 1989 (28), 158 ss. (94) Cfr. G. UBERTIS, Sul progetto preliminare del codice di procedura penale, in questa Rivista, 1988, 1296. (95) Rel. testo def. c.p.p., in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, n. 250, Suppl. ord. n. 2, 169: « era stata segnalata l’opportunità di prevedere l’incompatibilità a partecipare al giudizio non solo del giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, ma anche del giudice che ha emesso un provvedimento durante le indagini preliminari; si è però osservato che tale limite comporterebbe rilevanti problemi organizzativi per i tribunali (una ventina) che dispongono di un organico di quattro magistrati (compreso il presidente): in questi uffici l’adozione di un provvedimento da parte di un giudice diverso dal giudice per le indagini preliminari (ad esempio, durante il periodo feriale) renderebbe assolutamente impossibile la formazione del collegio giudicante ». (96) G. SPANGHER, Processo penale da adeguare all’istituzione del giudice unico, loc. cit.
— 1353 — preliminare l’assoluta terzietà già propria del giudice del dibattimento » (97), permettendo di valorizzare maggiormente la funzione istituzionale di detta fase. Nell’ipotesi della cosiddetta « imputazione coatta », delineata dall’art. 409 comma 5 c.p.p., in mancanza di una simile previsione l’udienza preliminare finiva ad esempio col risultare svuotata di ogni effettivo significato, traducendosi in un inutile dispendio di energie processuali; il suo esito infatti appariva scontato a priori, non essendo seriamente credibile che lo stesso magistrato, dopo aver valutato i risultati delle indagini preliminari, individuando la sussistenza di circostanze tali da imporre la formulazione dell’imputazione, contraddicesse poi a distanza di pochi giorni le proprie precedenti analisi, smentendosi clamorosamente, e giungesse ad affermare, con una sentenza di non luogo a procedere, che dagli elementi presi in esame emergeva l’insussistenza del fatto o l’estraneità al reato da parte dell’imputato. Il diritto di difesa subiva così una palese compromissione, giacché le argomentazioni volte a sostenere la necessità di una pronuncia di non luogo a procedere non possono non ricalcare, inevitabilmente, quelle già sviluppate nell’udienza camerale disposta ex art. 409 comma 2 c.p.p., e ritenute purtuttavia insufficienti a suffragare la richiesta di archiviazione e ad evitare l’instaurazione dell’azione penale, attraverso il meccanismo dell’imputazione coatta. Come è stato acutamente osservato, se il g.i.p. respinge la richiesta di archiviazione, ordinando al p.m. di formulare l’imputazione, l’udienza, qualora non venga delineata un’ipotesi di incompatibilità, si svolge « in un clima davvero singolare, in una dimensione quasi comica », in quanto il giudice, chiamato a decidere imparzialmente tra il rinvio a giudizio e l’emissione di una sentenza di non doversi procedere, appare « in realtà a priori orientato verso il rinvio, dato il rifiuto opposto al pubblico ministero di archiviare la notizia di reato » (98). Nel corso dell’iter che ha condotto all’emanazione della « legge Carotti » la tematica concernente l’incompatibilità del g.i.p. a svolgere l’udienza preliminare nell’ambito dello stesso procedimento o a partecipare al successivo giudizio ha poi costituito oggetto di proposte aggiuntive o sostitutive di ampiezza assai diversa fra loro, accomunate soltanto dalla volontà di attenuare la portata dell’art. 34, comma 2-bis c.p.p. Si riteneva (97) Cfr. F. PASI-L. RICCOMAGNO, Modifiche all’ordinamento giudiziario per l’istituzione del giudice unico, in Dir. pen. proc., 1998, 547. (98) P. FERRUA, Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare, in ID., Studi sul processo penale, vol. I, Torino, 1990, 64-65; in tal senso v. altresì P. DELLA SALA-A. GARELLO, L’udienza preliminare, cit., 61, ove si rilevava che in caso di ricorso al meccanismo di cui all’art. 409 comma 5 c.p.p. « l’udienza preliminare eventualmente tenuta dal giudice delle indagini preliminari risulterebbe del tutto pleonastica »; nonché G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 1996, 42.
— 1354 — infatti eccessivo l’allargamento dell’area dell’incompatibilità, con riferimento alle ipotesi in cui non sia dato rinvenire il rischio di un’effettiva « prevenzione » del giudice. In una prima fase di detto iter il legislatore sembrò accogliere l’impostazione che aveva caratterizzato i vari inteventi della Corte costituzionale, volta a limitare l’area delle incompatibilità alle sole ipotesi in cui l’attività del g.i.p. abbia condotto ad un intervento valutativo non formale, ma « contenutistico », in ordine ai risultati delle indagini preliminari. Conseguentemente fu proposto di sostituire l’art. 34 comma 2-bis c.p.p., onde prevedere unicamente che non potesse celebrare l’udienza preliminare nè partecipare al giudizio o emettere il decreto penale di condanna il giudice che nel corso del medesimo procedimento avesse disposto, autorizzato, convalidato o prorogato le intercettazioni telefoniche; avesse emesso un provvedimento di applicazione, sostituzione, revoca di una misura cautelare, o di rigetto dell’istanza di applicazione, sostituzione o revoca di una misura cautelare; fosse intervenuto in sede di riesame su una misura cautelare; avesse imposto la c. d. « imputazione coatta » o adottato comunque un provvedimento atto a far presupporre la formazione di un previo convincimento sulla responsabilità del soggetto sottoposto a procedimento. Questa formulazione è stata abbandonata in sede di approvazione del testo definitivo, che ha mantenuto nella sua integralità l’originario disposto dell’art. 34 comma 2-bis c.p.p. Si è peraltro pervenuti, attraverso l’aggiunta di un comma 2-ter all’art. 34 c.p.p., ad una formulazione volta ad elencare i casi esclusi dall’ambito dell’incompatibilità prefigurata dal comma 2-bis. Trattasi di situazioni nelle quali il legislatore ha ritenuto possibile escludere a priori il rischio della formazione di un previo convincimento tale da pregiudicare la successiva obiettività e serenità del giudizio. Vengono infatti richiamati provvedimenti, quali i permessi di colloquio, nonché quelli concernenti la restituzione in termini o la dichiarazione dello stato di latitanza, che non implicano una valutazione sul merito della causa. La soluzione adottata risulta dunque volta ad evitare la susssistenza di ipotesi in cui l’incompatibilità avebbe dovuto essere dichiarata pur in assenza di un’effettiva ratio giustificatrice. dott. PIER PAOLO RIVELLO
BREVI RIFLESSIONI IN TEMA DI PRESENTAZIONE DELLE LISTE TESTIMONIALI
SOMMARIO: 1. Le prescrizioni dell’art. 468 c.p.p. nelle interpretazioni della giurisprudenza: a) la tendenza dei giudici di merito. — 2. (Segue): b) il prevalente orientamento della Cassazione. — 3. La funzione della ‘‘lista’’ nel sistema processuale del c.p.p. del 1930 e nel sistema attuale. — 4. La par condicio, passaggio obbligato nella preparazione del contraddittorio. — 5. L’informato rapporto del giudice con la fonte e il tema di prova, necessaria premessa per un regolare esame incrociato. — 6. Il ‘‘nuovo’’ art. 468 c.p.p. e le audizioni sul fatto altrui degli imputati dello stesso processo e del procedimento connesso. — 7. ll divieto di assumere informazioni ex art. 430-bis c.p.p. — 8. Dall’esposizione introduttiva del p.m. alle richieste di prova delle parti. — 9. La citazione frazionata dei testimoni. — 10. I casi di inammissibilità.
1. Le prescrizioni dell’art. 468 c.p.p. nelle interpretazioni della giurisprudenza: a) la tendenza dei giudici di merito. — La disciplina relativa alla presentazione delle liste prevista dall’art. 468 c.p.p. (‘‘integrata’’ dall’intervento legislativo del dicembre del 1999 (1)), a causa forse della non felice formulazione codicistica (2), è stata oggetto di pronunce non sempre uniformi della giurisprudenza di merito e di legittimità: posizioni differenziate sulla riconducibilità del vizio dell’inammissibilità al tardivo deposito delle liste e alla mancata indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame, e sul grado di specificità richiesto per l’indicazione delle suddette circostanze (3); un profilo quest’ultimo che merita una particolare attenzione. (1) L’originaria formulazione dell’art. 468 c.p.p. è stata modificata dall’art. 38 della l. n. 479/99 (c.d. Legge Carotti). Per un puntuale commento sulla norma in questione e, comunque, sull’intero ‘‘pacchetto normativo’’ v., AA.VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale, in Le nuove leggi penali (commenti a prima lettura coordinati da A.A. Dalia e M. Ferraioli), Milano, 2000; AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 2000. (2) G. ILLUMINATI (Ammissione e acquisizione della prova nell’istruzione dibattimentale, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, Torino, 1999, p. 67), definisce « anodina » la formula adottata dal legislatore nel comma 1 dell’art. 468 c.p.p. (3) È prevalente in giurisprudenza un’interpretazione riduttiva delle ipotesi di inammissibilità riconducibili esclusivamente all’omesso deposito delle liste entro il termine di sette giorni, e non anche alla mancata indicazione delle circostanze (v. Cass., IV, 3 febbraio 1994, Romoli, in Cass. pen., 1995, p. 1537; Cass., III, 2 dicembre 1992, Di Fonzo, in Arch. N. proc. pen., 1994, p. 260; Cass., II, 7 ottobre 1992, Carnabuci, in Cass. pen., 1994, p.
— 1356 — Nei primi anni di applicazione del codice vigente la giurisprudenza di merito aveva più volte escluso che l’indicazione delle circostanze ai fini dell’esame potesse ridursi all’enunciazione di fatti oggetto dell’imputazione o, in alternativa, ad un rinvio ai fatti comunque emersi nel corso delle indagini preliminari (4). L’interpretazione muoveva da una precisa delimitazione delle forme della richiesta ex art. 468 c.p.p.. L’indicazione delle circostanze non poteva essere avulsa da un coefficiente di specificità insito nell’operazione (5). Circostanziare il fatto significa specificarlo (6), secondo le funzioni proprie della ‘‘lista’’ e in base alla versione dei fatti sostenuta dalla parte (7). Neppure il richiamo al fatto oggetto di imputazione, quale tema di 321; Cass., IV, 19 dicembre 1991, Colombo, in Foro it., 1992, II, p. 452). Recentemente qualche decisione della Corte di cassazione sembra propendere per una diversa soluzione: « La sanzione di inammissibilità prevista dall’art. 468 comma 1 c.p.p. riguarda non soltanto il tardivo deposito della lista ma anche la mancata indicazione delle circostanze sulle quali deve vertere l’esame dei testi » (v. Cass., VI, 17 aprile 1998, Piccardi, in Cass. pen., 1999, p. 2877). Su queste posizioni si è attestata la dottrina nel sostenere che l’inammissibilità interessi anche l’ipotesi della mancata indicazione delle circostanze. Una diversa soluzione renderebbe, infatti, assolutamente impraticabile l’esercizio del diritto alla prova contraria, garantito dal comma 4 dello stesso art. 468 c.p.p. (v. G. UBERTIS, Giudizio di primo grado [disciplina del] nel diritto processuale penale, in Dig. delle Disc. pen., vol. V, Torino, 1991, p. 525; A. NAPPI, Guida al codice di proc. pen., Milano, ed. 2000, p. 433; D. SIRACUSANO, Il giudizio, in AA.VV., Dir. proc. pen., vol. II, Milano, 1999, p. 311). Come sarà meglio rilevato nel presente saggio, il vero problema da risolvere è quello relativo agli effettivi contenuti dello schema attinente alla ‘‘mancata indicazione delle circostanze’’. Bisogna stabilire se questo schema includa le sole ipotesi di ‘‘omissione formale’’ dell’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame o si estenda ai casi di indicazione ‘‘insufficiente’’, perché non ancorata espressamente alle ‘‘circostanze’’ e al quoziente di specificita insito in esse. (4) Cfr. Ass. Cassino, 18 giugno 1990, Schiavi, in Arch. N. proc. pen., 1991, p. 93, con nota di F. ASSANTE, Brevi note sull’ammissione delle prove di cui all’art. 468 del codice di procedura penale; Trib. Torino, 9 aprile 1991, Sorrenti, in Cass. pen., 1991, II, p. 761. Sempre nella giurisprudenza di merito, in netto dissenso, v. Pret. Perugia, 13 dicembre 1991, in Arch. N. proc. pen., 1992, p. 260. Secondo tale diverso orientamento la sanzione dell’inammissibilità, prevista dall’art. 468 comma 1, avrebbe operato solo in caso di omessa indicazione delle circostanze e non nell’ipotesi di formulazione inesatta, incompleta o sommaria delle medesime. (5) V. Trib. Roma, 18 giugno 1991, Blasi, in Giur. it., 1992, II, p. 261; Trib. Cassino, 11 aprile 1991, Salvatore, in Foro it., 1991, II, p. 468. (6) La giurisprudenza di merito ha sempre escluso, comunque, che l’esigenza di specificità potesse richiedere un’indicazione attraverso veri e propri ‘‘articolati di prova’’ sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile (cfr. Trib. Milano, 15 gennaio 1991, Bordigon, in Arch. N. proc. pen., 1991, p. 770; Trib. Venezia, 11 ottobre 1990, ivi, 1990, p. 577). In dottrina v. P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, vol. II, Torino, 1992, p. 97 per il quale l’esigenza di specificità non può condurre a ritenere che le parti siano costrette a « presentare anticipatamente quasi una griglia delle domande formulabili nell’esame orale ». (7) Cfr. Trib. Cassino, 7 marzo 1991, D’orazio, in Cass. pen., 1991, II, p. 648.
— 1357 — prova, avrebbe conferito specificità alla richiesta della parte (8). Avrebbe potuto svelarne la ‘‘rilevanza’’, non potendo la richiesta discostarsi dal tema, oggetto dell’imputazione (9). Ma non la specificità, legata ad un sottotema rispetto al tema principale, ricomposto con « l’indicazione degli elementi di fatto che la parte intende dimostrare attraverso l’esame della persona chiamata a testimoniare » (10). Con una deduzione, quindi, ‘‘non neutrale’’ del tema, ma effettivamente agganciata alla versione dei fatti sostenuta dalla parte (11). Una sola deroga a questa chiara presa di posizione veniva rintracciata nei casi in cui il riferimento al capo d’imputazione non si prestava all’elaborazione dibattimentale di prove a sorpresa. « Qualora il fatto oggetto d’imputazione sia caratterizzato da una unicità di condotta e di evento e riguardi un solo episodio nel tempo, ragione per cui la dizione generica è suscettibile di univoca interpretazione » (12). Per la giurisprudenza che stiamo esaminando anche il rinvio agli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero sarebbe stata modalità assolutamente generica (13), non potendo garantire il contraddittorio (14). Neppure la richiesta della parte, ancorata alla « conferma » di una precedente acquisizione (15), sarebbe stata in linea con le prescrizioni dettate dall’art. 468 c.p.p.; sarebbe mancata l’articolazione della prova, possibile se proiettata dai ‘‘fatti’’ emersi nel corso delle indagini preliminari alle ‘‘circostanze’’ dell’esame da effettuare nel dibattimento. « Posto che l’art. 468 c.p.p. richiede l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame è da ritenere inammissibile l’esame del teste, ove il p.m. abbia omesso di indicare, sia pure sommariamente, le circostanze sulle quali l’esame avrebbe dovuto vertere » (16). (8) V., ancora, Trib. Cassino, 11 aprile 1991, Salvatore, cit., p. 468. (9) V. Trib. Min. Milano, 19 giugno 1990, in Crit. Dir., 1990, n. 6, p. 44. I fatti dell’imputazione costituiscono, quindi, un « limite oggettivo al potenziale espandersi dei poteri di acquisizione e di formazione probatoria » (V. GREVI, Prove, in AA.VV., Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova, ed. 2000, p. 286). (10) Trib. Torino, 9 aprile 1991, Sorrenti, cit., p. 761. (11) V. Pret. Torino, 28 febbraio 1990, Prono, in Giur. it., 1990, II, p. 231. (12) Trib. Vigevano, 9 maggio 1991, Manzoni, in Arch. N. proc. pen., 1991, p. 420. In dottrina v. G. UBERTIS, Giudizio di primo grado, cit., p. 525, il quale fa riferimento all’ipotesi in cui « un fatto semplice possa anche coincidere con un fatto ‘‘primario’’, cioè con un referente storico integrante un elemento della fattispecie normativa; o addirittura, qualora tale fattispecie sia costituita da un unico elemento, con lo stesso ‘‘fatto principale’’ ». (13) Cfr. Trib. Roma, 18 giugno 1991, Blasi, cit., p. 261; Trib. Cassino, 7 marzo 1991, D’orazio, cit., p. 648; Ass. Cassino, 18 giugno 1990, Schiavi, cit., p. 93. (14) V. Pret. Torino, 28 febbralo 1990, Prono, cit., p. 231. (15) V. Trib. Cassino, 7 marzo 1991, D’orazio, cit., p. 648: « È inamissibile... in un procedimento per bancarotta, la richiesta del p.m. di sentire il curatore fallimentare a conferma delle relazioni presentate al giudice delegato ». (16) Trib. Roma, 18 giugno 1991, Blasi, cit., p. 261.
— 1358 — 2. (Segue): b) il prevalente orientamento della Cassazione. — La Cassazione, in chiara controtendenza rispetto a quanto sostenuto dai giudici di merito, puntava sulla flessibilità delle forme da adottare per le richieste previste dall’art. 468 c.p.p.. La Suprema Corte, fin dai primi anni di applicazione del nuovo codice, ha scartato l’ipotesi di forme necessariamente ancorate alla specifica indicazione delle circostanze (oggetto d’esame) ed ha optato per una semplificazione delle stesse, che non pregiudicasse però le ‘‘funzioni’’ della lista (17). Su questa linea si è consolidata la successiva giurisprudenza. L’obbligo dell’indicazione delle circostanze, oggetto dell’esame dei testimoni, è soddisfatto « ... anche quando sia possibile dedurre per relationem che la persona indicata è tra i protagonisti e/o soggetti, pure passivi, dei fatti specificati articolatamente nel capo d’imputazione e le circostanze sulle quali è chiamata a deporre sono ricomprese in esso o in altri atti che debbono essere noti alle parti » (18). Insomma ciò che importa, ai fini dell’autorizzazione alla citazione, è l’indicazione della ‘‘fonte’’ di prova, del teste da escutere e non la specificazione del tema di prova, cioè la testimonianza da acquisire. La stessa indicazione del teste da escutere — specie se ‘‘qualificato’’ (19) — serve ad informare sulla testimonianza (in ogni sua possibile articolazione). L’indicazione specifica e diretta delle circostanze su cui dovrebbe vertere l’esame dei testi sarebbe necessaria solo nelle ipotesi in cui le circostanze si discostino dal capo d’imputazione, ampliando così la tematica proposta nell’istruzione dibattimentale (20). (17) Cass., I, 22 aprile 1991, Piloni, in Cass. pen. 1992, p. 2389. Contra in dottrina v. G. ILLUMINATI (Ammissione e acquisizione della prova, cit., p. 68), per il quale un siffatto orientamento varrebbe ad esentare il pubblico ministero dall’onere di far conoscere all’imputato su cosa verterà l’esame dibattimentale. (18) V., in questi termini, Cass., IV, 2 dicembre 1999, Longino e altri, in Guida dir. Il Sole-24 Ore, 2000, n. 18, p. 84; cfr., altresì, Cass., I, 25 giugno 1999, Gusino e altro, in CED Cass., n. 160568; Cass., VI, 28 ottobre 1994, Vianello, in CED Cass., n. 201803; Cass., VI, 16 giugno 1992, Pani, in Cass. pen., 1994, p. 321; Cass., VI, 11 giugno 1992, Orofino, in Arch. N. proc pen., 1993, p. 123. (19) La ‘‘qualifica’’ attiene alla particolare posizione giuridica che il soggetto assume all’interno del processo. Ci si riferisce, insomma, a consulenti, periti, soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. e comunque a tutti coloro la cui deposizione assume rilevanza proprio in funzione della specifica qualifica professionale o processuale (cfr. Cass., II, 12 dicembre 1995, Vezzoso, in Cass. pen., 1997, p. 2206). Per questi soggetti la qualifica rivestita farebbe desumere agevolmente il tema su cui dovrebbe vertere l’esame (v. Cass., VI, 17 aprile 1998, Piccardi, in Cass. pen., 1999, n. 2877). (20) Cfr. Cass., I, 20 novembre 1995, Florio, in Gius. pen., 1997, III, p. 116. L’onere della parte verrebbe, così, assolto, se nel capo di imputazione vi fosse una sufficiente specificazione degli estremi dell’accusa, quanto meno in limiti di essenzialità (v., Cass., III, 25 settembre 1992, Tondi, in Cass. pen., 1994, p. 322); con una più articolata argomentazione v., a titolo esemplificativo, Cass., IV, 25 settembre 1995, Aligliò, in Cass. pen., 1997, p. 91: « Non sussiste violazione dell’art. 468 c.p.p. nell’ipotesi di ammissione di testi indicati dal
— 1359 — Basta, quindi, che la parte si richiami al capo di imputazione per introdurre un tema di prova, che consente all’altra parte di preparare la propria linea difensiva ed eventualmente chiedere la prova contraria (21). È sufficiente che accenni al ‘‘fatto’’ fissato nel capo di imputazione per orientare sulle ‘‘circostanze’’ dell’esame (e sulle connesse possibili specificazioni dell’escussione). L’art. 468 comma 1 c.p.p. imporrebbe altro: una dettagliata specificazione del tema di prova (o di un sottotema coniato dall’oggetto dell’imputazione) sortirebbe, all’opposto, effetti non consentiti, con una deposizione chiamata a ‘‘ripetere’’ una testimonianza predisposta nel suo complesso (22); sarebbero escluse le ‘‘forme’’, che finirebbero per legittimare ‘‘domande che tendono a suggerire le risposte’’ (23); tutte le altre forme p.m. in liste sfornite della indicazione delle circostanze sulle quali dovrebbero essere esaminati e contenenti un mero riferimento ai fatti oggeto dell’imputazione. Ed invero, la finalità perseguita dal legislatore con la previsione del citato art. 468 c.p.p. di tutelare le parti del processo contro l’introduzione di eventuali prove a sorpresa e di consentire loro la tempestiva predisposizione di proprie controdeduzioni è soddisfatta in modo sufficiente mediante il semplice riferimento all’oggetto della imputazione, quando la formulazione di quest’ultima contenga concretamente l’indicazione degli elementi essenziali della fattispecie di cui l’imputato è chiamato a rispondere ». La possibilità di vagliare gli ‘‘elementi essenziali’’ della fattispecie (di cui l’imputato è chiamato a rispondere) consentirebbe, insomma, a quest’ultimo di prevedere le ‘‘circostanze’’ oggetto dell’esame dibattimentale. È bene, però, ricordare che la rilevazione degli ‘‘elementi essenziali’’ non sempre coincide con l’ ‘‘univoca interpretazione’’ (ipotizzata dalla giurisprudenza di merito: v. retro nota n. 12) e che la ripercussione sulle richieste di prova va in ogni caso misurata in base alla ‘‘versione dei fatti’’ scelta dalla parte. (21) V. Cass., II, 17 settembre 1992, Zaroli, in Arch. N. proc. pen., 1992, p. 689. A. AVANZINI, L’esame dibattimentale delle fonti di prova personale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, p. 46, suggerisce di evitare, comunque, « ... un rigore formalistico eccessivo ». Sarebbero idonee indicazioni per relationem qualora risultasse a priori evidente su quale circostanza verrebbe escusso il teste. In tal modo, infatti, si garantirebbe, comunque, la possibilità di effettuare eventuali citazioni a prova contraria. (22) « Il fulcro del sistema accusatorio, infatti, è costituito dalla più ampia possibilità di esame e controesame nel contraddittorio contestuale e rifugge, quindi, dall’analitica scomposizione ed anticipata enunciazione dei fatti da provare, nonché dalle conseguenti esclusioni che sono tipiche delle prove legali. L’esigenza di lealtà processuale che si esprime nella discovery è soddisfatta quando l’individuazione dell’oggetto dell’esame sia idoneo a consentire il diritto alla controprova » (cfr. Cass., VI, 11 dicembre 1992, Ferroni, in Cass. pen., 1994, p. 1552). In dottrina v. F. PERONI, Sull’onere di allegazione di cui all’art. 468 c.p.p., in Cass. pen., 1993, p. 1154; G. BONETTO, in Comm. Chiavario, IV, sub art. 468 c.p.p., p. 47; P.P. RIVELLO, Liste testimoniali e indicazione dl circostanze per l’esame, in Giust. pen., 1993, III, p. 181. (23) Si è giustamente affermato che una vera e propria capitolazione della prova, attraverso un’indicazione eccessivamente dettagliata, potrebbe tradursi quantomeno in una forte agevolazione del teste. Ciò comporterebbe una violazione del divieto di domande suggestive posto dal comma 3 dell’art. 499 c.p.p. (v. P.P. RIVELLO, Il dibattimento nel processo penale, Torino, 1997, p. 75). In senso conforme in giurisprudenza v. Cass., I, 21 gennaio 1992, Daniele, in Cass. pen., 1993, p. 1796 (con nota di M. COLAMUSSI, In tema di domande
— 1360 — di proposizione del tema di prova, consentendo il contraddittorio, non sarebbero contra legem (24). Tale orientamento, ribadito anche di recente, ha ribaltato le posizioni, assunte dalla giurisprudenza di merito, circa il grado di specificazione delle circostanze (su cui deve vertere l’esame): anche un rinvio per relationem agli atti delle indagini preliminari consente alla controparte un’adeguata preparazione del contraddittorio nell’ambito di un comune thema probandum (25), e al giudice la necessaria verifica sull’utilità (o inutilità) delle richieste rispetto al tema proposto (26). In queste conclusioni della giurisprudenza si esprimono perfettamente le funzioni della lista (destinata a svelare le cadenze impresse dalla parte all’istruzione dibattimentale) (27) e del predibattimento (prodromico al dibattimento ed essenziale per una lineare organizzazione dello stesso) (28). « suggestive » nell’esame testimoniale): « ... la formulazione di domande tramite il capitolato di prova si risolve in una mera ripetizione di una testimonianza predisposta nel suo complesso e rende pertanto agevole ed unilaterale la risposta ponendosi così in contrasto con l’art. 499, comma 3 c.p.p. che vieta di porre domande che tendano a suggerire le risposte ». Per A. NAPPI, Guida, cit., p. 432, si tratterebbe, però, di un’affermazione eccessiva, perché non necessariamente le domande formulate preventivamente per iscritto sono tali da suggerire la risposta. (24) « L’onere di indicazione delle circostanze sulle quali deve vertere l’esame testimoniale, gravante sulla parte che lo richiede, deve ritenersi adempiuto quando alle altre parti venga consentito di richiedere la prova contraria, per modo che sia garantita la regolarità del contraddittorio, relativamente all’acquisizione dibattimentale dei mezzi di prova » (Cass., II, 2 dicembre 1992, Di Fonzo, in Cass. pen., 1995, p. 306). (25) Il diritto alla prova contraria, sancito dal comma 4 dell’art. 468 c.p.p., incontra un ben preciso limite: può essere esercitato solo in relazione alle medesime circostanze indicate nelle liste di controparte. È evidente che la mancata o generica indicazione, impedendone una chiara decifrazione, neutralizzerebbe ab origine tale facoltà (cfr. E. FASSONE, Il giudizio, in FORTUNA-DRAGONE-FASSONE-GIUSTOZZI-PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1992, p. 671). (26) La giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito come il meccanismo processuale di presentazione delle liste testimoniali assicuri una vera e propria discovery rispettosa del principio dispositivo e volta a garantire un effettivo e corretto contraddittorio, scongiurando l’introduzione di prove a sorpresa (cfr. Cass., VI, 3 febbraio 1994, Romoli, in CED Cass., n. 197981; Cass., V, 12 luglio 1990, Malena, in Cass. pen., 1990, I, p. 388). Sul punto, in dottrina, v. E. ZAPPALÀ, Una nuova ‘‘dimensione’’ del giudizio ordinario di primo grado, in Legisl. pen., 1990, p. 20. (27) « La norma di cui al comma 1 dell’art. 468 c.p.p. ha, fra le sue varie funzioni, anche quella, esplicitamente prevista dal comma 4 del medesimo articolo, di permettere alla controparte la prova contraria; sotto tale profilo, la genericità delle circostanze dedotte con la lista depositata dei testi priverebbe la controparte della possibilità di efficacemente e tempestivamente individuare e presentare in dibattimento quelle prove orali capaci di infirmare il valore delle prove della parte proponente » (Cass., II, 17 novembre 1992, Trani, in Cass. pen., 1994, p. 323). (28) G. LOZZI, Lezioni di proced. pen., Torino, ed. 2000, p. 450, afferma che la presentazione delle liste testimoniali costituisce momento essenziale e non meramente acciden-
— 1361 — Le perplessità suscitate da tale impostazione tuttavia non sono poche (29). Né talune innovazioni apportate al tessuto normativo (nei dispositivi relativi all’introduzione e alla scansione temporale delle varie prove) riescono certo a dissiparle. Si tratta di sapere allora se sfasature e squilibri non debbano rinvenire, invece, le indispensabili composizioni fuori dai circoscritti ambiti, dedicati dal codice alla regolamentazione delle liste (30). 3. La funzione della ‘‘lista’’ nel sistema processuale del c.p.p. del 1930 e nel sistema attuale. — L’idea che la funzione delle liste (con le conseguenti delibazioni da parte del giudice) e del predibattimento nel sistema del codice vigente coincida con il sistema del codice « Rocco » va precisata (31). Ancorata ad un sistema, come quello del codice del 1930, che faceva dell’istruzione il centro di gravità del processo, il possibile rinvio del contenuto della ‘‘lista’’ agli atti di istruzione appariva di certo in linea con la normativa allora vigente. Anzitutto per ciò che atteneva alla posizione e agli interessi della controparte, che non correva il rischio di prove a sorpresa e non incontrava ostacoli all’esercizio della controprova: tale del predibattimento ed esplica un’inequivocabile funzione preparatoria delle prove da assumere nel successivo dibattimento. In senso conforme v., in giurisprudenza, Cass., I, 4 aprile 1995, Rizzo, in CED Cass., n. 201938. (29) Sono parimenti criticabili le indicazioni attraverso stereotipate clausole di stile quali « a conferma di quanto visto o constatato » o « affinché riferiscano su ogni altra informazione avente riflesso sul procedimento ». Nel senso dell’inammissibilità di simili indicazioni v. Cass., V, 6 luglio 1992, Trottini, in Giust. pen., 1993, III, p. 83: « se è vero che l’art. 468, comma 1 c.p.p., non richiede una dettagliata, esasperante, specificazione di tutti gli elementi attinenti al fatto che costituisce oggetto della deposizione, è altresì vero che non è consentito andare all’eccesso opposto, e cioè effettuare indicazioni sostanzialmente generiche; e sono tali le indicazioni che non consentono all’altra parte di conoscere i punti (circostanze di fatto) sui quali si deve difendere, e quindi di indicare testimoni per efficacemente contrastare su tali punti. L’indicazione di testimoni ‘‘sul fatto di cui all’imputazione’’ è sufficiente a consentire il diritto di difesa nei termini sopra riferiti se il capo di imputazione indichi in qualche modo le modalità del fatto, i mezzi usati, il tipo di conseguenze. L’indicazione di testimoni ‘‘sugli accertamenti eseguiti’’ è generica in quanto non contiene la minima, necessaria, precisazione su chi abbia effettuato tali accertamenti e sul tipo, oggetto, risultato degli stessi » (la citazione è tratta da P.P. RIVELLO, Il dibattimento, cit., p. 75). (30) E attinenti, oltre che al ius postalandi delle parti, anche alla preparazione dell’istruzione dibattimentale, da organizzare attraverso una valutazione preliminare del giudice che non può prescindere dall’introduzione della prova, nei termini richiesti dalle parti. (31) Saldata all’esigenza della discovery la lista soddisfa effettivamente tale esigenza a queste condizioni. La prima: in quanto idonea a realizzare il diritto delle parti di controdedurre secondo i parametri di un’effettiva par condicio sui fatti dedotti a prova di una determinata circostanza dalla parte contrapposta. Se in tal senso pianifica gli oneri delle parti nelle richieste in punto di prova e rende comune fra di loro il thema probandum. La seconda: in quanto riconosce al giudice la possibilità di un’informata predisposizione del rapporto con il tema e con la fonte di prova e se gli consente un adeguato controllo sulla sovrabbondanza della richiesta.
— 1362 — la disponibilità degli atti dell’istruzione (formale o sommaria), come prove di un processo in corso di svolgimento, consentiva di prefigurare gli ampi spazi riservati alle letture e di circoscrivere le residue aree destinate (attraverso le indicazioni delle liste) agli approfondimenti (32). Lungo gli stessi itinerari poteva svolgersi il discorso circa il controllo da parte del giudice del predibattimento: le scarse indicazioni della lista non gli offuscavano l’informazione sugli atti ‘‘richiamati’’ dalla parte, già ampiamente conosciuti con la trasmissione del fascicolo (dell’unico fascicolo) dopo il rinvio a giudizio (33). La lista, in qualsiasi modo redatta, non scalfiva la realtà della vicenda soggettivamente e oggettivamente complessa. La simultanea partecipazione del giudice e delle parti serviva perfettamente allo scopo, con tutti i soggetti processuali chiamati ad « esprimere le esigenze e le necessità con riguardo al dibattimento al quale ciascuno dovrà partecipare » (34). Tendeva, così, ad « ... assicurare tutto ciò che è necessario e utile (eliminando ciò che è dannoso e inutile) allo svolgimento del processo » (35). A diverse conclusioni — se non si va errati — deve prevenirsi con riferimento all’attuale impianto normativo. A fare la differenza concorrono almeno due fattori: a) la spiccata unilateralità degli atti compiuti nel corso delle indagini preliminari; b) la previsione del doppio fascicolo e soprattutto lo scarno contenuto del fascicolo per il dibattimento. Le indagini preliminari, in quanto indagini del p.m., rendono sicuramente praticabile (anche se non ortodosso) il modus procedendi della for(32) La vecchia formula dell’art. 415 c.p.p 1930 richiedeva una puntuale indicazione dei fatti e delle circostanze in relazione ai quali veniva richiesto l’esame, solo relativamente ai testi che non erano stati sentiti nell’istruzione (art. 415 comma 3 c.p.p. 1930). Ciò non solo per consentire alla controparte di apprestare le necessarie contromosse; ma anche per permettere al giudice del dibattimento un più stringente controllo su un’attività a lui ignota. La specificazione era così richiesta solo per quelle prove per le quali non sarebbe stato possibile per il giudice reperire alcune elemento tra gli atti del processo per poterne valutare ex ante sia la rilevanza che la non sovrabbondanza (con riferimento alla disciplina previgente delle liste testimoniali cfr. F. CORDERO, Proc. pen., Milano, ed. 1982, p. 505). (33) La presentazione della lista concorreva (e concorre), per dirla con G. FOSCHINI (Sistema del diritto processuale penale, vol. II, Milano, 1968, p. 283), alla ‘‘funzione generativa’’ che il predibattimento assolve rispetto al dibattimento. (34) Secondo G. FOSCHINI, Sistema, cit., p. 280, la presentazione delle liste richiedeva un’attività di produzione delle parti e un’attività valutativa di ammissione ad opera del giudice. Attività che avrebbe, inevitabilmente, inciso sullo stesso modo di essere concreto del dibattimento. (35) V., ancora, in questi termini, G. FOSCHINI, Sistema, cit., p. 280. L’autore operava una tripartizione della ‘‘funzione generativa’’ del predibattimento, a cui sarebbe corrisposta una divisione in tre distinte e coordinate fasi, da intendere in senso ‘‘preponderantemente logico più che cronologico’’. Queste fasi si potevano sommariamente riassumere nella fase della prelibazione, relativa al ‘‘se’’ del dibattimento; la fase della preordinazione, relativa al ‘‘quando-dove’’ del dibattimento medesimo; la fase della predisposizione, relativa al ‘‘come’’ del dibattimento.
— 1363 — mazione di una lista che rinvia agli atti d’indagine condotti dall’ufficio della Procura (e inseriti, appunto, nel fascicolo del p.m.). In un sistema che non disciplina (o non disciplina convenientemente) l’indagine difensiva (36) le possibilità, riservate al p.m. e negate alla difesa, finiscono per creare indubbi squilibri nella ripartizione degli oneri (37). A differenza di quanto avviene per il pubblico ministero, alla difesa spetta specificare, con la lista ex art. 468 c.p.p. le ‘‘circostanze’’ su cui deve vertere l’esame (e non saldate a particolari atti di indagine della difesa) (38). Il predibattimento spiana, così, la via al contraddittorio (con l’osservanza delle forme previste dall’art. 468 c.p.p.), ma non può certo assicurare la par condicio (39). 4. La par condicio, passaggio obbligato nella preparazione del contraddittorio. — Quando la lista del p.m. rinvia al ‘‘capo d’imputazione’’, o ad atti di indagine soggettivamente e oggettivamente complessi, la condizione di inferiorità della parte privata dipende proprio dalla ritardata selezione delle ‘‘circostanze’’ su cui il pubblico ministero deciderà di condurre l’esame. Il capo di imputazione o gli atti di indagine enucleano il ‘‘fatto’’ nel suo complesso, così come ‘‘ricostruito nel procedimento’’, e non pongono in particolare luce le ‘‘circostanze’’ da valorizzare per la ‘‘verifica nel processo’’ (40). La selezione di queste circostanze avviene (36) Si tratta, a tutt’oggi, di una normativa che O. DOMINIONI (Le investigazioni dei difensori, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Milano, 1997, p. 85) definisce « in progress »; assai lontana « da un approdo compiuto e adeguato ai problemi che solleva ». (37) In generale sulla tematica dell’onere probatorio v. F. CORDERO, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 40. Ricorda P.P. RIVELLO, Il dibattimento, cit., p. 73, come la dottrina italiana, richiamando un’impostazione sviluppata sotto la vigenza del codice di procedura penale del 1930, avesse individuato nell’introduzione della prova testimoniale un ‘‘onere’’ a carico delle parti. Più precisamente l’autore, riportandosi a quanto sostenuto da CORDERO (Proc. pen., Milano, 1987, p. 677), attribuisce al deposito della lista, di cui all’attuale art. 468 c.p.p., lo stesso carattere di ‘‘onere imperfetto’’ di iniziativa probatoria in passato riconosciuto relativamente alla prescrizione dell’art. 415 c.p.p. 1930. Si tratterebbe di un ‘‘onere imperfetto’’ in quanto il giudice potrebbe comunque disporre d’ufficio l’assunzione di prove non indicate nelle liste, avvalendosi dei poteri previsti dall’art. 507 c.p.p. Correggendo, così, gli effetti derivanti dal comportamento omissivo delle parti. (38) Come ricorda P.P. RIVELLO, Liste testimoniali. cit., p. 183, le parti private verrebbero, così, « ... assoggettate ad incombenti ingiustamente gravosi ». (39) Di una grave violazione della par condicio parla pure P.P. RIVELLO (Liste testimoniali, cit., p. 183). (40) Secondo P.P. RIVELLO (Il dibattimento, cit., p. 77) un’indicazione agganciata al capo d’imputazione o agli atti dell’indagine preliminare sarebbe viziata da una ‘‘debolezza di fondo’’. Una ‘‘debolezza’’ che emergerebbe con chiarezza soprattutto nelle ipotesi in cui i potenziali testi fossero stati sentiti nel corso delle indagini preliminari in relazione ad una pluralità di episodi e di circostanze: « Qualora il p.m. intenda focalizzare l’esame dibattimen-
— 1364 — nel corso dell’istruzione dibattimentale e finisce per coincidere con le domande dell’esame diretto. È questa stessa selezione, quindi, ad escludere in partenza la par condicio fra chi opera la scelta e chi attende questa scelta (41). Il pubblico ministero, nello specificare al dibattimento le ‘‘circostanze’’ e le ‘‘domande’’, potrà sempre puntare su fatti secondari, non agganciati espressamente al nucleo essenziale dell’imputazione, e potrà in ogni caso operare all’interno dei tanti fatti, riportati nell’atto delle indagini preliminari. La specificità della domanda (ex art. 499 comma 1 c.p.p.) colmerà, alla fine, i vuoti di una lista generica e darà corpo alle ‘‘circostanze’’. La difesa, informata sulla base delle scarse indicazioni contenute nella lista, dovrà necessariamente aggiornare il suo intervento spostando l’attenzione sulle circostanze e sui fatti secondari, presi in considerazione dal pubblico ministero con l’esame diretto, e sperimentando un tema di prova sulla falsariga delle scelte del p.m. (fra i tanti fatti riportati nell’atto delle indagini preliminari) (42), in funzione, quindi, di una ‘‘specificazione’’ operata soltanto nel corso dell’istruzione dibattimentale (43). L’esame diretto del pubblico ministero e il controesame della difesa (o la predisposizione da parte della stessa di una controprova) sveleranno così solo ex post gli iniziali squilibri, i quali non riguardano il contraddittorio come tale (quale modello per formare la prova), ma attengono alle condizioni che non ne consentono lo svolgimento secondo un’auspicabile par condicio. Il rinvio all’atto delle indagini preliminari può spianare la via alla sua ‘‘conoscenza’’ sempre che ne sia stata disposta la discovery. Può, così, permetterla a chi ha la disponibilità del fascicolo del pubblico ministero. Non la consente, invece, al giudice del predibattimento, al quale è stato trasmesso un altro fascicolo — il fascicolo appunto per il dibattimento — che non contiene normalmente gli atti delle indagini preliminari ferma retale esclusivamente su alcuni punti emersi nel corso delle indagini, di fronte ad una mancata specificazione nella lista la difesa dell’imputato è impossibilitata a predisporre tempestivamente le opportune contromosse, non sapendo quali siano i dati emersi nella fase pre-processuale che il p.m. intende valorizzare in sede di escussione dibattimentale; la controparte in tal caso non può dunque prevedere su cosa in concreto verterà l’esame del teste ». (41) Così operando, per dirla con F. CORDERO (Diatribe sul processo accusatorio, in Ideologie del processo penale, 1966, p. 220), « ... il processo non è più una contesa ad armi pari ». (42) La giurisprudenza ha precisato che il controesame non può investire temi di prova diversi rispetto a quelli indicati dalla parte richiedente. Se ciò avvenisse « ... verrebbe eluso il termine posto dall’art. 468 comma 1 per l’articolazione delle prove » (v. Cass., I, 5 novembre 1996, Di Gennaro, in CED Cass., n. 206120). Ma è evidente, come ricorda A. NAPPI, Guida, cit., p. 455, che « il controesame potrà riguardare anche fatti connessi a quelli indicati per l’esame e idonei a contrastare l’ipotesi di ricostruzione del fatto postulata dalla controparte ». (43) Come ricorda G. BONETTO (sub art. 468 c.p.p., cit., p. 45), invece. « le carte devono essere messe in tavola per tempo e senza trucchi ».
— 1365 — stando la previsione e l’operatività dell’art. 431 comma 2 c.p.p. (e nel quale va inserita la ‘‘lista’’). Eppure il codice impone pronte risposte nel predibattimento alle richieste avanzate (ancorché per relationem) dalla parte, e prevede, per il dibattimento, un rapporto diretto del giudice con la fonte e il tema di prova, imperniato proprio sull’informazione sulle ‘‘circostanze’’, oggetto dell’esame incrociato. 5. L’informato rapporto del giudice con la fonte e il tema di prova, necessaria premessa per un regolare esame incrociato. — In base al secondo comma dell’art. 468 c.p.p. il giudice del predibattimento esclude le testimonianze ‘‘vietate dalla legge e manifestamente sovrabbondanti’’ (44). La mancata autorizzazione negli atti preliminari al dibattimento non pregiudica, però, l’ammissione della prova nel dibattimento (45). In base all’art. 499 c.p.p. il giudice del dibattimento dirige l’istruzione dibattimentale e stabilisce, caso per caso, la pertinenza e l’utilità delle domande (46). Nell’esame diretto questo controllo si appunta, evidentemente, sulle domande di chi ha chiesto l’esame del testimone (art. 498 c.p.p.). A spingere verso il coordinamento fra le due norme è un semplice rilievo: le valutazioni che nel predibattimento precedono l’autorizzazione alla citazione dei testimoni e che, nel dibattimento, condizionano in vario modo l’acquisizione della prova non possono che richiamarsi ad un determinato tema di prova (47). Si tratta del tema proposto con il deposito della lista (48). Si tratta del tema, ripreso dal giudice del dibattimento, per misurare la pertinenza e l’utilità della domanda. Nel primo caso la connessione fra lista e tema di prova è resa palese (44) G. CIANI (Le nuove disposizioni sul giudizio, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000, p. 574) ritiene che il potere di esclusione conferito al giudice relativamente alle testimonianza ‘‘manifestamente sovrabbondanti’’ potrebbe essere oggetto di valutazione in chiave di legittimità costituzionale con riferimento al comma 4 dell’art. 111 Cost. (come modificato dalla l. Cost. 23 novembre 1999, n. 2), che prevede la ‘‘facoltà’’ della persona accusata, ‘‘di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa’’. È bene che « ... si rifugga da interpretazioni volte ad attribuire a tale espressione il significato... della eliminazione... di ogni potere di controllo del giudice sulla sovrabbondanza delle prove offerte dalla difesa e si ponga l’accento sulla parità delle parti in materia di prove..., essendo il potere presidenziale esercitabile, sia sulle prove richieste dal pubblico ministero, che su quelle richieste dalla difesa ». (45) Cfr. sul punto A. NAPPI, Guida, cit., p. 434, il quale sostiene che l’intervento del giudice in questa fase è solo formale ed è inteso esclusivamente a fornire alla parte privata uno strumento di coercizione di testimoni renitenti. (46) V. Cass., VI, 23 giugno 1993, Fiannaca, in Arch. N. proc. pen., 1993, p. 779. (47) Sul nesso sistematico che lega le due disposizioni v. G. UBERTIS, Giudizio di primo grado, cit., p. 532. (48) Ricorda G. ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Compendio di procedura penale, cit., p. 611, come, relativamente al controllo sulla ‘‘sovrabbondanza’’, la valutazione del giu-
— 1366 — dallo stesso fatto dell’ ‘‘indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame’’ (49). Nel secondo caso i parametri per l’intervento del giudice possono essere, appunto, rinvenuti nel tema di una lista inserita, dopo il deposito, nel fascicolo per il dibattimento (50). Sembra allora potersi sostenere: a) che l’idea di un controllo giudiziale della ‘‘lista’’, che si esaurisca nella selezione delle fonti di prova (senza vagliare adeguatamente il tema), contraddice alla stessa ratio della prescrizione dettata dal secondo comma dell’art. 468 c.p.p.. È la moltiplicazione delle fonti di prova rispetto all’identico tema che importa evitare (51). È l’elusione di questo divieto, attraverso la fittizia diversificazione dello stesso tema di prova, che bisogna impedire (52). È il tema segnalato con la lista, insomma, a contare, pure se l’eventuale esclusione non può che riguardare la fonte di prova (53); b) che il controllo sull’osservanza delle regole per l’esame testimoniale non può essere sganciato dall’informazione circa le circostanze su dice non richieda la conoscenza dei fatti in causa, ma deve essere orientata solo sulla base dei dati contenuti nelle liste. (49) V. in tal senso A. GRANATA, Ancora sulla funzione della discovery dell’art. 468 del c.p.p.: necessità di indicazione delle circostanze specifiche e determinate nella lista testimoniale, in Arch. n. proc. pen., 1990, p. 596. Più recentemente, P.P. RIVELLO, Il dibattimento, cit., p. 76, afferma che senza le dovuta specificazione « ... il presidente del collegio non avrebbe alcuno strumento valutativo per esercitare il controllo volto a escludere le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente sovrabbondanti ». (50) V. sul punto G. ICHINO, Il giudice del dibattimento, le parti e la formazione della prova nel nuovo processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 705. (51) G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema, Torino, 1993, p. 71, lega la qualifica di superfluità al concetto di irrilevanza per ridondanza. Come ricorda G. BONETTO, sub art. 468 c.p.p., cit., p. 48, attraverso il controllo del giudice sulla lista viene, altresì, assolta una chiara esigenza di economia processuale. Si evitano sprechi di attività nell’ipotesi di citazione di soggetti il cui esame non è consentito o quando il numero risulti notevole rispetto alle prevedibili necessità probatorie. (52) Sostiene G. LATTANZI, La formazione della prova nel dibattimento, in Cass. pen., 1989, p. 2301, che il concetto di ‘‘sovrabbondanza’’ è meramente quantitativo. Proprio attraverso il controllo giudiziale sulla lista si soddisfa l’esigenza di operare uno sfoltimento rispetto a liste defadigatorie o a sospetto sfondo ostruzionistico per la loro abbondanza quantitativa (A. CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino, 1990, p. 348). Tale ultima esigenza rende giustificabile il rigetto dei mezzi probatori anche con riferimento al diritto alla prova riconosciuto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (v. M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, vol. II, Milano, 1984, p. 104). (53) Il controllo del giudice è sagomato entro margini assai ristretti (manifesta sovrabbondanza) al fine di evitare che le parti vedano sacrificato ingiustamente il proprio diritto all’ammissione di mezzi di prova richiesti. Ricorda F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1992, p. 539, che l’operato del giudice deve essere ispirato a criteri di estrema cautela, così da giungere ad un provvedimento di esclusione solo in ipotesi assolutamente incontroverse. La sovrabbondanza dovrà emergere ictu oculi attraverso la mera lettura delle circostanze indicate in lista (v., sul punto, S. RAMAJOLI, Il dibattimento nel nuovo rito penale, Padova, 1994, p. 19).
— 1367 — cui deve vertere l’esame. Informazione che, come sappiamo, è affidata alla ‘‘lista’’, inserita nel fascicolo per il dibattimento (54). Le generiche indicazioni circa il tema di prova, enunciato dalla parte, non forniscono consistenti elementi per ‘‘regolare’’ l’esame e non pongono, soprattutto, limite alcuno alla proposizione delle domande (55). Questa piana constatazione non perde la sua significativa rilevanza in un’istruzione dibattimentale, cadenzata dalla cross examination (56). Per la giurisprudenza non è infatti condivisibile « l’assunto secondo cui la cross examination non comporterebbe limite alcuno alla proposizione delle domande... perché la nozione di esame incrociato non può essere identificata con la libertà di muovere domande a scelta esclusiva della parte » (57); c) che l’autorizzazione senza riserve ed i controlli improbabili sull’acquisizione della prova inceppano il rapporto tra il predibattimento e il dibattimento nel momento cruciale dell’organizzazione e dello sviluppo dell’istruzione dibattimentale. 6. Il ‘‘nuovo’’ art. 468 c.p.p. e le audizioni sul fatto altrui degli imputati dello stesso processo e del procedimento connesso. — L’art. 38 della l. n. 479/99 (c.d. Legge Carotti) ha introdotto una novità di assoluta rilevanza nella normativa concernente le liste testimoniali: ha ampliato la (54) Rileva G. FRIGO, sub art. 498 c.p.p., in Comm. Chiavario, V, p. 248, che le domande proponibili al testimone in sede di esame non possono che essere quelle relative alle circostanze anticipate attraverso la lista. Le uniche non vincolate dalla previa deduzione delle circostanze su cui deve vertere l’esame sono, per A. AVANZINI (L’esame dibattimentale delle fonti di prova personale, cit., p. 62), le domande attinenti alla credibilità del testimone, espressamente consentite dall’art. 194 comma 2 c.p.p. Per D. MANZIONE (Le nuove ‘‘regole’’ per l’esame testimonlale [a proposito dell’art. 499 c.p.p.], in Cass. pen., 1991, p. 1481) si sottrarrebbero al vincolo delle circostanze dedotte anche le domande provenienti dal giudice ai sensi dell’art. 506 c.p.p. (55) Afferma F. PERONI, Sull’onere di allegazione, cit., p. 1155, che « ... il grado di determinatezza richiesto nell’indicazione delle circostanze dovrà in concreto, conformarsi alle esigenze dello svolgimento dell’esame ‘‘mediante domande su fatti specifici’’, in ottemperanza all’art. 499 comma 1 ». (56) G. ILLUMINATI (Ammissione e acquisizione della prova, cit., p. 8) ritiene ‘‘eccessivo’’ predisporre un vincolo rigido tra le ‘‘domande su fatti specifici’’ e le circostanze specificatamente dedotte in lista. Lo stesso sistema escluderebbe « preclusioni automatiche destinate in pratica a sfociare in una piena disponibilità della prova in capo alle parti ». Ancorato alla funzione della lista di tutelare la controparte dalle prove a sorpresa e permettere la deduzione della prova contraria, il criterio guida sarebbe di vietare solo « quegli ampliamenti dell’esame idonei ad aggirare tale garanzia ». Consentite sarebbero allora domande vertenti su circostanze ulteriori, evidenziate nel corso dell’esame e non enucleabili dalle indicazioni contenute in lista. Sempreché queste non fossero già note e suscettibili di essere preventivamente indicate al momento del deposito. (57) Cfr. Cass., VI, 23 giugno 1993, Fiannaca, cit., p. 779. In dottrina v., in senso conforme, E. AMODIO, Il modello accusatorio statunitense e il nuovo processo penale italiano: miti e realtà della giustizia americana, in AA.VV., Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di Amodio e Bassiouni, Milano, 1988, p. 388.
— 1368 — sfera dei soggetti che occorre indicare per il caso che se ne voglia chiedere l’esame. Il primo comma dell’art. 468 c.p.p. impone, infatti, alle parti che vi abbiano interesse di indicare in lista anche i soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. (58). La norma fa, pertanto, riferimento alla citazione dei soggetti imputati in procedimenti connessi o collegati, di cui la parte ritiene rilevante l’audizione nell’ambito del procedimento in corso (59). L’innovazione ha una chiara ratio ispiratrice nelle statuizioni contenute nella sentenza n. 361 del 1998 della Corte costituzionale (60). Questa sentenza, ha tra l’altro dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 210 c.p.p. nella parte in cui non prevede l’estensione dei principi che regolano l’esame dell’imputato in procedimento connesso e collegato all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento (61). Ha così sottolineato, con una specificazione di indubbio rilievo sistematico, l’importanza che assume nel procedimento probatorio il tema di prova. Le due diverse fonti di prova vanno considerate alla stessa stregua quando debbono essere saggiate sul ‘‘fatto altrui’’. Nel disciplinare l’introduzione della prova nel processo non può, insomma, prescindersi da una preliminare deliba(58) Prima dell’intervento legislativo del dicembre del 1999 l’equiparazione della citazione degli imputati in procedimento connesso alla citazione dei testimoni era ben delimitata dall’art. 142 disp. att. Non riguardava, però, l’atto introduttivo della parte interessata all’audizione dell’imputato in procedimento connesso, ma era relativa ai momenti successivi, afferenti alla predisposizione e alla notificazione dell’atto di citazione o del decreto di citazione (nei casi di citazione disposta d’ufficio cfr. Cass., II, 3 giugno 1997, Di Vita, in Cass. pen., 1999, p. 1479). (59) La giurisprudenza di merito riteneva non estensibili le regole che presiedono alla presentazione della ‘‘lista’’ ai soggetti di cui all’art. 210 c.p.p.: « La statuizione di cui al comma 1 dell’art. 468 c.p.p. e la relativa sanzione di inammissibilità in base al tenore letterale e alla ratio della norma, debbono ritenersi dettate esclusivamente per i testimoni, periti e consulenti e non anche per l’esame dell’imputato e l’esame dell’imputato in procedimento connesso, disciplinati, rispettivamente, all’art. 503 e agli artt. 210 e 513 comma 2 c.p.p. » (Ass. Catania, 10 ottobre 1991, Pino, in Cass. pen., 1992, p. 423). (60) La sentenza è pubblicata in Cass. pen., 1999, p. 35, con nota di D. CARCANO, Effetti di una dichiarazione di incostituzionalità annunciata. Si è così realizzata, come ricorda R. BRICHETTI (L’accusa perde l’esposizione introduttiva, in Guida al diritto ‘‘Il Sole 24Ore’’, n. 1/2000, LXX), quella esigenza emersa con la pronuncia dei giudici costituzionali. Ritiene A. GIARDA (Il « decennium bug » della procedura penale, in AA.VV., Il nuovo processo penale davanti al giudice unico, Milano, 2000, p. 14) che la nuova disposizione, così come le altre modificate in tal senso (artt. 422 comma 2, 506 comma 2 c.p.p.), accentuerà il ruolo di testimoni delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. (61) Si veda in proposito G. ILLUMINATI, Postilla a Lineamenti essenziali delle più recenti riforme legislative del codice di procedura penale, in AA.VV. Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, seconda appendice di aggiornamento, 1998, p. 22, il quale ha affermato, ancor prima dell’innovazione apportata dalla l. 479/99, che « ... deve ritenersi superata l’omessa previsione, in quest’ultimo articolo [testualmente riferito solo a testimoni, periti e consulenti tecnici], dell’esame dell’imputato, e che fra le norme sulla citazione dei testimoni richiamate dall’art. 210 c.p.p... vadano incluse anche quelle concernenti la presentazione delle liste, cosa che finora è tutt’altro che pacifica ».
— 1369 — zione del tema di prova, quale che sia la fonte chiamata a verificarlo. L’esistenza di possibili precedenti dichiarazioni all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria sulla delega del pubblico ministero non attenua l’impegno a questa specificazione. Costituisce, semmai, la ragione essenziale della nuova audizione. La conclusione pare ovvia: l’eventuale richiesta di esame del coimputato, relativamente a circostanze attinenti la responsabilità di altri, dovrà essere preceduta dalla puntuale indicazione, nelle liste di cui all’art. 468 comma 1 c.p.p., sia del soggetto sia delle circostanze. Il riferimento, poi, ai soggetti individuati ai sensi dell’art. 210 c.p.p. deve essere letto in senso estensivo e ricomprendere anche gli imputati nello stesso procedimento per l’esame su circostanze che attengono alla responsabilità di altri (62). Non basta l’enunciazione della ‘‘qualifica’’ del dichiarante per ritenere osservata la prescrizione circa l’ ‘‘indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame’’, come se la particolare identità della fonte di prova da sottoporre ad esame fosse di per sé sufficiente a far conoscere alla controparte e al giudice tutte le ‘‘circostanze’’, concernenti il fatto altrui. Pure in queste ipotesi vanno seguiti i criteri idonei a offrire una corretta informazione sulla futura escussione. La lista non potrà, pertanto, richiamarsi genericamente al fatto imputato a soggetto diverso dal dichiarante, ma dovrà riferirsi alle singole circostanze che formeranno oggetto dell’esame. Non basterà, quindi, un’indicazione che faccia semplice rinvio alla ‘‘soggettivamente diversa’’ imputazione; occorrerà un’ulteriore specificazione relativamente alla singola ‘‘circostanza’’ attorno alla quale ruoterà l’esame del coimputato o dell’imputato in procedimento connesso o collegato. Tale modus operandi eliminerebbe, fra l’altro, la inutile prassi di interminabili esami, arricchiti da numerose sortite al di fuori di quello che dovrebbe essere il naturale thema probandum. 7. Il divieto di assumere informazioni ex art. 430-bis c.p.p. — La l. n. 479/99 ha introdotto il divieto imposto al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria (63) e al difensore di assumere informazioni dalla persona indicata nella lista presentata dalle altre parti processuali (64). Il divieto presuppone una netta demarcazione delle prove in base alla diversa pro(62) V. sul punto G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 612: « ... sebbene l’art. 468 non lo specifichi, anche l’imputato andrebbe incluso nelle liste, a pena di inammissibilità dell’esame ». (63) Nell’inserire la polizia giudiziaria tra i soggetti su cui grava tale divieto, si è tenuto conto delle indicazioni della giurisprudenza che ha inteso attribuire loro il potere di compiere attività suppletiva o integrativa di indagine (v. Cass., II, 28 marzo 1995, Lo Russo, in Giur. it., 1996, II, p. 466). Contra, in dottrina, v. G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Milano, 1996, p. 327. (64) La norma riproduce integralmente il contenuto dell’art. 3 del Disegno di legge n. 3979 recante disposizioni in materia di indagini difensive. Il testo si trova attualmente al-
— 1370 — venienza della richiesta (65), in linea con la sistemazione del processo adversary (66): un processo che ripartisce fra le parti oneri di allegazione e di prova (67). Il ‘‘divieto’’ peraltro non va considerato soltanto sotto questo aspetto di astratta aderenza al sistema, ma va coordinato alle prescrizioni fissate dall’art. 468 c.p.p., e tende ad evitare che sulle stesse circostanze le informazioni si sovrappongano e che ciò avvenga a causa di un uso distorto della lista testimoniale, ad opera della controparte (o della polizia giudiziaria) (68). Insomma: la lista determina la discovery e garantisce da prove a sorpresa; ma non può ritorcersi contro la stessa parte che l’ha presentata. Con l’effetto boomerang di spianare la via ad anticipate forme di incursioni della controparte (o della polizia giudiziaria) proprio nella piattaforma probatoria scelta e disegnata con la richiesta (69). Dopo la presentazione della lista v’è un solo modo per procedere alla verifica in punto di prova delle circostanze indicate nella stessa ed è disciplinato dall’art. 498 c.p.p. (che prevede le forme dell’esame diretto ad opera di chi ha chiesto l’esame del testimone). L’informazione ‘‘cercata’’ eludendo queste forme — e sulla base delle circostanze indicate nella lista — è vietata. l’esame della Commissione giustizia del Senato della Repubblica, dopo essere stato approvato dalla II Commissione permanente della Camera dei deputati il 21 aprile 1999. (65) L’art. 430-bis c.p.p. prevede che non possono essere assunte informazioni anche dal soggetto « indicato nella richiesta di incidente probatorio o ai sensi dell’art. 422 comma 2 », o ammesso a norma dell’art. 507. Relativamente a quest’ultima ipotesi, G. CASARTELLI (Le innovazioni riguardanti il dibattimento, in AA.VV., Giudice unico e garanzie difensive [La procedura penale riformata], Milano, 2000, p. 177) ritiene che il divieto vada esteso in via analogica anche ai soggetti il cui esame venga disposto dal giudice ai sensi dell’art. 507 comma 1-bis. (66) La prescrizione secondo G. PANSINI (Con i poteri istruttori attribuiti al Gup il codice retrocede allo schema inquisitorio, in Dir. e giust., 2000, n. 2, p. 61) si pone in « ... un’ottica volta a recepire un principio del sistema accusatorio ». Ricorda G. CASARTELLI (Le innovazioni riguardanti il dibattimento, cit., p. 177) come al principio n. 12 punto 5 del The Professional Conducts of Sollicitors del 1987 sia espressamente previsto che il sollicitor non abbia alcun contatto con il teste citato dalla controparte senza l’autorizzazione della stessa o del giudice. (67) Rileva E. AMODIO (Il modello accusatorio statunitense e il nuovo processo penale italiano: miti e realtà della giustizia americana, cit., XXXVI) come in tale modello processuale ricada sull’accusa sia l’onere di addurre le prove a sostegno dell’imputazione, sia l’onere di dimostrare la responsabilità dell’imputato « al di là di ogni ragionevole dubbio ». (68) Come pare evidente una corretta applicazione del divieto probatorio, ipotizzato dal nuovo art. 430-bis c.p.p., può aversi solo nel caso che sia rispettato il dettato dell’art. 468 c.p.p. nei termini profilati nel presente saggio. Se venisse, ancora, assecondato l’orientamento prevalente della giurisprudenza, giustificate apparirebbero le preoccupazioni di G. GARUTI (La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 419) circa « ... il rischio di un uso distorto del potere di indicare testimoni... nella lista testimoniale ». (69) Cfr. sul punto G. CASARTELLI, Le innovazioni riguardanti il dibattimento, cit., p. 177.
— 1371 — Stravolge un ordine, ‘‘bruciando’’ precise priorità, regolate dalla legge e misconosce la rilevanza dell’immediato raccordo fra la selezione delle ‘‘circostanze’’ (effettuata ai fini della richiesta ex art. 468 c.p.p.) e l’impegno a verificarle senza che ne sia erosa l’originaria consistenza. Questo divieto, appunto perché legato alla formazione della prova, comporta l’inutilizzabilità dell’acquisizione irregolare. 8. Dall’esposizione introduttiva del p.m. alle richieste di prova delle parti. — La l. n. 479/99 ha interpolato anche il contenuto dell’art. 493 c.p.p., onde realizzare una vera par condicio tra le parti in ordine alle richieste di prova. La vecchia formulazione conferiva, come è noto, al p.m. il potere di svolgere una vera e propria esposizione dei fatti oggetto dell’imputazione, quali risultato delle indagini preliminari e quale sintesi delle acquisizioni operate prima del dibattimento. Era questo modo di argomentare sull’ipotesi accusatoria a spiegare le successive richieste del pubblico ministero in punto di prova. E pure se la giurisprudenza mostrava a volte di volere comprimere le tendenze degli uffici della procura a dilatare al massimo l’esposizione dei fatti oggetto dell’imputazione (magari con l’illustrazione e il coordinamento delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari) (70) il divario fra le prerogative del p.m. e della difesa (legittimata soltanto alle ‘‘richieste di prova’’) restava fissato in modo sufficientemente preciso (71). Con le ovvie ripercussioni non solo in ordine alla pos(70) Gli eccessi argomentativi del pubblico ministero sono stati censurati dal Tribunale di Palermo con due ordinanze (una del 18 e una del 31 ottobre 1995, in Dir. pen. proc., 1996, p. 359) attraverso le quali è stata presa posizione sui limiti dell’esposizione introduttiva. Con la prima i giudici palermitani hanno affermato che « nel corso dell’esposizione introduttiva non è consentito riportare analiticamente il contenuto di dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari »; con la seconda hanno sostenuto che « In base al sistema del doppio fascicolo, non possono essere surrettiziamente portati a conoscenza del collegio, attraverso l’esposizione introduttiva, atti diversi da quelli già inseriti nel fascicolo per il dibattimento ». (71) Secondo G. AMBROSINI, sub art. 493 c.p.p., in Commento, cit., p. 181, tra ‘‘esposizione’’ e ‘‘indicazione’’ dei fatti vi è una profonda differenza nel senso che la prima attività comporta un narrare ordinatamente e uno spiegare, la seconda un semplice individuare. Di diverso avviso è R. ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, cit., p. 29: « Simili illazioni appaiono... infondate: che ‘‘esponga’’ o che ‘‘indichi’’, la parte punta principalmente a un vantaggio processuale; punta cioè ad ottenere un’ordinanza ammissiva delle prove richieste, attraverso argomentazioni che debbono risultare convincenti per il giudice. Entrambe le parti hanno l’opportunità di esporre, in sintesi, un proprio ‘‘progetto probatorio’’... pur a fronte di una diversa terminologia, ‘‘esposizione’’ e ‘‘indicazione’’ sono attività che mirano ad un medesimo risultato ». La differenza potrebbe essere solo ‘‘quantitativa’’, qualora il pubblico ministero fosse in grado di argomentare in maniera più estesa ed efficace le proprie richieste di prova. V. nello stesso senso A. AVANZINI, Le parti nell’esposizione introduttiva, in Dir. pen. proc., 1996, p. 260.
— 1372 — sibile riesumazione di richieste di prova non autorizzate perché ‘‘manifestamente’’ sovrabbondanti, ma anche in merito alla possibile rilevazione di fatti e circostanze da provare, attraverso l’analisi dell’attività spiegata nel corso delle indagini preliminari (72). Il nuovo art. 493 c.p.p. traccia percorsi diversi e riduce gli spazi per un recupero, più o meno palese, delle specificazioni sul tema di prova. Eliminata l’esposizione introduttiva, è rimasta al pubblico ministero la sola possibilità di indicare (al pari delle altre parti) i fatti — e non le circostanze — da provare e di chiedere l’ammissione della prova, senza potere argomentare, in ordine al rapporto fra indagini (già effettuate) e prove (da acquisire). In queste più circoscritte dimensioni del ius postulandi del pubblico ministero, la possibile riconsiderazione del tema di prova, proposto nel predibattimento in modo inadeguato o incompleto, è affidata soltanto ad una valutazione giudiziale che è più ampia, perché è comprensiva delle richieste di prova di tutte le parti. 9. La citazione frazionata dei testimoni. — Il comma 2 dell’art. 468 c.p.p. prevede, nella nuova formulazione scaturita dalle modifiche apportate dalla l. 479/99, che « ... Il presidente può stabilire che la citazione dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210 sia effettuata per la data fissata per il dibattimento ovvero per altre successive udienze nelle quali ne sia previsto l’esame ». La norma sconta l’esperienza della concentrazione, assunta come principio fondamentale del dibattimento penale e normalmente sconfessata dai tempi lunghi di dibattimenti frazionati in molteplici udienze. Il dibattimento che si esaurisce nella stessa ‘‘prima’’ udienza (con la data di citazione del teste, coincidente quindi con la data della sua audizione) rappresenta un modello che diventa sempre più difficile adattare alla realtà di un’impegnativa cross-examination e di un’articolata escussione (73). In queste situazioni, piuttosto che assuefarsi alle inevitabili disfunzioni della discontinuità non programmata, a partire dall’udienza successiva alla prima, conviene nel predibattimento organizzare al meglio futuri (72) L’esposizione introduttiva serviva ad arricchire il ‘‘corredo informativo’’ del giudice (v. L. KALB, La richiesta di ammissione dei mezzi di prova, in AA.VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale, vol. II, Milano, 2000, p. 140). (73) Sui difficili rapporti tra concentrazione e contraddittorio v. per tutti D. SIRACUSANO, Il dibattimento, in Il codice di procedura penale: esperienze, valutazioni, prospettive (atti dei convegni Lincei — Roma, 23-24 ottobre 1992), Roma, 1993, p. 44: le lunghe sequenze, dedicate all’esame ed al controesame, in un rapporto, molto articolato, del giudice con la fonte di prova fanno della « ... concentrazione del dibattimento un’aspirazione irrealizzabile. Ciò che il processo guadagna in punto di prova perde in speditezza ».
— 1373 — rinvii e sospensioni, specie per ciò che attiene all’istruzione dibattimentale. Per evitare l’inutile ripetizione delle citazioni dei testi e delle parti e per eliminare le sfasature di citazioni non seguite dall’audizione delle persone citate (74). Questo è il senso dell’innovazione apportata al secondo comma dell’art. 468 c.p.p., anche se bisogna prendere atto che gli spazi di manovra riservati al giudice del predibattimento non sono molto ampi, dovendo essere commisurate le sue scelte ai poteri ‘‘residui’’, consentiti dall’art. 496 c.p.p. e dall’art. 150 disp. att. Fermo restando, perciò, l’ordine di assunzione delle prove, dettato da queste norme (e si tratta di un ‘‘ordine’’ derogabile soltanto attraverso l’accordo delle parti) (75), l’organizzazione del dibattimento può essere sempre programmata attraverso la previsione della nuova data (o delle nuove date) dell’udienza o delle udienze successive alla prima. Per queste date verrebbero autorizzate le citazioni dei testimoni e delle parti e in queste date verrebbero effettuate le audizioni delle persone citate (76). Previsione delle udienze (o del numero delle udienze) successive alla prima, citazione diversificata dei testimoni e delle parti per le audizioni da effettuare nelle previste udienze, parametri da adottare nel predibattimento per la preparazione del dibattimento: i problemi emersi nell’applicazione del secondo comma dell’art. 468 c.p.p. assumono un nuovo rilievo. Si tratta di accertare se i compiti assegnati al giudice del predibattimento da questa norma non rendano ancor più impellente la pratica della lista con indicazioni specifiche circa le circostanze oggetto dell’esame. Pare di si. Se è la complessità dell’escussione a dilatare i tempi delle singole audizioni e a determinare gli ‘‘slittamenti’’ ad udienze successive, è proprio la specificazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame (operata con la ‘‘lista’’) ad orientare il giudice del predibattimento nel senso ipotizzato dal ‘‘nuovo’’ capoverso dell’art. 468 c.p.p. (77). Assecondare la diversa prassi (dei rinvii per relationem) significhe(74) Nell’affermare che « ... ancora una volta la prassi ha preceduto il legislatore », G. CIANI, Le nuove disposizioni sul giudizio, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000, p. 573, ricorda come « ... già prima della riforma del dicembre del 1999... si procedeva, ma solo alla prima udienza e dopo la costituzione delle parti, alla predisposizione di un calendario per l’assunzione delle prove ». (75) Ricorda L. KALB, Giudizio, in AA.VV., Il giudizio di primo grado, a cura di A.A. Dalia, Napoli, 1991, p. 358, che sul diverso accordo delle parti non è previsto alcun intervento del giudice. (76) La norma assolve, così, ad una chiara funzione di razionalizzazione del dibattimento. Come sostiene G. CIANI (In dibattimento si rafforza il contraddittorio — L’accusa perde il vantaggio dell’« esposizione introduttiva », in Dir. Giust., n. 2, 2000, p. 66), la disposizione è dettata con l’evidente e apprezzabile scopo di conferire maggiore ordine allo svolgimento del dibattimento e di ridurre i disagi di coloro che sono chiamati a rendere le loro dichiarazioni nel processo. (77) Solo una dettagliata specificazione consentirebbe un’adeguata razionalizzazione
— 1374 — rebbe privare il giudice del dibattimento di un parametro sicuramente utile a definire il numero delle udienze e a cadenzare citazioni e audizioni. 10. I casi di inammissibilità. — La tesi che mira a circoscrivere l’area dell’inammissibilità nell’applicazione dell’art. 468 c.p.p. muove da una netta demarcazione fra due prescrizioni: quella relativa al tempestivo deposito della lista (78) e quella concernente l’indicazione nella stessa lista delle circostanze su cui deve vertere l’esame (79). La violazione della prima prescrizione sarebbe causa di inammissibilità (80); la violazione del programma delle audizioni, evitando ‘‘intromissioni probatorie’’ nell’ambito di un’udienza dedicata alla verifica di un particolare thema. (78) Le liste vanno depositate entro il termine di sette giorni precedenti la prima udienza. Tale termine, previsto oggi anche con riferimento al rito avanti al giudice monocratico (ex art. 555 comma 1 c.p.p., come introdotto dall’art. 44 l. 479/99), va inteso come libero e intero, a norma dell’art. 172 comma 5 c.p.p. (v. Cass., III, 2 marzo 1994, Proietto, in Cass. pen., 1995, p. 2923). La mancata previsione di un termine iniziale esclude di poter ritenere la prova inammissibile qualora la presentazione sia avvenuta prima della comunicazione del decreto di citazione a giudizio (cfr. Cass., II, 4 settembre 1992, Flaminia, in Arch. N. proc. pen., 1993, p. 123). (79) Qualche dubbio interpretativo solleva la formula contenuta nel primo comma dell’art. 555 c.p.p., attinente alla presentazione delle liste testimoniali nell’ambito del procedimento avanti al giudice monocratico. La disposizione in esame non fa alcun riferimento espresso ad un’ipotesi di inammissibilità della lista legata alla mancata indicazione delle circostanze. Come ricorda E. MARZADURI (Procedimento davanti al tribunale monocratico, in AA.VV., Compendio di procedura penale, cit., p. 721) la conseguenza di questa omissione comprometterebbe la ratio medesima dell’art. 468. Ripetendo l’identico clichet della normativa relativa al procedimento davanti al pretore la prescrizione sembrerebbe legare la sanzione dell’inammissibilità al solo tardivo deposito della lista. Il mancato espresso rinvio all’art. 468 c.p.p., e l’accenno del comma 5 dell’art. 555 c.p.p. alle « ... disposizioni contenute nel libro settimo, in quanto applicabili », consentirebbe, però, oggi di superare l’orientamento giurisprudenziale che riteneva, relativamente al procedirnento pretorile, non configurabile la sanzione dell’inammissibilità con riferimento alle liste contenenti indicazioni generiche in merito alle circostanze oggetto di esame (v. Cass., III, 20 ottobre 1992, Albarelli, in C.E.D. Cass., n. 192619). Si sosteneva, infatti, che a spingere verso tale conclusione fosse la stessa lettura dell’art. 567, comma 2, che richiamando l’art. 468 c.p.p., prevedeva l’inammissibilità solo in relazione all’omesso o intempestivo deposito della lista, e non anche in relazione alla mancata specificazione delle circostanze. Il generale rinvio a tutte le norme applicabili al procedimento davanti al giudice monocratico permetterebbe, adesso, magari forzando non poco il significato del rinvio generale alle disposizioni contenute nel libro VII (che come afferma E. MARZADURI, op. loc. cit., p. 721, « non dovrebbe poter operare rispetto a ciò che è espressamente previsto nell’art. 555 »), un’estensione a tale procedimento di tutte le regole che presiedono alla presentazione delle liste testimoniali (e che sono elencate dall’art. 468 c.p.p.). Fra queste regole è compresa quella che prevede l’inammissibilità della stessa lista qualora non contenga « ... le indicazioni delle circostanze su cui deve vertere l’esame » (art. 468, comma 1 c.p.p.). Sulla non operatività del rinvio v. S. CORBETTA, Il procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 618. (80) Cfr. i riferimenti giurisprudenziali riportati alla nota n. 3.
— 1375 — della seconda prescrizione non sarebbe (o non sarebbe normalmente) causa di inammissibilità (81). Ma è proprio vero che la norma prevede due prescrizioni, per così dire autonome, suscettibili come tali di valutazioni diverse in relazione alle loro possibili distinte violazioni? O non è invece vera l’ipotesi di una salda combinazione fra le due prescrizioni, che impone di ricomprendere entro l’area dell’inammissibilità tanto la violazione circa la tempestività del deposito, quanto la violazione circa l’adeguata o completa indicazione delle circostanze? Dopo le cose fin qui dette riteniamo di dovere optare per la seconda alternativa. Quando l’art. 468 c.p.p. disciplina i tempi di deposito della lista mira certamente a porre le condizioni indispensabili per l’esercizio di un effettivo contraddittorio. Nel lasciare alla controparte la possibilità di venire a conoscenza della lista entro un certo termine prima che inizi il dibattimento, la norma spiana la via all’accurata preparazione del controesame e all’accorta predisposizione della controprova. Se la prescrizione circa i tempi di deposito delle liste non può essere spiegata in maniera diversa, diventa indispensabile il coordinamento con l’altra prescrizione dell’art. 468 c.p.p., relativa alla deduzione delle ‘‘circostanze’’ oggetto di prova (82). Le due prescrizioni risultano combinate dalla stessa ratio. I tempi del deposito della lista possono essere proficuamente impiegati solo sulla scorta di una specifica conoscenza dei contenuti della lista. Non avrebbe, peraltro, senso poter disporre di un congruo termine per preparare il controesame o per predisporre la controprova se rimanesse ignota (o di incerta decifrazione) la piattaforma da cui muovere nel corso dell’escussione. Tempestività del deposito della lista (83) e specificità delle ‘‘circostanze’’ dedotte rappresentano, perciò, le componenti di un’iniziativa della parte in punto di prova, coessenziali per consentire la par condicio con l’altra parte e per assicurare nel dibattimento un informato rapporto del giudice con la fonte e il tema di prova. La sanzione di inammissibilità (81) Così G. SCARPETTA, L’articolo 468 del codice di procedura penale e la funzione di discovery, in Arch. N. proc. pen., 1990, p. 267. (82) Afferma P.P. RIVELLO, Il dibattimento, cit., p. 80, che il rispetto del termine di deposito delle liste « ... si salda strettamente con l’osservanze delle regole fissate in tema di discovery ». (83) Il termine per la presentazione della lista è previsto a pena di decadenza. Il giudice dovrà, comunque, valutare le ragioni eventualmente addotte a giustificazione del ritardo. Secondo la giurisprudenza tale valutazione deve essere effettuata attraverso « ... un parametro negativo e più ampio di quello tradizionalmente indicato con la forza maggiore » (v. Cass., VI, 9 ottobre 1992, Beji, in CED Cass., n. 192896). Sarebbe, quindi, sufficiente anche una mera difficoltà all’esercizio del diritto alla prova (Cass., VI, 3 dicembre 1993, Faccin, in CED Cass., n. 197082).
— 1376 — serve a dare, così, una qualificazione ad un atto introduttivo del procedimento probatorio (84). La sanzione va rilevata nel predibattimento e si risolve nella mancata autorizzazione alla citazione del testimone (85). Non rilevata in questa fase può essere rilevata nelle fasi successive (86) quando l’intempestività del deposito o la genericità del tema proposto comportano l’inammissibilità della prova (87). Negata l’autorizzazione prevista dall’art. 468 c.p.p. è possibile la suc(84) Per questa impostazione v., in particolare, G. GALLI, L’inammissibilità dell’atto processuale, Milano, 1968, p. 97 ss. (85) Non è certo condivisibile la tesi che vorrebbe il vizio di inammissibilità ex art. 468 c.p.p. rilevabile solo su istanza di parte. Sarebbero le finalità accordate alla ‘‘lista’’, interne alla dialettica delle parti, ad escludere la possibilità di un intervento ufficioso per carenza di interesse. Afferma D. POTETTI, Vicende del diritto alla prova nella fase del giudizio, in Cass. pen., 1994, p. 1399, che se il giudice rilevasse d’ufficio la violazione delle « regole del gioco » sottese al termine di lista, si sovrapporrebbe alle valutazioni di utilità e di strategia rimesse alle parti (cfr. anche F. BARTOLINI, Appunti sulla ammissione delle prove nel nuovo processo penale, in Arch. N. proc. pen., 1991, p. 260: « Proprio le finalità che si sono così riconosciute all’esposizione probatoria offrono ragionevole fondamento all’opinione secondo la quale l’incompletezza dell’indicazione delle circostanze dedotte a prova può essere rilevata soltanto su eccezione di parte ». In questi stessi termini v. G. CHELAZZI, Disciplina processuale e poteri del giudice nel dibattimento, in Arch. N. proc. pen., 1990, p. 295). Contra v. F. PLOTINO, ll dibattimento nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1996, p. 41: « ... il concetto di inammissibilità — quale forma di sanzione dell’atto processuale penale invalido — e stato sempre legato... alla rilevabilità di ufficio... ». Ricorda, altresì, G. GALLI, L’inammissibilità dell’atto processuale, cit., p. 144, che « ... anche quando è in effetti predisposto un sistema volto a realizzare inderogabilmente l’intervento delle parti, questo vale certo ad assicurare il contraddittorio anche nel procedimento eventuale, ma ciò non significa affatto subordinazione della pronunzia di inammissibilità alla istanza di parte: creata la possibilita dell’eccezione, non ne è ancora sancita la necessarietà » Secondo un ulteriore indirizzo, l’obbligo del giudice di rilevare la tardività della lista sarebbe, comunque, condizionato dall’eventuale accordo delle parti che potrebbero impedire consensualmente gli effetti della sanzione processuale. Il giudice procederebbe, quindi, a dichiarare l’inammissibilità delle prove indicate nella lista irrituale solo nel silenzio o nel mancato accordo delle parti; dovrebbe astenersi, invece, da tale pronuncia qualora le parti espressamente rinunciassero ad avvalersi della tutela prevista dal legislatore (v. A. BASSI, Art. 468 c.p.p.: le parti e la disponibilità del diritto all’iniziativa probatoria, in Cass. pen., 1991, 456). (86) Come ricorda F. PERONI, Sull’onere di allegazione, cit., p. 1155, l’eccezione « ... potrà essere sollevata, a seconda dei casi, o già in fase di atti introduttivi — e più precisamente, in sede di provvedimenti ex art. 495 c.p.p. — ovvero nel corso dell’esame, mediante tempestiva opposizione formulata nei confronti di eventuali tentativi di dilatazione delle circostanze dedotte (art. 504 c.p.p.) ». Sui problemi attinenti alla rilevazione dell’inammissibilità v., in generale, A. GALATI, Gli atti, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, Milano, 1996, p. 334. (87) Si è affermato in giurisprudenza che la presentazione tardiva della lista testimoniale non comporta l’inutilizzabilità della prova relativa, ove l’escussione del teste sia comunque avvenuta, poiché nella specie mancano i presupposti per l’applicazione dell’art. 191, non sussistendo uno specifico divieto di assunzione della prova (Cass., II, 18 marzo 1993,
— 1377 — cessiva introduzione della prova prima esclusa (88), non per effetto di una sanatoria, di difficile configurazione nel settore dell’inammissibilità (89), ma in conseguenza delle più ampie valutazioni consentite dalle ‘‘richieste di prova’’, avanzate da ‘‘tutte’’ le parti, o dalle ‘‘nuove’’ acquisizioni (90), disposte a conclusione dell’istruzione dibattimentale (91) ex artt. 495 e 507 c.p.p. (92). FABRIZIO SIRACUSANO Assegnista di ricerca in Procedura penale Università degli Studi di Catania
Radisi, in Giust. pen., 1995, III, p. 211). Contra in dottrina v., per tutti, P. FERRUA, Il nuovo processo penale e la rifonna del diritto penale sostanziale, in Studi, cit., p. 42. (88) Sull’assoluta provvisorietà del provvedimento presidenziale di esclusione v. G. BONETTO, sub art. 468 c.p.p., cit., p. 48. Il collegio, infatti, potrebbe ammettere prove in precedenza escluse dal presidente così come revocare l’ammissione di prove che solo successivamente risultino superflue. (89) « Il mancato adempimento dell’onere di indicare nella lista le circostanze sulle quali verterà l’esame, non sanabile successivamente al dibattimento attraverso l’esposizione introduttiva della parte istante o, tantomeno, mediante l’esame degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, comporta l’inammissibilità della prova testimoniale richiesta » (Trib. Venezia, 11 ottobre 1990, in Arch. N. proc. pen., 1990, p. 577). (90) Secondo un orientamento della giurisprudenza il giudice può pronunciarsi in ordine ad « argomenti di prova che le parti avrebbero potuto chiedere nel termine stabilito dall’art. 468 c.p.p. » e non hanno invece chiesto, « sempreché sia comunque necessario ed esista un benché minimo principio di prova » (Cass., III, 26 dicembre 1993, Palomba, in Giust. pen., 1994, III, p. 80; Cass., VI, 17 maggio 1993, Kinkela, in Arch. N. proc. pen., 1994, p. 132; Cass., I, 17 marzo 1993, Farina, in Giust. pen., III, p. 552). Contra v. l’interpretazione secondo la quale il giudice del dibattimento può assumere d’ufficio nuovi mezzi di prova, non richiesti nei termini, anche nell’ipotesi in cui sia mancato il deposito della lista da parte del p.m. e non sia avvenuta prima alcuna acquisizione probatoria (cfr. C. cost., 26 marzo 1993, n. 111, in Cass. pen., 1993, p. 2224; Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin, in Cass. pen., 1993, p. 280). (91) La Corte di cassazione, in alcune pronunce, ha negato che si possa disporre d’ufficio l’assunzione di un mezzo di prova colpito da inammissibilità per mancata indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame, in quanto « non sembra ragionevole che il giudice disponga su una prova che egli stesso ha dichiarato inammissibile » (Cass., VI, Lucente, in Arch. N. proc. pen., 1992, p. 569). (92) Ricorda, infatti, G. ILLUMINATI, Ammissione e acquisizione della prova, cit., p. 66, come l’inammissibilità della richiesta non determina di per sé l’inammissibilità della prova, che potrà essere, eventualmente, ammessa d’ufficio dal giudice. In giurisprudenza tale potere è ritenuto esercitabile nei casi in cui la prova si riveli assolutamente necessaria per « il perseguimento della finalità del processo penale, che è quella di pervenire alla verità e trarne le conseguenze » (Cass., III, 9 aprile 1992, Greci, in Cass. pen., 1993, p. 2362). L’intervento ex officio non potrebbe comunque supplire alla totale inerzia delle parti (v. Cass., II, 23 ottobre 1991, Marinkovic, in Arch. N. proc. pen., 1992, p. 436; in dottrina, conforme, v. D. MANZIONE, sub art. 507, in Commento, cit., p. 390).
LA DEPENALIZZAZIONE DEL 1999
IL DECRETO LEGISLATIVO DI DEPENALIZZAZIONE DEI REATI MINORI N. 507 DEL 1999: LINEAMENTI, PROBLEMI E PROSPETTIVE
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. I paradigmi normativi della politica di depenalizzazione: un breve excursus. — 3. I modelli di depenalizzazione in Italia negli ultimi trenta anni. — 4. I settori interessati dalla depenalizzazione del 1999. — 5. Depenalizzazione e tipologia delle sanzioni amministrative. — 6. La degradazione degli illeciti del codice penale e il nuovo istituto della ‘‘reiterazione amministrativa’’. — 7. Primo bilancio. — 8. Il ‘‘reale’’ impatto deflattivo del provvedimento di depenalizzazione. — 9. I limiti del sistema sanzionatorio amministrativo. — 10. Le ripercussioni della depenalizzazione sul volto dell’illecito amministrativo. — 11. La deflazione penale al cospetto delle altre riforme e di quelle ‘‘in cantiere’’. — 12. Il contrappeso: la corsa alla ‘‘penalizzazione’’ tra nuove emergenze e vecchie abitudini. — 13. Conclusioni.
1. Con il d.lgs. n. 507/1999, la tanto agognata depenalizzazione dei reati minori è infine giunta al traguardo. I primi commenti che, con un rigoroso approccio sistematico, hanno provato a decrittarne la struttura e le potenzialità operative pervengono non di rado a conclusioni opposte. Così, si è osservato (1) che si è in presenza di un « provvedimento (...) che punta a contenere l’impiego della sanzione penale nel rispetto del canone del’extrema ratio » e che con esso « si è compiuto un ulteriore e significativo passo in avanti sulla via della deflazione del sistema penale ». In senso contrario, si è manifestata la sensazione che « la montagna abbia partorito un topolino » e che « il provvedimento svela una sostanziale povertà nell’impalcatura: si è assegnato un campo di azione tutto sommato circoscritto e, per di più, ha perso per strada occasioni importanti (...) » (2). Sulla stessa linea, ma con una minore perentorietà e nel contesto di un’approfondita e stimolante indagine comparata sulla legislazione complementare, nel riproporre l’esigenza di un progetto di depenalizza(1) GIUNTA, La scommessa di un’efficacia repressiva attraverso ‘‘costose’’ sanzioni amministrative. Una riforma organica per la deflazione del sistema penale, in Diritto e giustizia, 2000, n. 4, p. 49. (2) Così, DI GIOVINE, La nuova legge delega per la depenalizzazione dei reati minori, tra istanze deflattive e sperimentazione di nuovi modelli, in questo numero della Rivista, sub par. 1.
— 1379 — zione, si è sottolineato che lo stesso deve essere più ampio di quello realizzato con la l. n. 205/1999 (3). Come si vede, il panorama della valutazioni è tutt’altro che sedimentato e la disparità di vedute costituisce il diapason che immediatamente segnala il carattere ‘‘complesso’’ o ‘‘composito’’ (4) del provvedimento di depenalizzazione, in cui convivono scelte ‘‘casuali’’ e interventi di razionalizzazione di alcuni settori significativi della legislazione complementare. Questa complicata architettura, peraltro, ben si giustifica alla luce del tormentato iter parlamentare del provvedimento. Fin dall’inizio, si è sviluppato come bacino di raccolta di diversi disegni di legge e, in progress, è stato investito da emendamenti spesso del tutto extravaganti. Volendo raffigurare visivamente il fenomeno, si può evocare l’immagine di un contenitore, le cui dimensioni e il cui contenuto oscillavano a seconda delle vicissitudini ideologiche e/o degli umori (cangianti) della ‘‘politica’’. Il governo del provvedimento durante la fase della gestazione si è dunque rivelato estremamente difficoltoso, tanto che in alcuni momenti la contrapposizione politica ha fatto temere il sopravvento della paralisi. Il rischio della definitiva sepoltura si è palesato con maggiore intensità quando hanno fatto irruzione sulla scena materie ad elevata sensibilità politica: alcune, come quella legate alla depenalizzazione del consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, percorse da fremiti ideologici, altre, come il falso in bilancio e il finanziamento illecito dei partiti politici, frutto delle ricorrenti contingenze della stagione politica. Tuttavia, l’avvento di altre importanti riforme della giustizia penale, prima su tutte quella istitutiva del giudice unico di primo grado (5), ha reso fatalmente improrogabile il parto, ma è chiaro che il travaglio parlamentare non poteva che sfociare in un provvedimento ‘‘a macchia di leopardo’’, spesso approssimativo e che — questo pare assodato — non presenta alcun raccordo con il sistema penale nel suo complesso, a riprova della mancanza di un organico disegno (progetto) riformatore. E, tuttavia, per saggiare la fondatezza di queste affermazioni, occorre analizzare gli aspetti più significativi del provvedimento e confrontarli prima con i modelli più ricorrenti di deflazione penale e poi con i precedenti interventi di depenalizzazione succedutisi nel nostro ordinamento. 2.
Oggi non vi è praticamente alcun ordinamento penale che non si
(3) DONINI, La riforma della legislazione penale complementare: il suo significato ‘‘costituente’’ per la riforma del codice, in DONINI (a cura di), La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, Padova, 2000, p. 4, nota 1. (4) Sottolinea il carattere troppo composito del provvedimento di depenalizzazione, FIDELBO, Deleghe per la depenalizzazione (et autres): un piccolo passo avanti, in Legislazione penale, 2000, p. 39. (5) La riforma del giudice unico è stata introdotta con il d.lgs. n. 58/1998.
— 1380 — trovi a fare i conti con il carattere alluvionale della legislazione, tanto che la ricerca dei possibili rimedi ha costituito uno dei tratti predominanti di tutto il ventesimo secolo. « La depenalizzazione costituisce un fenomeno di politica legislativa consistente nella progressiva riduzione dell’area di tutela tradizionalmente ricoperta dal sistema penale e nella sua eventuale surroga con altri strumenti di controllo sociale » (6). Alla fine degli anni ’80, il fenomeno aveva assunto dimensioni imponenti, tali da accreditare l’esistenza di un movimento internazionale di depenalizzazione, animato da istanze ideologiche e fattuali. Sul versante ideologico, si situava il convincimento della dottrina e della cultura giuridica secondo il quale il diritto penale deve assumere un ruolo sempre più « marginale » nel novero degli strumenti di controllo sociale, in un’ottica diretta a valorizzare la sua funzione frammentaria (7). Lungo questa ottica, si possono individuare, in ambito europeo, alcuni filoni tematici della politica di depenalizzazione materializzatisi attraverso altrettanti paradigmi normativi. Il primo, più sfruttato, è stato quello della fiscalizzazione (8), cioè della monetizzazione degli illeciti nel contesto del diritto economico-sociale. È un paradigma che tende alla « deindividualizzazione » dell’illecito, visto che ha a che fare con violazioni per le quali non si stagliano esigenze rieducative o trattamentali, e in cui conta maggiormente l’infrazione che non l’autore della stessa. Questo modello è stato utilizzato in materia di depenalizzazione di illeciti afferenti alle dogane, alla cinematografia, agli alcoolici, alle ferrovie, agli impienti elettrici, alle telecomunicazioni e, infine, alle contravvenzioni contrassegnate da un prevalente interesse pubblico. Un altro paradigma è stato quello della medicalizzazione (9), deputato all’individualizzazione del trattamento per una serie di condotte meramente disordinate o espressive di disagio sociale o personale. Il campo elettivo di azione è risultato quello degli stupefacenti, segnatamente le condotte di consumo. Peraltro, il ricorso alla terapia non ha affievolito la (6) Così, PALIERO, voce Depenalizzazione, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, pp. 3 e 4 dell’estratto; sui problemi definitori alimentati dal concetto di depenalizzazione, cfr. GIUNTA, voce Depenalizzazione, in VASSALLI (a cura di), Dizionario di diritto e procedura penale, Milano, 1986, p. 191 ss. (7) Sulle tematiche relative alla ‘‘frammentarietà’’ del diritto penale quale criterio di selezione delle offese, v. l’ampia analisi di PALIERO, Minima non curat praetor. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 159 ss. (8) L’individuazione di questo paradigma si deve alla dottrina francese: v. LARGUIER, Mort et transfiguration du droit pénal, in Aspects nouveaux de la pensée juridique - Recueil d’études en hommage à Marc Ancel, Paris, 1975, II, p. 147 ss. (9) Sul punto, v. VAN DE KERCHOVE, ‘‘Medicalisation’’ et ‘‘fiscalisation’’ du droit pénal: deux version asymetriques de la dépénalisation, in DS, 1981, p. 5 ss.
— 1381 — stigmatizzazione e l’emarginazione (in definitiva l’esigenza di controllo scociale) di tali soggetti non più criminalizzati ma « curati ». Si è poi consolidata la tendenza alla secolarizzazione del diritto penale, con la conseguente decriminalizzazione dell’adulterio, dell’omosessualità, della pornografia, della prostituzione e di alcuni reati « senza vittima » (10). Un ultimo paradigma è quello della privatizzazione (11), che riguarda le offese minori contro i beni, in specie il patrimonio. In questo settore, la tutela pervasiva ha sollecitato spinte volte a rivitalizzare il principio di frammentarietà. Tale obbiettivo è stato prevalentemente conseguito con l’incremento dei reati perseguibili a querela e con la depenalizzazione della disciplina degli assegni senza copertura, attraverso la sostituzione delle sanzioni penali con sanzioni civili irrogate dal banchiere. Sul versante delle ragioni fattuali, « emerge, su tutto, l’attuale ingorgo giudiziario e la semiparalisi della giustizia penale » (12): il flusso dei reati supera la capacità di risposta del sistema giudiziario, così da ingigantire lo iato tra i pochi reati effettivamente perseguiti e quelli che sfuggono dalla rete della giustizia penale (c.d. effetto delle punizioni a sorteggio) (13). Il problema della selezione è stato sinora risolto ricorrendo a svariati meccanismi: si pensi al fenomeno delle selezioni fattuali (operate dalla polizia, dal pubblico ministero, dalla vittima ecc.) o alle ricorrenti amnistie e alle massicce prescrizioni, assurte ormai a strumento privilegiato di riduzione del sistema. 3. È tempo, ora, di scrutare quale è stato il trend della depenalizzazione nel nostro paese negli ultimi trent’anni (14). Le prime due tappe del processo di depenalizzazione si sono materializzate nella l. 3 maggio 1967, n. 317 e nella l. 24 dicembre 1975, n. 706: con il primo provvedimento furono depenalizzate alcune disposizioni in materia di circolazione stradale, mentre con il secondo tutte le contravvenzioni collocate al di fuori del codice penale punite con la sola pena del(10) In argomento, v. ROMANO, Secolarizzazione, diritto penale moderno e sistema dei reati, in questa Rivista, 1981, p. 477 ss. (11) Su questo paradigma e sui suoi sviluppi in Europa, v. PALIERO, Depenalizzazione, cit., p. 22 ss. e l’ampia bibliografia ivi citata. (12) In questi termini si esprime PALIERO, Depenalizzazione, cit., p. 7. (13) Per una pregevole e approfondita analisi sugli effetti delle punizioni ‘‘a sorteggio’’ e più in generale sul fenomeno della ‘‘cifra nera’’, relativo alla distanza che separa i reati realmente commessi da quelli effettivamente puniti, v. FORTI, Tra criminologia e diritto penale: ‘‘cifre nere’’ e funzione generalpreventiva della pena, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 53 ss. (14) Per un’efficace sinossi, v. PALIERO, Depenalizzazione, cit., p. 29 ss.
— 1382 — l’ammenda. Se si prova ad isolare i tratti distintivi di questi due interventi, è possibile intravvedere il ricorso ai seguenti criteri deflattivi: a) l’adozione, in specie nella l. n. 706/1975, di un criterio formale, calibrato sul nomen iuris della sanzione e strutturato come ‘‘clausola generale’’: il risultato è stato quello di un’estrema semplificazione dell’intervento (derivante dalla vantaggiosità operativa della clausola generale), destinato però a rivelarsi ‘‘cieco’’ rispetto al disvalore delle singole fattispecie; b) l’uso quasi assorbente della sanzione pecuniaria, con una sostanziale ‘‘fiscalizzazione’’ del modello sanzionatorio. La terza e più importante tappa è stata rappresentata dalla ben nota l. 24 novembre 1981, n. 689. Questo intervento condivide con i precedenti il primo dei criteri ora illustrati, atteso che, in via generale, sancisce la depenalizzazione dei reati extra codicem sanzionati con la sola pena pecuniaria (multa o ammenda). A ben vedere, più che l’orbita della depenalizzazione, per vero piuttosto modesta, quel che maggiormente risalta sono tre profili, concernenti: 1) l’arricchimento dell’arsenale sanzionatorio, nel cui ambito alla sanzione pecuniaria vengono affiancate sanzioni interdittive; 2) l’estromissione dalla depenalizzazione di alcune materie, motivata vuoi da ragioni di tipo tabuistico (15) (il codice penale), vuoi, infine, da ragioni legate alla rilevanza sociale e ideologica del bene protetto (tutela penale del lavoro); 3) la prefigurazione di un procedimento di tutela affidato al giudice ordinario. Si deduce agevolmente che, anche con la l. n. 689/1981, l’intervento deflattivo è sfociato in una timidissima potatura, destinata a lambire appena la marea di leggi penali che caratterizza il nostro ordinamento. Del resto, la legge in esame deve la sua importanza e la sua notorietà principalmente alla codificazione dei principi generali dell’illecito amministrativo (16). (15) Così, PALIERO, Depenalizzazione, cit., p. 31. (16) La letteratura che si è occupata della distinzione tra illecito penale e illecito amministrativo è particolarmente vasta e la l. n. 689/1981, che ha codificato i principi generali dell’illecito amministrativo, ha contribuito senz’altro a incrementare il dibattito e le riflessioni della dottrina. Sull’argomento, cfr. DOLCINI-PALIERO, I ‘‘principi generali’’ dell’illecito amministrativo nel disegno di legge di ‘‘Modifiche del sistema penale’’, in questa Rivista, 1980, p. 1154 ss.; BRICOLA, La depenalizzazione nella l. 24 novembre 1981, n. 689: una svolta ‘‘reale’’ nella politica criminale?, in Pol. dir., 1982, p. 3590 ss.; VIGNERI, Profili generali della sanzione amministrativa, in Le nuove leggi civili commentate, 1982, p. 1110 ss.; PALIERO, La l. n. 689/1981: prima ‘‘codificazione’’ del diritto penale amministrativo in Italia, in Pol. dir., 1983, p. 117 ss.; SANDULLI, Le sanzioni amministrative pecuniarie. Principi sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983, p. 253 ss.; SGUBBI, Depenalizzazione e principi dell’illecito amministrativo, in Ind. pen., 1983, p. 253 ss.; SINISCALCO, Depenalizzazione e
— 1383 — Le ultime tappe del processo di deflazione penalistica si sono avute: con la l. n. 561/1993, che ha trasformato specifici reati minori in altrettanti illeciti amministrativi, ricorrendo al modello sanzionatorio ‘‘fiscale’’; con tre decreti legislativi (il n. 566/1994, il n. 758/1994 e il n. 480/1994) che hanno inciso sulla materia del lavoro e della pubblica sicurezza, apportando, specie nella prima, un riassetto della disciplina penale. Rispetto al passato, la l. n. 205/1999 e il decreto legislativo di attuazione presentano — occorre riconoscerlo — alcuni significativi e non trascurabili elementi di discontinuità, che coinvolgono: in primo luogo, il criterio, non più formale bensì sostanziale, adoperato nella tecnica di depenalizzazione; in secondo luogo, la maggiore dotazione dell’apparato sanzionatorio, in cui spicca il ruolo assegnato alle sanzioni accessorie; e, infine, le modifiche apportate al codice penale e sul tessuto della disciplina generale dell’illecito amministrativo. 4. Quanto all’orbita della depenalizzazione, l’intervento realizzato con il d.lgs. n. 507/1999 non si atteggia — conviene ripeterlo — alla stregua di una depenalizzazione generale, perché non si è fatto ricorso ad una clausola generale incentrata sulla tipologia della sanzione. Al contrario, la tecnica di deflazione si distende per campi di materia, orientandosi verso cinque settori della legislazione penale complementare: gli alimenti, la navigazione, la circolazione stradale, le violazioni finanziarie, gli assegni bancari e postali. La degradazione degli illeciti è stata piuttosto ampia e, in alcuni ambiti (gli alimenti e gli assegni), le innovazioni si sono tradotte anche in una vera e propria riforma diretta a delineare una nuova strategia di controllo sociale. L’ampiezza della depenalizzazione (17) nei campi di materia ora richiamati può essere così sintetizzata: garanzia, Bologna, 1983; DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in questa Rivista, 1984, p. 589 ss.; VIGNERI, La sanzione amministrativa, I, Origine e nozione, Padova, 1984; GIUNTA, Depenalizzazione, cit., p. 191 ss.; PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, in Ind. pen., 1986, p. 35 ss.; DOLCINI, Sui rapporti fra tecnica sanzionatoria penale e amministrativa, ivi, 1987, p. 377 ss.; PALIERO, Depenalizzazione, cit., p. 29 ss.; PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988; ROSINI, Le sanzioni amministrative, Milano, 1991; PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 1021 ss. Quanto al modello di illecito amministrativo presente nella legislazione tedesca, cfr.: DOLCINI-PALIERO, L’illecito amministrativo (Ordnungswidrigkeit) nell’Ordinamento della Repubblica Federale di Germania: disciplina, sfera di applicazione, linee di politica legislativa, in questa Rivista, 1980, p. 1134 ss.; PALIERO, voce Ordnungswidrigkeiten, in Dig. disc. pen., IX, Torino, 1995, p. 125 ss. (17) Per un esame dell’impatto della depenalizzazione che tiene conto anche delle disposizioni della legge delega n. 205/1999, si rinvia al commento curato dalla DI GIOVINE, La nuova legge delega, cit.
— 1384 — a) nel settore degli alimenti, solcato da una sterminata produzione normativa che ha fomentato incontrollabili processi di stratificazione (18), il legislatore ha rinunciato ad un intervento deflattivo singolare, indirizzato cioè verso i singoli illeciti dispersi nella legislazione: per contro, ha individuato dapprima il presidio penale irrinunciabile della tutela nelle norme della principale legge speciale di settore (gli artt. 5, 6 e 12 della l. n. 283/1962) e ha poi decretato, con un perentorio tratto di penna, la depenalizzazione di tutti i restanti illeciti disseminati nelle numerosissime leggi speciali alimentari; b) nella materia della navigazione sono state depenalizzate la gran parte delle contravvenzioni contenute nel codice, ad eccezione di quelle che la legge delega aveva espressamente escluso; c) la tecnica dell’intervento sulla materia della navigazione è stata sostanzialmente replicata per la circolazione stradale, dove spicca la degradazione ad illecito amministrativo della guida senza patente e il mantenimento nell’area del penalmente rilevante del reato di blocco stradale, della guida in stato di ebbrezza e dell’omissione di soccorso; d) quanto ai reati finanziari, risalta la depenalizzazione dei reati di contrabbando, sia pure circoscritta da due significative limitazioni: da un lato, si è esclusa la depenalizzazione del contrabbando avente ad oggetto tabacchi lavorati esteri (19); dall’altro lato, la depenalizzazione è stata limitata ai soli casi in cui l’ammontare dei diritti di confine evasi non superi i sette milioni di lire (pari a circa 4.000 ECU): questa scelta si è resa necessaria per evitare contrasti con la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, stipulata a Bruxelles il 26 luglio 1995, proprio di recente ratificata dal nostro paese (20); nel contesto dei reati finanziari, spicca poi l’abrogazione della norma dell’art. 20 della l. 7 gennaio 1929, n. 4, che — come è noto — sanciva il principio di ultrattività delle leggi penali finanziarie, in deroga al meccanismo della successione delle leggi penali di cui ai primi due capoversi dell’art. 2 del codice penale; (18) Per una completa disamina del sistema degli illeciti nella materia alimentare, v. BERNARDI, La disciplina sanzionatoria italiana in materia alimentare, in Riv. it. dir. pen. ec., 1994, p. 31 ss.; cfr., inoltre, GROSSO, Diritto penale e tutela della salute, in AA.VV., Materiali per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, p. 98 ss. Per un’analisi particolareggiata della depenalizzazione su questo terreno, si rinvia al nostro commento, Depenalizzazione e riforma del sistema sanzionatorio nella materia degli alimenti, in questo numero della Rivista. (19) Esclusione provocata dalla recrudescenza criminale di questo fenomeno in alcune regioni dell’Italia meridionale: in proposito, si segnala che è all’esame della Camera una proposta di legge (derivante dall’abbinamento di numerosi disegni di legge) che intende inasprire le sanzioni penali per il contrabbando di tabacchi lavorati esteri. (20) V. la legge n. 300 del 2000, la cui importanza, peraltro, risalta con riferimento all’introduzione nel nostro ordinamento della responsabilità sanzionatoria amministrativa degli enti collettivi: per ulteriori precisazioni, si rinvia alla nota 35.
— 1385 — e) nella materia degli assegni (21), il legislatore ha provveduto a riscrivere le fattispecie dei nuovi illeciti amministrativi di emissione di assegno senza provvista e senza autorizzazione, operando un radicale ripensamento della materia, le cui principali innovazioni coinvolgono, peraltro, come si vedrà tra breve, l’allestimento del sistema sanzionatorio. La sintetica ricognizione del perimetro dell’intervento depenalizzatore non sarebbe tuttavia completa se non si tiene conto che il legislatore, sia pure con un diverso decreto legislativo (si tratta del decreto n. 75 del 10 marzo 2000), ha ottemperato alla disposizione dell’art. 9 della legge delega n. 205/1999, che dettava i criteri di depenalizzazione della normativa penale tributaria. Alla base della delega legislativa (art. 9) stava l’esigenza, profondamente avvertita, di superamento della strategia che informava la regolamentazione racchiusa nel titolo I del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 1982, n. 516: quella strategia, cioè, che ponendo prioritariamente l’accento sull’esigenza di emancipare il giudice penale dall’accertamento dell’imponibile e dell’imposta evasa, affidava l’intervento repressivo al modello dei cosiddetti « reati prodromici », ossia a fattispecie criminose volte a colpire, indipendentemente da un’effettiva lesione degli interessi dell’erario, comportamenti ritenuti astrattamente idonei a « preparare il terreno » ad una successiva evasione (22). Come è noto, i risultati pratici di una siffatta strategia si sono rivelati largamente insoddisfacenti. Frantumando il comparto punitivo in un complesso di figure criminose dall’impronta marcatamente « casistica », esso ha determinato un’eccessiva proliferazione dei procedimenti per reati tributari, gran parte dei quali relativi a fatti di scarsa rilevanza per gli interessi del fisco, con conseguente sovraccarico degli uffici giudiziari. Sulla scorta dei criteri della legge delega, il nuovo sistema attua l’ennesima inversione di rotta, puntando a limitare la repressione penale ai soli fatti direttamente correlati, tanto sul versante oggettivo che su quello soggettivo, alla lesione degli interessi fiscali, con una rinuncia alla criminalizzazione delle violazioni meramente « formali » e « preparatorie ». Esso risulta conseguentemente imperniato su un ristretto catalogo di fattispecie delittuose, connotate da rilevante offensività e dal dolo specifico di evasione, soggette ad un regime sanzionatorio di apprezzabile spessore. (21) Per un articolato esame delle nuova disciplina in materia di assegni, si rinvia a FIDELBO, Deleghe, cit., 4 ss. (22) Sulla disciplina contenuta nella l. n. 516/1982, v., per tutti, FLORA, Il diritto penale tributario oggi: tra garantismo e ‘‘repressione’’, in Riv. it. dir. pen. ec., 1989, p. 25 ss.; CARACCIOLI, Tutela penale del diritto di imposizione fiscale, Bologna, 1992; LO MONTE, L’illecito penale tributario tra tecniche di tutela ed esigenze di riforma, Padova, 1996; PERINI, Elementi di diritto penale tributario, Torino, 1999.
— 1386 — Quanto alla concreta fisionomia delle fattispecie stesse, la scelta di ancorare la sanzione penale all’offesa degli interessi connessi al prelievo fiscale ha portato a concentrare l’attenzione sulla dichiarazione annuale prevista ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, quale momento nel quale si realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e « definitivo » dell’evasione d’imposta. La violazione dell’obbligo di veritiera esposizione della situazione reddituale e delle basi imponibili costituisce il fondamento di tre tipologie criminose: la dichiarazione fraudolenta, che è una dichiarazione non soltanto mendace, ma provvista altresì di una particolare « insidiosità »; la dichiarazione « semplicemente » infedele e, da ultimo, l’omessa dichiarazione. A queste ipotesi delittuose risultano affiancate tre figure « collaterali », intese a colpire l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione; l’occultamento o la distruzione di documenti contabili in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari; e, infine, la sottrazione alla riscossione coattiva delle imposte mediante compimento di atti fraudolenti su propri od altrui beni. Nella prospettiva del contenimento dell’impiego della sanzione penale, le fattispecie restano soggette — ad eccezione di quelle di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, emissione di tali documenti e occultamento o distruzione di scritture contabili — a soglie di punibilità che circoscrivono l’intervento punitivo ai soli illeciti di significativo rilievo economico e che, perciò, contribuiscono a deflazionare il numero dei procedimenti penali. Vengono poi previste disposizioni a carattere generale che percorrono « trasversalmente » il campo di intervento (meccanismi premiali intesi a favorire il risarcimento del danno, errore su legge tributaria, prescrizione, competenza per territorio); disposizioni la cui logica di fondo — sugli ultimi due fronti — è quella di ridurre lo scarto tra le regole proprie del diritto penale tributario e quelle ordinarie. Specifiche previsioni normative sono poi dirette a disciplinare le relazioni tra il sistema penale e quello sanzionatorio amministrativo: la novità più importante è rappresentata dall’introduzione del principio di specialità, che esclude, nel caso di convergenza di norme punitive eterogenee sul medesimo fatto, il cumulo materiale, sancito, per contro, nell’odierno regime. 5. Come si è anticipato, uno dei tratti di maggiore novità e, perciò, di discontinuità rispetto al passato, è rappresentato dal complessivo rafforzamento del presidio sanzionatorio amministrativo, diretto ad incrementarne l’efficacia dissuasiva non soltanto attraverso un generale irrobustimento delle cornici edittali ma soprattutto con un più ampio ricorso
— 1387 — alle sanzioni accessorie, di contenuto prevalentemente interdittivo. Nell’ambito di questa tipologia, alcune sanzioni riproducono le pene accessorie originariamente previste per l’illecito penale (poi degradato), altre sono, invece, di nuovo conio. Passiamo, dunque, brevemente in rassegna, le innovazioni più significative. Quanto ai limiti edittali, si impone come notazione generale, che la gran parte delle cornici edittali supera di gran lunga il limite dei venti milioni di lire, che integra il massimo edittale della sanzione amministrativa a norma della l. n. 689/1981. Particolarmente elevati risultano le comminatorie nella materia alimentare, dove si raggiungono massimi edittali fino a centottanta milioni di lire (v. art. 2, comma 1, lett. c) del d.lgs.): limiti destinati allo scavalcamento quando si è in presenza di sanzioni proporzionali. Per scongiurare l’attenuazione dell’afflittività e della dissuasività delle sanzioni, il decreto legislativo preclude, nelle ipotesi più gravi, il ricorso al pagamento in misura ridotta, previsto dall’art. 16 della l. n. 689/1981. Con riferimento all’armamentario sanzionatorio, si è osservato che « l’efficacia preventiva dei nuovi illeciti amministrativi è affidata anche alla valorizzazione delle sanzioni accessorie, aventi contenuti interdittivi che possono risultare più afflittivi di quelli insiti nella stessa pena. Ciò si verifica soprattutto quando quest’ultima ha natura pecuniaria o quando interviene nel cono d’ombra della sospensione condizionale » (23). Nel ventaglio delle sanzioni accessorie, alcune sono il precipitato della degradazione dell’illecito penale, nel senso che riproducono il contenuto della pena accessoria indotta dal reato prima della sua depenalizzazione: questo fenomeno è di particolare evidenza nella materia della navigazione. Particolarmente articolata la gamma delle sanzioni accessorie nella materia alimentare, in cui — come si è visto — la depenalizzazione ha formalmente coinvolto l’intero corpo della legislazione speciale, fatte salve le previsioni penali della l. n. 283/1962. La rinuncia alla pena detentiva viene compensata con una previsione di sanzioni accessorie che vanno dalla sospensione temporanea dell’attività economica fino alla sua definitiva cessazione (v. art. 3 del d.lgs.). Peraltro, l’operatività di queste sanzioni è condizionata dalla ricorrenza della reiterazione specifica della violazione oppure dall’esistenza di un pericolo per la salute. È stata inoltre introdotta una nuova sanzione accessoria, consistente nell’affissione e nella pubblicazione del provvedimento sanzionatorio (art. 7 del d.lgs.). Vanno infine ricordate le sanzioni accessorie del fermo e della confisca del veicolo, operanti nel contesto della disciplina della circolazione stradale, che si aggiungono alla sospensione della patente di giuda e della (23)
Così, GIUNTA, La scommessa, cit., p. 52.
— 1388 — carta di circolazione. La confisca è altresì prevista in ordine alle ipotesi di contrabbando depenalizzate. 6. Il decreto legislativo ha infine apportato alcune modifiche al codice penale e alla parte generale dell’illecito amministrativo punitivo, contenuta nella l. n. 689/1981. Per quanto concerne il codice, sono stati degradati ad illeciti amministrativi non soltanto alcune contravvenzioni (come è avvenuto in passato) ma anche fattispecie delittuose: in entrambi i casi, la depenalizzazione ha colpito condotte segnate da un esiguo disvalore offensivo. Si pensi, sul terreno contravvenzionale, alla depenalizzazione della bestemmia, al collocamento pericoloso di cose, alla rovina di edifici o di altre costruzioni e all’omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina (24). Sul versante dei delitti, l’intervento ha interessato il reato di agevolazione colposa della violazione di sigilli, quello di atti osceni colposi e le norme penali in materia di uso di biglietti falsificati di pubbliche imprese di trasporto e l’alterazione di segni nei valori di bollo (v. gli artt. 466 e 467 c.p. che, tra l’altro, prevedevano pene alternative). Venendo poi alle modifiche recate alla l. n. 689/1981, la più significativa ha a che fare con l’introduzione dell’istituto della reiterazione delle violazioni amministrative (nuovo art. 8-bis della legge citata). Più che da un’esplicita indicazione della legge delega, la definizione della reiterazione dipende « dall’esigenza di evitare sperequazioni nella concreta dosimetria delle sanzioni » (25), atteso che, nelle numerose materie disciplinate dal decreto legislativo, la reiterazione funge da presupposto ora per l’irrogazione di una sanzione accessoria amministrativa, ora per un aggravamento della sanzione principale. Per favorire l’omogeneità applicativa, il legislatore delegato ha dunque proceduto a scolpire il volto del nuovo istituto, calandolo, in ragione del suo indiscutibile rilievo sistematico, nell’ambito dei principi generali dell’illecito amministrativo. L’istituto presenta due requisiti strutturali: il primo involge un profilo temporale, nel senso che conferisce rilievo alle violazioni consumate dallo stesso soggetto che intervengono nei cinque anni successivi alla commissione del primo illecito, accertato con provvedimento esecutivo. L’altro requisito, di natura sostanziale, consiste nella identità di indole che deve accomunare gli illeciti realizzati, ricavata dalla natura dei fatti e dalle modalità della condotta. Una particolare attenzione merita il presupposto relativo al coefficiente di stabilità della precedente violazione, che non è stato individuato nella defini(24) Con riferimento alle fattispecie di rovina di edifici e di omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina, la depenalizzazione ha ovviamente interessato le sole ipotesi-base: resta fermo il rilievo penale di tali norme quando si verificano gli eventi dannosi che esse mirano a prevenire. (25) GIUNTA, La scommessa, cit., pp. 53-54.
— 1389 — tività del provvedimento applicativo della sanzione amministrativa, bensì nel provvedimento di ordinanza-ingiunzione. Occorre rilevare, in proposito, che il supino recepimento del modello penalistico della recidiva, imperniato sul precedente cristallizzato in una condanna passata in giudicato, avrebbe di fatto vanificato l’operatività dell’istituto, avuto riguardo ai tempi necessari per la definizione del giudizio civile che segue alla proposizione dell’opposizione, di fatto incentivata proprio dall’intento di porre nel nulla gli effetti indotti dalla reiterazione. Tuttavia, l’effettività del nuovo meccanismo trova un contemperamento nella previsione, contenuta nel penultimo comma dell’art. 8-bis, che dispone la sospensione degli effetti della reiterazione quando possa derivarne un grave danno. 7. La descrizione, per linee essenziali, del contenuto del decreto legislativo conferma le caratteristiche di un intervento « a chiazze » (26), che coinvolge più di un settore della legislazione complementare, senza tuttavia esternare una chiara logica di politica criminale né tantomeno un raccordo organico con il motore del sistema (il codice penale). Si pensi, in proposito, all’incedere ondivago delle contravvenzioni (27). La lenta erosione di quelle collocate nel codice penale potrebbe far pensare ad un declino di questa specie di illecito: previsione, tuttavia, immediatamente smentita se solo si pensa a quante di nuove ne pullulano nella legislazione speciale. Per non dire del carattere disomogeneo delle abrogazioni e delle degradazioni intervenute sul tessuto del codice penale che, pur ispirandosi ad una comprensibile istanza di rammodernamento del sistema, hanno tuttavia colpito fattispecie ormai cadute nell’oblio e resuscitate all’onore della cronaca al solo scopo di decretarne formalmente il decesso. A ciò si deve aggiungere che il provvedimento « ha perso per strada occasioni importanti, come quella di mettere mano ad una revisione organica in materia di ambiente e territorio » (28). Nel corso del cammino parlamentare, infatti, queste materie hanno formato oggetto di ripetuti tentativi di risistemazione, infine sacrificati sull’altare delle superiori esigenze del compromesso politico. (26) In questi termini si esprime FIDELBO, Deleghe, cit., p. 40. (27) È risaputo che nella dottrina italiana è sempre stato vivo il dibattito tra i sostenitori della necessità di abolire tutte le contravvenzioni e coloro che, per contro, ne auspicano il mantenimento non soltanto nella legislazione complementare ma anche all’interno del codice penale: per una completa e ragionata ricognizione dei termini di tale dibattito, v., di recente, DONINI, La riforma della legislazione, cit., p. 20 ss. Sulla struttura e la funzione del reato contravvenzionale, v. PADOVANI, Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni, fra storia e politica criminale, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, cit., p. 421 ss.; ID., voce Delitti e contravvenzioni, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 321 ss.; DONINI, Il delitto contravvenzionale. ‘‘Culpa iuris’’ e oggetto del dolo nei reati a condotta neutra, Milano, 1993. (28) Lo nota la DI GIOVINE, La nuova legge delega, cit., sub par. 1.
— 1390 — Per il resto, la scelta delle materie sembra essere stata prevalentemente ispirata dalla necessità di tenere conto delle emergenze della prassi, cioè della misura, ritenuta ormai intollerabile, del carico giudiziario. Di qui la necessità di interrogarsi, a questo punto dell’analisi, sulle reali chances deflattive del provvedimento. Ma non basta. L’indiscutibile arricchimento dei modelli sanzionatori, alcuni dei quali denotano, almeno sulla carta, una particolare incisività, sollecita alcune riflessioni sia sul versante delle ricadute sul volto dell’illecito amministrativo, sia con riguardo al coefficiente di garanzie che ne assiste la procedura applicativa. 8. Una valutazione ponderata del reale impatto della depenalizzazione, della sua capacità, cioè, di abbattere o di circoscrivere significativamente le ipertrofiche dimensioni del sistema penale, non può non tenere conto — conviene ripeterlo — delle motivazioni che ne hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo parlamentare: le deleghe per le depenalizzazioni « sono legate al piano di legislatura, diretto ad affrontare il nodo dell’efficienza nell’amministrazione della giustizia, secondo interventi differenziati, che hanno avuto come obbiettivi prioritari una più razionale distribuzione degli uffici dei magistrati sul territorio, la previsione di nuovi modelli organizzativi dell’apparato giudiziario ed una drastica deflazione del carico giudiziario » (29). Detto in termini ancora più espliciti, il motore della riforma sembra essere rappresentato dall’idea dell’efficienza, che, del resto, ha costituito il vero leit motiv dei numerosi (forse troppi) progetti di legge sulla ‘‘giustizia’’ del trascorso ministero Flick. La preoccupazione funzionalistica, d’altra parte, pare trovare un indiscutibile ancoraggio ideologico nello stato comatoso in cui versa la situazione giudiziaria nel nostro paese. E, tuttavia, le urgenze della prassi e l’ansia efficientistica mal si coniugano con riforme di ‘‘ampio respiro’’, ma suggeriscono fatalmente percorsi ‘‘abbreviati’’, miniriforme o meri aggiustamenti nel contesto di limitati sottosistemi punitivi (30). L’efficacia deflattiva della depenalizzazione del ’99 va dunque sondata tenendo presente questo contesto, in cui l’urgenza di provvedere ha finito per prevalere sulla possibilità di individuare altri campi di materia da sottoporre a razionalizzazione. L’impatto maggiore della depenalizzazione si ripercuote almeno in tre settori: « a tappeto » in quello degli assegni, « incisivamente » nella materia dei reati tributari e, con « prognosi riservata » nel settore degli alimenti. Cominciamo proprio da quest’ultimo. a) Il legislatore ha selezionato, tra le materie più bisognose di inter(29) Così, FIDELBO, Deleghe, cit., p. 40. (30) Preoccupazioni analoghe sono state manifestate da DONINI, La riforma della legislazione, cit., p. 12, in specie sub nota 16.
— 1391 — vento, l’igiene degli alimenti e delle bevande, in cui la successione di provvedimenti legislativi emanati ha comportato una stratificata pan-penalizzazione. Il Governo, in ossequio alla delega e ad esigenze di razionalità sistematica, ha elevato al rango di presidio irrinunciabile della disciplina penale quelle previste dal codice penale e dagli artt. 5, 6 e 12 della l. 283/1962, trasformando in illeciti amministrativi tutte le altre violazioni penali disseminate nella legislazione speciale. Le disposizioni penali della l. n. 283/1962, in uno con il nucleo di fattispecie codicistiche poste a tutela della salute pubblica (artt. 439, 440, 442 e 444 c.p.) e della buona fede dei consumatori (artt. 515, 516 e 517 c.p.), disegnano una tutela progressiva nella materia alimentare: le norme della legge speciale, che puniscono le violazioni concernenti la genuinità, integrità e purezza dei prodotti, anticipano la tutela al terreno del pericolo astratto, perché prescindono dall’accertamento del pericolo concreto del fatto per una cerchia potenzialmente illimitata di destinatari; le norme codicistiche sanzionano, per contro, le frodi o le manipolazioni pericolose per la salute pubblica (31). Peraltro, è risaputo che il carattere alluvionale della legislazione alimentare, frantumato in un pletorico apparato di previsioni punitive, molte delle quali di contenuto analogo o affine, ha fomentato il fenomeno della ‘‘convergenza di norme’’ sopra un medesimo fatto (32), da risolvere alla stregua del principio di specialità o nel concorso formale di reati. Per evitare che il principio di specialità delineato nell’art. 9, comma 1, della l. n. 689/1981 (che sancisce la prevalenza delle disposizione sanzionatoria speciale anche nel caso di concorso apparente tra un illecito penale e un illecito amministrativo) potesse vanificare il nocciolo duro della tutela penale (derivante — come si è visto — dall’interazione delle norme del codice con quelle della l. n. 283/1962), aprendo il campo al fenomeno della c.d. depenalizzazione mediata (33), il legislatore delegato ha provveduto a riformulare il comma 3 del citato art. 9, elevandolo a disposizione di natura generale: ogni qual volta, infatti, sopra uno stesso fatto convergono le norme penali anzidette e norme sanzionatorie amministra(31) Sulle caratteristiche di fondo del sistema penale alimentare, v.: BERNARDI, La disciplina sanzionatoria italiana in materia alimentare, cit., p. 31 ss.; cfr., inoltre, GROSSO, Diritto penale e tutela della salute, cit., p. 98 ss. (32) Sul tema della convergenza di norme nel diritto penale, v., per tutti, MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966; FROSALI, Concorso di norme e concorso di reati, Milano, 1971; G.A. DE FRANCESCO, Lex Specialis. Specialità e interferenza nel concorso di norme penali, Milano, 1980. (33) Ad una depenalizzazione, cioè, rimessa all’attività del giudice. Critici verso la soluzione legislativa prefigurata nell’art. 9, comma 1, della l. n. 689/1981, PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 101 ss.; si consenta altresì di rinviare a PIERGALLINI, Il concorso di norme penali e norme sanzionatorie amministrative al banco di prova della Corte costituzionale: chiaroscuri di una decisione importante, in questa Rivista, 1989, p. 783 ss.
— 1392 — tive (frutto di depenalizzazione e non), prevalgono sempre le norme penali. La descritta prevalenza rende arduo formulare una seria prognosi sull’impatto deflattivo della riforma. Anzi, vi è da ritenere che proprio il privilegio accordato, a norma del rinnovato art. 9, comma 3, della l. n. 689/1981, agli illeciti penali contemplati nella l. n. 283/1962, possa affievolire l’impatto della depenalizzazione, rendendola più che altro virtuale. Una previsione più attendibile, del resto, risulta improponibile per un assodato difetto di know how, derivante dall’impossibilità di ‘‘dominare’’ l’intero quadro della normativa alimentare extra codicem. In ogni caso, va sottolineato che la materia degli alimenti coinvolge beni di non trascurabile rilievo, in cui appare impossibile rinunciare alla tutela penale quando le violazioni coinvolgono, anche sub specie di fattispecie di pericolo astratto dotate di generale pericolosità, il bene giuridico della salute pubblica. b) Il campo di materia in cui la depenalizzazione è destinata a sortire i maggiori effetti è quello degli assegni. L’intervento è visibilmente funzionale all’abbattimento dei carichi di lavoro degli uffici giudiziari e ad una razionalizzazione del sistema sanzionatorio, sinora caratterizzato da una desolante ineffettività. I reati di emissione di assegno senza autorizzazione e senza provvista vengono trasformati in illeciti amministrativi e sono puniti — oltre che con una sanzione pecuniaria destinata a risultare di scarsa efficacia — anche con la sanzione accessoria del divieto di emettere assegni per un periodo da due a cinque anni. Peraltro, il sistema delle sanzioni accessorie risulta calibrato sulla gravità degli illeciti: quando la violazione concerne uno o più assegni di rilevante importo (cento milioni di lire), ovvero sia commessa da un soggetto già sanzionato in precedenza almeno due volte per fatti analoghi e i relativi assegni sono di importo complessivo superiore a venti milioni, al divieto di emettere assegni si aggiungerà anche una delle sanzioni interdittive indicate nell’art. 31, comma 2. Il fulcro della nuova disciplina sanzionatoria è rappresentato dalla c.d. revoca di sistema, interamente gestita dalla Banca d’Italia, che si sostanzia in un meccanismo automatico per effetto del quale, cioè, l’emissione di assegni senza autorizzazione o senza provvista (non seguita dal tardivo pagamento del titolo) comporta, per un periodo di sei mesi, la revoca di tutte le autorizzazioni ad emettere assegni e il divieto di stipulare nuove convenzioni di assegno con qualunque banca od ufficio postale. Strumentale al funzionamento della revoca di sistema è l’istituzione di un archivio informatico destinato a raccogliere tutti i dati connessi alle irregolarità nell’emissione e circolazione degli assegni. Lo scopo della riforma è « la costruzione di un circuito alternativo a quello penale, che recuperi l’efficacia del sistema attraverso un articolato
— 1393 — apparato di controllo in cui un ruolo predominante risulta affidato alle misure inibitorie, rese più incisive da un sistema informativo gestito dall’istituto di vigilanza e di controllo nel settore del credito » (34). Il ruolo strategico della revoca di sistema sollecita, peraltro, talune perplessità in ordine all’eccessiva rigidità dei suoi presupposti applicativi. Occorre tenere conto, infatti, che essa interviene di regola ben prima dell’irrogazione del provvedimento sanzionatorio da parte del prefetto e prescinde dall’accertamento, sia pure non definitivo, della violazione. Si è in presenza, dunque, di una sanzione derivante dalla constatazione del mancato pagamento del titolo, dinanzi alla quale il soggetto passivo non vanta alcun potere di reazione, sia pure da distendere all’interno dell’ordinamento sezionale preposto al controllo. Questa lacuna può rivelarsi preoccupante, per fare un esempio, nelle ipotesi di falsificazione del titolo (si pensi alla contraffazione dell’importo), in cui la vittima della falsificazione si troverebbe comunque costretta a corrispondere la somma dovuta se intende impedire la sua ‘‘estromissione’’ dal sistema creditizio. La gravità delle conseguenze discendenti dall’applicazione della sanzione dovrebbe forse suggerire la previsione di qualche meccanismo, sia pure agile e informale, che consenta quanto meno al soggetto passivo di additare e di ‘‘formalizzare’’ le ragioni del suo rifiuto di pagare la somma riportata nel titolo, così da rendere discrezionale l’adozione della revoca. L’esigenza di introdurre elementi di flessibilità sembra poi ancora più opportuna non foss’altro che per scongiurare il potenziamento dei circuiti paralleli e sovente illegali di erogazione del credito, ai quali i soggetti espulsi dal ‘‘mercato ufficiale’’ finirebbero per rivolgersi. Volendo tracciare una valutazione conclusiva sul contestuale intervento di depenalizzazione e di riscrittura del sistema di controllo sociale nella materia degli assegni, è agevole rilevare come in questo campo le emergenze della prassi abbiano avuto il sopravvento: l’ineffettività del sistema ha spalancato le porte alla depenalizzazione a tappeto, anche se, sotto il profilo teorico, non manca lo spazio per sostenere che il diritto penale potrebbe comunque vantare una sua legittimazione in questo campo. Peraltro, la degradazione della materia sembra anticipare un lento ma inarrestabile declino nella diffusione di questi mezzi di pagamento, ormai riservati, nella gran parte dei paesi industrializzati, alle transazioni di rilevante importo, mentre risultano soppiantati, per il resto, dal sempre più massiccio ricorso alla moneta elettronica. In altre parole, il legislatore è intervenuto, tardivamente, a sedare gli effetti di un carico giudiziario insostenibile, che, tuttavia, di qui a poco, sarebbe fatalmente diminuito fino all’esaurimento per il venir meno del ‘‘mezzo’’. c) Quanto alla materia dei reati tributari, l’impressione che si ri(34)
Così, FIDELBO, Deleghe, cit., p. 44.
— 1394 — cava, sulla scorta della illustrata disciplina del decreto di attuazione, è di essere in presenza di una deflazione piuttosto estesa. La soppressione dei reati prodromici all’evasione, l’innalzamento delle soglie di punibilità e soprattutto il loro ancoraggio all’importo dell’evasione, sembrano destinati a provocare una sensibile ‘‘riduzione’’ dell’area del penalmente rilevante. La gestione del nuovo sistema pare, tuttavia, destinata a rivelarsi disagevole sul versante dell’accertamento processuale: il riferimento, nell’ambito delle soglie, all’importo dell’evasione comporterà istruttorie faticose, capaci di fungere da palestra per celebrati consulenti e di aprire il campo, perciò, a processi penali costosi e inefficienti. 9. Sul versante della politica sanzionatoria, ampio ricorso è stato fatto nel decreto legislativo, in attuazione dei criteri di delega, alle sanzioni amministrative accessorie, specie a quelle che possiedono natura interdittiva, vuoi temporanea che definitiva. Sul piano delle cornici edittali, si è già registrato il sensibile incremento dei compassi edittali delle sanzioni pecuniarie. Nella topografia dell’intervento, il settore che meglio consente di percepire i descritti fenomeni è senza dubbio quello della disciplina degli alimenti. Il quadro che ne deriva rivela immediatamente le contraddizioni in cui si dibatte il nuovo arsenale sanzionatorio. La previsione di massimi edittali particolarmente elevati (sino a centottanta milioni) e di sanzioni interdittive che possono determinare la chiusura definitiva di uno stabilimento restituiscono l’immagine di sistema ventriloquo, dove le labbra si muovono in direzione della persona fisica responsabile della violazione, ma nel cui ambito a parlare è il ventre della responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi. Questa dissociazione riflette le inevitabili storture che derivano dalla piatta adesione al vetusto brocardo societas delinquere non potest (35). Elementari considerazioni di carattere empirico-criminologico rendono di immediata percezione come il costo elevato delle nuove san(35) Brocardo di cui va salutato con favore il recentissimo superamento normativo nel nostro paese, avvenuto con l’approvazione della legge di ratifica della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (denominata Convenzione PIF) e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali. L’art. 11 della legge n. 300 del 2000 delega infatti il Governo ad introdurre un sistema di responsabilità sanzionatoria amministrativa delle persone giuridiche e di altri enti o società sprovviste di personalità giuridica, non soltanto in presenza dei fatti-reato indicati nelle Convenzioni (essenzialmente la corruzione), ma anche con riferimento ad altre materie quali gli infortuni sul lavoro e l’ambiente. Quel che risalta è che, al di là della qualificazione in termini di responsabilità amministrativa delle sanzioni applicabili agli enti collettivi, la gestione del procedimento applicativo è per intero riservata al giudice penale, tanto che si può fondatamente denunciare l’ennesima ‘‘truffa delle etichette’’. Peraltro, l’esame dei resoconti parlamentari dimostra che la scelta di nominare come ‘‘amministrativa’’ la responsabilità si è imposta per il pervicace rifiuto di alcuni gruppi parlamentari di richiamare la responsabilità penale. Per un riepilogo delle vicende legate alla tormentata
— 1395 — zioni pecuniarie sarà di pertinenza dell’impresa o della società. Per non parlare delle sanzioni accessorie, rivolte proprio a colpire l’impresa. Il legislatore, nel momento in cui si apprestava a riorganizzare materie che impingono anche nel diritto penale d’impresa, poteva forse risolvere queste ambiguità e provare ad abbozzare un sistema di responsabilità sanzionatoria amministrativa degli enti collettivi, fondato o sul criterio del rischio di impresa, ovvero su nessi ascrittivi capaci di far trasudare la colpa organizzativa dell’ente. Quel che non appare tollerabile è il nuovo assetto che mira a colpire gli enti senza palesare alcun criterio di imputazione, ricorrendo a sanzioni mutuate dall’arsenale penalistico e nella più totale assenza di sufficienti garanzie nel procedimento applicativo. Più che il sospetto, si ha quasi la certezza di essere dinanzi al « solito scenario di truffa delle etichette » (36). Queste preoccupazioni, peraltro, si collocano in buona parte su un versante meramente teorico. Come si vedrà meglio nel commento riserapprovazione di tale legge (scandita da ben sei passaggi parlamentari), v. PIERGALLINI, Progetti di riforma, in questa Rivista, 2000, p. 293 ss. Va inoltre sottolineato come la Commissione per la riforma del codice penale, presieduta dal prof. C.F. Grosso, che ha da poco concluso i lavori pubblicando una schema di articolato (corredato di relazione esplicativa) di riforma della parte generale del codice penale, ha espressamente disciplinato la responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi. Sulle problematiche sollevate dalla responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi, cfr., fra gli altri: GROSSO, voce Responsabilità penale, in Nss. Dig. it., Torino, XV, 1968, p. 711 ss.; BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 951 ss.; STORTONI, Profili penali delle società commerciali come imprenditori, ivi, 1971, p. 1163 ss.; PECORELLA, Societas delinquere non potest, in Riv. giur. lav., 1977, IV, p. 367 ss.; PEDRAZZI, La responsabilité pénale non individuelle, in Rapports nationeaux italiens au X Congrès international de droit comparé, 1978, p. 750; COFFEE, No Soul to Damn: No Body to Kick: An Unscandalized inquiry into the Problem of Corporate Punishment, in Michigan Law Review, 1981, pp. 79, 405 ss.; ALESSANDRI, Commento all’art. 27 comma 1, in G. BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, IV, 1989, p. 137 ss. dell’estratto; VOLK, Zur Bestrafung von Unternehmen, in JZ, 1993, p. 429 ss.; PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 1040 ss.; DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi e innovazioni nel diritto penale statunitense, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss.; DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese e la responsabilità penale delle Personnes Morales, ivi, 1995, p. 189 ss.; M. ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), ivi, 1995, p. 1031 ss.; TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, ivi, p. 615 ss.; CASTELLANA, Diritto penale dell’Unione europea e principio « societas delinquere non potest », in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 747 ss.; FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale « moderno », Padova, 1996, ed. provv., p. 275 ss.; PALIERO, Problemi e prospettive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 1173 ss; MILITELLO, Attività del gruppo e comportamenti illeciti: il gruppo come fattore criminogeno, ivi, 1998, p. 367 ss.; STELLA, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, ivi, 1998, p. 459 ss.; DE MAGLIE, Societas delinquere potest, Padova, ed. provv., 1999. (36) Il sospetto è agitato dalla DI GIOVINE, La nuova legge delega, cit., sub par. 1.
— 1396 — vato alla disciplina degli alimenti (37), le sanzioni amministrative accessorie scontano condizioni applicative di difficile verificazione: da un lato, infatti, il presupposto della reiterazione assume una consistenza puramente virtuale, stante l’assenza di qualsiasi previsione in ordine alla realizzazione di un casellario delle violazioni; dall’altro lato, il requisito alternativo del pericolo per la salute, ove ricorrente, determinerà la prevalenza degli illeciti penali, in queste ipotesi senz’altro speciali rispetto a violazioni amministrative che quasi mai annoverano il pericolo tra gli elementi costitutivi del tipo. 10. L’introduzione dell’istituto della reiterazione e il privilegio accordato alle sanzioni amministrative accessorie nel controllo di intere sfere di attività inducono a svolgere qualche breve considerazioni sulle ripercussioni che ne possono derivare sul volto e la funzione dell’illecito amministrativo. Si è giustamente osservato come « il concetto di reiterazione contribuisce ad offuscare il carattere originario e distintivo dell’illecito amministrativo rispetto a quello penale, per cui il primo smette di connotarsi come disobbedienza in un’ottica esclusivamente oggettiva, e comincia ad appropriarsi della dimensione anche soggettiva del secondo, legata alla rimproverabilità ed alla pericolosità del suo autore » (38). Prosegue, dunque, il (non auspicabile) processo di omologazione tra le due figure di illecito, la cui accelerazione sembra per certi versi favorita dalle novità della tipologia sanzionatoria. Lo svela l’uso promiscuo delle sanzioni interdittive, ormai percorse da una sorta di pendolarismo che ne rende sostanzialmente indistinguibile la vera natura. Sta di fatto che l’origine penalistica di una gran parte di queste sanzioni, particolarmente afflittive, sembra destinata ad accentuare i problemi sul versante delle garanzie sostanziali e procedimentali a presidio dell’illecito amministrativo. Se i principi delineati nella l. n. 689/1981 sembrano soddisfacenti rispetto al tradizionale modello di illecito amministrativo pecuniario, funzionale alla repressione di violazioni formali di agevole accertamento, corpose perplessità si agitano sulla sufficienza di tali garanzie con riguardo ai nuovi modelli di illecito entrati prepotentemente sulla scena. Destinati a disciplinare « realtà economiche complesse » per il tramite di modelli sanzionatori interdittivi, paradisciplinari e ablativi (39), essi presentano una vitalità e una duttilità applicativa particolarmente robuste non controbilanciate da un’adeguata (37) Cfr. PIERGALLINI, Depenalizzazione e riforma, cit. (38) Così, DI GIOVINE, La nuova legge delega, cit., sub par. 1. (39) Per un’ampia e approfondita analisi delle differenze intercorrenti tra il tradizionale modello ‘‘parapenale’’ di illecito amministrativo e il modello orientato al controllo di intere sfere di attività, v. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1038 ss.
— 1397 — rete di garanzie procedimentali. Il rafforzamento dell’efficacia dissuasiva dell’illecito amministrativo finirebbe quindi per attenuare i presidi di garanzia del cittadino. Attenuazione destinata ad essere significativamente alimentata dal ben noto deficit di imparzialità che penalizza la pubblica amministrazione nel nostro paese, capace di aprire il campo all’esercizio corrivo e magari casuale del potere discrezionale e di favorire, così, risposte sanzionatorie disomogenee. Ma non basta. Forte è altresì il rischio che il passaggio di una sfera del penalmente rilevante a quella dell’illecito amministrativo trascini con sé anche i pesanti tassi di inefficienza della giustizia penale in un comparto che già di suo è inficiato da un’atavica lentezza procedimentale. Il ragguardevole volume di processi che confluiranno verso la pubblica amministrazione lascia comprendere con chiarezza che lo sviluppo della deflazione penale dipenderà in massima parte dalla capacità operativa delle amministrazioni interessate: la mancanza di una svolta nel senso dell’efficienza non potrà che produrre « esiziali crisi di attuazione » (40) e, in definitiva, l’assenza di una qualsiasi risposta punitiva. 11. Si è più volte richiamata l’attenzione sulla circostanza che la depenalizzazione del 1999 si colloca all’interno di una trama di riforme, il cui obbiettivo principale è quello di restituire efficienza alla macchina giudiziaria. Può essere quindi utile analizzare brevemente il terreno di coltura delle riforme e saggiarne, per quanto possibile, gli effetti. Alcune riforme, ‘‘in cantiere’’ o ‘‘già fatte’’, ripropongono il tema della deflazione, sia nell’ottica della ‘‘selezione’’ che in quella dello sfoltimento ‘‘endoprocessuale’’. Vediamo come. 1) Sul versante della selezione, il Governo ha mostrato particolare interesse per l’istituto della particolare tenuità del fatto (spesso impropriamente denominato come ‘‘irrilevanza penale del fatto’’) (41). La linea di tendenza è quella di ‘‘flessibilizzare’’ il principio di obbligatorietà del(40) Così, GIUNTA, La scommessa, cit., p. 54. (41) La particolare tenuità (o esiguità lesiva) del fatto si ispira ad un paradigma di natura ordinatoria, ispirato al criterio graduale del più/meno destinato a venire in considerazione solo quando il tradizionale criterio tipologico di classificazione ha già sancito la penale rilevanza del fatto. Di conseguenza, la particolare tenuità si risolve in un giudizio sull’entità dello spessore lesivo di un illecito riconosciuto penalmente tipico. Il richiamo all’irrilevanza penale del fatto, pure contenuto in alcuni disegni di legge per evocare il fenomeno della particolare tenuità, si rivela pertanto scorretto, potendo ingenerare confusione con la diversa categoria dei fatti inoffensivi conformi al tipo, nel cui ambito difetta la rilevanza penale del fatto, provvisto di una tipicità solo apparente. Come si vede la querelle non attinge al piano della forma ma alla sostanza degli istituti penalistici coinvolti. Sulla categoria della particolare tenuità del fatto, come forma di graduazione del disvalore lesivo dell’illecito penale, cfr. KRÜMPELMANN, Die Bagatelldelikte, Berlin, 1966; PALIERO, Minima non curat praetor, cit., p. 653 ss. Sulla distinzione tra paradigmi classificatori e ordinatori in ambito giuridico, v. PHIL-
— 1398 — l’esercizio dell’azione penale, di cui, peraltro, è stato da più parti messo a nudo il sostanziale, quotidiano ‘‘aggiramento’’ che avviene nella prassi applicativa: si pensi al fenomeno dell’esercizio apparente dell’azione penale, ovvero alle azioni penali ‘‘casuali’’ o ‘‘mirate’’ ecc. Pur nella salvaguardia del valore ‘‘simbolico’’ del principio, si intende ‘‘flessibilizzarlo’’ in funzione delle esigenze di celerità e di effettività della giustizia penale. La particolare tenuità del fatto costituisce un meccanismo di ‘‘autoriduzione’’ che punta ad estromettere dal circuito penale i fatti contrassegnati da ‘‘esiguità’’. Il Governo, nel disegno di legge recante modifiche processuali al rito dinanzi al giudice monocratico (42), ha strutturato secondo cadenze estremamente tipicizzate l’istituto: l’esiguità si proietta, infatti, congiuntamente, sopra tutti gli elementi costitutivi dell’illecito penale e coinvolge anche l’autore del fatto (43). La sfera di operatività dell’istituto è stata poi prudentemente delimitata ai reati puniti con una pena non superiore nel massimo a tre anni. La sorte parlamentare del nuovo istituto, già operante, sia pure in una diversa versione, nell’ambito del procedimento minorile, è stata davvero infausta: dinanzi alla preoccupazione che potesse favorire l’incremento della micro-criminalità, è stato rapidamente espunto dal testo esaminato dal Parlamento, infine approdato nella ben nota legge Carotti (44). 2) Particolare importanza viene assegnata alla riforma che riconosce alcune competenze in materia penale al giudice di pace, il cui decreto legislativo di attuazione è stato di recente emanato dal Governo (45). Ovviamente non è questa la sede per apprezzare i contenuti di una riforma particolarmente complessa, che presenta significative novità sia sul terreno sostanziale che sul versante processuale. LIPS, Unbestimmte Rechtsbegriffe und Fuzzy Logic, in Fest. Arth. Kaufmann, Heidelberg, 1993, p. 265 ss.; MYLONOPOULOS, Komparative und Dispositionsbegriffe im Strafrecht, Frankfurt a. M., Berlin, Bern, New York, Paris, Wien, 1998. (42) Si trattava del ddl. n. 2968/C, in parte confluito nel testo unificato dei progetti di legge n. 411 e abbinati, infine culminato nell’approvazione della legge (c.d. Carotti) n. 479/1999. (43) Ecco quale era il testo della norma inserita, come condizione di procedibilità, nel codice di rito: ‘‘Art. 335-bis. — 1. Per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, la procedibilità è esclusa quando risulta l’irrilevanza penale del fatto. Per la determinazione della pena si osservano le disposizioni dell’art. 4. 2. L’imputato non è perseguibile quando rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché le modalità della condotta, la sua occasionalità, valutata anche in relazione alla capacità a delinquere del reo, e il grado della colpevolezza, non giustificano l’esercizio dell’azione penale. 3. ...’’. (44) Si tratta, come già anticipato nella nota 42, della l. n. 479/1999. (45) Cfr. il d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, emanato in attuazione della legge delega 24 novembre 1999, n. 468.
— 1399 — La legge devolve al giudice di pace, in considerazione della natura e della funzione conciliativa di tale organo, fattispecie incriminatrici codicistiche e non consistenti in « microviolazioni », riconducibili a « microconflittualità » tra privati (con la grave eccezione costituita dalla « colpa professionale » e di quella derivante dalla violazione di norme antinfortunistiche seguite da una malattia non superiore a venti giorni) (46). Sul terreno deflattivo, il decreto legislativo prevede inoltre: l’istituto della ‘‘particolare tenuità del fatto’’ (47), la cui operatività viene tuttavia condizionata al consenso della vittima; un tentativo obbligatorio di conciliazione, secondo moduli tradizionali prevalentemente ‘‘interni’’ al processo (48); e, infine, ipotesi di estinzione del reato conseguenti a condotte riparatorie o risarcitorie (49), la cui congruenza ai fini dell’estinzione dell’illecito è rimessa all’apprezzamento del giudice, il quale è chiamato altresì a valutare se dette condotte siano sufficienti a salvaguardare le istanze di riprovazione e di prevenzione del reato. L’apparato sanzionatorio risulta poi contraddistinto dalla messa al bando della pena detentiva, rimpiazzata da sanzioni pecuniarie e paradetentive non sospendibili (50). Proprio la scelta di escludere, in questo ambito, la sospensione condizionale della pena, sembra funzionale all’implementazione della funzione conciliativo-compensativa: l’approdo dell’irrogazione della sanzione dovrebbe infatti costituire un evento ‘‘eccezionale’’, derivante dall’insuccesso di tutti i meccanismi destinati a favorire la definizione anticipata del processo. Nel complesso, l’effetto deflattivo di questa importante riforma sembra risolversi in un mero, circoscritto travaso di competenze dal sistema giurisdizionale ‘‘ordinario’’ in favore di un giudice segnato dalla prevalenza della finalità conciliativa. In altre parole, viene modificato il ‘‘governo’’ dei conflitti interpersonali: il diritto penale, pur non spogliandosi della sua competenza in questo tradizionale settore della tutela in favore di circuiti esterni di mediazione (51), delega ad un giudice ad hoc la gestione di questi micro-conflitti, fondandola non tanto sulla repressione ma sulla loro rielaborazione attraverso strumenti prevalentemente compensativi. (46) Il catalogo dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace è contenuto nell’art. 4 del decreto legislativo. (47) Si veda l’art. 34 del decreto legislativo. (48) V. l’art. 29, comma 4, del decreto legislativo. (49) Cfr. l’art. 35 del decreto legislativo. Più in generale, in ordine alla rilevanza delle condotte post delictum come ipotesi di esclusione o di attenuazione della pena, v. il recente lavoro della FONDAROLI, Illecito penale e riparazione del danno, Milano, 1999. (50) V. gli artt. 52 e ss. del decreto legislativo. (51) Sul tema della mediazione, v. MANNOZZI, La mediazione penale, ed. provv., Padova, 1999.
— 1400 — 12. Gli effetti deflattivi, comunque contenuti, che potranno derivare dalla depenalizzazione e dalle altre riforme, sono destinati a trovare un vigoroso contrappeso nell’incremento del diritto penale in altri importanti settori. 1) Viene prima di tutto in considerazione il diritto penale ‘‘dei mercanti (o dei tecnocrati)’’, di derivazione europea o internazionale, variamente ispirato a esigenze di armonizzazione dei sistemi penali, di cooperazione giudiziaria e di omogeneità della disciplina sanzionatoria in taluni settori economici. Si assiste, così, da un lato, all’emersione di nuove esigenze di tutela che spesso poggiano sopra un indiscutibile referente criminologico: si pensi alla lotta alla corruzione anche nel settore privato (52), alla responsabilità sanzionatoria delle persone giuridiche (53), al riciclaggio (54) (particolarmente intenso è il lavorìo in ambito internazionale per l’estensione delle attuali incriminazioni: si pensi alla tematica del riciclaggio colposo, alla punibilità dell’autore del reato presupposto e all’estensione degli obblighi di segnalazione e registrazione in capo a soggetti che svolgono attività particolarmente esposte al « rischio » di riciclaggio, come le case da gioco, i notai, i gioiellieri, i titolari di aste o di imprese di antiquariato, ecc.) e alla confisca « per equivalente » (55). In questo ambito, le scelte di criminalizzazione sembrano legittimate anche dalla crescente fisionomia « transnazionale » del crimine e dalla necessità di incrementare la cooperazione giudiziaria (56). (52) La ‘‘corruzione tra privati’’ forma oggetto di un progetto di azione comune in ambito europeo e l’incriminazione di questa condotta era stata inserita nel ddl. n. 244/C, d’iniziativa del deputato Mammola e altri, nel contesto di previsioni rivolte principalmente a controllare i patrimoni dei soggetti che rivestono pubbliche funzioni. La disposizione sulla corruzione privata è stata, tuttavia, espunta dal testo nel corso dell’affannoso iter parlamentare che non si è ancora concluso. La previsione incriminatrice ha infine trovato posto nel ddl. n. 7123/C, d’iniziativa governativa, che delega il Governo a riformare il diritto societario: nell’art. 10, comma 1, lett. a), n. 13, il criterio di delega contempla esplicitamente la ‘‘corruzione, consistente nel fatto degli amministratori, direttori generali, sindaci (...), i quali, a seguito della dazione o della promessa di utilità, compiono od omettono atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, se ne deriva pericolo di nocumento per la società’’. Occorre segnalare che il n. 12 del citato articolo del ddl. prevede l’introduzione della fattispecie di ‘‘infedeltà patrimoniale’’. (53) La responsabilità sanzionatoria amministrativa delle persone giuridiche e di altri enti collettivi sprovvisti di personalità giuridica è stata di recente introdotta nel nostro paese con la l. n. 300 del 2000 di ratifica delle Convenzioni PIF e OCSE: sul punto, si rinvia ai chiarimenti forniti nella nota 35. (54) In argomento, cfr. ZANCHETTI, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997. (55) Per un attento studio del volto tradizionale e ‘‘moderno’’ della confisca, v. FORNARI, Criminalità del profitto, cit. (56) In argomento, v. le recenti riflessioni di ROXIN, I compiti futuri delle scienza penalistica, in questa Rivista, 2000, p. 11 ss.
— 1401 — Dall’altro lato, il diritto penale di derivazione comunitaria ha però favorito l’ingresso « a pioggia » nel sistema penale di previsioni afferenti a materie del tutto eterogenee, in attuazione di direttive o regolamenti comunitari. Emblematiche le deleghe al Governo contenute nelle pachidermiche leggi comunitarie, che contengono criteri di delega per l’attuazione delle disposizioni comunitarie contrassegnati da un’assoluta e deprecabile genericità (57). 2) Si è fatta prepotentemente largo, poi, una nuova emergenza: il traffico di esseri umani. Il fenomeno ha colto di sorpresa ed è variamente imputabile al persistente squilibrio economico esistente nel mondo e al crollo della cortina di ferro. Prima ancora di riflettere sulla validità delle norme del codice Rocco (riduzione in schiavitù, tratta di schiavi ecc.), svariate iniziative di riforma puntano, invece, alla moltiplicazione dei tipi delittuosi, legata alla diversità dei soggetti passivi: si pensi alla tratta delle donne, di cui si occupa il ddl. governativo n. 5839/C, alla tratta di esseri umani, di cui alla proposta di legge n. 5350/C d’iniziativa parlamentare, alla tratta di immigrati clandestini, di cui al’art. 10 del testo unico n. 40/1998 sull’immigrazione, alla tratta di minori, ai sensi dell’art. 601 c.p., come modificato dalla l. n. 269/1998. La polverizzazione degli interventi sembra espressiva di una rincorsa assai poco meditata a « coprire » i varchi che l’incedere degli eventi criminosi sembra quotidianamente aprire. 4) Anche nel settore della tutela dell’ambiente, vi è una fioritura di iniziative legislative, governative e non, in gran parte ispirate dal contenuto della Convenzione di Strasburgo del Consiglio d’Europa. La finalità di tutela viene perseguita con fattispecie a struttura ‘‘classica’’ impregnate di un visibile ‘‘gigantismo’’ (sia descrittivo, perché il fulcro delle nuove incriminazioni poggia su macroeventi in rapporto di progressione lesiva: pericolo di deterioramento degli ecosistemi, deterioramento, disastro ambientale; che sanzionatorio, a causa delle elevate comminatorie edittali), (57) Sull’argomento v. le puntuali critiche di DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, pp. 14-15. Per rendersi conto delle disarmante genericità dei criteri di delega, si riporta il testo di quello contenuto nell’art. 2, comma 1, lett. c), del ddl. n. 5619/C (legge comunitaria 1999), con l’avvertenza che si tratta di un criterio ormai stereotipato, riprodotto in tutti i disegni di legge avente ad oggetto l’adeguamento agli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee: ‘‘salva l’applicazione delle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, saranno previste sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi. Le sanzioni penali (...) saranno previste (...) solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi generali dell’ordinamento interno. (...) La sanzione amministrativa del pagamento di una somma (...) sarà prevista per le infrazioni che ledano o espongano a pericolo interessi diversi da quelli sopra indicati (...)’’. Ci sembra superfluo ogni commento sulla compatibilità tra un simile criterio di delega e il principio costituzionale della riserva di legge in materia penale.
— 1402 — teoricamente destinate alla paralisi per chiare difficoltà di accertamento probatorio (58). 5) Si segnalano, infine, tutta una serie di altri progetti di riforma che riflettono, da un lato un visibile disagio nella disciplina di materie in cui sono coinvolti importanti valori sociali e religiosi; dall’altro lato, una stupefacente inclinazione alla ‘‘penalizzazione’’ di condotte sprovviste di qualsiasi disvalore. Particolarmente emblematico, nel primo senso, il travagliato dibattito parlamentare sulla ‘‘fecondazione assistita’’, pervaso da una chiara contrapposizione tra chi intende concepire una disciplina che esalti lo Stato nel suo ruolo di ‘‘imprenditore di moralità’’ (59) e chi, per contro, reclama la carenza di legittimazione del diritto penale in una materia caratterizzata da un sostrato di valori e di conoscenze tutt’altro che sedimentati. (58) La tutela penale dell’ambiente costituisce uno dei terreni in cui il paradigma nomologico condizionalistico viene messo seriamente alla frusta visto che da una pluralità di condotte seriali derivano effetti cumulativi o sinergici. Come noto, le norme che fissano standards di accettabilità o valori-limite di emissione (che integrano gli elementi costitutivi di fattispecie di pericolo astratto) non si fondano sulla convinzione che ogni singola condotta di scarico che oltrepassi dette soglie sia idonea ad aumentare la probabilità di una grave alterazione dell’equilibrio degli ecosistemi. Ciò che davvero lascia presagire il pericolo è che ognuna di quelle condotte sommandosi con regolarità ad altre analoghe che la seguono o che la precedono, e combinandosi con altri fattori ambientali, contribuisca ad accelerare l’alterazione degli ecosistemi. Gli effetti cumulativi costituiscono il contrassegno di un evento che presenta dimensioni lesive superiori a quelle che ciascuna condotta sarebbe stata idonea a determinare. In definitiva, la causalità opera, in questo contesto, alla stregua di un moltiplicatore dell’effetto dannoso. Già a prima vista, è facile cogliere l’estrema difficoltà in cui si imbatte il modello nomologico condizionalistico in questa tipologia di casi: in specie il modello di spiegazione ‘‘monocausale’’, fondato sulla eliminazione mentale della singola condotta, che vanterebbe scarsissime chances esplicative rispetto ad eventi macrolesivi. Per adattarsi al mutato scenario empirico, l’explanans dovrebbe descrivere una catena che lega non un singolo antecedente, ma espressiva di un certo numero di concause. La legge di copertura dovrebbe poi evocare una regolarità che esprima una correlazione tra le concause e il macroevento (del tipo: coeteris paribus, la ricorrenza di un dato numero di concause provoca, con elevata probabilità, quel tipo di evento). Ovviamente, l’esistenza di una legge di questo genere è condizionata dalla remota possibilità di conoscere i meccanismi di interazione delle condotte non soltanto rispetto all’evento ma anche tra di loro. La prevedibile paralisi decisoria, legata alle difficoltà di accertamento, sembra così ri-legittimare lo strumento di tutela dei reati di pericolo astratto che, in fondo, si limitano ‘‘laicamente’’ a registrare l’impraticabilità di forme di tutela che puntino verso il pericolo concreto o la lesione. Su queste tematiche, cfr., in generale, BAJNO, La tutela penale del governo del territorio, Milano, 1980; PATRONO, Inquinamento industriale e tutela penale dell’ambiente, Padova, 1980; FIANDACA-TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, in AA.VV., Materiali per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, p. 30 ss.; BAJNO, La tutela dell’ambiente nel diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1990, p. 341 ss.; PANAGIA, La tutela dell’ambiente naturale nel diritto penale d’impresa, Padova, 1993; CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente, Padova, 1996; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1999, p. 421. (59) Sullo Stato in funzione di ‘‘imprenditore di moralità’’, v. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p. 879 ss.
— 1403 — Di diverso tenore, e veniamo così al secondo degli aspetti segnalati, la discussione che sta impegnando il Parlamento sul tema del divieto di impiego di animali nei combattimenti. Il testo unificato della Commissione Giustizia della Camera (60), oltre ad incriminare le condotte di promozione e di organizzazione di combattimenti tra animali, destinate ad essere punite con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da cento a trecento milioni di lire, prevede il ricorso alla sanzione penale anche nei confronti di chi assiste ai combattimenti ovvero produce, detiene o espone al pubblico, a fini di lucro, video o materiale di altro genere che riproduce le scene di combattimenti tra animali. Sembra davvero superfluo provare ad interrogarsi intorno alla coerenza di simili previsioni rispetto agli obbiettivi, quotidianamente sbandierati, di ricondurre a dimensioni accettabili i contorni del sistema penale. Se poi si mettono sulla bilancia le energie impiegate nella discussione di simili disegni di legge con la rapidità e la rassegnazione con la quale sono stati abbandonati al loro destino progetti di legge in settori ben più rilevanti (un tema per tutti: la corruzione e le moderne dinamiche della criminalità economica), si è sopraffatti dalla sensazione di doversi confrontare con una politica, da un lato miope e pronta a recepire supinamente le sollecitazioni che provengono dalle ricorrenti campagne di ‘‘legge e ordine’’ o nell’inseguire ansie di tutela tutt’altro che sedimentate; e per contro lenta, al punto da risultare paralizzata, nell’affrontare nodi e percorsi di tutela sprovvisti del comodo paravento della neutralità. 13. La disamina del provvedimento di depenalizzazione e, più in generale, delle altre riforme oltre che di quanto giace nella ‘‘fucina’’ del legislatore, conferma che la legge non sembra possedere quella funzione taumaturgica che pure è stata da alcune parti evocata, anche se non possono essere disconosciuti i progressi rispetto al passato. In definitiva, vi è da riflettere seriamente sulla possibilità di continuare a concepire la depenalizzazione nelle forme sinora seguite. Sembra forse più produttivo intraprendere itinerari di depenalizzazione per settori omogenei, che sembrano garantire una maggiore razionalità sistematica e favorire (si spera) un più consapevole e corretto approccio nei lavori parlamentari. Questo obbiettivo è tuttavia subordinato all’effettiva conoscenza delle dimensioni della legislazione complementare, non già per procedere a un suo radicale smantellamento, ma per riorganizzarla secondo criteri di razionalità e di idoneità strumentale, così da renderne più (60) Il ddl. è il n. 6583/C-A, presentato dal Ministro della Sanità, a cui sono state abbinate altre proposte di legge.
— 1404 — chiara e visibile la collocazione e l’accessorietà rispetto al motore centrale del sistema (il codice penale) (61). In una prospettiva di auspicabile riduzione dell’area del penalmente rilevante, occorre comunque guardarsi dal pericolo di facili scorciatoie, magari camuffate sotto le vesti di accattivanti opzioni ideologiche: il riferimento va all’idea, ancora viva nel dibattito penalistico, di coniugare la deflazione con la teorica del c.d. diritto penale minimo (62), che, come noto, riconduce ‘‘il penale’’ alla tutela dei soli diritti soggettivi. Si tratta, per vero, di un modello metastorico, prigioniero di pregiudizi illuministici che la prassi ha smentito con disarmante puntualità. Esso sembra non tenere conto del cambiamento della criminalità nelle società europee, che ha ormai assunto caratteri qualitativamente nuovi. Si pensi alla criminalità economica (capace di produrre danni di dimensioni macroeconomiche), alla corruzione politico-amministrativa, agli attacchi all’ambiente e alla criminalità organizzata. Dinanzi a queste forme di aggressione ubiquitarie, spesso transnazionali e a vittimizzazione di massa, sostenere — come fanno i seguaci del « diritto penale minimo » — la riduzione del di(61) Nota giustamente DONINI, La riforma della legislazione, cit., p. 58, che l’alternativa alla riorganizzazione ‘‘è questo esistente giuridico: è un esistente che ha la razionalità del reale. Per cambiarlo, se si vuole tentare, occorre conoscerlo: demonizzarlo, mai più’’. (62) Per una prospettiva penale ‘‘minimalista’’ che ritiene il diritto penale incapace di risolvere i problemi sociali di natura collettiva e/o che contesta la legittimazione del diritto penale a fronteggiare le organizzazioni criminali che entrano in competizione con lo Stato, così che allo strumento penale non resterebbe in definitiva che tutelare i tradizionali beni giuridici individuali, v., sia pure con diverse accentuazioni: BARATTA, Principi del diritto penale minimo, in Dei delitti e delle pene, 1985, p. 443 ss.; FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, in BARATTA (a cura di), Il diritto penale minimo. La questione criminale tra riduzionismo e abolizionismo, Napoli, 1986, p. 493 ss.; HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, in Fest. Arth. Kaufmann, Heidelberg, 1989, p. 685 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1990; ID., Per un programma di diritto penale minimo, in AA.VV., La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di L. Pepino, Milano, 1994, p. 57 ss.; MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1995. Per un ritorno al Kernstrafrecht da posizioni rispettivamente ‘‘neoretribuzioniste’’ o ‘‘neoliberali’’, cfr.: NAUCKE, Die Wechselwirkung zwischen Strafziel und Verbrechensbegriff, Stuttgart, 1985, p. 35 ss.; ID., I confini del diritto penale. Abbozzo del problema in sette tesi, in Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, a cura di G. Borré e G. Palombarini, Milano, 1998, p. 101 ss.; HASSEMER, Produktverantwortung, cit. Per una ricognizione del dibattito tedesco sul ritorno al diritto penale ‘‘classico’’, v. DETZNER, Rüccker zum ‘‘klassichen Strafrecht’’ und die Einführung einer Beweislastumkehr, Frankfurt a. M., 1998. In tempi recenti, si è focalizzata l’attenzione sulla relazione esistente tra il diritto penale dei fatti — la criminalità punita — e l’ideale di un codice minimo; dall’analisi di questa relazione emergerebbe come già largamente realizzato il diritto penale ‘‘minimo’’ nell’ambito della criminalità punita (concentrata su pochi e ben selezionati tipi di autore e su poche tipologie criminose: si pensi ai tossicodipendenti, ai reati contro la proprietà, ecc.), mentre il restante (e smisurato) diritto penale manterrebbe soltanto un significato simbolico: questa è la tesi di PAVARINI, Per un diritto penale minimo: ‘‘in the books’’ o ‘‘in the facts’’? Discutendo con Luigi Ferrajoli, in Dei delitti e delle pene, 1998, p. 149 ss.
— 1405 — ritto penale alla sola tutela dei beni giuridici classici a conformazione individuale (relegando magari la tutela dei beni istituzionali e collettivi a un non meglio precisato « diritto dell’intervento sociale ») (63), significherebbe optare — come si è di recente rilevato — per una politica criminale neo-liberista, di stampo curiosamente « classista », in cui i clienti del diritto penale finirebbero per essere ancora una volta « i soliti noti » (i soggetti marginali) (64). Occorre, per contro, prendere atto che il diritto penale moderno tende vieppiù ad accreditarsi come strumento, spesso simbolico, di aggregazione e di organizzazione del consenso nella gestione burocratica dei problemi e dei conflitti sociali, riallocandone i relativi rischi (65). La sua dilatazione è sotto gli occhi di tutti e ha provocato la definitiva emarginazione del ruolo del bene giuridico come elemento di limite della tutela penale. Tuttavia, sarebbe grave dimenticare che questa espansione poggia sulle caratteristiche della società post-moderna (66), sempre più segnata dalla globalizzazione dei rapporti economici e da una marcata accentua(63) Cfr., su questa strategia di intervento, NAUCKE, Die Wechselwirkung zwischen Strafziel und Verbrechensbegriff, Stuttgart, 1985, p. 35 ss.; LÜDERSSEN, Die Krise des öffentlichen Strafanspruchs, Frankfurt am Main, 1989, p. 37 ss.; HASSEMER, Produktverantwortung, pp. 22-24. Critico su questo orientamento, PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1249, che ritiene praticabile una simile strategia di intervento soltanto nella responsabilità penale dell’impresa. (64) Critici verso l’orientamento minimalista, che avrebbe come obbiettivo la restaurazione di una realtà ‘‘di classe’’: LÜDERSSEN, Abschaffen des Strafrecht?, Frankfurt a. M., 1995, p. 22 ss.; ROXIN, Strafrecht, AT, I, München, 1997, § 2/30-31; MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale ‘‘minimo’’ e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 857 ss. (65) Così, PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., p. 1228 ss. (66) L’epoca contemporanea viene qualificata come post-moderna da LYOTARD, La condizione postmoderna, Milano, 1990, secondo il quale le società avanzate hanno ormai perso i caratteri della cultura moderna, vale a dire i riferimenti all’illuminismo e all’idealismo. La crisi di queste due filosofie deriva dalla scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i precedenti ‘‘fondamenti’’ dell’epistemologia si sono rivelati inattendibili; inoltre, la storia sarebbe priva di qualsiasi teleologia e, di conseguenza, non sarebbe possibile difendere alcuna idea di progresso. In contrapposizione a questo orientamento, vi è chi ritiene il nostro tempo come l’epoca della modernità incompiuta, che soffre ancora di un deficit di razionalità comunicativa (così, HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari, 1987), oppure della modernità radicale, che ha cioè estremizzato i caratteri tipici della modernità, attraverso l’interdipendenza planetaria dei rapporti economici e culturali (questa è l’impostazione seguita da GIDDENS, Le conseguenze della modernità, Bologna, 1994), o, infine, della società del rischio, protesa ad evidenziare la natura globale dei rischi della società contemporanea rispetto a quelli della società industriale, qualificata pre-moderna (è questa la tesi di BECK, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt am Main, 1986; ID., Politik in die Risikogesellschaft, Frankfurt am Main, 1991). Ciò che accomuna queste impostazioni rispetto a quella postmoderna di Lyotard è l’idea che non si dia una soluzione di continuità tra il progetto della modernità e la condizione della società postindustriale, ma che, al contrario, quest’ultima tenda ad una radicalizzazione o al compimento del progetto. Per una
— 1406 — zione dei rischi sociali che colpiscono oggi gli uomini tutti allo stesso modo (67). Di qui il senso di incertezza della condizione umana, aggravato dal venir meno delle certezze e dalla fiducia nei confronti dei sistemi di sapere esperto (la scienza) (68). Il processo è tuttavia di natura circolare: la perdita di fiducia alimenta la ricerca di fiducia, in vista di una stabilizzazione delle aspettative di comportamento (69). Ed è così che lo strumento penale si congeda dai suoi tradizionali fondamenti illuministici per approdare alla funzione di strumento di governo e di direzione della società, attraverso una penetrante Verrechtlichung di numerosi settori della vita sociale (economia, ambiente, controllo dei sistemi produttivi, ecc.) (70). Lo sradicamento e la fluidità che segnano la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo contribuiscono non poco ad accentuare il bisogno di una « guida esterna », capace (effettivamente o magari soltanto simbolicamente) di ricostruire la fiducia e di fronteggiare i bisogni di sicurezza collettiva. Non si tratta, conviene precisarlo, di legittimare supinamente questa prassi, ma neppure di vagheggiare il ritorno ad un diritto penale meramente « conservativo », che sembra ormai irrimediabilmente destinato a « non comunicare » con l’assetto e i bisogni di una società moderna. CARLO PIERGALLINI Magistrato f.r., in servizio presso l’Ufficio I della Direzione generale degli Affari penali del Ministero della Giustizia
completa panoramica di questi orientamenti, v. MARTINELLI, La modernizzazione, RomaBari, 1998. (67) Sui rischi e le prospettive della società globale, v. BECK, Che cos’è la globalizzazione, Roma, 1999; ID., Risikogesellschaft, cit., p. 12 ss.; LAU, Risikodiskurse: Gesellschaftliche Auseinandersetzungen um die Definition von Risiken, in Soziale Welt, 1989, p. 420 ss. (68) Cfr. ancora BECK, Risikogesellschaft, cit., p. 254 ss. (69) Il tema della stabilizzazione delle aspettative di comportamento rimanda alla sistemica funzionalista: v. LUHMANN, Sociologia del diritto, Bari, 1977, p. 35 ss.; ID., Sociologia del rischio, Milano, 1986, p. 64 ss. (70) Sul diritto penale in funzione di strumento di governo, v. l’esauriente analisi svolta da HERZOG, Gesellschaftliche Unsicherheit und Strafrechtliche Daseinvorsorge, Heidelberg, 1991, p. 50 ss. Sul concetto di Verrechtlichung, cfr. TEUBNER, Verrechtlichung - Begriffe, Merkmale, Grenzen, Auswege, in F. KÜBLER (Hrsg.), Workshop zu Konzepten des postinterventionistischen Rechts, Bremen, 1984, pp. 90-160.
LA NUOVA LEGGE DELEGA PER LA DEPENALIZZAZIONE DEI REATI MINORI TRA ISTANZE DEFLATTIVE E SPERIMENTAZIONE DI NUOVI MODELLI
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Alimenti. — 3. Circolazione stradale. — 4. Leggi finanziarie, tributarie e concernenti mercati finanziari e mobiliari. — 5. Depenalizzazioni singolari. — 6. Gli assegni. — 7. Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. — 8. Sanzioni alternative alla detenzione. — 9. Il furto. Remissione della querela e spese del procedimento. — 10. La mancata previsione dell’anagrafe nazionale ed il nuovo volto dell’illecito amministrativo. — 11. Abrogazioni. — 12. Abolitio e successione di leggi nel tempo. — 13. Depenalizzazione e legge delega. — 14. Conclusioni.
1. La legge delega per la depenalizzazione dei reati minori n. 205 del 1999 presenta caratteri di novità almeno sotto un triplice profilo, e cioè, quanto al metodo, ai contenuti ed alle tipologie sanzionatorie dell’illecito amministrativo. Metodo: il provvedimento sostituisce alla tecnica di intervento cieca, propria del suo più illustre precedente (l. n. 689 del 1981) (1), una sele(1) L’art. 32 della l. 24 novembre 1981, n. 689 prevede la trasformazione in illecito amministrativo di tutte le violazioni punite con la sola pena pecuniaria. Per una critica di questo criterio, F. SGUBBI, Depenalizzazione e principi dell’illecito amministrativo, in Ind. pen., 1983, p. 253 ss. Quanto alla letteratura sull’illecito amministrativo, v. inoltre, E. DOLCINI-C.E. PALIERO, I « principi generali » dell’illecito amministrativo nel disegno di legge di « Modifiche del sistema penale », in questa Rivista, 1980, p. 1154 ss.; F. BRICOLA, La depenalizzazione nella l. 24 novembre 1981, n. 689: una svolta « reale » nella politica criminale?, in Pol. dir., 1982, p. 3590 ss.; A. VIGNERI, Profili generali della sanzione amministrativa, in Le nuove leggi civili commentate, 1982, p. 1110 ss.; R. BERTONI, E. LUPO, G. LATTANZI, L. VIOLANTE, Modifiche al sistema penale. Legge 24 novembre 1981, n. 689, Milano, 1982; C.E. PALIERO, La l. n. 689 del 1981: prima « codificazione » del diritto penale amministrativo in Italia, in Pol. dir., 1983, p. 117 ss.; M.A. SANDULLI, Le sanzioni amministrative pecuniarie. Principi sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983, p. 253 ss.; M. SINISCALCO, Depenalizzazione e garanzia, Bologna, 1983; E. DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in questa Rivista, 1984, p. 589 ss.; T. PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, in questa Rivista, 1984, p. 952 ss; A. VIGNERI, La sanzione amministrativa, I, Origine e nozione, Padova, 1984; F. GIUNTA, voce Depenalizzazione, in G. VASSALLI (a cura di), Dizionario di diritto e procedura penale, Milano, 1986, p. 191 ss.; F. PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e san-
— 1408 — zione mirata delle materie e dei settori interessati. Anche se — deve ammettersi — tale opzione è apparsa necessitata, più che frutto di libera scelta: una depenalizzazione secca di reati puniti al di sotto di determinati limiti edittali sarebbe stata interdetta dall’alto tasso di irrazionalità che in atto segna il nostro sistema penale. È a tutti nota la stratificazione nel tempo di criminalizzazioni rispondenti alle più diverse rationes, non di rado frutto di leggi di emergenza, portatrici, per questo, di risposte emblematiche volte a sedare momenti di emotività collettiva, piuttosto che funzionali ad una coerente politica legislativa, e dotate dunque di apparati sanzionatori sbilanciati sul versante della prevenzione generale. Se, per un verso, questo fenomeno ha generato un progressivo, tendenziale innalzamento degli editti sanzionatori per reati anche di non particolare gravità, per altro opposto verso, l’omogeneità complessiva dell’assetto sanzionatorio si trova a fare i conti anche con il ricorso impropriamente invalso (ad esempio) nella legislazione comunitaria allo strumento contravvenzionale per reprimere fatti talvolta di notevole gravità (2), al punto che risulta spesso compromessa addirittura la coerenza interna di singoli microsistemi (3). A ciò si aggiunga che i prezioni amministrative, in Ind. pen., 1986, p. 35 ss.; E. DOLCINI, Sui rapporti fra tecnica sanzionatoria penale e amministrativa, in questa Rivista, 1987, p. 377 ss.; C.E. PALIERO, voce Depenalizzazione, in Dig. disc. pen., III, Utet, 1989, p. 425 ss.; C.E. PALIERO-A. TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988; E. ROSINI, Le sanzioni amministrative, Giuffrè, 1991; C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 1021 ss. Quanto all’omologo modello della legislazione tedesca, E. DOLCINI-C.E. PALIERO, L’illecito amministrativo (Ordnungswidrigkeit) nell’Ordinamento della Repubblica Federale di Germania: disciplina, sfera di applicazione, linee di politica legislativa, in questa Rivista, 1980, p. 1134 ss.; C.E. PALIERO, voce Ordnungswidrigkeiten, in Dig. disc. pen., IX, 1995, p. 125 ss. Sui processi e le politiche di depenalizzazione, si rinvia, ancora una volta, a C.E. PALIERO, « Minima non curat praetor ». Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985. Per una ricostruzione dei diversi interventi fino a quello del 1999, vd., infine, T. DI NINO, Gli itinerari della depenalizzazione dalla legge n. 689/1981 alla legge n. 205/1999, in Ind. Pen., 2000, 749 ss.; A. BERNARDI, Brevi note sulle linee evolutive della depenalizzazione in Italia, in corso di stampa su Ind. Pen. (2) Secondo criteri di delega standard, e la cui ampiezza e generalità suscita non poche perplessità sul piano della compatibilità costituzionale. Sul punto, di recente, E. DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, p. 14 s. (3) I micro-sistemi nascono allo scopo di disciplinare in maniera omogenea settori la cui specificità giustifica deroghe alla normativa centrale di riferimento (in particolare, ai principi della parte generale del diritto penale) e si caratterizzano sempre più frequentemente per la sinergia con diverse branche dell’ordinamento (parla di « micro-sistemi di tutela integrata », M. PAPA, Osservazioni sulla disciplina dei reati sessuali quali « microsistema di tutela integrata », in Commentario delle « norme contro la violenza sessuale », Padova, 1996, p. 427 ss.). Essi sono considerati da autorevole dottrina una valida alternativa ad una improbabile opera di ricodificazione, di cui si ritengono ad oggi mancare le condizioni politiche e culturali: si sarebbe cioè affermata « una prospettiva policentrica » [...] dove
— 1409 — cedenti interventi di depenalizzazione già avevano esaurito, attraverso tagli orizzontali, buona parte dell’area del penale bagatellare; è comprensibile, allora, come la tecnica di intervento tradizionale sia apparsa all’ultimo legislatore non più praticabile. Dal che l’esigenza di un approccio critico, in cui la selezione avvenisse verticalmente, sulla base delle caratteristiche delle materie interessate. Ciò detto, e passando al piano dei contenuti, di prim’acchito, è però difficile sottrarsi all’impressione che la montagna abbia partorito un topolino (4). La discussione parlamentare ha perso per strada occasioni importanti, come ad esempio quella di mettere mano ad una revisione organica in materia di urbanistica e territorio (che pure compariva nel testo originario del disegno di legge). D’altro canto, proprio la struttura aperta del provvedimento ha fatto sì che la trattazione di un argomento ne tirasse dietro altri simili ed ha eccitato il confronto (rectius: lo scontro) politico su temi incandescenti, quali i reati societari (ed in particolare il falso in bilancio), l’illecito finanziamento ai partiti e lo spaccio di sostanze stupefacenti, con l’effetto di provocare una vistosa dilatazione dei tempi di approvazione della legge. L’intervento si è lasciato inoltre guidare dalle contingenti esigenze pratiche, legate ai noti problemi di carico giudiziario, orientandosi verso quei settori (pochi, invero) la cui depenalizzazione avrebbe sortito effetti deflattivi (salva verifica in concreto), piuttosto che investire materie realmente bisognose di ripensamento. Nel fare ciò, non ha neppure trascurato operazioni di lifting, come quando, nel trasformarle in illecito amministrativo, ha riesumato alcune fattispecie ormai del tutto desuete (e pertanto innocue), ovvero ha abrogato reati anch’essi da tempo inapplicati, al limideroghe ed eventuali contraddizioni potrebbero non apparire più tali, o apparire meno stridenti, una volta conferita piena cittadinanza al principio che sono le specificità irriducibili delle nuove materie da regolare a esigere nuove tecniche di conformazione della responsabilità penale ». G. FIANDACA, Problemi e prospettive attuali di una nuova codificazione penale, in Foro it., V, 1994, c. 13; cenni anche in G. FIANDACA-E. MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 36. In termini più critici, M. DONINI, Teoria del reato, Padova, 1996, p. 4). (4) Sembrano cioè destinate ad essere deluse le aspettative di deflazione di cui era stato investito il disegno di legge durante la gestazione parlamentare (si consideri che esso fu considerato dalle forze politiche addirittura presupposto necessario per il decollo delle riforme processuali ed ordinamentali legate all’entrata in vigore del giudice unico). Come si avrà modo di verificare di seguito, comunque, la tecnica di intervento cui il legislatore è ricorso nei differenti settori consente di graduare il giudizio con riferimento agli stessi. Esprime un giudizio positivo sulla portata della riforma, GIUNTA, La scommessa di un’efficacia repressiva attraverso « costose » sanzioni amministrative, in Diritto e giustizia, 4, 2000, p. 49.
— 1410 — tato scopo di una « (ancorché igienicamente apprezzabile) operazione di ‘‘pulizia’’ legislativa » (5). Tuttavia, risulta difficilmente rinvenibile un filo conduttore nella scelta delle materie. Né pare possibile ricondurre l’input normativo ad alcuno dei tipici filoni individuati dalla dottrina in tema di depenalizzazione (6). In particolare, la legge devia dal percorso di c.d. fiscalizzazione tracciato dai precedenti interventi di depenalizzazione. Come noto, questo paradigma, tradizionale nella nostra normativa, si esaurisce nella « monetizzazione della reazione statuale nei confronti delle condotte vietate » (7); è improntato ad una sorta di « deindividualizzazione » dell’illecito (il suo campo elettivo si colloca dunque prevalentemente nell’ambito del diritto economico-sociale), e presuppone la rinuncia aprioristica ad ogni forma di emenda, incentrandosi tutto sulla violazione, piuttosto che sull’autore (che si presuppone trasgredisca per « eccesso », non per « difetto », di socializzazione) (8). Neppure sembra invocabile il modello della privatizzazione, caratteristico invece della criminalità di massa contro il patrimonio, in relazione a fatti di esigua gravità perchè segnati da modalità di comportamento non aggressive (9), e consistente nella rimessione della risposta alla disponibilità della vittima (10). La l. n. 205 non si è limitata, infatti, a monetizzare l’offesa nei settori economici (o caratterizzati da finalità economiche), come in materia di alimenti, di reati tributari e di reati doganali. Tanto meno ha svestito lo Stato della pretesa sanzionatoria, restituendo ai privati la reazione all’illecito, quando questo consista nell’emissione di assegni senza autorizzazione o senza provvista (11). Al contrario, ha voluto potenziare il suo controllo su determinati settori, evitando tuttavia le ingombranti garanzie del processo penale. Venendo al terzo profilo, la normativa ha così scommesso sull’implementazione delle sanzioni amministrative accessorie, volte a compensare (5) Così, P. PISA, La « nuova » depenalizzazione: intervento importante ma non risolutivo, in Dir. pen. proc., 1999, p. 931. Sul punto, infra, §§ 5 e 11. (6) C.E. PALIERO, « Minima non curat », cit., p. 383 ss. Per un confronto tra l’attuale ed i precedenti interventi di depenlizzazione, C. PIERGALLINI, Il decreto legislativo di depenalizzazione dei reati minori n. 507 del 1999: lineamenti, problemi e prospettive, in questo fascicolo della Rivista, §§ 2 e 3. (7) C.E. PALIERO, « Minima non curat », cit., p. 384. (8) Quasi testualmente, C.E. PALIERO, « Minima non curat », cit., p. 384 s. (9) Sempre C.E. PALIERO, « Minima non curat », cit., p. 399. (10) Su questo aspetto, F. GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Milano, 1993. (11) Al paradigma della privatizzazione sembra riconducibile tutt’al più quella « depenalizzazione indiretta (o di fatto, se si preferisce) » (così P. PISA, La « nuova » depenalizzazione, cit., p. 931) rappresentata dall’estensione della perseguibilità a querela del furto. Sul punto, infra, § 9.
— 1411 — la perdita di deterrenza presuntivamente derivante dal venir meno della natura penale del fatto (12). Restano tuttavia ancora da valutare i costi di una simile opzione, dal momento che manca, anche nella l. n. 689 del 1981 (pensata in prevalenza nell’ottica della più rassicurante fiscalizzazione), la cornice di riferimento che detti una disciplina generale di questo importante strumento sanzionatorio. E — si noti — avrebbe dovuto trattarsi di una normativa ispirata ad un elevato standard di garanzia anche procedimentale, solo che si ponga mente alla potenziale incisività del nuovo modello. D’altra parte, almeno un presupposto per il ricorso alla sanzione accessoria amministrativa è espressamente previsto, e consiste nella « reiterazione » dell’illecito (ovvero della condotta: la legge delega usa indifferentemente le due locuzioni) (13). Al di là della concretizzazione dei presupposti applicativi attuata dai decreti delegati (14), è chiaro però che il concetto di reiterazione contribuisce ad offuscare il carattere originario e distintivo dell’illecito amministrativo rispetto a quello penale, per cui il primo smette di connotarsi come disobbedienza in un’ottica esclusivamente oggettiva, e comincia ad appropriarsi della dimensione anche soggettiva del secondo, legata alla rimproverabilità ed alla pericolosità del suo autore. Sul piano delle conseguenze, come si avrà modo di notare, la necessità di dare concreta attuazione alla previsione normativa, non ha spinto sino al punto di costituire un’anagrafe nazionale dell’illecito amministrativo (15), ma comporterà pur sempre un’organizzazione — eventualmente interna alla singola pubblica amministrazione chiamata ad esercitare il controllo (16) — che consenta di risalire ai « precedenti amministrativi » del trasgressore; ciò potrebbe condurre, in futuro, a proiettare sul precedente addirittura una valutazione sociale negativa (attraverso la limitazione dell’accesso a determinati settori dell’economia, ecc.) (17). Sicché, può affermarsi che le (12) Ritiene che il legislatore abbia « dettato una serie di criteri di delega funzionali alla creazione di veri e propri microsistemi sanzionatori, in grado di competere, quanto ad efficacia deterrente, con le tradizionali sanzioni penali detentive, G. FIDELBO, Deleghe per la depenalizzazione (et autres): un piccolo passo in avanti, in Leg. pen., 2000, p. 43. (13) Il concetto di reiterazione era già rinvenibile in alcuni specifici settori dell’illecito amministrativo (come quello tributario) oltre che in sporadiche disposizioni di legge speciale, peraltro anteriori alla « sistematizzazione » che della materia ha compiuto la l. 24 novembre 1981, n. 689. Non escludeva l’opportunità di creare una sorta di « recidiva amministrativa », previa istituzione di un casellario ad hoc, già F. PALAZZO, I criteri di riparto, cit., p. 55. (14) Art. 8-bis l. 24 novembre 1981, introdotto dall’art. 94 d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507. (15) Così, una versione intermedia del disegno di legge. Testo Commissione Giustizia Senato nn. 2570 e 206-A del 27 maggio 1998, art. 15, comma 1, lett. e). (16) La costituzione di appositi archivi informatizzati è prevista soltanto con riferimento alla circolazione stradale e alla disciplina degli assegni. (17) Ancora poco tempo fa si affermava che « il principale, forse l’unico elemento di-
— 1412 — caratteristiche di una certa fascia del diritto penale, sempre più segnata dalla pena pecuniaria, applicabile in via principale o sostitutiva, e quelle dell’illecito amministrativo tendano verso una progressiva assimilazione: il tratto distintivo tra i due illeciti (18) finisce con l’essere affidato in prevalenza al momento applicativo che, nel diritto penale, fa seguito ad un procedimento giurisdizionalizzato, solo eventuale nell’illecito amministrativo dove è comunque segnato da garanzie più contenute (19). Né tranquillizza il dato che il concreto funzionamento del nuovo modello sanzionatorio resti affidato alle pubbliche amministrazioni (sulla cui efficienza è lecito nutrire più di un dubbio). È presumibile che applicascriminante sicuro fra sanzione criminale e sanzione amministrativa è, in quest’ultima, il difetto di stigmatizzazione, cioè il degrado, sotto il profilo etico-sociale, dello status del condannato ». C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1027. Anche se — specificava altra letteratura — in verità, « la sola multa, fra le sanzioni pecuniarie criminali, sembra [...] caratterizzarsi per una reale stigmatizzazione del condannato »: E. DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa, cit., p. 621 s. (18) Quanto ai criteri discretivi tra reato ed illecito amministrativo, si rimanda alla letteratura citata nella nota 1. In particolare, cfr. F. SGUBBI, Depenalizzazione, cit., p. 255 ss.; E. DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa, cit., p. 589 ss; T. PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative, cit., p. 952 ss; F. PALAZZO, I criteri di riparto, cit., p. 35 ss. (19) In proposito, si richiama l’attenzione sulla scelta di sottrarre al pretore, per attribuirla (nuovamente) al giudice di pace, la competenza in materia di opposizione all’ordinanza ingiunzione con cui l’autorità amministrativa applica la sanzione prevista dalla fattispecie depenalizzata (art. 1). Come noto, già la modifica dell’art. 7 c.p.c. ad opera della l. 22 novembre 1991, n. 374 (istitutiva di questo giudice onorario) prevedeva che i giudici di pace fossero competenti « per le cause di opposizione alle ingiunzioni di cui alla l. 24 novembre 1981, n. 689 ». Seguirono reiterati slittamenti nel funzionamento del nuovo giudice, ed infine un ripensamento della scelta legislativa, che restituì la materia al pretore (l’art. 7 c.p.c. fu infatti riformulato da una serie di decreti legge, l’ultimo dei quali convertito in l. 20 dicembre 1995, n. 534). Oggi, la scomparsa del pretore (al suo equivalente, e cioè al tribunale in composizione monocratica, è affidata la conoscenza di reati anche di particolare gravità), in uno con la (allora prevedibile e poi prevista) attribuzione di competenze penali al giudice di pace, ha suggerito un condivisibile pentimento (la riforma esorbita i limiti del particolare intervento di depenalizzazione per concernere l’intero settore dell’illecito penale-amministrativo). Ma la sostanziale redistribuzione di attribuzioni nell’ambito della magistratura ordinaria, in uno con le costanti, intuibili, esigenze deflattive, non è parsa al legislatore del 1999 fornire elementi così decisivi da escludere deroghe (piuttosto significative) alla competenza del giudice onorario (si rinvia al testo dell’art. 2 l. n. 205 ed all’attuazione che ne ha dato il nuovo art. 22 l. n. 689, introdotto dall’art. 98 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507). Quanto, nel merito, alla scelta di affidare al giudice di pace la conoscenza delle opposizioni al decreto-ingiunzione, è stato rilevato che essa si inquadra solo apparentemente nel movimento di riforma che ha condotto all’approvazione della legge delega sulle competenze penali del giudice di pace: qui, infatti, risulterebbe (in linea di massima) rispettata la caratterizzazione di questo giudice come compositore dei microconflitti interpersonali; l’art. 2 della legge in commento, invece, trascura tale caratterizzazione, dal momento che devolve al giudice di pace la conoscenza dell’illecito amministrativo, totalmente estraneo all’ottica dei rapporti interprivati, coinvolgendo esso prevalentemente interessi superindividuali e di titolarità statale. Sul punto, G. SEVERINI, Commento articolo per articolo, cit., p. 6.
— 1413 — zioni saltuarie e differenziate, non fondate su una selezione ispirata a criteri di rilevanza oggettiva dei fatti o a superiori ragioni di interesse pubblico, evidenzino le anomalie del sistema. A ciò si aggiunga che la l. n. 205, con il suo fardello di sanzioni amministrative accessorie applicabili in via diretta agli enti, cerca di supplire ai gravi scompensi da sempre indotti dall’irresponsabilità penale delle persone giuridiche (20). Ed allora, il legislatore avrebbe potuto forse cogliere l’occasione per tracciare le coordinate normative di un sistema di responsabilità amministrativa degli enti (suscettibile di futura estensione) fondato sul rischio d’impresa (21), in cui la natura oggettiva del criterio ascrittivo sarebbe ovviamente stata il riflesso del carattere minore della sanzione amministrativa rispetto a quella penale. Sennonché, questa strada è stata esclusa. E se si pensa che alcune delle sanzioni amministrative accessorie invece previste — specificamente quelle che dispongono la chiusura dello stabilimento (pena capitale della società) — hanno la stessa afflittività delle loro cugine penali, ma a differenza di queste vengono comminate a prescindere da qualunque verifica in ordine alla rimproverabilità dell’ente, diviene almeno fondato il sospetto di assistere alla solita truffa delle etichette, la cui peculiarità è acuita, questa volta, dall’inesistenza di meccanismi sospensivi analoghi a quelli che nel penale (art. 163 ss. c.p.) attenuano, e non poco, l’impatto sanzionatorio (22). Ancora, sarà difficile liberarsi dal disagio di una punizione a cam(20) Una forma di responsabilità molto vicina a quella penale è stata peraltro prevista, in relazione ad alcune classi di reato, dalla legge di ratifica delle convenzioni PIF ed OCSE... (citazione da completare). (21) Prototipi normativi si rinvengono, come noto, nell’art. 31 l. n. 223 del 1990 (c.d. legge Mammì); negli artt. 15 e 19 della l. n. 287 del 1990 (c.d. legge antitrust) e si rinvenivano anche nell’art. 13 comma 3, l. n. 1 del 1990 (c.d. legge SIM, travolto dal testo unico del 1998, sull’intermediazione finanziaria). Sulle citate disposizioni, per tutti, V. MILITELLO, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei suoi organi in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, p. 113 ss.; M. ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), in questa Rivista, 1995, p. 1031 ss.; A.M. CASTELLANA, Diritto penale dell’Unione Europea e principio « societas delinquere non potest », in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 802 ss.; C.E. PALIERO, Problemi e prospettive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 1189 ss. Su aspetti specifici, vd. inoltre, V. MILITELLO, La tutela della concorrenza e del mercato nella l. 10 ottobre 1990, n. 297, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1991, p. 641 s.; L. FOFFANI, Legislazione antitrust e disciplina delle partecipazioni al capitale degli enti creditizi: profili penalistici, in questa Rivista, 1991, p. 870 s. (22) Si consideri che anche il modello tedesco delle Ordnungswidrigkeiten conosce un sistema di responsabilità concorrente delle persone giuridiche, che ricorre: per un verso, al criterio della rappresentanza (il quale rimanda in via intepretativa, in sostanza, all’interesse della persona giuridica); per altro verso, all’omessa assunzione di misure di sorveglianza. C.E. PALIERO, voce Ordnungswidrigkeiten, cit., p. 128 s. L’Autore esprime peraltro perplessità in ordine a quella che ritiene una « responsabilità di posizione » (ibidem): e ciò — si noti — nonostante il paradigma tedesco preveda, a differenza di quello italiano, esclusivamente sanzioni di natura patrimoniale (C.E. PALIERO, voce Ordnungswidrigkeiten, cit., p.
— 1414 — pione, quale prevedibile conseguenza della non assoggettabilità ai principi costituzionali che, sul piano processuale, assicurerebbero (almeno sulla carta) l’obbligatorietà dell’azione penale; soprattutto, la responsabilità risulta svincolata dai criteri ascrittivi (ispirati alla politica d’impresa ovvero a semplice disorganizzazione aziendale) (23) che, sul piano sostanziale, sarebbero imposti al reato dal principio della responsabilità personale (e che svolgerebbero anche un importante ruolo nella tipizzazione del fatto). La situazione di complessiva incertezza è infine aggravata dall’impossibilità di ancorare l’illecito amministrativo ad un principio di riserva assoluta di legge, dovendoci per esso accontentare della più tenue copertura degli artt. 97 e 23 Cost. (24). In conclusione, è ben vero che la l. n. 205 viaggia verso un modello di autotutela amministrativa; essa si muove tuttavia su binari ben diversi da quelli preconizzati dalla dottrina che, anche sulla scia di esperienze straniere, l’immaginava esercitata da organi i quali coniugassero l’appartenenza alla pubblica amministrazione con la prerogativa di una totale indipendenza dalla stessa (25). 2. Il settore cui è stato affidato il compito di sperimentare la nuova tendenza, ed in cui si ravvisano i germi di una nuova concezione, è quello dell’igiene degli alimenti e delle bevande (art. 3) (26). La materia era certo tra le più bisognose d’intervento, caratterizzata com’è dalla successione di provvedimenti legislativi emanati sulla scia di 129). Sul punto, anche ID., Problemi e prospettive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1996, p. 1188, in cui sottolinea, sotto diversa angolazione, che i criteri di natura formale non coprono rispetto al rischio che gli illeciti siano commessi da semplici prestanomi, nonché ID., Il « diritto penale amministrativo », cit., p. 1284 ss. (23) Vd. il modello dei compliance programs nord-americani: in proposito, per tutti, C. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss.; F. STELLA, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 459 ss. Per una ricognizione del sistema di responsabilità penale delle persone giuridiche in Francia, G. DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, p. 189 ss. (24) Per tutti, C.E. PALIERO-A. TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 135. (25) C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1041. Anzi, per dirla tutta, la legge delega non si è neanche preoccupata di sancire il principio che ispirò il d.P.R. 29 luglio 1982, n. 571, di attuazione della l. n. 689 del 1981, includendo, tra i principi direttivi, una condivisibile distinzione tra organo che effettua il controllo sulla violazione ed organo che irroga la sanzione. (26) Per una disamina puntuale dell’intervento di depenalizzazione in questo settore, vd. C. PIERGALLINI, Depenalizzazione e riforma del sistema sanzionatorio nella materia degli alimenti, in questo fascicolo della Rivista; C. BENELLI, La riforma della disciplina sanzionatoria in materia agro-alimentare, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2000, 227 ss.
— 1415 — emergenze ed in tempi diversi, al punto da aver indotto una tutela penale stratificata (27). Come noto, il legislatore aveva infatti affidato ai delitti del codice penale la previsione di fattispecie prevalentemente strutturate nei termini di pericolo concreto; alla normativa speciale generale della l. n. 283 del 1962 rimetteva invece la configurazione di fattispecie contravvenzionali (in linea di massima, e salvi i successivi ritocchi operati con l. 26 febbraio 1963, n. 441) di pericolo astratto, e cioè meramente « sintomatiche del possibile insorgere di situazioni di pericolo » (28). Questo l’impianto originario, dunque, presto snaturato dall’alluvione di altre leggi speciali satellitari preposte alla repressione di condotte spesso già ascrivibili al primo o al secondo filone, ma volte ad anticipare ulteriormente il fronte dell’intervento penale in ragione dell’asserita peculiarità dell’oggetto materiale su cui cadevano (burro, caffè, vermuth, ...) (29). La situazione risultava aggravata dalle inevitabili interferenze tra diversi blocchi di disciplina, atteso che, oltre ai profili di igiene degli alimenti, nella legislazione speciale si trovavano sovente penalizzate anche condotte affatto diverse, riconducibili, in via esclusiva o concorrente, alla correttezza delle transazioni (e come tali, interferenti anche con gli artt. 515 ss. c.p.), se non alla tutela di interessi fiscali. Si era di fronte ad un groviglio di incriminazioni che il legislatore della legge delega ha preso realisticamente atto di non poter dipanare né attraverso un intervento puntuale sulle singole fattispecie, né ponendo mano ad un intervento di riscrittura generale. Il delegante ha così preferito « contenere i danni » e si è limitato ad affrancare il confuso destinatario del precetto quanto meno da specifiche conseguenze penali del suo comportamento. Il citato art. 3 sembra cioè voler limitare la rilevanza penale alle sole ipotesi in cui, sebbene in termini astratti, sia ravvisabile un pericolo per la salute: si concentri esso nel momento della preparazione, ovvero in quello della diffusione del prodotto. La lett. c) fa dunque salvi i (27) Per un quadro esaustivo del sistema, A. BERNARDI, La disciplina sanzionatoria italiana in materia alimentare, in Riv. trim dir. pen. econ., 1994, p. 31 ss., il quale sottolinea come al risultato finale non siano rimasti di certo estranei gli input comunitari. (28) C.F. GROSSO, Diritto penale e tutela della salute, in AA.VV., Materiali per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, p. 98, al quale si rinvia anche per un’analisi delle interferenze applicative tra le diverse leggi. (29) ... quando non addirittura della sua particolare provenienza, composizione, confezionamento (come noto, la tutela penale risultava articolata addirittura all’interno di un certo alimento: per esempio, il prosciutto, a seconda che si trattasse di quello di Parma, di quello San Daniele, ecc.). In altri termini, può dirsi, usando la terminologia di F. ANGIONI (Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 106), che l’oggetto materiale ha finito con l’usurpare la funzione « teleologica » e « valorativa » caratteristica del bene giuridico. Sulla peculiarità della tecnica legislativa nel settore penale alimentare, D. CASTRONOVO, Brevi note sull’atteggiarsi del pericolo per il bene giuridico nei reati alimentari, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, 637 ss.
— 1416 — reati previsti rispettivamente dall’art. 5 e dagli artt. 6 e 12 l. n. 283 del 1962 (la legge fondamentale del settore) e piazza pulita di tutte le altre incriminazioni, degradandole ad illecito amministrativo (30). Alla luce di quanto si è detto, deve essere letta anche la lett. b) dell’art. 3, che delega a prevedere espressamente in questa materia una deroga al principio di specialità sancito dall’art. 9 (comma 1), della l. n. 689 del 1981 (31). La norma assume infatti un significato particolare. Essa mira innanzitutto ad assicurare l’effettività della tutela penale; è cioè risultato evidente, ancora una volta, che il mantenimento della griglia di previsioni tra loro intersecantesi, caratteristica di questo settore, in uno con l’operatività di un criterio infrasistematico di risoluzione del conflitto tra norme (penali ed amministrative) di tipo eminentemente astratto e strutturale, avrebbe condotto, nella quasi totalità dei casi, ad affermare la prevalenza della fattispecie depenalizzata speciale su quella penale ma generale, così vanificando di fatto quest’ultima (32). In virtù della latitudine delle previsioni di cui agli artt. 5, 6 e 13 della l. n. 283 del 1962, non si è peraltro tardato ad osservare che « l’effetto depenalizzante [...] risulta meno ampio di quanto non appaia a una prima lettura » (33). L’impressione è confermata, ove si rifletta che la riforma concerne esclusivamente la legislazione speciale (lett. a)): sicché — e a fortiori — mantengono rilievo penale le previsioni codicistiche (si pensi ai delitti del capo II del titolo VI) (34). (30) La norma inaugura dunque la tecnica normativa che sarà seguita dalla legge delega (con la vistosa eccezione dell’art. 7), consistente nell’individuare non già le singole fattispecie da trasformare in illecito amministrativo, ma piuttosto, in negativo, quelle destinate a restare fuori dell’ambito della depenalizzazione. In questa materia, tuttavia, la soluzione deve essere apparsa necessitata, considerato il disorientamento che avrebbe pervaso il legislatore quando avesse dovuto addentrarsi nella folta selva di leggi (assai) speciali, volte — come si è visto — ad apprestare tutela penale anche a singole, specifiche, tipologie di alimenti. (31) ... sulla falsariga, peraltro, di quanto già disposto dal comma 3 del medesimo art. 9 con riguardo al passato. Prima della sua modifica ad opera dell’art. 95 del d.lgs. n. 507, la norma recitava così: « Ai fatti puniti dagli artt. 5, 6, 9 e 13 della l. 30 aprile 1962, n. 283, modificata con l. 26 febbraio 1963, n. 441, sulla disciplina igienica degli alimenti, si applicano in ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i fatti stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno sostituito disposizioni penali speciali ». Sulla riforma, vd. C. PIERGALLINI, Depenalizzazione e riforma del sistema sanzionatorio, cit., § 3. (32) Per risolvere il conflitto in materia di alimenti, è stato dunque riproposto il « criterio contenutistico, e a soluzione ‘‘vincolata’’ (prevale sempre la norma penale), della consunzione (date due norme concorrenti, prevale quella corredata del trattamento sanzionatorio più severo: nella specie, appunto quella penale, incisiva dello status libertatis) ». C.E. PALIERO-A. TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 313. (33) A. MONTAGNA, Commento articolo per articolo, cit., p. 7 s. (34) Né sarebbe stato peregrino estendere la deroga al principio di specialità prevista
— 1417 — Peraltro, la scelta « di prudenza » non appare criticabile, se si riflette sulla delicatezza del settore e sull’importanza dei beni coinvolti. Ma non è tutto. Il legislatore ha controbilanciato la (finta) depenalizzazione prevedendo, con formula alquanto involuta, l’introduzione di nuove aggravanti alle fattispecie codicistiche di frode in commercio, vendita di sostanze alimentari non genuine, vendita di prodotti alimentari con segni mendaci, « con riferimento alle condotte che siano altresì lesive dell’interesse protetto dal riconoscimento della denominazione di origine o dall’individuazione delle relative caratteristiche » (lett. d)). L’intento, condivisibile, sta anche qui nel rendere razionale la materia (cancellando lo stigma penale delle specifiche condotte ed attenuando ingiustificate disparità di trattamento in relazione a comportamenti identici che cadano casualmente su oggetti diversi), senza peraltro rinunciare all’efficacia dissuasiva della sanzione penale (35). Comunque, l’aspetto che merita di essere evidenziato con vigore concerne l’ampio strumentario di sanzioni amministrative accessorie di cui è stato dotato il congegno penale-amministrativo e che incidono direttamente sull’esercizio delle imprese. Nell’ansia di scongiurare la perdita di deterrenza conseguente alla riforma, la legge delega ha infatti disposto, oltre alla trasformazione in sanzioni amministrative accessorie delle pene accessorie già previste (lett. f)), altresì « la chiusura temporanea dello stabilimento o dell’esercizio, la sospensione per un periodo fino a tre mesi o la revoca della relativa licenza » nei casi di reiterazione specifica delle per i citati artt. 5, 6 e 13 l. n. 283 del 1962 (art. 95 d.lgs. n. 507 del 1999) altresì alle disposizioni codicistiche. Infatti, non sembra possibile escludere che gli illeciti amministrativi presentino dei profili di specialità (quanto meno reciproca) rispetto ai reati del codice (pure in massima parte caratterizzati dalla pericolosità in concreto), così inibendo l’applicabilità degli stessi, in spregio (se non della lettera, quanto meno sicuramente) delle intenzioni della legge (in tal senso, si era invero orientata la bozza di decreto legislativo elaborata dal Governo, modificata nei termini attuali a seguito del parere reso dalla Commissione Giustizia del Senato). Ad ogni modo, è chiaro che la scelta a favore della consunzione, piuttosto che del principio di specialità conferma l’impressione che il legislatore non abbia inteso realmente deflazionare la disciplina in materia di alimenti, quanto piuttosto razionalizzarla, consentendo, attraverso l’interazione tra norme penali generali ma assorbenti ed illeciti amministrativi speciali e recessivi, di neutralizzare (il più possibile) questi ultimi, e di restituire di fatto la tutela al codice penale ed alla legge fondamentale del settore. (35) Nel fare ciò, il legislatore non si è però probabilmente accorto che, insieme alle pene principali, stava rinunciando alle ben più incisive pene accessorie che quasi sempre rafforzavano l’apparato sanzionatorio di questa tipologia di reato. Vero è, infatti, che le sanzioni penali accessorie sono state convertite, per effetto della lett. f), in amministrative. Tuttavia, le disposizioni degli artt. 515, 516 e 517 c.p., assumendo a seguito della previsione di un’aggravante ad hoc caratteri di specialità, appaiono destinate a prevalere sempre e comunque sulle fattispecie depenalizzate (sanzionate in modo rafforzato). Ciò ha indotto il legislatore delegato ad interpretare (anche qui, più) le intenzioni (che la lettera) della legge e a replicare le tipologie di sanzioni accessorie più ricorrenti nella legislazione speciale, nel caso di reato aggravato (art. 5 d.lgs. n. 507 del 1999, che introduce nel codice penale l’art. 517-bis).
— 1418 — condotte (lett. a)), nonché la chiusura (senza specificazioni di ordine temporale, oltre che nel caso di reiterazione anche non specifica di reato) per i fatti di maggiore gravità dai quali derivi pericolo per la salute (lett. c)); ancora (lett. e)), ha demandato al Governo la disciplina della « chiusura obbligatoria dello stabilimento e dell’esercizio nei casi di insussistenza dei requisiti igienico-sanitari previsti per il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio » (ferma restando la previsione dell’art. 15 della l. n. 283 del 1962). Ora, a parte quest’ultima previsione (il cui contenuto è di natura evidentemente cautelare), il legislatore del 1999 si è posto in una prospettiva marcatamente general-preventiva, tradita — dulcis in fundo — dalla delega a prevedere sanzioni accessorie nuove ed idonee a prevenire violazioni della normativa in materia di igiene di alimenti e bevande (36). In quest’ambito, balza agli occhi la totale mancanza di parametri ascrittivi di natura soggettiva. Come si è precedentemente rilevato, infatti, la legge delega subordina l’applicabilità delle sanzioni accessorie alla reiterazione (specifica o meno) delle violazioni (lett. a) e b)), ovvero alla « maggiore gravità » dei fatti « dai quali derivi pericolo per la salute » (lett. b)), ma tace in ordine ad eventuali criteri di imputazione di tipo soggettivo tra il fatto e l’ente cui pure si applica la sanzione: sicché, di fatto, il collegamento finisce con l’essere di tipo meramente oggettivo (è sufficiente un rapporto di immedesimazione organica tra l’autore e l’ente). Ora, se è facile osservare che la natura amministrativa della responsabilità non reclama la copertura costituzionale dell’art. 27 comma 1 (e dunque una costruzione in termini di « colpevolezza », ovviamente « normativa »), è pur vero che i principi recepiti dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981 — per quanto nella loro versione antropormorfica (37) — e soprattutto una maggiore sensibilità politica, avrebbero dovuto indirizzare il delegante in ben altra direzione. Avrebbero cioè dovuto suggerire quanto meno l’opportunità di consentire la verifica in ordine ad una colposa disorganizzazione interna dell’impresa; il che risulta evidente ove si ponga mente all’incisività di alcune previsioni. Nel confrontare tra loro la lett. a) (in cui la chiusura dello stabilimento è definita « temporanea ») e la lett. c) (dove tale aggettivazione non compare), non può infatti sfuggire come, nel secondo caso, ci si trovi in sostanza dinanzi ad una vera e propria pena capitale per la società (38). La disarmonia risalta con ancora mag(36) Sottolinea il ricorso « a piene mani » alle sanzioni amministrative accessorie, l’inesistenza di meccanismi sospensivi, la « valenza sanzionatorio-preventiva delle conseguenze dell’illecito », ed il conseguente rischio di operare una « truffa delle etichette », G. FLORA, Reati agro-alimentari. Il Commento, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1091. (37) Dolo o colpa nella loro ormai superata visione psicologica. (38) Come esplicitato nella relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 507 del 1999, il legislatore delegato, nell’equivoco silenzio della delega, ha preferito configurare la chiu-
— 1419 — giore evidenza nei casi in cui la sanzione consegua alla commissione di uno dei reati previsti dalla legge fondamentale di settore (lett. b)) ovvero dal codice penale, nel cui ambito applicativo saranno facilmente attratti i « fatti di maggiore gravità dai quali derivi pericolo per la salute » (lett. c)). In queste ipotesi, la persona giuridica risponde per aver commesso un reato, con una sanzione che di amministrativo ha solo il nomen, e senza quei presidi di ordine costituzionale che, sul piano dell’ascrizione soggettiva, dovrebbero imporre la verifica della sua rimproverabilità. 3. Tralasciato l’intervento in materia di navigazione, che non presenta aspetti di rilievo particolare ai fini che qui interessano (39), un cenno merita la materia della circolazione stradale, segnata dal crescente ritrarsi della risposta penale e terreno privilegiato di sperimentazione dell’illecito amministrativo. Come noto, infatti, la ricodificazione del 1992 ha optato per un contenimento del numero dei reati. La tendenza non è stata smentita dai numerosi successivi interventi di aggiustamento (40), e l’art. 5 della l. n. 205, incidendo sensibilmente sulla normativa penale, ha spinto ancor di più verso la sua depenalizzazione. Per quanto un più ampio ricorso alla sanzione amministrativa non sembra aver fino ad ora inciso negativamente sulla tenuta general-preventiva del sistema, appare nondimeno difficile sottrarsi all’impressione che, questa volta, si sia in alsura definitiva dello stabilimento come facoltativa. A tal fine, ha argomentato in un duplice senso. In prima battuta, ha richiamato i principi generali cui si ispira la costruzione della legge fondamentale sull’illecito amministrativo (art. 20 l. n. 689 del 1981); il riferimento appare tuttavia fuorviante, posto che, come si è appena notato, saranno alquanto improbabili le ipotesi in cui, in presenza di un pericolo per la salute, l’illecito amministrativo non risulti scalzato da apposita figura delittuosa. In secondo luogo (e questa è probabilmente la vera ragione), ha fatto leva sulla gravità della sanzione, la quale consiglia di demandare all’autorità amministrativa di prendere in considerazione, oltre ai presupposti applicativi della delega, altresì ogni altro elemento utile in sede di valutazione della « congruità, della proporzionalità e delle conseguenze della sanzione ». Ferma la condivisibilità della soluzione, non può peraltro tacersi che la discrezionalità della risposta accresce ulteriormente il tasso di virtualità della sanzione. (39) Ad onta della rubrica (Disciplina della navigazione), l’art. 4 prevede la depenalizzazione delle sole contravvenzioni contenute nel codice della navigazione e la correlativa trasformazione delle pene accessorie in sanzioni amministrative accessorie. Anzi, l’originaria portata dell’intervento, esteso a tutte le contravvenzioni del codice della navigazione, ha meritato in corso d’opera un ripensamento in rapporto a fattispecie che tutelano interessi di matrice tipicamente pubblicistica (come, ad esempio, quelle che puniscono i comportamenti di abusiva occupazione del demanio e di edificazione abusiva del demanio: art. 1161 cod. nav.) o legati alla sicurezza ed incolumità pubblica (capo VI, titolo III, libro I della parte III). Sicché, l’effetto deflattivo appare, anche in relazione a questo settore, piuttosto limitato (in tal senso, E. AGHINA, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, Roma, 1999, p. 46). (40) L’ultimo, di un certo spessore, in data 7 dicembre 1999, n. 472, in G.U. 16 dicembre 1999, n. 294, Serie generale.
— 1420 — cuni punti disatteso il criterio che dovrebbe guidare qualunque intervento depenalizzatore: vale a dire, la trasformazione in illecito amministrativo delle sole violazioni formali (con conseguente mantenimento del rimprovero penale per le condotte di pericolo, anche se astratto). Può apparire pertanto discutibile l’inclusione nell’area dell’intervento della guida senza patente (art. 116, comma 13 e, per la parte corrispondente, art. 124, comma 4) e, ancor più, del trasporto di merci pericolose (art. 168) nonché della fattispecie prevista dall’art. 176, che punisce le infrazioni alle regole sul comportamento stradale (inversione senso di marcia, ecc.) commesse su carreggiate, rampe o svincoli (41). Ma soprattutto, interessa notare come anche in questo settore, la restrizione dell’area di illiceità penale a favore di quella amministrativa trovi compensazione nel potenziamento delle sanzioni amministrative accessorie (« sequestro » (42) e confisca) e — anche per garantire effettività a queste ultime — nell’arricchimento degli strumenti informativi (il riferimento è alla lett. e), che prevede l’inserimento nell’anagrafe dell’art. 226 cod. strada delle notizie inerenti alle violazioni previste dal codice della strada e dalla l. n. 298 del 1974) (43). (41) D’altra parte, può essere utile ricordare come soltanto nel passaggio dalla Commissione Giustizia all’Aula del Senato siano stati esclusi dall’area del provvedimento i reati previsti dagli artt. 186 e 187 cod. strada, e cioè la guida in stato di ebbrezza e la guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti (che altrimenti avrebbero condiviso con le altre fattispecie una comune sorte di trasformazione in illecito amministrativo). (42) Sull’improprietà del ricorso al termine sequestro, in luogo di « fermo », V. DE GIOIA, Il commento, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1105 s. (43) Incidentalmente, non va esente da dubbi la parziale depenalizzazione della fattispecie di « blocco stradale ». La lett. b) dell’art. 5 dispone la trasformazione in illecito amministrativo dei reati previsti dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66, « ad eccezione dell’abbandono o del deposito di congegni o altri oggetti in strada ferrata ». Ne deriva l’assoggettabilità a semplice sanzione amministrativa di chi (sempre « al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione ») realizza la stessa condotta (vincolata) o semplicemente « ostruisce o ingombra » (condotta libera) altri luoghi (strade ordinarie, zone portuali ovvero acque di fiumi, canali o laghi), ovvero ancora « ostruisce o ingombra » strade ferrate (continua invece a costruire reato il fatto di « abbandonare congegni o altri oggetti » su strada ferrata). Risulta però arduo cogliere la ratio ispiratrice di tale previsione, quanto meno sotto un duplice profilo. Perché assoggettare a semplice sanzione amministrativa chi ostruisce (con qualunque modalità) la strada ferrata ed invece a sanzione penale chi realizza sempre su strada ferrata una condotta specifica che potrebbe in ipotesi non conseguire tale effetto? Ed ancora, quale ragione giustifica una disparità di trattamento delle medesime condotte a seconda che siano tenute su strada ferrata o su altro luogo di pubblica circolazione? Vi è chi ricorre ad un approccio di tipo sociologico, e rinviene tale ragione nell’opportunità di mantenere lo stigma penale di comportamenti che configurano veri e propri atti di teppismo (come il collocare pietre sui binari tanto da far deragliare pericolosamente i treni), escludendolo nel contempo per comportamenti invece ricorrenti in occasione di manifestazioni politiche e sindacali (in tal senso, R. CANTONE, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 57). In realtà, esclusa la plausibilità di qualunque spiegazione in termini di maggiore peri-
— 1421 — 4. L’art. 6 concerne settori importanti che hanno registrato un vistoso incremento del ricorso alla legislazione penale e che sono ricorrentemente citati dalla letteratura penalistica come emblemi di un uso simbolico e/o strumentale del diritto penale (44). In astratto, può dunque ritenersi condivisibile un ritorno all’extrema ratio in materie che, per la necessaria configurazione delle violazioni come illeciti formali, incidono negativamente sulla conoscibilità del precetto penale e di rimando sull’efficacia general-preventiva del sistema. In concreto, le soluzioni adottate appaiono fondamentalmente timide. Così, la delega in materia di reati finanziari non è stata esercitata (né invero poteva aspirare a trovarsi spazi applicativi) (45). colosità delle condotte ancora penali rispetto a quelle degradate ad illecito amministrativo, il primo quesito rimane insolubile (ed irrisolto: non essendo fornita alcuna soluzione dall’art. 17 del d.lgs. n. 507 del 1999); il secondo — del quale il legislatore delegato ha voluto invece farsi carico — avrebbe potuto essere ridimensionato alla luce della banale considerazione che la strada ferrata è l’unica via a percorso obbligato, il cui ingombro non è dunque aggirabile ricorrendo a percorsi alternativi: da ciò la maggiore carica offensiva della condotta. (44) Si pensi alle osservazioni di F. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990, p. 54 ss. (45) Il comma 3 dell’art. 6, nel tracciare il disegno di depenalizzazione del settore finanziario, si muoveva lungo le direttive classiche, e prevedeva la trasformazione in illecito amministrativo delle offese che già sul piano penale il legislatore aveva inteso monetizzare attraverso la previsione edittale della multa, nonché delle contravvenzioni punite anche congiuntamente con l’ammenda e l’arresto. Al tempo stesso, poneva delle eccezioni, in rapporto alla « produzione di documentazione non veritiera » o (piuttosto genericamente) alle condotte « che offendono in maniera rilevante il bene protetto ». Imponeva infine di mantenere rilievo penale alle condotte « volte ad ostacolare l’attività delle autorità di vigilanza »: in relazione alle quali il ricorso alla sanzione criminale ha costituito oggetto di rilegittimazione da parte della dottrina (per tutti, G.M. FLICK, Accessi al settore finanziario e segnalazioni degli intermediari: obblighi, responsabilità, in questa Rivista, 1994, p. 1201 ss.), anche nell’ottica del contrasto ai più gravi fenomeni di economia criminale che intersecano l’economia illegale. Sennonché, le travagliate vicissitudini subite dal provvedimento di depenalizzazione ne determinarono, in un certo momento della sua vita parlamentare, una totale « blindatura » rispetto alle vicende esterne, anche legislative, che portarono nel frattempo all’emanazione del t.u. finanziario n. 58 del 1998; e la « depenalizzazione » operata dalla c.d. riforma Draghi, nel selezionare i comportamenti di rilevanza penale sembrerebbe essersi ispirata ai medesimi criteri tracciati dall’art. 6, tagliando per prima il traguardo. Si aggiunga che nel periodo intercorrente tra l’approvazione della l. n. 205 del 1999 e l’emanazione dei decreti legislativi è stato trasformato in illecito amministrativo anche l’abusivismo bancario (unica fattispecie del settore creditizio suscettibile di depenalizzazione, in base ai criteri citati: art. 133 comma 3 d.lgs. 1o settembre 1993, come modificato dall’art. 30 d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342.). Quanto all’ambito assicurativo, questo è stato implicitamente escluso dall’area della l. n. 205: ed infatti, l’art. 6, comma 3, lett. d) demanda l’applicazione delle nuove sanzioni amministrative ad un’autorità (Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica) diversa da quella preposta al controllo del comparto assicurativo (Ministero dell’industria), così procastinando un atteggiamento di ingiustificata indifferenza verso questo settore, pure sussumibile nell’ambito dell’intermediazione finanziaria (già F. BRICOLA, Profili penali della disciplina del mercato finanziario, in Banca, borsa e titoli di credito, 1990, p. 29 ss). La morale è che la delega legislativa dell’art. 6 in materia di intermediazione finanzia-
— 1422 — Con riguardo invece ai reati di contrabbando (comma 1, lett. a)), per un verso, è stata esclusa dalla depenalizzazione (comma 2) l’intera materia del contrabbando dei tabacchi lavorati esteri (46); per altro verso, l’intervento è stato limitato ai soli casi in cui l’ammontare dei diritti di confine evasi non superi i sette milioni di lire (equivalenti, per difetto, a 4.000 ECU) (47). Quanto alla materia tributaria (48), deve salutarsi con favore il comma 1, lett. d) laddove elimina dal nostro sistema l’anacronistica disposizione dell’art. 20 della l. n. 4 del 1929 (49), la quale — come noto — impediva, in materia finanziaria, il meccanismo dell’abolitio criminis e della successione delle leggi penali, di cui ai primi due capoversi dell’art. 2 c.p. (50). La deroga risultava giustificata, in questo settore, dall’inestricabile inria, travolta dal turbinio della legiferazione di settore, non ha potuto aver seguito per mancanza o cessazione del contendere. Sul punto, G. MORGANTE, Leg. pen., 2000, p. 65 s. (46) La recrudescenza del fenomeno, sempre più connesso con gravi forme di criminalità organizzata (al punto da esserne divenuto tra le espressioni più tipiche) ha richiamato l’attenzione del legislatore, già impegnato ad ispessire la sua repressione penale (cfr. ddl. Governo 6333/C). (47) La scelta è stata motivata adducendo la necessità di evitare contrasti con la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, stipulata a Bruxelles il 26 luglio 1995 (in G.U.C.E. n. C/316 del 27 novembre 1995), oggi ratificata dalla Italia con l. 29 settembre 2000, n. 300, in G.U. 25 ottobre 2000, n. 250, Serie generale. Dal momento, infatti, che i dazi all’importazione o all’esportazione sono applicati in base ad un’unica tariffa doganale europea e vengono direttamente versati alla Comunità (costituendo così per la stessa una delle più importanti fonti di sostentamento), buona parte delle condotte oggetto delle norme in materia di contrabbando finisce con il ricadere nella nozione di « frode » lesiva degli interessi finanziari delle Comunità europee (art. 1 dello strumento internazionale); da ciò l’obbligo, sancito dall’art. 2, paragrafo 1 della Convenzione stessa nei confronti degli Stati membri, di reprimerle con sanzioni penali, eccetto che nei casi di « lieve entità » riguardanti un importo totale inferiore a 4.000 ECU e che non presentino particolare gravità secondo la propria legislazione (art. 2, paragrafo 2). (48) Si prescinde dai rilievi formali in ordine alla frammentazione di un intervento che è stato diviso tra le lett. b), c) e d) del comma 1 del presente articolo e l’art. 9. (49) Nello stesso senso, A. PERINI, Verso la riforma del diritto penale tributario: osservazioni sulla legge di delegazione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1999, p. 702 ss., il quale inoltre esclude, in linea di massima, la configurabilità di un fenomeno di successione tra le fattispecie di cui alla l. n. 516 del 1982 ed i nuovi tipi del decreto legislativo, in considerazione delle differenze che devono caratterizzare la struttura di questi ultimi (op. cit., p. 709). Sull’art. 20 l. n. 4 del 1929, oltre alla letteratura citata di seguito, I. CARACCIOLI, Legalità ed irretroattività in tema di leggi tributarie, in Dir. prat. trib., 1973, I, p. 205 ss.; A. D’AVIRROU. NANNUCCI, I reati nella legislazione tributaria, Padova, 1984, p. 79 ss.; I. CARACCIOLI, voce Leggi penali finanziarie, in Enc. giur. Treccani, XVIII, 1990; G. FLORA, voce Legge penale tributaria, in Dig. disc. pen., VII, 1993, p. 390 ss.; M. GALLO, Appunti di diritto penale, I, Torino, 1999, p. 142 ss. (50) Dopo aver riconosciuto nella retroattività della legge più favorevole « un principio che scorre nelle vene del nostro sistema » ne preconizzava l’ingresso anche in questo ramo dell’ordinamento G. VASSALLI, Abolitio criminis e principi costituzionali, in questa Rivista, 1983, p. 414. D’altra parte, una volta che « con l’art. 3 del d.lgs. n. 472 del 1997 si
— 1423 — treccio tra « parte sanzionatoria penale » e « parte precettiva fiscale » della norma: un intreccio tale da determinare, a causa del continuo cambiamento della prima, serie difficoltà ad uno Stato la cui pretesa punitiva si trovasse a rincorrere i trasgressori tra abolitiones e norme più favorevoli (51). Tuttavia, come noto, con il passare del tempo, la caratterizzazione in chiave meramente sanzionatoria ha cessato di essere appannaggio esclusivo del diritto penale finanziario ed è divenuta, piuttosto, un connotato ricorrente in molti micro-sistemi penali. Sicché, a volerlo mantenere per il solo diritto penale finanziario, il tempus regit actum avrebbe avuto il sapore, alquanto anacronistico, di una riaffermazione della Ragion del Fisco sul favor libertatis del cittadino (52). Chiarito ciò, il penalista dovrà fare appello a tutte le sue conoscenze in materia di integrazione (53) per distinguere i casi — né pochi, né semplici (54) — in cui la legge finanziaria incida sul precetto (nel qual caso, si darà l’ulteriore problema di indiera introdotta la retroattività della norma più favorevole in materia di sanzioni tributarie non penali, l’art. 20 della l. n. 4 del 1929 permaneva come un residuo ormai difficilmente giustificabile » (R. CANTONE, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 65), e ciò ove si consideri che la norma sarebbe sopravvissuta in un settore (quello penale) che per il rilievo del bene (libertà personale) compresso, deve avvalersi di garanzie rafforzate rispetto a quelle che presidiano il meno oneroso illecito amministrativo. Ritiene che la disposizione non avesse « valide ragioni di sopravvivenza » anche G. FALCONE, Commento articolo per articolo, cit., p. 13. (51) La ratio della deroga fu convincentemente cercata nella « continuità dell’illecito tributario ». Si osservava, cioè, « come l’abrogazione di norme penali finanziarie (che si atteggiano in funzione sanzionatoria dei precetti tributari) non esprima praticamente mai una vera e propria « retrocessione » del limite di illiceità penale; al contrario essa si inquadra per lo più nel contesto di rimaneggiamenti normativi che consistono nella sostituzione dei presupposti impositivi, delle modalità di accertamento o di riscossione, o di tutti questi elementi insieme, nel caso di un nuovo tributo ». T. PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1982, p. 1380. « Naturalmente, questa prospettiva giustifica (...) soltanto l’eccezione alla regola dell’art. 2, comma 2, c.p., e cioè la perpetuazione di punibilità del fatto previsto da una norma abrogata; non giustifica invece la deroga all’art. 2, comma 3, c.p., e cioè al regime della successione di leggi, quando se ne realizzino i presupposti » (p. 1381). In senso adesivo, S. DEL CORSO, voce Successione di leggi penali, in Dig. disc. pen., XIV, 1999, p. 97. (52) Così, Corte cost., 6 giugno 1974, n. 164, in Foro it., 1975, I, c. 27 ss., con nota critica di T. PADOVANI, La c.d. « ultrattività » delle leggi penali finanziarie ed il principio costituzionale di uguaglianza; Corte cost., 16 gennaio 1978, n. 6, in Giur it., 1978, I, p. 40. Riteneva che la ratio della norma dovesse ravvisarsi nella « peculiare rilevanza dell’interesse fiscale dello Stato », M. TRAPANI, L’art. 20 della l. 7 gennaio 1929, n. 4 e la c.d. ultrattività delle norme penali tributarie, in questa Rivista, 1982, p. 229 s. Nel senso della illegittimità costituzionale della norma, G. FLORA, Profili penali in materia di imposte dirette ed I.V.A., in Dir. trib., I, XLVI, 1979, p. 101. (53) Sul fenomeno dell’integrazione, per tutti, D. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, in particolare, p. 261 ss. (54) Peraltro, l’operazione ermeneutica potrebbe risultare ‘‘a sorpresa’’ agevolata in materia tributaria, in virtù della riforma che, quasi contemporaneamente, ha operato il d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale ha posticipato la soglia di rilevanza penale di molte fattispecie
— 1424 — viduare il poco nitido confine tra comma 2 e 3 dell’art 2 c.p.), da quelli in cui contribuisca semplicemente a concretizzare un precetto già in sé definito, adempiendo al ruolo di mero presupposto del reato, così da escludere ogni fenomeno di successione di leggi (55). 5. L’art. 7 reca una rubrica generica (trasformazione di reati in illeciti amministrativi), imposta peraltro dalla sua natura di « norma contenitore » (56). Inutilmente i primi commenti hanno cercato di dipanare il groviglio delle depenalizzazioni cercandone il filo conduttore (57). Resta il dato insuperabile dell’eterogeneità delle materie interessate, che ha poi offerto il destro alla discussione parlamentare per (cercare di) « aggregare al carro » del provvedimento alcuni settori assai delicati (58). La disposizione articola infatti la trasformazione in illecito amministrativo sul duplice piano della legislazione speciale e del codice penale. In relazione a quest’ultimo, coinvolge anche fattispecie delittuose, come ad esempio alcune norme in materia di falsità in monete, la desueta fattispecie di usurpazione di titoli ed onori, gli atti osceni colposi. Tra le contravvenzioni, ci si limita a segnalare l’ubriachezza manifesta, la bestemmia (59), il collocamento pericoloso di cose, la rovina di edifici o di altre costruzioni e l’omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina; queste ultime fattispecie — è appena il caso di osservarlo, essendo (originariamente formali), condensando nella verificazione di un evento il disvalore (prima evanescente) del fatto. Sulle linee della riforma, vd. infra, § 7. (55) Analogamente, A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 710, il quale preconizza, ad esempio, « le questioni che sorgeranno ogniqualvolta il legislatore deciderà di abrogare un’imposta oggetto di tutela penale ». La prima giurisprudenza non ha certo smentito queste perplessità, come si desume dal fatto che la Corte di cassazione ha già rimesso alle Sezioni unite la decisione sul contrasto tra la tesi abolizionista e quella in ordine alla successione di leggi tra l’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 e la vecchia frode fiscale mediante utilizzazione di fatture false (art. 4, comma 1, n. 5 l. n. 516 del 1982). Ord. Cass., Sez. III, 5 maggio 2000, in Il fisco, 2000, p. 8743. (56) R. CANTONE, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 72. (57) Individuabile in una complessiva rivisitazione dei rapporti Stato-cittadini, in cui « l’acquisizione e la conservazione del prestigio delle istituzioni e di coloro che le impersonano avvenga attraverso un recupero di efficienza e imparzialità dell’azione pubblica, e non più per imposizione di legge ». G. FUMU, Commento articolo per articolo, cit., p. 15 s. (58) In questo senso, T. PADOVANI, Azione penale discrezionale, la vera svolta del sistema, in Il Sole-24 Ore, 17 giugno 1999. Vd. inoltre quanto già osservato sub § 1. (59) Sono stati coinvolti nell’intervento anche gli artt. 666 e 705, rispettivamente in tema di spettacoli e trattenimenti pubblici senza licenza e commercio non autorizzato di cose preziose « la cui vigenza può essere revocata in dubbio per il venir meno del regime autorizzatorio delle predette attività ai sensi dei d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 e 22 maggio 1999, n. 251 », G. FUMU, Commento articolo per articolo, cit., p. 15.
— 1425 — state depenalizzate nelle sole ipotesi base (60), lasciano residuare ben più incisivi spazi di apprezzamento penale nel caso in cui gli eventi dannosi che tendono a prevenire si realizzino concretamente (61). Ancora più caleidoscopico è il contenuto delle leggi speciali interessate dall’intervento di depenalizzazione. Questo rastrella, oltre a molte ipotesi di « truffe minori » del datore di lavoro, fattispecie tra loro assai diverse: alcune risalenti e oramai del tutto superate (con il rischio che la trasformazione in illecito amministrativo possa determinare il non desiderato effetto di « rivitalizzarle ») (62); altre di rilievo non proprio secondario, come ad esempio le disposizioni che puniscono la falsa attribuzione di lavori altrui (art. 4 l. 19 aprile 1925, n. 475) e soprattutto le condotte dolose in materia di formazione delle liste elettorali (rispettivamente mediante azione o omissione) di cui agli artt. 54 e 55 d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223 (incidenti su diritti fondamentali del cittadino) (63). Un cenno a sé merita, infine, la trasformazione in illecito amministrativo delle condotte di adescamento alla prostituzione sanzionate dalla legge Merlin (art. 5 l. n. 75 del 1958). Al di là dei limiti di effettività che questo intervento è verosimilmente destinato ad incontrare a causa della normale situazione di impossidenza dei destinatari della norma, può essere interessante notare come, prima degli ultimi passaggi alle Camere, la depenalizzazione dell’adescamento si ponesse in stretto (quanto celato) rapporto con l’abrogazione (disposta in tutt’altra parte del provvedimento (60) È stato osservato come la circostanza aggravante speciale (pericolo per le persone), dopo l’intervento del decreto legislativo, sarebbe divenuta elemento essenziale del reato, « con le ineludibili conseguenze sul piano della impraticabilità del giudizio di comparazione con eventuali attenuanti e della durata del termine di prescrizione ». G. FUMU, Commento articolo per articolo, cit., p. 16. (61) Una « nota di colore ». La depenalizzazione delle fattispecie in esame ha corso il serio rischio di essere travolta, in sede di approvazione del testo da parte del Consiglio dei Ministri, per effetto della quasi concomitante sciagura del crollo di un palazzo a Foggia, in data 11 novembre 1999, che ha avuto larga eco presso i media. (62) Ne sarebbe stata dunque preferibile l’abrogazione. G. FUMU, Commento articolo per articolo, cit., p. 16. (63) Opportunamente, nella versione presentata alle Camere per il parere, il legislatore delegato aveva dunque introdotto, rispettivamente con gli artt. 65 e 86, la clausola di sussidiarietà « salvo che il fatto costituisca reato ». La clausola è stata successivamente espunta a seguito del parere negativo della seconda Commissione permanente (Giustizia) del Senato. Analoga clausola è stata invece mantenuta dall’art. 67 del d.lgs. in relazione alle trasgressioni ai divieti di importazione ed esportazione, per la necessità (politicamente più sentita?) di raccordare la fattispecie amministrativa con le previsioni penali in materia di contrabbando. Egualmente, la locuzione è stata mantenuta nell’art. 60 del d.lgs., in tema di abigeato dove preserva dal paradossale effetto di discriminare la rilevanza degli stessi comportamenti, a seconda che siano tenuti in Sicilia o in Sardegna (nel qual caso avrebbero costituito un mero illecito amministrativo) ovvero nelle restanti parti del Paese (dove invece costituirebbero reato, ai sensi degli artt. 366, 636 o 650 c.p., non interessati dall’intervento depenalizzatore).
— 1426 — e poi fortunatamente soppressa) del comma 3 del medesimo art. 5 nonché dell’art. 7, i quali rispettivamente sanciscono il divieto di accompagnamento delle persone colte in contravvenzione presso l’ufficio di pubblica sicurezza ed il divieto di registrazione da parte delle autorità sanitarie ed amministrative in genere delle donne che esercitano o sono sospettate di esercitare la prostituzione. Se la soppressione avesse avuto corso, anche la depenalizzazione dell’adescamento avrebbe assunto un senso ben diverso da quello della semplice degradazione dell’illecito. La fisionomia normativa della prostituzione da strada sarebbe stata cioè nuovamente mutata; la materia privata delle garanzie giurisdizionali e riconsegnata alla discrezionalità dell’autorità di pubblica sicurezza: con il paradossale effetto di riesumare un illecito ormai praticamente inapplicato. 6. La nuova (sotto alcuni profili, rivoluzionaria) disciplina in materia di assegni non affonda le sue radici in valutazioni relative ad una ritenuta mancanza di meritevolezza o di bisogno di pena; prende piuttosto le mosse dall’esigenza prosaica di deflazione del carico giudiziario, se è vero che gli assegni a vuoto rappresentavano ben un ottavo delle sopravvenienze delle (ex) procure circondariali (64). Né, d’altro canto, è dato pensare ad un delegante così sprovveduto da non avvedersi che la sanzione pecuniaria non rappresenta certo il miglior deterrente per questa tipologia di illecito. La monetizzazione della sanzione appare in realtà un telum imbelle in risposta ad una tipologia di illecito per lo più espressione proprio di indisponibilità patrimoniale. Ed anche ove così non fosse (ove cioè il soggetto fosse solvibile), la graduabilità della sanzione in rapporto alla « gravità dell’illecito e all’importo dell’assegno » (lett. a)) potrebbe comunque non mostrarsi adeguata in relazione ad assegni senza autorizzazione o senza provvista emessi per importi considerevoli, visto che lo stesso criterio di delega fissa ai compassi edittali un massimo di ventiquattro milioni (che ben potrebbe rivelarsi, dunque, non adeguatamente elevato). La verità è che, constatato il fallimento del modello penale, il recupero dell’efficacia preventiva del sistema viene oggi perseguito mediante la predisposizione di un apparato di controllo di natura informativo-sanzionatoria, che coinvolge l’organo di vigilanza e di controllo del settore creditizio e si profila, almeno in astratto, dotato di efficacia dissuasiva. Ci si riferisce all’articolazione di un meccanismo, forse troppo rigido nei suoi presupposti applicativi (65), che si snoda nei seguenti passaggi. In primo luogo, è previsto l’immagazzinamento, in un archivio informatiz(64) Così, in base ad uno studio condotto qualche anno fa dal CSM e citato dalla Relazione al d.lgs. n. 507. Sul punto, si rinvia a E. AGHINA, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 83 s. (65) Si pensi che la « macchina » è predisposta perché operi quale che sia l’importo
— 1427 — zato presso la Banca d’Italia, delle notizie relative agli autori delle violazioni in materia di assegni (lett. e)). In secondo luogo, appunto la fruibilità, in tempo reale, dei dati medesimi da parte dell’intero sistema bancario consente di disegnare un’incisiva revoca di sistema (66), « prevedendo l’obbligo di revoca, ovvero il divieto di autorizzazione anche nei confronti di [...] banche » diverse da quella emittente (lett. d)) e la connessa responsabilità solidale della banca trattaria che abbia autorizzato il rilascio del libretto di assegni ad un soggetto già segnalato per i medesimi illeciti (lett. f)). A ciò si aggiungano le sanzioni amministrative accessorie della lett. b) (divieto di emettere assegni o di esercitare attività professionale ed imprenditoriali) che, sebbene temporanee, possiedono ora, per la loro mutata natura amministrativa, un’operatività non (più) condizionata da alcun beneficio sospensivo. È evidente lo stigma che il meccanismo cuce addosso al trasgressore, tagliato (sebbene temporaneamente) fuori dal circuito bancario; anche se, l’intervento rischia di risultare tardivo, poichè si cala in un momento prevedibilmente prossimo alla scomparsa degli assegni dalla scena dei mezzi di ordinario pagamento (67). Resta comunque il fatto che il legislatore ha saputo predisporre a tutela degli interessi del sistema economico, e bancario in particolare, una risposta (ad oggi) rigorosa che, sfruttando la capillarità e la velocità dei sistemi informatici di diffusione dei dati, affida di fatto al comparto creditizio la propria autotutela, così garantendone la massima cura. È questo un campo in cui (salvo smentita della prassi) si palesano sorprendenti le potenzialità dell’illecito amministrativo che, grazie alla sua duttilità, finisce con l’oscurare l’idea tradizionale secondo cui lo scettro della general-prevenzione sarebbe sempre nelle mani del diritto penale. A quest’ultimo la legge delega in esame concede, anzi, un ruolo oramai residuale (e comunque di presidio del nuovo sistema), quando dispone il mantenimento della sanzione penale per il caso di violazione delle sanzioni accessorie (lett. c)). E si noti come essa fissi un limite edittale ben più alto rispetto a quello contemplato dall’art. 389 c.p. che pure sanziona in via generale l’inosservanza di pene accessorie: di provenienza, cioè, giudiziaria, non amministrativa (68). Un segno dei tempi che mutano. 7.
È a tutti nota la storia della normativa penale tributaria, che lo
dell’assegno a vuoto: mentre, forse, si sarebbe potuto subordinare il meccanismo al caso in cui l’assegno o gli assegni superassero un tetto determinato. (66) così definita dalla Relazione al decreto legislativo n. 507 cit. (67) Il mutamento in fieri della dinamica economica lascia presagire che, come sta avvenendo negli altri Paesi industrializzati, anche in Italia troverà crescente diffusione la moneta elettronica, e che gli assegni saranno dunque utilizzati soltanto per le grandi transazioni economiche. (68) Il d.lgs. n. 507 definisce in relazione questa disciplina « priva di giustificazione ».
— 1428 — spessore politico-istituzionale del bene tutelato rende molto sensibile alle esigenze della prassi e conseguentemente vittima di un incessante fenomeno di pendolarismo normativo. Si è così assistito al passaggio da un sistema che riservava la sanzione penale ai soli fatti di evasione che superassero una data soglia (con conseguente necessità di attendere l’accertamento in sede diversa da quella penale) ad un sistema che, preso atto dell’insostenibile allungamento dei tempi a causa della pregiudiziale tributaria, puntava su una penalizzazione a tappeto di comportamenti spesso di scarsa rilevanza per gli interessi del fisco e prevalentemente ascrivibili al modello delle fattispecie di mera disobbedienza ovvero formali (69). Da ciò, l’abnorme proliferazione dei procedimenti penali per reati tributari, e la conseguente semi-paralisi del sistema; da ciò, anche lo stimolo per l’ulteriore inversione di rotta, che suggerisce una riscrittura generale del modello di repressione penale delle violazioni in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, così da circoscrivere l’intervento punitivo — almeno nelle intenzioni — ai soli fatti direttamente correlati, tanto sul piano oggettivo che su quello soggettivo, alla lesione degli interessi dell’erario. L’art. 9 asseconda appunto questa tendenza (70). I criteri di delega impongono cioè un numero ristretto di reati, connotati da rilevante offensività (71), di natura esclusivamente delittuosa e sorretti dalla finalità di evasione o di conseguimento di indebiti rimborsi di imposta; negano, di contro, rilevanza penale alle violazioni meramente « preparatorie » e « formali ». Conseguentemente, spostano in avanti l’intervento punitivo, focalizzandolo sul momento della dichiarazione annuale (mediante la previsione delle tre fattispecie criminose della dichiarazione fraudolenta, infedele ed omessa) (72). Alle citate ipotesi, il comma 2 lett. a) affianca (rispettivamente nn. 2 e 5) l’emissione di documenti falsi diretti a consentire a terzi la realizzazione di fatti di dichiarazione fraudolenta, nonché l’occultamento o la distruzione di documenti contabili; apporta inoltre una significativa innovazione ove (n. 4) prevede che sia punita la sottrazione al pagamento o la riscossione coattiva delle imposte mediante compimento di atti fraudolenti sui propri beni o altre condotte fraudolente. Infine, è decisamente apprezzabile la scelta di eliminare le deroghe al (69) Sulla disciplina previgente, per tutti, I. CARACCIOLI, Tutela penale del diritto di imposizione fiscale, Bologna, 1992; E. LO MONTE, L’illecito penale tributario tra tecniche di tutela ed esigenze di riforma, Padova, 1996; A. PERINI, Elementi di diritto penale tributario, Milano, 1999. (70) L’articolo, superando la ben più tranciante formulazione originaria (che travolgeva tutte le fattispecie contravvenzionali della l. n. 516 del 1982), ricalca — anche se con modifiche di non lieve momento — il disegno di legge di iniziativa governativa 2979/S. (71) Sottolineava peraltro l’evanescenza del concetto di offesa in relazione alla « proteiforme nebulosa » dell’interesse fiscale, A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 686 s. (72) Perplessità in A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 701 s.
— 1429 — normale regime di prescrizione dei reati (pure con la clausola di salvezza prevista dalla lett. g), oltre che alla generale disciplina sulla competenza (ora radicata nel locus commissi delicti, e soltanto ove non sia possibile, nel luogo in cui il reato è stato accertato (lett. h) (73). Altro aspetto innovativo concerne l’introduzione di soglie di punibilità che, come è evidente, persegue lo scopo di limitare l’intervento penale ai soli fatti di evasione economicamente significativi (74). Non si può dire, tuttavia, che le critiche siano tardate ad arrivare. Già la Commissione Finanze della Camera (75) segnalò il rischio che la delega, nel riferirsi ad una « determinata entità di evasione » ai fini della fissazione delle soglie di punibilità, comportasse la reintroduzione della c.d. pregiudiziale tributaria, con conseguente rallentamento nella celebrazione del processo penale (76). Lo scoglio venne aggirato solo attraverso la votazione di un ordine del giorno (77) nel quale il Parlamento impegnava il Governo ad escludere che il riferimento ai redditi ed ai volumi di affari evasi potesse intendersi in tal senso (dovendo essere « affidata al giudice la valutazione di tali elementi ai fini dell’eventuale applicazione della sanzioni penali ») e a « stabilire una soglia di punibilità di importo tale da non tradursi nell’ammissione di un ammontare di evasione tollerata che, di fatto, avvantaggerebbe i grandi evasori, caratterizzati da volumi d’affari e redditi particolarmente elevati ». È tuttavia dubbio che il meccanismo predisposto dal delegante riesca a fugare il pericolo che siano tagliate fuori dall’area del penale imprese di dimensione anche non piccola (78). (73) Anche su questi aspetti, A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 714 s. (74) Tale meccanismo è espressamente escluso per i soli fatti di emissione o utilizzazione di documentazione falsa e occultamento o distruzione di documenti contabili, « in cui la presenza di una soglia attenuerebbe l’obiettivo di un’efficace repressione penale specialmente con riferimento al fenomeno delle c.d. cartiere ». R. CANTONE, in E. AGHINA, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 97. (75) Bollettino seduta 19 maggio 1999. (76) Di contrario avviso, A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 639. L’autore, inoltre, pur riconoscendo il rischio che il processo penale tributario veda « il proprio esito legato a doppio filo alle conclusioni emergenti dall’elaborato del perito o del consulente tecnico » (ibidem), reputa opportuna la previsione di soglie di punibilità, al fine di compensare la scarsa offensività di alcune condotte « esangui », come l’omissione o la falsità della dichiarazione (A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 695). (77) Presentato dall’On. Veltri. Sul punto, R. CANTONE, in E. AGHINA, in E. AGHINAR. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 94 s. Si noti come l’ordine del giorno in questione ha altresì impegnato il Governo a emanare disposizioni « idonee a [...] includere, tra le fattispecie penalmente sanzionate, ai sensi del comma 2 lett. a), anche violazioni di obblighi contabili ». Perplessità sono espresse da G. FALCONE, Commento articolo per articolo, cit., p. 20. (78) Il decreto legislativo di attuazione (d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) fissa infatti soglie abbastanza elevate, oscillanti, a seconda delle diverse fattispecie, tra i centocinquanta e i duecento milioni di evasione (artt. 3, 4 e 5). A mente degli artt. 3 e 4, esse devono inoltre
— 1430 — Perplessità desta infine la scelta di sostituire al vigente meccanismo del cumulo delle sanzioni penali ed amministrative, l’operatività del principio di specialità, per il caso in cui uno stesso fatto sia « punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa » (lett. i)). Se è vero che la soluzione adottata dal Parlamento si presenta in linea con quanto stabilito in materia di illeciti amministrativi (art. 9 l. n. 689 del 1981), essa potrebbe tuttavia provocare, nel settore specifico, non trascurabili disfunzioni. Come noto, infatti, le norme tributarie disegnano un fitto reticolo di violazioni sanzionate in via amministrativa, cosicché — in un numero prevedibilmente elevato di casi — potrebbe verificarsi che esse vengano a trovarsi in rapporto di specialità rispetto a una disposizione penale, di cui sarebbe dunque inibita l’applicazione (effetto, questo, non auspicabile, tanto più a fronte della nuova costruzione delle fattispecie in termini di offensività per gli interessi dell’erario) (79). Né il pericolo appare del tutto fugato dalla subordinanzione della punibilità al superamento di determinate soglie, che varrebbero dunque da elementi specializzanti in grado di assicurare la prevalenza della risposta penale su quella amministrativa; è infatti ancora da verificare se il tetto fissato nel decreto di attuazione abbia ingresso nella tipicità dei fatti di reato (consentendo nel qual caso un giudizio di specialità) ovvero attenga, più modestamente, alla punibilità di un fatto in sé tipico (80). Comunque, anche ad ammettere la paventata « invasione di campo » da parte dell’illecito amministrativo, resta l’interrogativo se tale invasione non sia per caso un bene, a fronte dei segni di stanchezza che il diritto penale comincia a mostrare (tra gli altri) in questo settore. Non è infatti azzardato ipotizzare che le modalità di commisurazione delle sanzioni amministrative come multipli delle imposte evase risultino più deterrenti della minaccia di una pena che si prospetta — come si è visto — di difficile applicazione e quindi lontana. Sicché, potrebbe apparire addirittura eccessiva la preoccupazione del legislatore delegato quando, alle lett. e) e f), dispone in ordine alla costruzione di meccanismi premiali e di non punibilità (81). Le previsioni si spiegano, piuttosto, nell’ottica di quella funaccompagnarsi ad un requisito ulteriore, dovendo l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione risultare superiore ad una certa percentuale o comunque ad un tetto (entrambi più bassi nel caso di « dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi », piuttosto che nella meno grave ipotesi di « dichiarazione infedele »). Per un commento del decreto legislativo, A. MANNA, Prime osservazioni sulla nuova riforma del diritto penale tributario, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1999, p. 119 ss.; V. NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, Milano, IPSOA, 2000. (79) In senso analogo, A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 715 ss. (80) Ex art. 44 c.p. In tal senso, puntualmente, la prima dottrina sull’argomento. Vd. A. MANNA, Prime osservazioni, cit., p. 125 ss. (81) per chi si sia uniformato al parere del comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive. Dubbi, sebbene sotto diverso profilo, sono stati espressi da G. FAL-
— 1431 — zione di orientamento che sembra necessitare ormai di incentivi positivi, non conseguendo più al solo momento negativo, della minaccia di pena. 8. Un cenno anche all’art. 10 della legge delega, rimasto inattuato. La norma, che fece ingresso già nelle prime fasi dell’iter parlamentare del provvedimento, si colloca nella prospettiva del potenziamento delle sanzioni non detentive ed interpreta un’esigenza di fondo generalmente condivisa: il ridimensionamento della pena detentiva (82). Minor consenso ha invece riscosso, sin dai primi commenti, la strada prescelta per la sua realizzazione (83). Il testo della norma appare infatti viziato da un eccesso di sintesi (al punto da suscitare un’impressione di estrema genericità) e, soprattutto, confuso sotto il profilo concettuale. In tale prospettiva, il primo rilievo concerne l’espressa menzione delle sanzioni alternative accanto a quelle sostitutive (lett. a)); la terminologia usata, in uno con l’accostamento tra le due figure, lascerebbe supporre che il legislatore si sia richiamato a categorie note al nostro ordinamento penale: le « sanzioni sostitutive » dovrebbero allora essere riconducibili al paradigma delle « misure alternative » alla detenzione (84). Se ciò è vero, è però anche vero che la lett. b) si riferisce all’irrogazione delle sanzioni medesime da parte del giudice della cognizione, e non CONE, Commento articolo per articolo, cit., p. 20, il quale paventa che « proprio nelle zone grigie (quali quelle dell’elusione), l’interpretazione quasi autentica venga riservata all’amministrazione finanziaria, con la creazione di un possibile automatismo rovesciato che porta a una sicura condanna di chi non si è adeguato a quella interpretazione ». In senso analogo, A. PERINI, Verso la riforma, cit., p. 713. Il decreto di attuazione sembra tuttavia tenere conto di tali obiezioni, esplicitamente proponendo, accanto a questa ipotesi speciale (art. 16), una disciplina generale dell’errore di diritto scusabile, destinata a sostituire l’attuale art. 8 della l. n. 516 del 1982. (82) « La fuga dalla sanzione detentiva è divenuto ormai il leit motiv di ogni proposta di riforma del sistema sanzionatorio »: è quanto osservava, con la consueta lucidità, F. BRICOLA, Più di venti anni fa, in Le misure alternative alla pena nel quadro di una « nuova » politica criminale, in Pene e misure alternative nell’attuale momento storico, Milano, 1977, p. 363. Si pensi, da ultimo, all’orientamento espresso già espresso dalla commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta dal prof. C.F. Grosso nella relazione (Per un codice penale, II, Padova, 2000, p. 49 ss.) ed ora nell’articolato in internet, al sito www.giustizia.it. Più in generale, per un’ampia disamina di questo trend, E. DOLCINI-C.E. PALIERO, Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell’esperienza europea, Milano, 1989. Un critica all’attuale, indiscriminata, tendenza alla fuga dalla sanzione detentiva, è in E. DOLCINI, Principi costituzionali, cit., p. 25 ss. (83) Non è un caso che la delega non abbia ricevuto attuazione da parte del Governo. (84) Lo stesso discorso vale, sebbene con minore forza argomentativa, per la lett. c), laddove parla di « non sostituibilità » della pena detentiva per la fattispecie penale di chiusura che la lett. c) impone di introdurre per colpire la violazione reiterata degli obblighi connessi alle suddette sanzioni alternative.
— 1432 — di quello dell’esecuzione (come avrebbe dovuto invece essere se le sanzioni in esame fossero state vere e proprie misure alternative). Si aggiunga che la delega impone di modulare i contenuti sanzionatori (non già per tetti di pena, bensì) in base « alle diverse fattispecie di reato » (ancora, lett. b)). Infine, si consideri che la costruzione di un « doppio binario » per le contravvenzioni, da limitare alla sola fase esecutiva, non contemplerebbe la pena pecuniaria; si giungerebbe cioè al risultato paradossale di informare il complesso normativo riguardante le contravvenzioni ad un rigore maggiore rispetto a quello che continuerebbe a connotare il parallelo sistema valido per le (più gravi) ipotesi delittuose. La conclusione obbligata è allora questa: il legislatore sembra aver espresso soltanto una confusa propensione verso pene diverse da quelle elencate dall’art. 17 c.p. Si delinea, in altri termini, la volontà di una ben più incisiva rivisitazione del sistema sanzionatorio principale, sia pure limitata (potrebbe pensarsi: in via sperimentale) al settore contravvenzionale. La lettura è avallata dall’analoga tensione rinvenibile nella (quasi contemporanea) legge delega sulle competenze penali del giudice di pace (85), i cui criteri e principi direttivi somigliano molto a quelli del provvedimento in commento. Il legislatore sembra cioè proteso verso la (cieca?) ricerca di un modello sanzionatorio da calibrare sulla natura e sulle modalità dell’offesa tipica. In tal caso, la scelta mostrerebbe il pregio di esaltare la dimensione sostanziale (offesa al bene) dell’illecito su quella formale (violazione del comando). Un progetto ambizioso, certo, ed ammantato di nobili intenzioni. Peccato che esso si concili assai male con l’area d’azione prescelta — le contravvenzioni — in cui la caratterizzazione in termini formali (quella, appunto, di mera disobbedienza) risulta decisamente prevalente. D’altra parte, il campo applicativo della riforma risulterebbe scelto male anche ove si ritenga che la ratio della riforma stia semplicemente nell’evitare l’effetto desocializzante della pena (86), dal momento che il terreno contravvenzionale è poco percorso dalla pena detentiva, e piuttosto dominato da quella pecuniaria. Né potrebbe ragionevolmente supporsi che il legislatore, anziché indagare le ragioni del disastroso fallimento delle pene pecuniarie nel nostro ordinamento (87) al fine di porvi rime(85) L. 24 novembre 1999, n. 468 attuata con d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 dove, di più, i meccanismi deflattivi processuali spingono l’illecito ad affrancarsi dalla sua dimensione sanzionatoria tradizionale (pena come afflizione), e vi proiettano invece una luce diversa, « risarcitoria », spingendo nella sostanza verso la nascita di pene di tipo « omogeneo » (che partecipano cioè della natura dell’offesa), finora estranee alla logica del sistema penale e caratteristiche, invece, di quello civilistico. (86) O — più modestamente — nella deflazione carceraria... (87) Come evidenziato dalla relazione Grosso, dai dati del servizio informativo del
— 1433 — dio (88), intenda aggirare il problema e cancellarne una cospicua parte dal panorama legislativo. Lasciando da parte le possibili intenzioni legislative, e guardando al merito, la soluzione legislativa presta il fianco, poi, ad obiezioni ancora più consistenti. Già ad un esame superficiale, risalta infatti la sostanziale indeterminatezza di alcune delle nuove sanzioni alternative: si pensi alle ‘‘altre forme di lavoro sostitutivo’’ e, ancor di più, alle ‘‘misure prescrittive specifiche’’: le une insinuano dubbi in ordine all’eccessiva vaghezza del criterio di delega; le altre si pongono in contrasto palese con il principio (costituzionale) di legalità delle pene, poiché demandano al giudice l’individuazione del loro contenuto. Infine, è facile supporre che la scelta di procedere ad una simile innovazione, senza averla fatta precedere da una seria indagine sui suoi reali indici di funzionalità, sia apparsa al legislatore delegato quanto meno avventata. Alcune di queste sanzioni sono infatti conosciute già da anni nel nostro ordinamento (si pensi alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, prevista dall’art. 1 della l. n. 205 del 1993 in tema di discriminazione razziale, etnica e religiosa) che non sembra però averne ancora apprezzato l’effettiva applicazione; ciò per ragioni a tutti note, riconducibili in parte all’assenza di una specifica regolamentazione, in parte — ed è l’aspetto più preoccupante — alla difficoltà di articolarne una, per le resistenze opposte, ad esempio, dal mondo della imprenditoria (si ponga mente, per un istante, ai problemi legati ai carichi previdenziali ed assicurativi ed in genere alla responsabilità del datore di lavoro per i fatti dei suoi dipendenti, eventualmente anche sotto il profilo penale a titolo di concorso). A ciò si aggiungono gli immaginabili ostacoli in cui lo Stato incorrerebbe nel controllo sull’esecuzione delle future sanzioni (89). casellario giudiziale desumibili dall’annuario 1997, risulta che, a fronte di 2.257 miliardi, in sette anni sono stati riscossi meno di 84 miliardi. Relazione, cit., p. 56 s. (88) Nel senso di un potenziamento delle pene pecuniarie, si muoveva già la Relazione della citata Commissione ministeriale che, in una prospettiva diametralmente opposta a quella della legge delega, già proponeva di assegnare alle stesse « minimi edittali non irrisori e soprattutto di escluderla dalla sfera di azione della sospensione condizionale della pena » (ibidem, p. 57). L’articolato ha poi adottato un sistema di tassi giornalieri (Relazione, cit., p. 58), peraltro già sposato dalla c.d. bozza Pagliaro (art. 37, comma 3). La riforma del codice penale, in Doc. giust., 1992, 3, c. 348. Sull’istituto della pena pecuniaria articolata per tassi giornalieri, E. DOLCINI-C.E. PALIERO, Il carcere, cit., p. 14 ss. (89) Su questi aspetti, C.E. PALIERO, Il « lavoro libero » nella prassi sanzionatoria italiana: cronaca di un fallimento annunciato, in questa Rivista, 1986, p. 88 ss. Con riguardo alla detenzione domiciliare, che pure mostra di apprezzare, Relazione della Commissione Grosso cit., 54 s. Tornando alla legge delega, pare opportuno osservare che, se anche si fossero superati i citati ostacoli nell’articolazione di un sistema sanzionatorio alternativo (nel senso di cui si è detto), la sua effettività sarebbe stata verosimilmente vanificata dalla fruibilità dei meccanismi di sospensione condizionale. Certo, potrebbe sostenersi che la so-
— 1434 — Il discorso non muta con riferimento alle sanzioni sostitutive (90). La scelta di allargarne il ventaglio, per un verso, limita l’intervento all’ambito delle contravvenzioni, per altro verso, richiede la previsione di tali sanzioni in rapporto ‘‘alle diverse fattispecie di reato’’: sotto entrambi i profili stravolge l’attuale meccanismo di funzionamento delle sanzioni sostitutive. È infatti noto che gli artt. 53 ss. l. n. 689 del 1981 si fondano, molto più semplicemente, su ‘‘soglie edittali’’, e non distinguono tra i diversi tipi di pena detentiva (arresto o reclusione). Sicché, anche in questo caso, si insinua il sospetto che il legislatore intendesse creare una species autonoma, la cui funzionalità sarebbe stata tutta da verificare sul campo degli illeciti penali connotati da minore gravità, gettando serie ombre sulla proporzione tra mezzi e fini. Il rischio è, insomma, che la proliferazione di sanzioni penali — lungi dal potenziare il sistema — non riesca a proporre una valida alternativa e finisca quindi con il sugellare l’irreversibile, incontrollato, processo di « fuga dalla pena » (91). 9.
L’art. 12 modifica invece l’art. 624 del codice penale (92), preve-
spensione condizionale della pena e le sanzioni diverse da quella detentiva siano accomunate dalla medesima funzione « non desocializzante », ed escluderne per questo la cumulabilità. Tuttavia, nel caso di specie, tale scelta, condivisibilmente volta a restituire effettività alla pena, sarebbe esorbitata dai limiti della legge delega. In più, se circoscritta al settore contravvenzionale, come da questa imposto, avrebbe prodotto irragionevoli disparità di trattamento rispetto all’ambito dei delitti che, nonostante la loro (astratta) maggiore gravità, avrebbero invece continuato a giovarsene. (90) Per tutti, T. PADOVANI, Pene sostitutive e sistema delle sanzioni penali: profili ricostruttivi e interpretativi, in questa Rivista, 1985, p. 481. (91) Da ultimo, F. GIUNTA, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1998, p. 414. Sulla scelta legislativa operata dalla l. 27 maggio 1998, n. 165 (legge c. Simeone), E. DOLCINI, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena?, in questa Rivista, 1999, p. 857; ID., Principi costituzionali, cit., p. 26 ss., ove sottolinea come l’allargamento delle misure alternative a pene tutt’altro che brevi non appaia bilanciato dalla previsione di sanzioni utili al reinserimento sociale e nel contempo idonee a soddisfare « le istanze della prevenzione generale nello stadio della comminatoria legale e quelle dell’intimidazione-ammonimento nella fase dell’esecuzione » (p. 27) e lancia allarmanti interrogativi in relazione alle nuove attribuzioni del giudice dell’esecuzione (p. 30). (92) Si tralascia il commento dell’art. 11, ennesimo indice dellla vocazione del provvedimento a fungere da contenitore delle più varie disposizioni. Esso modifica infatti l’art. 10 della l. 26 ottobre 1995, n. 447, estendendo l’illiceità (amministrativa) del fatto in esso previsto al superamento, da parte della sorgente di emissione sonore, dei valori-limite di emissione (misurato in prossimità della sorgente stessa) ovvero di immissione (misurato in prossimità dei ricettori), e pone quindi rimedio alla precedente formulazione normativa (a mente della quale era richiesto il superamento di entrambi). La norma può dirsi condivisibile nel merito; stupisce tuttavia che una previsione di contenuto identico fosse stata introdotta poco tempo prima dalla l. n. 426 del 1998, recante ‘‘nuovi interventi in campo ambientale’’ (art. 4, comma 5). Un legislatore distratto, dunque. Invero, la gaffe fu rilevata nel corso della
— 1435 — dendone la perseguibilità a querela nelle sole ipotesi di furto semplice (93): ipotesi che il pervasivo meccanismo dell’art. 625 c.p. rende, come noto, assai esigue. Ed infatti, la pure consistente casistica dei furti nei supermercati è andata in parte assottogliandosi via via che i gestori hanno apprestato difese a tutela della merce e che queste venivano eluse mediante « violenza sulle cose » (nel caso di strappo dell’etichetta) (94) ovvero (quando è elusa la sorveglianza) mediante « destrezza » o « mezzi fraudolenti » (95). Sarà così la giurisprudenza a definire lo spazio operativo di una riforma (96) che, comunque, risponde alla precisa opzione ideologica di restituire alla vittima l’esercizio della sua tutela in relazione a questa specifica manifestazione criminale (97). Legata al contenuto del suddetto articolo appare poi la disposizione dell’art. 14, la quale interpola il testo dell’art. 4 della l. 8 agosto 1977, n. 533, prevedendo la perseguibilità d’ufficio del furto di armi. L’ambigua discussione finale alla Camera (res. parl. 24 maggio 1999); al fine tuttavia di non rallentare i lavori parlamentari, fu accolto l’invito a soprassedere su tale « ineleganza » (così, il Min. Diliberto; ibidem). Sul citato art. 11, cfr. A. VALLINI, Leg. pen., 2000, p. 53 s. (93) La dottrina non ha mancato di rilevare le incongruenze della scelta legislativa. « Basti pensare che, per effetto di una singolare sinergia, il furto aggravato dalla violazione di domicilio (art. 625, n. 1, c.p.) rimane perseguibile d’ufficio, nonostante che i reati che lo compongono sono, singolarmente considerati, perseguibili a querela ». F. GIUNTA, Il commento, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1424, il quale aggiunge che alla luce della modifica la rubrica dell’art. 626 c.p. (Furti punibili a querela dell’offeso) avrebbe dovuto essere modificata, « dato che — almeno sul piano delle astratte enunciazioni — essa non esprime più un’eccezione, bensì la regola » (ibidem). (94) Corte cass., 14 gennaio 1993, Bonsignori, in CED Cass., 193805. (95) Rispettivamente, Corte cass., 4 luglio 1986, Di Renzo, in CED Cass., 174825 e Corte cass., 11 gennaio 1980, Vitiello, ivi, 146525). È peraltro opportuno specificare che la giurisprudenza maggioritaria negava in passato che l’occultamento della cosa indosso integrasse il ricorso a mezzi fraudolenti (tra le altre, Corte cass., 12 maggio 1972, Sancini, in CED Cass., 122817; contra, Corte cass., 18 ottobre 1966, Picogna, in CED Cass., 102966; Corte cass., 10 febbraio 1971, in Giust. pen., 1972, II, p. 200). Sicché non è da escludere un revirement di questa impostazione, vuoi anche indotto dall’esigenza deflattiva che conseguirebbe alla mutata disciplina processuale. (96) Reputa verosimile che la riforma induca gli uffici del pubblico ministero a contestare con maggiore larghezza il furto semplice, D. SABENA (Leg. pen., 2000, p. 56), la quale ritiene inoltre ingiustificata la disparità di trattamento rispetto all’ipotesi di furto militare, non interessata dalla riforma (ibidem). (97) In argomento, si rinvia alla ben nota lettura ideologicamente orientata dei delitti contro il patrimonio, e del furto in particolare, proposta da F. SGUBBI, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, Milano, 1980, p. 150 ss. Su diverse posizioni, A. CARMONA, Il fine di profitto nel delitto di furto, Milano, 1983, p. 43 ss., nonché ID., Tutela penale del patrimonio individuale e collettivo, Bologna, 1996, p. 20 ss.; S. MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova, 1988. Da una prospettiva criminologica, sottolinea l’impossibilità di perseguire efficacemente ogni manifestazione di micro-criminalità, e rinviene dunque la necessità di predisporre forme di prevenzione individuale e collettiva, E. SAVONA, La regolazione del mercato della criminalità, in Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 239 ss.
— 1436 — lettera della norma, che evoca la descrizione delle circostanze aggravanti (98), giustifica la specificazione, altrimenti superflua (99). Ancora, alla sola ipotesi dell’art. 12, sembra riferirsi l’art. 19, quando rimette la persona offesa in termini per la presentazione della querela, con decorrenza a partire dall’entrata in vigore della presente legge (incomprensibile, dunque, il richiamo ai « decreti legislativi » che non avrebbero potuto contenere disposizioni in tema di procedibilità). Più capziosa, sebbene animata da intenti lodevoli, appare invece l’altra possibile interpretazione, che si fonda sull’uso del plurale « reati ». Essa consisterebbe nell’estendere il riferimento anche a quei reati per i quali la perseguibilità a querela non sia disposta dalla legge delega, ma assuma rilievo sul piano concreto, in conseguenza della loro emersione in via residuale per effetto del fenomeno di successione di leggi penali nel tempo: vale a dire, come effetto dell’abrogazione di fattispecie (perseguibili d’ufficio e per le quali, dunque, non sia stata presentata querela) speciali rispetto alle prime. Così, ad esempio, sarebbe assicurata la tutela della vittima della (residua) ingiuria (perseguibile a querela), a seguito dell’abrogazione delle fattispecie di oltraggio (disposta dall’art. 18) (100). L’art. 13, nonostante sia collocato tra le disposizioni concernenti specificamente il delitto di furto, ha una portata generale; sovverte infatti il vigente regime delle spese del procedimento nel caso di remissione della querela, facendole gravare sul querelato, piuttosto che sul remittente (in tale ultimo senso, l’attuale art. 340, comma 4, c.p.p.). La norma, cui si auspica conseguano effetti apprezzabili sul piano della deflazione, suscita non poche perplessità sotto l’aspetto equitativo, in tutti i casi in cui il querelante abbia dato ‘‘avventatamente’’ impulso al procedimento penale (101). (98) Nel senso che si tratti di una circostanza aggravante, Corte cass., Sez. II, 15 giugno 1984, Pezzuto, in CED Cass., 164833. In dottrina, D. SABENA, Leg. pen., 2000, p. 62 s. (99) Come nei casi in cui l’art. 624 c.p. sia richiamato quoad poenam. Così, nell’art. 67 l. 1o giugno 1939, n. 1089. G. FUMU, Commento articolo per articolo, cit., p. 26. (100) In questo senso, Cass., 14 luglio 1999, Sinistra, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1423 s.; in dottrina, R. CANTONE, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 129. Contra, Cass., 13 luglio 1999, Adamoli, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1423. Dichiara inoltre l’improcedibilità per il delitto di ingiuria, implicitamente escludendo la necessità di assumere provvedimenti idonei per la rimessione in termini della persona offesa, Cass. 31 luglio-5 agosto 1999, Gorziglia, in CED Cass., 214183. (101) In tal senso, anche R. CANTONE, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 110; D. SABENA, Leg. pen., 2000, p. 61 la quale sottolinea oltretutto come la previgente soluzione normativa avesse ottenuto l’avallo della Corte costituzionale (sent. 31 maggio 1995, n. 211, in Leg. pen., 1995, p. 846). Ritiene che solo la facoltà di statuire in deroga alla disposizione del nuovo comma 4 dell’art. 340 c.p.p. fuga i sospetti di illegittimità costituzionale che altrimenti si addenserebbero sulla previsione. G. FUMU, Commento articolo per articolo, cit., p. 26. Nessuna particolare osservazione merita l’art. 15 del provvedimento. Esso pone infatti
— 1437 — 10. È condivisibilmente scomparsa, tra le previsioni dell’attuale art. 16 sulle disposizioni finali, la costituzione di un’anagrafe nazionale delle violazioni amministrative, pure presente in una versione della proposta di legge. Vero è che il meccanismo avrebbe agevolato il decollo del nuovo istituto della reiterazione dell’illecito amministrativo. Tuttavia, l’esperienza fallimentare del casellario giudiziario ne lasciava presagire una difficile praticabilità, a causa dell’elevato numero degli illeciti, peraltro in aumento progressivo. Soprattutto, la sua istituzione si sarebbe ispirata al non condivisibile intento di assimilare il sistema sanzionatorio amministrativo a quello penale, nonostante uno dei tratti salienti dell’illecito amministrativo dovrebbe essere — come si è detto (102) — proprio l’assenza del sozialetischer Tadel (riprovazione etico-sociale) caratteristico del reato. Si è già rilevata, peraltro, l’influenza che su tale aspetto eserciterà inevitabilmente il proliferare di sanzioni diverse da quella pecuniaria. La proposta istituzione di un casellario dell’illecito amministrativo rappresenta soltanto la spia dell’inarrestabile processo di assimilazione tra i due sistemi sotto il profilo dei contenuti sostanziali e degli scopi di tutela. Fu limpidamente dimostrato, in passato, che il discrimen tra illecito penale ed illecito amministrativo dovesse cercarsi non necessariamente nel carattere bagatellare del secondo. La necessaria concorrenza dei criteri della proporzione e della sussidiarietà dovrebbe far sì che la scelta legislativa si orienti a favore dell’illecito amministrativo anche nei casi di « elevato tasso di proporzione, se la valutazione in termini di sussidiarietà non dimostra inequivocabilmente la necessità della sanzione penale » (103). Ebbene, l’ultima munizione in possesso del diritto penale (anch’essa presumibilmente destinata, alla lunga, ad esaurirsi) rimane verosimilmente l’efficacia simbolica che si ricollega, come noto, ormai non più all’inflizione della pena — sempre più priva di effettività (104) — bensì, piuttosto, alla posizione della norma (105). Se dunque gli interventi di penalizrimedio ad una (clamorosa) svista legislativa, risalente all’emanazione della c.d. legge Draghi, la quale aveva inopinatamente abrogato le disposizioni di depenalizzazione contenute nella l. n. 561 del 1993 anche per le parti eccedenti quelle di specifico interesse della riforma, riguardante il settore di intermediazione finanziaria (la defaillance risultava comunque già recuperata in via ermeneutica). Sul punto, G. MORGANTE, Leg. pen., 2000, p. 63 ss. (102) V. retro, § 1 e la bibliografia ivi citata. (103) T. PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali, cit., p. 956. (104) Amplissima la bibliografia sul punto. Per tutti, T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, p. 419 ss.; C.E. PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, p. 510 ss.; G. FIANDACA-E. MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., p. 30 s.; GIUNTA, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1998, p. 414 ss.; G. MARINUCCI, Riforma o collasso del controllo penale, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1063 ss.; E. DOLCINI, Principi costituzionali, cit., p. 27 ss. (105) L’impostazione evoca in certa misura le teorie della prevenzione generale posi-
— 1438 — zazione continueranno ad essere realizzati dal potere politico in funzione palliativa dell’ansiosa richiesta, da parte dei cittadini, di una risposta statale di fronte all’aggressione di interessi nuovi o di nuove aggressione a beni già esistenti e spesso caratterizzati da una forte (condi)visibilità, la maggiore duttilità dell’illecito amministrativo, suscettibile di essere plasmato senza gli ingombranti limiti dei principi costituzionali, ne suggerisce una più capillare presenza in settori delicati, ma a minore esposizione sociale, che ancora poco tempo fa erano stati faticosamente conquistati al diritto penale (stando al provvedimento in esame, quelli economico e tributario ben si prestano all’esemplificazione). Il potenziamento dell’arsenale amministrativo ha ulteriormente spostato i confini del giudizio di sussidiarietà: in un’ottica di razionalità di scopo, alcuni obiettivi perseguiti dal diritto penale, sembrano oggi astrattamente realizzabili (e con mezzi più duttili) anche dall’illecito amministrativo. Rimane da verificare come. Non occorre essere buoni profeti per preconizzare che il meccanismo in materia di assegni senza autorizzazione e senza provvista, affidato alla Banca d’Italia con la cooperazione degli istituti creditizi (chiamati a difendere i propri interessi), darà buona prova del suo funzionamento. La ragione risiede, oltre che nell’efficienza dell’organo amministrativo di controllo, altresì nella facilità di accertamento dell’illecito. Una prognosi altrettanto favorevole non è dato purtroppo esprimere con riferimento agli altri settori affidati all’autotutela di un’amministrazione lenta, inefficiente, organizzata secondo moduli ampiamente superati e — soprattutto — sprovvista di reali poteri di accertamento. In ciò la debolezza del paradigma amministrativo; in ciò la superiorità, ad oggi, di quello penale. 11. Resta da richiamare l’art. 18, recante « abrogazioni e modifiche al codice penale » (106). La norma finisce con prolungare l’agonia della parte speciale del codice Rocco, stemperandone l’impronta statolatrica attraverso l’eliminazione delle fattispecie che più compromettono una moderna visione del rapporto Stato-cittadino (107), fattispecie tuttavia neutiva o integratrice, la cui fisionomia è stata già ampiamente evidenziata dalla dottrina: per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., p. 45. (106) Il comma 2 dell’art. 18 abroga la norma che attribuisce all’ispettorato compartimentale dei monopoli il potere di disporre la pubblicazione della sanzione comminata a seguito dell’acquisto di sigarette di contrabbando, a spese dell’interessato, su uno o più quotidiani (art. 6 comma 3 l. 18 gennaio 1994, n. 50). La previsione esubera evidentemente dal campo applicativo dell’art. 18; in più, contribuisce a confondere le linee di politica legislativa che, stando alla sola legge di depenalizzazione, per un verso, dichiarano di non voler abbassare la guardia in materia di contrabbando dei tabacchi lavorati esteri (escludendo la materia dallo spettro di operatività della delega); per altro verso, cancellano un disincentivo (più o meno grande che sia) al dilagare del fenomeno. (107) Sottolinea la mancata corrispondenza delle fattispecie abrogate al « ‘‘sentimen-
— 1439 — tralizzate da un’applicazione giurisprudenziale in alcuni casi inesistente, in altri quanto meno sporadica. Come era peraltro prevedibile, l’intervento di asportazione, operato su un corpus ispirato ad una logica (superata, ma) ferrea nella sua coerenza interna, non è perfettamente riuscito. Potrebbe provocatoriamente dirsi che il risultato finale dell’operazione di cosmesi legislativa lascia insoddisfatti anche sotto il profilo estetico. L’intervento, della cui opportunità in questa sede è lecito dubitare, ha manifestato infatti un carattere disorganico, ed ha finito se mai con l’accentuare l’urgenza di una normazione di ampio respiro, che rimediti la parte speciale del codice, sia sotto il profilo del catalogo dei beni giuridici, sia sotto quello delle tecniche di tutela, in relazione ai mutati scenari criminologici ed alle nuove sensibilità politiche. Così, anziché ripensare interamente la ratio ispiratrice del titolo I del codice penale (delitti contro la personalità dello Stato) (108), il legislatore del 1999 si è limitato ad eliminare alcune fattispecie. Sono stati abrogati: l’accettazione di onorificenze o utilità da uno Stato nemico (art. 275); il vilipendio di cui all’art. 297; l’art. 298, che estendeva la tutela prevista nel capo IV nei confronti dei Capi di Stati esteri, anche ai rappresentanti degli Stati stessi (109) (incolume è però rimasto l’art. 299 che sanzionava il vilipendio pubblico della bandiera estera) (110); la pubblica istigazione ed apologia punita dall’art. 303 (che peraltro rifluirà all’interno dell’art. 414 c.p.). Altro reato di opinione caduto sotto la scure dell’art. 18 l. n. 205 è l’art. 327 (Eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni, delle leggi o degli atti dell’Autorità). Ma, nell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, l’intervento più significativo ha riguardato le ipotesi di oltraggio, preposte alla tutela del prestigio di chi partecipa all’apparato di potere e distoniche rispetto alla rinnovata oggettività giuridica (imparzialità ed efficienza) che il legislatore, a partire dal 1990, ha assegnato to’’ di disvalore penale diffuso nella nostra società », A. VALLINI, Leg. pen., 2000, p. 69, il quale cerca dunque un sostegno alla scelta di abrogazione nella teoria delle Kulturnormen (p. 70). (108) Sul tema, per tutti, G. MARCONI, I delitti contro la personalità dello Stato, Milano, 1984; T. PADOVANI, Bene giuridico e delitti politici, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1985, p. 227 ss. (109) « Se non altro affrettata appare l’eliminazione di quest’ultima norma, la quale [...] era posta a tutela anche della vita, dell’incolumità fisica e della incolumità fisica » dei Capi di Stato esteri e dei rappresentanti di Stati esteri, « ai quali si finisce così colò negare qualsiasi tutela differenziata, in attrito con convenzioni internazionali » (A. VALLINI, Leg. pen., 2000, p. 76). (110) ... con la conseguenza « che la bandiera riceve una tutela molto più forte che non la persona » R. CANTONE, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 123.
— 1440 — ai delitti contro la pubblica amministrazione (111). Sulla scia dell’insegnamento reso dalla Consulta con la sentenza n. 341 del 1994 sull’art. 341 c.p. (112), il legislatore ha ritenuto poi opportuno rimodulare gli editti sanzionatori delle fattispecie « speciali » di oltraggio di cui agli artt. 342 e 343 c.p. (pure risparmiate dalla Corte costituzionale) (113), abbattendo il tetto minimo e livellando la risposta, quanto al massimo, a tre anni di reclusione (114). Ancora, è stato soppresso l’art. 332 c.p., che puniva l’omissione di doveri d’ufficio in occasione dell’abbandono di un pubblico ufficio o di interruzione di un pubblico servizio (115). Quanto ai delitti contro l’amministrazione della Giustizia, l’intento modernizzatore del legislatore traspare dall’abrogazione delle fattispecie di duello, del tutto desuete e, soprattutto, retaggio di una visione che anteponeva la tutela dell’ordine cavalleresco a quella, « svenduta » con pene (111) Specificato che — come ormai si ritiene generalmente — il mancato rilievo costituzionale di un bene non consente di concludere per l’illegittimità costituzionale della norma che lo tutela, la dottrina rilevava nondimeno l’evanescenza del contenuto offensivo dell’art. 341 c.p. Nel senso della smaterializzazione del bene bene giuridico deponeva la struttura stessa della fattispecie che, da una parte, elevava a reato solo l’ingiuria e non anche la diffamazione a pubblico ufficiale, « come se l’offesa al prestigio delle istituzioni fosse particolarmente intensa per il fatto di essere recata alla presenza, quasi « sacrale » dunque, dei rappresentanti del potere; d’altra parte, non richiedeva neanche la pubblicità o la presenza di terzi quali elementi costitutivi. F. PALAZZO, voce Oltraggio, in Enc. dir., Milano, 1979, XXIX, p. 867 s. Tentava invece un riapprezzamento dell’oggettività giuridica del delitto, A. PAGLIARO, voce Oltraggio a un pubblico ufficiale, in Enc. giur., Torino, 1990, p. 2 (« il pubblico ufficiale, in quanto agisce al servizio della pubblica amministrazione, e quindi al servizio dello Stato, merita una tutela più accentuata da parte dello Stato stesso. Ciò perché, in questo modo, lo Stato tutela sé medesimo »). Per un’analisi storica e comparatistica del delitto di oltraggio, G. FLORA, Il problema della costituzionalità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, in Arch. giur., 1976, p. 21 ss., il quale manifestava perplessità in ordine alla legittimità costituzionale dell’oltraggio, sospettato di violare l’art. 3 Cost. (in particolare, p. 51 ss.). V. infine T. PADOVANI, in T. PADOVANI-L. STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1991, p. 49, che ritengono i delitti del capo II del titolo II « dominati dall’ossessione del ‘‘prestigio’’ dell’autorità ». (112) In Foro it., 1994, I, p. 585, con nota di G. FIANDACA; in Giur. cost., 1994, 2802, con note di M. SPASARI, Riflessioni minime in tema di oltraggio e principio di eguaglianza e di R. PINARDI, Riflessioni sul giudizio di ragionevolezza delle sanzioni penali, suggerite dalla pronuncia di incostituzionalità della pena minima prevista per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale; in Cass. pen., 1995, p. 25, con nota di ARIOLLI, Il delitto di oltraggio tra principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena. (113) Sent. Corte cost., 12 luglio 1995, n. 313, in Giur. cost., 1995, p. 2439, con nota di E. GALLO, In tema di « oltraggi »: le distinzioni normative fra le varie specie resistono al controllo di legittimità costituzionale; ord. Corte cost., 27 dicembre 1996, n. 428, in Giur. cost., 1996, p. 3776 s. (114) La sopravvivenza all’oltraggio delle fattispecie in oggetto sarebbe giustificabile alla luce della loro diversa oggettività giuridica. Con specifico riferimento all’art. 343 c.p., si rinvia alle considerazioni di recente svolte da L. DURIGATO, Oltraggio a un magistrato in udienza: valenza processuale dell’interesse tutelato?, in Ind. pen., 1998, p. 441 ss. (115) La fattispecie aveva registrato, per vero, applicazioni più che sporadiche.
— 1441 — irrisorie, del bene vita (116). Né si è persa l’occasione per eliminare talune ipotesi contravvenzionali, tra cui il turpiloquio (art. 726, comma 2, c.p.) (117), nonché la mendicità (art. 670 c.p.), per la parte sopravvissuta alla sentenza n. 519 del 1995 della Corte costituzionale (sulla c.d. mendicità non invasiva) (118). 12. Che il legislatore abbia tentato un restyling del vecchio codice penale, invero), e non sia riuscito nell’intento di deflazionare il carico giudiziario, risulta evidente ove si pensi che molte delle fattispecie abrogate dall’art. 18 trovavano un’applicazione estremamente ridotta. Le poche realmente « in vita » continuano invece ad esserlo, sebbene trasmigrate nel corpo di differenti disposizioni. È il caso dell’oltraggio, in relazione al quale la Corte di cassazione, nel suo primo, condivisibile, approccio al tema, ha rinvenuto un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, piuttosto che un’abolitio criminis (119). L’interpretazione « del giorno dopo » sembrava finalmente aver messo d’accordo tra loro gli orientamenti dottrinali che individuano il criterio discretivo del comma 3 rispetto al comma 2 dell’art. 2 c.p. in un rapporto di specialità (la si individui in astratto (120) ovvero in con(116) T. PADOVANI-L. STORTONI, Diritto penale, cit., p. 50. (117) È stato invece mantenuto rilievo penale agli atti contrari alla pubblica decenza (ora di competenza del giudice di pace), puniti dal comma 1 dell’art. 726 c.p. La scelta lascia perplessi (quanto meno in relazione all’ipotesi colposa), a fronte dell’abrogazione del contiguo, più grave delitto di atti osceni colposi. Sul punto, anche VALLINI, Leg. pen., 2000, p. 78. (118) Una notazione incidentale. Nel silenzio della legge sul punto, vale per l’entrata in vigore della legge stessa, il termine ordinario dei quindici giorni. Comprensibili problemi di organizzazione degli uffici giudiziari avrebbero dovuto suggerire di derogare, per le abrogazioni, alla vacatio legis di quindici giorni, consentendo alla norma di sortire i suoi effetti a partire dal giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. D’altro canto, i giudici hanno prudentemente atteso il decorso della vacatio (la legge è stata pubblicata sulla G.U. del 28 giugno), prima di fare applicazione delle disposizioni abrogatrici (v. sent. Cass., 13 luglio 1999, cit. e sent. Cass., 14 luglio 1999, cit.). Ma avrebbe potuto essere condivisa anche una meno cauta soluzione, accettabile ove si fosse ritenuto che la finalità della vacatio consista esclusivamente nell’assicurare la conoscibilità del precetto; in questo caso, infatti, le esigenze di certezza del diritto, funzionali alla tutela della libertà del cittadino, dovrebbero soccombere in ogni caso in cui quest’ultima si « riespanda » in conseguenza del venir meno di spazi di illiceità penale. (119) Salvo i contrasti che, come si è detto, si sono manifestati in ordine alla possibilità di invocare l’art. 19 l. n. 205 del 1999 per consentire la rimessione in termini dell’offeso che intenda sporgere querela. Sul punto, vd. sentenze citate supra, § 9. Oggi, anche Corte cass., Sez. I, 26 aprile 2000, Saoud, in CED Cass., 216096; Corte cass., Sez. I, 11 aprile 2000, Guerrieri, ivi, 216039; Corte cass., Sez. I, 11 aprile 2000, Hattab, in ivi, 216020. (120) Per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, p. 77 ss.; T. PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1982, p. 1366 s. Con riguardo espresso ai rapporti tra oltraggio ed ingiuria, vd. anche MORGANTE, Leg. pen., 2000, p. 83.
— 1442 — creto) (121) e quelli, tradizionali invece della giurisprudenza, riconducibili alla formula della c.d. « continuità del tipo di illecito ». Se le modalità di aggressione delle fattispecie di oltraggio e di ingiuria appaiono praticamente identiche, una parziale coincidenza poteva infatti essere rinvenuta anche in rapporto al bene giuridico, dal momento che il delitto di oltraggio è sempre stato classicamente annoverato tra i delitti plurioffensivi (122). Più esplicitamente, nell’art. 341 c.p., il bene « prestigio della Pubblica Amministrazione » si aggiungeva al bene « onore », senza assorbirlo; in tale prospettiva, non si può sottovalutare il dato che la giurisprudenza non avesse mai affermato il concorso formale di reati. Per questa ragione, e semplificando il discorso ai limiti della banalità, una volta eliminato il giudizio di riprovazione penale nei confronti dell’offesa al prestigio dello Stato, dovrebbe comunque residuare il disvalore che si lega all’offesa del bene individuale. Il punto è però che, come noto, la natura plurioffensiva del reato giustificava, oltre ad un diverso regime di perseguibilità, anche una sanzione ben più grave (123). Ed allora, ipotizzato un fenomeno di successione di leggi penali, piuttosto che un’abolitio, la predetta soluzione deve essere parsa iniqua in tutte le ipotesi in cui un soggetto fosse stato condannato per oltraggio ad una pena detentiva con sentenza passata in giudicato, e dunque irrevocabile (124). Mossa forse da siffatta preoccupazione, la giurisprudenza di legittimità ha operato una brusca inversione di tendenza, (121) A. PAGLIARO, La legge penale tra irretroattività e retroattività, in Giust. pen., 1991, II, p. 1 ss. (122) « Si può dire che, almeno nell’oltraggio individuale, l’offesa all’onore e prestigio delle persone fisiche, costituisce il mezzo attraverso il quale risulta poi offeso anche il prestigio della pubblica amministrazione ». F. PALAZZO, Oltraggio, cit., p. 851. Argomenta dalla natura plurioffensiva dell’oltraggio, e parla di abrogatio sine abolitio, F. GIUNTA, Il commento, cit., p. 1426. L’Autore peraltro ritiene che, nel caso di specie (ad escludere che l’art. 19 della l. n. 205 si riferisca anche alle ipotesi in cui un reato perseguibile a querela si riespada per effetto dell’abrogazione di una fattispecie perseguibile d’ufficio), avrebbe dovuto trovare applicazione il tempus regit actum, « con conseguente conferma della sentenza di condanna »: e ciò in considerazione della natura processuale della querela (la condizione di procedibilità « sussisteva nel momento in cui era necessaria per consentire l’esercizio dell’azione penale »). Nel senso, invece, che le regole sulla successione delle leggi penali trovino applicazione anche in materia di condizioni di procedibilità, in via diretta o quanto meno analogica, rispettivamente, A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, Milano, 1996, pp. 124 e 134; M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, Milano, 1995, p. 58 s. (123) Non si deve cioè dimenticare che, anche dopo il citato intervento della Corte costituzionale, l’art. 341 c.p. continuava ad essere punito con la sola pena detentiva; l’art. 594 c.p. prevede invece la reclusione (fino a sei mesi) in alternativa alla pena pecuniaria. Inoltre, la qualificazione come ingiuria consente al fatto di fruire di un regime complessivamente più favorevole (anche grazie all’applicabilità della cause di non punibilità di cui agli artt. 596, 598, 599 c.p.). Sul punto, VALLINI, Leg. pen., 2000, p. 75 s. (124) Invero, ciò che al più potrebbe ritenersi iniquo è il rigore della scelta compiuta dal legislatore nell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 2 c.p., laddove non consente una re-
— 1443 — ed ha preso a dichiarare che « il fatto non è più previsto dalla legge come reato » (125), ritenendo la configurabilità di un’abolitio criminis (126). Ecco dunque come quello che sembrava quasi « un caso di scuola » (127), si è improvvisamente tramutato in un campo di guerra in cui tutto diviene lecito, compreso sostenere che il comma 3 dell’art. 2 sarebbe inapplicabile al caso di specie, dal momento che parla di « leggi posteriori » (laddove l’ingiuria è invece preesistente all’abrogazione dell’oltraggio): pena la « compromissione del principio di irretroattività, almeno nella formulazione datane dall’art. 25 della Costituzione » (128) (!). E dire che si riteneva ormai pacificamente idonea ad integrare il comma 3 dell’art. 2 c.p. anche l’ipotesi in cui « la norma abrogata contempli nel contesto sistematico antecedente, una fattispecie speciale » (129), aggiungendosi, immediatamente dopo: « La fattispecie generale, una volta eliminata la deroga incriminatrice preesistente, vede ampliata e dilatata la propria sfera di applicabilità, in quanto l’intera classe degli oggetti già sussumibile nella fattispecie speciale, rifluisce in essa automaticamente » (130). Sicché, passando dal generale al particolare, rispetto al fatto, l’art. 594 importa una innovazione nella disciplina e si atteggia — per usare la terminologia codicistica — a « legge posteriore » (131). formatio parziale del giudicato nei casi in cui il soggetto sarebbe stato punito meno gravemente. (125) Corte cass., 12 agosto 1999, Colombo, in CED Cass., 214896. Conf., Corte cass., Sez. I, 10 marzo 2000, Errico, ivi, 215821; Corte cass., 12 aprile 2000, Aauacha, ivi, 216041; Corte cass., Sez. I, 27 aprile 2000, Chieffi, ivi, 216098. (126) Corte cass., 14 agosto 1999, Ghezzi, in CED Cass., 215043, in cui la configurabilità di un fenomeno di successione di leggi penali è esclusa perché l’oltraggio avrebbe punito un fatto diverso dall’ingiuria perché assorbente, piuttosto che semplicemente speciale, rispetto all’ingiuria. (127) F. GIUNTA, Commento, cit., p. 1426. Nel senso della successione di leggi penali, ampiamente, G. GIAMMONA, Questioni di diritto transitorio in seguito all’abrogazione del delitto di oltraggio, nota a Corte Cass., I, 11 aprile 2000, Speranza in Foro it., 2000, II, c. 293 ss. (128) Corte cass. 28 gennaio-10 febbraio 2000, n. 518, Marino, in Diritto e giustizia, 8, 2000, p. 62. (129) T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1367. (130) T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., ibidem, che così concludeva: « Non si tratta quindi di una norma (quella generale) che succeda « a se stessa », bensì a quella speciale abrogata. (131) Soltanto in via incidentale, è prevedibile che problemi interpretativi ancora maggiori è prevedibile nelle ipotesi di depenalizzazione quando (come in materia di navigazione ed in relazione alle fattispecie di cui all’art. 7 della legge in esame) la sanzione amministrativa sia fatta precedere dalla clausola di salvezza « salvo che il fatto costituisca reato ». In questi casi, la questione si prospetta nei termini seguenti. Premesso che la scelta legislativa è nel senso di non privare di rilievo penale il comportamento quando esso ricada in una previsione di reato (derogando così all’art. 9 della l. n. 689 del 1981), nella (quasi) totalità dei casi, quest’ultima previsione di reato sarà più grave rispetto all’ipotesi speciale che è stata depenalizzata. La conseguenza — ovvia — è che il soggetto attivo, in assenza di depenalizza-
— 1444 — 13. L’impianto complessivo del provvedimento tradisce insomma la difficoltà che il nuovo legislatore ha incontrato quando ha posto mano all’impresa depenalizzatrice (132). Il disagio emerge anche dalla tecnica legislativa prescelta, vale a dire dal ricorso alla legge delega: certamente un novum in questo settore. Se è vero che l’allargamento (piuttosto che l’erosione) degli spazi di liceità penale conseguente alla depenalizzazione in qualche misura attenua le perplessità (affatto condivisibili) che la dottrina continua a manifestare sul ricorso alla legislazione delegata (133), non può certo negarsi che l’incidenza di molte sanzioni accessorie su diritti fondamentali (non ultima la libertà in materia economica) avrebbe dovuto consigliare un’attenta ponderazione nelle sedi istituzionali competenti (Camere) e con le garanzie di controllo pubblico a ciò deputate (134). Senza considerare gli ulteriori effetti negativi prodotti da un’aspettativa di depenalizzazione protrattasi non solo durante i normali tempi di discussione parlamentare del provvedimento legislativo, ma anche nei mesi successivi, necessari alla preparazione dei decreti legislativi. E non ci si riferisce soltanto alla prassi (135) di non provvedere neanche all’iscrizione dei procedimenti penali per reati rientranti nell’orbita della futura depenalizzione, si sarebbe visto applicare la fattispecie penale speciale meno grave; a seguito di depenalizzazione, vedrebbe paradossalmente rivivere a suo carico l’ipotesi penale generale più grave. In che misura questa soluzione sia conforme al divieto di retroattività in materia penale, è ovviamente dubbio. I casi — per fortuna non numerosi — avrebbero dovuto costituire oggetto di una disciplina in sede transitoria da parte del decreto legislativo, ma ciò non è accaduto. Pure in assenza di un’apposita previsione, e nell’impossibilità di ricorrere alla sanzione amministrativa (se non contravvenendo apertamente al dato testuale), dovrà tuttavia verificarsi la possibilità di applicare la fattispecie penale meno grave, nonostante sia stata trasformata in illecito amministrativo. A tale scopo, ci si chiede se sia troppo ardito argomentare dalla volontà legislativa di non privare totalmente il fatto del suo rilievo penale, per sostenere — di conseguenza — che la fattispecie depenalizzata sopravviva, sebbene ai fini assai limitati della sua applicazione in fase transitoria. (132) ... anche per l’impossibilità di orientarsi in una normativa penale complementare le cui dimensioni sono così vaste da sfuggire allo stesso legislatore. In questo senso, un importante contributo potrà venire dalla ricerca MURST articolata fra le Università degli Studi di Bologna, Macerata e Teramo, dal titolo « La riforma della legislazione penale complementare », a margine della quale si rinvia alle interessanti riflessioni di M. DONINI, La riforma della legislazione penale complementare. Uno studio di diritto comparato, Padova, 2000, p. 4 ss. (133) E. DOLCINI, Principi costituzionali, cit., p. 14 ss.; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1999, p. 155 ss.; con riferimento allo schema di legge delega elaborato dalla Commissione Pagliaro, vd. gli stessi Autori già in Note sul metodi della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, p. 414 ss.; v. anche G. FIANDACA-E. MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., p. 58. (134) Sulla ratio della riserva di legge, per tutti, F. PALAZZO, voce Legge penale, in Dig. disc. pen., 1993, Torino, VII, p. 344. (135) Ne accenna anche E. AGHINA, in E. AGHINA-R. CANTONE, La depenalizzazione dei reati minori, cit., p. 84, nota n. 143.
— 1445 — zazione (ad esempio, in materia di assegni), prassi, evidentemente, in contrasto (almeno formale) con le esigenze della legalità. Si richiama piuttosto l’attenzione sugli effetti deteriori che la flessibilizzazione delle scelte di criminalizzazione-depenalizzazione sortisce sulla credibilità del sistema. È evidente, infatti, che tali scelte sono sempre più distanti dalle nobili ragioni dell’extrema ratio (136) e sempre più piegate alle esigenze concrete, sì da assumere queste ultime a principi guida di ogni intervento, con l’effetto di scuotere ulteriormente la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e di minare alle basi quel consenso che dovrebbe legittimare le opzioni politico-criminali compiute (137) (anche qui, l’esempio degli assegni calza a pennello). Questo per l’ovvia ragione che i tempi di gestazione legislativa (una volta precluso il ricorso allo strumento del decreto legge) (138) si sono notevolmente dilatati, sicché non di rado gli interventi si rivelano intempestivi, incidendo su situazioni caratterizzate da aspettative sociali diverse rispetto a quelle da cui avevano preso spunto. Il sistema, dunque, mostra inequivocabili segni di fibrillazione. Un sintomo eloquente è in verità l’art. 20 della l. n. 205, a mente del quale « i riferimenti a provvedimenti normativi contenuti nella presente legge e nei decreti legislativi da essa previsti sono estesi ai successivi provvedimenti di modificazione ». Ora, il richiamo alla « presente legge » non crea problemi interpretativi di sorta: « il legislatore si è cautelato [...] contro eventuali ‘‘sviste’’ ovvero modificazioni intervenute ‘‘in corso d’opera’’ » (139). Diverso discorso vale per il riferimento ai « decreti legislativi da essa previsti ». Deve preferibilmente essere fugata l’impressione che la locuzione tradisca una sorta di delirio di onnipotenza, in preda al quale cioè il legisla(136) Peraltro, è stata messa ancora di recente in rilievo l’impraticabilità di quegli indirizzi che propugnano il recupero dell’ideale illuministico del diritto penale, evidenziando il rischio di un ritorno a quello che Lüderssen ha definito un « diritto di classe » (LÜDERSSEN, Zurück zum guten alten, liberalen, anständigen Kernstrafrecht?, in Festschrift Jäger, 1993, p. 268, citato da G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Diritto penale « minimo » e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 816). Che inoltre il diritto penale « classico » (incentrato sulla tutela di beni giuridici tradizionali) non esistesse neanche in passato (almeno a partire dalla fine degli anni venti dello scorso secolo) era già stato evidenziato da G. FIANDACA-E. MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., p. 28. Ormai tradizionale il rinvio, su queste tematiche, anche a C.E. PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1220 ss. (137) Quanto alla letteratura italiana sul punto, si rinvia ai contributi di M. ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, in Jus, 1985, p. 413 ss.; C.E. PALIERO, Consenso e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p. 849 ss.; E. MUSCO, Consenso e legislazione penale, in questa Rivista, 1993, p. 80 ss. (138) Cfr. l’importante sentenza Corte cost., 24 ottobre 1996, in Giur. cost., 1996, p. 3147 ss., con note di F. SORRENTINO, La reiterazione dei decreti legge davanti alla Corte costituzionale, e di S.M. CICCONETTI, La sent. n. 360 del 1996 della Corte costituzionale e la fine della reiterazione dei decreti legge: tanto tuonò che piovve. (139) G. FUMU, Commento articolo per articolo, cit., p. 30.
— 1446 — tore ordinario ambirebbe addirittura ad identificarsi con un ipotetico costituente, l’unico cui la gerarchia delle fonti consente di inamidare le scelte anche per l’avvenire, sottraendole al gioco della lex posterior. Residua allora un’unica interpretazione plausibile: quella in base alla quale il legislatore delegato sarebbe stato ammesso ad incidere su provvedimenti normativi emanati anche dopo la legge delega e nelle more dell’emanazione dei decreti legislativi, ovviamente purché rientranti nelle materie già specificamente individuate (140). Ma se l’intento di assicurare rilievo alle modifiche intervenute nel lasso di tempo necessariamente intercorrente tra l’approvazione della legge delega e la sua attuazione (141) fuga l’inquietante sospetto che il legislatore della l. n. 205 si sia atteggiato a Costituente, esso lancia nondimeno un preoccupante segnale d’allarme. La disposizione tradirebbe comunque l’incapacità del legislatore di dominare le proprie scelte normative, anche per il tempo minimo che intercorre tra l’approvazione di una legge delega e l’emanazione dei relativi decreti di attuazione (142). Anche in questo caso, sarebbe dunque troppo ottimistico interpretare la consapevolezza che il sistema ha mostrato della propria schizofrenia come un primo passo verso la guarigione. 14. Tirando le fila del discorso, la l. 25 giugno 1999, n. 205, con l’esclusione della parte concernente gli assegni (dove la depenalizzazione è a tappeto) nonché delle materie tributaria e della circolazione stradale (dove è comunque consistente), non pare destinata a produrre effetti pratici di grandissimo rilievo sotto il profilo della deflazione del carico giudiziario. Essa — lo si è già detto — ha operato una selezione dei settori in modo quasi casuale, ma lì dove è intervenuta, ha spesso sostituito alla vecchia arma spuntata del diritto penale strumenti di tutela astrattamente dotati di maggiore efficacia. Che il modello del diritto penale liberale sia da tempo in crisi, anche nella sua veste ideale, è un dato noto (143). L’abuso dello strumento penale si è rivelato causa di una paradossale rincorsa tra un progressivo, costante innalzamento degli editti sanzionatori, ed il potenziamento, sul ver(140) Questa, la lettura proposta — sebbene in termini possibilisti — dalla Relazione di accompagnamento al decreto legislativo, ed accolta nel parere della Commissione Giustizia del Senato (15 dicembre 1999). In base ad essa, l’elenco delle leggi contenenti reati depenalizzati in materia di alimenti fu integrato con il d.lgs. 4 agosto 1999, 336 (recante attuazione delle direttive 96/22/CE e 96/23/CE), emanato in data successiva all’entrata in vigore della l. n. 205, e tuttavia incidente su una specifica disciplina (d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 119), essa pacificamente oggetto di depenalizzazione. (141) Relazione, cit. (142) Non convince la spiegazione che si rinviene nella citata relazione governativa, secondo cui l’art. 20 potrebbe aver voluto scontare il rischio di un mancato esercizio della delega. (143) Su questi temi, per tutti, C.E. PALIERO, L’autunno del patriarca, cit.
— 1447 — sante procedimentale, di strumenti deflattivi che cercano di assicurare la sopravvivenza del sistema (144). Il classico cane che si morde la coda. Un ulteriore, perverso, effetto del crescente ricorso al diritto penale è, come si è detto (145), il progressivo snaturamento della stessa essenza della pena: un tempo distinguibile dalle altre sanzioni per la sua incidenza diretta o indiretta sulla libertà personale; oggi di fatto sostituita dall’esecuzione extra-carceraria; un domani probabilmente soppiantata già in linea astratta (di previsione edittale) da forme di esecuzione non detentiva, applicabili immediatamente dal giudice di cognizione. In tal senso spinge il trend legislativo (146); altri segnali, per quanto equivoci, sono stati rinvenuti anche nel corso della disamina della normativa in oggetto, come si è visto, in relazione all’art. 10. Sul piano pratico, la metamorfosi vorrebbe supplire al sovraffollamento delle carceri; sul piano teorico (delle funzioni della pena), millanta una maggiore rispondenza all’art. 27 Cost. e, se non proprio al finalismo rieducativo della pena, quanto meno alla sua funzione non desocializzante. Né può escludersi che, sotto l’aspetto della funzione retributiva e preventiva speciale, il suo minor rigore rappresenti il contrappeso (inconsapevole?) della crescente formalizzazione del precetto, quasi a volerne controbilanciare la difficile conoscibilità (147). Dal canto dell’illecito amministrativo, viceversa, si va progressivamente allontanando il timore che la sua espansione si traduca tout court in una bagatellizzazione della tutela (148). In merito occorre, tuttavia, precisare. L’illecito amministrativo ha ormai una fisionomia tradizionale, scol(144)
Si pensi all’effetto destabilizzante dei riti alternativi (sul punto già G. FIAN-
DACA-E. MUSCO, Perdita di legittimazione, cit., p. 33 s.), alla sospensione condizionale, alle
alterne fortune della norma sulla « esiguità penale del fatto » nel disegni di legge sul rito monocratico, oggi positivamente importata nel decreto legislativo sulle competenze penali del giudice di pace (d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in G.U. serie generale 6 ottobre 2000), oltre che alla previsione dei criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti penali di cui all’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998, sul giudice unico. (145) V. retro, § 8. (146) Si pensi alla legge delega sulle competenze penali del giudice di pace, per la parte in cui prevede un ripensamento dalle fondamenta dell’apparato sanzionatorio dei reati rimessi alla conoscenza di questo magistrato onorario (art. 16 l. 24 novembre 1999, cit.). (147) In senso identico ma speculare, è stato d’altronde osservato che « il diritto punitivo [...] ha conosciuto con l’umanizzazione delle pene anche un corrispondente attenuarsi della sua serietà: esso non rispecchia più le logiche di specialissima selettività proprie di uno ius singulare [...]. E tuttavia l’immaginario penalistico dei principi continua a reggersi indistintamente su una loro massimizzazione argomentata sul presupposto che ogni incriminazione minacci realmente la realtà ». M. DONINI, voce Teoria del reato, in Dig. disc. pen., 1998, 234; in senso analogo, ID. in Teoria del reato, Padova, 1996, p. 240 s. (148) Contra, G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Diritto penale « minimo », cit., p. 815, almeno con riferimento all’uso del diritto sanzionatorio amministrativo nei confronti della criminalità dei « colletti bianchi ».
— 1448 — pita dalla l. n. 689 del 1981, che ha costruito un archetipo normativo ‘‘para-penale’’, in virtù delle marcate somiglianze della sua ‘‘parte generale’’ con quella del codice penale (149) (le somiglianze si sono oggi accentuate, a seguito dell’introduzione, ad opera del decreto legislativo n. 507, della reiterazione, che evoca gli istituti penali fondati sulla pericolosità sociale del reo). Questo paradigma è stato pensato per reprimere singoli comportamenti, di facile accertamento, prevalentemente consistenti nella mera violazione di obblighi; esaurendo il suo arsenale sanzionatorio nell’ambito pecuniario, si dimostra peraltro (sufficientemente garantito, ma) poco efficace nella strategia di contrasto di fenomeni caratterizzati da una valenza lato sensu economica. Il modello punitivo amministrativo ha però poi mostrato una seconda anima già in altre occasioni (150), quando il legislatore vi ha fatto ricorso al fine di realizzare il « controllo di intere sfere di attività », modulandolo « su realtà economiche complesse » (151). A questa species devono ascriversi alcuni significativi interventi operati con la presente legge di depenalizzazione. Prescindendo allora dal momento procedimentale delle indagini, di fatto inesistente nel modello amministrativo, quest’ultimo (nella sua versione d’avanguardia) e quello penale tendono ad assomigliarsi sempre di più, sia sotto il profilo del precetto (frequentemente descritto in termini di mera disobbedienza anche nel penale), sia sotto il profilo della sanzione, considerata la sempre maggiore diffusione di sanzioni amministrative accessorie di tipo interdittivo, e quindi la crescente afflittività di tale risposta (152). Ma è prevedibile che le due punte tenderanno presto a convergere anche sul versante delle carenze del sistema. Per quanto scontato, si impone infatti il rilievo che il funzionamento del meccanismo penale-amministrativo è subordinato all’efficienza ed all’imparzialità della pubblica amministrazione preposta alla sua contestazione. L’ipertrofia dell’illecito amministrativo porrà poi problemi di carico al momento del giudizio di opposi(149) Così, C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta, cit., p. 1038. Sul punto, inoltre, C.E. PALIERO-A. TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 133 ss.; F. SGUBBI, Depenalizzazione, cit., p. 265, il quale precisava che il legislatore del 1981 « ha imitato il modello penale in modo eccessivo e talvolta incongruo » (ibidem), dal momento che « non tiene conto della profonda diversità che intercorre — sul piano tecnico e politico, per il tipo di sanzione e per tipo di funzione — fra l’illecito penale e l’illecito punito con sanzione amministrativa (p. 267). (150) V. retro, nota 20. (151) Ancora C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta, cit., p. 1039. (152) Si è già sottolineato, inoltre, come, sul piano dell’effettività, la sanzione amministrativa sia astrattamente idonea a sortire un notevole effetto di deterrenza, in virtù dell’inesistenza di istituti sospensivi.
— 1449 — zione di fronte al giudice competente. Dal punto di vista dei principi, soprattutto, la contropartita della maggiore duttilità e versatilità dell’illecito amministrativo è rappresentata da una più tenue copertura costituzionale (sotto il profilo della conoscibilità del precetto e della personalità dell’illecito), per un verso, e dalla diminuzione delle garanzie giurisdizionali, per altro (ma collegato) aspetto. Cosicché, al di là delle apparenze, un potenziamento indifferenziato dell’illecito amministrativo (vieppiù nella sua nuova veste sanzionatoria) finirebbe con il produrre un indesiderato affievolimento delle garanzie del cittadino (153). Le considerazioni fin qui svolte sembrerebbero dimostrare che il modello fin qui accolto di illecito amministrativo è già oggi sottoposto alla sua massima tensione sistematica ed interpretativa, per cui lo sforzo di innestare anche la nuova forma di tale illecito sul tronco, per quanto flessibile, della l. n. 689 corre il rischio di spezzarlo. Piuttosto, nel commento ai singoli principi di delega, ci si è sforzati di evidenziare i caratteri di novità impressi dal provvedimento alla tipologia sanzionatoria amministrativa, e quanto essi spingano verso l’assimilazione (sotto alcuni profili) con il paradigma penale. In conclusione, ci si potrebbe chiedere, problematicamente, se nel grembo della legge di depenalizzazione non si sia annidato il seme di un diritto sanzionatorio (154), con caratteristiche tutte « italiane ». In questa prospettiva, potrebbe non essere azzardato interpretare alcune scelte come espressione di una (forse inconsapevole) tendenza di fondo: una tendenza che, anziché propugnare antistoricamente una concezione utopistica dell’extrema ratio penalistica, prende le mosse dall’irrinunciabilità della tutela degli interessi sovraindividuali e sperimenta, nel contempo, possibili vie per la nascita di un modello ermafrodito cui affidarne la protezione. OMBRETTA DI GIOVINE L.U.I.S.S. Guido Carli
(153) In tal senso, tra gli altri, E. DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa, cit., p. 594 ss.; F. PALAZZO, I criteri di riparto, cit., p. 54. (154) Da intendere come la risultante di « una progressiva omogeneizzazione fra diritto penale e diritto sanzionatorio amministrativo » (così, C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1046). In una prospettiva parzialmente diversa, la nuova entità concettuale dovrebbe essere corredata di garanzie minori rispetto a quelle che circondano l’illecito penale, atteso che la sua griglia non disporrebbe di sanzioni detentive o paradetentive (cfr., in argomento, W. HASSEMER, Neue Kriminalität - neues Strafrechts? Zur Modernisierung des Strafrechts, relazione presentata al Convegno su La modernizzazione del diritto penale. Pavia, 31 ottobre 1992, dattiloscritto, p. 3; K. LÜDERSSEN, Zurück zum guten, alten, cit., p. 268 ss.). Tali garanzie sarebbero purtuttavia da articolare e calibrare — con una duttilità sconosciuta al diritto penale — sulla nuova tipologia sanzionatoria e quindi, in ultima analisi, sulle esigenze cui il nuovo illecito dovrà far fronte.
DEPENALIZZAZIONE E RIFORMA DEL SISTEMA SANZIONATORIO NELLA MATERIA DEGLI ALIMENTI
SOMMARIO: 1. Le caratteristiche del diritto punitivo alimentare. — 2. La tutela apprestata nel codice penale e nella legislazione speciale. — 3. La tecnica di degradazione degli illeciti utilizzata nel d.lgs. n. 507/1999. — 4. Le sanzioni amministrative pecuniarie. — 5. Le sanzioni amministrative accessorie. — 6. Le autorità competenti ad irrogare le sanzioni amministrative. — 7. Gli interventi di riforma sul versante penalistico. — 8. La nuova sanzione amministrativa dell’affissione del provvedimento. — 9. Chiaroscuri della depenalizzazione: premessa. — 10. L’impatto della depenalizzazione tra realtà e dichiarazioni d’intenti. — 11. La (dubbia) efficacia del nuovo sistema sanzionatorio. — 12. Diritto punitivo alimentare e centri di imputazione della responsabilità: un nodo irrisolto. — 13. Conclusioni.
1. La materia della produzione, commercializzazione e igiene degli alimenti, nonché della tutela della denominazione di origine degli stessi costituisce uno dei settori privilegiati dell’intervento di depenalizzazione attuato con il d.lgs. n. 507/1999: il provvedimento, infatti, non ha riguardato soltanto la ‘‘degradazione’’ degli illeciti penali ma ha puntato a ridisegnare l’architettura sanzionatoria, con l’intento di razionalizzare una materia afflitta — come si sa — da una stratificazione normativa senza precedenti. Prima di illustrare i contenuti del decreto legislativo (attuativo dei criteri di cui all’art. 3 della legge-delega n. 205/1999), è perciò opportuno premettere alcune considerazioni sulle caratteristiche del diritto punitivo alimentare (1), essenziali per comprendere appieno le scelte effettuate dal Governo. Tre sono gli aspetti principali da evidenziare. In primo luogo il carattere ‘‘alluvionale’’ delle normativa alimentare, derivante da un’accentuata frammentazione delle fonti e dalla ‘‘comunita(1) Per un’accurata disamina del sistema degli illeciti nella materia alimentare, cfr., tra gli altri, PACILEO, Reati alimentari, Milano, 1995; BERNARDI, La disciplina sanzionatoria italiana in materia alimentare, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1994, p. 31 ss.; CORRERA, Tutela igienico-sanitaria degli alimenti e bevande, Milano, 1991; ID., La difesa del consumatore dalle frodi in commercio, Milano, 1987; GROSSO, Diritto penale e tutela della salute, in AA.VV., Materiali per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, p. 98 ss.
— 1451 — rizzazione’’ della materia (2). La legislazione speciale ha assunto, in questo campo, dimensioni spropositate che rendono problematica sia la perlustrazione topografica delle norme (talvolta disperse in testi legislativi non immediatamente rivolti alla tutela degli alimenti), sia una ricognizione attendibile delle stesse disposizioni in vigore (3). In altre parole, la marea di leggi che intasa il settore ha finito per disorientare non solo i destinatari dei precetti ma anche i soggetti preposti al ‘‘governo’’ amministrativo e giurisdizionale del sistema. Il senso di smarrimento che coglie chiunque si accosti a questo campo di materia deriva dal fatto che non esiste soltanto una pluralità di leggi speciali — applicabili, in linea di principio, a tutti gli alimenti — ma anche una sterminata produzione di leggi ‘‘specifiche’’, che si proiettano verso determinati settori merceologici o verso la disciplina di una ‘‘fase’’ del complesso processo che termina con la messa in commercio degli alimenti: emblematica, in proposito, l’intricatissima e spesso ripetitiva normativa sanzionatoria in materia di etichettatura e pubblicità dei prodotti, che ha raggiunto dimensioni praticamente ‘‘indominabili’’ (4). Il descritto, abnorme processo di proliferazione normativa è, in buona parte, da imputare alla citata ‘‘comunitarizzazione’’ delle fonti: il rapido incedere di direttive comunitarie ha messo a dura prova i legislatori nazionali, costretti ad adeguarsi in tempi brevi ai dettami comunitari in un settore nevralgico capace di incidere sui meccanismi del mercato e della concorrenza. Tanto è pressante questa esigenza di omogeneizzazione legislativa, che nel nostro paese è ormai invalsa la prassi di ricorrere a ciclopiche leggi comunitarie con le quali il Governo viene delegato a dare attuazione alle direttive europee. Sennonché, queste leggi scontano gravissimi limiti di tecnica legislativa: assemblando una congerie di materie affatto diverse, la scelta dei presidi sanzionatori viene effettuata con criteri di delega di sconcertante genericità, in cui il discrimine tra la tutela penale e quella amministrativa viene incentrato sulla dimensione ‘‘generale’’ ‘‘o non’’ degli interessi pubblici coinvolti (5). Si sono così innescati meccanismi di produzione legislativa e di pendolarismo sanzionatorio non più (2) Sull’argomento v. la documentata ricostruzione di BERNARDI, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 32 ss. (3) In proposito, cfr. VERARDI, Depenalizzazione e ripenalizzazione in materia alimentare (riflessioni sulle prospettive di modifica della l. n. 283/1962), in Sanità pubblica, 1992, p. 357 ss. (4) Lo sottolinea BERNARDI, La disciplina penale della produzione agricola e del mercato agro-alimentare, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, a cura di Costato, Padova, p. 760 ss. Sugli effetti della legislazione ‘‘specifica’’, v. le recenti considerazioni di LUPO, Un sistema di temibili sanzioni accessorie per prevenire le frodi alimentari, in Diritto e giustizia, 2000, n. 8, p. 81. (5) Particolarmente critico sulla struttura delle leggi comunitarie, specie sul versante dei problematici rapporti con il principio della riserva di legge in materia penale: DOLCINI,
— 1452 — controllabili, che si riproducono di getto con una dinamica che sfugge a qualsiasi pretesa di ordinamento sistematico. Il secondo aspetto di rilievo è strettamente collegato al descritto fenomeno di ‘‘alluvione normativa’’. Il diritto punitivo (penale e amministrativo) alimentare presenta un consistente numero di ‘‘doppioni’’, cioè di norme di contenuto analogo, che fomenta il fenomeno della ‘‘convergenza di norme’’, variamente risolto dalla giurisprudenza tramite il principio di specialità oppure alla stregua del concorso formale di reati (cioè con istituti contrassegnati da ben note discrepanze applicative) (6). L’esito che si profila è davvero preoccupante, ma tutto sommato prevedibile: il numero esorbitante delle leggi ha alimentato processi di stratificazione che rendono insondabile e spesso oscura la prassi applicativa, chiamata a cimentarsi nella difficile cucitura di responsi, in cui solo il ‘‘fatto’’ si conosce con certezza, mentre ‘‘il diritto’’ è rimesso alla buona volontà e, più spesso, all’intuito del giudice. Il quadro tratteggiato è destinato ad aggravarsi anche per la presenza di un ulteriore fenomeno distorsivo, da rinvenire nelle tecniche di formulazione degli illeciti utilizzate dal legislatore. L’ipertrofia normativa ha infatti implementato il ricorso alle clausole sanzionatorie, che rinviano a disposizioni extrapenali (7). Il fenomeno non è nuovo nella legislazione speciale, ma nella materia degli alimenti, in cui la produzione legislativa è fuori controllo, favorisce disfunzioni particolarmente preoccupanti. Per un verso, infatti, le clausole finiscono per conferire rilevanza penale a interi corpi extrapenali che, non di rado, denotano una genericità descrittiva che mal si coniuga con le esigenze di determinatezza del precetto penale; per altro verso, poi, accade che il rinvio avvenga ‘‘a distanza’’: vale a dire coinvolga disposizioni sparse in testi normativi diversi da quello in cui è collocata la clausola sanzionatoria, così da provocare difficoltà di reperimento che accrescono il disorientamento dell’interprete e del destinatario del precetto (8). Una non secondaria causa di incertezza è inoltre da rinvenire nell’inserimento all’interno delle fattispecie punitive di termini particolarmente evocativi, ma che si sono rivelati piuttosto malfermi nella loro latitudine operativa. Si pensi ai concetti di ‘‘nocività’’, di ‘‘sofisticazione’’ e, sopratPrincipi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in questa Rivista, 1999, pp. 14-15. (6) La proliferazione di ‘‘doppioni normativi’’ è denunciata con grande chiarezza da BERNARDI, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 32. Sul tema della convergenza di norme nel diritto penale, v., per tutti, MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966; FROSALI, Concorso di norme e concorso di reati, Milano, 1971; G.A. DE FRANCESCO, Lex specialis. Specialità e interferenza nel concorso di norme penali, Milano, 1980. (7) Il fenomeno è minuziosamente illustrato da BERNARDI, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 51. (8) Sul punto, cfr., ancora, BERNARDI, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 52.
— 1453 — tutto, di ‘‘frode tossica’’: capita spesso che la giurisprudenza ne fornisca significati contraddittori, che « finiscono inevitabilmente per compromettere la chiarezza e la precisione delle norme nelle quali tali espressioni vengono utilizzate » (9). 2. Nel contesto di questa ipertrofia, in cui la tutela della salute pubblica o della genuinità dei prodotti si distende in una pletora di disposizioni normative disperse nella legislazione ‘‘accessoria’’, è comunque possibile provare a ricostruire le linee del sistema, individuando alcune norme a cui assegnare una essenziale funzione di riferimento sistematico e politico-criminale (10). Si allude, innanzitutto, alle norme del codice penale, segnatamente alle disposizioni di cui agli artt. 439, 440, 442 e 444, la cui applicazione è peraltro circoscritta perché ricomprendono condotte che determinano un pericolo per la salute pubblica; accanto a queste, vi sono poi, nel codice penale, le norme di cui agli artt. 515, 516 e 517 che tutelano la genuinità degli alimenti e la buona fede dei consumatori. Nella legislazione speciale, il testo più importante (che possiede un ruolo-chiave) è tuttora la l. 30 aprile 1962, n. 283, che punisce violazioni in massima parte legate alle diverse fasi della produzione, detenzione, commercializzazione, vendita e somministrazione degli alimenti. A differenza delle norme del codice penale, le disposizioni di questa legge sanzionano violazioni concernenti la genuinità, integrità e purezza dei prodotti, che, tuttavia, non costituiscono, di per sé, una fonte di pericolo per una cerchia potenzialmente illimitata di soggetti. Come si vede, i due corpi normativi in questione disegnano una linea di tutela progressiva e complementare, in cui le norme della legge speciale proiettano la tutela sul piano ‘‘antistante’’ del pericolo astratto, mentre le norme del codice penale richiedono l’accertamento del pericolo concreto. Sul versante della prassi sanzionatoria, i dati statistici (da maneggiare con cautela) (11) mostrano un ragguardevole incremento delle sentenze di condanna a partire dal 1991, accompagnato da una sostanziale mitezza (9) Così, BERNARDI, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 51. Sui problemi interpretativi legati all’impiego dell’espressione ‘‘frode’’ in ambito alimentare, v. BRICOLA, Tipologia delle frodi nella normativa penale sugli alimenti, in Problemi penali in tema di frodi alimentari, Milano, 1971, p. 99 ss. (10) In proposito, si rimanda alle ricostruzioni di BERNARDI, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 37 ss.; e GROSSO, Diritto penale e tutela della salute, cit., p. 100 ss. (11) Si tratta di dati ricavabili dagli elenchi delle condanne definitive per reati concernenti frodi e sofisticazioni alimentari, la cui pubblicazione è stata imposta dall’art. 8 della l. n. 462/1986, emanata dopo lo scandalo del vino al metanolo. I dati vanno maneggiati con cautela perché molto spesso vengono effettuati inserimenti ‘‘abusivi’’ o quanto meno dubbi nell’elenco: queste distorsioni sono in parte da addebitare alle stesse incertezze interpretative esistenti in ordine al significato da attribuire alle espressioni ‘‘frode’’ e ‘‘sofisticazione’’. Cen-
— 1454 — delle pene irrogate. Spicca la preponderanza delle pene pecuniarie, irrogate per importi in prossimità del minimo; le pene detentive, poco applicate, risultano quasi sempre sospese. Di fatto inesistenti le pene accessorie, vuoi perché vanificate dalla sospensione della pena, vuoi per l’operare del meccanismo di giustizia negoziata del patteggiamento che — come è noto — non comporta l’applicazione delle pene accessorie. Il sistema penale, per tutte le ragioni anzidette, non sembra quindi aver dato gran prova di sé: la fitta rete di disposizioni e una prassi applicativa frequentemente disomogenea e incline a mitigare la risposta sanzionatoria non hanno certo favorito una soddisfacente ed adeguata risposta sul terreno della prevenzione e della repressione. La legge-delega 25 giugno 1999, n. 205, si è mossa, dunque, su un terreno denso di contraddizioni e — conviene anticiparlo subito — non è riuscita a dipanarle tutte: anzi, sembra tradire una certa dose di superficialità, probabilmente indotta dall’incapacità di dominare a sufficienza (e per quanto possibile) i fili di un sistema sfuggente e nebuloso. L’impianto della delega ha ovviamente condizionato le scelte del delegato che, peraltro, nei limiti della discrezionalità assegnatagli, ha comunque partorito un testo di buona fattura, arricchito di qualche opportuno intervento di razionalizzazione. Vediamo, dunque, dapprima come si è articolato l’intervento sul versante della depenalizzazione e su quello della riforma dell’apparato sanzionatorio, per poi valutarne criticamente l’impatto sulla funzionalità del sistema. 3. La legge-delega, preso atto dell’impossibilità di padroneggiare una materia di dimensioni smisurate, ha adottato un criterio di depenalizzazione quanto mai vantaggioso: anziché individuare le singole norme da trasformare in altrettanti illeciti amministrativi, ha indicato quelle che debbono mantenere natura di illecito penale (per ciò che concerne la legislazione speciale, ha escluso dall’area della depenalizzazione gli artt. 5, 6 e, sia pure in parte, 12 della l. n. 283/1962), relegando tutte le altre, disseminate nei vari corpi normativi, alla sfera della tutela amministrativa. Dinanzi a un simile criterio di delega, vi erano due possibili strategie di intervento: una prima era rappresentata da una depenalizzazione di tipo ‘‘singolare’’, da realizzare, cioè, con interventi ‘‘puntuali’’ aventi ad oggetto ciascuna norma investita dalla depenalizzazione (calandosi, così, nel vortice della legislazione speciale); la seconda consisteva, invece, in una tecnica di depenalizzazione ‘‘generale’’, da attuare enumerando le leggi da depenalizzare e ritagliando i criteri di sostituzione delle sanzioni secondo parametri proiettati a fotografare, per linee generali ed astratte, la diversa gravità degli illeciti depenalizzati. sura queste ‘‘abusive presenze’’, CORRERA, Frodi alimentari: analisi critica degli elenchi di sentenze irrevocabili del 1991-1992, in Dir. giur. agr. amb., 1994, p. 77.
— 1455 — Il Governo ha prescelto quest’ultima tecnica essenzialmente per due ragioni. In primo luogo, perché, a ben vedere, è parsa aderente a quella utilizzata dal delegante che — come si è visto — ha rinunciato ad incamminarsi sullo scivoloso sentiero di un’elencazione puntuale degli illeciti da depenalizzare. In secondo luogo, perché la depenalizzazione per vie ‘‘generali’’ si sarebbe risolta in un intervento più agile e snello, assai meno esposto al rischio della ‘‘lacuna’’, costantemente in agguato in una materia segnata da una miriade di leggi. L’art. 1 del d.lgs. n. 507/1999 stabilisce così che sono trasformati in illeciti amministrativi tutte le disposizioni penali contenute nelle leggi indicate in un elenco allegato al decreto. Vedremo tra breve quali sono stati i criteri che ne hanno ispirato la formazione. Preme, invece, evidenziare che il ricorso all’elencazione dei corpi normativi interessati dalla depenalizzazione non avrebbe comunque posto al riparo da possibili lacune: vi possono essere infatti fattispecie punitive ‘‘nascoste’’ nelle pieghe di corpi normativi estranei alla materia alimentare. Senza trascurare il pericolo di omettere il riferimento a leggi da taluno ritenute « superate » da successive riforme e che, invece, secondo altri, devono reputarsi tuttora in vigore (12). Di qui la scelta di configurare l’art. 1 anche alla stregua di una disposizione ‘‘di chiusura’’, prevedendo che la depenalizzazione copra comunque anche quegli illeciti, non inclusi nell’elenco, che tuttavia riguardano la materia degli alimenti e delle bevande (ad eccezione, ovviamente, delle norme del codice penale). Prevedibili le obbiezioni: trattandosi di una disposizione destinata a discriminare l’area dei fatti penalmente rilevanti, così come concepita potrebbe esporsi a rischi di incostituzionalità per contrasto con il principio di legalità e di tassatività che conforma la materia penale. Una norma siffatta lascerebbe, infatti, al giudice il compito di selezionare ‘‘in concreto’’ le violazioni da assoggettare a pena o, viceversa, da degradare al rango di illecito amministrativo, con gravi ripercussioni per la certezza del diritto. Occorre, tuttavia, ricordare che analoghe tecniche sono state sperimentate dal legislatore (senza incidenti di rilievo costituzionale) con la legge di depenalizzazione n. 689 del 1981. Si pensi all’art. 39, in materia di violazioni finanziarie, in cui la depenalizzazione è stata effettuata con rinvio al ‘‘campo di materia’’. È chiaro, peraltro, che questa preoccupazione, esibita nella relazione esplicativa del decreto, è stata ritenuta meno preoccupante di quella che si sarebbe profilata senza il ricorso alla citata disposizione di chiusura. Ove eliminata questa ‘‘valvola di sicurezza’’, in omaggio alle descritte esigenze (12) 357 ss.
Su questo aspetto, cfr. VERARDI, Depenalizzazione e ripenalizzazione, cit., p.
— 1456 — di stretta ortodossia costituzionale, la norma dell’art. 1 avrebbe comunque corso il rischio di censure di illegittimità costituzionale per « difetto » di delega, derivante, cioè, dall’eventuale omessa inclusione nell’elenco di violazioni penali di natura alimentare. Quanto all’elenco delle leggi depenalizzate, è da condividere la decisione di ricomprendervi non solo le leggi immediatamente correlabili alla tutela degli alimenti ma anche quelle che ineriscono a sostanze o materiali destinati a confluire o influire sugli alimenti. In altre parole, sono state inserite tutte le disposizioni che comunque attengono al ciclo produttivo alimentare: si pensi alle leggi in materia di antiparassitari e di fitofarmaci, che riguardano prodotti utilizzati in agricoltura e, dunque, destinati all’alimentazione; oppure alle norme in materia di mangimi o di medicinali veterinari: esse hanno a che vedere con l’alimentazione o la cura degli animali vivi e sono finalizzate ad evitare la presenza di residui indesiderati nei prodotti che ne derivano. Per contro, sono state giustamente escluse dalla depenalizzazione norme e leggi che tutelano un interesse diverso da quello delineato nell’art. 3 della legge-delega: ciò ha riguardato le norme relative alla disciplina fiscale di alcuni prodotti alimentari. La legge-delega escludeva poi esplicitamente dalla depenalizzazione le norme di cui agli artt. 5, 6 e (sia pure parzialmente) 12 della l. n. 283/1962. Si tratta di norme (in specie gli artt. 5 e 6) che tutelano immediatamente la genuinità, l’integrità e la purezza degli alimenti, e, mediatamente, la salute dei consumatori. Questa scelta è densa di rilevanti implicazioni, che derivano dalla convergenza di argomenti sistematici e politico-criminali. In primo luogo, va rimarcato che l’esclusione delle citate norme (che ricadono nella principale legge speciale alimentare) dalla depenalizzazione è provvista di valore strategico. In altre parole, vi si intravede la volontà di rendere immuni dalla degradazione ad illecito amministrativo le fattispecie poste a tutela di beni giuridici ricollegabili alla salute (per il medio della tutela apprestata alla genuinità e purezza degli alimenti), che fungono così da irrinunciabile avamposto della tutela penale. A questo fine, la delega sancisce la prevalenza degli illeciti penali in questione ‘‘anche in deroga al principio di specialità di cui all’art. 9 della l. 24 novembre 1981, n. 689’’. Come è noto, l’art. 9, comma 1, della l. n. 689/1981 stabilisce che, nel caso di convergenza di norme penali e norme sanzionatorie amministrative sopra il medesimo fatto, si applichi la sola norma speciale (13). (13) La norma del’art. 9, comma 1, della l. n. 689/1981 apre il campo ad una depenalizzazione mediata, rimessa, cioè, all’attività del giudice: critici verso questa soluzione legislativa: PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, p. 101
— 1457 — Peraltro, il principio di specialità, che regola il concorso apparente di illeciti penali e amministrativi, subiva una significativa deroga nel comma 3 dello stesso art. 9, dove si riconosceva la prevalenza delle norme di cui agli artt. 5, 6, 9 e 13 della l. n. 283/1962, quando i fatti ivi puniti concorrevano ‘‘apparentemente’’ con disposizioni sanzionatorie amministrative che avevano sostituito disposizioni penali speciali. In altre parole — seguendo l’interpretazione più diffusa — il comma 3 dell’art. 9 faceva salva l’operatività delle norme penali contenute nella l. n. 283/1962 quando si trovavano a concorrere con illeciti depenalizzati, ai sensi della l. n. 689/1981 o di precedenti provvedimenti di depenalizzazione, che riguardavano la stessa materia. La deroga al comma 1 dell’art. 9 operava, dunque, ‘‘a ritroso’’, solo in relazione agli illeciti già depenalizzati per effetto della citata l. n. 689. La necessità di salvaguardare l’effettività delle disposizioni di cui agli artt. 5, 6 e 12 della l. n. 283/1962, imposta dal delegante, rendeva pertanto necessario affermare la prevalenza di tali disposizioni penali nei confronti di tutti gli illeciti amministrativi, siano essi ‘‘originari’’ o frutto di ‘‘depenalizzazione’’. Solo in questo modo era possibile sottrarre norme poste a tutela di beni giuridici di indubbio rilievo, quali la genuinità dei prodotti e, in definitiva, la salute, al riparo dalla tagliola del principio di specialità di cui al comma 1 dell’art. 9. Di conseguenza, l’art. 9, comma 3, della l. n. 689/1981 è stato interamente sostituito, ad opera dell’art. 95 del decreto legislativo (nell’ambito del titolo VII che ricomprende tutte le modificazioni alla l. n. 689/1981), così da elevarsi a disposizione strategica che sancisce, in modo inequivoco, la supremazia delle norme escluse dalla depenalizzazione nei confronti degli illeciti amministrativi « speciali », a prescindere dalla circostanza che risultino sostitutivi di violazioni in origine penali. Va segnalato che, a stretto rigore, la necessità di evitare irragionevoli discontinuità nella tutela penale avrebbe suggerito di coordinare l’impianto normativo, includendo nel comma 3 dell’art. 9 anche l’espresso rinvio alle norme degli artt. 439, 440, 442 e 444 del codice penale, che possono entrare sovente in ‘‘conflitto’’ con le norme della l. n. 283/1962 o con altre disposizioni sanzionatorie amministrative ‘‘speciali’’. Se il legislatore delegante ha inteso salvaguardare l’efficacia delle norme penali della l. n. 283/1962, a fortiori questo obbiettivo si sarebbe dovuto ritenere irrinunciabile per le più gravi fattispecie codicistiche che tutelano la salute pubblica dinanzi a condotte di pericolo ‘‘concreto’’. Questa preoccupazione era stata fatta propria dal Governo, tanto che nello schema di ss.; si consenta altresì di rinviare a PIERGALLINI, Il concorso di norme penali e norme sanzionatorie amministrative al banco di prova della Corte costituzionale: chiaroscuri di una decisione importante, in questa Rivista, 1989, p. 783 ss.
— 1458 — decreto legislativo trasmesso alle Camere per il parere, i reati del codice penale erano stati inclusi nel catalogo di cui al comma 3 dell’art. 9. Nel testo infine emanato, il riferimento è tuttavia scomparso, in forza del contrario parere manifestato dal Parlamento, fondato sia su una mancata copertura della delega, sia — e pare questo l’argomento dirimente — sul rilievo della superfluità dell’inclusione, atteso che le fattispecie codicistiche, contemplando tra i loro elementi costitutivi il pericolo concreto, sarebbero comunque destinate a prevalere sugli illeciti amministrativi. Il rilievo mosso dalle Camere appare sostanzialmente condivisibile: gli illeciti amministrativi dispersi nella legislazione speciale si atteggiano in massima parte alla stregua di illeciti formali, così da non poter in alcun caso prevalere sulle norme del codice penale ratione specialitatis. Se poi apprestano tutela alla genuinità o alla purezza dei prodotti alimentari, in guisa di fattispecie di pericolo astratto, risulteranno il più delle volte soppiantate, per effetto del nuovo comma 3 dell’art. 9 della l. n. 689/1981, dalle disposizioni di cui agli artt. 5 e 6 della l. n. 283/1962. Disposizioni quest’ultime, conviene ricordarlo, destinate a cedere il passo quando concorrono con un fatto che costituisce più grave reato (come avviene quando a convergere sono le fattispecie del codice penale) (14). 4. La scelta di privilegiare una depenalizzazione di tipo « generale » non poteva non ripercuotersi sulla fisionomia della sanzione amministrativa pecuniaria. Pertanto, in coerenza con la tecnica di degradazione degli illeciti, i nuovi editti delle sanzioni pecuniarie non sono stati proiettati sopra ogni singolo illecito depenalizzato, in modo da calibrarne la comminatoria all’effettivo disvalore, ma sono stati graduati in rapporto alla gravità degli illeciti attraverso la fissazione di tre soglie rapportate al tipo di pena in precedenza comminata per la violazione. La prima è relativa ai reati da depenalizzare puniti con la sola pena pecuniaria; la seconda riguarda i reati puniti con pena alternativa; la terza, infine, concerne gli illeciti penali puniti con la pena detentiva, sola o congiunta a quella pecuniaria. Tuttavia, allo scopo di assicurare una maggiore flessibilità sanzionatoria (14) Problemi analoghi a quelli descritti nel testo si sono posti con riferimento al mancato inserimento nella versione definitiva del nuovo comma 3 dell’art. 9 delle fattispecie di cui agli artt. 515, 516 e 517 c.p., che figuravano invece nello schema trasmesso al Parlamento per il parere. Anche in questo caso, le disposizioni in questione sono state espunte dietro suggerimento delle Camere che, similmente a quanto rilevato per le altre norme del codice penale, hanno evidenziato la superfluità dell’inclusione. L’evenienza avuta di mira è quella in cui concorrano le fattispecie codicistiche aggravate dalla violazione delle norme poste a tutela della denominazione di origine dei prodotti alimentari (si veda il nuovo art. 517bis c.p., introdotto dall’art. 5 del decreto legislativo di depenalizzazione) e un illecito depenalizzato: in questi casi, sembra possibile ritenere la prevalenza delle fattispecie aggravate del codice penale, visto che la violazione depenalizzata entra a far parte del ‘‘tipo’’ penale come elemento costitutivo dell’aggravante.
— 1459 — ad un sistema che, proprio perché « generale » risulta fisiologicamente « cieco » rispetto alla gravità dei « singoli » illeciti, è stato ritagliato un ulteriore discrimine nell’ambito dei reati la cui cornice edittale è segnata dalla presenza della pena detentiva. Nel comma 2 dell’art. 2 è stata, inoltre, disciplinata la conversione degli illeciti penali puniti con una pena proporzionale. Il quadro normativo esistente restituisce l’immagine di una realtà piuttosto variegata. Infatti, la sanzione pecuniaria proporzionale talvolta figura da sola, mentre in altre circostanze è alternativa o congiunta ad una pena detentiva. Vi sono poi casi in cui la sanzione proporzionale è delimitata nel minimo o nel massimo. La legge-delega, per vero, nello stabilire la trasformazione degli illeciti, si limitava soltanto a prevedere la comminatoria di sanzioni amministrative di importo non superiore a lire duecento milioni (art. 3, comma 1, lett. a)). Questo criterio avrebbe potuto legittimare un’interpretazione secondo la quale anche le pene proporzionali dovevano soggiacere a detto limite massimo. Il decreto legislativo ha correttamente imboccato un’altra strada. Occorre ricordare che la pena proporzionale, sia essa penale o amministrativa, opera attraverso un meccanismo automatico collegato per lo più al danno obbiettivo (15). Il legislatore, infatti, talvolta fissa il coefficiente di moltiplica (il c.d. moltiplicatore) destinato a combinarsi con le entità variabili che costituiscono la « base » del calcolo, e che sono fornite dal caso concreto (ad es.: la quantità dell’alimento adulterato); altre volte, invece, predetermina la « base » del calcolo di proporzionalità, lasciando al fatto concreto il compito di individuare soltanto il « coefficiente di moltiplicazione » della pena-base fissata dalla legge (si pensi, ad esempio, alle sanzioni che puniscono con una multa oscillante tra un limite minimo e un limite massimo per ogni ettaro di superficie coltivata ma non denunciata ovvero per ogni chilogrammo di essenza non denunciata, ecc.). Sta di fatto che la sanzione proporzionale, proprio perché opera secondo parametri commisurativi ancorati al danno, si rivela un prezioso ed efficiente strumento sanzionatorio, specie sul versante amministrativo. Tant’è che nella l. n. 689/1981 che, come noto, reca i principi generali dell’illecito amministrativo, si prevede, all’art. 10, comma 1, che le sanzioni amministrative proporzionali « non hanno limite massimo ». Il silenzio serbato dal delegante con riferimento alle pene proporzionali è stato perciò correttamente interpretato nel senso che non si sia voluto derogare alla regola generale stabilita nella l. n. 689. Del resto, sarebbe stato difficile comprendere una diversa opzione: l’apposizione di un limite massimo (sia pure di duecento milioni) avrebbe depotenziato l’efficacia di questo tipo di sanzione, alterandone la fisionomia. (15)
Sulla struttura e la funzione della sanzione pecuniaria ‘‘proporzionale’’, v. PA-
LIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 97 ss.
— 1460 — 5. L’art. 3 dello schema di decreto legislativo disciplina le sanzioni amministrative accessorie, sulla scorta dei principi ricavabili dalle lett. a), c) e f) dell’art. 3 della delega. Innanzi tutto, si stabilisce che le pene accessorie previste per le violazioni depenalizzate sono trasformate, tout court, in sanzioni accessorie amministrative e che continuano ad applicarsi nei casi e nei modi stabiliti dalle disposizioni che le prevedono. Questa disposizione ricalca la direttiva di cui al periodo iniziale della lett. f) della delega e pone sul tappeto un delicato problema interpretativo che deriva proprio dall’automatica conversione delle sanzioni. Nella legislazione speciale vi è un cospicuo numero di fattispecie penali oggetto di depenalizzazione la cui violazione dà luogo all’irrogazione di sanzioni accessorie nei casi di recidiva. Il riferimento alla recidiva in senso penalistico, quale presupposto per l’applicazione delle sanzioni accessorie, non risultava certo trasferibile de plano sul terreno della tutela amministrativa. In caso contrario, si sarebbero verificati effetti paradossali, quali l’applicazione di una sanzione accessoria nei confronti di chi ha commesso una violazione (depenalizzata) in materia alimentare, per il semplice fatto di vantare, ad esempio, una pregressa violazione amministrativa al codice della strada. Il concetto penalistico di recidiva si incardina sull’esistenza di una precedente condanna e l’aggravamento di pena che comporta, nel diritto penale, si fonda sulla necessità di contenere la capacità a delinquere di un autore non più ‘‘primario’’. Sul versante dell’illecito amministrativo, non si rinvengono esigenze specialpreventive di analoga intensità: la sfera degli illeciti amministrativi è così ampia da non giustificare razionalmente un incremento sanzionatorio o l’applicazione di una sanzione accessoria (anche grave: si pensi alla chiusura temporanea dello stabilimento) per il semplice fatto che esiste un precedente relativo a violazione aventi ad oggetto tutt’altra sfera di tutela. Proprio per evitare simili inconvenienti — destinati a ripresentarsi in altri comparti del provvedimento di depenalizzazione — nell’art. 94 del decreto legislativo è stato disciplinato l’istituto della reiterazione delle violazioni (16), opportunamente calato tra i principi generali dell’illecito amministrativo. Il nuovo art. 8-bis della l. n. 689/1981 stabilisce che si ha ‘‘reiterazione’’ quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa accertata con provvedimento esecutivo, si commette una violazione della stessa indole. La reiterazione viene poi qualificata come ‘‘specifica’’ quando è violata la medesima disposizione (v. art. 8-bis, comma 3). La configurazione del nuovo istituto sembra risolvere in modo adeguato (e coerente con i peculiari profili dell’illecito amministra(16) Per un primo esame di questo nuovo istituto, v. DI GIOVINE, La nuova legge delega per la depenalizzazione dei reati minori tra istanze deflattive e sperimentazione di nuovi modelli, in questo numero della Rivista, sub par. 1.
— 1461 — tivo) i problemi derivanti dalla degradazione delle pene accessorie, ancorate, come si è visto, a presupposti applicativi di stampo penalistico. Nel comma 2 dell’art. 3 del decreto, vengono regolate la sanzione amministrativa accessoria della chiusura temporanea o definitiva dello stabilimento e quella della revoca della relativa licenza o dell’autorizzazione sanitaria. Occorre segnalare che le norme di delega interessate (le lett. a) e c)) non prendevano esplicita posizione in merito ad una rilevante questione, relativa all’obbligatorietà o alla discrezionalità applicativa di tali sanzioni accessorie. Nel decreto è prevalsa la tesi della discrezionalità applicativa, fondata sul rinvio alla disciplina generale prefigurata nella l. n. 689/1981. Gli artt. 11 e 20 di detta legge permettono di riconoscere alle sanzioni amministrative accessorie una finalità preventiva (più spiccatamente special-preventiva) e un’operatività facoltativa (discrezionale) (17). La finalità preventiva (art. 11) consente di qualificare queste sanzioni come pene e non già come misure di garanzia dell’interesse della pubblica amministrazione. La discrezionalità del potere applicativo discende dall’art. 20 che fissa, in via generale, questo principio (fatta eccezione per le ipotesi di confisca di cui al comma 4). La chiusura temporanea dello stabilimento, la sospensione ovvero la revoca della relativa licenza o autorizzazione sanitaria possono trovare applicazione (v. art. 3, comma 2, del decreto) nei casi di reiterazione specifica della violazione. Occorre precisare che l’identità della violazione che sostanzia la reiterazione specifica si ricava, in via interpretativa, anche dall’accostamento con la lett. c) della delega, dove, con riguardo alle norme di cui agli artt. 5, 6 e 12 della l. n. 283/1962, si evoca « la reiterazione anche non specifica » per legittimare l’applicazione di sanzioni accessorie interdittive definitive. Il confronto tra le due disposizioni avvalora la scelta che, ai fini dell’individuazione della reiterazione specifica, privilegia l’identità della violazione. Quale ulteriore presupposto per l’adozione della sanzione accessoria della chiusura temporanea dello stabilimento, ovvero della sospensione della licenza o della sua revoca, si prevede, in conformità alla delega, che l’autorità amministrativa, o il giudice quando ricorre l’ipotesi di connessione di cui all’art. 24 della l. n. 689/1981, debba tenere conto della gravità dei fatti. Questa valutazione potrà essere condotta alla stregua dei criteri indicati nell’art. 11 della citata legge. La sanzione accessoria della chiusura definitiva dello stabilimento o della revoca della licenza o dell’autorizzazione sanitaria può invece essere irrogata, anche fuori dei casi di reiterazione specifica, per i fatti di particolare gravità dai quali sia derivato pericolo per la salute. (17) Sull’argomento, cfr. PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 113 ss.
— 1462 — 6. L’art. 4 del decreto legislativo si occupa dell’autorità competente ad applicare le sanzioni amministrative, stante il contenuto dell’art. 16, lett. c) della legge-delega. Occorre premettere che l’affollamento di norme che contrassegna la materia degli alimenti ha provocato una polverizzazione delle competenze per l’irrogazione delle sanzioni, tanto che risulta davvero arduo pervenire ad una compiuta ricostruzione del sistema. La legge di depenalizzazione poteva quindi costituire l’occasione per porre mano ad una riorganizzazione complessiva di questo particolare aspetto del diritto alimentare. La delega imponeva, tuttavia, di individuare l’autorità competente nell’ambito degli illeciti depenalizzati e questa direttiva, calata nella materia alimentare, sembrava impedire una risistemazione generale, che andasse cioè al di là del perimetro tracciato dagli illeciti depenalizzati. Del resto, le norme depenalizzate nell’ambito degli alimenti si inseriscono in corpi normativi che già contemplano, accanto alle fattispecie penali « degradate », violazioni di natura amministrativa, sì che non deve essere apparso né coerente né utile delineare diverse ripartizioni di competenze. Queste considerazioni rendono intuitivamente percepibili le difficoltà insite nel perseguimento dell’ambizioso obbiettivo di costruire un nuovo e più organico sistema delle competenze: gli stessi tempi di attuazione della delega oltre ai segnalati profili di compatibilità con la stessa (forse superabili con il rinvio alle esigenze del coordinamento) hanno reso probabilmente impercorribile questa via. È stato perciò intrapreso un percorso più semplice, con l’obbiettivo di evitare disarmonie funzionali e il disorientamento degli operatori. La scelta contenuta nell’art. 6 assegna la competenza ad applicare le sanzioni amministrative all’autorità che già oggi le irroga per le violazioni amministrative, nel segno della continuità operativa del sistema sanzionatorio in capo alle autorità amministrative deputate all’applicazione delle sanzioni per le violazioni amministrative in vigore. In quei pochi settori, invece, in cui la tutela era affidata solo a norme penali, si è provveduto all’individuazione delle autorità competenti ad irrogare le sanzioni amministrative (v. il comma 2 dell’art. 4). 7. Gli artt. 5 e 6 prevedono interventi nella materia penalistica, in attuazione di quanto disposto dalle lett. b), c) e d) dell’art. 3 della leggedelega. L’art. 5 introduce una circostanza aggravante per i delitti di frode in commercio, vendita di sostanze alimentari non genuine e vendita di prodotti industriali con segni mendaci, nel caso in cui essi abbiano ad oggetto prodotti alimentari protetti dalla normativa sulla denominazione di origine. La norma mira a compensare la degradazione a mera violazione amministrativa degli illeciti, oggi penali, a protezione della denominazione di
— 1463 — origine e delle caratteristiche dei prodotti alimentari, disposta dalla lett. a) dell’art. 3 della delega, senza che ciò debba comportare un abbassamento del livello normativo di tutela. Tuttavia, la legislazione speciale in materia contiene numerosissime pene accessorie, prevalentemente riconducibili allo schema della chiusura temporanea dello stabilimento o dell’esercizio, secondo un modulo ricorrente che prevede, quali presupposti applicativi, la recidiva specifica del reato ovvero la particolare gravità del fatto concretamente posto in essere. Ed è noto come proprio nell’incisività di queste sanzioni risiede oggi gran parte dell’efficacia deterrente della disciplina legislativa. Poiché la depenalizzazione delle figure di reato in materia di tutela della denominazione di origine e delle caratteristiche dei prodotti alimentari comporta la trasformazione in amministrative anche delle sanzioni penali accessorie, è chiaro che la prevedibile prevalenza degli illeciti previsti dal codice penale nei confronti degli illeciti depenalizzati avrebbe precluso l’operatività delle sanzioni accessorie previste per gli illeciti amministrativi che avevano ‘‘ceduto il passo’’ alla norma penale, con una conseguente perdita di efficacia preventiva del sistema proprio nelle ipotesi più gravi, in cui cioè il fatto costituisca reato. Al fine dunque di evitare preoccupanti vuoti di tutela, si è previsto all’art. 517-bis un comma 2 volto a recuperare il contenuto delle sanzioni accessorie in esame (si ripete: altrimenti destinate alla totale disapplicazione quando il fatto integri gli estremi del reato aggravato), rimettendo al giudice la valutazione discrezionale in ordine alla chiusura dello stabilimento o dell’esercizio per un periodo di tempo variabile da un minimo di cinque giorni ad un massimo di tre mesi. Nell’art. 6, attuativo delle lett. b) e c) della delega, è stato riscritto il comma 3 dell’art. 6 della l. n. 283, prevedendo, conformemente al disposto della legge-delega, le sanzioni detentive e pecuniarie come tra loro alternative. L’intervento sul comma 2 dell’art. 12 della l. n. 283/1962 recepisce le indicazioni della legge-delega, che impone di differenziare la rilevanza della condotta di introduzione nel territorio dello Stato delle sostanze destinate all’alimentazione e non rispondenti ai requisiti imposti dalla legge, a seconda che essa sia destinata al commercio ovvero all’uso personale. La lett. c) del comma 1 dell’art. 6 disciplina infine le pene accessorie che derivano dalla sentenza di condanna per taluno dei reati di cui agli artt. 5, 6 e 12 della l. n. 283/1962. L’intervento è stato opportunamente collocato proprio nell’ambito della citata legge, introducendo un nuovo art. 12-bis. Le pene accessorie della chiusura definitiva dello stabilimento e la revoca della licenza possono essere irrogate quando dal fatto sia derivato pericolo per la salute ovvero nelle ipotesi di reiterazione anche non speci-
— 1464 — fica della violazione (vale a dire nei casi in cui non ricorre l’identità delle violazioni, ma la precedente condanna concerne comunque le norme in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti). Sempre in relazione all’art. 12-bis, il dettato della delega obbligava a prevedere la pena accessoria in relazione alle sole condotte di reato previste dalla legislazione speciale (la l. n. 283/1962), e non anche a quelle, più gravi, tipizzate dal codice penale. Allo scopo di rispettare la lettera della legge e al tempo stesso di evitare ingiustificate disparità di trattamento, l’ultimo comma dell’art. 12-bis dispone che « Le pene accessorie previste dal presente articolo si applicano anche quando i fatti costituiscono un più grave reato ai sensi di altre disposizioni » (ad esempio, codicistiche). La formulazione della norma prende atto della peculiarità della tecnica di normazione adottata in materia alimentare, caratterizzata dalla ricordata « stratificazione » della tutela (già a livello penale, oltre che nel rapporto tra reato e violazione amministrativa). Limitare l’applicazione della pena accessoria alle singole fattispecie della l. n. 283/1962 sarebbe equivalso a negarne l’operatività quante volte le stesse — come accadrà nella maggior parte dei casi — siano assorbite dalle più gravi ipotesi delittuose previste dal codice penale (o da future disposizioni di legge speciale). 8. L’art. 7 attua la delega legislativa di cui all’ultima parte della lett. f), laddove prevede l’introduzione di nuove sanzioni accessorie idonee a prevenire « violazioni nella materie indicate nel presente articolo ». Oltre alla pubblicazione, sanzione accessoria già nota al nostro ordinamento, per la cui disciplina è stato operato un richiamo alle disposizioni dell’art. 36 c.p., in quanto applicabili, la vera novità va individuata nell’introduzione della sanzione dell’affissione del provvedimento con cui viene irrogata la sanzione amministrativa. Si tratta di una misura, dotata di un’indubbia efficacia di stigma, che appare in grado di esercitare una non trascurabile funzione preventiva, nell’ottica di quel recupero di deterrenza attraverso le sanzioni accessorie che, nella linea ispiratrice della legge-delega, è diretto a compensare la degradazione degli illeciti. La durata massima della sanzione è stata contenuta nell’arco di quattro mesi e il tempo concreto, al pari delle altre modalità esecutive, dovrà essere stabilito dalle autorità (amministrative o giudiziarie) chiamate ad applicare la sanzione principale. Si richiama infine l’attenzione sulla scelta di rendere operativa la nuova sanzione in rapporto a tutti gli illeciti amministrativi in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande, anche se diversi da quelli interessati dal presente intervento legislativo (18). La so(18)
Va inoltre evidenziato che la nuova sanzione può trovare applicazione solo
— 1465 — luzione risponde a chiare esigenze di omogeneità nella disciplina e non sembra trovare ostacolo nella lettera della delega, la quale si riferisce genericamente alle « materie » indicate nell’art. 3 (piuttosto che ai soli illeciti da depenalizzare). 9. Esaurita l’esposizione delle principali disposizioni concernenti la depenalizzazione nel settore alimentare, si proverà ora a valutarne criticamente la struttura e la funzionalità, allo scopo di verificare quale possa essere, in concreto, l’impatto deflattivo del provvedimento e l’efficacia nel nuovo sistema sanzionatorio. Richiamando le anticipazioni svolte in apertura di commento, sembra possibile affermare che sussiste uno iato consistente tra gli obbiettivi ‘‘dichiarati’’ del legislatore e quelli che il nuovo sistema consentirà effettivamente di conseguire. L’intento della riforma, ricavabile dai lavori parlamentari e dalla relazione di accompagnamento al decreto legislativo, era quello di pervenire, in primo luogo, ad una razionalizzazione dell’intero comparto, per il tramite di una semplificazione legislativa che circoscrivesse la tutela penale ai soli illeciti direttamente o indirettamente lesivi della salute, con conseguente degradazione di tutti gli altri illeciti polverizzati nella legislazione speciale; in secondo luogo, si puntava a privilegiare, nel contesto dell’armamentario punitivo, le sanzioni amministrative accessorie, ritenute le più idonee a compensare gli effetti di una degradazione a tappeto degli illeciti e a garantire ragguardevoli livelli di efficacia preventiva. Il prodotto, licenziato nel sostanziale rispetto dei principi della delega, non sembra tuttavia capace di raggiungere simili risultati: anzi, specie sul versante sanzionatorio, il sistema ostenta una muscolarità che, ad un più attento esame, sembra destinata rapidamente a sgonfiarsi. L’esistenza di questa dissociazione tra il piano degli intenti e la realtà operativa dell’impianto è da ricondurre — come vedremo — ad un’insufficiente conoscenza dei meccanismi che regolano la (smisurata) materia. In altre parole, la consapevolezza di non potersi calare nei meandri di una legislazione ‘‘incontenibile’’ ha fatto sì che si perdessero di vista anche i tratti costituivi di questo comparto, con inevitabili ricadute sulla funzionalità di taluni istituti. A ciò si deve aggiungere che la filosofia sanzionatoria delineata nella legge-delega rivela un approccio tradizionale, che ignora del tutto come, in questo campo, la complessità e la frammentazione dei processi produttivi non possa prescindere — nell’ottica di un’auspicabile modernizzazione del sistema — dalle problematiche connesse al coinvolgiquando è irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore a quindici milioni di lire, tenuto conto della natura e della gravità del fatto (art. 7, comma 1).
— 1466 — mento dell’impresa o dell’ente collettivo nella responsabilità sanzionatoria (19). 10. La valutazione dell’estensione della depenalizzazione impone una ‘‘prognosi riservata’’. Non sembra infatti saggio né tantomeno corretto esaltare gli spazi deflattivi del provvedimento solo perché il legislatore, dopo aver circoscritto il nocciolo duro della tutela penale alle fattispecie codicistiche e a quelle della principale legge speciale, ha con un evocativo ‘‘tratto di penna’’ sancito la degradazione di tutti gli altri (numerosissimi) illeciti penali. Si è visto che la riforma del comma 3 dell’art. 9 della l. n. 689/1981 riconosce la prevalenza degli illeciti penali che integrano il ‘‘nocciolo duro’’, quando questi concorrono con gli illeciti amministrativi (depenalizzati e non). La scelta di fissare come regola generale quella della prevalenza degli illeciti penali ‘‘convergenti’’ sul medesimo fatto si lascia senz’altro apprezzare, perché semplifica il sistema e riduce la sfera di discrezionalità del giudice, ma, e questo è il rovescio della medaglia, potrebbe restringere sensibilmente l’area della depenalizzazione, visto che numerosi illeciti depenalizzati sono inseriti in leggi che ‘‘specificano’’ la tutela rispetto alla stessa legge ‘‘speciale’’ n. 283 del 1962. Inoltre, va doverosamente segnalato che la prevalenza legislativamente accordata alle fattispecie penali presuppone comunque l’esistenza di una ‘‘con(19) Sulle problematiche sollevate dalla responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi, cfr., fra gli altri: GROSSO, voce Responsabilità penale, in Nss. Dig. it., Torino, XV, 1968, p. 711 ss.; BRICOLA, Il costo del principio « societas delinquere non potest » nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 951 ss.; STORTONI, Profili penali delle società commerciali come imprenditori, ivi, 1971, p. 1163 ss.; PECORELLA, Societas delinquere non potest, in Riv. giur. lav., 1977, IV, p. 367 ss.; PEDRAZZI, La responsabilité pénale non individuelle, in Rapports nationeaux italiens au X Congrès international de droit comparé, 1978, p. 750; COFFEE, No Soul to Damn: No Body to Kick: An Unscandalized inquiry into the Problem of Corporate Punishment, in Michigan Law Review, 1981, pp. 79, 405 ss.; ALESSANDRI, Commento all’art. 27 comma 1, in G. BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, IV, 1989, p. 137 ss. dell’estratto; VOLK, Zur Bestrafung von Unternehmen, in JZ, 1993, p. 429 ss.; PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 1040 ss.; DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisi e innovazioni nel diritto penale statunitense, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss.; DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese e la responsabilità penale delle Personnes Morales, ivi, 1995, p. 189 ss.; M. ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), ivi, 1995, p. 1031 ss.; TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, ivi, p. 615 ss.; CASTELLANA, Diritto penale dell’Unione europea e principio « societas delinquere non potest », in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 747 ss.; FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale « moderno », Padova, 1996, ed. provv., p. 275 ss.; PALIERO, Problemi e prospettive della responsabilità penale dell’ente nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 1173 ss.; MILITELLO, Attività del gruppo e comportamenti illeciti: il gruppo come fattore criminogeno, ivi, 1998, p. 367 ss.; STELLA, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, ivi, 1998, p. 459 ss.; DE MAGLIE, Societas delinquere potest, Padova, ed. provv., 1999.
— 1467 — vergenza di norme’’ sopra uno stesso fatto. Spetterà dunque pur sempre al giudice il delicato compito di individuare la ricorrenza di un tale fenomeno e le oscillazioni che da sempre pervadono la prassi in ordine alle relazioni di convergenza o di estraneità strutturale tra le norme rischiano di fomentare distorsioni applicative, con possibili ripercussioni sul coefficiente di certezza del sistema. In definitiva, se il legislatore intendeva pervenire ad una folta depenalizzazione del settore, la speranza è andata forse delusa: la forza espansiva delle norme che mantengono rilievo penale pare destinata a circoscrivere significativamente la sfera della depenalizzazione. Tutto sommato, l’esito che si prefigura, forse non voluto e per certi versi inevitabile a causa dell’enorme stratificazione normativa che affligge il settore, appare condivisibile. Il settore agro-alimentare coinvolge beni di rilievo costituzionale — come la salute — in cui non è possibile rinunciare a cuor leggero alla tutela penale. I recenti scandali (20) che hanno allarmato la pubblica opinione dimostrano come non sia auspicabile una drastica riduzione dell’area dell’intervento penale, specie in quei paesi, come il nostro, in cui potrebbe risultare esiziale affidare il governo delle sanzioni ad un’amministrazione tradizionalmente inficiata da un basso tasso di imparzialità e da croniche lentezze operative. Semmai, proprio le emergenze della prassi segnalano l’urgenza di interrogarsi, anche e soprattutto a livello comunitario, sulla bontà di un sistema che, muovendo dall’ambizione di disciplinare tutte le fasi del processo produttivo e della catena alimentare, con una fitta rete di disposizioni che si succedono (talvolta contraddicendosi) in ristretti intervalli di tempo, finisce in realtà per disorientare gli operatori e provocare diseconomie nelle attività di controllo, non di rado convogliate anche verso settori a basso rischio. La razionalizzazione del sistema non può che passare, di conseguenza, attraverso un faticoso ripensamento della strategia dell’intervento: questo presuppone la conoscenza effettiva delle leggi e dei provvedimenti normativi, lo studio delle sembianze che hanno assunto i moderni processi produttivi e, infine, la mappatura dei settori ‘‘a rischio’’ verso i quali indirizzare efficaci misure preventive e repressive nonché l’indispensabile attività di controllo. Questi obbiettivi non potevano certo rientrare nell’ambito di una legge di depenalizzazione ‘‘complessa’’ — orientata, cioè, verso una molteplicità di materie: sta di fatto, però, che il provvedimento non incide sensibilmente sulle dinamiche della tutela e lascia sostanzialmente inalterata l’elevata complessità dell’intero comparto, in cui sarà ancora una volta difficile destreggiarsi. (20) Ci si riferisce, per citare gli ultimi, al caso dei ‘‘polli alla diossina’’, a quello delle lattine di Coca-Cola sottoposte ad un eccessivo uso di funghicidi, verificatisi entrambi in Belgio nel giugno 1999 e, infine, a quello, che tanto allarme sta suscitando, della ‘‘mucca pazza’’.
— 1468 — 11. Il terreno in cui la riforma tradisce maggiormente una natura puramente virtuale e la scarsa conoscenza della materia è però di gran lunga quello delle sanzioni: si può affermare che qui si sommano un deficit conoscitivo sul funzionamento del sistema e radicate resistenze verso una moderna ri-sistemazione dei centri di imputazione della responsabilità. Andiamo per ordine. Il decreto legislativo — ottemperando alle disposizioni della delega — ha delineato un sistema sanzionatorio che: 1) rende remota l’irrogazione delle sanzioni amministrative accessorie e 2) depotenzia la stessa efficacia dissuasiva delle sanzioni penali poste a presidio delle norme di cui agli artt. 5, 6 e 12 della l. n. 283/1962. Grande enfasi ha avuto presso i commentatori l’introduzione di un ventaglio di sanzioni interdittive (penali o amministrative) particolarmente incisive quali la chiusura definitiva o temporanea dello stabilimento e la revoca della licenza (21): per quelle amministrative, è stata rimarcata l’idoneità a compensare la perdita di deterrenza insita nel passaggio dal modello di tutela penale a quello amministrativo. Con riguardo alle sanzioni accessorie amministrative, conviene ricordarne i presupposti applicativi: essi sono, alternativamente, la reiterazione specifica della violazione (l’esistenza cioè di un precedente provvedimento sanzionatorio avente ad oggetto un’identica violazione) o fatti di particolare gravità dai quali sia derivato pericolo per la salute. La ricorrenza di uno di questi requisiti — è giusto sottolinearlo — è di ostacolo all’ammissione al pagamento in misura ridotta (v. art. 3, ultimo comma, del decreto legislativo). Il carattere virtuale del primo requisito (la reiterazione specifica) deriva dall’inesistenza di un archivio, cioè di uno strumento di conoscenza delle violazioni (archivio, viceversa, previsto nella materia degli assegni) (22). Questa carenza vanifica il decollo operativo delle sanzioni. Ma non basta. Si profila il rischio, ben peggiore, di applicazioni disomogenee: alcune amministrazioni competenti ad irrogare le sanzioni amministrative sono infatti dotate di propri e funzionanti archivi, che possono così fungere da utile bagaglio informativo. Ne deriva che le sanzioni accessorie potrebbero trovare un’applicazione ‘‘a macchia di leopardo’’, limitata cioè soltanto ad alcuni comparti. Se a ciò si aggiunge che l’irrogazione delle sanzioni è discrezionale, il quadro che ne consegue è a dir poco allar(21) Cfr., tra gli altri, LUPO, Un sistema di temibili sanzioni, cit., p. 81 ss., il quale, peraltro, paventa timori in ordine al regime di discrezionalità applicativa delle sanzioni, ritenendo ‘‘prevedibili forti pressioni per la mancata applicazione delle sanzioni accessorie’’ (p. 82); GIUNTA, La scommessa di un’efficacia repressiva attraverso ‘‘costose’’ sanzioni amministrative. Una riforma organica per la deflazione del sistema penale, in Diritto e giustizia, 2000, n. 4, p. 52 ss. (22) V. l’art. 36 del decreto legislativo.
— 1469 — mante: si profila un sistema in cui le sanzioni più invasive — e che proprio per questo richiederebbero una forte trasparenza applicativa — potrebbero risentire di una sostanziale, e talvolta arbitraria, settorialità operativa. L’altro alternativo requisito del pericolo per la salute è invece frutto di una precaria conoscenza della materia, tipica di chi non ha avuto il tempo o la volontà di ‘‘sporcarsi le mani’’ nel vortice della legislazione speciale. Un esame più rigoroso permette di svelare, senza neppure troppa fatica, che il pericolo per la salute è di regola un elemento estraneo agli illeciti che popolano la legislazione accessoria. Al contrario, funge da elemento strutturale dei ‘‘tipi’’ presenti nel codice penale. Non si comprende allora quale sfera applicativa residui alle sanzioni accessorie, visto che la stragrande maggioranza degli illeciti depenalizzati non contempla il pericolo concreto nella propria intelaiatura. Appurato, dunque, che le sanzioni accessorie sono destinate a mantenere un rilievo quasi esclusivamente cartaceo, ancora una volta il ruolo essenziale, sul versante sanzionatorio, verrà ricoperto dalle sanzioni pecuniarie, certo incrementate nel loro importo, ma pur sempre assoggettabili al pagamento in misura ridotta. Si può quindi profilare una prima importante conclusione: l’obbiettivo di dotare di effettiva deterrenza l’apparato punitivo attraverso la previsione di incisive sanzioni interdittive assume una consistenza puramente nominalistica; i presupposti applicativi di tali sanzioni — inficiati da una comprovata impraticabilità — ne vanificano il decollo. Le note dolenti, peraltro, coinvolgono anche l’incidenza di queste sanzioni sul versante penale. Il decreto legislativo (v. art. 6) ne prevede l’irrogazione discrezionale quando dalle violazioni di cui agli artt. 5, 6 e 12 della l. n. 283/1962 (anche nelle ipotesi in cui si concretizzano nella commissione di un fatto-reato più grave) sia derivato un pericolo per la salute, ovvero nei casi di recidiva specifica. Qui l’aggiramento delle sanzioni è collegato non già all’accertamento dei presupposti applicativi, quanto all’esistenza dei ben noti meccanismi sostanziali e processuali che pongono nel nulla le sanzioni interdittive. Il pensiero corre alla sospensione condizionale, i cui effetti si estendono alle pene accessorie, e al ‘‘patteggiamento’’, meccanismo di giustizia negoziata che prevede esplicitamente la non irrogabilità delle pene accessorie. Ma quel che più conta è che, in questo ambito, persino la pena pecuniaria esce svilita. Ottemperando alla delega, l’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo sancisce l’alternatività delle pene previste per gli illeciti penali della l. n. 283 esclusi dalla depenalizzazione, laddove, come è noto, la disciplina previgente prevedeva l’applicazione congiunta della pena detentiva e di quella pecuniaria. Tale modifica rende dunque possibile ricorrere all’oblazione di cui all’art. 162-bis del codice penale, of-
— 1470 — frendo in tal modo la possibilità di uscire — sia pure a costi più elevati — dalle scomode maglie del processo penale (23). Come si vede, dunque, anche sul terreno penale è da registrare la permanenza del fenomeno di ‘‘monetizzazione’’ della responsabilità, reso più agevole dall’oblazione. 12. L’ultimo aspetto che resta da trattare concerne l’individuazione dei centri di imputazione della responsabilità. Qui il legislatore ha dimostrato davvero poco coraggio, bendandosi gli occhi dinanzi alle evidenze empirico-criminologiche che restituiscono l’immagine di una materia sempre più solcata dalla complessità e dalla frammentazione dei processi produttivi, che rischiano di rendere obsoleto il tradizionale strumento con il quale si sono sinora fronteggiate le dinamiche interne alle organizzazioni complesse, vale a dire la ‘‘delega di funzioni’’ (24). I prodotti alimentari costituiscono l’output di processi produttivi estremamente sofisticati, che si distendono seguendo dinamiche organizzative verticali o orizzontali (25). Tutto ciò accentua molto spesso le difficoltà legate all’individuazione dell’origine del difetto del prodotto e della correlativa posizione di garanzia deputata al controllo del rischio. Un’efficace strategia di contrasto non sembra pertanto poter prescindere, in questo come in altri campi del diritto penale dell’economia, da un coinvolgimento diretto dell’impresa o dell’ente nella responsabilità sanzionatoria, con il ricorso a criteri di imputazione capaci di far emergere la colpa organizzativa della societas (26). Che questa fosse la strada da imboccare lo dimostra, a dire il vero, lo stesso ventaglio di sanzioni punitive prescelto dal legislatore: si è fatto ricorso a sanzioni interdittive rivolte proprio a colpire l’impresa (si pensi (23) Cfr., in proposito, LUPO, Un sistema di temibili sanzioni, cit., p. 82. (24) In argomento, v. PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1982, IV, p. 178 ss.; PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Milano, 1983, p. 78 ss.; GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obbiettiva della fattispecie, Milano, 1983, p. 420 ss.; FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, p. 136 ss.; M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 350 ss. In giurisprudenza, per un nuovo orientamento sulla delega di funzioni nell’ambito della produzione e commercializzazione degli alimenti, v., di recente, Cass., 26 febbraio 1998, n. 681, in questa Rivista, 2000, p. 364 ss., con bella nota di CENTONZE, Ripartizione di attribuzioni aventi rilevanza penalistica e organizzazione aziendale. Un nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, p. 369 ss. (25) Per un’analisi dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione delle attività di produzione, v.: SCIARELLI, Economia e gestione dell’impresa, Padova, 1999; MINTZBERG, La progettazione dell’organizzazione aziendale, Bologna, 1996; PERRONE, Le strutture organizzative d’impresa, Milano, 1990. (26) Su questi temi si rinvia alla dottrina citata alla nota 19.
— 1471 — alla chiusura dello stabilimento) e a sanzioni amministrative pecuniarie di cospicuo importo, fatalmente destinate ad essere nei fatti sopportate dall’impresa. Si staglia così un sistema che, ipocritamente, continua a ‘‘dialogare’’ con il singolo (la persona fisica), ma che, in realtà, bussa alla porta dell’ente collettivo. È una stortura, questa, agevolmente riconducibile alla piatta adesione al vetusto brocardo societas delinquere non potest, destinato peraltro ad essere definitivamente soppiantato in tempi brevi anche nel nostro ordinamento (27). In ogni caso, era legittimamente da attendersi dal legislatore uno sforzo verso la modernizzazione: la legge-delega avrebbe potuto delineare le maglie di un sistema di responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi, che provasse a penetrare all’interno delle complesse dinamiche organizzative dell’impresa. È stata, invece, preferita l’impostazione tradizionale, con un assetto che tende a colpire (sia pure virtualmente) gli enti attraverso sanzioni mutuate dall’arsenale penalistico, ma — lo si noti — nell’assenza di sufficienti garanzie nel procedimento applicativo. Il sospetto di essere dinanzi all’ennesima ‘‘truffa delle etichette’’ è più che mai fondato. 13. Volendo trarre un bilancio conclusivo, è da dire che si è persa, con ogni probabilità, l’occasione di porre mano a un’indispensabile razionalizzazione di un comparto che, per le ragioni più volte ricordate, ne aveva davvero urgente bisogno. Purtroppo, la molteplicità dei settori investiti dalla depenalizzazione unita alla scarsa dimestichezza del legislatore nel fronteggiare una materia non agevolmente dominabile, hanno fatto sì (27) Va salutato con favore il recentissimo superamento normativo del brocardo, avvenuto con l’approvazione della legge di ratifica delle Convenzioni PIF e OCSE. L’art. 11 della l. n. 300 del 2000 delega infatti il Governo ad introdurre un sistema di responsabilità sanzionatoria amministrativa delle persone giuridiche e di altri enti o società sprovviste di personalità giuridica, non soltanto in presenza dei fatti-reato indicati nelle Convenzioni (essenzialmente la corruzione), ma anche con riferimento ad altre materie quali gli infortuni sul lavoro e l’ambiente. Quel che risalta è che, al di là della qualificazione in termini di responsabilità amministrativa delle sanzioni applicabili agli enti collettivi, la gestione del procedimento applicativo è per intero riservata al giudice penale, tanto che si può fondatamente denunciare l’ennesima ‘‘truffa delle etichette’’. Peraltro, l’esame dei resoconti parlamentari dimostra che la scelta di nominare come ‘‘amministrativa’’ la responsabilità si è imposta per il pervicace rifiuto di alcuni gruppi parlamentari di richiamare la responsabilità penale. Per un riepilogo delle vicende legate alla tormentata approvazione di tale legge (scandita da ben sei passaggi parlamentari), v. PIERGALLINI, Progetti di riforma, in questa Rivista, 2000, p. 293 ss. Va inoltre sottolineato come la Commissione per la riforma del codice penale, presieduta dal prof. C.F. Grosso, che ha da poco concluso i lavori pubblicando una schema di articolato (corredato di relazione esplicativa) di riforma della parte generale del codice penale, ha espressamente disciplinato la responsabilità sanzionatoria degli enti collettivi: in questo caso, la Commissione ha rinunciato a qualificare la natura della responsabilità, ma dall’insieme delle disposizioni e, soprattutto, dalla loro collocazione si ricava agevolmente che si è in presenza di una responsabilità penale.
— 1472 — che il prodotto finale, seppure ben confezionato, risulti sostanzialmente sprovvisto della capacità di riorganizzare la materia secondo criteri di ‘‘semplificazione’’ e di idoneità strumentale. La riforma di un settore così smisuratamente ampio e in continua fibrillazione avrebbe presupposto, prima di tutto, una buona conoscenza delle sue dimensioni e delle dinamiche che lo percorrono. Il legislatore — è questa la sensazione che si prova — ha invece finito per esorcizzare le difficoltà, ricorrendo a frettolose operazioni di cosmesi, (furbescamente) evocative di modifiche strutturali, ma in realtà protese a riprodurre, con qualche variante, l’esistente. CARLO PIERGALLINI Magistrato f.r., in servizio presso l’Ufficio I della Direzione generale degli Affari penali del Ministero della Giustizia
COMMENTI E DIBATTITI
L’IRRILEVANZA PENALE DEL FATTO ALLA RICERCA DI STRUMENTI DI DEPENALIZZAZIONE IN CONCRETO CONTRO LA IPERTROFIA C.D. ‘‘VERTICALE’’ DEL DIRITTO PENALE
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Il fenomeno della ipertrofia c.d. ‘‘verticale’’ del diritto penale. — 3. Analisi degli istituti previsti da alcuni sistemi penali europei per fronteggiare il fenomeno della ipertrofia c.d. ‘‘verticale’’ del diritto penale. Gli istituti archiviatori del sistema penale tedesco: i §§ 153 e 153a dStPO. - 3.1. La causa di non punibilità del sistema penale austriaco: il § 42 öStGB. - 3.2. La dispensa dalla pena e gli istituti archiviatori del sistema penale portoghese: l’art. 74 cód. pen. e gli artt. 280-282 cód. proc. pen. - 3.3. La ‘‘irrilevanza del fatto’’ nel sistema penale minorile italiano: l’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988. - 3.4. La ‘‘irrilevanza penale del fatto’’ in alcuni recenti disegni di legge italiani. — 4. Prime considerazioni conclusive. 5. Il ‘‘tipo’’ del reato bagatellare improprio; esigenze di garanzia; tipologie di criteri: un trinomio indissolubile. — 6. La soluzione di diritto processuale penale: l’irrilevanza penale del fatto come condizione di improcedibilità. — 7. Le soluzioni di diritto penale sostanziale. L’irrilevanza penale del fatto come causa di non punibilità in senso stretto. - 7.1. L’irrilevanza penale del fatto come rinuncia alla applicazione della pena. 1. Da qualche tempo si va facendo strada l’idea di introdurre nel nostro sistema penale una disposizione di carattere generale che preveda l’esclusione della procedibilità o della punibilità per fatti che pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli risultano, sulla base di criteri legislativamente indicati, in concreto privi di un significativo disvalore. Una prima indicazione in tal senso è venuta dai lavori della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali e, più precisamente, dai lavori del ‘‘Comitato delle garanzie’’, il quale, nell’affrontare la ‘‘questione giustizia’’, aveva elaborato una bozza (c.d. IV bozza Boato) che conteneva alcune disposizioni finalizzate a rendere effettivo l’esercizio dell’azione penale e a concentrare le risorse processuali sui reati di maggiore gravità (1). In particolare, nel testo dell’art. 112 Cost., dopo la riaffermazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, si aggiungeva che « la legge stabilisce le misure idonee ad assicurarne l’effettivo esercizio » e che « il pubblico ministero chiede al giudice di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale nei casi in cui ritenga insussistente l’offensività del fatto ovvero l’interesse pubblico al suo perseguimento ». Un’ulteriore indicazione dell’affermarsi di questa idea riformatrice si è avuta, poi, con l’elaborazione di due recenti disegni di legge governativi (n. 4625/C e n. 4625-bis/C del 1998): nel primo, l’art. 346-bis c.p.p. disponeva che la procedibilità venisse esclusa se risultava ‘‘l’irrilevanza penale del fatto’’, se cioè — fra l’altro — l’esiguità del danno o del pericolo cagionato, le modalità della condotta, la sua occasionalità (da valutarsi anche in relazione alla capacità a delinquere del reo) e il grado della colpevolezza non giustificavano l’esercizio dell’azione penale; nel successivo disegno di legge, l’art. 335-bis c.p.p. configurava la stessa identica disposizione come causa di non punibilità. (1) Sul punto, v. per tutti FIANDACA, La giustizia penale in Bicamerale, in Foro it., 1997, V, cc. 163-166.
— 1474 — Infine, si deve ricordare che la legge delega in materia di competenza penale del giudice penale prescrive (art. 17, comma 1, lett. f) « l’introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato » (2). In altri sistemi penali europei, come è noto, analoghe disposizioni sono presenti già da diversi anni. Così, ad esempio, in Germania i §§ 153 e 153a dStPO disciplinano alcuni istituti archiviatori di procedimenti aventi ad oggetto fatti in concreto esigui. In Austria, invece, il § 42 öStGB prevede che un fatto non sia punito quando — sussistendo anche altri requisiti — la colpevolezza dell’autore è esigua, dal fatto non è derivata alcuna conseguenza o soltanto conseguenze insignificanti oppure il danno è stato riparato e quando non sussistono esigenze di prevenzione speciale o generale. In Portogallo, infine, mentre gli artt. 280-282 cód. proc. pen., prevedono istituti archiviatori molto simili a quelli del sistema penale tedesco, l’art. 74 cód. pen. dispone che il giudice può dichiarare il reo colpevole ma non applicare la pena se — fra l’altro — l’illiceità del fatto e la colpevolezza sono esigue, se il danno è stato risarcito e se non si oppongono ragioni di prevenzione (3). L’emergere di questa nuova idea di adottare strumenti che operando in sede giudiziarioapplicativa dovrebbero concorrere, insieme alla depenalizzazione c.d. in astratto, alla ‘‘razionalizzazione’’ del sistema penale, offre uno spunto prezioso per una più ampia riflessione sugli istituti che comportano l’esclusione della punibilità o della procedibilità per fatti concretamente esigui. 2. Prima di analizzare più nel dettaglio tali istituti, così come disciplinati in Germania, Austria e Portogallo e come finora prospettati dal nostro legislatore, occorre soffermarsi sul fenomeno al quale essi intendono ovviare. Solitamente si afferma che la depenalizzazione c.d. in concreto — della quale gli istituti in esame costituiscono un’attuazione — intende reagire a un fenomeno di ipertrofia del diritto penale che potremmo definire ‘‘verticale’’, consistente cioè non tanto in un incremento della cifra della criminalità lato sensu intesa, quanto, piuttosto, nell’aumento di una criminalità che si caratterizza per l’esiguità dei fatti corrispondenti alle fattispecie legali (4). La concreta esiguità del reato e la sua diffusione costituiscono, pertanto, gli elementi che connotano tale fenomeno, distinguendolo sia dal generico aumento delle criminalità, sia dalla iper(2) Nel corso della pubblicazione di questo saggio è entrato in vigore il d.lgs. n. 274/2000 recante ‘‘disposizioni in materia di competenza penale del giudice di pace’’, il quale configura la ‘‘particolare tenuità del fatto’’ come condizione di improcedibilità (art. 34): « 1. Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato. 2. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice dichiara con decreto di archiviazione non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. 3. Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono ». (3) Per un’analisi più approfondita di tali istituti, v. infra § 3. (Germania), § 3.1. (Austria) e § 3.2. (Portogallo). (4) Su tale fenomeno, v. ROXIN, Recht und soziale Wirklichkeit im Strafverfahren, in AA.VV., Kriminologie und Strafverfahren - Kriminologische Gegenwartsfragen, a cura di Göppinger e Keiser, Stuttgart, 1976, p. 18, il quale parla di ‘‘più piccola criminalità di tutti i giorni’’; ZIPF, Politica criminale, trad. it. di A. Bazzoni, Milano, 1983, p. 187; PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 186 ss. e, soprattutto, pp. 214-218.
— 1475 — trofia c.d. ‘‘orizzontale’’ del diritto penale, che consiste nella eccessiva estensione del confine dell’illiceità penale e, più precisamente, nella eccessiva proliferazione delle fattispecie incriminatrici (5), sia, infine, dalla criminalità c.d. di massa, la quale più che per l’esiguità dei fatti, si caratterizza per la scemata disapprovazione sociale manifestata dalla maggioranza dei consociati nei confronti di alcuni reati. Con riguardo all’eziologia, tre sono — a grandi linee — le principali cause dell’ipertrofia verticale. In primo luogo, quale fattore — per così dire — istituzionale, a ben vedere comune a tutti i fenomeni di aumento della criminalità, occorre fare riferimento ai processi di democratizzazione e di laicizzazione attuati dagli Stati moderni (6). In particolare, mentre il primo tipo di processo, riconoscendo ampi spazi di libertà ai cittadini, ha incrementato le possibilità di devianza dell’individuo dai modelli comportamentali imposti, il processo di laicizzazione, pur avendo avuto il merito indiscutibile di rendere autonome le valutazioni giuridiche rispetto ai valori religiosi e morali, ha portato a una relativizzazione degli stessi. E, come è noto, mentre quando la scala dei valori morali viene recepita dal diritto, i cittadini preferibilmente si attengono agli schemi di azione proposti dalle leggi, al contrario, quando tale scala tende alla neutralità, il comportamento risulterà verosimilmente indifferente o addirittura contrario ai valori giuridici. In secondo luogo, quale fattore sociale, la c.d. perdita di identità dell’autore, e cioè il venir meno della sua riconoscibilità da parte dei consociati a seguito anche dell’inurbamento metropolitano e dei flussi immigratori, ha prodotto una diminuzione degli effetti di prevenzione generale derivanti dalla stigmatizzazione della pena, ma proprio la componente di biasimo sociale era « ciò che, soprattutto, inibiva questi comportamenti alla maggioranza della popolazione » (7). Inoltre, l’aumento dei beni di consumo e la diffusione di una mentalità consumistica ed edonistica hanno rappresentato una fattore determinante della crescita della criminalità patrimoniale, la quale costituisce il settore della criminalità maggiormente caratterizzato dalle componenti dell’esiguità concreta del fatto e della sua diffusione (8). Infine, quale fattore strettamente legato al progresso tecnologico, la c.d. perdita di identità della vittima ha agevolato sia sul piano materiale che su quello psicologico la realizzazione di reati di modeste entità: « quanto maggiore è la lontananza della vittima dal ‘‘fatto materiale’’ e quanto più elevata è la sua astrazione, tanto minori sono i condizionamenti [...] che giocano ‘‘a favore’’ dell’osservanza della norma » (9). Individuate, seppur in modo sintetico, le cause, occorre adesso analizzare gl’inconvenienti derivanti dall’ipertrofia verticale. Preliminarmente, si deve notare che, a ben vedere, tale fenomeno di per sé non può produrre alcun inconveniente: se, infatti, a un aumento della piccola criminalità corrispondesse una struttura efficiente dell’ordinamento giudiziario, in grado, cioè, di rendere compatibili le capacità operative del sistema processuale rispetto alle esigenze del diritto penale sostanziale, le situazioni patologiche che tra poco esamineremo non dovrebbero in linea di massima verificarsi. Da ciò consegue che gl’inconvenienti derivanti dall’aumento della ‘‘piccola criminalità di tutti i giorni’’ sono per l’esattezza il frutto della combinazione di questo fenomeno con un ulteriore fattore, che consiste nella incapacità della struttura giudiziaria di affrontare la crescente domanda di procedimenti. Ciò premesso, il fenomeno in esame, o meglio la combinazione dei due fenomeni accen(5) Sul punto, v. ampiamente PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 12 ss., circa le cause, e p. 83 ss., circa gli inconvenienti; ID., voce Depenalizzazione, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, 1989, pp. 426-428; GIUNTA, voce Depenalizzazione, in AA.VV., Dizionario di diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, Milano, 1986, p. 192 ss. (nozione), pp. 197-198 (cause), pp. 198-199 (inconvenienti). (6) V. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., pp. 195-197. (7) Così, PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., pp. 197-198. (8) V. ZIPF, Politica criminale, cit., p. 188. (9) In questi termini, PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., pp. 200-202.
— 1476 — nati, incide negativamente soprattutto sul sistema processuale (10). Sotto il profilo della sua funzionalità, l’incremento del numero dei reati di lieve entità comporta una corrispondente crescita del numero dei procedimenti penali pendenti. Tale situazione inflattiva crea anzitutto un congestionamento degli uffici giudiziari che impedisce la concentrazione delle forze disponibili sulla repressione dei reati maggiormente gravi. Secondariamente, favorisce il fenomeno della selezione di fatto che, essendo incontrollata e incontrollabile, non assicura una selezione razionale, ma anzi dà luogo a vere e proprie sperequazioni (11). Infine, genera una notevole dilatazione dei tempi di definizione dei procedimenti. Sotto il profilo più strettamente giuridico, poi, l’esistenza dei processi di selezione di fatto origina una profonda frattura tra obbligatorietà dell’azione penale come principio costituzionale astratto e la sua realtà concreta nella prassi giudiziaria (12). Ma l’ipertrofia verticale incide negativamente anche sul diritto penale sostanziale ed in particolare sull’efficacia preventiva della sanzione penale (13). Essa, infatti, comporta una frustrazione della funzione di prevenzione generale mediante intimidazione, vale a dire una perdita dell’efficacia dissuasiva della pena rispetto ai potenziali autori del reato: la punizione di una parte degli autori selezionati in base a criteri del tutto casuali non permette alla pena di svolgere una funzione deterrente, ma può addirittura costituire uno stimolo ulteriore a commettere fatti illeciti, e questo perché la consapevolezza di poter non incorrere in una sanzione penale per fattori casuali ed indeterminati non può che rafforzare la convinzione o la speranza, sempre presente in chi delinque, di non subire conseguenze sanzionatorie. In termini generali, poi, tutti questi inconvenienti comportano una caduta della credibilità del sistema penale e, quindi, della fiducia che i cittadini ripongono in esso. Se tutto questo è vero, emergono allora in modo evidente gli obiettivi che s’intendono perseguire attraverso l’esclusione della punibilità o della perseguibilità di fatti in concreto esigui. In primo luogo, si vuole razionalizzare e rendere più efficiente il sistema penale attraverso una concentrazione delle risorse disponibili nei settori della criminalità medio-alta. In secondo luogo, e di riflesso, l’adozione di istituti finalizzati a tali risultati rende i meccanismi di selezione più trasparenti e controllabili. La consequenzialità di questo secondo obiettivo non deve essere trascurata. Se, infatti, scopo primario della costruzione di modelli legali di selezione fosse quello di soddisfare esigenze di trasparenza, si potrebbe affermare che il problema del sovraccarico giudiziario non esiste, essendo esso già stato risolto dai meccanismi di selezione di fatto, e che, pertanto, la necessità di attuare una politica deflattiva in realtà non si pone. Ma le cose, come è noto, non stanno così. Nonostante il fenomeno della selezione nella prassi, infatti, il carico giudiziario risulta comunque eccessivamente gravoso. Scopo primario della selezione, pertanto, è quello di fermare prima del livello del giudizio la massa dei reati bagatellari che la stessa prassi non riesce ad eliminare: « bisogna perciò non solo selezionare meglio (più correttamente), ma anche selezionare di più (con maggiore intensità) » (14). Inoltre, anche se la selezione di fatto fosse capace di decongestionare gli uffici giudiziari, la previsione di modelli legali di selezione sarebbe pur sempre opportuna proprio al fine di rendere tali procedimenti più trasparenti e controllabili. (10) Sul punto, v. ampiamente PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 355 ss. (11) Sull’inconveniente della c.d. ‘‘depenalizzazione di fatto’’ insiste molto PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 203 ss. V. anche FIANDACA, La giustizia penale in Bicamerale, cit., cc. 163-164. (12) Sulla scarsa effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale, v., per tutti, CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in Cass. pen., 1993, p. 2666 ss. (anche in ID., L’azione penale tra diritto e politica, Padova, 1995, p. 118 ss.); MARZADURI, Sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, in Il ponte, 1998, II-III, p. 106 ss. (13) In tal senso, v. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 217. (14) Così, PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 358.
— 1477 — Altra questione, poi, è quella relativa all’idea per cui tutti questi inconvenienti potrebbero essere risolti mediante una riorganizzazione degli uffici giudiziari (es. aumento del personale), eliminando cioè quel fattore che, come abbiamo visto, concorre assieme all’aumento della piccola criminalità a cagionare le disfunzionalità. Nonostante l’esattezza di tale affermazione, occorre tuttavia rilevare anzitutto che i tempi di siffatta operazione risulterebbero sicuramente più lunghi e i costi più alti. Inoltre, anche in un sistema in cui l’apparato giudiziario risulta efficiente e ben organizzato, la previsione di meccanismi di selezione consente di perseguire in modo più efficace i fatti gravi. Infine, la previsione di tali istituti non solo incide positivamente sulla funzionalità del sistema ma, da un punto di vista — per così dire — della giustizia sostanziale, permette anche di evitare la punizione di fatti per i quali la sanzione penale può risultare sproporzionata rispetto all’esiguità del fatto realizzato. A questo punto, proprio sulla base di quest’ultima considerazione, occorre rilevare che identificare l’ipertrofia verticale del diritto penale con il solo aumento della piccola criminalità risulta per certi aspetti riduttivo. A ben vedere, infatti, oltre al fenomeno appena esaminato dell’incremento delle violazioni attraverso reati in concreto esigui, nella ipertrofia verticale sembra poter rientrare anche un altro fenomeno, consistente nella ‘‘eccessiva’’ punizione di fatti conformi alle fattispecie incriminatrici, dove l’eccesso di tale punizione non dipende tanto dalla componente statistico-criminologica della frequenza del fatto esiguo, ma anche dalla componente — per così dire — intrinseca dell’esiguità dello stesso. Detto in altri termini, di ipertrofia verticale del diritto penale si può parlare anche, e per certi aspetti prima ancora e più propriamente, con riferimento al fenomeno della punizione di tutti i fatti conformi alla fattispecie legale astratta, quale che sia il grado della loro gravità concreta. In questo caso, quindi, è solo il carattere della concreta esiguità del reato e non anche la sua diffusione che connota tale fenomeno. Questa seconda tipologia di ipertrofia verticale, che trova la propria eziologia in fattori interni al diritto penale sostanziale, e più precisamente nella tradizionale e, per certi aspetti, formalistica idea di punire tutti i fatti che risultano conformi al tipo, produce inconvenienti assai diversi rispetto a quelli cagionati dal primo tipo di fenomeno. Essa comporta anzitutto una frustrazione delle funzioni di prevenzione speciale della pena. L’esecuzione (e ancor prima l’irrogazione) della pena nei confronti di un soggetto che ha posto in essere un reato esiguo — e vedremo meglio in seguito quali sono i criteri per compiere siffatta valutazione — può, infatti, risultare eccessiva, sproporzionata, irragionevole. Tale fenomeno, poi, si pone in contrasto con i principi di politica criminale di extrema ratio e di proporzione della pena (15), i quali devono essere rispettati non solo su un piano astratto, di previsione legislativa delle fattispecie, ma anche su un piano concreto, di applicazione giurisdizionale delle stesse: il ricorso alla pena è giustificato quando strumenti sanzionatori di diversa natura non sono in grado di offrire adeguata tutela e quando il disvalore del fatto (non solo astratto, ma anche concreto) è di gravità tale da giustificare il sacrificio dei beni e gli effetti negativi collaterali che la pena comporta. Appare evidente, allora, come in questo caso scopo primario della depenalizzazione in concreto non sia tanto quello di fronteggiare inconvenienti relativi alla funzionalità del sistema processuale, quanto piuttosto di soddisfare esigenze prevalentemente ‘‘equitative’’, evitando l’inflizione della pena e il relativo giudizio di stigmatizzazione per fatti privi di un significativo disvalore: in sostanza, si cerca di limitare l’ambito ‘‘verticale’’ di applicazione di fattispecie incriminatrici che normalmente abbracciano fatti medi e gravi, ma che possono abbracciare anche fatti lievi, riservando la pena soltanto ai primi. Tuttavia, anche in questa (15) Su tali principi, v. ampiamente ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 163 ss.; DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in questa Rivista, 1984, p. 606 ss.; PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, ivi, 1984, p. 953 ss.; PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, ivi, 1992, p. 455 ss.
— 1478 — ipotesi, non si può negare l’eventualità che nel perseguire un tale obiettivo possano essere soddisfatte in modo consequenziale esigenze deflattive. Concludendo, da quanto detto sulla ipertrofia verticale del diritto penale emerge come all’interno di questo fenomeno apparentemente unitario rientrano, a ben vedere, due situazioni diverse per cause e inconvenienti: da un lato, v’è il fenomeno contrassegnato dalle due componenti della esiguità del reato e della sua diffusione, che incide negativamente soprattutto sulla funzionalità del sistema; dall’altro, vi è un fenomeno caratterizzato dalla sola esiguità del reato che si pone in netto contrasto con una concezione del diritto penale come ultima ratio. Tuttavia, nonostante le loro differenze, non si può non rilevare come entrambi i fenomeni si caratterizzino per la componente dell’esiguità del fatto concreto e come, inoltre, proprio per questo minimo denominatore comune, non è detto che debbano essere affrontati mediante soluzioni differenziate (v. infra § 4). 3. Passando all’analisi delle soluzioni adottate da alcuni ordinamenti europei in rapporto a fatti in concreto esigui, nel sistema penale tedesco, come accennato all’inizio, i §§ 153 e 153a dStPO disciplinano alcuni istituti ‘‘archiviatori’’ che possono trovare applicazione sia prima che dopo l’esercizio dell’azione penale. 1) Se l’azione penale non è stata ancora esercitata, l’iniziativa spetta al pubblico ministero e possono essere distinte tre ipotesi. a) La prima, disciplinata dal § 153, comma 1, parte 1, dStPO, attiene alla fase istruttoria, e più precisamente alla fase delle indagini: il pubblico ministero, con il consenso del giudice competente per l’apertura del dibattimento, può rinunciare al perseguimento (absehen von der Verfolgung) dei delitti (Vergehen), se la colpevolezza dell’autore ‘‘sarebbe da considerarsi esigua’’ e se manca l’interesse pubblico al perseguimento. b) Anche la seconda ipotesi, disciplinata dal § 153, comma 1, parte 2, dStPO, attiene alla fase delle indagini. Essa, prevedendo la rinuncia al perseguimento anche senza il consenso del giudice, richiede un numero maggiore di presupposti: sul piano formale, non si deve trattare di un qualsiasi delitto, bensì di un delitto per il quale non è comminata una pena aggravata nel minimo; sul piano sostanziale, poi, oltre all’esiguità della colpevolezza e alla mancanza dell’interesse pubblico al perseguimento, è necessario che le conseguenze (Folgen) derivanti dal fatto siano esigue. Occorre rilevare che l’attuale testo di questa disposizione è il frutto di una modifica avvenuta nel 1993 (16). Originariamente, infatti, il § 153, comma 1, parte 2, dStPO, trovava applicazione soltanto nel caso di delitti contro il patrimonio (Vermögensvergehen), con esclusione, pertanto, dei delitti contro la persona, come ad esempio le lesioni personali, e presupponeva che il danno (Schaden) cagionato dal fatto fosse esiguo (17). c) L’ultima ipotesi, disciplinata dal § 153a, comma 1, dStPO, attiene al momento finale della fase istruttoria e prende il nome di archiviazione condizionata: il pubblico ministero, con il consenso del giudice competente per l’apertura del dibattimento e stavolta anche dell’imputato, può rinunciare provvisoriamente all’esercizio dell’azione penale (vorläufig von der Erhebung der öffentlichen Klage absehen) e contestualmente imporre all’imputato di adempiere, entro un termine fissato, determinati oneri (Auflagen) ed ordini (Weisungen), se tali prescrizioni sono in grado di eliminare l’interesse pubblico al perseguimento e se la gravità della colpevolezza (Schwere der Schuld) non lo esclude. Le prescrizioni possono consistere nel risarcimento del danno, nel pagamento di una somma di denaro ad istituti di assistenza o allo Stato, nella esecuzione di prestazioni socialmente utili oppure nell’adempimento agli obblighi degli alimenti. Nel caso di corretto adempimento da parte dell’imputato (16) Sul punto, v. MEYER-GOßNER, Änderungen der Strafprozeßordnung durch das Rechtpflegeentlastungsgesetz, in NJW, 1993, p. 499. (17) Sul punto, v. KLEINKNECHT-MEYER, Strafprozeßordnung, 43. Aufl., München, 1997, 16-17 vor § 153.
— 1479 — entro il termine fissato, il pubblico ministero procede all’archiviazione con decreto non impugnabile. È opportuno ricordare che anche questa disposizione è stata riformata nel 1993 (18). Prima di tale riforma essa trovava applicazione quando la colpevolezza risultava esigua, per cui, da un punto di vista dei presupposti, si differenziava dal § 153 dStPO solo per la presenza dell’interesse pubblico al perseguimento. Secondo la formulazione attuale, invece, mentre il § 153 dStPO presuppone la presenza di una colpevolezza esigua e la mancanza di un interesse pubblico al perseguimento, il § 153a dStPO richiede la sussistenza di tale interesse e la presenza di una colpevolezza la cui gravità non deve essere di ostacolo alla rinuncia provvisoria dell’azione penale (19). La differenza decisiva tra le due disposizioni resta ancora il fatto che nel § 153 dStPO l’imputato va esente da qualsiasi sanzione, mentre nel § 153a dStPO gli vengono imposti determinati oneri e ordini che assumono il carattere di sanzioni (non penali). 2) Se l’azione penale è stata esercitata, l’iniziativa spetta al giudice. a) In particolare, se ricorrono i presupposti di cui al § 153, comma 1, dStPO, il giudice, in qualsiasi fase del processo, può disporre l’archiviazione del procedimento con il consenso del pubblico ministero e dell’imputato (§ 153, comma 2, dStPO). b) Se, invece, ricorrono i presupposti dell’archiviazione condizionata (§ 153a, comma 1, dStPO), il giudice, sempre con il consenso del pubblico ministero e dell’imputato, ma fino alla fine del dibattimento nel quale possono essere valutati per l’ultima volta gli accertamenti di fatto, può archiviare provvisoriamente il procedimento ed imporre contemporaneamente all’imputato gli oneri e gli ordini suddetti. Se l’imputato adempie nel termine fissato, il giudice dispone l’archiviazione con decreto non impugnabile (§ 153a, comma 2, dStPO). Esposta a grandi linee la disciplina, occorre anzitutto soffermarsi sulla ratio delle due norme. Da una parte della dottrina è stato sostenuto che attraverso queste disposizioni il legislatore tedesco ha inteso perseguire essenzialmente una duplice finalità. In primo luogo, e prioritariamente, soddisfare un’esigenza di economia processuale che consentisse di perseguire in modo più efficace i fatti dotati di un maggiore disvalore e di accelerare i tempi di definizione dei procedimenti. In secondo luogo, e consequenzialmente, a tali disposizioni è stata riconosciuta anche una funzione di politica criminale e, più precisamente, una funzione di decriminalizzazione-depenalizzazione di fatti di scarsa entità (20). Secondo un’altra parte della dottrina, invece, l’ordine delle finalità perseguite dalle due disposizioni deve essere — per così dire — invertito, per cui esse costituiscono non tanto strumenti diretti a decongestionare gli uffici giudiziari, quanto piuttosto mezzi per salvaguardare anche in ambito applicativo la funzione di ultima ratio del diritto penale e per evitare l’effetto stigmatizzante che consegue ad una pronuncia di condanna (21). Che poi venga (18) Sul punto, v. MEYER-GOßNER, Änderungen der Strafprozeßordnung durch das Rechtpflegeentlastungsgesetz, cit., p. 499; FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, in ZStW, 1994, pp. 31-32. (19) Sulle ragioni della riforma e sugli effetti che discendono dalla nuova formulazione del § 153a dStPO, v. ampiamente FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., pp. 31-32. (20) In questo senso, v. MEYER-GOßNER, in LÖWE-ROSENBERG, Die Strafprozeßordnung und das Gerichtsverfassungsgesetz. Großkommentar, Band 2, 23. Aufl., Berlin-New York, 1978, 1 vor § 153. (21) In questo senso, v. RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, 24. Aufl., Berlin-New York, 1986, 3-4 vor § 153a; similmente HÜNERFELD, Kleinkriminalität und Strafverfahren, in ZStW, 1978, p. 917 ss.; FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., pp. 24-25.
— 1480 — soddisfatta anche un’esigenza deflattiva, ciò consegue dal fatto che la finalità di decriminalizzazione è perseguita con uno strumento processuale (22). A nostro parere, una conferma della correttezza di questa seconda impostazione, sembra venire proprio dalla disciplina delle due disposizioni e in particolare dalla loro portata generale. Se, infatti, il legislatore avesse voluto prevalentemente porre rimedio agli inconvenienti processuali derivanti dalla piccola criminalità di tutti i giorni, e cioè dai fatti in concreto esigui e diffusi, avrebbe circoscritto l’ambito di applicazione ai soli delitti statisticamente diffusi. Al contrario, la portata generale di queste disposizioni dimostra proprio come il legislatore tedesco abbia inteso escludere l’inflizione della pena a tutti i delitti che risultano in concreto bagatellari. Tuttavia, occorre rilevare che con la riforma del 1993 la funzione deflattiva del § 153a dStPO è stata rafforzata: essendo ammessa l’archiviazione anche di fatti dotati di maggiore disvalore (la colpevolezza non deve essere così grave da opporsi alle prescrizioni), risulta evidente come in questi casi la disposizione serva essenzialmente ad una semplificazione del procedimento e ad un alleggerimento della giurisdizione penale (23). È opportuno osservare, poi, che mentre il § 153 dStPO realizza una vera e propria ‘‘decriminalizzazione’’, in quanto fa salvo l’imputato da ogni conseguenza giuridica punitiva, al contrario il § 153a dStPO dà luogo ad una sorta di depenalizzazione poiché prevede una risposta sanzionatoria diversa da quella penale, ma pur sempre afflittiva. Se poi si considera che di tutte le prescrizioni imponibili all’imputato, quella consistente nel pagamento di una somma di denaro allo Stato è di gran lunga la più utilizzata (94% nel 1987) (24), risulta evidente come i delitti in concreto esigui siano stati ricondotti ad una disciplina sanzionatoria molto simile a quella dell’illecito punitivo amministrativo. In sostanza, gli istituti di cui ai §§ 153 e 153a dStPO, pur essendo collocati in ambito processuale, sembrano essere diretti essenzialmente a fronteggiare quel fenomeno di ipertrofia verticale del diritto penale che, come abbiamo visto, è caratterizzato in particolare dall’esiguità del fatto concreto. Solo di riflesso, poi, proprio a causa della loro collocazione, realizzano anche una deflazione processuale. Individuate le funzioni delle due disposizioni, conviene adesso soffermarci con maggiore attenzione sulla loro disciplina. Come è noto, esse costituiscono delle ‘‘deroghe’’ al principio di obbligatorietà dell’azione penale (Legalitätsprinzip), sancito in Germania soltanto dal § 152, comma 2, dStPO, e non anche dalla Legge fondamentale (GG). Alcuni autori le considerano espressione del principio di opportunità dell’azione penale (25). Secondo un’altra parte della dottrina, invece, tali deroghe non introducono ipotesi di vera e propria opportunità, in quanto si tratterebbe piuttosto di istituti che, essendo ispirati ad un principio — per così dire — di discrezionalità in senso stretto o vincolata (pflichtgemässes Ermessen), limitano, ma non contrastano con il principio di obbligatorietà (26): (22) Così RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, cit., 4 vor § 153a. (23) Sullo scopo deflattivo della ‘‘legge per lo sgravio dell’amministrazione della giustizia’’ del 1993, v. FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 31, il quale osserva come nella relazione di accompagnamento di tale legge l’aspetto della decriminalizzazione non sia più menzionato. (24) V. SCHÖCH, in AA.VV., Kommentar zur Strafprozeßordnung, Band 2/Teilband 1, Neuwied-Kriftel-Berlin, 1992, 6 vor § 153a. (25) In tal senso, v. per tutti HIRSCH, Zur Behandlung der Bagatellkriminalität in der Bundesrepublik Deutschland, in ZStW, 1980, p. 228; ROXIN, Strafverfahrensrecht. Ein Studienbuch, München, 1995, 6 vor § 14. (26) In questo senso, v. SCHOREIT, in PFEIFFER, Karlsruher Kommentar zur Strafprozeßordnung, 2. Aufl., München, 1987, 2 vor § 153. Sul punto, v. anche G. CORDERO, Oltre il ‘‘patteggiamento’’ per i reati bagatellari? La limitata discrezionalità dell’azione penale operante nell’ordinamento tedesco-federale e il ‘‘nostro’’ art. 112 Cost., in Legisl. pen., 1986, p. 663.
— 1481 — infatti, mentre l’opportunità implica il riconoscimento di un potere decisorio totalmente svincolato da parametri legislativamente indicati, la discrezionalità (in senso stretto) impone di decidere sulla base di criteri determinati dalla legge. In sostanza, l’organo giudiziario si limita a verificare se ricorrono i singoli requisiti e, se tale verifica risulta positiva, dispone l’archiviazione, senza per questo compiere alcuna valutazione di opportunità (27). Come accennato i §§ 153 e 153a dStPO possono trovare applicazione solo in caso di Vergehen, cioè di reati puniti con una pena detentiva inferiore nel minimo a un anno o con una pena pecuniaria (§ 12, comma 2, dStGB). Tale limitazione, a nostro parere, non si fonda esclusivamente sull’idea secondo la quale l’esiguità del fatto deve essere valutata in astratto prima ancora che in concreto e non risponde soltanto ad esigenze di prevenzione generale, al fine di escludere l’archiviazione per i reati più gravi già sotto il profilo edittale; a ben vedere, infatti, essa sembra derivare anche da una considerazione di coerenza sistematica: dopo la trasformazione delle contravvenzioni (Übertretungen) in illeciti punitivi amministrativi, il legislatore tedesco ha compiuto una depenalizzazione in concreto dei delitti, riservando l’applicazione della pena ai soli delitti gravi ed ai crimini (Verbrechen), crimini che non potrebbero mai essere considerati esigui, né in concreto, né, tanto meno, in astratto (28). Per quanto concerne i criteri e i presupposti assunti a base del giudizio di esiguità, mentre nel § 153 dStPO la colpevolezza deve essere esigua, nel § 153a dStPO la gravità della stessa non deve opporsi alla sospensione del procedimento. Anzitutto occorre rilevare che il concetto di colpevolezza corrisponde a quello utilizzato per la commisurazione della pena (Strafzumessungsschuld) (29). Nella sua graduazione, pertanto, si può fare riferimento a tutti gli indici fattuali indicati nel § 46, comma 2, dStGB: così, possono essere presi in considerazione non solo i fattori concernenti il fatto, come, ad esempio, i motivi e gli scopi dell’autore (es. furto commesso per necessità), le modalità esecutive e le conseguenze colpevoli del fatto, ma anche le circostanze che attengono alla personalità del reo, come la condotta successiva al fatto (es. sforzo per risarcire il danno), la vita anteatta e le sue condizioni personali ed economiche. Il giudizio di esiguità della colpevolezza può inoltre estendersi anche ad altre circostanze ed elementi che accompagnano il processo motivazionale dell’autore, come le semi-scusanti e le quasi-scriminanti: così, ad esempio, possono rilevare l’imputabilità diminuita (§ 21 dStGB); l’errore evitabile sul precetto, che ai sensi del § 17 dStGB può comportare una diminuzione di pena; le scriminanti della legittima difesa e dello stato di necessità delle quali non siano stati integrati tutti gli elementi costitutivi (30). Il giudizio di esiguità deve essere compiuto in relazione al singolo tipo di fattispecie incriminatrice integrata. La colpevolezza si considera esigua (§ 153 dStPO) quando, rispetto al delitto in questione, risulta in modo considerevole ‘‘sotto la media’’, e, più precisamente, quando le circostanze, complessivamente considerate, risultano favorevoli al reo, con la conseguenza che una potenziale sanzione sarebbe rimasta nell’ambito inferiore dello spazio di (27) Sul punto, v. anche FEZER, Strafprozeßrecht I, München, 1986, p. 8. (28) V. similmente FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 24. (29) Sul punto v., fra i molti, BOXDORFER, Das öffentliche an der Strafverfolgung trotz geringer Schuld des Täters, in NJW, 1976, p. 318; HOBE, ‘‘Geringe Schuld’’ und ‘‘öffentliche Interesse’’ in den §§ 153 und 153a StPO, in Festschrift für H. Leferenz, Heidelberg, 1983, pp. 634-636; KUNZ, Das Strafrechtliche Bagatellprinzip. Eine strafrechtsdogmatische und kriminalpolitische Untersuchung, Berlin, 1984, p. 266 ss. Di contrario avviso, nel senso che si dovrebbe fare riferimento alla colpevolezza del fatto (Tatschuld), con esclusione di tutte le circostanze prese in considerazione in sede di commisurazione della pena (precedenti giudiziari, condotta susseguente al reato), KRÜMPELMANN, Die Bagatelldelikte. Untersuchungen zum Verbrechen als Steigerungsbegriff, Berlin, 1966, p. 99 e pp. 212-213; VOGLER, Möglichkeiten und Wege einer Entkriminalisierung, in ZStW, 1978, pp. 166-167. (30) V., per tutti, KUNZ, Das Strafrechtliche Bagatellprinzip, cit., p. 229 ss.
— 1482 — pena (31). Per l’applicazione del § 153a dStPO, invece, la colpevolezza deve risultare non troppo grave (nicht zu schwer), per cui tale norma si ritiene applicabile anche a casi di ‘‘criminalità media’’, dotata, cioè di un maggiore disvalore soggettivo (32). Se il requisito della esiguità (non gravità) della colpevolezza è sufficientemente determinato (33), anche grazie alle numerose indicazioni codicistiche concernenti gli elementi che connotano il contenuto del giudizio di rimproverabilità, il presupposto della mancanza (§ 153 dStPO) o della presenza (§ 153a dStPO) dell’interesse pubblico al perseguimento risulta, invece, assai vago (34). Esso viene ricondotto alle funzioni della pena (35), per cui si ritiene che sussista quando la rinuncia al proseguimento del procedimento può indurre l’autore a commettere nuovi reati (e, quindi, il procedimento penale si considera necessario per ragioni di prevenzione speciale concernenti, cioè, la persona dell’autore) oppure quando tale rinuncia può compromettere la salvaguardia degli interessi della comunità (e, pertanto, la punizione appare necessaria per ragioni di prevenzione generale, relative, cioè, alla tutela della società). In particolare, nella valutazione delle ragioni di prevenzione speciale vengono, ad esempio, in considerazione l’atteggiamento interiore (Gesinnung) di ostilità avuto dall’autore nei confronti della società oppure il disprezzo manifestato dallo stesso verso le autorità statali (36). Contro questi fattori, tuttavia, sono state opportunamente avanzate alcune riserve: la loro considerazione — si è notato — se è tipica di un diritto penale dell’intenzione, risulta estranea ad un diritto penale del fatto (37). In questo contesto, pertanto, può giocare un ruolo soltanto l’esistenza di eventuali precedenti penali (38), la quale, però, costituisce un fattore che già rientra nell’oggetto del giudizio di esiguità della colpevolezza. Il requisito dell’interesse pubblico al perseguimento, pertanto, viene essenzialmente ricondotto allo scopo di prevenzione generale (39) e sussiste quando ‘‘l’archiviazione può mettere in pericolo la società’’ (40), quando, cioè, ad esempio le conseguenze derivanti dal fatto sono eccezionali; sussiste la possibilità che fatti analoghi siano commessi da altri sog(31) In questo senso, con qualche differenza, v. BOXDORFER, Das öffentliche an der Strafverfolgung trotz geringer Schuld des Täters, cit., p. 317; HOBE, ‘‘Geringe Schuld’’ und ‘‘öffentliche Interesse’’ in den §§ 153 und 153a StPO, cit., p. 633. (32) V. MEYER-GOßNER, Änderungen der Strafprozeßordnung durch das Rechtpflegeentlastungsgesetz, cit., p. 499; FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 31. (33) Così RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, cit., 18 vor § 153. V. però anche FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 32, secondo il quale l’introduzione del concetto della gravità della colpevolezza ha comportato un abbassamento della determinatezza di tale requisito. (34) In questo senso, v., per tutti, RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, cit., 18 vor § 153. (35) In tal senso si esprime la totalità della dottrina, v. RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, cit., 18 ff. e 25 ff. vor § 153; SCHÖCH, in AA.VV., Kommentar zur Strafprozeßordnung, Band 2/Teilband 1, cit., 20 ff. vor § 153, secondo il quale il riferimento al criterio finalistico della prevenzione generale, non comporta l’illegittimità della disposizione, in quanto, se per la commisurazione della pena la considerazione di ragioni di prevenzione generale è problematica, in questo caso è da ammettere, visto che gioca a favore dell’autore del reato. (36) V. MEYER-GOßNER, in LÖWE-ROSENBERG, Die Strafprozeßordnung und das Gerichtsverfassungsgesetz. Großkommentar, Band 2, cit., 20 vor § 153. (37) Così, SCHOREIT, in PFEIFFER, Karlsruher Kommentar zur Strafprozeßordnung, cit., 23 vor § 153. (38) V. RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, cit., 28 vor § 153. (39) SCHOREIT, in PFEIFFER, Karlsruher Kommentar zur Strafprozeßordnung, cit., 24 vor § 153. (40) V. MÜLLER, in FEZER-PAULUS, Kommentar zur Strafprozeßordnung, NeuwiedKriftel-Berlin, 1987, 6 vor § 153.
— 1483 — getti; la posizione dell’autore o della vittima ha un certo rilievo nella vita pubblica (essendo, peraltro, non pacifico quest’ultimo criterio). È da notare, poi, che, nonostante questa interpretazione del requisito in esame, l’archiviazione incondizionata viene ammessa anche se il fatto è diffuso, e questo perché — come si afferma — la valutazione deve esser compiuta caso per caso, sulla base delle circostanze concrete del fatto, per cui nulla toglie che, nonostante la presenza di un reato diffuso, in quel particolare caso concreto manchino le ragioni di prevenzione generale (41). Da quanto detto emerge in modo evidente come il modello di reato in concreto esiguo (c.d. bagatellare improprio) elaborato dalla dottrina tedesca corrisponda ad una ‘‘commisurazione anticipata della pena’’, nel senso che per la sua identificazione l’organo giudiziario deve fare riferimento a tutti i fattori che sono necessari per la commisurazione della pena, con l’unica differenza che, in questo caso, non si decide sul quantum della pena, ma sull’an della stessa (42). A nostro parere, tale impostazione suscita non poche perplessità. In primo luogo, già la stessa collocazione degli istituti in esame in ambito processuale e, più precisamente, la loro qualificazione come condizioni di improcedibilità, non sembra essere coerente: una commisurazione (anticipata) della pena, e cioè la considerazione di tutta una serie di fattori compresi quelli che riguardano l’autore del reato, come ad esempio la sua vita anteatta, può essere riservata solo al giudice, e questo perché non si può riconoscere al pubblico ministero una piena potestà giurisdizionale. Inoltre, se quanto appena affermato vale soprattutto per l’archiviazione senza il consenso del giudice (§ 153, comma 1, parte 2, dStPO), con riguardo alle archiviazioni subordinate a tale consenso, occorre rilevare che, da un lato, un giudizio complesso come quello sulla personalità dell’autore esige accertamenti così approfonditi e valutazioni così ponderate che difficilmente possono essere realizzate durante la fase delle indagini preliminari e che, dall’altro, tale giudizio, avendo il suo scopo nelle esigenze di individualizzare la sanzione penale e in quelle specialpreventive, presuppone l’accertamento del fatto e, quindi, della responsabilità dell’imputato. In secondo luogo, la riconduzione del requisito dell’öffentliche Interesse an der Verfolgung agli scopi della pena finisce per contrastare con la stessa ragione della sua previsione. Più precisamente, tale requisito risulta coerente con una qualificazione degli istituti come condizioni di improcedibilità alla condizione che sia concepito come estraneo al fatto e al suo autore; al contrario, nel momento in cui è ricondotto alle funzioni della pena, esso acquista una connotazione — per così dire — sostanziale, che difficilmente si concilia con la natura archiviatoria dell’istituto. E non è un caso, infatti, che una parte autorevole della dottrina rinomini il requisito in esame ‘‘interesse pubblico alla punizione’’ (öffentliche Interesse an der Bestrafung) (43). Non solo. Dopo la riforma del 1993, il pubblico interesse al perseguimento è divenuto l’unico criterio per l’archiviazione di cui al § 153a. Il giudizio di esiguità della colpevolezza ha, infatti, una funzione molto limitata, con la conseguenza che anche nei casi di colpevolezza grave l’archiviazione s’impone (44). Se da un punto di vista pratico ciò comporta un ampliamento dell’ambito di applicazione della disposizione, su un piano — per così dire — (41) Per tale opinione, v. RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, cit., 28 vor § 153; in termini più problematici SCHOREIT, in PFEIFFER, Karlsruher Kommentar zur Strafprozeßordnung, cit., 26 vor § 153. Sul punto, v. anche le giuste osservazioni di PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 730, secondo il quale, il riferimento ai criteri finalistici della prevenzione speciale e generale entra in contraddizione con la criminalità bagatellare di massa. (42) In questo senso, v. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 731. Sul punto, v. ampiamente KUNZ, Das Strafrechtliche Bagatellprinzip, cit., p. 198 ss. e p. 250 ss. (43) Così, RIEß, in LÖWE-ROSENBERG, Strafprozeßordnung. Großkommentar, cit., 25 vor § 153; FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 29. (44) V. FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 31.
— 1484 — concettuale, appare evidente come il modello di reato bagatellare risulti trasformato, se non addirittura ‘‘stravolto’’, e questo perché possono essere archiviati anche fatti in concreto dotati di un consistente disvalore. Infine, notevoli perplessità sono suscitate anche dalla eccessiva estensione dell’oggetto del giudizio di esiguità della colpevolezza. Come abbiamo visto, esso costituisce un giudizio di ponderazione-bilanciamento di tutte le circostanze favorevoli e sfavorevoli all’autore del reato e tali circostanze possono consistere non solo in componenti di riprovevolezza soggettiva, ma anche in elementi di disvalore oggettivo oppure concernenti la personalità dell’autore. Da questa ‘‘onnicomprensività’’ del giudizio, consegue, in primo luogo, che le tre componenti che costituiscono il tipo bagatellare (disvalore di evento, colpevolezza, personalità dell’autore) non hanno un ruolo paritario, nel senso che ai fini dell’applicazione degli istituti archiviatori esaminati non è necessario che tutte e tre le componenti risultino contestualmente esigue, per cui nulla esclude che si eserciti l’azione penale per una lesione personale lieve commessa con dolo intenzionale da un soggetto pienamente imputabile e con precedenti penali oppure che tale azione non sia esercitata nei confronti di una lesione oggettivamente più grave commessa con dolo eventuale da un semimputabile. In secondo luogo, consegue che, data la mancanza di un’indicazione legislativa circa la gerarchia degli indici di esiguità, tale ordine gerarchico sarà stabilito di volta in volta dai singoli pubblici ministeri e giudici a seconda della propria concezione del diritto penale, per cui, nel primo esempio che abbiamo fatto, chi riterrà prevalente il disvalore di evento non eserciterà l’azione penale, mentre chi assegnerà la supremazia alla colpevolezza agirà nel modo opposto, con serio rischio per la certezza del diritto e per la parità di trattamento. Contrariamente alle aspettative della dottrina (45), la normativa in esame ha avuto un’estesa applicazione (46), con conseguente riduzione dell’inflizione di pene detentive brevi e snellimento nell’amministrazione della giustizia. In particolare, i procedimenti archiviati nel 1987 ai sensi del § 153a dStPO sono stati 203.404, di cui 51.499 (25,3%) dal giudice e 151.905 (74,7%) dal pubblico ministero; il § 153 dStPO, poi, ha continuato ad avere una frequente applicazione anche dopo l’introduzione dell’archiviazione condizionata (47). Nonostante questo successo pratico, numerose, però, continuano ad essere le critiche mosse alla normativa in esame (soprattutto al § 153a dStPO) (48), le quali, peraltro, risultano rafforzate dopo la riforma del 1993 (49). In primo luogo, secondo una parte della dottrina, l’indeterminatezza dei presupposti delle archiviazioni, e soprattutto del criterio del (45) V., per tutti, RIEß, Entwicklung und Bedeutung der Einstellungen nach § 153 a StPO, in ZRP, 1983, p. 98. (46) Sul punto, v. SCHÖCH, in AA.VV., Kommentar zur Strafprozeßordnung, Band 2/Teilband 1, cit., 3 vor § 153 e 5 vor § 153a; RIEß, Zur Weiteren Entwicklung der Einstellungen nach § 153a StPO, in ZRP, 1985, p. 213 ss. (47) Questi dati sono riportati da SCHÖCH, in AA.VV., Kommentar zur Strafprozeßordnung, Band 2/Teilband 1, cit., 5 vor § 153a. V. anche i dati riportati da HEINZ, Die Staatsanwaltschaft Selektions- und Sanktionsinstanz im statistischen Graufeld, in Festschrift für G. Keiser, Berlin, 1998, p. 96, dai quali emerge che dei 4.327.190 procedimenti ‘‘sbrigati’’ nel 1996 contro indiziati noti, con esclusione, pertanto, dei procedimenti archiviati perché l’indiziato è rimasto sconosciuto, ben 1.170.407 procedimenti (27%) sono stati archiviati mediante istituti ispirati al principio di ‘‘opportunità’’, ed in particolare 247.116 (5,7%) in base alle archiviazioni condizionate (tra le quali rientra, oltre al § 153a dStPO, anche il § 45, comma 3, JGG, simile al nostro istituto dell’irrilevanza del fatto previsto per il processo penale minorile) e 923.291 procedimenti (21,3%) in base alle archiviazioni incondizionate (tra le quali rientra anche il § 153 dStPO). (48) Sul punto v. ampiamente HIRSCH, Zur Behandlung der Bagatellkriminalität in der Bundesrepublik Deutschland, cit., p. 226 ss.; MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, Napoli, 1984, p. 305 ss. Per un ampio resoconto, v. anche KUNZ, Das Strafrechtliche Bagatellprinzip. Eine strafrechtsdogmatische und kriminalpolitische Untersuchung, cit., p. 57 ss.; (49) Così, FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 32.
— 1485 — pubblico interesse al perseguimento (ma oggi anche di quello della non gravità della colpevolezza), comporterebbe una violazione del principio di legalità e, più precisamente, del principio di determinatezza sancito dall’art. 103, comma 2, GG (50). In secondo luogo, l’ampio margine di discrezionalità nella applicazione della norma e delle prescrizioni di cui al § 153a dStPO, dovuto appunto alla indeterminatezza dei presupposti, comporterebbe una disparità di trattamento tale da violare il principio di eguaglianza sancito nell’art. 3 GG (51). Inoltre, muovendo dall’idea per cui le Auflagen e Weisungen hanno natura penale (52), il § 153a dStPO violerebbe l’art. 92 GG (53), che assegna il compito di infliggere le sanzioni penali esclusivamente alla competenza del giudice. Infine, poiché l’applicazione di tali sanzioni avviene sulla base della presenza di sufficienti indizi di colpevolezza, si avrebbe anche la violazione del principio di presunzione di non colpevolezza, garantito dal combinato disposto degli artt. 6, comma 2 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e 20, comma 3, GG (54). Contro queste ultime due critiche è stato, però, notato che le sanzioni di cui al § 153a dStPO non hanno natura penale (55), in quanto l’imputato deve dare il proprio consenso e, anche dopo averlo dato, può sempre non adempiere (56). In sostanza, il § 153a dStPO disciplinerebbe una particolare definizione del procedimento mediante volontaria ‘‘sottomissione’’ dell’imputato all’esecuzione di Auflagen e Weisungen, che, pur costituendo sanzioni, non hanno natura penale (57). Tuttavia non si può negare che la posizione di imputato (o di indagato) non permette una scelta pienamente libera (58). Concludendo, si può affermare che l’incidenza di questi istituti archiviatori nella prassi dipende soprattutto dal fatto che il legislatore, attraverso la previsione di criteri particolarmente elastici (giudizio di esiguità della colpevolezza) o indeterminati (interesse pubblico al perseguimento), ha lasciato ampi margini di discrezionalità al pubblico ministero e al giudice. 3.1. Nel sistema penale austriaco, i fatti in concreto esigui non sono puniti ai sensi del § 42 öStGB. Secondo la maggioranza della dottrina, scopo della disposizione non è solo quello di evitare l’inflizione di una pena per fatti così tenui da non giustificarla, ma anche quello di (50) In questo senso, v. da ultimo FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 25 e p. 32. Nella manualistica v. SCHÖCH, in AA.VV., Kommentar zur Strafprozeßordnung, Band 2/Teilband 1, cit., 4 vor § 153a. (51) Sul punto, v. SCHÖCH, in AA.VV., Kommentar zur Strafprozeßordnung, Band 2/Teilband 1, cit., 4 vor § 153a. (52) In questo senso, v., per tutti, HIRSCH, Zur Behandlung der Bagatellkriminalität in der Bundesrepublik Deutschland, cit., pp. 224-225; MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, cit., pp. 303-305. (53) A tale proposito, v. HIRSCH, Zur Behandlung der Bagatellkriminalität in der Bundesrepublik Deutschland, cit., p. 231; KÜHNE, Strafprozeßlehre, 3. Aufl., Heidelberg 1988, 300 vor § 33. (54) V. HIRSCH, Zur Behandlung der Bagatellkriminalität in der Bundesrepublik Deutschland, cit., pp. 232-233. (55) In questo senso v. , fra i molti, DREHER, Die Behandlung der Bagatellkriminalität, in Festschrift für H. Welzel, Berlin-New York, 1974, pp. 938-939; KLEINKNECHT-MEYER, Strafprozeßordnung, cit., 12 vor § 153a. (56) Così, KLEINKNECHT-MEYER, Strafprozeßordnung, cit., 12 vor § 153a. In questo senso, da ultimo, v. FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 33. (57) SCHÖCH, in AA.VV., Kommentar zur Strafprozeßordnung, Band 2/Teilband 1, cit., 4 vor § 153a; FEZER, Vereinfachte Verfahren im Strafprozeß, cit., p. 34. (58) Sul punto, v. ROXIN, Strafverfahrensrecht. Ein Studienbuch, cit., 15 vor § 14, secondo il quale l’adempimento degli oneri è teoricamente libero, mentre sul piano pratico agisce come una costrizione, con conseguente violazione del § 136a dStPO, che vieta di esercitare pressioni sull’imputato per indurlo ad emettere determinate dichiarazioni.
— 1486 — evitare il giudizio di disvalore che consegue ad una pronuncia di condanna, e questo perché, attraverso il § 42 öStGB, non si rende possibile neppure l’iscrizione nel registro delle pene (59). Tale disposizione sembra inoltre poter svolgere anche una funzione di economia processuale. Già prima della riforma del 1987, infatti, nonostante che il secondo comma del § 42 öStGB riservasse al giudice la decisione sulla sussistenza dei presupposti di esiguità, il pubblico ministero poteva chiedere al giudice di decidere sulla sussistenza di questi presupposti anche durante la fase delle indagini (60), consentendo così una rapida definizione del procedimento (61). Abrogato nel 1987 tale comma, l’efficacia deflattiva della disposizione sembra essere addirittura aumentata, in quanto il pubblico ministero può esaminare i presupposti e procedere direttamente all’archiviazione del procedimento, cosa che peraltro non costituisce un’eccezione, visto che nel sistema penale austriaco le cause di non punibilità possono essere fatte valere anche dalla pubblica accusa. Tuttavia se tutto questo è vero su un piano — per così dire — teorico-astratto, occorre rilevare che, su un piano pratico, la disposizione non è stata molto utilizzata (62), complice soprattutto il fatto che è la stessa struttura del § 42 öStGB a ostacolarne l’applicazione (63), con la conseguenza che resta ancora discusso se la norma abbia anche una finalità di economia processuale (64). La natura giuridica di questo istituto risulta particolarmente discussa (65). Secondo l’opinione dominante della dottrina e della giurisprudenza, il § 42 öStGB contiene una causa di non punibilità (Strafausschließungsgrund) (66). Secondo altri autori, invece, il riferimento alle funzioni della pena deve portare a ritenere che la disposizione disciplini un’operazione di commisurazione della pena (67) che, dando come risultato zero, comporta una conversione dell’inflizione della pena in una rinuncia alla stessa, per cui dovrebbe conseguire non tanto un’archiviazione o una sentenza di assoluzione, quanto piuttosto una particolare forma di decisione avente il carattere di una ‘‘condanna senza pena’’ (68). Per quanto concerne l’ambito di applicazione, esso è limitato anzitutto ai fatti perseguibili di ufficio (Offizialdelikten), con esclusione dei delitti ad iniziativa privata (Privatanklagedelikten), ma non anche dei delitti a querela di parte (Antragsdelikten) (69). Tale esclu(59) Sul punto, v. NOWAKOWSKI, Nochmals zu § 42 öStGB (Mangelnde Strafwürdigkeit der Tat), in Festschrift für H.H. Jescheck, Berlin, 1985, pp. 528-529; PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, Wien, 1986, 1 vor § 42; recentemente ROXIN, Zur systematischen Einordnung des § 42 StGB, in Festschrift für F. Pallin, Wien, 1989, p. 348; SCHROLL, in HÖPFEL-RATZ, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, 2. Aufl., Wien, 2000, 1 vor § 42. (60) Sul punto, v. PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 2 vor § 42. (61) Di contrario avviso DRIENDL, Wege zur Behandlung der Bagatellkriminalität in Österreich und der Schweiz, in ZStW, 1978, p. 1053. (62) Sul punto, v. FOREGGER-SERENI, Strafgesetzbuch, 4. Aufl., Wien, 1988, p. 137. (63) Così, ZIPF, Politica criminale, cit., p. 198. (64) In questo senso, v. ROXIN, Zur systematischen Einordnung des § 42 StGB, cit., p. 346. (65) Sul punto, v. da ultimo ROXIN, Zur systematischen Einordnung des § 42 StGB, cit., p. 347 ss.; SCHROLL, in HÖPFEL-RATZ, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 2-3 vor § 42. (66) In questo senso, v., fra i molti, PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 1 vor § 42. (67) In questo senso, v. DRIENDL, Wege zur Behandlung der Bagatellkriminalität in Österreich und der Schweiz, cit., p. 1051; MOOS, Die mangelnde Strafwürdigkeit bei Bagatelldelikten nach § 42 österr. StGB, in ZStW, 1983, p. 200. (68) Così, MOOS, Die mangelnde Strafwürdigkeit bei Bagatelldelikten nach § 42 österr. StGB, cit., pp. 203-304. Contra, NOWAKOWSKI, Nochmals zu § 42 öStGB (Mangelnde Strafwürdigkeit der Tat), cit., p. 128 ss. (69) V. PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetz-
— 1487 — sione si giustifica in base al fatto che i delitti ad iniziativa privata sono già di per sé esigui, per cui, se l’ambito di applicazione si estendesse anche ad essi, resterebbero sempre non puniti (70). Il § 42 öStGB prevede poi dei limiti edittali: il delitto deve essere punito con una pena pecuniaria o con una pena detentiva non superiore a tre anni o con tale pena detentiva e una pena pecuniaria. Con riferimento ai criteri-requisiti che devono sussistere per l’applicazione della norma, la disposizione in esame fornisce una criteriologia molto più completa di quella prevista dal sistema penale tedesco. La colpevolezza dell’autore deve essere esigua. Tale esiguità viene valutata facendo riferimento ai principi generali sanciti dal § 32 öStGB per la commisurazione della pena ed ai particolari indici fattuali aggravanti o attenuanti di cui ai §§ 33 e 34 öStGB (71): giocano un ruolo, pertanto, oltre all’intensità del dolo e al grado della colpa (che dalla dottrina più recente sono ricomprese nel disvalore della condotta), il disvalore dell’atteggiamento interiore e le particolari qualità dell’autore etc. (72), rimanendo, invece, esclusi il disvalore di evento ed il comportamento dell’autore successivo al fatto, che, come vedremo tra poco, costituiscono requisiti autonomi (73). Quest’ultimo aspetto, a nostro parere, assume una notevole rilevanza: mentre in Germania, data l’ ‘‘onnicomprensività’’ del giudizio di colpevolezza, che, come abbiamo visto, ha ad oggetto anche elementi attinenti al disvalore di evento, non è esclusa l’ipotesi che fatti oggettivamente gravi siano considerati esigui, in quanto nel compimento di un siffatto giudizio di ponderazione-bilanciamento può benissimo risultare che i fattori soggettivi e/o personali risultino prevalenti sulle conseguenze colpevoli del fatto, al contrario, in Austria, proprio perché l’esiguità del disvalore di evento costituisce un elemento autonomo che non rientra nel giudizio di colpevolezza, fatti oggettivamente gravi realizzati con una colpevolezza esigua restano sempre e comunque punibili. Nonostante questa differenza, appare comunque evidente come il concetto di colpevolezza esigua di cui al § 42 öStGB, estendendosi anche alla persona dell’autore, sia molto simile a quello del § 153 dStPO (74). La colpevolezza viene considerata esigua quando, nella ponderazione di tutti i fattori aggravanti ed attenuanti, risulta che il disvalore del caso specifico resta notevolmente (erheblich) al di sotto del contenuto di illiceità e colpevolezza tipizzato nella fattispecie legale (75). Per l’applicazione del § 42 öStGB è necessario, poi, che dal fatto non sia derivata ‘‘alcuna conseguenza o soltanto conseguenze insignificanti’’. Tra tali conseguenze (Folgen) rientra non soltanto l’evento come elemento tipico della fattispecie incriminatrice (Erfolg), ma buch, cit., 8 vor § 42; LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, 3. Aufl., Eisenstadt, 1992, 8-9 vor § 42. (70) V. a proposito FOREGGER-SERENI, Strafgesetzbuch, cit., p. 137. (71) V. ampiamente DRIENDL, Empfiehlt es sich, die Bestimmug ‘‘Mangelnde Strafwürdigkeit der Tat’’ (öStGB § 42) in das schweizerische Strafgesetzbuch zu übernehmen?, in SchwZStr - R.P.S., 1980, pp. 1 ss., 14-15; LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 14 vor § 42. Recentemente v. MOOS, Der Begriff der ‘‘geringen Schuld’’ in § 42 StGB, in Festschrift für Platzgummer, 1995, p 71 ss. (72) Sul rapporto tra disvalore dell’illecito (condotta ed evento) e disvalore dell’atteggiamento interiore, v. SCHROLL, in HÖPFEL-RATZ, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 18 vor § 42, secondo il quale il Gesinnungsunwert viene limitato attraverso l’Unrechtunwert. (73) Sul punto, anche per i riferimenti alla giurisprudenza, v. ampiamente LEUKAUFSTEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 14 ff. vor § 42. (74) Così anche PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 9 vor § 42. (75) In questo senso, v. PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 9 vor § 42; LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 14 vor § 42.
— 1488 — anche le conseguenze atipiche derivanti dal fatto (Auswirkungen der Tat) (76). Il concetto di conseguenze qui utilizzato comprende, pertanto, anche i danni c.d. collaterali, la causazione colposa dei quali di per sé non è punibile, come ad esempio i pregiudizi scolastici o professionali. Si deve trattare, comunque, di conseguenze attribuibili all’agente almeno per colpa e che non siano state causate da un decorso causale atipico (77). La riforma del 1987 ha inoltre previsto la possibilità di applicare il § 42 öStGB anche quando, nella misura in cui l’autore si sia adoperato in modo serio, le conseguenze sono state ‘‘essenzialmente’’ rimosse, risarcite o altrimenti compensate (78). La riparazione deve essere effettiva e completa (79). Tuttavia, l’utilizzo dell’avverbio ‘‘essenzialmente’’ lascia intendere che l’applicazione del § 42 öStGB non sia esclusa se residuano conseguenze esigue (80). Infine, perché il soggetto non sia punito è necessario che non si oppongano ragioni di prevenzione speciale o generale. In particolare, la disposizione non si applica per ragioni di prevenzione speciale quando solo una ‘‘punizione’’ può indurre l’autore a riconoscere il disvalore della sua condotta delittuosa o a non commettere nuovi reati (81). La necessità di punirlo per queste ragioni dipende dalla concreta personalità dell’autore. Il suo giudizio esige perciò la formulazione di una prognosi che riguarda il comportamento futuro dell’autore (82). Circa gli elementi fattuali occorre fare riferimento alla buona condotta tenuta fino al momento della commissione del reato, all’inserimento sociale dell’autore, etc. I precedenti penali non si oppongono alla applicazione della disposizione, purché l’irrogazione della pena non sia necessaria proprio per evitare che l’autore commetta nel futuro ulteriori reati (83). Parimenti, il § 42 öStGB non trova applicazione se la mancata ‘‘punizione’’ dell’autore può rafforzare in altri la disposizione a commettere reati simili, in quanto fa nascere l’impressione che determinati delitti possano essere commessi senza andare incontro ad alcuna conseguenza (84). Le ragioni di prevenzione generale devono essere valutate non in astratto, ma caso per caso, avendo riguardo alla situazione concreta del fatto e dell’autore. Da ciò consegue che anche un delitto commesso con frequenza può non essere punito per mancanza di ragioni di prevenzione generale (85). Così, ad esempio, nel caso di furto, che è un reato diffuso, occorre distinguere a seconda che esso sia stato commesso occasionalmente, per sventatezza o per necessità, oppure in modo regolare e sistematico per soddisfare il proprio fabbisogno: mentre nel primo caso possono non sussistere le ragioni di prevenzione generale, nel secondo caso, invece, il pericolo di imitazione da parte dei potenziali autori è maggiore. Come emerge da questa analisi dei singoli criteri assunti a base del giudizio di esiguità, il modello di reato bagatellare improprio adottato in Austria coincide con quello elaborato in (76) V. PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 10 vor § 42; LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 23 vor § 42. (77) Sul punto, v. SCHROLL, Zum Anwendungsbereich des § 42 StGB im Straßenverkehr, in ÖJZ, 1987, p. 41 ss. (78) Su tale riforma v. ampiamente ZIPF, Kriminalpolitische Schwerpunkte der Strafrechtsreform 1987, in ÖJZ, 1988, p. 440. (79) Così, LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 36 vor § 42. (80) In questo senso, v. FOREGGER-SERENI, Strafgesetzbuch, cit., p. 138. (81) In questo senso, v. LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 40 vor § 42. (82) Così, LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 41 vor § 42. (83) PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 16 vor § 42. (84) Così, LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 40 vor § 42. (85) In questo senso, PALLIN, in FOREGGER-NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 17 vor § 42; LEUKAUF-STEININGER, Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 42 vor § 42.
— 1489 — Germania, per cui anch’esso corrisponde a una ‘‘commisurazione anticipata della pena’’ (86). Tale concezione, se da un lato risulta suggerita in parte dalla particolare formulazione della norma e, cioè, dal riferimento a criteri che portano necessariamente a un giudizio di esiguità esteso anche alla persona dell’autore, dall’altro non appare del tutto coerente con la qualificazione dell’istituto come causa di non punibilità, il quale avrebbe dovuto essere configurato piuttosto come condanna senza pena. E non è del tutto casuale, infatti, che, come abbiamo già notato, una parte autorevole della dottrina, muovendo proprio da considerazioni analoghe, abbia concepito il § 42 öStGB come prescrizione attinente alla commisurazione della pena. Inoltre, occorre rilevare che, a differenza della Germania, l’indicazione analitica dei singoli indici di esiguità e soprattutto la necessità che ricorrano contestualmente tutti gli elementi del modello, ha reso tale disposizione di difficile applicazione. 3.2. Nel sistema penale portoghese, la disciplina riservata ai fatti che pur costituendo reato risultano in concreto esigui è particolarmente articolata, in quanto sono previste disposizioni sia di diritto penale sostanziale che di diritto processuale penale. L’art. 74 cód. pen. prevede l’istituto della ‘‘dispensa dalla pena’’, che consente al giudice di dichiarare il reo colpevole, ma di non applicare la pena, quando — ricorrendo anche altri presupposti formali (infra) — « l’illiceità del fatto e la colpevolezza dell’agente sono esigue; il danno è stato riparato; alla dispensa dalla pena non si oppongono ragioni di prevenzione ». Il fondamento politico-criminale di questa disposizione coincide in buona parte con quello del § 42 öStGB, visto che anche qui il legislatore ha voluto evitare l’applicazione di una pena nell’ipotesi in cui il fatto sia in concreto privo di una ‘‘dignità punitiva’’: nel caso dei reati bagatellari — come è stato notato — la pena, considerate le finalità che dovrebbe perseguire, non risulta necessaria (87). Tuttavia, mentre in Austria si è inteso evitare anche l’effetto stigmatizzante che consegue a una pronuncia di condanna (l’applicazione del § 42 öStGB dà luogo a una archiviazione o a una assoluzione e non comporta l’iscrizione nel registro delle pene), in Portogallo, invece, è previsto che l’imputato venga condannato e che la decisione sia comunicata al registro criminale (88). Anche dal punto di vista della qualificazione giuridica e, quindi, dell’inquadramento dogmatico, l’istituto portoghese differisce da quello austriaco. Esso, infatti, proprio perché comporta una sentenza di condanna, non è concepito come una causa di non punibilità, ma come una ‘‘misura alternativa alla reclusione’’ (medida alternativa à prisão) (89), e quindi come un istituto attinente alle conseguenze giuridiche dell’illecito (90). L’ambito di applicazione è limitato ai soli delitti punibili con la pena della reclusione non superiore a sei mesi o soltanto con la multa non superiore a centoventi giorni. Tale limitazione è giustificata in base alla considerazione che la ‘‘bagatellarità’’ del fatto deve essere valutata non solo in concreto, ma anche, e prima di tutto, in astratto: il delitto, cioè, deve essere esiguo già secondo la previsione legale, e l’indice di tale esiguità è dato proprio dalla pena comminata. Si tratta, per la verità, di un ambito di applicazione, per quanto ci risulta, assai ristretto, che non ricomprende tutta una serie di reati, come, ad esempio, il furto e le lesioni (rispettivamente artt. 203 e 143 cód. pen.), i quali peraltro ben si prestano ad una realizzazione concreta priva di significativo disvalore. Per quanto concerne i presupposti, la colpevolezza, come in Austria ed in Germania, deve essere esigua. Il concetto di colpevolezza coincide anche qui con quello utilizzato per la (86) In questo senso, v. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 731. (87) Così, DE FIGUEIREDO DIAS, Direito penal português. As consequências jurídicas do crime, Lisboa, 1993, p. 314. (88) Sul punto, v. DE FIGUEIREDO DIAS, Direito penal português, cit., p. 320. (89) Così, DE FIGUEIREDO DIAS, O instituto de dispensa de pena: algumas notas, in RLJ, 1990-1991, p. 198.; MAIA GONÇALVES, Código penal português, Coimbra, 1996, p. 286. (90) In questo senso, v. DE FIGUEIREDO DIAS, O instituto de dispensa de pena: algumas notas, cit., pp. 197-198.
— 1490 — commisurazione della pena, per cui il giudice deve prendere in considerazione tutti gli indici fattuali indicati negli artt. 71, comma 2, e 72, comma 2, cód. pen. (91). La disposizione fa anche riferimento alla esiguità della illiceità del fatto. Tuttavia non è chiaro se con tale espressione si faccia riferimento all’esiguità dell’elemento oggettivo del reato e più in generale alla esiguità dell’Unrecht, oppure alla categoria dell’antigiuridicità, e quindi si richieda la presenza di fattori, come ad esempio le quasi-scriminanti, che incidono specificamente sulla illiceità del fatto. La dispensa dalla pena presuppone anche che il danno sia stato risarcito. Da ciò consegue che il danno derivato dal fatto deve essere effettivamente riparato, non essendo sufficiente un serio impegno dell’agente in tal senso (92). Inoltre, se il giudice ha ragione di ritenere che la riparazione del danno è in via di effettuazione, può differire la sentenza per il riesame del caso entro un anno (art. 74, comma 2, cód pen.). All’applicazione dell’istituto in esame, infine, non devono opporsi ragioni di prevenzione speciale o generale. Circa le prime, occorre fare riferimento non tanto alle esigenze di ‘‘neutralizzazione’’ del reo, che sono soddisfatte principalmente attraverso le misure di sicurezza, quanto piuttosto alle esigenze di socializzazione o rieducazione, per cui la dispensa dalla pena può essere applicata quando si tratta di un agente ‘‘non carente di socializzazione’’ (93). Le esigenze di prevenzione generale, poi, non devono essere intese in senso ‘‘negativo’’, come esigenze di intimidazione dei potenziali autori del reato, ma in senso positivo, come esigenze di difesa dell’ordinamento giuridico, per cui l’istituto in esame è ammissibile se ragioni di tutela del bene giuridico e delle aspettative della società non impongono l’applicazione della pena (94): le esigenze di prevenzione generale c.d. negative, infatti, sono già soddisfatte dalla pronuncia di condanna e dalla sua comunicazione al registro criminale. Da ciò consegue, inoltre, che la dispensa dalla pena può trovare applicazione anche nel caso di delitti commessi con una certa frequenza, cosa che dovrebbe escludersi se per l’appunto la prevenzione generale venisse concepita in chiave intimidatoria. Infine, occorre notare che ipotesi particolari di dispensa dalla pena sono previste anche da alcune disposizioni di parte generale (es. art. 35, comma 2, cód. pen.) e di parte speciale (es. art. 143, comma 2, cód. pen.) (95). Esse si distinguono a seconda che la loro applicazione sia obbligatoria o facoltativa. In questa seconda ipotesi la dispensa dalla pena ha luogo solo se, oltre ai requisiti indicati di volta in volta dalla singola disposizione, ricorrono anche i presupposti di cui all’art. 74 cód. pen. (art. 74, comma 3, cód. pen.). Passando ad esaminare le disposizioni processuali, gli artt. 280-282 cód. proc. pen. (96) disciplinano alcuni istituti archiviatori molto simili a quelli previsti dai §§ 153 e 153a dStPO. In particolare, l’art. 280 cód. proc. pen. stabilisce che il pubblico ministero, con il consenso del giudice dell’istruzione, possa disporre l’archiviazione del processo avente ad og(91) Sul punto, v. DE FIGUEIREDO DIAS, O instituto de dispensa de pena: algumas notas, cit., p. 199. (92) In questo senso, v. DE FIGUEIREDO DIAS, O instituto de dispensa de pena: algumas notas, cit., pp. 199-200. (93) Così, DE FIGUEIREDO DIAS, Direito penal português, cit., pp. 319-320. (94) In questo senso, v. DE FIGUEIREDO DIAS, O instituto de dispensa de pena: algumas notas, cit., p. 200. (95) Sul punto, v. ampiamente DE FIGUEIREDO DIAS, O instituto de dispensa de pena: algumas notas, cit., p. 197 e p. 201 ss. (96) Su tali istituti, v. DA COSTA ANDRADE, Consenso e oportunidade, in AA.VV., Jornadas de direito processual penal. O novo código de processo penal, Coimbra, 1988, p. 346 ss.; DA COSTA PIMENTA, Introdução ao processo penal, Coimbra, 1989, p. 130 ss.; DE FIGUEIREDO DIAS, Due diverse incarnazioni del modello accusatorio: qualche considerazione sul codice italiano di procedura penale alla luce del codice portoghese, in AA.VV., Il nuovo codice di procedura penale visto dall’estero, a cura di M. Chiavario, Milano, 1991, p. 179 ss.; MAIA GONÇALVES, Código de processo penal, Coimbra, 1996, p. 442 ss.
— 1491 — getto reati per i quali la legge penale prevede la possibilità della dispensa dalla pena. Se l’azione penale è già stata esercitata, ricorrendo sempre i presupposti della dispensa dalla pena, l’archiviazione può essere disposta dal giudice dell’istruzione con il consenso del pubblico ministero e dell’imputato. Tale disposizione, che nella sostanza corrisponde al § 153 dStPO (97), si ispira al principio di opportunità o, quantomeno, di discrezionalità dell’azione penale, e viene giustificata proprio in base alla particolare tenuità del fatto, per cui, in presenza di reati bagatellari, appare legittimo attribuire al pubblico ministero (o al giudice dell’istruzione) un potere ‘‘discrezionale’’ di decidere se perseguire o meno tali illeciti (98). D’altra parte, a nostro parere, essa può dare luogo a delle disparità di trattamento. Se da un lato, infatti, il suo ambito di applicazione coincide con quello dell’art. 74 cód. pen., dall’altro, occorre rilevare che i suoi effetti sono diversi dalla dispensa dalla pena: non si comprende, allora, quale sia il criterio ultimo in base al quale il pubblico ministero (o il giudice) decide di archiviare o di portare avanti un procedimento che, proprio perché ricorrono i presupposti della dispensa dalla pena, verosimilmente si concluderà con una sentenza di condanna, anche se non seguita dall’applicazione della pena. Gli artt. 281 e 282 cód. proc. pen. disciplinano, infine, un’ipotesi di archiviazione condizionata molto simile, sia per la ratio, sia per il modo di funzionare, a quella tedesca di cui al § 153a dStPO, e proprio per questa affinità metteremo qui in evidenza soltanto le principali differenze. In primo luogo, tale archiviazione può essere disposta soltanto dal pubblico ministero con il consenso del giudice dell’istruzione e dell’imputato o del suo difensore, e non anche dal giudice dopo l’esercizio dell’azione penale. Circa i presupposti, essi sono più numerosi: oltre alla esiguità della colpevolezza ed alla presenza di esigenze di prevenzione (generali e/o speciali) ‘‘eliminabili’’ attraverso le prescrizioni imposte dal pubblico ministero, è necessario che l’agente non abbia precedenti penali e che non sia sottoposto alla misura di sicurezza dell’internamento. Anche il ventaglio delle ingiunzioni (injunções) e delle regole di condotta (regras de conduta) imponibili dal pubblico ministero all’imputato risulta più ampio, in quanto si va dall’indennizzo della vittima, al dare una soddisfazione morale adeguata alla vittima, dal non esercitare determinate professioni al non portare con sé determinati oggetti capaci di facilitare la realizzazione di un altro delitto etc., con il limite invalicabile che le prescrizioni imponibili non devono mai offendere la dignità dell’imputato. Si tratta, in sostanza, di misure sanzionatorie, alcune delle quali, essendo di natura interdittiva, hanno un contenuto afflittivo piuttosto accentuato. 3.3. In Italia, come è noto, un istituto analogo a quelli appena descritti è presente solo nel diritto penale minorile, dove l’art. 27, comma 1, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, come modificato dall’art. 1 della l. 5 febbraio 1992, n. 123, dispone che « durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne ». Tale disposizione persegue una duplice finalità. In primo luogo, dà piena attuazione al principio di minima offensività del processo, il quale deve essere evitato quando potrebbe trasformarsi in evento traumatizzante per la personalità del minore. In secondo luogo, costituisce uno strumento deflattivo finalizzato al decongestionamento del sistema processuale (97) Implicitamente, v. sul punto DA COSTA ANDRADE, Consenso e oportunidade, cit., p. 351. (98) In questo senso, v. DA COSTA PIMENTA, Introdução ao processo penal, cit., p. 130; FIGUEIREDO DIAS, Direito penal português, cit., pp. 323-324.
— 1492 — minorile per garantire la concentrazione delle risorse disponibili sui casi di maggiore gravità (99). Circa la natura giuridica, dopo alcune prime esitazioni, l’istituto in esame viene oggi prevalentemente qualificato come una causa personale di non punibilità (in senso stretto) (100): se infatti, come comunemente si afferma, per cause di non punibilità si devono intendere condizioni ulteriori ed esterne al reato che possono escludere l’opportunità di punirlo (101), nel caso in esame le esigenze educative del minore pregiudicabili attraverso l’ulteriore corso del procedimento risultano prevalenti rispetto all’interesse di applicare la pena. Una siffatta impostazione, tuttavia, suscita qualche perplessità. Nelle cause personali di esclusione della punibilità, infatti, tale esclusione è sì dovuta a circostanze inerenti alla persona, ma si deve trattare di circostanze sussistenti nel momento in cui l’autore ha commesso il reato (102). Le esigenze educative pregiudicabili dall’ulteriore corso del procedimento, invece, costituiscono condizioni che riguardano la persona dell’autore considerata in un momento successivo alla commissione e, più precisamente, nel momento in cui ha luogo il procedimento. Sicuramente più appropriata, pertanto, sarebbe la qualificazione dell’istituto come condizione di improcedibilità (103), e questo proprio perché la disposizione prevede un criterio valutativo di interessi esterni al fatto e al suo autore, collegato più all’esercizio della giurisdizione penale e al dovere di procedere che alla punibilità del reato (104). Tuttavia, tale concezione sembra essere esclusa dalla circostanza che l’irrilevanza del fatto può essere dichiarata soltanto con sentenza del giudice. Se tutto questo è vero, allora, bisogna ritenere che l’istituto in esame costituisca, per le ragioni suddette, una condizione di improcedibilità — per così dire — ‘‘anomala’’. Per quanto concerne i singoli presupposti (105), quello della tenuità del fatto ha dato luogo ad alcune difficoltà interpretative, dovute soprattutto alla genericità ed all’indeterminatezza che l’espressione ‘‘fatto’’ assume in questo contesto. Ci si è chiesti, allora, se il legi(99) In questo senso, v., per tutti, COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: punti controversi della disciplina e prospettive di riforma, in Cass. pen., 1996, p. 1670. Sulle finalità dell’irrilevanza penale del fatto, v. anche PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Milano, 1989, p. 371, il quale, però, ritiene che l’istituto in esame abbia soprattutto uno scopo di deflazione processuale. (100) Sul punto, v. ampiamente D’AVINO, In tema di irrilevanza penale del fatto nel processo minorile, in Giust. pen., III, 1998, c. 316 ss. In tal senso già BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in questa Rivista, 1989, p. 339. Nello stesso senso, cfr. anche Corte cost., sentenza 6 giugno 1991, n. 250, in Giur. cost., 1991, p. 2047, con nota di SPIRITO, Art. 27 d.P.R. n. 448 del 1998: una morte annunciata, ivi, 1991, p. 4137 ss. Contra, COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 1673, secondo la quale si tratta di una causa personale di estinzione della pena; PIGHI, L’ ‘‘irrilevanza’’ del fatto nel diritto penale minorile, in Studium iuris, 1999, p. 74 ss., che qualifica l’istituto come causa di estinzione del reato. (101) In questo senso, v. ROMANO M., Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, pp. 59-60; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1999, p. 465; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1999, p. 497. Sul tema della punibilità v. da ultimo DI MARTINO, La sequenza infranta, Milano, 1998. (102) V., per tutti, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrecht, Allgemeiner Teil, 5. Aufl., Berlin, 1996, p. 552. (103) In questo senso, v. DONINI, voce Teoria del reato, in Dig. disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 274. (104) V. anche PAGLIARO, Riflessi del nuovo processo sul diritto penale sostanziale, in questa Rivista, 1990, p. 47, secondo il quale la ratio della norma è ‘‘inerente alla giustizia penale nel suo complesso, e non limitata alla singola componente di diritto penale sostanziale’’. (105) Sul tema v. da ultimo ISOLABELLA, Criminalità bagatellare minorile e ‘‘irrilevanza del fatto’’, in Indice pen., 1995, p. 386 ss.
— 1493 — slatore abbia voluto fare riferimento al solo danno o pericolo derivante dal fatto o all’intero fatto tipico comprensivo dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo, oppure, infine, a tutti gli indici fattuali di cui all’art. 133 c.p. La prima interpretazione (fatto come offesa), a nostro parere, deve essere esclusa (106), perché se il legislatore avesse voluto riferirsi a tale elemento avrebbe espressamente utilizzato i termini ‘‘danno’’ e ‘‘pericolo’’. Inoltre, la gravità dell’offesa è solo uno degli elementi che concorre insieme ad altri a contrassegnare la gravità complessiva del reato. Anche l’ultima interpretazione (fatto che si estende anche alla personalità dell’autore) (107) non può essere accolta, non solo perché altrimenti il legislatore si sarebbe esplicitamente richiamato all’art. 133 c.p., ma anche perché si finirebbe per estendere il giudizio alla capacità a delinquere dell’agente, cosa che deve essere esclusa proprio per l’impiego del termine ‘‘fatto’’. A nostro parere, pertanto, sembra opportuno fare riferimento al fatto tipico e, più precisamente, all’elemento oggettivo del fatto tipico ed alla colpevolezza dell’agente (art. 133, comma 1, c.p.), per cui entrambe le componenti devono risultare esigue (108). Tuttavia resta aperto il problema se, con riferimento al fatto meramente materiale, il coefficiente di esiguità debba o meno caratterizzare sia l’offesa (danno o pericolo), sia le modalità della condotta (laddove ovviamente queste assumono rilevanza), o se, invece, queste ultime debbano piuttosto essere valutate in sede di colpevolezza. Del requisito della occasionalità del comportamento possono esser date tre interpretazioni diverse. In primo luogo, l’occasionalità potrebbe essere valutata mediante un criterio cronologico, per cui una condotta sarebbe tale quando costituisce la prima trasgressione. Questa interpretazione, tuttavia, suscita delle perplessità, in quanto porterebbe ad escludere la ripetibilità del ‘‘beneficio’’, della quale, però, il legislatore non ha fatto cenno (109). Altri autori ritengono, invece, che un comportamento sia occasionale quando risulta isolato e soprattutto destinato a non ripetersi (110), quando, cioè, in sostanza, la personalità del minore non rivela una certa attitudine a commettere nuovi reati. Questa interpretazione, che finisce per far coincidere l’occasionalità con la capacità a delinquere del reo, se da un lato ha il pregio di fornire una base del giudizio per certi aspetti più definita e circoscritta (art. 133, comma 2, c.p.), dall’altro ha il difetto di estendere il giudizio alla persona dell’autore, cosa che sembra doversi escludere innanzitutto perché il testo della legge fa riferimento all’occasionalità del ‘‘comportamento’’. Secondo un’ultima concezione, l’occasionalità deve essere valutata sulla base di criteri meramente psicologici, con riferimento cioè all’atteggiamento psichico dell’agente rispetto all’azione, per cui un comportamento risulta occasionale quando è frutto di particolari e momentanee condizioni psicologiche del minore ovvero di circostanze esterne al fatto cui il minore non ha saputo resistere a causa della sua immaturità (111). A differenza della prece(106) In questo senso, v. anche PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 378. (107) A favore di questa interpretazione si esprimono VINCIGUERRA, Irrilevanza del fatto nel procedimento penale minorile, in AA.VV., Convegno nazionale di studio sul nuovo codice di procedura penale, vol. II, in Difesa pen., 1989, p. 74; PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 379; PEPINO, Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, in AA.VV., Commento al codice di procedura penale. Legge collegate, I, Il processo minorile, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1994, p. 283. (108) In questo senso, v. LA CUTE, Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto nel nuovo processo penale minorile, in Riv. pen. econ., 1992, p. 628; FIANDACAMUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1995, p. 754. (109) Così, PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 380. (110) PEPINO, Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 284, secondo il quale, l’occasionalità ‘‘è sinonimo non di ‘unicità’ ma di mancata reiterazione abituale o sistematica’’; PIGHI, L’ ‘‘irrilevanza’’ del fatto nel diritto penale minorile, cit., p. 72. (111) In questo senso, v. VINCIGUERRA, Irrilevanza del fatto nel procedimento penale
— 1494 — dente, questa impostazione, se da un lato fa riferimento ad un criterio meno determinato e di difficile accertamento, qual è appunto quello psicologico, dall’altro sembra essere più coerente non solo al testo della legge ma anche, e soprattutto, al carattere speciale del diritto penale minorile, in quanto si fonda sulla particolare condizione di variabilità ed impulsività del temperamento (ma non della personalità) tipica dei minorenni. Detto in altri termini, l’occasionalità del comportamento deve essere valutata con specifico riferimento al carattere del minore e, più precisamente, alla maturità psichica dell’adolescente, assumendo una certa rilevanza anche l’attitudine alla comprensione del mondo circostante ed all’autodeterminazione secondo finalità che il soggetto si è posto. Infine, una pluralità di opinioni si deve registrare anche con riferimento all’interpretazione del requisito del pregiudizio alle esigenze educative dovuto all’ulteriore corso del procedimento. Secondo alcuni autori non si tratterebbe di un requisito ulteriore, ma semplicemente di un corollario degli altri due presupposti o, comunque, di una esplicitazione della ratio della disposizione (112). Secondo altri, invece, si tratterebbe di un requisito autonomo, il quale, però, non deve essere interpretato così come espresso dalla norma, ma in modo — per così dire — rovesciato: ciò che dovrebbe porre fine al procedimento non è tanto il pregiudizio alle esigenze educative, quanto la mancanza di utilità dell’ulteriore corso del processo per le esigenze educative del minore (113). Secondo altri ancora, infine, nonostante la sua indeterminatezza e le difficoltà di accertamento che comporta, si tratterebbe di un vero e proprio requisito, l’esistenza del quale deve essere accertata di volta in volta (114). Le conseguenze che sul piano pratico derivano da queste diverse interpretazioni sono notevoli. Se infatti si accoglie la prima interpretazione, risulta evidente che la disposizione può essere applicata se ricorrono i soli requisiti della tenuità del fatto e della occasionalità del comportamento. La seconda interpretazione, invece, comporta che, in presenza dei due requisiti oggettivi, l’applicazione dell’art. 27 cit. costituisce — per così dire — la regola, mentre solo se l’ulteriore prosecuzione del procedimento può essere utile alle esigenze educative del minore (eccezione), la pronuncia di irrilevanza risulta preclusa. L’ultima interpretazione, infine, ammettendo l’applicazione dell’art. 27 cit. nelle sole ipotesi in cui è presente anche un possibile pregiudizio delle esigenze educative, ne limita ulteriormente l’ambito di operatività. A ben vedere, queste tre differenti interpretazioni rispondono a tre diverse rationes della disposizione. La prima soluzione sembra fondarsi, infatti, sull’idea per cui l’istituto della irrilevanza del fatto costituirebbe uno strumento diretto a garantire la funzione di ultima ratio del diritto penale, per cui l’attuazione del principio di minima offensività del processo sarebbe soltanto la conseguenza di una politica criminale volta a non punire in via generale i minorenni per fatti in concreto esigui. La seconda soluzione, invece, si fonda sull’idea per cui la finalità di depenalizzazione minorile, cit., p. 75, il quale, però, pur interpretando il requisito dell’occasionalità secondo criteri psicologici, finisce per identificare l’occasionalità con l’assenza di premeditazione; PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., pp. 380-381; GIANNINO, Il processo penale minorile, Padova, 1997, p. 227. (112) Così, GIANNINO, Il processo penale minorile, cit., p. 228. (113) Così, PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, cit., p. 382 e p. 386; MANERA, Brevi osservazioni sul proscioglimento del minorenne per l’irrilevanza del fatto ex art. 27 l. n. 448 del 1988, in Giur. merito, 1992, pp. 943-944. (114) In questo senso, v. VINCIGUERRA, Irrilevanza del fatto nel procedimento penale minorile, cit., p. 75 ss.; PIGHI, L’ ‘‘irrilevanza’’ del fatto nel diritto penale minorile, cit., p. 72, secondo il quale, però, il pregiudizio per le esigenze educative del minore non può essere qualificato come requisito dell’intero istituto, in quanto previsto per la sola ipotesi del procedimento innanzi al g.i.p.
— 1495 — rappresenta lo scopo principale della disposizione, il quale, però può non essere perseguito quando l’ulteriore corso del procedimento risulta utile per le esigenze educative del minore. L’ultima soluzione, infine, parte dal presupposto che la disposizione in esame persegue quelle finalità che abbiamo descritto all’inizio del paragrafo, per cui essa mira essenzialmente a dare attuazione al principio di minima offensività del processo. A nostro parere, l’ultima concezione, pur riducendo notevolmente l’ambito di applicazione della norma, sembra essere la più corretta, e questo perché risulta pienamente conforme alla ratio della disposizione. In sostanza, il legislatore non ha voluto escludere la punibilità dei fatti in concreto lievi, ma soltanto la punibilità di fatti lievi allorché — ‘‘quando’’ dice per l’appunto in modo esplicito la norma — il procedimento pregiudica esigenze educative. Detto in altri termini, è stato ritenuto opportuno collegare la non punibilità del soggetto non solo e non tanto agli elementi oggettivi della tenuità del fatto e dell’occasionalità del comportamento, quanto piuttosto all’elemento del pregiudizio delle esigenze educative. Tuttavia non si può non rilevare una certa contraddittorietà di un siffatto ragionamento. Da un lato, infatti, la particolare condizione del minore di per sé considerata poteva giustificare una scelta più radicale, tale cioè da far prevedere una causa di non punibilità (o una condizione di improcedibilità) fondata sui soli requisiti della tenuità del fatto e della occasionalità della condotta; dall’altro, un istituto così strutturato avrebbe egualmente permesso di attuare il principio di minima offensività del processo, e questo per l’ovvia ragione che il minore sarebbe egualmente uscito in modo rapido dal procedimento. Vero questo, è anche vero che il requisito autonomo del pregiudizio alle esigenze educative risulta di difficile accertamento. A tale riguardo si dovrà tener conto della maturità psichica del minore, del suo comportamento durante le fasi del procedimento e, soprattutto, dell’eventuale effetto traumatizzante che il procedimento potrà esplicare sulla sua persona, dovendosi intendere per esigenze educative non tanto le esigenze di ‘‘correggere’’ il minore, quanto piuttosto quelle di formare senza traumi la sua personalità. Infine, si deve brevemente accennare al procedimento che porta alla sentenza di non luogo a procedere. Sul punto si possono distinguere due ipotesi. Se l’azione penale non è stata ancora esercitata, e quindi, come dice espressamente l’art. 27, comma 1, cit., ‘‘durante le indagini preliminari’’, la richiesta per la pronuncia della sentenza viene fatta dal pubblico ministero. La relativa decisione appartiene alla competenza del giudice per le indagini preliminari, il quale provvede in camera di consiglio sentiti il minorenne e l’esercente la potestà dei genitori, nonché la vittima del reato (art. 27, comma 2, cit.). Si tratta, in sostanza, di un procedimento speciale (115) assolutamente coerente con lo spirito della norma, in quanto, da un lato, consente la rapida uscita del minore dal procedimento e, dall’altro, una deflazione processuale. Inoltre, l’art. 27 cit. risulta conforme al principio di obbligatorietà dell’azione penale, sia perché l’azione penale è da considerarsi esercitata nel momento in cui il pubblico ministero avanza la richiesta, sia perché il giudice, definendo il procedimento con una sentenza, provvede sulla stessa (116). Vero questo, si deve tuttavia notare che, anche nell’ipotesi in cui si ritenga che l’istituto in esame costituisca una causa di non punibilità, la previsione di tale procedimento non era, a ben vedere, necessaria e che, addirittura, finisce per dilatare i tempi della definizione. Secondo un’opinione che va sempre più consolidandosi nella dottrina, infatti, il pubblico ministero può richiedere l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato (art. 408 c.p.p.) in tutti i casi in cui, ove si fosse alla chiusura dell’udienza preliminare, il giudice pronunce(115) Così, PEPINO, Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 286. (116) V. LA CUTE, Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto nel nuovo processo penale minorile, cit., p. 629; MANERA, Considerazioni sulla proposta di ripristino del proscioglimento per irrilevanza del fatto nel nuovo processo penale minorile, in Nuovo dir., 1991, p. 1021; COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 1677.
— 1496 — rebbe sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato o per difetto di imputabilità (nel caso in cui il pubblico ministero ritenga che non vi siano le condizioni per applicare una misura di sicurezza) ovvero per difetto di punibilità (art. 425 c.p.p.) (117), vale a dire per motivi diversi dall’estinzione del reato, dalla mancanza di una condizione di procedibilità e dalla non previsione del fatto come reato da parte della legge, i quali danno luogo ad una richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 411 c.p.p. Detto in altri termini, nell’ipotesi in cui appaia evidente che — per quel che ci interessa ai fini della nostra indagine — il fatto non è punibile, il pubblico ministero può presentare al giudice richiesta di archiviazione, non essendo necessario che eserciti l’azione penale con riserva mentale di chiedere poi una sentenza di non luogo a procedere in sede di udienza preliminare. E questo proprio perché sarebbe irragionevole e contraddittorio esercitare l’azione penale con la consapevolezza di un epilogo scontato contrario ai contenuti dell’accusa. Da ciò consegue non solo che, su un piano generale, le condizioni di (im)procedibilità e le cause di non punibilità possono portare ad un esito identico, cioè ad un’archiviazione, ma anche che, con specifico riferimento all’art. 27 cit., più opportuno sarebbe stato prevedere l’istituto dell’irrilevanza del fatto senza affiancargli un procedimento speciale. Né, del resto, questa soluzione avrebbe violato il principio di obbligatorietà dell’azione penale: come vedremo in seguito, infatti, se tale principio viene inteso come principio di legalità processuale, che preclude al pubblico ministero ogni spazio di apprezzamento ispirato a valutazioni di opportunità, esso risultava sicuramente rispettato, posto che i criteri di irrilevanza erano sufficientemente determinati. Quando, invece, l’azione penale è già stata esercitata, la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto può essere pronunciata d’ufficio dal giudice dell’udienza preliminare oppure dal giudice del dibattimento nel giudizio direttissimo o nel giudizio immediato. La possibilità di applicare l’irrilevanza del fatto agli ultimi due procedimenti speciali ha suscitato qualche perplessità, in quanto appare contraddittorio poter accertare in queste sedi i presupposti oggettivi previsti dall’art. 27, comma 1, cit. (118). L’estensione dell’istituto in esame a tali procedimenti tuttavia si giustifica, perché nasce dall’esigenza di applicare l’irrilevanza penale del fatto quando la scelta del rito ha escluso l’udienza preliminare (119). Sempre in ordine al momento applicativo della norma, da una parte della dottrina è stato sostenuto che, nonostante il silenzio della legge, l’irrilevanza del fatto possa essere dichiarata anche durante il dibattimento (120). Tale opinione deve essere condivisa sia perché risulterebbe irragionevole impedire al giudice del dibattimento di prendere decisioni consentite al giudice dell’udienza preliminare; sia perché, pur essendo il procedimento giunto alla fase dibattimentale, esiste ancora spazio per evitare il pregiudizio alle esigenze educative del minore. Tutte queste considerazioni ci portano a concludere che l’istituto della irrilevanza del fatto di cui all’art. 27 cit. rappresenta un istituto assai differente da quelli previsti dagli ordinamenti europei e, come vedremo subito, da quelli a carattere generale prospettati dal nostro legislatore: esso, infatti, pur basandosi anche su requisiti concernenti la tenuità del fatto concreto, è stato previsto essenzialmente per evitare al minore pregiudizi derivanti dal pro(117) In questo senso, v., per tutti, BERNARDI, Art. 408 c.p.p., in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. IV, Torino, 1990, p. 530; MANZIONE, Art. 425 c.p.p., ivi, pp. 665-666; MARZADURI, Sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 84. (118) Sul punto, v. ampiamente COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., pp. 1681-1682. (119) In questo senso, PIGHI, L’ ‘‘irrilevanza’’ del fatto nel diritto penale minorile, cit., p. 73. (120) In tal senso, v. VINCIGUERRA, Irrilevanza del fatto nel procedimento penale minorile, cit., p. 83; TESTAQUADRA, Proscioglimento per irrilevanza del fatto nel giudizio abbreviato e nel giudizio ordinario minorile, in Giust. pen., 1993, III, c. 214 ss.; COLAMUSSI, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, cit., p. 1682.
— 1497 — cedimento, non essendo esatto ritenere che ‘‘la rinuncia statuale a punire il minore non è stata collegata all’opportunità di espungerlo sollecitamente dal circuito penale [...] ma è stata determinata dalla scarsissima valenza antisociale del comportamento’’ (121). 3.4. Passando all’analisi degli istituti recentemente prospettati dal nostro legislatore, come accennato all’inizio, l’art. 346-bis c.p.p. del disegno di legge n. 4625/C-1998 e l’art. 335-bis c.p.p. del disegno di legge n. 4625-bis/C-1998 (c.d. disegno di legge Carotti) prevedevano, rispettivamente, una condizione di improcedibilità ed una causa di non punibilità in senso stretto, da applicarsi quando il fatto risultava ‘‘penalmente irrilevante’’, e cioè quando — fra l’altro — ‘‘rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché le modalità della condotta, la sua occasionalità, valutata anche in relazione alla capacità a delinquere del reo, e il grado di colpevolezza’’ non giustificavano l’esercizio dell’azione penale (122). Indipendentemente dalla sua qualificazione giuridica, nell’intento del nostro legislatore l’istituto dell’irrilevanza penale del fatto doveva costituire uno strumento di deflazione del sistema processuale, un meccanismo, cioè, finalizzato a far fronte a quel fenomeno di ipertrofia verticale del diritto penale caratterizzato dalla esiguità del fatto concreto e dalla sua diffusione. Nella relazione di accompagnamento del primo disegno di legge, infatti, si affermava: ‘‘l’introduzione di tale istituto muove dal presupposto che negli ordinamenti contemporanei l’obbligo astratto del perseguimento totale dei reati non possa trovare pratica attuazione [...] Lo sviluppo assunto dalla criminalità di massa crea innanzi tutto un problema di funzionalità del sistema penale [...] l’istituto della irrilevanza penale del fatto [...] tende a fornire una risposta all’istanza di deflazione del sistema penale’’. Nessun cenno, neppure marginale, veniva fatto alla possibilità di perseguire anche una finalità di depenalizzazione della criminalità bagatellare impropria. Le disposizioni in esame, pertanto, almeno sotto il profilo delle intenzioni legislative, erano dirette a perseguire finalità diverse da quelle perseguite dagli istituti adottati negli altri sistemi penali europei (Germania, Austria, Portogallo). Tuttavia, la formulazione della norma portava a conclusioni assai diverse: essa, infatti, come già abbiamo notato per i §§ 153 e 153a dStPO, non aveva un ambito di applicazione circoscritto a quei soli reati esigui e diffusi che creano un congestionamento degli uffici giudiziari (es. furto, appropriazione indebita, lesioni, emissione di assegni a vuoto etc.), ma aveva una portata di carattere generale dalla quale emergeva la volontà di non punire tutti i fatti, e non solo quelli statisticamente frequenti, che risultavano in concreto esigui. (121) Così, GERMANÒ, Processo penale minorile e processo per gli adulti: diversa funzione e diverse disposizioni. Ruolo ‘‘pioniere’’ del processo penale minorile, in AA.VV., Questioni nuove di procedura penale. Le riforme complementari, Padova, 1991, p. 61. (122) Su tali istituti, v. TAORMINA, L’irrilevanza penale del fatto tra diritto e processo, in Giust. pen., 1998, III, c. 257 ss.; DIDDI, ‘‘Irrilevanza penale del fatto’’. Inconfigurabilità del reato o autore non punibile?, ivi, 1998, III, c. 267 ss.; DIOTALLEVI, L’irrilevanza penale del fatto nelle prospettive di riforma del sistema penale: un grande avvenire dietro le spalle?, in Cass. pen., 1998, p. 2086 ss.; RONCO, L’irrilevanza penale del fatto. Verso la depenalizzazione per mano del giudice, in Critica pen., 1998, p. 13 ss.; FIORE S., Osservazioni in tema di clausole di irrilevanza penale e trattamento della criminalità bagatellare. A proposito di una recente proposta legislativa, in Critica del diritto, 1998, p. 274 ss.; APRILE, Il principio di irrilevanza penale del fatto nel d.d.l. 4625-bis/C: si profila un ritorno all’aequitas medievale?, in Documenti giustizia, 1998, c. 1809 ss. Prima di questi progetti di riforma, sulla possibilità di introdurre anche nel nostro ordinamento istituti di depenalizzazione in concreto, v. ZANCHETTA, L’ ‘‘irrilevanza del fatto’’ come strumento deflattivo: una via praticabile?, in Quest. giust., 1990, p. 107 ss.; CASTELLI, Esigenze di deflazione e risposte possibili tra obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, ivi, 1990, p. 97 ss.; RUGGIERI, Strumenti deflattivi procedimentali, ivi, 1991, p. 485. Da ultimo v. anche Relazione della commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con d.m. 1o ottobre 1998, in questa Rivista, 1999, p. 602 ss.
— 1498 — Nonostante la prevalenza di questa finalità, la disposizione perseguiva comunque anche uno scopo deflattivo. Ciò lo si poteva ricavare dall’ultimo comma di entrambe le disposizioni, il quale stabiliva che ‘‘l’irrilevanza penale del fatto può essere dichiarata solo se vi è stata la richiesta del pubblico ministero o dell’imputato. Se è stata esercitata l’azione penale l’irrilevanza del fatto può essere dichiarata se l’imputato non si oppone’’. Pertanto, l’effetto deflattivo, quale che fosse la qualificazione giuridica dell’istituto in esame, conseguiva dal fatto che l’irrilevanza penale poteva essere dichiarata già durante le indagini preliminari. Tuttavia non era del tutto chiaro se, nell’ipotesi in cui tale istituto veniva qualificato come causa di non punibilità, il pubblico ministero poteva chiedere l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato ai sensi dell’art. 408 c.p.p., oppure se l’irrilevanza doveva essere dichiarata dal giudice soltanto con sentenza di non luogo a procedere, attraverso un procedimento analogo a quello di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1998. Come abbiamo visto in precedenza, la prima soluzione sarebbe stata non solo più coerente ma anche conforme all’art. 112 Cost. Sulla ratio dell’istituto, quindi, si può concludere che le disposizioni in esame, indipendentemente dalla loro collocazione, si fondavano essenzialmente su un’idea di ‘‘economia della pena’’ e, consequenzialmente, costituivano mezzi di deflazione del sistema processuale. Per quanto concerne la natura giuridica, come accennato, originariamente l’irrilevanza penale del fatto era stata qualificata come condizione di improcedibilità e successivamente come causa di non punibilità. In entrambi i casi i presupposti erano gli stessi. Una qualificazione come condizione di non procedibilità poteva suscitare qualche perplessità, non tanto perché potenzialmente in contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, quanto perché sistematicamente incoerente. Sotto il primo profilo (potenziale contrasto con l’art. 112 Cost.), infatti, occorre rilevare che, se il principio di obbligatorietà dell’azione penale viene concepito come principio di legalità processuale, il quale, precludendo al pubblico ministero qualunque valutazione di opportunità — sia essa di tipo politico-criminale che di tipo politico giudiziale —, risulta rispettato allorquando l’attività dell’organo inquirente è totalmente assoggettata alla legge (123), è evidente come l’irrilevanza penale del fatto, concepita come condizione di improcedibilità, non violasse l’art. 112 Cost., e questo perché i criteri assunti a base del giudizio erano così determinati da precludere ogni spazio di apprezzamento ispirato a valutazioni di opportunità. Da un punto di vista della coerenza sistematica, invece, la qualificazione dell’istituto come condizione di improcedibilità non sembrava del tutto adeguata, in quanto i parametri del giudizio di irrilevanza riguardavano il fatto e l’autore, ma, come abbiamo più volte accennato, una qualificazione come condizione di improcedibilità è più coerente con la previsione di criteri valutativi di interessi esterni al fatto ed al suo autore e collegati al procedimento penale. Da ciò consegue che, diversamente, una concezione dell’istituto come causa di non punibilità risultava più opportuna, sia perché i criteri si prestavano ad essere configurati propriamente come causa di non punibilità, sia perché, nonostante tale qualificazione, esigenze deflattive potevano egualmente essere soddisfatte, in quanto, lo ripetiamo, o la sussistenza (123) Su tale concezione ‘‘minimale’’ del principio di obbligatorietà dell’azione penale, v. ZAGREBELSKY V., Indipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in AA.VV., Pubblico ministero e accusa penale. Prospettive di riforma, cit., p. 6, secondo il quale ‘‘in realtà il nucleo essenziale del principio di obbligatorietà dell’azione penale risiede nell’esclusiva soggezione alla legge di chi è chiamato ad esercitarla, e si risolve in un aspetto del principio di legalità’’; GIUNTA, Interessi privati e deflazione processuale nell’uso della querela, Milano, 1993, pp. 111-112; GREVI, Garanzie soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione costituzionale, in questa Rivista, 1998, p. 751 e p. 753, secondo il quale il principio di obbligatorietà ‘‘riflette, nell’ambito del processo, il più generale principio di legalità’’. Per ulteriori considerazioni ed approfondimenti, v. infra § 6.
— 1499 — dell’irrilevanza avrebbe dato la possibilità al pubblico ministero di chiedere l’archiviazione ai sensi dell’art. 408 c.p.p. oppure avrebbe potuto essere dichiarata dal giudice con una sentenza di non luogo a procedere dopo un procedimento speciale. Per quanto riguarda l’ambito di applicazione, tali istituti potevano essere applicati solo se si trattava di reati ‘‘per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena’’. Circa i criteri assunti a base del giudizio di irrilevanza, mentre quello di esiguità del danno o del pericolo costituiva un parametro perfettamente coerente all’idea secondo la quale soglie quantitative possono non solo incidere sul quantum di pena ma anche segnare il confine tra ciò che è lecito ed illecito, punibile e non punibile (si pensi alle disposizioni presenti nel nostro ordinamento che attenuano o escludono la pena sulla base della esiguità dell’offesa) (124), il requisito delle modalità della condotta suscitava qualche perplessità. In primo luogo, come emergeva dalla disposizione, il coefficiente dell’esiguità avrebbe dovuto caratterizzare anche tale elemento, con la conseguenza che, nel caso di reati a condotta vincolata, l’ambito di applicazione della disposizione si sarebbe notevolmente ristretto. In secondo luogo, e soprattutto, le modalità della condotta di per sé considerate costituiscono un indicatore praticamente privo di capacità espressiva, per cui più opportuno sarebbe stato ricondurre tale requisito nella base di un giudizio concernente il disvalore oggettivo del fatto o, meglio ancora, relativo alla colpevolezza (125). Il terzo requisito dell’irrilevanza penale del fatto era costituito dalla occasionalità della condotta, da valutarsi anche in rapporto alla capacità a delinquere del reo (art. 133, comma 2, c.p.). Già abbiamo visto come nel diritto penale minorile il criterio dell’occasionalità possa essere interpretato in tre modi diversi, intendendolo o in senso cronologico o in senso psicologico oppure identificandolo con la capacità a delinquere del reo (126). Tuttavia, a ben vedere, in questo caso il legislatore, non aveva recepito nessuna di queste interpretazioni, adottando una formula — per così dire — compromissoria. Da un lato, infatti, il riferimento alla condotta faceva ritenere che l’occasionalità dovesse essere valutata sulla base di un criterio psicologico, dall’altro, invece, il fatto che essa dovesse essere valutata anche in rapporto alla capacità a delinquere del reo proiettata nel futuro apriva la strada ad un giudizio concernente la persona del reo. A nostro avviso, una tale impostazione non sembrava del tutto perspicua. In primo luogo, su un piano pratico-applicativo, proprio perché l’occasionalità doveva essere valutata (anche) sulla base della capacità a delinquere del reo, quest’ultima avrebbe presumibilmente finito per accentrare su di sé l’intera attenzione dell’interprete, per cui l’occasionalità sarebbe stata interpretata come capacità a delinquere del reo e quindi come attitudine dell’autore a commettere nuovi reati. In secondo luogo, su un piano concettuale, tale criterio risultava assai vago ed indeterminato o, quanto meno, di complessa attuazione, in quanto è difficile pensare e realizzare un giudizio di occasionalità concernente la condotta, il quale a sua volta deve essere valutato (anche) sulla base di un giudizio relativo alla persona. Infine, a noi pare che la previsione del requisito in esame debba essere esclusa nel caso di autore maggiorenne, dovendosi, infatti, ritenere che esso sia strettamente connesso alla particolare personalità ancora in via di formazione qual è quella di un soggetto minore di età ed al suo carattere volubile ed immaturo. Forse più opportuno, pertanto, sarebbe stato fare riferimento alla sola capacità a delinquere del reo. Accogliendo questa seconda interpretazione, il giudizio di irrilevanza si sa(124) Sul punto, v., per tutti, PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 664 ss. (125) In generale, per una riconduzione delle modalità della condotta nel giudizio di colpevolezza, v., per tutti, DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979, p. 334 ss. e soprattutto p. 338. Contra, con riferimento alle modalità della condotta come indici autonomi del giudizio di esiguità del fatto, v. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 747. (126) Sul punto, v. retro § 3.3.
— 1500 — rebbe esteso anche all’autore del reato, attribuendosi un ruolo anche a punti di vista relativi agli scopi della pena ed in particolare alle esigenze di prevenzione speciale, così come avviene negli altri istituti europei che abbiamo visto. D’altra parte, non si può non rilevare come una valutazione di queste esigenze non fosse del tutto coerente con la qualificazione dell’istituto come causa di non punibilità. Infine, l’irrilevanza penale del fatto presupponeva anche un ‘‘grado della colpevolezza’’ esiguo. Sul punto occorre rilevare che nel nostro codice penale sono poche le disposizioni concernenti i fattori che incidono sul processo motivazionale del reo. Sarebbe stato perciò conveniente che il legislatore predeterminasse eventuali criteri positivi o negativi di esiguità della colpevolezza: così, ad esempio, tra i primi avrebbe potuto fare riferimento alle cause di inesigibilità, alle semi-scusanti; tra i secondi, oltre all’intensità del dolo ed al grado della colpa, avrebbe potuto valorizzare i motivi e le finalità dell’agente così come le modalità della condotta. 4. Terminata l’analisi dei singoli istituti, a questo punto si possono trarre alcune considerazioni conclusive. In primo luogo, occorre rilevare che tutte le disposizioni esaminate assolvono una funzione prioritaria di ‘‘economia della pena’’: esse, cioè, sono essenzialmente dirette a garantire la funzione di ultima ratio del diritto penale, evitando l’inflizione di una sanzione criminale per fatti in concreto privi di un significativo disvalore e, quindi, sono volte ad affrontare quel fenomeno di ipertrofia verticale del diritto penale che si caratterizza, come abbiamo visto all’inizio, per la sola esiguità del singolo fatto concreto. In tal senso si pongono sia gli istituti di diritto penale sostanziale, come la ‘‘mancanza di meritevolezza della pena del fatto’’ (§ 42 öStGB) e la ‘‘dispensa dalla pena’’ (art. 74 cód. pen.), sia gli istituti di diritto penale processuale, come le archiviazioni incondizionate e condizionate (§§ 153 e 153a dStPO e artt. 280-282 cód. proc. pen.). Inoltre, nonostante le intenzioni dichiarate dal nostro legislatore, anche gli istituti di cui agli artt. 346-bis e 335-bis c.p.p. rispondevano all’esigenza di evitare l’inflizione della pena e la stigmatizzazione che consegue da una condanna penale. In secondo luogo, è importante notare che tali istituti possono soddisfare anche esigenze di economia processuale, sia nell’ipotesi in cui l’istituto venga collocato in ambito processuale, sia che venga collocato in ambito sostanziale. Nel primo caso la soddisfazione dell’esigenza deflattiva è — per così dire — intrinseca, nel senso che dipende dalla stessa collocazione dell’istituto nel sistema penale processuale e dalla sua natura archiviatoria. Nel secondo caso, invece, ciò avviene o attraverso la previsione di particolari procedimenti che consentono una rapida definizione del procedimento oppure perché l’istituto, nonostante non sia qualificato come condizione di improcedibilità, può dare egualmente luogo ad un’archiviazione: così, la ‘‘mancanza di meritevolezza di pena del fatto’’ può essere applicata anche dal pubblico ministero; nel caso in cui ricorrano i presupposti della dispensa dalla pena, il pubblico ministero può procedere direttamente all’archiviazione del procedimento; l’irrilevanza del fatto nel sistema penale minorile italiano può dar luogo, già durante le indagini preliminari, ad un procedimento speciale che si conclude con una sentenza di non luogo a procedere; una situazione analoga si sarebbe avuta anche per l’irrilevanza penale del fatto concepita come causa di non punibilità. Da ciò consegue che esigenze di ‘‘economia della pena’’ e di ‘‘economia processuale’’ possono essere soddisfatte attraverso un unico istituto, il quale, da un lato, proprio per rispondere alle prime esigenze, deve avere una portata generale, dall’altro, al fine di eliminare le disfunzionalità del sistema, o viene collocato in ambito processuale oppure, se collocato in ambito sostanziale, deve poter essere applicato mediante un procedimento speciale anche durante le indagini preliminari o dare luogo a un’archiviazione. Se tutto questo è vero, allora si può concludere questa prima parte del presente lavoro osservando che sia i meccanismi di depenalizzazione in astratto, consistenti nella degradazione di reati di per sé privi di significativo disvalore in illeciti amministrativi, sia quelli di depenalizzazione in concreto, consistenti nella previsione di istituti l’applicazione dei quali
— 1501 — comporta l’improcedibilità o la non punibilità di fatti in concreto esigui, rispondono ad esigenze di ‘‘economia della pena’’, mentre soltanto in modo consequenziale soddisfano esigenze di ‘‘economia processuale’’. La loro differenza, pertanto, non discende dalla diversa funzione assolta, per cui la depenalizzazione in astratto è finalizzata a garantire la funzione di ultima ratio del diritto penale, mentre la depenalizzazione in concreto è volta a deflazionare il sistema processuale, bensì soltanto dal fatto che esistono due diversi ‘‘fenomeni ipertrofici’’ del diritto penale (ipertrofia c.d. orizzontale [eccessiva estensione del confine orizzontale della applicazione della pena] e verticale [eccessiva estensione del confine verticale della applicazione della pena] del diritto penale) ovvero, detto in altri termini, due tipologie di reati bagatellari, due tipologie, cioè, di reati la cui punizione risulta eccessiva e sproporzionata: i reati bagatellari c.d. propri, i quali, essendo di per sé privi di un significativo disvalore, possono essere già sul piano astratto e una volta per tutte depenalizzati, ed i reati bagatellari c.d. impropri, i quali, essendo solo in concreto esigui, ma conformi a fattispecie che solitamente abbracciano anche fatti di notevole disvalore, non possono essere ‘‘eliminati’’ definitivamente dal sistema penale, richiedendo non solo un intervento del legislatore (fissazione attraverso legge dei criteri di esiguità), ma anche l’intervento caso per caso dell’interprete (127). 5. Se per la depenalizzazione in astratto si pone il problema di stabilire quali sono i reati bagatellari propri, i reati cioè che secondo la previsione legale sono di per sé privi di un significativo disvalore, e quindi, nella sostanza, di determinare i criteri (qualitativi) di riparto tra sanzioni penali e sanzioni punitive amministrative (128), per la depenalizzazione in concreto sussiste un problema del tutto analogo, consistente nell’individuazione della struttura, del ‘‘tipo’’ del reato bagatellare improprio, e quindi dei criteri (quantitativi) in base ai quali compiere il giudizio di concreta esiguità (129). A ben vedere, però, tale problematica è resa più complessa dal fatto che l’istituto di depenalizzazione in concreto può trovare una collocazione o in ambito processuale (Germania, Portogallo) o in ambito sostanziale e, in questa seconda ipotesi, può attenere o alla categoria della punibilità del reato (Austria, Italia) oppure alle conseguenze sanzionatorie (Portogallo). Sul punto, infatti, occorre rilevare che esiste, anzitutto per ragioni di coerenza sistematica, un collegamento tra la qualificazione giuridica di un determinato istituto e le ragioni di convenienza che sottostanno a tale qualificazione, ovvero, tradotto in termini normativi, tra tale qualificazione e i presupposti-criteri attraverso i quali le stesse ragioni di convenienza sono espresse e tipizzate. Detto in altri termini, la collocazione sistematica di un determinato istituto deve tendenzialmente essere coerente coi criteri ad esso sottostanti, nella premessa che — comunque — questi ultimi rispondono a scelte di politica criminale. Così, ad esempio, nelle condizioni di (im)procedibilità, che hanno la loro ragion d’es(127) Su tale distinzione v., per tutti, KRÜMPELMANN, Die Bagatelldelikte, cit., pp. 36-37 e 57-61, il quale parla di reati bagatellari ‘‘autonomi’’ (selbständige) e ‘‘non autonomi’’ (unselbständige); ZIPF, Politica criminale, cit., p. 193, il quale parla di reati bagatellari ‘‘propri’’ (eigentliche) e ‘‘impropri’’ (uneigentliche). (128) Su tale problematica, v., DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione, cit., p. 602 ss.; PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative secondo l’esperienza italiana, cit., p. 953 ss.; PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative (dalle leggi di depenalizzazione alla circolare della Presidenza del consiglio), in Indice pen., 1986, p. 37 ss.; GIUNTA, voce Depenalizzazione, cit., p. 210 ss. (129) Sul punto, v. ampiamente KRÜMPELMANN, Die Bagatelldelikte, cit., p. 62 ss.; KEISER, Möglichkeiten der Bekämpfung von Bagatellkriminalität in der Bundesrepublik Deutschland, in ZStW, 1978, p. 881 e p. 889; BECKMANN, Das Bagatelldelikt und seine Behandlung im Strafgesetzbuch der Schweiz, Baden-Baden, 1982, p. 26 ss. e soprattutto p. 37; KUNZ, Das Strafrechtliche Bagatellprinzip, cit., p. 194 ss. e p. 250 ss.; PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 627 ss. e p. 741 ss.
— 1502 — sere nell’esigenza di tutela o, meglio ancora, nella prevalenza di un interesse esterno al reato rispetto a quello di procedere (130) (si pensi alla querela-garanzia ed alla querela-opportunità (131), ma anche, come abbiamo visto, alla ‘‘irrilevanza del fatto’’ di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988), i presupposti applicativi devono essere in grado di esprimere tali ragioni di convenienza. In particolare, quando le ragioni per le quali la legge ammette l’astensione dal perseguimento penale sono insuscettibili di previsione generale ed estratta, le condizioni di (im)procedibilità tendono a configurarsi come atti che devono essere fatti valere volta per volta attraverso una concreta manifestazione di volontà (es. querela) (132); al contrario, quando le ragioni di convenienza possono essere tipizzate una volta per tutte, le condizioni di (im)procedibilità tendono a configurarsi come fatti (espressivi dell’interesse soggiacente) che il pubblico ministero deve via via accertare (133) (es. il pregiudizio alle esigenze educative derivanti dall’ulteriore corso del procedimento). Diversamente, le cause di non punibilità in senso stretto devono avere come presupposti elementi che, attenendo al reato (cause di non punibilità oggettive) o alla persona dell’autore al momento della commissione del fatto (cause di non punibilità personali), siano in grado di esprimere, concretizzare l’interesse che prevale o addirittura annulla l’opportunità di punire (es. art. 649 c.p., dove i rapporti familiari esistenti al momento del fatto prevalgono sull’interesse della giustizia penale). Infine, gli istituti che attengono alle conseguenze giuridiche e che, più precisamente, interrompono il passaggio dalla condanna all’esecuzione della pena (es. perdono giudiziale; sospensione condizionale della pena), presuppongono — fra l’altro — la considerazione di esigenze specialpreventive che si oppongono all’applicazione della pena, la cui indefettibilità risulta dunque condizionata dal particolare assetto della vicenda concreta ovvero (anche) dalla particolare personalità del reo (sia il perdono giudiziale che la sospensione condizionale, infatti, sono subordinate al requisito della prognosi di non recidiva del colpevole). Ma un collegamento tra la qualificazione giuridica (collocazione sistematica) di un certo istituto e i criteri della sua applicazione deve sussistere anche, e soprattutto, per ragioni di garanzia. Come vedremo meglio in seguito, esistono, infatti, tutta una serie di criteri, quali, ad esempio, quelli concernenti la personalità dell’autore, che, se configurati come cause che escludono la punibilità lato sensu intesa, finiscono per conferire all’organo giudiziario un’ampia discrezionalità che entra in forte tensione, se non addirittura in potenziale contrasto, con i principi di legalità sostanziale e processuale. Inoltre, subordinare l’applicazione di istituti così qualificati ad una valutazione della personalità dell’autore oppure alla considerazione di esigenze di prevenzione speciale appare inopportuno, sia perché si finirebbe per riconoscere al pubblico ministero una piena potestà giurisdizionale che si estende a giudizi di regola riservati e compiuti dal giudice in sede di commisurazione della pena, dopo una completa istruzione, un dibattimento e un accertamento del reato; sia perché, data la fase iniziale del procedimento, c’è il rischio che tali accertamenti si riducano a valutazioni approssimative, se non addirittura prive di un reale fondamento. Senza considerare, poi, che tali giudizi sono teleologicamente connessi all’indivi(130) Sul punto, v., per tutti, ORLANDI, voce Procedibilità (condizioni di), in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 44. (131) Su tale distinzione, v. ampiamente GIUNTA, Interessi privati e deflazione processuale nell’uso della querela, cit., p. 37 ss. (132) In questo senso, v. BRICOLA, voce Punibilità (condizioni obiettive di), in Noviss. Dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, p. 601; NEPPI MODONA, Artt. 112 e 107, comma 4, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, La magistratura, tomo IV, BolognaRoma, 1987, pp. 50-51; da ultimo ORLANDI, voce Procedibilità (condizioni di), cit., p. 46. (133) In questo senso, v. ORLANDI, voce Procedibilità (condizioni di), cit., p. 46, secondo il quale la regola che le condizioni di procedibilità tendano a configurarsi come ‘‘atti’’ subisce delle eccezioni, non essendo escluso che il verificarsi di un ‘‘fatto’’ sia previsto come condizione di procedibilità.
— 1503 — dualizzazione della pena e alle esigenze di prevenzione speciale, ovvero presuppongono il passaggio dall’accertamento del fatto a una condanna. Al contrario, la considerazione di esigenze preventive e un giudizio prognostico sulla personalità appaiono legittimi quando, una volta accertato il fatto, e quindi pronunciata la condanna, si deve stabilire se la pena debba essere applicata o meno al reo: in tale ipotesi, infatti, proprio e soltanto un esame della personalità del reo permette di decidere se l’esecuzione della pena sia necessaria oppure no per la rieducazione dell’autore. Se tutto questo è vero, allora risulta chiaro che una struttura del reato bagatellare improprio valida — per così dire — in modo assoluto non è individuabile, per cui si deve ammettere che, in un certo senso, il ‘‘tipo’’ di reato bagatellare improprio assume una diversa struttura a seconda dei diversi criteri di esiguità adottati. I quali, pur rispondendo a scelte funzionali politico-criminali, devono essere previsti nel rispetto delle suddette garanzie (principi di legalità processuale e sostanziale, stato del procedimento etc.), garanzie che mutano a seconda della collocazione sistematica dell’istituto. Sulla scia di quanto affermato, allora, la nostra indagine deve spostarsi sui criteri di valutazione della esiguità del reato. In linea di massima, si possono individuare tre tipologie di criteri, distinguendo a seconda che essi riguardino: 1) elementi esterni al reato e al suo autore; 2) il reato (tipicità, antigiuridicità, colpevolezza); 3) la personalità dell’autore. 1) Tra i criteri del primo tipo, rientra anzitutto ‘‘l’interesse pubblico al perseguimento’’ di cui ai §§ 153 e 153a dStPO. Nonostante che venga interpretato in chiave di prevenzione speciale e soprattutto generale (134), risulta evidente che esso esprime una ragione di convenienza attinente non tanto al dovere di punire o di applicare la pena, quanto piuttosto al dovere di procedere. Anzi, ad un’analisi più attenta, si dimostra per certi aspetti incoerente il consolidato orientamento della dottrina e della giurisprudenza diretto a ricondurre tale presupposto agli scopi della pena. Tuttavia, questo indirizzo sembra essere imposto dalla necessità di rendere meno indeterminato un concetto così vago come quello in esame: solo così, infatti, si riduce — ma come abbiamo visto non si elimina — la sua assoluta genericità, che comporterebbe l’attribuzione al pubblico ministero o al giudice di un potere incontrollato ed incontrollabile, e quindi, nella sostanza, arbitrario. Il criterio dell’interesse pubblico al perseguimento, proprio perché esterno al reato ed al suo autore e proprio perché da impiegare allo scopo di stabilire se il processo debba essere o meno instaurato, risulta coerente ad una qualificazione dell’istituto come causa di improcedibilità. In questa tipologia di criteri rientrano, poi, le ragioni di prevenzione generale di cui al § 42 öStGB e all’art. 74, n. 3, cód. pen. Trattandosi di criterio concernente le funzioni della pena, esso si dimostra particolarmente conforme ad una collocazione dell’istituto in ambito sostanziale e, in particolare, come istituto di rinuncia all’applicazione della pena. Tuttavia, la considerazione di criteri finalistici orientati sulla prevenzione generale risulta veramente coerente solo se le esigenze generalpreventive devono essere valutate durante la commisurazione della pena, come ad esempio accade nel sistema penale portoghese, dove l’art. 71, comma 1, cód. pen. stabilisce espressamente che ‘‘la determinazione della misura della pena [...] è compiuta in funzione della colpevolezza dell’agente e delle esigenze di prevenzione’’, tra le quali rientrano anche e per l’appunto le esigenze di prevenzione generale (135). Al contrario, quando si ritiene che alla commisurazione della pena siano estranee siffatte valutazioni, il riferimento a tale criterio risulta inopportuno. Senza considerare, poi, che questo parametro finalistico, proprio per la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, di tipizzare (134) V. retro § 3. (135) Sul punto, v. DE FIGUEIREDO DIAS, Direito penal português, cit., p. 241 ss.; DOLCINI, L’art. 133 c.p. al vaglio del movimento internazionale di riforma, in questa Rivista, 1990, p. 419.
— 1504 — lo stesso oggetto del giudizio e quindi gli indici fattuali, finisce per essere abbandonato alla mera intuizione dell’interprete (136). 2) I criteri che riguardano il reato possono essere distinti a seconda che concernano: A) il fatto tipico (elemento materiale del fatto tipico); B) la colpevolezza. A) In particolare, gli elementi relativi al fatto tipico possono attenere: a) al c.d. disvalore d’evento; b) al c.d. disvalore d’azione. a) Tra i primi (elementi attinenti al disvalore di evento), rientrano anzitutto il danno o la messa in pericolo derivanti dal fatto di cui agli artt. 346-bis e 335-bis c.p.p. (rispettivamente progettati nei disegni di legge n. 4625/C-1998 e n. 4625-bis/C-1998) e l’assenza di conseguenze o la presenza di conseguenze insignificanti o esigue previste dal § 42, n. 2, parte prima, öStGB e dal § 153, comma 1, parte 2, dStPO. Mentre il riferimento al danno o alla messa in pericolo non dà luogo a particolari problemi interpretativi ed applicativi, al contrario, il riferimento alle conseguenze (Folgen) del fatto, comprendente sia le conseguenze tipiche che quelle atipiche, pone il problema del trattamento, ma soprattutto dell’individuazione, delle conseguenze incolpevoli (137). Inoltre, il criterio della tenuità dell’offesa derivante dal fatto risulta particolarmente determinato, in quanto costituisce un fattore che si situa all’interno del disvalore del fatto espresso dagli elementi tipici della fattispecie incriminatrice. Per quanto concerne il presupposto della riparazione del danno (§ 42, n. 2, parte 2, öStGB e art. 74, comma 1, lett. b), cód. pen.), occorre rilevare che esso, rigorosamente inteso, non può essere considerato un fattore che incide sulla esiguità del disvalore di evento. Il risarcimento del danno, infatti, costituisce un comportamento successivo alla commissione del reato, il quale, pertanto, pur eliminando ex post il danno, rappresenta un elemento esterno al singolo fatto concreto così come descritto dalla fattispecie incriminatrice. Come vedremo meglio in seguito, tale presupposto, più che al disvalore d’evento, sembra attenere semmai alla colpevolezza, quest’ultima intesa, però, non come colpevolezza del fatto (Tatschuld o Einzeltatschuld) e quindi come giudizio di rimproverabilità avente ad oggetto il reato, bensì come colpevolezza della commisurazione della pena (Strafzumessungsschuld), la quale, secondo un’opinione diffusa soprattutto nella dottrina d’oltralpe, può estendersi anche alla valutazione di fattori esterni al singolo fatto ed inerenti la personalità (e il carattere) del reo (Täterschuld o Lebensführungsschuld) (138). A ben vedere, però, la riparazione del danno può attenere anche ad esigenze di prevenzione generale orientata all’integrazione ed alla ‘‘pacificazione’’, la rilevanza delle quali implica — per così dire — un’interpretazione oggettiva della funzione di tale requisito, per cui la ratio della sua previsione non consiste tanto nella valutazione del ravvedimento, della resipiscenza del reo, quanto piuttosto nel ristabilimento della pace giuridica turbata dal reato e nel soddisfacimento di determinati interessi della vittima (139). (136) A favore dell’esclusione del criterio finalistico orientato sulla prevenzione generale come indice di esiguità del reato è anche PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., pp. 751-752, secondo il quale l’introduzione di tale presupposto in un modello di depenalizzazione ‘‘approderebbe a un uso squisitamente politico e contingente della ‘clemenza’ giudiziale’’. (137) Sul punto, v. ampiamente DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 344 ss. e soprattutto p. 346 ss., e gli Autori ivi citati. (138) In generale, su tale distinzione, v., per tutti, DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 283 ss. (139) Nel senso che il risarcimento del danno può svolgere una funzione di prevenzione generale integratrice, v. ROXIN, Risarcimento del danno e fini della pena, in questa Rivista, 1987, pp. 16-17. A favore di un’interpretazione oggettiva della ratio della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p., cfr. da ultimo Corte cost., sentenza 23 aprile 1998, n. 138, in Cass. pen., 1999, p. 395 ss., con nota adesiva di BISORI, Appunti per un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’attenuante del risarcimento del danno, ivi, 1999, p. 395 ss. Sul punto v. anche PADOVANI, L’attenuante del risarcimento del danno e l’inden-
— 1505 — b) Nei fattori attinenti al disvalore di azione rientrano, come è noto, le modalità della condotta (140). Mentre in Germania, Austria e Portogallo tale indice viene ricompreso nel giudizio di colpevolezza, al contrario negli artt. 346-bis e 335-bis c.p.p. esso veniva menzionato come requisito da valutarsi autonomamente. Sul punto non si può che ripetere quanto già detto in precedenza: le modalità della condotta di per sé considerate costituiscono un indicatore privo di capacità espressiva, per cui sarebbe più opportuno ricondurre tale requisito nella base di un giudizio complessivo sul disvalore oggettivo del fatto o, meglio ancora, relativo alla colpevolezza. B) Tra i criteri attinenti al reato rientra poi l’esiguità della colpevolezza, alla quale fanno riferimento tutte le disposizioni che abbiamo analizzato. Come accennato, della colpevolezza si possono dare due differenti accezioni: una più ristretta che attiene al reato (Tatschuld) ed un’accezione più ampia avente ad oggetto anche la personalità del reo (Täterschuld). Mentre l’esiguità della prima è determinata dalla tenuità degli indici concernenti il reato (intensità del dolo e grado della colpa; modalità della condotta; moventi; imputabilità; presenza di eventuali circostanze ‘‘attenuanti’’ come quasi-scriminanti e semi-scusanti), l’esiguità della seconda deve essere valutata facendo riferimento anche a quelle componenti che attengono alla personalità del reo (precedenti giudiziari, vita anteatta, condizioni personali ed economiche dell’autore, condotta successiva al fatto). A nostro parere, mentre la prima accezione risulta particolarmente coerente ad una qualificazione dell’istituto come causa di non punibilità o comunque, posto che anche un istituto qualificato come condizione di improcedibilità deve presupporre una previa valutazione dell’esiguità della colpevolezza, ad una collocazione dell’istituto in un ambito differente dalla commisurazione-applicazione della pena, al contrario una concezione della colpevolezza coincidente con la Täterschuld, ammesso e non concesso che possa essere accolta (141), proprio per la considerazione di coefficienti estranei al fatto ed attinenti all’autore, si dimostra conforme ad una costruzione dell’istituto come attinente alla pena. Sul punto, è interessante notare come in Germania ed in Austria sia proprio quest’ultimo concetto che viene in considerazione, nonostante che gl’istituti siano stati qualificati rispettivamente come condizione di improcedibilità e come causa di non punibilità (142), nonostante che, cioè, considerata per l’appunto la collocazione sistematica degli istituti, si avverta la necessità di ridurre la discrezionalità degli organi giudiziari al fine di rispettare i principi di legalità sostanziale e processuale. Un identico concetto viene utilizzato anche nel sistema penale portoghese, il quale, però, ha previsto la dispensa dalla pena come istituto attinente alle conseguenze giuridiche (143). 3) Infine, tra i criteri concernenti l’autore del reato, oltre alla colpevolezza della commisurazione della pena coincidente con la colpevolezza per la condotta di vita, rientrano anzitutto i criteri finalistici di prevenzione speciale previsti dai § 42 öStGB e all’art. 74, n. 3, cód. pen. e il requisito dell’occasionalità del fatto, valutato anche in rapporto alla capacità a delinquere del reo e quindi in proiezione del comportamento futuro. Anche in questo caso nizzo assicurativo, in Cass. pen., 1989, p. 1183; BISORI, L’attenuante del risarcimento del danno e la disciplina di comunicazione delle circostanze ai concorrenti, ivi, 1998, p. 1081 ss. (140) Ci sembra opportuno precisare che nella dottrina d’oltralpe il c.d. disvalore della condotta ricomprende sempre più l’elemento soggettivo, e quindi l’intensità del dolo o il grado della colpa. (141) Per una critica di tale concetto di colpevolezza e per una decisa affermazione della necessità di riferirsi anche in sede di commisurazione della pena alla Tatschuld, v. ampiamente DOLCINI, La commisurazione della pena, cit., p. 286 ss., p. 289 ss., p. 301 ss. (142) Per quanto concerne la Germania, v. retro § 3. Per quanto concerne l’Austria, v. retro § 3.1. (143) V. retro § 3.2.
— 1506 — non si può non rilevare come la considerazione di esigenze preventive sia più coerente con una qualificazione dell’istituto in ambito sostanziale e attinente alla pena (144). Tirando le fila del discorso, a questo punto si può notare come una collocazione dell’istituto in ambito processuale ed una qualificazione dello stesso come condizione di improcedibilità sia coerente ad una previsione di criteri valutativi di elementi interni al reato (v. retro, punto 2: disvalore di evento; esiguità della colpevolezza del fatto) sui quali poi si innesta una considerazione di interessi esterni al fatto ed al suo autore (v. retro, punto 1: interesse pubblico al perseguimento). Diversamente, una collocazione dell’istituto in ambito sostanziale ed una sua qualificazione come causa di non punibilità risulta conforme alla previsione di un giudizio di esiguità avente ad oggetto soltanto elementi concernenti il reato (disvalore di evento; esiguità della colpevolezza del fatto). Infine, una collocazione dell’istituto sempre in ambito sostanziale, ma con attinenza alla sanzione, permette di prendere in considerazione elementi che riguardano il reato (disvalore di evento) e di allargare l’oggetto del giudizio verso l’autore (esiguità della Täterschuld [ammesso che la colpevolezza per la personalità sia idonea a fungere da limite nella commisurazione della pena], mancanza di esigenze di prevenzione speciale). D’altra parte, occorre precisare che quanto affermato è vero in modo — per così — tendenziale, poiché, come vedremo tra poco, nulla impedisce che, nel rispetto dei principi di legalità sostanziale e processuale, ragioni di politica criminale possano indurre ad inserire particolari criteri i quali, se da un lato non risultano pienamente coerenti con la natura giuridica dell’istituto, dall’altro non la stravolgono, rendendo tale istituto funzionale al perseguimento di determinati scopi assolutamente legittimi e ragionevoli. 6. Già abbiamo visto come una soluzione di tipo processuale consenta non solo di soddisfare le esigenze di ‘‘economia della pena’’ e quelle di ‘‘economia processuale’’, ma anche di dare una risposta sanzionatoria diversa da quella penale, ma pur sempre di tipo afflittivo (145). Essa, pertanto, da un punto di vista politico criminale, costituisce un meccanismo che permettere di raggiungere un certo equilibrio tra istanze deflattivo-depenalizzatrici ed istanze repressive. Si tratta, adesso, di verificare se tale soluzione possa essere adottata anche nel nostro sistema penale. Sul punto occorre anzitutto notare che la collocazione sistematica dell’istituto dell’irrilevanza penale del fatto al momento dell’esercizio dell’azione penale non costituisce per ciò solo una violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. Tale principio, infatti, non prevede un dovere di esercitare l’azione penale a fronte di ogni notizia di reato che risulti fondata, ma si limita ad individuare nell’ufficio del pubblico ministero l’organo tenuto ad attivarsi ogniqualvolta sussistano i presupposti legalmente previsti per promuovere l’accusa (146), per cui si deve ritenere che esso non escluda la possibilità di prevedere ipotesi specifiche e predeterminate in cui l’obbligo del pubblico ministero è subordinato al verificarsi o al non verificarsi di determinate condizioni (147): poiché, infatti, il principio di obbligatorietà costituisce una garanzia di non discriminazione come (144) Tra questi criteri rientrano anche le esigenze di lavoro, di salute, di famiglia e di studio richiamate nello schema di decreto legislativo in materia di competenza penale del giudice di pace. Sul punto non si può fare a meno di notare come la considerazione di tali esigenze possa creare vere e proprie sperequazioni e quindi si ponga in palese contrasto con il principio di eguaglianza. (145) V. retro § 4. (146) Così, ORLANDI, voce Procedibilità (condizioni di), cit., p. 49. (147) V., fra i molti, CHIAVARIO, Riflessioni sul principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, in AA.VV., Scritti in onore di C. Mortati, vol. IV, Milano, 1977, p. 95 ss. (anche in ID., L’azione penale tra diritto e politica, cit., p. 36 ss.); NEPPI MODONA, Artt. 112 e 107, comma 4, in Commentario della Costituzione, cit., p. 48; DOMINIONI, voce Azione penale, in Dig. disc. pen., vol. I, Torino, 1987, p. 410; UBERTIS, voce Azione, II)
— 1507 — tale diretta a tutelare, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero dalla influenza e dalle pressioni di poteri esterni alla magistratura, dall’altro l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale, nulla esclude che, nel rispetto di questi valori, l’esercizio dell’azione penale sia subordinato all’esistenza o alla mancanza di certe condizioni (148). Ammessa, pertanto, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza costituzionale (149), la possibilità di condizionare l’esercizio dell’azione penale, occorre tuttavia rilevare che esiste ancora una diversità di opinioni sul criterio diretto a stabilire se le varie condizioni di procedibilità siano costituzionalmente legittime e quindi, in ultima analisi, sulla estensione di tale principio. Secondo una prima impostazione, si tratterebbe di verificare se la singola condizione attenga a interessi costituzionalmente protetti e tali, in sede di bilanciamento con l’interesse alla persecuzione penale tutelato dall’art. 112 Cost., da prevalere su questo (150). L’obbligatorietà, dunque, è qui intesa come vero e proprio obbligo che impone di esercitare l’azione penale a fronte di una notizia di reato che risulti fondata, il quale, però, può essere subordinato al contemperamento tra gli interessi di giustizia ed interessi di altra natura, con prevalenza dei secondi. Tale impostazione, tuttavia, suscita non poche perplessità. Anzitutto, risulta difficile stabilire quali siano gli interessi aventi rilevanza costituzionale: come, infatti, nel campo del diritto penale sostanziale è stata esclusa l’esistenza di un catalogo chiuso di beni giuridici che avendo rilevanza costituzionale risultano meritevoli di tutela penale (151), così, nel campo del diritto penale processuale, non sembra possibile stabilire quali siano gli interessi protetti dalla Costituzione che possono prevalere sul principio di cui all’art. 112 Cost. Inoltre, ammessa la rilevanza costituzionale di un determinato interesse, resta altrettanto difficile stabilire se e per quale ragione questo interesse possa prevalere sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, e questo perché non è possibile stilare una gerarchia rigida dei beni e degli interessi costituzionalmente rilevanti (152). L’accoglimento di tale impostazione, poi, renderebbe, a nostro parere, quasi per certo costituzionalmente illegittima l’eventuale previsione di una condizione di improcedibilità come quella in esame, posto che l’interesse di deflazionare il sistema penale, o quantomeno di renderlo effettivo, e i principi di ultima ratio del diritto penale o di proporzionalità non assurgono al rango di interessi costituzionali (153). Secondo un’altra impostazione, non si tratterebbe tanto di verificare la rilevanza costiAzione penale, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1988, p. 4; ORLANDI, voce Procedibilità (condizioni di), cit., p. 49. (148) In particolare, sulla funzione di non discriminazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale e conseguentemente sul collegamento tra obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero/parità di trattamento, v. per tutti CHIAVARIO, Archiviazione. Obbligatorietà dell’azione penale e riforma del c.p.p., in Quad. giust., 1986, p. 46 (anche in ID., L’azione penale tra diritto e politica, cit., p. 78). Sul punto, cfr. anche Corte cost., sentenza 26 luglio 1979, n. 84, in Giur. cost., 1979, I, p. 640. (149) Con riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale, cfr. da ultimo Corte cost., sentenza 15 febbraio 1991, n. 88, in Giur. cost., 1991, p. 591. (150) In proposito, v. CHIAVARIO, Riflessioni sul principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 97; DOMINIONI, voce Azione penale, cit., p. 410; UBERTIS, voce Azione, II) Azione penale, cit., p. 4; ORLANDI, voce Procedibilità (condizioni di), cit., p. 50. (151) In argomento, v., per tutti, PULITANÒ, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1984, p. 131 ss. (152) In questo senso, v. GIUNTA, Interessi privati e deflazione processuale nell’uso della querela, cit., p. 111. (153) Esclude la rilevanza costituzionale dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, fra gli altri, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 1995, p. 22. Di contrario avviso CHIAVARIO, Riflessioni sul principio costituzionale di obbli-
— 1508 — tuzionale degli interessi o la ragionevolezza del bilanciamento, quanto piuttosto di accertare se la singola condizione, la quale, sotto un profilo sistematico, deve comunque esprimere ragioni di convenienza esterne al reato e collegate al processo, non intacchi la posizione di totale assoggettamento del pubblico ministero alla legge (154). Obbligatorietà significa qui essenzialmente legalità, e cioè necessità di prevedere in via generale ed astratta le condizioni che possono rappresentare un ostacolo al promovimento dell’azione penale e, quindi, necessità di stabilire criteri sufficientemente determinati di modo che sia esclusa ogni valutazione di convenienza da parte del pubblico ministero: in sostanza, per questa concezione obbligatorietà significa esclusione del principio di opportunità, inteso come attribuzione al pubblico ministero della facoltà di non esercitare l’azione penale per motivi contingenti ed estemporanei. Questa impostazione, che — come abbiamo visto — sembra imporsi anche in altri ordinamenti europei (155), proprio perché rende possibile che la decisione di esercitare o meno l’azione penale venga presa sulla base di parametri previsti dalla legge, consentirebbe di introdurre nel nostro ordinamento l’istituto dell’irrilevanza penale del fatto costruito come condizione di improcedibilità (156); dovendosi considerare inoltre che, nel sistema processuale italiano, l’indipendenza del pubblico ministero rispetto al potere esecutivo, da un lato, e l’esistenza di meccanismi di controllo da parte del giudice sul corretto esercizio dell’azione, dall’altro, ridurrebbero ulteriormente, ammesso e non concesso che sussistano, gli eventuali rischi derivanti dall’introduzione di una discrezionalità vincolata. Tuttavia, a questo punto, occorre brevemente accennare a quanto affermato nel paragrafo precedente. La qualificazione di un determinato istituto come causa di improcedibilità è coerente con la previsione di criteri valutativi di interessi esterni al fatto ed al suo autore e collegati al processo. Nella formulazione della disposizione, pertanto, il legislatore dovrebbe fare riferimento non solo a criteri concernenti il fatto, come, ad esempio, l’esiguità dell’offesa e della colpevolezza (del fatto), l’accertamento dei quali implica un’operazione ermeneutica vincolata alla legge, ma anche a criteri come, ad esempio, l’interesse pubblico al perseguimento di cui ai §§ 153 e 153a dStPO. Se questo è vero, allora risulta evidente come l’inserimento di quest’ultimo parametro lasci sussistere il pericolo di una violazione del principio di obbligatorietà, e questo perché il criterio dell’interesse pubblico al perseguimento comporta indubbiamente, considerata la sua assoluta genericità, l’attribuzione al pubblico ministero di una vera e propria ‘‘facoltà’’ che sarebbe incompatibile con il principio di obbligatorietà, anche se inteso in un’accezione ‘‘minimale’’, e cioè come principio di legalità processuale che esclude il principio di opportunità. In definitiva, a noi pare che sia proprio l’impossibilità di tipizzare in modo determinato ed obiettivo un criterio-presupposto espressivo delle ragioni di convenienza esterne al reato e sottostanti alla condizione di improcedibilità a rendere impraticabile una soluzione processuale. Se, al contrario, tale tipizzazione fosse possibile, posto che la discrezionalità nell’applicazione della legge non può dar luogo a disparità di trattamento sotto il profilo della viogatorietà dell’azione penale, cit., p. 44 ss.; ID., L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, cit., p. 2670. (154) Sul punto, v. anche G. CORDERO, Oltre il ‘‘patteggiamento’’ per i reati bagatellari?, cit., p. 665 ss. (155) V. retro § 3. (156) In questo senso, con specifico riferimento ad eventuali condizioni di improcedibilità formulate sul modello tedesco, v. G. CORDERO, Oltre il ‘‘patteggiamento’’ per i reati bagatellari?, cit., p. 668; GREVI, Pubblico ministero e azione penale: riforme costituzionali o per legge ordinaria?, in Dir. pen. proc., 1997, p. 495; ID., Garanzie soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione costituzionale, cit., p. 753. In termini più generali, a favore dell’introduzione di una clausola che consenta la rinuncia alla pena per motivi di esiguità, v. DONINI, voce Teoria del reato, cit., pp. 274-275.
— 1509 — lazione del principio di eguaglianza e quindi anche del principio di obbligatorietà, nessun ostacolo si frapporrebbe alla soluzione di tipo processuale. Diversamente, una condizione di improcedibilità fondata sui soli criteri interni al reato sarebbe sicuramente rispettosa del principio di legalità processuale, e questo perché i criteri risulterebbero sufficientemente determinati e quindi tali da subordinare il pubblico ministero alla legge, ma, come più volte abbiamo detto, siffatta soluzione sarebbe incoerente, in quanto la ratio delle condizioni di procedibilità è quella di esprimere motivi di convenienza esterni al reato che si pongono in contrasto con le esigenze di svolgere il procedimento. Ma il rifiuto di una soluzione processuale non dipende soltanto da un’esigenza concettuale-sistematica, ma anche da ragioni di garanzia. Posto, infatti, che la sua previsione avrebbe un senso soprattutto al fine di dare una risposta sanzionatoria, e quindi se si inserisce una condizione di improcedibilità condizionata, occorre ricordare che siffatto istituto presenterebbe tutta una serie di inconvenienti ulteriori (157), che suscitano notevoli perplessità: primo fra tutti quello che l’imputato, data la sua particolare posizione processuale, non risulta veramente libero nella scelta tra il consenso all’archiviazione e la prosecuzione del procedimento, l’esito del quale è del tutto imprevedibile. 7. Scartata la soluzione di tipo processuale, la nostra attenzione adesso deve concentrarsi sulle soluzioni di diritto penale sostanziale. Come abbiamo visto, anche la collocazione sistematica dell’istituto nel diritto penale sostanziale e la sua qualificazione come causa di non punibilità permettono di soddisfare pienamente sia le esigenze di economia della pena che quelle deflattive. In particolare, con riferimento a queste ultime, è opportuno ribadire che, a nostro avviso, tali esigenze possono essere soddisfatte senza che sia necessaria la previsione di un procedimento speciale, e questo perché, come abbiamo visto in precedenza, l’infondatezza della notizia di reato di cui all’art. 408 c.p.p. può essere rilevata in tutte le ipotesi corrispondenti a quelle che in sede processuale determinerebbero l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, tra le quali rientrano anche le ipotesi di non punibilità. Si tratterebbe, peraltro, di una soluzione rispettosa del principio di cui all’art. 112 Cost., in quanto i criteri assunti a base del giudizio sono tutti determinati. Diversamente, posto che ai sensi dell’art. 129, comma 1, c.p.p., l’obbligo di immediata declaratoria non si estende — fra l’altro — alle situazioni di non punibilità, sarebbe opportuno riconoscere espressamente al giudice la facoltà di dichiarare d’ufficio (e con sentenza) l’irrilevanza penale del fatto in ogni stato e grado del processo. Tuttavia, a differenza di quella processuale, questa soluzione non offre possibilità di dare una risposta sanzionatoria (158). Ciò posto, si tratta adesso di soffermarsi con maggiore attenzione sui criteri di esiguità. Anzitutto, partendo proprio dalla constatazione che la qualificazione dell’istituto come causa di non punibilità fa salvo il reo da ogni conseguenza giuridica, una componente — per così dire — sanzionatoria potrebbe essere recuperata subordinando l’operatività dell’istituto ad una qualche forma di risarcimento della vittima. La riparazione del danno, pertanto, nonostante la sua estraneità al reato (159), potrebbe essere prevista come un presupposto per l’applicazione della causa di non punibilità (160), magari prevedendo anche la possibilità di sospendere il procedimento per un determinato periodo di tempo se il risarcimento del danno risulta essere in via di effettuazione. Tale soluzione, peraltro, da un punto di vista (157) V. retro § 3. (158) Sul punto, v. ZIPF, Politica criminale, cit., pp. 198-199. (159) Sul punto, v. retro § 5. (160) A favore della considerazione di comportamenti successivi alla commissione del reato che rendono esiguo il disvalore del fatto precedente si esprime anche PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 750.
— 1510 — delle garanzie, sembrerebbe essere del tutto legittima, posto che si tratta di un criterio l’accertamento del quale non consente ampi margini di discrezionalità. Tuttavia siffatto requisito opererebbe soltanto se siamo in presenza di reati con vittima; al contrario, rispetto ai reati senza vittima, l’istituto qualificato come causa di non punibilità escluderebbe qualsiasi reazione punitiva dell’ordinamento. In secondo luogo, occorre ribadire che si deve trattare di presupposti inerenti al fatto, con esclusione, pertanto, degli elementi afferenti alla persona del reo, e più precisamente: disvalore di evento (gravità del danno o del pericolo); colpevolezza del fatto (intensità del dolo e grado della colpa; modalità della condotta; moventi; imputabilità; presenza di eventuali circostanze ‘‘attenuanti’’ come quasi-scriminanti, semi-scusanti, cause di inesigibilità). Secondo alcuni autori, la mancata considerazione delle esigenze di prevenzione speciale avrebbe in sé un gravissimo rischio: più fatti bagatellari, infatti, possono costituire l’esordio di una carriera criminale, per cui il fatto bagatellare dell’autore non bagatellare dovrebbe sfuggire al filtro della depenalizzazione (161). In sostanza l’apposizione della prevenzione speciale come limite e criterio negativo della depenalizzazione sembrerebbe essere la scelta più corretta per soddisfare ineludibili esigenze di politica criminale. Se tutto questo è vero, d’altra parte occorre rilevare anzitutto che la scelta di attribuire un ruolo finale alle esigenze di prevenzione speciale, si dimostra in contrasto con la ratio stessa della depenalizzazione in concreto, la quale è diretta a non punire reati il cui disvalore (oggettivo e soggettivo) è privo di significato, a prescindere dalle valutazioni sulla persona del reo. Detto in altri termini, la previsione di criteri specialpreventivi estenderebbe il giudizio alla considerazione di componenti personalistiche che, a nostro parere, risultano più in sintonia con un’idea di trattamento lato sensu inteso, che di depenalizzazione, e come tali concernenti più l’applicazione della pena che la punibilità del reato. A ciò si aggiunga che la considerazione di esigenze di prevenzione speciale implica l’attribuzione di un potere discrezionale che, come abbiamo detto, entra in forte tensione con il principio di legalità sostanziale e processuale. Infine, un altro problema che non può essere trascurato riguarda l’eventuale previsione di una gerarchia fra i diversi criteri di esiguità. Secondo una parte della dottrina, infatti, tutte le singole componenti che contribuiscono all’individuazione del tipo bagatellare dovrebbero risultare esigue (162). Secondo altri autori, invece, non solo sarebbe necessario stabilire un ordine gerarchico, ma tale ordine dovrebbe assegnare ‘‘la supremazia al disvalore di evento, seguito, in ordine di importanza, dalle modalità oggettive della condotta e, infine, dalla colpevolezza per il fatto, che però è solo un criterio di ‘conferma’, più che di fondazione della tipicità bagatellare’’ (163). A favore di questa soluzione si afferma che la diversa soluzione di adottare un ruolo paritario fra le componenti del tipo bagatellare non renderebbe giustizia alle peculiarità strutturali innegabilmente evidenziate dalle svariate figure dell’ordinamento (reati di evento, reato a condotta vincolata ecc.) (164). Infine, secondo un’altra parte della dottrina, che muove dalla convinzione che il reato bagatellare coincide con una commisurazione anticipata della pena, la considerazione degli indici concernenti la persona dovrebbe essere compiuta solo se il disvalore del fatto non risulta esiguo (165). A nostro avviso, considerato il modello da noi descritto, l’individuazione di una precisa gerarchia non sembra di per sé necessaria. Se, infatti, le modalità della condotta non assumono un ruolo autonomo, ma sono ricondotte all’interno del giudizio di colpevolezza, ap(161) (162) 66 ss. (163) (164) (165)
Così, PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., pp. 752-753. In questo senso, v. ampiamente KRÜMPELMANN, Die Bagatelldelikte, cit., p. Così, PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 744. V. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., p. 732. In questo senso, v. KUNZ, Das Strafrechtliche Bagatellprinzip, cit., p. 309 ss.
— 1511 — pare evidente che sia la componente del disvalore di evento, sia quella della colpevolezza devono risultare esigue, posto che quest’ultima diviene un giudizio concernente tutta una serie di indici fattuali capaci di esprimere un significativo disvalore. Siffatta impostazione, poi, ci sembra particolarmente coerente con una qualificazione dell’istituto come causa oggettiva di non punibilità. Sul punto, infatti, si deve notare che il giudizio che porta all’esclusione oggettiva della punibilità di un reato se, da un lato, si fonda sulla prevalenza di interessi esterni al reato rispetto alla opportunità di punirlo (nel caso in esame sembra essere l’esigenza di garantire il principio di ultima ratio del diritto penale che prevale sull’interesse alla punizione), dall’altro, deve essere ‘‘collegato’’ alla vicenda concreta dell’illecito, nel senso che esso non solo deve avere ad oggetto elementi concernenti il reato che siano in grado di esprimere e di concretizzare l’interesse che prevale su quello di punire, ma deve anche rappresentare un giudizio — per così dire — speculare rispetto a quello che conduce alla punibilità, e questo giudizio, nel caso in esame, è dato proprio dalla esiguità di tutti i fattori che concorrono a contrassegnare il disvalore del reato. Tuttavia è opportuno rilevare che la previsione di una gerarchia tra le varie componenti del ‘‘tipo’’ bagatellare può essere utile al fine di rendere il giudizio di esiguità più elastico e, conseguentemente, capace di incidere con maggiore efficacia nella prassi. Come abbiamo visto nella prima parte di questo lavoro, infatti, la ragione principale per cui il § 42 öStGB è stato scarsamente applicato è data dalla sua formulazione — per così dire — rigida ed analitica: la mancanza di meritevolezza di pena del fatto, infatti, può essere dichiarata solo se ricorrono contestualmente tutti i presupposti indicati dalla disposizione. Al contrario, gli istituti ‘‘archiviatori’’ previsti dal sistema penale tedesco, proprio perché basati su un giudizio di esiguità (eccessivamente) elastico, hanno avuto una notevole incidenza nella prassi. Ora, al fine di raggiungere un equilibrio tra le esigenze dogmatiche, che, nel nome di una concezione gradualistica del reato, spingono ad accertare l’esiguità di tutte le componenti del reato, quelle di funzionalità dell’istituto, che premono affinché il giudizio sia il più elastico possibile, ed infine le esigenze di garanzia, che, al contrario, spingono per la riduzione della discrezionalità attribuita agli organi giudiziari, sembrerebbe opportuno, da un lato, prevedere come indici autonomi del giudizio di esiguità i criteri (interni al reato) dell’esiguità dell’offesa e dell’esiguità della colpevolezza del fatto, e, dall’altro, stabilire una gerarchia che — non soltanto sotto il profilo dell’iter processuale — assegni al disvalore di evento una certa supremazia. Con la conseguenza che la esiguità della colpevolezza dovrà essere tanto maggiore, quanto più il disvalore obiettivo sarà consistente. 7.1. Passando infine all’analisi dell’ultima soluzione, consistente nella configurazione dell’irrilevanza come istituto di rinuncia all’applicazione della pena, posto che gran parte delle considerazioni svolte nel precedente paragrafo possono essere ripetute anche in questa sede, occorre anzitutto notare che essa, solo se abbinata ad un procedimento semplificato, potrebbe svolgere una funzione deflattiva del sistema processuale, e questo perché presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna. In secondo luogo, in conformità con la nostra visione, essa permette un allargamento del giudizio di esiguità alla persona dell’autore del reato, in quanto consente la considerazione di esigenze di prevenzione speciale: proprio la presenza di una condanna sembra legittimare il passaggio a una valutazione che vada al di là del reato e che includa anche la persona. Con ciò, tuttavia, riproponendosi il noto problema relativo alle difficoltà di procedere con metodo scientificamente valido ad un’analisi prognostica dotata di attendibilità e dovendosi inoltre ricordare che l’aggiunta di un ulteriore requisito può influire negativamente sulla rilevanza pratica dell’istituto e conseguentemente sulla sua efficacia deflattiva. Infine, non si può non sottolineare come la pronuncia di una condanna e la conseguente iscrizione nel casellario giudiziario possano costituire strumenti di prevenzione generale, le pretese della quale sarebbero sicuramente disattese nel caso in cui si prevedesse un istituto che non comporta — quanto meno in modo tendenziale — alcuna conseguenza giuridica, come nel caso di una causa di non punibilità. Detto in altri termini, questa soluzione consen-
— 1512 — tirebbe di trovare un certo equilibrio tra esigenze equitativo-deflattive ed esigenze repressive, non potendosi dimenticare che, se da un lato il caso singolo può apparire talmente lieve da non esigere una risposta penale, dall’altro tale fatto costituisce la componente di un fenomeno globale che nel complesso può essere considerato pericoloso, se non addirittura dannoso. ROBERTO BARTOLI Dottorando di ricerca nell’Università di Firenze
NOTIZIE
NUOVI SCENARI DELLA PSICOLOGIA GIURIDICA Congresso Nazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore — Milano 5-6 ottobre 2000 1. Dei « Nuovi scenari della Psicologia Giuridica » si è trattato nei giorni 5 e 6 ottobre 2000 al Congresso Nazionale organizzato dal Centro Studi e Ricerche di psicologia giuridica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il congresso comprendeva diverse sessioni tematiche dedicate la prima giornata a: « I diritti degli adulti e diritti dei bambini », « La nuova rappresentazione della legge », « I criteri e metodi della perizia psicologica », la seconda giornata a: « La società multiculturale », « I mutamenti del contesto lavorativo », « Procedure e contesti giudiziari », « Nuove forme di devianza », « Nuovi criteri di normalità ed anormalità », « Testimonianza del bambino ». I lavori del congresso sono stati accompagnati da due tavole rotonde: la prima coordinata dal Prof. G. Gulotta ed avente ad oggetto « La formazione dello psicologo giuridico »; la seconda diretta dalla Prof. L. De Cataldo ed avente ad oggetto « La formazione psicologica degli operatori giuridici ». 2. L’apertura e la presentazione del Congresso nella austera ed accogliente Cripta dell’Aula magna dell’Università è stata affidata alla rassicurante e colta parola del Prof. A. Quadrio. Il Prof. L. Ornaghi ha svolto la relazione inaugurale incentrata sul grado di corrispondenza esistente tra lo svolgersi dei cambiamenti attuali e la « percezione » individuale e collettiva di essi, da considerarsi come uno step fondamentale per la comprensione dei mutamenti de quibus. Assistiamo alla tumultuosa trasformazione del diritto, della politica, della antropologia con conseguente difficoltà nel cogliere le reciproche connessioni. Il Prof. Ornaghi ha rilevato « tre elementi » di riflessione. Il primo consiste nei mutamenti del rapporto con il gruppo: la moderna società muliculturale è proiettata verso una confluenza di tipo collettivistico ad organizzazione confederativa; più che l’individuo in sé, ciò che conta è l’appartenenza ad un gruppo o ad una pluralità. Il secondo elemento consiste nei mutamenti della politica: da un organismo essenzialmente verticistico si passa ad una struttura orizzontale, policentrica, frammentata a livello locale. Il terzo elemento è stato visto nei mutamenti della nostra società italiana, carente di interazione sociale, basata su una concezione del rischio inteso come sinonimo di emarginazione, o perché si è costretti a rischiare o perché al rischio non si associa un premio, con conseguente affievolimento della soglia di tollerabilità del rischio stesso ed, in ultima analisi, di fuoriuscita dal gruppo mediante il ripudio del patto di cittadinanza. Il Prof. Ornaghi ha concluso appellando ai « Nuovi scenari della psicologia giuridica » al fine di ottenere una migliore comprensione del presente, di intendere cosa sta preparandoci il futuro, di capire dove ci stanno portando le attuali trasformazioni. 3. Durante la tavola rotonda, coordinata dal Prof. G. Gulotta, si è trattato della « Formazione dello psicologo giuridico ». Il ruolo della psicologia giuridica e ormai capillare, tra le altre, nelle problematiche afferenti la complessa, delicata ed attuale procedura della adozione all’interno della quale, (così come in altri settori), si vorrebbe contare sul fondamentale apporto di metodologie tendenzialmente scientifiche, affidabili nel senso della coerenza interna, della oggettività, della validità e corrispondenza a criteri esterni, della verifica da parte di osservatori esterni, della molteplicità dei livelli di analisi. Con il richiamo ai tests sia cognitivi che di personalità e all’importanza della loro siglatura, sono stati ricordati anche altri strumenti di indagine come i self-reports, i questionari, le ceck-lists, i colloqui-intervista guidata, evidenziandosi come la percezione della realtà possa o non essere corretta, come essa possa o non possa essere cor-
— 1514 — rettamente trasmessa e che occorre avere la capacità di trasmettere la realtà, ma che è altrettanto importante la volontà di trasmettere la realtà stessa. Nell’esperienza della « Psicologia Giuridica in campo universitario » si risponde a quattro quesiti: che cosa viene insegnato in un corso di psicologia giuridica; a chi interessa la psicologia giuridica; chi è lo psicologo giuridico; cosa si potrebbe fare nell’immediato futuro. In tale contesto si categorizzano le forme secondo le quali la psicologia giuridica interagisce con il diritto nel sistema giudiziario e si connettono le due discipline laddove oggetto di studio siano le ipotesi di comportamento normativo ovvero antinormativo. Si rileva la necessità di imparare ad esprimersi con persone che parlano un linguaggio diverso, secondo modalità tali da non ingenerare ambivalenze ed equivocità, seguendo un percorso che implica la formazione congiunta tra psicologia e diritto, secondo un pluralismo metodologico adottato già in ambito didattico. Tra i risultati più degni cui questo metodo permetterebbe di giungere, vi sarebbe quello fondamentale di imparare a scindere la tecnica della psicoterapia dalle diverse metodiche utilizzate in sede peritale, alla quale deve essere estraneo ogni tentativo di caduta nella c.d. alleanza terapeutica. Quanto invece all’esperienza della « Psicologia Giuridica nella formazione extrauniversitaria » si è sottolineato l’aspetto dell’insegnamento volto a trasmettere il « sapere come fare », nella fiducia della interiorizzazione del « sapere in generale » mutuato dal pregresso studio universitario. Rilevata la varietà degli utenti: dagli studiosi di psicologia, agli studiosi di sociologia, di pedagogia, di medicina, di giurisprudenza, di lettere, di scienze politiche, è fondamentale il coinvolgimento tra docente e discente sia nel racconto del « sapere che », che nella dimostrazione del « sapere come », in una situazione di setting diverso in cui non può mancare tale circolarità di insegnamento. È seguita la denuncia della crisi che stanno attraversando le riviste tradizionali, nonostante l’attenzione che dovrebbe continuare a prestarsi alla riflessione teorica, mezzo di formazione diverso, parallelo ed insostituibile, rispetto agli altri canali di diffusione-informazione. Infine è stata presentata la nuova rivista elettronica on line: « Psicologia e giustizia ». Essa coniuga il diritto alla psicologia per il tramite dell’informatica secondo un lavoro « in progress », a continuazione dell’opera dei nostri predecessori che, in tal modo, arrivano « in itinere » fino ai nostri giorni. La rivista de qua rappresenta un coinvolgente mezzo di interazione sinergica in materia, essa è situata in www.psicologiagiuridica.com. 4. Nel pomeriggio del primo giorno, altre sessioni tematiche. La Prof.ssa E. Scabini ha coordinato la sessione tematica avente ad oggetto i « Diritti degli adulti e i diritti dei bambini » e le comunicazioni concernenti: « L’affidamento eterofamiliare: un intervento fuorilegge » (Diego Lasio, Federica Putzolu); « I minori come protagonisti dell’educazione alla legalità » (R. Carta, P. Pau); « La messa alla prova nel procedimento penale minorile: il coinvolgimento della famiglia e valutazione dei risultati » (G. Tarnanza); « Tra le maglie della rete: l’operato del Tribunale per i minorenni di Cagliari dalla segnalazione all’intervento finale » (C. Cabras, C. Cerina); « La rilevazione del maltrattamento infantile nella scuola » (M.E. Magrin); « L’immagine del sé nei figli dei separati: le difficoltà relazionali in adolescenza » (M. Tafà). Il Prof. G. Vestuti ha coordinato la sessione tematica avente ad oggetto « La nuova rappresentazione della legge » e le comunicazioni concernenti: « L’influenza dell’affiliazione nel gruppo sui meccanismi di interiorizzazione della norma » (F.R. Puggelli, A.I. Alberici); « La tentazione nelle decisioni criminali » (S. Sfondrini); « Devianza come possibile ricerca volontaria del rischio » (M. Nicolini); « Processi di identificazione e ruolo delle norme » (A.I. Albenci); « Il senso del rischio e devianza minorile » (M. Pasqua); « Percezione della devianza e differenze di genere » (D. Pirro). Il Prof. V. Cigoli ha coordinato la sessione tematica avente ad oggetto i « Criteri e metodi della perizia psicologica » e le seguenti comunicazioni: « La perizia psicologica nelle situazioni di separazione e divorzio: considerazione sugli strumenti e sui criteri utilizzati dal C.T.U. » (M. Malagoli Togliatti); « Una lettura della relazione peritale in chiave narrativa » (B. Bartoli); « La consulenza tecnica d’ufficio in tema di affidamento dei minori presso il Tribunale di Milano: esame di 63 relazioni peritali » (S. Haller); « L’uso del reattivo Rorschach nella valutazione dell’imputabilità e della pericolosità sociale » (D. Pajardi, S. Vagni); « Criteri e metodi della perizia e consulenza psicologica » (Trafimina, Lubrano); « Perizie e consulenze psicologiche in campo penale minorile: considerazioni sul metodo » (P. Patrizi).
— 1515 — 5. La seconda giornata del Congresso si è sviluppata seguendo itinerari paralleli quelli della prima. Nella Cripta dell’Aula magna dell’Università Cattolica è stata svolta la sessione tematica dal titolo « Procedure e contesti giudiziari », coordinata dal Prof. G. De Leo. L’esplorazione circa il comportamento non verbale nel processo » (P. Ghio) ha rilevato le comunicazioni tacitamente estrinsecate attraverso il gesto emotivo, il cambiamento di postura, l’autocontatto, la manipolazione, la fatica ovvero la facilità motivazionale, i momenti di disagio ovvero di conforto. La metodologia utilizzata sembra suscettibile di ulteriori applicazioni in altri processi alla presenza di determinate costanti. « Il confronto: un’area oscura trascurata dalla psicologia della testimonianza » (M.M. Barcellona), ove a fronte della ricostruzione dei fatti non univoca, il giurista si arena e la valutazione sembra spostarsi dalla oggettività delle risultanze processuali, alla soggettiva attendibilità delle persone coinvolte. Il confronto e le conseguenti eventuali certezze sembrano raffigurare un evento di carattere psicologico a base di una comunicazione antagonista, strategica, in netta differenziazione dalla conversazione comune a minore stress emotivo. Il confronto può rappresentare una situazione di incognita degna di essere studiata al fine di predisporre linee guida al libero convincimento del giudice che è e rimane una dimensione soggettiva insondabile. « Psicologia, psicopatologia e devianza nel testamento » (F. Zoppas; M. Zuffranieri). La ricerca de qua, derivata dall’intervista ad alcuni notai, ha studiato il ruolo svolto dagli stessi nella gestione dell’aspetto emotivo dei testatori. La tipologia dei clienti posta in rapporto alle norme giuridiche evidenzia un atteggiamento conciliante ovvero conflittuale con le stesse; posta invece in rapporto alle loro decisioni, mostra come esse siano rivolte al futuro per riequilibrare o proteggere la posizione di determinati soggetti, ovvero come esse siano rivolte al presente per ricompensare od al contrario per mantenere uno stato competitivo fra i soggetti interessati. Un timore diffuso fra i testatori è relativo all’ansia che tali decisioni non saranno rispettate a seguito di perdite materiali, fraintendimenti interpretativi ed altri atteggiamenti inaspettati. « L’esperienza detentiva » (C. Berti; D. Pajardi). Si è trattato della percezione sociale della pena nei magistrati e nei detenuti: all’interno della realtà penitenziaria non sembrano essere realizzati i principi del relativo ordinamento penitenziario. « Carcere obiettivo mancato » (C. Cabras, D. Lasio, F. Serri). L’opinione pubblica invoca intransigenza forte e maggiore repressione. In tale contesto è difficile raggiungere degli obiettivi: all’interno del carcere si riscontrano aree autoreferenziali, tendenti a mantenere lo status quo inalterato, passivo e sordo ad ogni stimolo di rilevante cambiamento. Si lancia l’auspicio di trasformare in « missione » emotiva e partecipe l’opera svolta all’interno della struttura detentiva. « Emozione, ricordo, testimonianza: uno studio sui ricordi fotografici di episodi di violenza » (A. Curci). Si tracciano le linee di ricordi vivi di esperienze della vita quotidiana di rilevanza psico-giuridica, mettendo in luce l’interazione dei fattori di codifica e dei fattori ricostruttivi. 6. Durante la tavola rotonda coordinata dalla Prof.ssa L. De Cataldo si è parlato della « Formazione psicologica degli operatori giuridici ». Il diritto giudica, lo psicologo indaga e cerca di capire, la convivenza delle due discipline presenta aree di frizione molto forti, gli studi della psicologia possono rappresentare un apporto fondamentale a condizione che riescano a contestualizzarsi nel diritto ove, al contrario, non e dato ridurre ogni caso umano ad un meccanismo giuridico. Di qui la necessità della formazione psicologica dell’operatore giuridico nella consapevolezza del limite funzionale delle categorie giuridiche ed in vista di una professionalità più consapevole. La psicologia a sua volta deve assumere una veste ed un atteggiamento tendenzialmente scientifico, tramite la verifica di probabilità e l’appropriata convalida dei metodi utilizzati al fine di ridurre il margine di discrezionalità ed il coefficiente di errore. Occorre dare la prova di ciò che si assume e delle metodologie usate, rifiutando in sede probatoria orientamenti del tipo psicodinamico, ove lo stesso linguaggio usato male si presta ad ogni tentativo di decodifica. Dal punto di vista documentale, lo psicologo dovrà produrre la documentazione dell’intero lavoro eseguito: questo materiale non è privato e non esiste un segreto professionale con lo psicologo. Lo stesso vale per il materiale dei tests da utilizzare come integrazione per l’esame della personalità, insieme alle metodologie classiche, tenendo presente l’aspetto della
— 1516 — siglatura dei tests e considerando che le prove psicologiche non rappresentano delle verità: « il bambino ideale non è il bambino reale e viceversa! » 7. Le sessioni tematiche contemporanee hanno interessato settori di identico interesse. Sessione tematica su « La società multiculturale » coordinata dal Prof. P. Inghilleri, prevedeva le seguenti comunicazioni: « Il rapporto degli immigrati con la legislazione italiana: la legge 40⁄98 e il progetto « Regolarmente » (M. Laroussi, E. Riva); « La mediazione culturale in Mantovani, E. Riva); « Immigrazione e devianza: il caso degli adolescenti cinesi » (D. Pirro); « La mediazione culturale in ambito giuridico: riflessioni dall’esperienza sul campo » (F. Ntsama); « Anche i giudici devono fare i conti con le emozioni: riflessioni sui rapporti tra emozioni e culture » (L. Anolli). Sessione tematica su « I mutamenti nel contesto lavorativo » coordinata dal Prof. G. Sarchielli, proponeva le comunicazioni seguenti: « Tempi di vita e tempi di lavoro tra differenze di genere e modalità contrattuali atipiche » (F. Porru, M.G. Putzu); « La modalità lavorativa come nuovo paradigma: problemi di identità e sviluppo delle risorse umane » (S. Gheno); « Norme, tecnologie, organizzazioni: il « nuovo » mondo del lavoro » (G. Sangiorgi); « Stress lavorativo e danno psichico » (D. Pajardi); « L’autore di reati aziendali fra normalità e devianza » (G.V. Travaini); « Danno da mobbing » (M.G. Cassitto); « Le donne nelle professioni legali » (S. De Angelis). 8. Durante il pomeriggio nella Cripta dell’aula magna la coordinazione dei lavori compresi nella sessione tematica dedicata a « Nuovi criteri di normalità ed anormalità » è stata affidata al Prof. G. Ponti. Il Prof. Ponti ha affrontato il tema relativo ai criteri in base ai quali verificare la struttura della « normalità ovvero della anormalità ». Due categorie che nella realtà male si prestano alla demarcazione netta: la loro delineazione oscilla a seconda che l’ambito di riferimento sia la biologia, la psicologia, la psicopatologia etc. In riferimento alla patologia si può sostenere solo per esclusione che è sano, quindi non è malato, colui che non presenta taluni disturbi relativi al campo di indagine. Nella prospettiva normativa e sociale l’oggetto di indagine è il « comportamento » normale ovvero anormale, quindi ad esempio non l’aggressività, bensì il comportamento o la condotta aggressiva. Nella prospettiva de qua anormale è la condotta non conforme alla norma, il comportamento antinormativo e la legge rappresenta un punto certo di riferimento. Il Prof. Ponti ha concluso sconsigliando fermamente in materia di psicologia giuridica e nelle sue applicazioni processuali l’introduzione di riferimenti e parametri non oggettivamente dimostrabili. Ad esempio anche il concetto di « devianza » rappresenta un parametro aleatorio e mutevole secondo i valori di colui il quale pronuncia il giudizio. La Prof.ssa I. Merzagora è intervenuta sul tema del « Lutto », a seguito dell’esperienza di numerosi casi clinici giunti alla sua attenzione, tra i quali quelli relativi ai parenti di coloro i quali sono stati tragicamente coinvolti nel noto disastro di Stava. La Prof.ssa Merzagora si è domandata se fra il lutto normale e il lutto patologico sia possibile una distinzione. Ricordando come storicamente, si era chiesto da parte della antipsichiatna se esisteva la malattia, oggi potrebbe chiedersi se esista la normalità e se per ogni scienza esista una sua propria normalità. Può forse appellarsi, in materia, al criterio della sofferenza? Il lutto può costituire un danno psichico o resta sempre e solo sofferenza profonda ed intensa di chi è destinato a provarla? Non può appellarsi al criterio della « sofferenza » se, ad esempio, si pensa alla compatibilità tra questa e lo stato detentivo, ovvero se si considera come la sofferenza sia connaturata all’esistenza umana, o se si ricorda l’interpretazione ad essa data da S. Froid nel senso del ripristino del patrimonio libidico ad un nuovo investimento, con conseguente funzione terapeutica. Invece per i soggetti più sensibili il lutto determina quasi un’amputazione fisica, sia che sia lutto fisiologico che assurga a lutto patologico. Si è pensato allora ad un criterio di tipo « cronologico » determinato dalla perduranza, cosicchè il quantum di tempo interferente fa tramutare la situazione da normale a patologica. La Prof.ssa Merzagora ha richiamato l’attenzione sottolineando come ogni caso sia sempre un « caso a sé ». Infine occorre tenere presente il nesso di causa e le concause che interferiscono. In ambito clinico e nella scienza della psiche nessuna malattia può essere la causa esclusiva, avvalorandosi maggiormente la concezione che accoglie una concausalità multifattoriale e considerando anche che al disturbo psichico può accompagnarsi la presenza di sintomatologie organiche dovute alla riduzione delle difese immunitarie, all’aumento delle sostanze di vario genere usate etc. Per concludere la Prof.ssa Merzagora ha sottolineato la dif-
— 1517 — ferente vulnerabilità di ognuno di fronte ad avvenimenti squassanti e difficili da accettare come « transeunti turbamenti » per usare le parole della nota sentenza della Consulta in materia di danno biologico (sentenza C. Cost. n. 184 del 14 luglio 1986): troppo spesso infatti tali eventi implicano la necessità di una ricostruzione più o meno totale del proprio « se » Infine le ultime comunicazioni previste: « Salute e malattia: antitesi o diade? Considerazioni brevi intorno ad alcuni disturbi sensoriali (alla luce del danno esistenziale) » (A. Gentilomo, L. Macrì); « Essere nella norma: il Modello Sasb (Structural Analysis Social Behaviour) e i comportamenti interpersonali » (G. Amadei); « Adolescenza normale e anormalità dell’adolescenza » (A.M. Patì); « Circonvenzione di persona incapace e danno esistenziale » (C. Schenardi); « Problematicità del costrutto di danno psichico per soggetti predisposti alla psicopatologia » (N. Travaini). 9. È evidente l’entusiasmo di ogni relatore nel dare il proprio apporto sinergico alla futura fruttuosa confluenza delle due fondamentali discipline, il diritto e la psicologia, attorno alle quali ruotano i limitrofi saperi della criminologia, della sociologia, della medicina, della politica. Un entusiasmo da recepire e fare proprio dagli operatori più sensibili impegnati nelle tematiche e nella risoluzione di casi che vedono al loro centro la « problematicità della persona umana ». Sembra altrettanto equilibrato evidenziare il monito alto e severo relativo alla concretezza ed alla verifica delle ipotesi che si sostengono. Il diritto ha bisogno di certezze e l’apertura alle scienze umane è accettabile nella misura in cui il loro apporto sia tendenzialmente scientifico, aperto alla conferma ed al confronto delle tesi esposte. Un Congresso che non potrà non lasciare il segno a futura memoria. CECILIA LIANI GIARDA Cultrice della materia presso la Cattedra di Criminologia Università degli Studi di Milano
IL CONTRADDITTORIO FRA COSTITUZIONE E LEGGE ORDTNARIA XIV CONVEGNO DELL’ASSOCIAZIONE TRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO PENALE Dal 13 al 15 ottobre 2000, s’è svolto a Ferrara — città dove l’associazione è nata — il XIV convegno dell’associazione tra gli studiosi del processo penale, sul tema « Il contraddittorio fra Costituzione e legge ordinaria ». Il congresso era dedicato al prof. Vincenzo Cavallari, ed è stato aperto proprio dalla vibrante commemorazione di questi, tenuta dal prof. Giovanni Conso. Il prof. Renzo Orlandi ha quindi presentato le questioni di fondo del convegno, sottolineando, in particolare, che il nuovo art. 111 cost. è imperniato su un binomio regola-eccezione; ciò complicherà molto il compito del legislatore. È vero che altri principi costituzionali — per esempio, l’art. 13 — sono scritti secondo la stessa tecnica; ma proprio l’esperienza fatta in materia di misure cautelari mostra quanto sia faticoso raggiungere un compromesso stabile fra garanzie dell’individuo ed esigenze repressive. Per la riforma volta ad attuare i principi del giusto processo, questo traguardo è ancora più incerto: l’evanescenza dei concetti usati nel comma 5 dell’art. 111 e, soprattutto, la straordinaria varietà di opinioni che tradizionalmente contrassegna i ragionamenti sulla prova penale, consegnano al legislatore una missione difficile. La prima giornata s’è conclusa con la relazione del prof. Delfino Siracusano, dedicata pressoché interamente all’art. 500 c.p.p., norma-simbolo degli odierni sforzi di adeguare il codice di rito al nuovo testo dell’art. 111 cost. Nella stesura approvata dalla commissione giustizia della Camera il 5 ottobre 2000, l’art. 500 c.p.p. sembra segnare un ritorno agli indirizzi originari; negli ultimi dieci anni, però, l’impianto è profondamente mutato: la rottura della diga fra indagini e dibattimento, le spinte per potenziare il giudizio abbreviato, lo spostamento « all’indietro » (verso l’udienza preliminare) del baricentro del processo, le incursioni dei meccanismi consensuali sul terreno della prova...; in una simile cornice, sarebbe ancora ragionevole limitare l’uso delle dichiarazioni contestate ad una mera verifica della credibilità del testimone? Anche se si risponde negativamente, su un punto è necessario esser fermi: l’atto formato nelle indagini preliminari non deve essere inserito nel fascicolo per il dibattimento. Proprio su quest’aspetto, si registrano resistenze da parte di vasti settori della magistratura, i quali premono per l’allegazione al fascicolo del verbale redatto nella fase prodromica; e non delle sole parti usate ai fini della contestazione, ma del verbale nella sua interezza. Ora, un simile congegno servirebbe al giudice, al momento della decisione finale, per interpretare le dichiarazioni contestate, per renderle coerenti al giudizio che sta per emettere; ed è proprio quello che bisogna evitare: anche l’interpretazione della frase contestata dev’essere oggetto del contraddittorio fra le parti. Invero, se l’atto delle indagini preliminari viene allegato al fascicolo, il giudice dovrà valutare due prove (o, per usare una terminologia processualcivilistica, la collisione fra due prove); invece, se l’allegazione viene impedita, il giudice dovrà misurare la logica interna di una sola prova, quella che si forma nel dibattimento; soltanto quest’ultimo meccanismo, secondo Siracusano, realizza un autentico contraddittorio. La seduta mattutina del 14 ottobre, presieduta dal prof. Andrea Antonio Dalia, ha ospitato le relazioni dei prof. Mario Chiavario, Gustavo Pansini e Paolo Tonini. Il primo — svolgendo il tema « Il diritto al contraddittorio nell’art. 111 cost. e nell’attuazione legislativa » — ha ricordato che esistono molte forme di contraddittorio, alcune delle quali ingiustamente trascurate: il « contraddittorio sulla prova » (inutile se si riduce a torneo oratorio su conoscenze formate nel disprezzo del contributo che le parti avrebbero potuto fornire; utile ed opportuno, però, per valutare l’ammissibilità e discutere la credibilità delle prove che si formano fuori dal processo); il « contraddittorio argomentativo », che attraversa tutto il proce-
— 1519 — dimento, con mille possibilità d’esplicazione; il « contraddittorio cautelare », sulle misure limitative della libertà personale: oggi è concepito come rimedio postumo ma, secondo una prospettiva a cui il nuovo art. 111 dà fiato, domani potrebbe essere costruito come garanzia anticipata. Il « contraddittorio per la prova » resta però centrale. Il dibattito italiano, a questo proposito, è stato caratterizzato da alcune forzature, come quelle secondo le quali l’art. 111 metterebbe in discussione il sistema delle videoconferenze o gli strumenti volti a proteggere la personalità dei minorenni di fronte alle asprezze del controesame; eppure, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato chiaramente che i principi del giusto processo devono essere contemperati con altri interessi, come quelli alla vita, all’incolumità, alla riservatezza delle persone chiamate a deporre. Nello stesso art. 111, del resto, s’intravvede un simile sforzo di armonizzazione: ad esempio nel comma 2, dove si richiamano da un lato i principi del contraddittorio, della parità delle armi, dell’imparzialità del giudice; dall’altro, l’esigenza di una ragionevole durata del processo: esigenza che va considerata anche ai fini d’un bilanciamento con gli interessi difensivi. Come il principio, anche le eccezioni al canone del contraddittorio previste dal comma 5 dell’art. 111 vanno interpretate con equilibrio. Così, va respinta la tesi di chi ipotizza che il riferimento al « consenso dell’imputato » renda dubbia la legittimità del procedimento per decreto: un’acquiescenza successiva è conforme al dettato costituzionale. L’« accertata impossibilità di natura oggettiva » va intesa restrittivamente, con esclusivo riferimento alla morte o ad altri gravi impedimenti sopravvenuti del dichiarante. Invece, è auspicabile s’affermi un’interpretazione larga della « provata condotta illecita », perché bisogna salvaguardare certi strumenti di garanzia del processo di fronte ad episodi di minaccia o violenza. Chiavario ha infine osservato che la consacrazione del principio del contraddittorio produrrà effetti a cascata su altri istituti: sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, del quale bisognerà salvare soltanto la parte veramente indispensabile all’esigenza di garantire contro gli arbitri; sul sistema delle impugnazioni, che dovrà essere riformato in modo da ostacolarne un uso meramente dilatorio; sulla difesa dei non abbienti, che dovrà essere rafforzata, magari guardando all’esperienza dei paesi che affiancano, al patrocinio svolto da liberi professionisti, istituti di pubblica difesa; sul diritto al silenzio, oggi inaccettabilmente esteso a persone che non hanno più nulla da difendere, così da portare ad un’alternativa assurda: utilizzare dichiarazioni raccolte in modo unilaterale, oppure perderle e « uccidere il processo » in nome del contraddittorio. E proprio a « Contraddittorio e diritto al silenzio » era dedicata la relazione del prof. Gustavo Pansini; un tema difficile, perché attraversato da molti principi. In primo luogo, il diritto di difesa, che qui viene in considerazione sotto un duplice profilo: per l’imputato che accusa altri, il diritto al silenzio e l’interesse a non subire pregiudizi dalle proprie parole; per l’imputato accusato da altri, il diritto a contrastare efficacemente gli addebiti che gli vengono mossi. In secondo luogo, il principio del contraddittorio: un valore talmente alto che, secondo Pansini, sarebbe stato meglio inserire la previsione ad esso relativa nella prima parte della Costituzione, là dove vengono enunciate le basi fondanti dell’intero ordinamento. Infine, l’esigenza — più volte affermata dalla Consulta — di eliminare ogni ostacolo che irragionevolmente si frapponga alla ricerca della verità. Nel processo odierno, queste istanze non si fondono in modo armonico: la sentenza costituzionale 2 novembre 1998, n. 361, infatti, ha sbilanciato l’intero sistema; per riportarlo in equilibrio, possono essere battute tre strade. La migliore: un puro e semplice ritorno alla disciplina originaria delle contestazioni. L’art. 111, peraltro, impone di tener conto della possibilità che il dichiarante (testimone o coimputato) si sottragga al contraddittorio per effetto d’una violenza o minaccia; in tal caso, l’utilizzazione a fini probatori delle dichiarazioni rese prima del dibattimento dovrebbe essere consentita, purché ricorrano due requisiti: che violenza o minaccia risultino provate; che vi siano elementi di riscontro. In alternativa, si potrebbe ridurre l’area delle incompatibilità a deporre, in particolare eliminando il divieto di testimonianza là dove non ci sia pericolo di ledere il diritto di difesa del dichiarante, perché la sua posizione processuale è stata ormai definita. Infine, si potrebbe riconoscere all’imputato la facoltà di testimoniare; ma questo percorso — ha concluso Pansini — è disseminato di trabocchetti. È forte il rischio che, nella prassi, la scelta di non assumere la veste di testimone venga considerata un indizio a carico. D’altro canto, come regolare l’ipotesi dell’imputato che, pur avendo originariamente deciso di deporre, in un secondo momento rifiuti di parlare? Bisognerebbe introdurre una nuova
— 1520 — fattispecie criminosa; ma, almeno quando si tratti d’imputati che hanno già vari ergastoli sulle spalle, la prospettiva d’una ulteriore sanzione non sarebbe deterrente. Secondo il prof. Paolo Tonini, invece, proprio quest’ultimo è il cammino da seguire. Nella sua relazione, intitolata « L’attuazione del contraddittorio nell’esame di imputati e testimoni », Tonini ha insistito sulla necessità di eliminare quell’autentico abuso del diritto al silenzio che si verifica quando un imputato, dopo aver accusato altri, pretende di tacere o di mentire; il diritto di restare silenzioso va salvaguardato, ma non può spingersi fino al punto di comprimere i bisogni di prova di chi è stato accusato: questo è il principale problema che la riforma volta a realizzare i principi del giusto processo dovrà risolvere. Nel nuovo assetto normativo, il contraddittorio potrà trovare un’attuazione « forte » o un’attuazione « debole ». L’attuazione debole: l’incompatibilità a testimoniare degli imputati sopravvive, ma viene circoscritta ai fatti che possono comportare una responsabilità penale per i dichiaranti ed esclusa, invece, quando il fatto su cui l’imputato dev’essere esaminato sia scindibile da quello a lui attribuito. In quest’ottica si muove il disegno di legge attualmente al vaglio della Camera: l’esame regolato dall’art. 210 c.p.p. rimane, ma se ne restringe l’ambito d’applicazione, eliminando le ipotesi di collegamento probatorio e sfoltendo i casi di connessione. In questo modo, però, da un lato il Parlamento mostra di rimaner fedele all’idea — ormai superata — che solo un soggetto disinteressato possa testimoniare; dall’altro lato, la facoltà di mentire impunemente viene ridotta, ma non eliminata; di conseguenza, il diritto dell’accusato a confrontarsi con l’accusatore non viene garantito fino in fondo. L’attuazione forte implica che lo status di chi rende dichiarazioni davanti al giudice sia unico: deve rispondere, e farlo secondo verità; eventuali eccezioni a questa regola sono giustificate soltanto se imposte da un valore costituzionalmente protetto e se contenute in limiti tali da comportare la minor lesione possibile del principio del contraddittorio. Questa è la linea seguita dal progetto predisposto dal prof. Tonini, insieme col prof. Paolo Ferrua; un progetto che ruota su tre cardini: eliminazione della figura ibrida dell’« imputato connesso »; mantenimento del diritto al silenzio dell’imputato, sia nel proprio procedimento, sia nei procedimenti a carico di altri ma riguardanti fatti non separabili da quello a lui addebitato; introduzione dell’istituto della testimonianza facoltativa dell’imputato. Così, nel processo a proprio carico e nei processi che a questo siano legati da un vincolo di « connessione qualificata » (perché concernenti un fatto inscindibile da quello a lui ascritto), l’imputato potrebbe deporre soltanto su sua richiesta; in tal caso, conserverebbe la facoltà di non rispondere, a tutela del diritto alla non-autoincriminazione, solamente per i fatti diversi da quelli che gli sono attribuiti; ma perderebbe anche questa facoltà ove accusasse altri: il diritto alla prova dell’accusato deve prevalere sul diritto al silenzio. In due situazioni, infine, l’imputato non potrebbe rifiutarsi di testimoniare: quando sia chiamato a deporre in processi che riguardano un fatto separabile da quello a lui addebitato (fermo restando, in tal caso, il privilegio contro l’autoincriminazione); e quando abbia acquisito lo status di collaboratore di giustizia, ottenendo i benefici previsti dal d.l. 15 gennaio 1991, n. 8. Quest’ultima previsione è indispensabile per fronteggiare le strategie d’inquinamento del processo portate avanti dalla criminalità mafiosa; a questo scopo, anzi, secondo Tonini bisognerebbe anche innalzare le pene previste per la falsa testimonianza, oggi troppo basse. Nella sessione pomeridiana, presieduta dal prof. Mario Pisani, la prof.ssa Novella Galantini ha presentato una relazione su « Limiti e deroghe al contraddittorio nella formazione della prova ». È « deroga » ogni compressione del contraddittorio ricollegabile all’acquisizione di atti nati nelle indagini preliminari; è « limite » ogni riduzione del confronto dialettico fra le parti, che non comporti, però, un recupero di atti formati nella fase prodromica. Galantini ha tracciato un’imponente classificazione dei limiti al contraddittorio, raggruppati in almeno otto specie (limiti che derivano dall’oggetto di prova; dal mezzo di prova; da condotte della parte, dell’avversario o del giudice; dal tipo di rito; dalle qualità personali del dichiarante; dalla sede processuale in cui la prova viene assunta). Molti di questi limiti — è un punto particolarmente sottolineato dalla relatrice — sono in realtà estranei al tessuto codicistico; li ha introdotti la giurisprudenza. È il caso, per esempio, delle domande formulate dal presidente nel corso dell’esame diretto o del controesame; nonostante la recente modifica dell’art. 506 comma 2 c.p.p., questa prassi è tutt’ora frequentissima e viene giustificata con una discutibile distinzione fra domande « finali » e domande « interlocutorie »: solo le prime sarebbero soggette allo sbarramento cronologico fissato dall’art. 506; le seconde, invece, potrebbero anche interrompere l’esame condotto dalle parti. Galantini ha quindi fatto notare che il tema delle deroghe al contraddittorio dev’essere
— 1521 — affrontato sgombrando il campo da un equivoco: ci si è preoccupati molto della « quantità » dei dati che possono passare dalle indagini al dibattimento, ma non si è prestata sufficiente attenzione alle modalità del recupero; eppure, la correttezza delle deroghe al principio di separazione delle fasi si misura proprio sulle modalità del passaggio, cioè sul quantum di contraddittorio che lo caratterizza. La trasmigrazione di atti dalle indagini al dibattimento può essere accettata, purché siano rispettate alcune regole minime: è necessario o un contraddittorio anticipato, specifico (vi devono partecipare gli stessi soggetti che saranno poi destinatari dell’utilizzazione probatoria dei suoi esiti) e pieno (non basterebbe la mera presenza del difensore all’atto delle indagini: questa era la logica del vecchio garantismo inquisitorio); oppure, quando il contraddittorio anticipato manchi o resti allo stadio di contraddittorio imperfetto, è indispensabile che questa lacuna venga compensata da un contraddittorio successivo sulla fonte di prova. Così accade, per esempio, nelle contestazioni: qui c’è, appunto, un contraddittorio differito sulla fonte. In un caso soltanto, le contestazioni eliminano il confronto dialettico: quando vengono mosse al teste muto. L’art. 500 comma 2 bis c.p.p. può essere approvato solamente qualora il testimone taccia perché raggiunto da minacce; in tutte le altre ipotesi, dovrebbe essere soppresso: per definizione, il meccanismo delle contestazioni si sviluppa nel dialogo; non può reggersi sul silenzio. Anche le letture dibattimentali, dal canto loro, possono essere costruite secondo criteri che non confliggono con il nuovo art. 111 cost.; nell’art. 512 c.p.p., per esempio, la lettura è giustificata dall’obiettiva impossibilità di rispettare il contraddittorio. Senz’altro illegittima è, invece, l’attuale disciplina della lettura e della contestazione delle dichiarazioni rese dall’imputato o dagli imputati in procedimenti connessi: il loro silenzio non può più giustificare deroghe al contraddittorio; si tratterebbe, infatti, di deroghe derivanti da una causa soggettiva, come tale esclusa dal dettato costituzionale. Il problema del trattamento processuale del diritto al silenzio è peraltro complesso e va affrontato distinguendo la posizione degli imputati in procedimento connesso da quella dei coimputati. Per i primi, sarebbe opportuno ridurre l’area dell’incompatibilità a testimoniare, in particolare eliminandola quando la loro vicenda processuale sia ormai definita; naturalmente, anche in questo caso dovrebbe essere ammessa la contestazione sulla dichiarazione difforme, vietata la contestazione sul silenzio. Nei procedimenti relativi a fatti di criminalità organizzata, bisognerebbe inoltre studiare forme di disincentivazione della reticenza, quali il rifiuto o la revoca di eventuali programmi di protezione. Simili soluzioni sarebbero però inaccettabili per il coimputato: per lui, l’incompatibilità con l’ufficio di testimone è intangibile, perché insita nel suo status. Il rischio di perdere il contributo probatorio fornito dal coimputato che abbia reso dichiarazioni contra alios va semmai affrontato con la separazione dei procedimenti: il pubblico ministero ha l’onere di assicurare prove sufficienti per sostenere l’accusa, e in certi casi lo può fare solo predisponendo posizioni processuali distinte. Esistono, infine, deroghe al contraddittorio fondate sul consenso delle parti. Il tema è di grande attualità: da un lato, l’art. 111 comma 5 cost. legittima questi congegni; dall’altro, il legislatore ordinario, con gli artt. 431 comma 2 e 493 comma 3 c.p.p., tenta nuove aperture e forgia nuovi strumenti consensuali. Nonostante l’identica formulazione, queste due norme regolano fenomeni diversi: in sede di formazione del fascicolo, l’accordo sull’assorbimento di atti della fase preliminare non comporta acquisizione di quelle conoscenze (l’art. 431, infatti, non fissa parametri di ammissibilità della prova): l’acquisizione verrà poi, nel dibattimento. L’accordo ha uno scopo meramente « organizzativo »; perciò, le parti potranno revocare il consenso già prestato. Diverso il caso regolato dall’art. 493: qui è necessario un provvedimento di ammissione della prova; il giudice dovrà dunque « omologare » il concordato, applicando i consueti criteri di pertinenza, rilevanza, non superfluità. Nell’ultima giornata del convegno, s’è svolta una tavola rotonda fra esponenti del mondo politico, magistrati, avvocati e docenti. Il prof. Alfredo Molari, moderatore dell’incontro, ha rilevato che l’attenzione degli interpreti è tutta concentrata sul principio del contraddittorio per la prova e sulle sue deroghe; ma l’attuazione dell’art. 111 richiede riforme ulteriori. Pensiamo, ad esempio, al diritto ad essere informati, nel più breve tempo possibile, dell’accusa elevata a proprio carico: circolano interpretazioni riduttive, che, facendo leva sulla terminologia adoperata dal costituente, limitano questo diritto alla fase successiva al promovimento dell’azione. Interpretazioni inaccettabili: l’informazione di garanzia serve proprio durante le indagini; altrimenti, non si spie-
— 1522 — gherebbe perché l’art. 111 preveda che l’avviso debba essere dato « riservatamente ». Ne deriva un forte dubbio d’illegittimità dell’art. 369 c.p.p., il quale consente che l’intera fase investigativa si svolga all’insaputa di chi vi è sottoposto. Anche la facoltà dell’accusato d’interrogare o far interrogare i testimoni, meriterebbe d’essere guardata da prospettive che ne svelino le potenti implicazioni. Oggi si discute molto del diritto a confrontarsi con l’accusatore innanzi al giudice del dibattimento: ma sarebbe ragionevole un sistema che garantisse questo diritto nella fase dibattimentale, anche qualora l’imputato rischiasse tutt’al più una leggera multa, e lo negasse, invece, nel corso delle indagini, persino qualora fossero state disposte misure cautelari? Ove si risponda negativamente, bisogna chiedersi se sia costituzionalmente legittimo l’art. 309 comma 9 c.p.p.: nel « diritto vivente », infatti, questa norma è interpretata nel senso che, in sede di riesame d’una misura limitativa della libertà personale, sia vietata l’assunzione di prove dichiarative. I principi del giusto processo, insomma, sono un insieme unitario, che va interpretato ed attuato globalmente. Le stesse deroghe al contraddittorio previste dal comma 5 dell’art. 111 vanno lette alla luce dei commi precedenti. Per esempio: l’« impossibilità di natura oggettiva » non può essere regolata in modo da dare tutti i vantaggi ad una parte e far patire tutti i rischi all’altra: deve, invece, rispettare anch’essa il principio di parità fissato dall’art. 111 comma 2. Questo rilievo rende sospetto l’art. 522 c.p.p.: in caso d’irripetibilità sopravvenuta, la lettura è ammessa per gli atti formati dal pubblico ministero, vietata per quelli raccolti nell’indagine difensiva. Il sen. Marcello Pera ha quindi aperto il dibattito, ricordando che, negli ultimi anni, il sistema penale è stato segnato da una µεταβασιζ ειζ αλλο γεvσζ. Nella cultura giuridica e nell’azione della magistratura, problemi che appartengono al piano della sicurezza sono stati trattati come se appartenessero al piano della giustizia: è stato così per la lotta al terrorismo, alla mafia, alla corruzione; e c’è da temere che sarà così, domani, per i problemi posti dall’immigrazione e dalla prostituzione. Questa « metabasi » ha provocato molti stravolgimenti: il processo è stato usato come strumento per combattere un fenomeno; i pubblici ministeri si sono eretti a protagonisti di quest’azione; la giurisprudenza ha sentito lo spirito dei tempi, ed ha enucleato categorie — come la « convergenza del molteplice » — che avevano, appunto, finalità di lotta contro fenomeni. Oggi occorre risalire la china: occorre l’« anabasi ». Il processo deve tornare ad essere un mezzo per accertare responsabilità individuali rispetto a fatti determinati; nient’altro. E l’occasione dell’anabasi c’è: la riforma diretta ad attuare l’art. 111. Bisogna tuttavia guardarsi dalla tentazione di prefigurare nei dettagli ogni possibile evenienza: se s’insegue la patologia, il sistema diventa macchinoso, oscuro, di difficile applicazione. Le modifiche veramente importanti sono solo due: massima cesura fra indagini e dibattimento; riduzione dell’area del diritto al silenzio. Anche per il sen. Giovanni Russo, queste innovazioni sono indilazionabili. A prima vista alcune riforme recenti — l’ampliamento del giudizio abbreviato e i cosiddetti « patteggiamenti sulle prove » — sembrano andare nella direzione opposta, perché riconoscono valore probatorio ad atti raccolti in modo unilaterale. Ma il contrasto con l’art. 111 è solo apparente: sopprimere le attività istruttorie superflue, consente di recuperare la centralità del dibattimento in tutti i casi in cui le parti ritengano necessario un contraddittorio pieno. Secondo Russo, per ripristinare la separazione fra le fasi occorre riscrivere l’art. 500 c.p.p. In particolare, bisogna proibire le contestazioni al testimone che non risponde: qui non c’è alcuna possibilità di verificare l’attendibilità delle dichiarazioni pregresse. Ma se, in dibattimento, la fonte di prova parla, allora non è logico né realistico consentire al giudice di usare le dichiarazioni anteriori per stabilire la credibilità del teste, ed impedirgli di utilizzarle come prova dei fatti in esse affermati. Inoltre, occorre circoscrivere il più possibile il raggio d’azione del diritto al silenzio. L’incompatibilità a deporre va mantenuta soltanto per gli imputati del medesimo reato ed esclusa, invece, in tutte le ipotesi di connessione diverse da quella prevista nella lettera a) dell’art. 12 c.p.p.; ma anche nei casi disciplinati dalla lettera a), l’imputato dev’essere considerato compatibile con l’ufficio di testimone qualora sia uscito definitivamente dal processo in forza d’una sentenza passata in giudicato. Sennonché, quest’opera riformatrice — ha affermato il cons. Domenico Manzione — è molto difficoltosa, perché si dibatte all’interno d’una contraddizione: è tempo d’abbandonare la logica dell’emergenza; ma ci troviamo, oggettivamente, in uno stato d’emergenza. L’art. 111 è entrato in vigore, spiazzando interi settori della normativa processuale vigente; serve una legge che metta il sistema al passo con i nuovi principi; e serve subito, prima che
— 1523 — intervenga la Corte costituzionale e prima, perciò, che i contenuti dell’art. 111 siano stati sondati in profondità. Tutti ormai riconoscono, per esempio, la doppia anima del contraddittorio: metodo d’accertamento e diritto individuale. Ma non s’è ancora riflettuto abbastanza sul fatto che questi due profili rischiano d’elidersi: se il contraddittorio diventa diritto esclusivo d’una parte soltanto, si rinnega il metodo. Per evitare di giungere a tali risultati, bisogna intendere l’incipit dell’art. 111 comma 5 come se dicesse: « la legge deve scegliere in quali casi il consenso dell’imputato può rappresentare una valida rinuncia al contraddittorio ». Una lettura globale dell’intero art. 111 potrà guidare questa scelta: l’affermazione sulla necessità che il processo si concluda in tempi ragionevoli, per esempio, legittima senz’altro il consenso dell’imputato quale fattore d’accesso ai riti speciali. Peraltro, la legge volta ad attuare i principi del giusto processo non può avere come punto di riferimento il solo art. 111; bisogna guardare all’intero tessuto costituzionale, a cominciare da quell’art. 3 che consentì alla Consulta di dichiarare illegittimo, per la sua intrinseca irragionevolezza, il testo originario dell’art. 500 c.p.p. D’altronde, proprio la necessità di trovare un difficile equilibrio fra l’art. 111 e le rimanenti disposizioni costituzionali sul processo, spiega perché, nel disegno di legge all’esame del Parlamento, si siano succedute innumerevoli versioni dell’art. 500 c.p.p.; alla fine, però, questo lungo travaglio ha partorito un testo equilibrato: nella stesura approvata dalla commissione giustizia della Camera, si nota un buon bilanciamento fra principio (impossibilità di usare le dichiarazioni anteriori per fini diversi dalla verifica dell’attendibilità del teste) ed eccezioni (utilizzabilità « piena » nei casi di violenza o minaccia alla fonte di prova). Pur condividendo la grande importanza di questi argomenti, il cons. Giovanni Salvi ha sostenuto che il problema fondamentale è l’inefficienza della macchina giudiziaria: certo, il singolo processo mira ad accertare la responsabilità dell’imputato per un fatto specifico; ma il sistema penale complessivamente inteso si giustifica soltanto se funziona e se raggiunge risultati apprezzabili sul piano della prevenzione; altrimenti, è mera vendetta pubblica. Nel nostro Paese, la giustizia si trova in condizioni drammatiche e non potrà reggere l’urto dell’art. 111 se non verranno introdotti i necessari contrappesi: in particolare, è indispensabile rivedere l’intero settore delle impugnazioni. È vero, comunque, che il principio del contraddittorio richiede una messa a punto del diritto al silenzio. L’autentica soluzione sarebbe offerta dal sistema dei « testi della corona »: l’imputato riceve l’immunità in cambio della sua testimonianza. Ma se, com’è verosimile, il nostro ordinamento non può accogliere un simile istituto, allora la strada imboccata dalla Camera è sostanzialmente accettabile. In ogni caso, bisogna affrontare l’eventualità in cui il testimone, pur avendone l’obbligo, non risponda; proprio per questo, la modifica delle contestazioni avrà un ruolo centrale nell’imminente riforma. Secondo Salvi, occorre consentire al giudice di valutare l’intero sviluppo del contraddittorio che si svolge innanzi a lui, comprese le dichiarazioni contestate; tuttavia, il verbale formato nelle indagini preliminari non dev’essere acquisito al fascicolo per il dibattimento. È quindi intervenuto l’avv. Vittorio Chiusano, manifestando preoccupazione verso l’idea di attribuire all’imputato la facoltà di testimoniare: è troppo lontana dalla nostra cultura; non siamo pronti per una simile rivoluzione. Invece, il disegno di legge che la Camera s’appresta a varare è condivisibile, perché porta avanti progetti meno traumatici. Resta, tuttavia, qualche difficoltà. In primo luogo, si deve riflettere sull’intero meccanismo delle deroghe al contraddittorio legate a fatti di violenza, minaccia o corruzione del testimone: da un lato, non è pensabile che queste situazioni vengano accertate dal giudice attraverso una procedura non regolamentata, che estrometta del tutto le parti; dall’altro lato, però, imporre un « incidente istruttorio » che salvaguardi pienamente i diritti delle parti, significa allontanare molto il traguardo della ragionevole durata del processo. In secondo luogo, sarebbe importante stabilire che l’esistenza di un’ipotesi di connessione sia oggetto d’una puntuale verifica ad opera del giudice, sentite le parti; nella prassi, troppo spesso è accaduto che il giudice abbia dedotto la sussistenza d’un caso di connessione dalla semplice dichiarazione, da parte di un imputato, di avere un processo a carico; in questo modo, l’incompatibilità a testimoniare viene dilatata insopportabilmente. Anche l’avv. Ettore Randazzo ha dedicato il suo intervento all’analisi delle migliorie che possono essere apportate al disegno di legge parlamentare. Bisogna stare in guardia di fronte alla tendenza a circoscrivere il diritto al silenzio: soprattutto quando si ipotizza che la rinun-
— 1524 — cia a questo diritto possa avvenire in una sede non giurisdizionale, ci si muove in un’ottica molto pericolosa. Inoltre, oggi la chiamata di correo richiede elementi di riscontro; domani, se l’accusatore venisse « trasformato » in testimone, questa cautela non sarebbe più necessaria: così, la naturale inattendibilità di chi è imputato in un procedimento connesso verrebbe superata in danno dell’accusato. Un’ulteriore lacuna attiene all’accertamento incidentale della condotta illecita perpetrata sul testimone per indurlo a non rispondere: qui, in aderenza al disposto dell’art. 111 comma 5, il disegno di legge consente il recupero delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini. Ma non è chiaro cosa accada quando il procedimento a carico del supposto autore della violenza o minaccia si concluda con un’assoluzione. Il legislatore dovrebbe intervenire su questo punto, modificando l’art. 630 c.p.p. in modo da permettere la revisione della sentenza emanata nel processo « principale ». Randazzo ha concluso stigmatizzando il fenomeno della circolazione di prove fra procedimenti. Non basta stabilire — come fa il disegno parlamentare — che i verbali di dichiarazioni formate « altrove » siano utilizzabili contro l’imputato soltanto se il suo difensore abbia partecipato alla loro assunzione; quelle dichiarazioni sono nate in un contesto in cui l’imputazione (e, perciò, l’oggetto di prova e la strategia difensiva) era diversa da quella del processo in cui le dichiarazioni medesime saranno utilizzate: ciò vanifica il diritto di difesa e rende impossibile un autentico contraddittorio. Il prof. Vittorio Grevi ha chiuso la tavola rotonda, tornando sui due temi centrali del convegno: il diritto al silenzio e le contestazioni. Per quanto concerne il primo aspetto, è senz’altro necessario restringere la cerchia dei soggetti incompatibili con l’ufficio di testimone. In alcuni casi, tuttavia, l’incompatibilità non potrà essere cancellata; il vero nodo da sciogliere, perciò, è questo: cosa succede quando l’imputato, dopo aver parlato sul fatto altrui, pretende di sottrarsi al contraddittorio? Bisogna evitare che un processo costruito attorno a certe dichiarazioni crolli soltanto perché, del tutto arbitrariamente, il loro autore dichiari di voler restare silenzioso: su altri temi, l’imputato potrà conservare il diritto al silenzio; sull’oggetto delle proprie dichiarazioni anteriori, no: deve rispondere. Quanto alle contestazioni, occorre muovere da una premessa: il comma 4 dell’art. 111 vieta di utilizzare a carico dell’imputato le prove fornite da chi si sia sottratto all’esame da parte dell’imputato medesimo; se ne può dedurre che se, invece, la fonte di prova risponde (sia pure dicendo cose diverse da quelle riferite nel corso delle indagini) l’art. 111 non commina l’inutilizzabilità delle dichiarazioni pregresse. Insomma: se il legislatore ripristinasse il testo originario dell’art. 500 c.p.p., introdurrebbe un regime piu rigoroso di quello richiesto dalla carta costituzionale. Secondo Grevi, è auspicabile che questa linea non prevalga. In primo luogo, infatti, di fronte ad una contestazione il testimone ha la possibilità di rispondere, di spiegare perché ha cambiato versione; le parti stesse possono indagare i motivi di questo cambiamento; le affermazioni contestate, dunque, entrano a tutti gli effetti nel contraddittorio dibattimentale; non c’è motivo di limitarne l’utilizzabilità. In secondo luogo, stabilire che le dichiarazioni rese nell’indagine siano valutabili solo per vagliare l’attendibilità del testimone, significa introdurre un sistema criminogenetico, che incentiva manovre volte ad indurre i testimoni a cambiar versione. Infine, non possiamo dimenticare le reazioni che quella disciplina aveva suscitato nella giurisprudenza; negli anni immediatamente successivi all’approvazione del codice, molti giudici denunciavano il disagio, l’imbarazzo, la situazione d’impasse in cui si trovavano quando, pur convinti della veridicità della dichiarazione resa nelle indagini, potevano usarla per screditare il testimone, ma non come prova dei fatti in essa affermati; e parlavano, amari, di « doppia verità ». ALBERTO CAMON
RASSEGNE
a) GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE CODICE PENALE parte speciale ART. 402 Villipendio della religione dello Stato (Sent. 20 novembre 2000, n. 508, in G.U. I serie speciale, n. 49 del 29-11-2000, p. 17 — Illegittimità costituzionale) La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 c.p., in relazione agli artt. 3 e 8 Cost. Dinanzi alla Corte costituzionale era stata sollevata questione di costituzionalità della norma che punisce con la reclusione fino ad un anno « chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato », per violazione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini (art. 3 Cost.) e del principio di uguaglianza di tutte le religioni (art. 8 Cost.), poiché essa accordava una tutela privilegiata alla sola religione cattolica, già religione dello Stato. L’art. 402 c.p. era già stato oggetto di specifiche questioni di costituzionalità, rigettate dalla Corte costituzionale. Nella sent. n. 39 del 1965, la Corte costituzionale aveva escluso la contrarietà della norma agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost., affermando che non sussistesse incompatibilità nè con l’art. 3 Cost., in quanto il precetto penale si sarebbe rivolto indistintamente a tutti e non avrebbe dato luogo a distinzioni nella posizione giuridica dei destinatari, proteggendo la religione, quale bene di chi la professi, e non direttamente il singolo; nè con l’art. 8, in quanto l’uguale protezione della libertà religiosa non esclude che l’ordinamento consideri in modo differente le varie confessioni, in rapporto alla loro diversa incidenza nella comunità statale; nè con gli artt. 19 e 20, in quanto il vilipendio non sarebbe un modo di esercizio del diritto di professare la fede religiosa, dal momento che la norma che lo punisce si limita a tutelare il sentimento religioso della maggioranza degli italiani (su tale decisione, v. P. GISMONDI, Vilipendio alla religione cattolica e disciplina costituzionale delle confessioni, in Giur. cost., 1965, p. 609). Successivamente, di fronte ad analoga questione, nell’ord. n. 147 del 1987, la Corte costituzionale aveva adottato un provvedimento di restituzione degli atti al giudice remittente, per una nuova valutazione sulla rilevanza, a seguito dell’entrata in vigore delle modifiche al Concordato lateranense, dove al punto 1 del Protocollo addizionale viene a cadere la nozione di religione cattolica quale religione dello Stato. In generale, la Corte si era occupata in varie occasioni dei reati in materia di religione, con una giurisprudenza che si è evoluta quanto all’identificazione del bene giuridico protetto dalle norme penali che tutelano la religione cattolica. In un primo gruppo di decisioni l’elemento preso in considerazione, a sostegno della legittimità costituzionale della disciplina, è quello quantitativo-sociologico, in base al quale la religione cattolica sarebbe tutelata, in quanto religione della « maggioranza » del popolo italiano, destinata a suscitare reazioni sociali più intense (v. sentt. nn. 125 del 1957, avente ad oggetto l’art. 404 c.p.; 79 del 1958, avente ad oggetto l’art. 724 c.p.; 14 del 1973, avente ad oggetto l’art. 724 c.p., dove per la prima volta la Corte riconosce l’esigenza di una revisione dell’assetto normativo, per estendere paritariamente la disciplina).
— 1526 — Successivamente, la giurisprudenza costituzionale abbandona il ricorso al criterio quantitativo, per basarsi su considerazioni diverse: nella sent. n. 925 del 1988, avente sempre ad oggetto l’art. 724 c.p., dinanzi al problema della persistenza delle norme penali in materia di religione alla luce della formale soppressione della « religione cattolica quale religione dello Stato », avvenuta nelle modifiche concordatarie del 1984, recepite con legge n. 121 del 1985, la Corte ammette che il criterio quantitativo prima utilizzato non possa essere mantenuto, ma giustifica la norma penale a tutela di un sentimento religioso individuale, pur auspicando in materia un intervento del legislatore (si veda anche la sent. n. 52 del 1989). Infine, in alcune decisioni più recenti, la Corte comincia a muoversi nell’ottica dell’eliminazione della disparità di trattamento di tutela fra le confessioni religiose, senza mai giungere, però, a dichiarazioni di incostituzionalità totali, come invece avviene nella decisione in esame. Nella sent. n. 440 del 1995, infatti, la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 724 c.p. « nella parte in cui si riferisce ai simboli e alle Persone venerate dalla religione cattolica ». Si tratta di un’incostituzionalità parziale, in quanto viene mantenuto il richiamo alla sola Divinità, ad avviso del giudice costituzionale riferibile anche a divinità diverse da quella cattolica, come già avvenuto in alcune risalenti pronunce giurisprudenziali. In dottrina, si è osservato che dietro una riduzione della norma soltanto apparente, la Corte avrebbe in realtà esteso l’area di punibilità della stessa, modificandone anche il bene giuridico tutelato (v. M. D’AMICO, Una nuova figura di reato: la bestemmia contro la divinità, in Giur. cost., 1995, p. 3487). Nella sent. n. 329 del 1997, la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 404 c.p. « nella parte in cui prevede una pena maggiore di quella prevista per le medesime condotte riferite a confessioni diverse da quella cattolica ». Questa decisione anticipa argomentazioni che ritroviamo nella sentenza in esame, in quanto la Corte afferma che « la protezione penale del sentimento religioso assume il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, che non consente apprezzamenti legislativi differenziati secondo i diversi contenuti ». Tali precedenti, nella loro progressiva evoluzione, sono richiamati dalla Corte costituzionale nella motivazione della decisione sull’art. 402 c.p., secondo la quale le « ragioni che giustificavano questa norma nel suo contesto originario sono anche quelle che ne determinano l’incostituzionalità attuale ». La Corte ritiene infatti che già nella giurisprudenza pregressa si afferma il principio, basato sugli artt. 3 e 8 Cost., in base al quale « l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e di imparzialità nei confronti di tutte le religioni »: importante la sottolineatura di tale posizione di equidistanza e di imparzialità, quale « riflesso del principio di laicità che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango di « principio supremo » (sentt. 203 del 1989; 259 del 1990; 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sent. n. 440 del 1995) ». Nella motivazione, la Corte chiarisce anche il quadro normativo nel quale la persistenza dell’art. 402 c.p. costituisce un elemento di palese irrazionalità: da un lato, la legge 25 marzo 1985, n. 121 ha esplicitamente affermato il venire meno del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato; da altro lato, allo Stato italiano, nell’ambito delle intese raggiunte con altre religioni, è stato richiesto, sia di ampliare la tutela penale nei confronti di religioni diverse dalla cattolica, sia di rinunciare allo strumento penale, di cui la religione non avrebbe bisogno. Nell’ultima parte della decisione, la Corte afferma che il ripristino dell’eguaglianza violata potrebbe in astratto avvenire « sia eliminando del tutto la norma che determina quella violazione, sia estendendone la portata per ricomprendervi i casi discriminati », chiarendo che il principio di laicità non escluderebbe, a suo avviso, l’intervento statale, anche di natura penale, in quanto esso non implica mai « indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle
— 1527 — religioni », ma legittima « interventi legislativi a protezione della libertà di religione » (ma su questo profilo, v. le considerazioni svolte in M. D’AMICO, Una nuova figura di reato, cit., p. 3487 e ivi letteratura in argomento; interessanti osservazioni in T. PADOVANI, La travagliata rinascita dei delitti in materia di religione, in Studium juris, 1998, p. 921 ss.). La Corte ritiene, però, che la scelta di una decisione esclusivamente ablativa è imposta nel caso di specie dal divieto di sentenze additive in materia penale, ex art. 25, comma 2, Cost. In generale, sull’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e sui problemi causati da una tutela « a senso unico » del fenomeno religioso, v. A. VITALE, Corso di diritto ecclesiastico, 8 ed., Milano, 1996, pp. 465-475; A. RAVÀ, Corte costituzionale e religione di Stato, in Dir. e soc., 1998, p. 549 ss. ART. 564 Incesto (Sent. 21 novembre 2000, n. 518, in G.U., I serie speciale, n. 49 del 29-11-2000, p. 48; Infondatezza) La Corte costituzionale dichiara infondata una questione di legittimità costituzionale sull’art. 564 c.p., nella parte in cui punisce — con la reclusione da uno a cinque anni — chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un affine in linea retta, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione. Il giudice rimettente riteneva l’art. 564 c.p. viziato per irragionevolezza sotto vari profili: innanzitutto in quanto, sotto il profilo sollevato, la norma non risponderebbe all’intento di evitare una commixtio sanguinis (nella specie, si trattava di incesto fra suocero e nuora); in secondo luogo, subordinando la punibilità dell’incesto al verificarsi di un pubblico scandalo, la norma stessa proteggerebbe esclusivamente l’immagine esteriore della famiglia, e non già l’unità e l’integrità della famiglia come valore concreto; in terzo luogo, la norma violerebbe la discrezionalità legislativa, introducendo una sproporzione tra il valore del bene protetto e la libertà individuale, e determinando una sanzione incongrua, lesiva del principio della finalità rieducativa della pena. Nel rigettare la questione, la Corte costituzionale compie un esame attento e approfondito della ratio della norma stessa (sull’analisi di altre norme penali, sotto il profilo della ratio storica e dell’esatta individuazione del bene giuridico protetto dalla norma penale, v. sentt. nn. 62 del 1986, nella quale si afferma che « non esistono strutture ontologiche delle condotte criminose, tali da vincolare il legislatore in un certo modo; 409 del 1989; 487 del 1989, con considerazioni sul diritto penale come extrema ratio; 144 del 1991, dove il principio di offensività assurge a criterio interpretativo della norma incriminatrice; 285 del 1991; 467 del 1991; 342 del 1993; 341 del 1994; 519 del 1995; 370 del 1996; 447 del 1996, in tema di abuso d’ufficio). Innanzitutto, nella decisione si riconosce che il « bene giuridico » protetto dalla norma era oggetto di discussione già dal momento dell’elaborazione del codice penale: ad avviso del giudice costituzionale, dai lavori preparatori risulterebbe che l’interesse del legislatore fosse, da un lato, di tutela « dell’integrità e sanità della stirpe »; dall’altro, di tutela « della famiglia ». Secondo la Corte costituzionale, però, proprio la scelta legislativa di includere nella fattispecie dell’incesto figure, quali gli affini in linea retta, fra le quali non corrono reati di sangue, unito alla circostanza che il rapporto fra consanguineità e malattie genetiche rimane tuttora controverso, renderebbe chiaro che l’art. 564 c.p. offre protezione alla famiglia: « più precisamente, mira a escludere i rapporti sessuali tra componenti della famiglia diversi dai coniugi: un’esclusione determinata dall’intento di evitare perturbazioni della vita familiare e di aprire alla più vasta società la formazione di strutture di natura familiare ». Ad avviso della Corte costituzionale una scelta siffatta, coinvolgente il bene giuridico tutelato dalla norma penale, nonché l’estensione dello stesso concetto di famiglia, rientrerebbe
— 1528 — pienamente nei « poteri discrezionali del legislatore », escludendosi, sotto questo profilo, la violazione dell’art. 3 Cost. La Corte affronta, allora, la censura attinente all’introduzione dell’elemento del « pubblico scandalo », quale condizione da cui dipenderebbe l’irrogazione della pena prevista. La Corte sintetizza in modo efficacissimo la posizione del giudice a quo: « Si potrebbe dire così: dalla norma penale, per il modo in cui è strutturata, risulterebbe che lo stesso fatto di incesto, se confinato nello spazio privato delle relazioni interpersonali, è penalmente irrilevante; se viene invece ad essere conosciuto all’esterno provocando scandalo, solo allora assume rilievo penale. I singoli colpiti da sanzione penale fungerebbero da mezzi; il fine sarebbe la moralità, o la percezione sociale della moralità della famiglia » (il tutto, ad avviso del giudice a quo in contrasto con un sistema penale nel quale la persona singola è al vertice della scala dei valori). Secondo il giudice costituzionale, però, la scelta del legislatore, non irragionevole, è stata quella di bilanciare « l’esigenza di repressione dell’illecito e la protezione della tranquillità degli equilibri domestici da ingerenze intrusive, quali investigazioni della pubblica autorità alla ricerca del reato », protezione che non avrebbe più ragion d’essere allorché si verifichi un pubblico scandalo (sulla discrezionalità del legislatore nella configurazione di reati e pene, cfr. sentt. nn. 68 e 84 del 1997; 114, 145, 246, 297, 416 e 435 del 1998; 21 del 1999). La Corte ritiene allora che, seguendo un ragionamento che non evoca « impegnativi dilemmi ideologici », è possibile giustificare la scelta del legislatore del 1930 (sul diritto penale « ideologico », cfr. E. MUSCO, Consenso e legislazione penale, in Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, Milano, 1993, p. 151 ss.). Anche il profilo avente ad oggetto l’art. 13, primo comma, in relazione all’art. 2 Cost., attinente alla « necessaria proporzione tra il valore del bene protetto dalla norma penale e il valore della libertà individuale » viene rigettato, perché strettamente collegato alla censura sulla funzione dell’elemento del pubblico scandalo, ritenuta infondata. Infine, rispetto al principio della finalità rieducativa della pena, il giudice costituzionale qualifica le censure del giudice come critiche di natura politica, non coinvolgenti il piano del giudizio di costituzionalità delle leggi, dal momento che, assolutizzando in sede di giudizio di costituzionalità la stessa funzione rieducativa, si introdurrebbe un giudizio sulla congruità del nesso tra tipo di reato e tipo di pena che, applicata a qualsiasi fattispecie incriminatrice, potrebbe sconvolgere il sistema sanzionatorio penale, arrivando alla conseguenza assurda dell’esistenza di reati privi di una « pena idonea ». In conclusione, secondo il giudice costituzionale, le censure prospettate nei confronti dell’art. 564 c.p. si risolverebbero « in critiche di opportunità alla norma, il cui apprezzamento non compete a questa Corte, rientrando nella discrezionalità del legislatore ».
CODICE PENALE MILITARE DI PACE ART. 183 Manifestazioni e grida sediziose ART. 182 Attività sediziosa (Sent. 21 novembre 2000, n. 519, in G.U., I serie speciale, n. 49 del 29-11-2000, p. 53; Infondatezza) Nella decisione, la Corte costituzionale dichiara infondate due questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto gli artt. 183 c.p.m.p. (manifestazioni e grida sediziose) e 182 c.p.m.p. (attività sediziosa) (analoga questione, nei confronti dell’art. 183 c.p.m.p., era stata risolta dalla Corte con sent. n. 57 del 1984 nel senso della manifesta infondatezza e dell’inammissibilità, sulla quale v. MESSINA, Il reato militare di manifestazioni e grida sediziose: una figura « determinata »?, in Giur. it., 1984, c. 347). Entrambe le norme erano ritenute dai giudici remittenti in contrasto con l’art. 25,
— 1529 — comma 2, Cost., sotto il profilo della necessaria determinatezza della fattispecie penale, dal momento che le espressioni utilizzate dal legislatore renderebbero impossibile « attribuire alle nozioni di grida e manifestazioni « sediziose » un significato chiaro, preciso ed univoco, sia sul terreno del linguaggio giuridico, sia su quello del lessico corrente, e il carattere « sedizioso » della condotta incriminata verrebbe desunto da valutazioni soggettive, legate al contesto socio-culturale o ai diversi periodi storici », rendendo quindi il giudice « arbitro assoluto » nel selezionare i comportamenti punibili. Nei confronti dell’art. 182 c.p.m.p., veniva messo in dubbio la conformità al principio della necessaria offensività del reato « che richiede appunto che le fattispecie incriminatrici siano costruite in funzione dell’offesa a una determinata e tipicizzata oggettività giuridica ». Due sono quindi i profili affrontati dalla Corte: l’aspetto attinente alla determinatezza delle fattispecie viene analizzato con riguardo soprattutto all’art. 183 c.p.m.p. e, di riflesso, è richiamato nel giudizio sull’art. 182 c.p.m.p., il quale si sviluppa soprattutto per ciò che attiene al principio di offensività. I dubbi di costituzionalità sollevati nei confronti di norme che, utilizzando espressioni quali « attività sediziosa » e « grida e manifestazioni sediziose », si espongono a censure di indeterminatezza attinenti al piano linguistico, vengono risolti in chiave interpretativa. Il giudice costituzionale, pur ammettendo che la fattispecie possa risultare indeterminata sul piano linguistico, afferma che esisterebbe un « consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale, seguito dalla giurisprudenza comune », che consente di dare alla norma stessa un significato univoco. È necessario osservare, però, che le censure sollevate dai giudici remittenti si fondavano proprio su una convinzione opposta, e cioè che « la giurisprudenza di tutti i giorni depone per il contrario »: nella giurisprudenza militare, infatti, troviamo affermazioni perentorie, di segno contrario rispetto a quanto affermato dal giudice costituzionale. Il reato di cui all’art. 183 c.p.m.p. si concretizza in moltissimi casi: « è sediziosa qualsiasi manifestazione idonea a suscitare malcontento nelle Forze Armate » (Tribunale supremo militare, 22 ottobre 1974, Russo e Soldati, in Rassegna Giust. Mil., 1975, p. 28); « il connotato della sediziosità è da ravvisare quindi nell’astensione dal rancio così come nell’osservanza di un minuto di silenzio durante il rancio, se astensione e silenzio siano protesta contro i superiori (nella specie per il trasferimento di due commilitoni, attribuito a ragioni politiche) » (Tribunale supremo militare, 25 giugno 1976, n. 249, Grippa e altro, in Rassegna Giust. Mil., 1977, p. 62); « l’ipotesi dell’art. 183 c.p.m.p. si attaglia alla partecipazione di un militare ad un corteo di persone che manifestano un orientamento politico se, in spregio al principio di estraneità delle FF.AA. alle competizioni di parte, si metta in evidenza tale partecipazione con il modo di salutare e coprendo il volto con un fazzoletto » (Tribunale supremo militare, 4 giugno 1976, n. 209, ric. Negozio, in Rassegna Giust. Mil., 1977, p. 62); in dottrina si afferma chiaramente che la norma non risulta affatto determinata (così, BRUNELLI-MAZZI, Diritto penale militare, 2 ed., Milano, 1998, pp. 494-495.) In parole più semplici, la lettura della decisione costituzionale, se unita ad un’analisi dei casi nei quali la norma viene applicata in modo diverso e contraddittorio dai giudici militari (a fronte di decisioni che affermano la compatibilità dell’art. 183 c.p.m.p. con l’art. 21 Cost., riconoscendosi, ad esempio, in una di queste che la semplice partecipazione in uniforme e gridando slogans ad un corteo non concretizzi il reato in oggetto (v. Tribunale supremo militare, 12 novembre 1976, n. 347, ric. Bertaina, in Rassegna Giust. Mil., 1977, p. 339), troviamo numerose decisioni nelle quali si afferma il contrario, e cioè che la semplice « partecipazione a corteo, idonea ad esprimere ribellione » concretizzi il reato stesso (Tribunale supremo militare, 23 gennaio 1976, ric. Castaldi, in Rassegna Giust. Mil., 1976, p. 95) e che « la tutela costituzionale della manifestazione del pensiero (...) non si estende alla tutela di immotivate espressioni di rancore e di ribellione »; va ravvisato un reato di manifestazione sediziosa nella frase « Abbasso l’esercito » (Tribunale supremo militare, 17 gennaio 1978, n. 18, ric. Bez, in Rassegna Giust. Mil., 1978, p. 192)) mostra come fosse in realtà problematica e affatto indiscussa la chiave interpretativa sviluppata dalla giurisprudenza costituzio-
— 1530 — nale pregressa, su cui la Corte si basa per superare le censure di indeterminatezza della fattispecie. Delle due l’una: o la Corte costituzionale si fonda su un presupposto discutibile, quello dell’esistenza di un indirizzo interpretativo consolidato, capace di superare i dubbi sull’indeterminatezza della fattispecie, senza verificarne fino in fondo l’effettiva consistenza; oppure, consapevole dell’esistenza di pronunce giurisprudenziali di segno opposto, la Corte intende riaffermare la propria interpretazione conforme a Costituzione, rafforzandola con il richiamo al principio di determinatezza della legge penale. In ogni caso, non essendoci un pacifico « consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale, seguito dalla giurisprudenza comune », è evidente che la strada seguita dalla Corte costituzionale, pur valida in linea di principio, non vale a fugare definitivamente i dubbi sull’indeterminatezza delle norme censurate. Importante, nella decisione, il richiamo ad altri principi costituzionali che verrebbero lesi da una norma indeterminata: il diritto di difesa (art. 24 Cost.), in quanto una fattispecie non tipizzata lascerebbe il cittadino in balia della discrezionalità interpretativa del giudice; il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), in quanto si impedirebbe al pubblico ministero di individuare con certezza i comportamenti incriminabili; il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, essendo possibili differenti letture della norma, i cittadini sarebbero esposti a decisioni diverse, e quindi a diversi trattamenti processuali, pure in presenza di identiche situazioni di fatto. In ordine al profilo concernente l’offensività della fattispecie di cui all’art. 182 c.p., la Corte afferma un principio importante, basandosi sul precedente di cui alla sent. n. 263 del 2000 (nonché alla meno recente sent. n. 360 del 1995). La Corte ricorda che la tutela della disciplina militare non è fine a se stessa, ma funzionale alle esigenze del servizio militare: di conseguenza può essere considerata sediziosa « solo l’attività in concreto idonea a ledere le esigenze di coesione, di efficienza e di funzionalità del servizio militare e dei compiti istituzionali delle forze armate ». La Corte poi analizza il principio di offensività, il quale operebbe anche nei confronti del reato in esame, distinguendo un aspetto astratto, che varrebbe sul terreno della previsione normativa, quale limite alla discrezionalità del legislatore « nella individuazione di interessi meritevoli di essere tutelati mediante lo strumento penale, suscettibili di essere chiaramente individuati attraverso la formulazione del modello legale della fattispecie incriminatrice », ed un aspetto concreto, riguardante il momento dell’applicazione giudiziale, cui farebbe riscontro « il compito del giudice di accertare in concreto, nel momento applicativo, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l’interesse tutelato dalla norma » (v. sentt. 263 del 2000; 360 del 1995; 144 del 1991). ART. 83, primo comma Vilipendio alla bandiera (Sent. 15 novembre 2000, n. 531, in G.U., I serie speciale, n. 49 del 29-11-2000, p. 98; Infondatezza) La Corte costituzionale dichiara l’infondatezza di varie censure sollevate in riferimento all’art. 83 c.p.m.p., il quale punisce, con la reclusione da 3 a 7 anni, « il militare, che vilipende la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato ». Il Tribunale riteneva la reclusione militare (da 3 a 7 anni), prevista dall’art. 83 c.p.m.p., in contrasto con il principio di eguaglianza sotto tre profili: in primo luogo, se raffrontata con l’analogo reato contenuto nel codice penale (art. 292 c.p.) — che prevede la pena della reclusione da 1 a 3 anni — la norma sarebbe apparsa eccessivamente severa e sproporzionata, basandosi sulla mera distinzione delle qualità soggettive dell’agente; in secondo luogo, la norma avrebbe irragionevolmente previsto un incremento di pena diverso, e più severo, rispetto ai reati di cui agli artt. 77 c.p.m.p. (alto tradimento) e 78 c.p.m.p. (istigazione all’alto tradimento) — e ciò, nonostante la comune distinzione soltanto qualitativa dal punto di vista
— 1531 — soggettivo, rispetto ai corrispondenti reati comuni —; in terzo luogo, nel codice penale comune il vilipendio alla nazione (art. 291 c.p.) e il vilipendio alla bandiera (art. 292 c.p.) sono ugualmente sanzionati, mentre nel codice penale militare il vilipendio alla nazione risulta punito meno severamente (e cioè con la reclusione da 1 a 3 anni) del vilipendio alla bandiera (da 3 a 7 anni). Ai diversi profili sollevati, il giudice a quo fa corrispondere due differenti richieste ablative: il primo profilo andrebbe corretto con la mera dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 83 c.p.m.p., cui conseguirebbe la naturale espansione dell’art. 292 c.p., mentre il secondo e il terzo profilo dovrebbero essere sanati con un’operazione ablativo-ricostruttiva della cornice edittale, la quale, non limitandosi a cancellare la pena di cui all’art. 83 c.p.m.p. trapiantasse in quest’ultima quella contenuta nel vilipendio alla nazione di cui all’art. 82 c.p.m.p. (reclusione da uno a tre anni). La Corte costituzionale ritiene infondata la questione sotto tutti i profili (v. invece, la sent. n. 189 del 1997, nella quale è dichiarata l’incostituzionalità, per manifesta irragionevolezza, del reato di esposizione di bandiera estera senza autorizzazione, dove si afferma che « la scelta legislativa, consona all’ideologia totalitaria del tempo in cui la norma fu posta (1929), si manifesta oramai irrazionale, non avendo lo Stato democratico valori e simboli propri da imporre »). In ordine al primo profilo, Essa afferma chiaramente che « il giudice a quo, nell’indicare come termine di raffronto la pena prevista dall’art. 292 c.p., trascura di osservare che essa, in forza della circostanza aggravante di cui all’art. 292-bis, introdotta nell’art. 9 della legge 23 marzo 1956, n. 167, è aumentata nel caso in cui il reato sia commesso da un militare in congedo: onde l’eventuale annullamento dell’art. 83 c.p.m.p., che desse luogo all’applicazione ai militari in servizio dell’art. 292 c.p. comune, produrrebbe un nuovo, paradossale squilibrio, risultando il vilipendio alla bandiera punito più gravemente per i militari in congedo (art. 292-bis c.p.) che per quelli in servizio, a meno di assimilare questi ultimi in sede interpretativa (ma arbitrariamente) ai primi » (la questione della possibilità di innestare la pena comune su un precetto « speciale » si era già posto con riguardo alle pronunce in tema di insubordinazione militare (cfr. sentt. nn. 26 del 1979; 103 del 1984, sulle quali v. VENDITTI, Le norme sui reati di insubordinazione dopo gli interventi della Corte costituzionale, in Rass. giust. mil., 1983, pp. 177-178); in generale, sulla distinzione fra pena militare e pena comune, BRUNELLI-MAZZI, Diritto penale militare, Milano, II ed., 1998, p. 164). In ordine alla seconda e alla terza censura, la Corte, approfondendo il ragionamento appena svolto, mostra come il vilipendio alla nazione e quello alla bandiera siano considerati, nel codice penale militare, come reati posti a tutela di beni giuridici diversi, il cui differente regime sanzionatorio si fonda su una ragionevole giustificazione — mentre la Corte osserva che il giudice a quo non avrebbe argomentato in modo sufficiente la ratio dell’attuale regime differenziato —. Anche in questo caso, probabilmente, la Corte ha in mente che un eventuale innesto di una sanzione comune sul precetto speciale avrebbe determinato ulteriori, più vistose, disarmonie nel sistema (sulle caratteristiche della pena militare quale pena speciale, cfr. anche Corte cost., sent. 6 novembre 1991, n. 414). La questione non riguardava altri profili di incostituzionalità della disciplina, attinenti al precetto, quali soprattutto la compatibilità con l’art. 21 Cost., potendo essere punite anche manifestazioni di pensiero coperte dal parametro costituzionale e con l’art. 25, comma 2, Cost., nella parte in cui esige norme determinate, non risultando il concetto di vilipendio in grado di disegnare chiaramente il confine fra comportamenti leciti e comportamenti vietati (sulla compatibilità con l’art. 21 Cost., si veda la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 180, comma 1, c.p.m.p., il quale prevedeva come reato « la presentazione collettiva, ad opera di almeno dieci militari, o di uno solo di essi, previo accordo con gli altri, di una istanza, esposto o reclamo (per cose attinenti al servizio), scritto od orale », ritenuto lesivo dell’art. 21. Cost., in riferimento agli artt. 3 e 52 Cost.; tale norma, secondo il giudice costituzionale porrebbe « un limite penalmente sancito alla libertà di manifestazione del dis-
— 1532 — senso, e alla correlata libertà di petizione, e quindi alla libertà di manifestazione del pensiero nella forma collettiva di esercizio anch’essa garantita dall’art. 21 Cost. ». Pur non essendo chiamata direttamente a giudicare su questo profilo — che, per inciso, è quello su cui la dottrina finora ha maggiormente insistito — la Corte compie importanti affermazioni: da un lato, Essa ribadisce, sulla scia di una giurisprudenza consolidata, che viene puntualmente richiamata (sentt. nn. 20 del 1974; 29 del 1965; 188 del 1975; 479 del 1989; 24 del 1989), che la repressione del vilipendio « non si estende alle espressioni di critica, anche aspra, potendosi applicare solo a manifestazioni offensive, che neghino ogni valore ed ogni rispetto (« tenere a vile ») all’entità oggetto di protezione », in modo idoneo ad indurre i destinatari della manifestazione « al disprezzo delle istituzioni o, addirittura, ad ingiustificate disobbedienze ». L’aspetto nuovo, particolarmente significativo perché oggetto anche di altre recenti pronunce (sentt. nn. 263 e 519 del 2000), è costituito dal legame fra il ragionamento astratto — e già assodato nella giurisprudenza pregressa — sull’interpretazione del termine « vilipendio » e il riferimento alla « concreta offensività » del comportamento, da valutarsi da parte del giudice caso per caso: così la Corte introduce un principio nuovo, che si salda al ragionamento sull’astratta chiarezza della fattispecie: « Non può certo ritenersi ricadere nell’ambito delle fattispecie incriminatrici di vilipendio qualsiasi espressione di personale dissenso, priva di concreta idoneità offensiva, spettando al giudice di « impedire », con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, un’arbitraria e illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale » (il richiamo alla recente sent. n. 263 del 2000 diventa particolarmente significativo). Nonostante l’estraneità di questo profilo alla questione sollevata dal giudice, la Corte introduce l’elemento della concreta offensività, quale profilo nuovo, da mettere in conto nell’interpretazione dell’esatto significato della norma: sembra, nella decisione, che il giudice costituzionale sia preoccupato anche della specifica soluzione del caso concreto, laddove in chiusura afferma che « resta fermo il dovere dei giudicanti di verificare, in sede applicativa, la riconducibilità della condotta al modello legale e la sua concreta offensività ». ART. 120 c.p.m.p. Violata consegna (Sent. 6 luglio 2000, n. 263, in G.U., I serie speciale, n. 30 del 19-7-2000, p. 25; Infondatezza) La Corte costituzionale giudica una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 120 c.p.m.p., il quale assoggetta alla sanzione della reclusione militare fino ad un anno la violazione della consegna avuta, per contrasto con gli artt. 25, 24, 112, 13 e 3 Cost. La questione era stata sollevata sotto diversi profili, collegati fra loro: ad avviso del giudice a quo, la norma avrebbe violato l’art. 25, comma 2, Cost., sia sotto il profilo della riserva di legge — essendo di fatto delegata all’amministrazione la descrizione del precetto —, sia sotto il profilo del difetto di determinatezza della fattispecie — non essendo chiarito nella stessa l’esatto contenuto della nozione di consegna, il quale verrebbe rimesso alla valutazione discrezionale dei singoli giudici militari —; l’art. 24, comma 2, Cost., dal momento che la violazione della riserva di legge e della determinatezza della fattispecie pregiudicherebbe il diritto di difesa dell’imputato; l’art. 3 Cost., per la possibilità che i cittadini siano soggetti a decisioni difformi dei giudici e anche al discrezionale comportamento dell’amministrazione; gli artt. 25, comma 2, e 13 Cost., per ciò che attiene al principio di offensività, giacché « la disposizione censurata configurerebbe un reato di pericolo presunto, un illecito di mera disobbedienza disancorato dalla effettiva lesione di un bene giuridico ». La Corte costituzionale decide, innanzitutto, di interpretare gli argomenti dell’ordinanza di rimessione come funzionali tutti alla pretesa violazione del principio di legalità, sotto il profilo della riserva di legge e della determinatezza della fattispecie penale. Così interpretata l’ordinanza, la Corte ritiene che le censure siano infondate, dal momento che il termine
— 1533 — « consegna », che il giudice a quo assumerebbe come generico, pur possedendo nel linguaggio comune una molteplicità di significati, anche eterogenei, « nell’ambito dell’ordinamento militare è da sempre stato inteso in una accezione fortemente tecnica, che lo rende oltremodo preciso e per nulla indeterminato » (la Corte precisa che l’incriminazione della violata consegna, per la sua collocazione sotto il titolo II « dei reati contro il servizio militare », è diretta a tutelare il servizio, e non la disciplina militare; che in ordine alla sfera soggettiva, si è chiarito in via giurisprudenziale che il reato può essere commesso « da un militare che sia comandato ad un servizio determinato e al quale siano assicurati i mezzi per l’esecuzione della consegna »; che, infine, in ordine al contenuto, sarebbe pacifico, sempre in via giurisprudenziale, « che non sono configurabili spazi di discrezionalità da parte del militare comandato e che pertanto la consegna deve essere precisa, nel senso che essa deve determinare interamente e tassativamente il comportamento del militare in servizio »). Nell’analisi sulla costituzionalità della norma, la Corte costituzionale introduce un elemento nuovo e importante, ai fini della valutazione dell’effettiva determinatezza della fattispecie: viene valutata, infatti, l’offensività in astratto « intesa quale limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa in materia penale e che spetta indubbiamente a questa Corte rilevare » (la Corte richiama la sent. n. 360 del 1995). Nel caso di specie, secondo la Corte « una volta accertato che il bene giuridico protetto dall’art. 120 c.p.m.p. è la funzionalità e l’efficienza di servizi determinati, che il legislatore ha inteso garantire, rendendone rigide e tassative le modalità di esecuzione da parte del militare comandato, non vi è ragione di dubitare che la violazione della consegna sia di per sé suscettibile di ledere interessi di rilievo costituzionale riconducibili ai valori espressi dall’art. 52 Cost. ». La Corte rinvia al singolo giudice il compito dell’accertamento in concreto dei presupposti che identificano la consegna. Essa conclude, quindi, sottolineando i due momenti necessari nel giudizio sulla conformità di una norma penale all’art. 25, comma 2, Cost.: quest’ultimo postulerebbe un « ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei principi conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale » (il rinvio è alle decc. nn. 360 del 1995; 247 del 1997; 133 del 1992; 333 del 1991; 144 del 1991). Dunque, è chiarito nella decisione il duplice operare del principio di offensività, sul piano astratto e sul piano concreto, e il suo essere elemento del giudizio sulla determinatezza delle norme penali, mentre, come afferma lo stesso giudice costituzionale, rimane aperta la questione « se l’offensività in concreto apprezzabile dal giudice sia dotata di autonomia concettuale o se essa non sia nient’altro che il riflesso della non sussumibilità di singoli casi sotto la previsione della norma penale a causa del necessario concorrere dell’offensività con gli altri elementi che tipizzano il reato ». MARILISA D’AMICO Professore associato di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria
— 1534 — LEGISLAZIONE SPECIALE ART. 228 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 e ART. 1 d.l. 30 gennaio 1979, n. 26 (conv. in legge 3 aprile 1979, n. 95) Interesse privato del curatore negli atti del fallimento (Sent. 18 marzo 1999, n. 69 in G.U., I serie speciale, 24 marzo 1999, n. 12 — interpretativa di rigetto). Il Tribunale e la Corte d’appello di Napoli sollevano, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost. (« quest’ultimo non esplicitamente evocato » — dice la Consulta — « ma sicuramente desumibile dalla motivazione »), questione di legittimità costituzionale degli artt. 228 del R.D. n. 267/42 (c.d. legge fallimentare) e 1 del d.l. 30 gennaio 1979, n. 26 (conv. in legge 3 aprile 1979, n. 95). Ad avviso dei remittenti il Commissario straordinario delle imprese in crisi, come d’altronde il curatore fallimentare e gli altri soggetti a lui equiparati, alla luce della censurata legislazione, è l’unico pubblico ufficiale che risponderebbe indiscriminatamente di qualsiasi condotta astrattamente riconducibile all’assunzione di un’interessenza in un affare attinente all’ufficio da loro esercitato, mentre gli altri pubblici ufficiali risponderebbero, dopo la novella n. 234/97, che ha ridisegnato l’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio), delle stesse condotte solo quando agiscono in violazione di norme di legge o di regolamento oppure omettono di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto. In particolare i remittenti ricordano come l’art. 228 L.F. (interesse privato del curatore negli atti del fallimento) sia strutturato in maniera identica all’art. 324 c.p. (interesse privato in atti d’ufficio) e l’abrogazione di quest’ultimo, ad opera della legge n. 86/90, non ha comportato un’indiscriminata abolitio criminis delle condotte ivi sanzionate ma ha determinato la parziale riconduzione di quelle nella fattispecie di cui all’art. 323 c.p.; una previsione delittuosa quest’ultima, la cui formulazione, dopo la modifica intervenuta nel 1997, risulta ora più favorevole in quanto il legislatore, intervenuto per ricondurre il reato in questione nell’alveo di una maggiore determinatezza, ha operato una riduzione dell’area della punibilità attraverso una più precisa individuazione delle condotte vietate. In siffatto contesto normativo nulla è invece cambiato con riguardo alle condotte poste in essere dal curatore fallimentare (e dai soggetti a lui equiparati) in quanto l’art. 228 L.F. continua a prevedere una repressione penale più ampia, punendo l’agente per condotte che, se poste in essere da qualsivoglia altro pubblico ufficiale, non sarebbero affatto sanzionate alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 323 c.p. La Corte costituzionale ritiene infondata la questione sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.); il rapporto tra l’art. 228 L.F. e l’art. 323 c.p. sarebbe configurabile in termini di specialità e tale scelta del legislatore, rinvenendo una ragionevole giustificazione nella disomogeneità sostanziale delle due figure delittuose, rappresenta esercizio di discrezionalità legislativa non censurabile in sede di scrutinio di costituzionalità. Con riferimento al secondo profilo (art. 25 Cost. — principio di determinatezza), la Corte ritiene possibile una lettura della norma denunciata idonea a meglio precisare le condotte punibili. Infatti l’art. 228 L.F. va interpretato nel senso che la presa di interesse privato del curatore fallimentare ( e degli altri soggetti ad esso equiparato) è sanzionata penalmente soltanto in quanto sia contrastante con gli interessi tutelati dalla procedura concorsuale. Restano prive di rilevanza penale — a differenza dell’opinione dei giudici remittenti — quelle ipotesi in cui si realizzi una mera coincidenza tra i vantaggi privati e gli interessi dell’ufficio o in cui comunque l’interesse privato del pubblico ufficiale non risulti, in concreto, rivolto a perseguire un vantaggio personale che si ponga in contrasto con le finalità delle procedure concorsuali o dell’amministrazione straordinaria. La Corte conclude ribadendo comunque la necessità di una più organica sistemazione dell’intervento penale sull’intera materia.
— 1535 — ART. 15 legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) Pubblicazione a contenuto impressionante o raccapricciante (Sent. 11 luglio 2000, n. 293 in G.U., I serie speciale, 26 luglio 2000, n. 31 — non fondatezza) La Corte costituzionale è chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell’art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) che prevede l’applicazione dell’art. 528 c.p. (reato di pubblicazioni e spettacoli osceni) anche nel caso di « stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccinati, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo tale da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti ». In particolare l’art. 15 è all’esame della Corte per indeterminatezza (art. 25, co. 2, Cost.), violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e indebita limitazione della libertà di stampa (art. 21 Cost.), ma solo nella parte in cui esso dispone che gli stampati siano idonei a « turbare il comune sentimento della morale ». La Corte dichiara infondata la questione in quanto la norma oggetto, vietando gli stampati idonei a « turbare il comune sentimento della morale », proibisce « soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata ». Infatti la scarsa applicazione che la norma oggetto ha avuto nella giurisprudenza, per i giudici costituzionali, si spiegherebbe nel fatto che la reazione punitiva dell’ordinamento è scattata, e per il futuro dovrà attivarsi, soltanto quando la soglia dell’attenzione della comunità civile viene offesa da pubblicazioni di scritti o immagini, con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità umana e, come tali, avvertibili dall’intera collettività. Così inteso il delitto previsto dall’art. 15 non lede la libertà di pensiero, il quale, nell’articolo in esame, è concepito « come presidio del bene fondamentale della dignità umana ». In questo modo sono superate anche le censure di genericità ed indeterminatezza in quanto la descrizione dell’elemento materiale del fattoreato, pur se collegato a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite: quest’ultima, infatti, non può non incidere sull’interpretazione di quella parte della disposziione che evoca il « comune sentimento della morale ». ART. 2 d.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922 Concessione di amnistia e di indulto — Significato della locuzione « formazioni armate » (Sent. 11 luglio 2000, n. 298 in G.U., I serie speciale, 26 luglio 2000, n. 31 — non fondatezza) Viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 d.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922 (Concessione di amnistia e di indulto), con riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui esso, attraverso la locuzione « formazioni armate », non estende anche ai militari delle Forze armate dello Stato e di quelle nemiche il provvedimento di indulto ivi contenuto. Infatti la giurisprudenza è costante nell’accordare la misura clemenziale in oggetto unicamente a quei cittadini che appartennero alle formazioni irregolari (forze della resistenza o fascisti collaborazionisti) costituitesi nel Paese a seguito degli eventi bellici (cfr. Cass., sez. un., 24 luglio 1954, Cianciulli, in Gius. pen., 1955, II, col. 1 e ss; vedi anche Cass., sez. II, 24 gennaio 1956, Bergoli, Cass., sez. II, 23 aprile 1956, Ferrante, Cass., sez. I, 16 gennaio 1958, Tomaselli; T.S.M. 26 giugno 1958, Malvagni; questo orientamente segue l’interpretazione fornita, con circolare n. 806 in data 5 febbario 1954, dalla Procura generale Militare della Repubblica). Per il remittente il legislatore avrebbe dovuto prevedere identica misura di clemenza per gli autori di reati della stessa natura senza operare discriminazioni che traggono origine non da presupposti oggettivi ma dalle qualità personali dell’agente. Per la Corte la questione è infondata. Premesso come sia il legislatore a determinare le
— 1536 — condizioni del provvedimento di clemenza, per esempio ponendo condizioni ostative alla sua concessione, e come tali determinazioni siano censurabili solo in quanto capaci di determinare una sperequazione normativa non sorretta da alcuna ragionevole giustificazione, la Consulta ricostruisce l’iter storico-parlamentare del provvedimento. Nel 1953 il fine primario del Governo e di tutte le forze politiche fu quello di perseguire la riconciliazione nazionale, recuperando le situazioni, come quella dei latitanti, che furono eslcuse da precedenti misure di clemenza e evitare, in futuro, vendette o rancori. In tale ottica è evidente come il provvedimento avesse di mira unicamente tutti coloro i quali avessero commesso determinati reati nell’ambito di « formazioni irregolari » con forte caratterizzazione ideologica; senza poi tacere di come il d.P.R n. 922 del 1953 quando ha inteso riferirsi ai corpi o reparti regolari delle Forze armate dello Stato li abbia indicati distintamente dalle « formazioni armate ». La ratio del provvedimento di clemenza emersa dall’analisi del suo esame parlamentare, concludono i giudici costituzionali, se può essere oggetto di discussione in sede politica e storiografica, non è però censurabile sul piano della legittimità costituzionale.
ORDINAMENTO PENITENZIARIO ART. 4-bis, comma 1. o.p. Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti (Sent. 22 aprile 1999 n. 137, in G.U., I serie speciale, 28 aprile 1999, n. 17 — illegittimità costituzionale) Un tribunale di sorveglianza solleva, con riferimento all’art. 27 Cost., questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’art. 4-bis ord. pen., « nella parte in cui esso preclude l’accesso al beneficio del permesso premio ai detenuti che, pur non trovandosi nelle condizioni di cui all’art. 58-ter ord. pen., abbiano comunque maturato i termini di ammissibilità della concessione di tale beneficio prima dell’entrata in vigore del d.l. 8 giugno 1992 n. 306 ed a tale data risultassero nelle condizioni per l’ottenimento del beneficio ». Il caso è quello di un detenuto che, condannato per il reato di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/90 (delitto appartenete alla c.d. prima « fascia » dell’art. 4-bis o.p.), si è visto negare l’accesso al sopra citato beneficio in quanto non « collaboratore » (ex art. 58-ter o.p.), status invece richiesto dal d.l. n. 306/92; ciò nonostante la sua condotta penitenziaria avesse raggiunto uno stadio rieducativo tale da ritenere sussistenti tutti i requisiti che, prima dell’entrata in vigore del citato decreto, erano necessari per la concessione del permesso-premio. Come è facile comprendere viene in rilievo una vicenda in cui la Corte è chiamata a salvaguardare il principio rieducativo, nella fase dell’esecuzione penale, anche quando la legislazione, per fronteggiare i pericoli sempre più gravi provenienti dalla criminalità organizzata, abbia ristretto gli accessi a determinati benefici penitenziari. La Corte dichiara fondata la questione ritenendo estensibile al caso di specie il principio, già espresso in tema di semilibertà, per cui « quando la condotta penitenziaria del detenuto ha consentito di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire (...) la innovazione legislativa che vieta la concessione di misure alternative alla detenzione finisce per atteggiarsi alla stregua di un meccanismo a connotazioni ablative, riproducendo così quei caratteri di ’revoca’ non fondata sulla condotta colpevole del condannato » (cfr. sent. n. 445/97). Per i giudici costituzionali non si può così ostacolare il raggiungimento della finalità rieducativa, prescritta dall’art. 27 Cost., precludendo l’accesso a determinati benefici, a chi, al momento in cui è entrata in vigore una legge restrittiva, abbia già realizzato tutte le condizioni per usufruire degli stessi. Proclamato ciò, la Corte opera però una fondamentale precisazione: per ottenere un ulteriore beneficio (il permesso-premio nel caso in esame) non sarà sufficiente il solo fatto di aver maturato, già prima dell’entrata in vigore della legge restrittiva, i benefici consistenti negli sconti di pena che prendono il nome di libe-
— 1537 — razione anticipata. Occorrerà infatti possedere, al momento della concessione, gli altri requisiti correlati al beneficio di cui si chiede il godimento: è necessario, per esempio, che con riguardo ai soggetti di cui al primo periodo del comma primo dell’art. 4-bis o.p. sia accertata l’insussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Concludendo, la Consulta dichiara l’illegittimità dell’art. 4-bis ord. penit. nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso nei confronti dei condannati che, prima della entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. ARTT. 35 e 69, comma 6, o.p. Reclamo — Estensione della tutela giurisdizionale nei confronti di atti della Amministrazione penitenziaria lesivi, in maniera immediata e diretta, di diritti e beni aventi rilevanza costituzionale. (Sent. 11 febbraio 1999 n. 26, in G.U., I serie speciale, 17 febbraio 1999, n. 7 — illegittimità costituzionale). Nel decidere due procedimenti per ’reclamo’, promossi ex art. 35 legge n. 354/75, un magistrato di sorveglianza solleva, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 6, legge 26 luglio 1975 n. 354 (ord. penit.), « nella parte in cui tale articolo non prevede che la procedura di cui all’art. 14-ter della stessa legge si applichi, oltreché nelle ipotesi di cui alle lettera a) e b) dello stesso comma 6, anche nel caso di reclamo del detenuto avente ad oggetto la lesione immediata e diretta di diritti costituzionalmente garantiti ». Nel reclamo i detenuti si dolgono del fatto che l’Amministrazione penitenziaria non consenta loro di ricevere in carcere riviste pornografiche in quanto trattasi di materiale non « in libera vendita all’esterno » (art. 18 o.p) e, come tale, a loro vietato. Il magistrato deve decidere la fondatezza del reclamo seguendo però una procedura de plano, priva cioè di sufficienti garanzie (es. assenza di contraddittorio), che si conclude con un provvedimento che risulta essere una mera ’sollecitazione’ nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria, non appellabile innanzi al Tribunale di sorveglianza, né ricorribile in Cassazione. Per colmare tale lacuna di tutela, il giudice a quo pensa che si renda necessaria l’estensione, ai casi come quello in esame, della procedura giurisdizionalizzata (di cui all’art. 14-ter ord. penit.) che lo stesso art. 69, comma 6, ord. penit. prevede, però, solo quando il reclamo attenga alla materia lavorativa (lett. a) o alla materia disciplinare (lett. b). Per il remittente pare irragionevole (art. 3 Cost) un sistema che preveda la giurisdizionalizzazione del reclamo avente ad oggetto materie non sempre direttamente incidenti su beni od interessi costituzionalmente protetti (quale tipicamente deve considerarsi l’esercizio del potere disciplinare intramurario) e che non preveda la medesima garanzia nell’ipotesi, ben più importante, in cui il magistrato sia chiamato a pronunciarsi su una questione rispetto alla quale venga invocata la lesione immediata e diretta di un diritto costituzionalmente protetto. La Corte affronta il merito ribadendo, in primo luogo, il principio per cui la restrizione della libertà personale non può comportare il disconoscimento delle posizioni soggettive facenti capo al detenuto, risultando ammissibili, semmai, solo quelle limitazioni strettamente connesse alle finalità che sono proprie della restrizione, ma, mai, comunque, un loro completo annullamento. Da ciò consegue che « al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale » (cfr. anche sent. 212/97). L’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti « è essa stessa il contenuto di un diritto protetto dagli artt. 24 e 113 Cost. » caratterizzante lo Stato democratico; un diritto, quello alla difesa, che non può risultare soddisfatto dalla mera possibilità di proporre istanze, in ipotesi anche ad organismi giudiziari, se poi tali richieste vengono poste in essere « fuori dalle garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l’impugnabilità con ricorso per Cassa-
— 1538 — zione ». Alla luce di queste considerazioni, il procedimento che si instaura attraverso il generico diritto di « reclamo » ex art. 35 l. 354/75 è considerato dalla Corte privo di quei requisiti minimi perché lo si possa qualificare come giurisdizionale. Giunta a questa conclusione la Consulta fa un importante precisazione: la presente questione di legittimità costituzionale non riguardi tutti i diritti del detenuto ma unicamente quelli suscettibili di essere lesi per effetto: a) del potere dell’amministrazione di disporre misure speciali che modificano le modalità concrete del « trattamento » di ciascun detenuto; b) di determinazioni amministrative prese nell’ambito della gestione ordinaria della vita del carcere. Conseguentemente, gli effetti della presente decisione non coinvolgono né i diritti che sorgono nell’ambito di rapporti estranei all’esecuzione penale (dato che per essi opereranno già le regole generali che l’ordinamento detta per l’azione in giudizio), né le posizioni soggettive che vengono in considerazione nel momento applicativo degli istituti propri dell’esecuzione penale. Si pensi, in proposito, alle misure alternative alla detenzione (capo VI) per le quali è già predisposta una tutela sicuramente giurisdizionale. La Corte costituzionale, accertata l’esistenza di un vulnus nel sistema penitenziario, si pone poi il problema di apprestare un’adeguata soluzione, consapevole di come la configurazione additiva avanzata dal remittente sia comprensiva sia di « una parte dichiarativa della incostituzionalità dell’omissione legislativa » sia di « una parte ricostruttiva della disciplina necessaria a superarla ». Il Giudice delle leggi ritiene che i suoi poteri rendano possibile solo la prima operazione, quella demolitiva, ma non anche la seconda, di natura ricostruttiva. Infatti — specifica la Consulta — « la rilevata incostituzionalità per omissione (...) si presta a essere rimediata attraverso scelte tra una gamma di possibilità, relative sia all’individuazione del giudice competente sia delle procedure idonee nella specie a tenere conto dei diritti in discussione e a proteggere la funzionalità dell’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale ». Tali scelte sono state compiute dal legislatore « caso per caso » in relazione alle esigenze singolarmente considerate « e secondo gradi diversi di articolazione e completezza degli schemi processuali di volta in volta utilizzati ». Manca quindi un rimedio che possa essere considerato di carattere generale. In realtà esso esisterebbe ma è costituito proprio dalla procedura non giurisdizionale del reclamo generico, quella che il giudice remittente considera incostituzionale perché, appunto, « non giurisdizionale ». Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte costituzionale, mediante una pronuncia additiva ‘di principio’, dichiara l’illegittimità degli art. 35 e 69 della legge n. 354/75 « nella parte i cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della Amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale » e, nel contempo, richiama il Legislatore a colmare la lacuna creatasi, mediante l’esercizio della funzione normativa che solo ad esso compete. ART. 58-quater o.p. Divieto di concessione di benefici (Sent. 1 dicembre 1999 n. 436 in G.U., I serie speciale, 9 dicembre 1999, n. 49 — illegittimità costituzionale). Il Tribunale dei minorenni di Palermo solleva, con riferimento agli artt. 27 e 31 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater legge n. 354/75, « nella parte in cui esso prevede che il condannato, anche se minorenne, a cui sia stata revocata una determinata misura alternativa (affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà), non possa usufruire, per un periodo di tre anni dalla revoca medesima, di benefici penitenziari quali l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi-premio, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà ». La Corte costituzionale — richiamata l’attenzione sulla necessità di dar vita ad un organico ordinamento penitenziario minorile in quanto, in passato, è stato necessario censurare, più volte, l’attuale legge n. 354/75, nella parte in cui permetteva l’applicazione indiscriminata, anche a detenuti minorenni, di norme che stabilivano preclusioni alla concessione di
— 1539 — benefici penitenziari o sanzioni alternative (cfr. sentt. 168/94, 109/97, 403/97, 16/98, 324/98 e 450/98) — dichiara fondata la questione. L’art. 58-quater, commi 2-3, o.p., stabilendo un divieto generalizzato e automatico, di durata triennale, di concessione di tutti i benefici penitenziari elencati, in conseguenza della revoca di una qualunque delle misure alternative previste, contrasta con il criterio costituzionalmente vincolante che esclude siffatti rigidi automatismi: il dettato costituzionale richiede che sia sempre resa possibile una valutazione individualizzata, caso per caso, della idoneità del beneficio penitenziario a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione sottese all’esecuzione penale minorile. Infatti può ben accadere che, nonostante la revoca di una certa misura alternativa, la situazione concreta del minorenne faccia ritenere « utile » e « adatta » l’applicazione di una od altra delle misure previste dall’ordinamento per il suo reinserimento sociale; applicazione che, invece, sarebbe preclusa, per un lungo periodo (3 anni dalla revoca), proprio dall’operatività della norma censurata. Ovviamente, specifica la Consulta, sempre che sussistano i presupposti e le condizioni richiesti in via generale per l’applicazione di tale nuova misura, e sempre che la magistratura competente pervenga ad un apprezzamento positivo nell’ambito della valutazioni discrezionali ad essa rimesse. La Corte costituzionale — dichiarata l’illegittimità dell’art. 58-quater, co. 2, o.p. nella parte in cui si riferisce ai minorenni — specifica come il successivo comma 3, che si limita a fissare la durata della preclusione prevista dai commi 1 e 2, sopravviva ancora ma con un contenuto minore in quanto non più riferibile alla preclusione di cui al comma 2 nei confronti di condannati minorenni (per un commento della decisione cfr. P. PITTARO, Ordinamento penitenziario e condannati minorenni: inerzie legislative ed interventi della Consulta, in Giur. cost., 2000, fasc. 1, 1069 ss.). ART. 58-ter o.p. e ART. 2, commi 2 e 3, d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203) Persone che collaborano con la giustizia — liberazione condizionale — regime restrittivo. (Sent. 23 marzo 1999 n. 89, in G.U., I serie speciale, 31 marzo 1999, n. 13 — non fondatezza). Un Tribunale di sorveglianza — chiamato a decidere l’istanza di concessione della « libertà condizionale » (art. 176 c.p.) presentata da due detenuti, condannati per reati appartenenti alla c.d. seconda « fascia » dell’art. 4-bis o.p. — solleva, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, commi 2 e 3, d.l. 13 maggio 1991 n. 152 (conv., con mod., nella legge n. 203/91) e 58-ter o.p., « nella parte in cui non prevedono che ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. la liberazione condizionale possa essere concessa dopo l’espiazione di almeno metà (anziché di almeno due terzi) della pena, fermi restando gli ulteriori requisiti e gli altri limiti di pena previsti dell’art. 176 c.p., nel caso in cui l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un’utile collaborazione ». I due detenuti — le cui sentenze definitive di condanna hanno integralmente accertato i fatti, rendendo così impossibile, perché superflua, un’utile collaborazione con la giustizia — hanno maturato le condizioni di cui all’art. 176 c.p. per accedere alla « liberazione condizionale »; tuttavia l’istanza è inammissibile in quanto nei loro confronti, trattandosi di condannati per delitti appartenenti alla c.d. « seconda fascia » dell’art. 4-bis o.p., trova applicazione l’inasprimento contenuto nell’art. 2, co. 2, legge n. 203/91 che innalza ai 2/3 della pena detentiva il limite temporale minimo per accedere al beneficio in questione. Il Tribunale — una volta ricordato come la Corte costituzionale abbia in passato equiparato la condotta prestata alla collaborazione impossibile, rendendo possibile l’accesso ai benefici penitenziari a soggetti, di fatto, mai stati collaboratori — sottolinea come tale equiparazione abbia esplicato i suoi effetti unicamente nei confronti della « collaborazione » di quanti siano stati condannati per delitti appartenenti alla c.d. « prima fascia », ove lo status di cui all’art. 58-ter o.p è pre-
— 1540 — supposto di ammissione ai benefici stessi: infatti per i delitti appartenenti della c.d. seconda « fascia » — per i quali l’essere collaboratore è, più semplicemente, condizione per accedere ai benefici nei termini ordinari, cioè senza inasprimento dei limiti edittali di accesso — tale equiparazione non ha mai operato, costringendo anche chi era impossibilitato a collaborare ad attendere l’espiazione di almeno 2/3 della pena. La Corte rigetta la questione di legittimità costituzionale ritenendo che proprio il diverso ruolo che la « collaborazione » riveste per i delitti di c.d. « prima fascia » e per i delitti di c.d. « seconda fascia » legittimi la non estensione a questi ultimi dell’equiparazione tra collaborazione prestata e collaborazione impossibile. È evidente — afferma la Consulta — che « ancorare alla collaborazione la stessa astratta possibilità di fruire di fondamentali strumenti rieducativi, ha un senso solo ove (...) si versi in ipotesi di « collaborazione oggettivamente esigibile », frutto di una libera scelta dell’interessato ». Diversa si presenta la situazione in ordine ai limiti di pena dove la collaborazione serve unicamente per non far operare un inasprimento di pena, frutto di una non arbitraria scelta discrezionale del legislatore: qui — aggiunge la Corte — la collaborazione assume importanza « solo ed in quanto sia stata effettivamente prestata, giacché, ove così non fosse, si determinerebbe un trattamento sanzionatorio più blando non in funzione di un comportamento positivo, ma in ragione della semplice impossibilità di prestare un simile comportamento, con evidente compromissione di quello stesso parametro di ragionevolezza che il remittente deduce a conforto della opposta soluzione ». ART. 13-ter, comma 3, legge 15 marzo 1991, n. 82 (mod. da l. 7 agosto 1992, n. 356) Revoca dei benefici penitenziari in favore dei « collaboratori di giustizia » in caso di revoca incolpevole dello speciale programma di protezione. Competenza esclusiva della Magistratura di sorveglianza di Roma in ordine all’ammissione dei « collaboratori di giustizia » ai benefici penitenziari. (Sent. 11 giugno 1999 n. 227, in G.U., I serie speciale, 16 giugno 1999, n. 24 — non fondatezza). Nei confronti di una medesima disposizione — l’art. 13-ter del d.l. n.8/91 convertito, con modificazioni, nella legge n. 82/91 e succ. modd. — vengono sollevate due distinte questioni di legittimità costituzionale. La prima è sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Torino, chiamato a decidere in ordine alla revoca del beneficio dell’affidamento in prova (art. 47 o.p) disposto, a suo tempo, in favore di un collaboratore di giustizia che, da poco, si era visto revocare lo speciale programma di protezione per causa indipendente dalla sua condotta: nel caso di specie, era venuta meno l’attualità e la gravità del pericolo che legittimava la predisposizione di un programma protettivo. Il Collegio dubita così, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27 Cost., della costituzionalità dell’art. 13-ter d.l. 15 gennaio 1991 n. 8 (conv., con mod., nella legge n. 82/91, aggiunto dal d.l. n. 30/92, conv., con mod., nella legge n. 356/92), « nella parte in cui prevede che il condannato cui sia stato revocato lo speciale programma di protezione, anche nel caso di incolpevole comportamento, si vede privato della misura alternativa alla detenzione ». Per il remittente siffatta ipotesi di revoca « incolpevole » del programma di protezione risulterebbe in contrasto sia con l’art. 27 Cost., in quanto se la pena deve tendere alla rieducazione allora si deve escludere che la stessa possa tramutarsi in senso peggiorativo o restrittivo per il condannato senza che ciò sia dipeso dalla sua personale e colpevole condotta, sia con l’art. 13 Cost. che impone la limitazione della libertà personale soltanto nei modi e nei casi previsti dalla legge mentre l’articolo censurato « introdurrebbe una forma di limitazione della libertà personale del tutto immotivata che lede il principio di inviolabilità della stessa ». La seconda quaestio legitimitatis viene sollevata, in relazione agli artt. 3, 25, 27 e 102 Cost., dal Tribunale di sorveglianza di Roma nei confronti dell’art. 13-ter , comma 3, del ci-
— 1541 — tato decreto. Quest’ultimo, specificando come l’ammissione dei « collaboratori di giustizia » ai diversi benefici penitenziari (assegnazione al lavoro esterno, concessione dei permessi premio, accesso alle misure alternative alla detenzione) sia disposta dal Tribunale o dal Magistrato di sorveglianza « del luogo in cui la persona ammessa allo speciale programma di protezione ha domicilio », indicherebbe, quale unico soggetto competente a conoscere tali affari, proprio il Tribunale di sorveglianza di Roma in quanto il successivo art. 12, comma 3, stabilisce che « all’atto della sottoscrizione del programma l’interessato (il collaboratore, n.d.r.) elegge il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede la commissione di cui all’art. 10 », cioè (attualmente) Roma. Le perplessità sorgerebbero con riferimento a molteplici parametri costituzionali: con l’art. 102 Cost. in quanto verrebbe a configurarsi un « giudice straordinario » o, essendo molto spesso tenue la distinzione tra le due figure, un « giudice speciale »; con l’art. 3 Cost. in quanto mancherebbe una particolare specificità dei giudici di sorveglianza di Roma perché sia giustificata la scelta di attribuire soltanto a loro il giudizio sulle misure da irrogare ai collaboratori; pertanto tale opzione legislativa, irragionevole, non solo limiterebbe l’evolversi della giurisprudenza, eliminando i « pur produttivi » contrasti giurisprudenziali ma non realizzerebbe neppure — come spesso si sostiene — alcuna maggiore protezione del collaboratore attraverso la non conoscibilità dell’ubicazione del collaboratore in quanto « molti collaboratori protetti conducono una vita regolare e aperta, in regime di misura alternativa e non, nella località di origine o dove sono stati trasferiti », così come molti altri sono ristretti in istituti carcerari quand’anche titolari di programma di protezione »; circostanze queste che aumenterebbero, nonostante le precauzioni di regola adottate (es. segretezza domicilio), la loro vulnerabilità. Dubbi di costituzionalità, infine, non mancherebbero in ordine al rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.): l’art. 13-ter sarebbe inidoneo ad assicurare tale valore in quanto non indicherebbe il luogo nel quale ha sede la commissione e, pertanto, nulla escluderebbe che, di fatto o per atto amministrativo, essa possa essere trasferita altrove. La Corte costituzionale rigetta entrambe le questioni in quanto infondate. Quanto alla prima, la Consulta specifica come la norma censurata non leda « il principio della inviolabilità personale, che è palesemente estraneo al caso esaminato, trattandosi di esecuzione di pena conseguente a sentenza di condanna », né tanto meno quello di cui all’art. 27 « in quanto l’eventuale revoca del provvedimento troverebbe la sua ragion d’essere nel venir meno dell’atto presupposto, a cui non risulta più agganciato ». Quanto alla seconda questione, la Consulta specifica come « la previsione della competenza esclusiva attribuita al tribunale di sorveglianza di Roma risponde alla necessità di garantire la maggiore protezione possibile ai collaboratori di giustizia, impedendo che si possa risalire al luogo ove costoro sono ristretti e comunque sottoposti a regime protettivo ». Inoltre la previsione di una speciale competenza territoriale non è sinonimo di automatica violazione del principio del divieto d’istituzione di giudici straordinari o speciali, mentre, in ordine al fatto che la Commissione centrale abbia sede nella capitale solo per una scelta dell’amministrazione, significa che « la precostituzione viene in tal modo riferita non al giudice, bensì alla Commissione che non è organo giurisdizionale, per la quale non vige, quindi, il principio del giudice naturale ». ANDREA GIANNOTTI Dottorando di ricerca in Storia e dottrina delle istituzioni nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
BELLAGAMBA G. - CARITI G:, I nuovi reati tributari. Commento per articolo al decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, Milano, Giuffrè, 2000, pp. XI-286. Il volume nasce dall’esigenza di fornire uno strumento di analisi e commento del nuovo sistema penale tributario introdotto, in esecuzione alla legge delega 25 giugno 1999 n. 205, con il d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, contenente la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Si tratta di un nuovo e compiuto sistema penale tributario che, partendo dall’abrogazione del titolo I della l. 516/82, e quindi di tutti i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, configura nuove fattispecie criminose in materia di dichiarazione e in materia di documenti e pagamento di imposte. Il manuale, di taglio pratico, segue la struttura del decreto: gli autori hanno analizzato, commentato e interpretato le nuove norme articolo per articolo, richiamando i principi generali del diritto penale allo scopo di offrire una lettura sistematica, caratterizzata da brevi parallelismi con il sistema penale tributario previgente, recuperando, laddove aspetti di analogia tra una nuova norma e una precedente lo consentivano, le elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali ancora utili. In appendice sono riportati la legge delega, il decreto legislativo e la relazione governativa (Sara Turchetti).
BREDA R. - COPPOLA C. - SABATTINI A., Il servizio sociale nel sistema penitenziario, G. Giappichelli Editore, Torino, 1999, pp. 339. Una lucida prefazione di Giuseppe Di Gennaro introduce ad un’opera a più mani, composita nell’assetto strutturale, ma omogenea e lineare sotto il profilo contenutistico e sistematico. Fungono da indubbio collante la comune passione manifestata dai tre Autori nei confronti del ruolo svolto dal Servizio Sociale « penitenziario » e l’intento — ampiamente riuscito — di operarne, nell’occasione, una ricostruzione storico-giuridica inedita e stimolante. Il volume è suddiviso in tre parti. La prima offre una panoramica dettagliata dei mutamenti, prima ideologici e poi normativi, che hanno puntellato il lento processo di affermazione dei Centri di Servizio Sociale per Adulti nell’ambito del sistema dell’esecuzione penale. In questa prospettiva, s’inserisce la serrata disamina — operata da Renato Breda — delle vicende evolutive che hanno condotto, negli anni ’50, alla creazione dei primi istituti di assistenza sociale per i minorenni, allorchè iniziava a diffondersi la consapevolezza che il ragazzo condannato non andava « corretto », bensì « aiutato » a ricostituire un sano apparato relazionale con l’esterno e la propria famiglia (p. 9). Si ribadisce più volte, del resto, come l’esperienza maturata dai « pionieri » del Servizio sociale nel settore minorile abbia rappresentato la stella polare cui ha rivolto costantemente lo sguardo il legislatore degli anni ’70 per disciplinare il funzionamento dei primi C.S.S.A. Muovendo dalla « drammatica situazione carceraria del dopo-guerra », Anna Sabattini ripercorre con incisività e dovizia di particolari le tappe lungo le quali si è snodata la fase di preparazione alla riforma penitenziaria del 1975. Dall’avvento dell’art. 27 Cost. all’istitu-
— 1543 — zione della Commissione d’inchiesta Persico sulla condizione dei detenuti, cambia l’approccio all’universo dell’esecuzione penale: l’interesse si sposta dal reato al suo autore (p. 25). In questo nuovo clima ideologico, presero avvio nel 1958 le prime esperienze di assistenza sociale ai detenuti alle dipendenze dei Consigli di Patronato istituiti presso il carcere di Rebibbia; proprio per la genesi « inframuraria » dell’attività di assistenza sociale per adulti tale forma di servizio avrebbe conosciuto « un percorso inverso rispetto a quello minorile. Il primo ha iniziato, infatti con l’inserimento degli assistenti sociali nelle carceri, il secondo è nato principalmente come attività ausiliaria degli organi giudiziari » (p. 42). Negli ultimi due capitoli della prima parte, Renato Breda, dato conto delle « peripezie » parlamentari che condussero alla definitiva approvazione della legge 26 luglio 1975 n. 354, evidenzia, da un lato, il mutamento di prospettiva culturale e metodologica indotto dalla riforma e, dall’altro, i fattori che ancora oggi si oppongono ad una piena attuazione dei principi innovatori in essa contenuti. Viene posto in risalto il progressivo declino delle tradizionali impostazioni volte a ravvisare nel carcere uno strumento insopprimibile, cui faceva da pendant la convinzione crescente secondo cui il soggetto che delinque non può essere considerato un corpo avulso dalla società, né prima di commettere il delitto, né dopo averlo commesso. Assolutamente indispensabile, in questa ottica, l’apporto degli assistenti sociali in funzione di sostegno costante al processo di rieducazione del reo e di ausilio alla magistratura di sorveglianza. È necessario, tuttavia, che il Servizio sociale si diffonda capillarmente sul territorio, acquisisca una crescente professionalità, affini le sue metodologie di approccio con il condannato e goda di reale autonomia operativa. Diversi ancora gli ostacoli: da un lato, la cronica carenza di personale e di strutture assistenziali, non disgiunta da un troppo flebile collegamento del settore penitenziario con le istituzioni extra giudiziare (in primis, le università e gli enti locali), dall’altro, la persistente tendenza a dequalificare il ruolo dell’operatore sociale, a torto ritenuto eccessivamente « confidenziale » nei confronti del condannato ed incline a sostenerne in modo acritico le ragioni. Nella seconda parte dell’Opera vengono compiutamente tratteggiati i profili organizzativi del Servizio Sociale per adulti, ponendosi l’accento sulla collocazione autonoma di tale organo, in posizione di sostanziale equidistanza tanto dall’Amministrazione penitenziaria, quanto dall’autorità giudiziaria. Si lamenta, tuttavia, la mancanza di una più razionale e ramificata distribuzione sul territorio dei C.S.S.A. ed in tal senso si esprime l’auspicio che trovino finalmente idoneo sviluppo le cd. « Aree operative ». Ampio spazio viene riservato all’analisi delle competenze specifiche assegnate dal legislatore ai C.S.S.A. Da segnalare le pagine dedicate all’esame dell’inchiesta sociale, dalle quali traspare una critica non troppo velata a quelle concezioni tendenti ad attribuire al ruolo dell’operatore sociale una connotazione « neutra » (« nè con la giustizia, nè con il condannato »). Analoghe considerazioni scaturiscono dall’esame dell’attività svolta dagli Assistenti sociali in sede di esecuzione dell’affidamento in prova. Il « controllo » e l’« aiuto » del condannato — si precisa — vanno intesi come fattori complementari e non certo antitetici, giacchè, a tacer d’altro, è proprio colui il quale necessita di una vigilanza costante ad aver bisogno di maggior sostegno morale e materiale. A chiusura della seconda parte del volume, Celso Coppola indica l’esigenza di pervenire, nell’ambito penitenziario, ad una convergenza strategica ed operativa fra Ministero di Giustizia, Enti locali e volontariato (cd. terzo settore), in nome di una « gestione tripolare » dell’esecuzione penale. L’ultima parte dell’opera investe i profili tecnici e scientifici caratterizzanti l’attività dei C.S.S.A. Uno spazio di rilievo viene dedicato all’esame della vexata quaestio dei rapporti fra segreto professionale ed obbligo di denuncia, come specchio di una dicotomia più ampia — ma, a ben guardare, solo apparente — tra la funzione terapeutica dell’Assistente sociale e quella pubblico-giudiziaria.
— 1544 — Degno risalto viene concesso, inoltre, alle problematiche scaturenti dalle forme di « invadenza » dei controlli polizieschi nella gestione dei soggetti affidati in prova al Servizio sociale, sostenendosi come, il più delle volte, tali controlli si risolvano in vere e proprie operazioni extra legem (p. 288). Nella parte finale dell’Opera, Anna Sabattini sintetizza tecniche metodologiche ed obiettivi strategici cui deve ispirarsi l’osservazione ed il trattamento dei cd. soggetti « difficili » (tossicodipendenti, extracomunitari e white collars), formulando interessanti notazioni critiche a margine dello studio relativo al trattamento dei « collaboratori di giustizia ». Da sottoscrivere quella volta ad evidenziare come l’apporto del Servizio sociale rischi di venire frustrato dalla genesi « atipica » delle misure alternative concesse a tali soggetti. Il timore che la perdurante mancanza di personale, a fronte del crescente numero di « casi » affidati a ciascun operatore, possa indurre gli Assistenti sociali a « burocratizzare » eccessivamente il loro rapporto con i condannati segna l’epilogo di un volume nel quale convivono l’analisi tecnico giuridica dei C.S.S.A. ed una visione d’assieme dell’esecuzione penale incentrata, fra l’altro, sul netto rifiuto di due radicati stereotipi: la presunta intangibilità del cd. modello « a clessidra » e l’iconografia corrente del probation quale « alternativa alla pena ». Siamo di fronte, in ultima analisi, ad un contributo imprenscindibile per gli operatori del settore ed affascinante anche per chi intenda accostarsi ai problemi dell’universo penitenziario con la mente sgombra da preconcetti di sapore « retrò » (Luca Tirabassi).
CAVALIERE A., L’errore sulle scriminanti nella teoria dell’illecito penale. Contributo ad una sistematica teleologica, Napoli, Jovene, 2000, pp. XV-627. L’obiettivo di questo lavoro è una complessiva rimeditazione del tema dell’errore sulle scriminanti attraverso gli strumenti di un metodo teleologico mirante all’elaborazione di una sistematica conforme a finalità politico-criminali di derivazione costituzionale. La monografia si articola in due parti. La prima è occupata da un ampio affresco di storia dogmatica, nel quale l’Autore illumina i molteplici nessi del tema dell’errore sulle scriminanti con alcuni tra i nodi più significativi della teoria del reato, così come enucleati dalla dottrina tedesca e italiana tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri, e così come ancor oggi rispecchiantisi nel dibattito contemporaneo sul tema oggetto del lavoro. L’Autore getta luce, in particolare, sulle origini della controversia intorno all’errore sulle scriminanti, soffermandosi sulle prime formulazioni della teoria degli elementi negativi, sulla Normentheorie bindinghiana e sui suoi riflessi in tema di errore, nonché sulla dogmatica dell’errore sull’antigiuridicità nella teoria del positivimo sociologico e criminologico del primo Novecento. Un’analisi puntuale è poi dedicata alla tematica dell’errore nell’ambito delle teorie « formalistiche » del reato dei primi decenni del Novecento, tutte caratterizzate da una nozione di antigiuridicità intesa quale mera contrarietà all’imperativo e — specularmente — da un concetto di dolo inteso come consapevole disobbedienza all’imperativo medesimo (e pertanto come condizionato dalla coscienza dell’illiceità). Dopo aver mostrato come la formulazione dell’art. 59 u.c. del codice penale vigente costituisca il portato di un approccio formalistico — o « tecnicistico » — al problema dell’errore, del tutto incapace di dar conto delle ragioni sostanziali per le quali venga esclusa una responsabilità a titolo di dolo nel caso di erronea supposizione di una situazione scriminante, l’Autore illumina i passaggi fondamentali attraverso i quali la dottrina penalistica tedesca di ispirazione neokantiana fece emergere, nei primi decenni del Novecento, la necessità di un approccio teleologico nell’interpretazione del diritto positivo e nella costruzione del sistema, con conseguente rilettura delle categorie sistematiche della tripartizione alla luce del loro rispettivo significato di scopo. Ampio spazio è dedicato, infine, alla teoria finalistica del reato, alla quale si deve l’elaborazione del con-
— 1545 — cetto « personale » di illecito oggi incontrastato presso la dottrina tedesca contemporanea e largamente seguito anche nel nostro Paese. Nell’ambito di tale teoria dell’illecito, caratterizzata da una chiara distinzione valorativa (affatto sconosciuta alla teoria degli elementi negativi) tra il piano della tipicità e quello dell’antigiuridicità, si incardina la proposta ricostruttiva dell’Autore, sviluppata distesamente nella seconda parte del lavoro. La tesi centrale è che l’errore sulla fattispecie scriminante — distinto, come tale, dall’errore sulla norma scriminante — escluda il c.d. « dolo d’illecito », lasciando residuare una eventuale responsabilità a titolo di colpa. La collocazione del dolo e della colpa all’interno del fatto tipico, secondo lo schema caratteristico della teoria « personale » dell’illecito, non comporta infatti necessariamente la conseguenza, trattane a suo tempo dallo stesso fondatore della teoria finalistica, che l’errore sulla fattispecie scriminante incida, al più presto, sulla colpevolezza: se è vero infatti che un tale errore lascia impregiudicata la coscienza e la volontà di commettere un fatto offensivo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, è anche vero che l’errore in parola esclude la coscienza e la volontà di commettere un fatto considerato dall’ordinamento come illecito, in quanto socialmente dannoso. L’erroneo convincimento della sussistenza di una situazione scriminante fa emergere dunque un « valore d’azione » in grado di controbilanciare ed annullare il « disvalore d’azione » scaturente dalla commissione volontaria di un fatto « tipico »; ciò che determina il venir meno della stessa illiceità complessiva del fatto, la quale presuppone, oltre al « disvalore d’evento » legato all’offesa del bene protetto dalla norma incriminatrice e all’assenza di situazioni scriminanti, un complessivo « disvalore d’azione » costituito — per l’appunto — dalla volontà di commettere un fatto socialmente dannoso. Nell’ambito di un’accurata analisi di alcuni profili di fondo della dommatica dell’errore, l’Autore esprime quindi con forza la necessità — imposta a suo avviso da precisi vincoli di carattere costituzionale — di ricostruire in maniera « pregnante » le coordinate di un disvalore « doloso » dell’azione, che dovrebbe fondarsi sulla coscienza e volontà non della mera violazione della norma (secondo i canoni della c.d. Vorsatztheorie, ancora di recente riproposta da autorevole dottrina italiana), bensì della dannosità sociale del fatto: con una perfetta specularità, sul versante soggettivo, rispetto ad una concezione materiale dell’antigiuridicità, intesa non quale mera contrarietà formale della condotta rispetto all’imperativo, ma come concreta dannosità sociale del fatto, valutata alla stregua dei criteri schiettamente « intrapenalistici » di « meritevolezza » e di « necessità » della sanzione penale. Il lavoro si chiude con un ampio esame — sul quale non è possibile, purtroppo, soffermarsi neppure fugacemente in questa sede — di tutta una serie di problematiche « vecchie » e « nuove » afferenti al capitolo « errore sulle scriminanti »: dalla pretesa struttura ex ante delle cause di giustificazione, all’errore colposo e all’errore sugli elementi normativi delle cause medesime, all’impedibilità del fatto compiuto in presenza di erronea supposizione di una situazione scriminante, all’errore sulle scusanti (Francesco Viganò).
CORSO P. (a cura di), Manuale della esecuzione penitenziaria, Bologna, Monduzzi, 2000, pp. XII-415. L’opera esamina compiutamente l’insieme del diritto penitenziario ripercorrendone l’evoluzione ad opera dei numerosi interventi legislativi che nel corso degli anni hanno modificato e integrato la riforma penitenziaria attuata con la legge n. 354/1975 e che, al fine di salvaguardare le esigenze di ordine e sicurezza collettive inizialmente trascurate dal legislatore del 1975, hanno introdotto un regime differenziato di esecuzione della pena in relazione alla tipologia e gravità dei reati commessi. Viene, quindi, descritto il complesso sistema penitenziario italiano in cui alla scelta politica, sempre più confermata nel corso degli ultimi anni, di una « fuga dalla pena » per i reati meno gravi sul presupposto della valenza desocializzante del carcere si è affiancata una sorta di rinuncia legislativa alla rieducazione per gli autori dei
— 1546 — reati che maggiormente pongono in pericolo la collettività, che vengono sottoposti a un trattamento differenziato e più severo e ammessi ai benefici penitenziari solo quando abbiano dato prova di una effettiva e utile collaborazione. L’opera, pur di agevole e semplificata lettura, esamina con completezza e attenzione i problemi sorti dal succedersi degli interventi legislativi che hanno posto in primo piano le esigenze di sicurezza e difesa sociale ed analizza con particolare attenzione le pronunce della Corte Costituzionale che hanno adeguato l’interpretazione delle nuove norme ai principi costituzionali. Nella parte introduttiva del manuale (P. Corso), si delinea la cornice costituzionale in cui viene ad inserirsi il diritto penitenziario e si tratteggiano i riflessi che il fine della rieducazione — definito quale punto di non ritorno e di garanzia contro le spinte regressive che ciclicamente e spesso in modo emotivo ripropongono l’idea di un carcere socialmente protettivo, rigido e sottratto alla giurisdizione — ha avuto sul sistema. Il secondo e il terzo capitolo (P. Corso, A. S. Giambruno, G. Bellantoni) prendono in esame i soggetti dell’amministrazione penitenziaria e il trattamento dei detenuti, con un’ampia descrizione delle singole figure, dei rispettivi ruoli e funzioni, delle finalità e degli strumenti del trattamento, dal momento dell’ingresso in carcere e dalla scelta dell’istituto alle modalità dell’esecuzione, con puntuale ricostruzione anche delle circolari ministeriali più rilevanti e degli interventi della Corte Costituzionale sulla compatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute. Nel quarto capitolo (A. S. Giambruno) si ripercorrono le vicende legislative in materia di sicurezza penitenziaria, dall’istituzione delle carceri di massima sicurezza e dall’originario art. 90 dell’ordinamento penitenziario, all’introduzione del regime di sorveglianza particolare (artt. 14 bis, 14 ter, 14 quater ord. pen.) ad opera della legge n. 663/1986 e alla successiva istituzionalizzazione del c.d. « doppio binario », con l’emanazione degli artt. 4 bis e 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Si passano poi in rassegna le misure alternative alla detenzione e il relativo procedimento di applicazione come delineato dagli ultimi interventi legislativi che accentuano il solco tra i regimi penitenziari modellati sulla gravità dei reati commessi e riconfermano la tendenza ad evitare il carcere per i soggetti autori dei reati meno gravi e concretamente non pericolosi per la collettività (A. Pennisi). Successivamente (G. Di Chaira, L. Marafioti) si esaminano il procedimento di sorveglianza e i procedimenti atipici (procedimento per reclamo e di sicurezza) di cui si evidenziano le peculiari caratteristiche, tipiche del c.d. « giudizio sull’uomo » come contrapposto al « giudizio sul fatto », e si pongono in rilievo i problemi di compatibilità costituzionale del rito di sorveglianza per quanto attiene al rispetto della garanzia del contraddittorio e dell’autodifesa e più in generale l’efficacia di un procedimento plasmato sul modello inquisitorio a fronte dell’estensione dell’ambito di applicazione del giudizio di sorveglianza. Vengono, infine, esaminati in capitoli separati il trattamento penitenziario degli imputati detenuti (P. Corso), dei collaboratori di giustizia, dei tossicodipendenti, dei militari (A. S. Giambruno) e dei minori (L. Kalb) (Luisa Bontempi).
DONINI M. (a cura di), La riforma della legislazione penale complementare, Padova, Cedam, 2000, pp. XVIII-246. Il volume raccoglie diversi saggi sul tema della riforma della legislazione penale speciale. L’indagine comparata, realizzata con il finanziamento del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, è stata condotta con un lavoro di équipe che, coordinato da un nucleo centrale di penalisti delle Università di Bologna, Macerata e Teramo, ha coinvolto anche studiosi di altre sedi, italiane ed estere. L’inziativa di svolgere una ricerca sulla riforma della legislazione penale complementare
— 1547 — in Europa è ricollegata all’esigenza di conoscere approfonditamente la « mappa » delle leggi speciali, di sapere se si tratti di « un territorio dominabile e quindi riorganizzabile in un disegno complessivo ». Ciò al fine di indagare quali siano i rapporti tra codice penale e leggi speciali, nell’ottica di restituire al codice la « centralità » che gli spetta all’interno dell’ordinamento penale. I paesi coinvolti dalla ricerca sono la Germania, la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Croazia e gli ordinamenti ex socialisti oggi « in transizione »: una selezione che risponde all’interesse di approfondire l’esperienza di paesi geograficamente vicini ma spesso molto differenziati per quanto riguarda il rapporto tra codice penale e leggi speciali. I diversi contributi alla ricerca evidenziano, infatti, come i sistemi punitivi dei suddetti paesi presentino tratti di notevole diversità, a prescindere dalle affinità che talora sono riscontrabili nel campo o nelle dimensioni della legislazione penale complementare. Il testo si compone di due parti: la prima, costituita dal saggio firmato da Donini, tratta di scienza della legislazione e di politica criminale con una successiva « riflessione » di Insolera e Pavarini; la seconda, costituita da cinque contributi di diversi studiosi, è invece di comparazione vera e propria della legislazione penale complementare dei paesi interessati dalla ricerca: De Simone per la Germania, Fronza per la Francia; Torre per il Portogallo; Foffani e Pifarré de Moner per la Spagna; Pavisic e Bertaccini per i c.d. stati in transizione. Ne scaturiscono anche taluni suggerimenti circa modelli adottabili anche in Italia, che si inseriscono fra le altre proposte già emerse nell’ambito dei progetti di riforma più recenti (Commissione Grosso), con l’intento di fornire un contributo costruttivo al dibattito sulla riforma del diritto penale sostanziale. La ricerca, di cui il testo in questione rappresenta solo un primo risultato, si articolerà in una prossima, seconda fase, che dovrebbe approdare all’elaborazione di un documento di indirizzo delle possibili linee di riforma delle leggi penali speciali in raccordo con quelle del codice (Chantal Meloni).
FIORE S., Ratio della tutela e oggetto dell’aggressione nella sistematica dei reati di falso, Napoli, Jovene, 2000, pp. 162. L’A. affronta la tematica dei reati di falso con una monografia articolata in quattro capitoli. Nel primo capitolo l’autore muove alcuni rilievi critici alla categoria dei reati contro la fede pubblica, dubitando che sia effettivamente possibile costruire il sottosistema delle incriminazioni riconducibili ad una condotta falsificatoria attorno ad un bene giuridico comune: il prezzo da pagare sarebbe costituito da una rarefazione del bene medesimo. Nel secondo capitolo, l’A. ripercorre, in un breve excursus storico, le tappe principali dell’evoluzione del concetto di fede pubblica a partire dalla sua origine, che risulta spiccatamente pubblicistica. L’A. registra l’alternarsi di una impostazione obiettivo-normativa e di una naturalistico-soggettiva, che non sarebbero in grado di fornire alcun contributo alla determinazione dell’assai « vago » oggetto della tutela. L’originaria connotazione pubblicistica del bene giuridico si ritrova particolarmente esaltata nel codice Rocco, mentre successivamente si è assistito ad un inevitabile processo di « depurazione/de-pubblicizzazione », nel tentativo di ricercare un nuovo fondamento alla punibilità del falso. A tal proposito, l’A ripercorre le tesi processualistiche che identificano l’oggetto della tutela nella « prova », le quali però non si sottraggono alla contestazione di genericità. Tale difetto si rifletterebbe direttamente nell’incapacità del bene di svolgere una qualsiasi funzione delimitativa e interpretativa. Più frequentemente, la fede pubblica è stata assunta a sinonimo di certezza e sicurezza del traffico economico e giuridico. Per l’ A., questa tesi consente di esprimere, nel modo più corretto e preciso, non già il bene, bensì la ratio complessiva di tutela apprestata mediante i
— 1548 — reati di falso: difficilmente infatti una finalità, così ampia e articolata, può concretizzarsi nell’oggetto della tutela. Nemmeno la ricostruzione dei reati di falso in termini plurioffensivi (Antolisei) convince l’A., che ritiene di non poter accogliere l’idea di una lesione anche ad un interesse di tipo superindividuale e di natura ideale (una sorta di correttezza nelle relazioni giuridiche), oltre a quello sottostante che di volta in volta subisce l’aggressione mediante l’attività di falsificazione (ad esempio, in alcuni casi, quello patrimoniale). Nel terzo capitolo, l’A. si pone l’obiettivo di verificare il grado di compatibilità di una lettura sistematica dei reati di falso alternativa a quella tradizionale, aderendo ad una tesi non nuova, ma da tempo assente nel panorama delle opinioni, la quale nega la possibilità che i reati di falso fondino la loro unità sull’esistenza di un comune bene giuridico e afferma, invece, che si tratti di una categoria fondata sulle comuni caratteristiche delle modalità aggressive. Lo studio si concentra, a questo punto, sulla soluzione di un problema di tecnica legislativa: se sia preferibile disseminare fattispecie casistiche di falso all’interno delle singole aree di tutela (Patrimonio, Pubblica Amministrazione, ecc.), ovvero concentrare la descrizione di modalità aggressive comuni in un titolo unitario. Su questa base, l’A. traccia le linee di una possibile riforma, non trascurando di considerare la rilevanza pratica di alcune acquisizioni frutto di esperienze applicative concrete, quali sono il falso cd. grossolano, innocuo, inutile e consentito. Il quarto e ultimo capitolo, infine, raccoglie le osservazioni dell’autore sulle prospettive dei reati contenuti nel titolo VII del libro secondo del codice penale (Luigi Scudieri).
FONDAROLI D., Illecito penale e riparazione del danno, Milano, Giuffrè, 1999, pp. XIX-605. L’ampio e stimolante lavoro di Dèsirèè Fondaroli affronta un tema che dai tempi del dibattito sulle proposte della scuola positiva non era stato più affrontato dalla dottrina italiana in forma sistematica. Il risarcimento del danno torna ad interessare la dottrina del nostro paese solo a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, allorchè le proposte di riforma contenute nel Progetto alternativo sulla riparazione e risarcimento del danno (AE-WGM) vengono pubblicate in Germania stimolando la successiva introduzione del § 46a StGB. L’orientamento prevalente nella letteratura italiana è fortemente critico sulla possibile introduzione del risarcimento quale terza tipologia di sanzione (dritte Spur). Anche l’Autrice non nasconde — e la citazione kantiana che compare sul frontespizio ne è un significativo anticipo — la sua avversione verso una eventuale contaminazione tra risarcimento e pena e sceglie un particolare registro per l’analisi critica di tutti gli istituti, vecchi e nuovi, che nel sistema penale hanno dato rilevanza al risarcimento del danno: le complesse interrelazioni tra danno e offesa, tra sanzione penale e riparazione, tra riparazione del fatto e risarcimento del danno. Le delimitazioni della pur ricca trattazione sono un’ulteriore conferma della scelta di campo dell’Autrice: nell’indagare i « classici » del novecento vengono esaminate le opere dei maestri (Carnelutti, Antolisei e Frosali) che, nell’affrontare la tematica del danno e dell’offesa, si sono mantenuti in stretta aderenza al diritto positivo, mentre vengono tralasciati quegli autori che già all’inizio del secolo avevano affrontato lo studio del risarcimento del danno da reato valorizzandone gli aspetti di prevenzione. In secondo luogo, l’indagine comparatistica si concentra sull’ordinamento tedesco, mentre si lasciano sullo sfondo le esperienze dei paesi di Common Law dove il risarcimento del danno da reato in alternativa alla pena ha sicuramente un ruolo non marginale. Nella prima parte del volume si pongono le premesse dell’indagine e si precisa il significato da attribuire al termine danno, come offesa al bene giuridico protetto o come pregiudizio risarcibile derivante dal reato o, ancora, come danno sociale. Sia il codice Zanardelli sia il codice di procedura penale del 1913 consideravano i concetti di offesa e danno come so-
— 1549 — vrapponibili, mentre in dottrina affioravano posizioni diverse: ad esempio, Carnelutti identificava offesa e danno; Antolisei, pur distinguendoli, considerava, in linea con il codice di procedura penale, solo il soggetto passivo del reato legittimato a costituirsi parte civile. Nel pensiero di questi due autori e nell’opera di Frosali vengono comunque rinvenuti importanti spunti relativi alla titolarità delle posizioni soggettive tutelabili in sede giudiziale, anticipatori della discussione circa l’estensione del danno risarcibile e della costituzione di parte civile. La trattazione prosegue con l’analisi di due istituti di controverso significato che, pur creati a distanza di tempo e in sistemi giuridici differenti, hanno evidenziato le stesse contraddizioni: la riparazione pecuniaria di cui all’art. 38 del codice Zanardelli e la riparazione pecuniaria contenuta nell’art. 12 della l. n. 47 del 1948 in materia di stampa. Dirette a riparare qualcosa di diverso dal danno, queste forme di riparazione pecuniaria sono da sempre al centro di discussioni circa la funzione — compensatoria, risarcitoria o punitiva — e, di conseguenza, la natura. Per queste ragioni riparazione pecuniaria e punitives damages vengono accomunati. La prima conclusione cui arriva l’Autrice è che la distinzione, fondamentale, tra offesa e danno è una conquista relativamente recente: sotto questo aspetto il disposto dell’art. 74 c.p.p. — dedicato al danneggiato da reato — e il disposto dell’art. 90 dedicato alla persona offesa dal reato costituiscono un punto di arrivo per il diritto positivo. Sotto l’aspetto della difficoltà di far emergere una netta distinzione tra i due concetti vengono accomunati e trattati alcuni istituti: tra gli altri, il reato plurioffensivo, con tutte le implicazioni sulla individuazione dell’offesa principale al fine di individuare la titolarità del diritto di querela; la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. che, pur distinguendo al suo interno tra riparazione del danno ed elisione o attenuazione delle conseguenze dannose del reato, viene spesso considerata operante nei soli casi in cui l’offesa sia interamente riparata e, ad esempio, viene negata in materia di concussione in base al rilievo che il risarcimento del danno e le eventuali restituzioni sono inidonei a riparare un’offesa che è anche della pubblica amministrazione; la sospensione condizionale della pena subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, che ha portato spesso la giurisprudenza di merito a cercare modalità riparatorie liberamente ispirate ad una sorta di contrappasso relazionato all’offesa. Nella seconda parte del lavoro vengono esaminati il contenuto del Progetto alternativo e l’influenza che questo progetto ha esercitato sul diritto positivo, concretizzatasi nella introduzione del § 46a StGB. Le critiche al Progetto sono stringenti. Mossa dalla rivalutazione del concetto di danno sociale, la previsione della Wiedergutmachung lascia all’interprete l’arduo compito di individuare la natura della nuova sanzione: dritte Spur, cioè terza tipologia di sanzione accanto alla pena e alla misura di sicurezza (Massnahme), ma esperibile come soluzione primaria e caratterizzata dalla volontarietà della riparazione (Freiwilligkeit) e da una autonoma assunzione di responsabilità, può essere inquadrata nella figura della pena privata? Oppure assimilata al risarcimento del danno non patrimoniale del nostro ordinamento? La presenza di aspetti tipici dell’una e dell’altra figura nella Wiedergutmachung deve però confrontarsi con la precisa volontà dei compilatori del Progetto di farne una sanzione penale a tutti gli effetti: non convince allora l’Autrice l’individuazione dei presupposti per la rinuncia alla pena tradizionale, soprattutto l’avvenuta riparazione intesa come ripristino della pace sociale violata dalla commissione del reato. Suggestiva nella sua prospettazione, tale condizione si riduce nell’esemplificazione degli autori del Progetto all’esperimento di prestazioni simboliche o dirette a riparare il danno civilisticamente inteso: dunque, secondo l’Autrice una sanzione civile mascherata da sanzione penale. Cosa è stato realmente recepito di questo progetto nel diritto positivo? La legge di riforma del 1994 (Gesetz zur Änderung des Strafgesetzbuches, der Strafprozessordnung und anderer Gesetze) ha introdotto nel codice penale il § 46a intitolato alla mediazione tra autore e vittima (Täter - Opfer - Ausgleich) e al risarcimento del danno (Schadenswiedergutmachung): la norma concede al giudice la possibilità di diminuire la pena o, se ritenga di
— 1550 — contenere la pena entro il limite di un anno, di astenersi dalla sua applicazione qualora l’autore, nello sforzo di raggiungere una mediazione con la persona offesa, ripari o si sforzi seriamente di « riparare » il fatto commesso oppure abbia risarcito la vittima con prestazioni personali o personali rinunce. Secondo l’Autrice, la riforma ha perduto gran parte del carattere innovativo che connotava il Progetto alternativo del 1992, limitandosi a dare una collocazione in una norma specifica a prescrizioni che comunque trovavano posto anche in istituti diversi quali la sospensione condizionale della pena (§ 56 StGB) o la ammonizione con riserva di pena (§ 59a comma secondo StGB). La fondamentale differenza consiste negli effetti di rinuncia alla pena che il nuovo istituto comporta, portando con sè però tutte le difficoltà interpretative legate all’individuazione del concetto di Opfer, cioè di vittima, concetto più criminologico che penalistico, nonchè all’esatta individuazione dell’oggetto della riparazione: il binomio danno/offesa riemerge in tutta la sua problematicità (Maria Cristina Barbieri).
GIACONA I., Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, Giappichelli, 2000, pp. XI-495 L’opera si struttura in tre parti, la prima delle quali è principalmente dedicata alle teorie che hanno impostato la ricostruzione del concetto di idoneità degli atti in termini di possibilità ed a quelle che invece lo hanno delineato in termini di probabilità. L’A., discostandosi dalla prevalente dottrina, pone, quale termine di riferimento del giudizio di idoneità, l’evento inteso in senso naturalistico e la condotta per i reati di pura condotta, al fine di non creare confusioni con il diverso giudizio di offensività proprio del reato consumato. Posta tale premessa, l’A. analizza le diverse concezioni della nozione di « possibilità », manifestando la preferenza per il modello oggettivo in concreto, fondato cioè sullo specifico fatto commesso dall’agente. Di seguito, l’A. analizza la nozione di probabilità, sia nelle sue diverse accezioni filosofiche, sia sotto l’aspetto del ricorso che in altri campi del diritto si è fatto di tale nozione. Così, ad esempio, nella tematica relativa all’accertamento del nesso di causalità tra azione ed evento, ove si ricorda e si sostiene l’ammissibilità del ricorso a leggi scientifiche statistiche e non necessariamente universali. Si manifesta, quindi, la preferenza per la concezione logistica della probabilità; quella che fonda tale nozione sulla coerente considerazione di tutte le circostanze del caso concreto — attinenti sia ai mezzi che alle modalità del loro impiego — e su una loro rigorosa elaborazione razionale, fondata su leggi scientifiche, precedenti giurisprudenziali, tavole statistiche, ecc. In conclusione della prima parte del lavoro, l’A. giunge alla conclusione secondo la quale sarebbe più rispondente alla tutela dei diritti di libertà fondare l’idoneità sul concetto di probabilità, piuttosto che su quello di possibilità. Nella seconda parte dell’opera, l’A. si sofferma, con un excursus storico, sulle diverse metodologie che sono state proposte per condurre il giudizio di idoneità. Il punto nodale in tale campo è quello della scelta delle circostanze da tenere in considerazione al fine di formulare il giudizio di probabilità di verificazione dell’evento. Si dà conto, pertanto, della tradizionale disputa sull’adozione di una « base totale » delle circostanze da considerare nel giudizio prognostico (teoria classica e oggettiva), ovvero di una « base parziale », in modo da garantire la punibilità di quegli atti che, pur essendo oggettivamente inidonei, destano particolare allarme sociale (teoria soggettiva). L’A. individua nell’adozione della base totale il criterio più rispondente al principio di necessaria offensività, più opportuno da seguire per il giudizio prognostico, allo stesso modo in cui questo criterio si impone in materia di reato putativo e di reato impossibile. Quanto
— 1551 — al momento in cui collocare il giudizio di idoneità, l’A. propende per il momento in cui il grado di probabilità è più alto. La terza parte dell’opera è infine dedicata al rapporto tra il requisito dell’idoneità e gli altri criteri di individuazione dell’inizio del tentativo punibile. In merito al principio di esecuzione, di derivazione classico - liberale, l’A. lo ritiene inidoneo ad ancorare la punibilità all’effettiva messa in pericolo del bene giuridico oggetto di tutela. Il concetto di idoneità, infatti, sarebbe stato enucleato proprio al fine di impedire la punibilità del tentativo nei casi di non pericolosità della condotta. Il criterio dell’univocità, sostenuto da Carrara, appare all’A. troppo ancorato ad istanze di prevenzione generale e necessariamente legato ad un giudizio su base parziale, non risolvendo neppure il problema di stabilire quando si possa affermare che gli atti posti in essere sono effettivamente diretti al compimento di un determinato delitto. L’introduzione del criterio di univocità nel codice Rocco viene quindi ricollegata a scelte di politica criminale che un parametro così indeterminato e di facile manipolazione avrebbe consentito ad un regime teso a valorizzare istanze di prevenzione piuttosto che di offensività. L’univocità è dunque un criterio relativo e graduale, fondato su esigenze di prevenzione, che non può che essere valutato ex ante su una base parziale di circostanze, nell’ottica di un individuo normalmente avveduto. L’A. conclude ravvisando il fondamento della punibilità del tentativo nella situazione di pericolo che gli atti compiuti hanno comportato. Il delitto tentato viene infatti in considerazione come reato di pericolo sui generis, in grado tuttavia di rappresentare un vero proprio modello da utilizzare per tutti i reati di pericolo, in virtù della sua lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. L’A. auspica, infatti, l’estensione ai reati di pericolo, magari mediante l’apposita previsione di una norma di parte generale, della disciplina del tentativo inidoneo (Stefano Lalomia).
LICCI G., Furto d’uso - Saggio su alcuni profili dell’art. 626 primo comma, n. 1 del codice penale italiano, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 88. L’A. analizza alcuni profili del reato di furto d’uso, muovendo dall’individuazione del bene giuridico nel patrimonio, inteso come res oggetto di una specifica relazione di diritto. L’offesa che viene portata al bene giuridico con il reato di furto d’uso, così come con il furto comune, consiste dunque nella lesione della duplice facoltà di disporre e fare uso della cosa. Nella trattazione del profilo attinente alla condotta di impossessamento, l’A. prospetta il superamento delle tradizionali dispute tra concezione pancivilistica e autonomistica della nozione di possesso ai fini del codice penale, al fine di individuare una definizione del possesso che corrisponda a quella civilistica. In particolare, l’A. propone il superamento dell’ottica che ravvisa nelle situazioni di possesso e detenzione una relazione tra un soggetto e una cosa, privilegiando la teoria che, smaterializzando la nozione di possesso, valorizza la situazione giuridica di vantaggio che caratterizza il possessore, traducibile nella pretesa erga omnes alla non ingerenza da parte dei terzi. Nell’uso momentaneo tipico del furto d’uso è ravvisata una specificazione del profitto che si prefigge l’autore di un furto comune, traendone la conseguenza che il furto d’uso costituisce una sottofattispecie del furto, caratterizzata da una più specifica precisazione del tipo di profitto sperato dall’agente. L’A. introduce, quindi, una critica alla lettura che la Corte Costituzionale ha fatto della norma in esame con la sentenza n. 1085 del 1988, ritenendo che lo schema del versari in re illicita sia del tutto estraneo al codice Rocco, in ragione dell’esclusione della punibilità nelle situazioni di caso fortuito e di forza maggiore. Secondo l’A. l’impianto originario del codice Rocco, pur prevedendo ipotesi di responsabilità oggettiva, fonderebbe sempre la colpevo-
— 1552 — lezza quantomeno sulla prevedibilità e l’evitabilità in astratto, escludendo che possano essere addebitati all’autore di un reato gli esiti fortuiti della sua condotta. In sostanza, afferma l’A. che anche dopo l’intervento della Corte Costituzionale, non si sarebbe in presenza di una norma diversa da quella precedente tale intervento. L’art. 626, comma 1 n. 1, viene quindi classificato come sottofattispecie circostanziata del furto comune, caratterizzato dal fine originario di fare un uso momentaneo della cosa, in cui la restituzione della res costituisce condotta susseguente al reato in grado di modificare l’originaria rilevanza, potenzialmente più grave, del fatto originario. La restituzione della res viene quindi intesa quale post-factum attenuante la fattispecie di cui all’art. 624 c.p. (Stefano Lalomia).
MANNA A. (a cura di), Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, UTET, Torino, 2000, pp. XIII-446. Il libro prende in considerazione il problema sempre più sentito del « lavaggio » del denaro « sporco », illustrando con dovizia di particolari sia le convenzioni e gli interventi a livello internazionale aventi lo scopo di reprimere tale attività sia i reati che nell’ordinamento italiano sono direttamente o indirettamente preposti ad impedire tale illecito. In particolare, Manna e gli altri autori del testo hanno voluto evidenziare lo stretto legame finalistico (quantomeno eventuale) esistente fra il reato di riciclaggio e reimpiego (di cui agli artt. 648 bis e ter c.p.) da una parte e dall’altra, nell’ordine, l’abusivismo bancario (di cui agli artt. 130 e 132 del d.lg. n. 385/1993), l’esercizio abusivo dell’attività d’intermediazione finanziaria (di cui all’art. 166 d.lg. n. 58/1998), gli obblighi informativi correlati alla partecipazione al capitale (di cui agli art. 168 d.lg. n. 58/1998), la tutela dell’attività di vigilanza (di cui all’art. 171 d.lg. n. 58/1998) e le sanzioni penali previste dall’artt. 2 e 3 del d.l. n. 143/1991 (convertito, con modifiche, nella legge n. 197/1991 e diretto a limitare l’uso del contante al fine di prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio): i primi operanti ad un livello « microeconomico », mentre i secondi ad un livello « macroeconomico ». Sono trattati, inoltre, anche il reato di gestione infedele (di cui gli art. 167 d.lg n. 58/1998) e quello che punisce la confusione di patrimoni (di cui agli art. 168 d.lg. n. 58/1998), benché questi ultimi reati — a detta degli stessa autori — tutelando più l’interesse del singolo risparmiatore, si allontanano dal tema conduttore del money laundering. Inserito in una trattazione di così ampio respiro, il reato di riciclaggio assume i connotati suoi propri di reato « finanziario », marcando così con evidenza le differenze (non sempre accolte dalla giurisprudenza) esistenti con i reati meno gravi di ricettazione e di favoreggiamento reale; in tale prospettiva, fra l’altro, gli autori assumono una posizione fortemente antica rispetto ad alcune pronunce dei giudici di merito (avallate da una recente sentenza della Corte di Cassazione), secondo le quali la sostituzione della targa originale e l’alterazione del numero del telaio di un autoveicolo proveniente da furto sono operazioni compiute in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa e perciò integrano il delitto di riciclaggio (Antonio Campagnoli).
MELCHIONDA A., Le circostanze del reato. Origine, sviluppo e prospettive di una controversa categoria penalistica, Padova, CEDAM, 2000, pp. XVIII-822. In questa ampia e documentata monografia Melchionda intende compiere una rinnovata verifica del fondamento giuridico-penale delle circostanze ed una rimeditazione sul significato della loro autonoma disciplina normativa. Ed è proprio il riesame critico dei più conso-
— 1553 — lidati assiomi posti a base della stessa rilevanza normativa dell’istituto circostanziale che costituisce, più ancora delle soluzioni offerte in ordine ai singoli problemi interpretativi suscitati dall’attuale disciplina (problemi trattati, per così dire, incidentalmente, in un’ottica non esegetica ma sempre con lo sguardo attento alle prospettive di riforma), il pregio principale del volume e che ne rende la lettura, anche per la precisa ricostruzione effettuata dell’evoluzione dottrinale in materia, indispensabile per chi voglia affrontare la complessa problematica oggetto dell’indagine. Sottolineata, nel capitolo introduttivo, l’intrinseca problematicità della materia e rilevate le tentazioni concettualistiche spesso subite dagli studiosi del settore, l’A. articola il lavoro in tre parti: nella prima si ripercorre l’evoluzione del dibattito in una prospettiva storica e comparatistica (con un accurato esame dei sistemi francese, spagnolo e tedesco); nella seconda la tematica viene discussa con riguardo all’esperienza giuridica italiana, affrontandosi prima i problemi relativi all’inquadramento dogmatico delle circostanze e poi quelli attinenti alla loro caratterizzazione funzionale; nella terza parte si delineano infine le valutazioni conclusive in ordine all’attuale disciplina delle circostanze e se ne propone una possibile ricomposizione sistematica. La tesi di fondo che l’A. sviluppa, sia attraverso l’indagine storico-comparatistica che attraverso l’analisi della vigente disciplina codicistica, è che non si possa stabilire (per lo meno nei termini in cui per solito viene posta) una contrapposizione tra circostanze ed elementi costitutivi del reato: nell’ambito della teoria generale del reato le circostanze non potrebbero configurarsi né come elementi autonomi della c.d. fattispecie concreta, né potrebbero inquadrarsi nello schema delle forme di manifestazione del reato; d’altra parte l’autonomia dogmatica del fenomeno circostanziale appare messa in dubbio dalla difficoltà di trovare un valido criterio distintivo rispetto agli elementi costitutivi. Dal punto di vista funzionale, poi, l’originaria ambivalente significatività della disciplina sembra possa oggi risolversi nel senso della assegnazione a tutti i diversi tipi delle circostanze dell’unitaria funzione di incidere sulla commisurazione legale della pena e non di quella di contribuire alla individualizzazione della stessa. In sostanza, l’A. ritiene che nell’ambito della struttura normativa della fattispecie (in senso ampio) le circostanze non giochino un ruolo diverso da quello degli altri elementi modificativi della punibilità: entrambe le categorie di dati sembrano concorrere alla configurazione di più articolate fattispecie incriminatrici normativamente autonome, ancorché strutturalmente ed operativamente dipendenti da una determinata figura di reato. In questa prospettiva si assume come criticabile la perdurante tendenza ad ontologicizzare il senso dell’attuale diversità di regime tra circostanze ed elementi costitutivi del reato. Al contrario, e anche se rimane ferma, sotto certi profili, la necessità di distinguere tra dati circostanziali ed elementi caratterizzanti un titolo autonomo di reato, la disciplina delle circostanze potrebbe essere assunta quale modello di regolamentazione generale degli elementi costitutivi delle « fattispecie incriminatrici dipendenti », quelle cioè che comunque accedono ad una fattispecie base, comprensiva di tutti i requisiti necessari a caratterizzare l’illiceità penale di un fatto altrimenti insuscettibile di generare un effetto di punibilità (Roberto Pasella).
PAPA M., Le qualificazioni giuridiche multiple. Contributo allo studio del concorso apparente di norme, Giappichelli, Torino, 1997, pp. 289. Affrontando, a distanza ormai di qualche anno dai classici studi della materia, l’argomento del concorso apparente di norme, l’A. avvia l’indagine chiedendosi innanzitutto quale sia l’effettiva capacità orientativa dei tradizionali principi del ne bis in idem sostanziale e di proporzione, oggi da più parti riproposti come criteri guida di una nuova disciplina positiva della materia. Pur manifestando piena consapevolezza circa la natura intrinsecamente indeterminata dei principi giuridici, Papa sostiene la necessità — innanzitutto pratica — di verifi-
— 1554 — care se taluni di essi siano davvero utili, cioè capaci di orientare chi deve elaborare la disciplina positiva di un particolare istituto. Rilevato come manchi, nel caso del ne bis in idem sostanziale, un autentico proprium assiologico che caratterizzi il principio in modo più pregnante rispetto alla generica istanza equitativa, l’A. sottolinea l’irriducibile ambiguità di significati allo stesso attribuiti: secondo un primo modo d’intendere, grosso modo comune alle teorie c.d. moniste, il ne bis in idem vieterebbe la molteplice valutazione penalistica dello stesso fatto; secondo invece una seconda concezione, per lo più comune ai seguaci dell’indirizzo c.d. pluralista, il principio vieterebbe la reiterazione dello stesso giudizio d’illecito. Quanto al principio di proporzione, a parte la sua lontananza dalla teoria della norma, esso pare, da un lato inadatto ad offrire molto di più che una mera indicazione di politica criminale; dall’altro incompatibile con le pretese di determinatezza richieste, anche nella parte generale del diritto penale, dal principio di legalità. Riscontrata dunque l’impossibilità di confidare sino in fondo sulla capacità orientativa dei due principi esaminati, l’A sostiene l’opportunità di studiare oggi il fenomeno del concorso di norme, evitando di ripercorrere le note cadenze di un dibattito dogmatico talora cervellotico. Meglio, piuttosto, dedicare una maggiore attenzione ai profili politico criminali e funzionalistici delle norme destinate a regolare il fenomeno della concorrenza. Rilevato come la disciplina del concorso di norme non occupi dunque uno « spazio vuoto dalla politica criminale », ma anzi afferisca alla delicatissima attività di valutazione dei fatti penalmente significativi, l’A. propone come categoria tematica d’indagine quella delle « qualificazioni giuridiche multiple ». L’indagine sui profili politico criminali delle qualificazioni giuridiche multiple procede all’interno di un duplice campo: da un lato, il diritto penale della decodificazione; dall’altro, l’esperienza comparatistica. Quanto al primo campo di studio, la caoticità dell’odierno diritto penale e la presenza di numerosissime fattispecie incriminatrici extra codicem registra il frequente convergere, sullo stesso quadro storico, di decine di schemi di qualificazione interferenti. Fenomeno cui si contrappone una fisiologica insufficienza operativa dei criteri previsti dal diritto positivo o invocati dalla dottrina per risolvere le ipotesi di concorso. Chiedendosi quale sia la ragione di tale crescente complessità delle qualificazioni giuridiche multiple, l’A. analizza il rapporto tra le tecniche di formulazione della fattispecie e l’insorgere di aggrovigliate ipotesi di qualificazione multipla. Venendo all’esperienza comparatistica, l’A. rileva come in taluni sistemi sia assai arduo individuare con immediatezza la disciplina normativa del concorso apparente. Al di là dei casi di specialità unilaterale, la regolamentazione delle qualificazioni giuridiche multiple si trova infatti dislocata nei luoghi sistematici più disparati. L’analisi comparatistica consente allora all’A. di illuminare la trama sistematica dei molti istituti condizionanti la risposta sanzionatoria laddove il fatto, o il quadro storico, sia suscettibile di qualificazione giuridica multipla. Una trama che farebbe anche ipotizzare una sorta di « equivalenza funzionale » tra le soluzioni approntate da ciascun ordinamento. Secondo l’A. una equivalenza sussiste effettivamente rispetto ad una prima fondamentale funzione assolta — nei vari sistemi — dalla disciplina delle qualificazioni giuridiche multiple: quella di assicurare, a fronte di fatti o di quadri storici suscettibili di plurima rilevanza penale, la congruità tra la complessiva risposta sanzionatoria e i fini della pena riconosciuti come prioritari (in particolare quello retributivo-proporzionalistico). I limiti dell’« equivalenza funzionale » tra le varie soluzioni normative sono tuttavia segnati dalla diversa compatibilità tra le soluzioni medesime e il principio di legalità. Chiarito dunque come sussistano, dietro la varietà delle soluzioni positive, due fondamentali e talora alternativi principi da realizzare — da un lato quello della congruità con i fini della pena; dall’altro quello di legalità — l’A. affronta, nell’ultima parte del lavoro, il problema delle prospettive de jure condendo. Acquisita consapevolezza sia della trama sistematica condizionante le qualificazioni multiple, sia delle necessità di scegliere un principio cui dare attuazione prioritaria, vengono prospettate tre direzioni di approfondimento: l’elaborazione informatica dei rapporti strutturali tra fattispecie; l’individuazione di macro-tipi penali e lo sviluppo delle clausole di riserva; il possibile trasferimento delle qualificazioni multiple nella fase di commisurazione della pena (Alberto Cadoppi).
— 1555 — PATANÈ V., L’individualizzazione del processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 1999. Il panorama degli studi comparatistici nel campo processualpenalistico si è recentemente arricchito con la messa a fuoco di una tematica, quella minorile, tradizionalmente ma altrettanto « ingiustificatamente trascurata, soprattutto se si tiene conto come è proprio da questo settore che traggono origine preziosi spunti per la ricerca di soluzioni alternative ai problemi della giustizia « ordinaria », legata a schemi troppo rigidi che impediscono l’elaborazione « interna » di modelli realmente innovativi. A rendere particolarmente apprezzabile il volume che si segnala è poi la scelta stessa del sistema inglese, sul quale finora si è assai meno appuntata l’attenzione dei comparatisti rispetto a quanto è avvenuto per gli U.S.A., nonostante la collocazione europea che avrebbe dovuto, al contrario, fare dell’Inghilterra un campo privilegiato di analisi delle alternative al diritto continentale, anche nella prospettiva, se non di un’armonizzazione, perlomeno di un confronto, reso ormai indifferibile dal crescente sviluppo delle istituzioni sovranazionali. Per la verità va detto che a rendere meno « popolare » tra gli studiosi l’ordinamento inglese rispetto a quello statunitense contribuisce senza dubbio non tanto lo stato di profonda e generalizzata crisi in cui si dibatte la giustizia d’oltremanica — questo purtroppo non costituisce certo un ostacolo imprevisto per il giurista italiano! — quanto il conseguente susseguirsi incalzante di interventi legislativi spesso di segno contrapposto che, se da un lato consente di usufruire di uno spettro assai ricco di prospettive alternative, dall’altro intorbida, a ritmi molto più intensi di quanto accade altrove, il quadro normativo generale, rendendone assai complessa e faticosa non solo la ricostruzione, ma anche la semplice descrizione. Ciò è particolarmente avvertibile nel settore del processo minorile, dove dal 1988 al 1999 si sono susseguite ben cinque novelle (addirittura una sesta è intervenuta dopo la pubblicazione del volume, nel quale peraltro si da adeguatamente conto del relativo « disegno di legge »). Con sicura padronanza della materia, l’A. riesce ad offrire un lucido quadro della disciplina attuale, letta alla luce delle ideologie di fondo — justice model e welfare model — che non solo si alternano ma spesso anche si sovrappongono e si fondono, dimostrandosi antitetiche più a livello teorico che di prassi applicativa, rendendo così ambiguo il senso dei singoli provvedimenti legislativi. Ne è chiaro esempio il Crime and Disorder Act del 1998, nel quale l’esigenza di risocializzazione del reo viene perseguita sia ricorrendo a tecniche trattamentali sia riproponendo il valore formativo della riprovazione e della punizione. L’A. sottolinea come una più idonea chiave di lettura possa venire dal più recente terzo modello, quello del c.d. « system management », consistente nel tentativo di conciliare la tutela dei diritti del minore con l’eccessiva discrezionalità inevitabilmente conseguente all’approccio individualizzato attraverso il perseguimento della razionalizzazione nell’utilizzazione delle strutture e delle risorse esistenti (ricorrendo anche alla privatizzazione dei servizi), nonché la riduzione della discrezionalità del giudice puntando su interventi resi omogenei da direttive emanate a livello nazionale: proprio in questa direzione sembra muoversi la riforma del 1998, con la previsione di un organo centrale, l’Youth Justice Board e di una serie di Young Offender Teams a livello decentrato. Di particolare interesse si rivela, inquadrata nella griglia interpretativa di cui si è detto, la puntuale e attenta analisi della ricca gamma delle formule terminative del processo, accompagnata da un’ampia panoramica delle posizioni espresse al riguardo dalla dottrina. Segue poi un’approfondita indagine delle origini e dello sviluppo della giustizia penale minorile in Italia, dei limiti dell’attuale legislazione, caratterizzata negativamente dal mancato adeguamento della normativa penale sostanziale, soprattutto in materia di sanzioni, alle esigenze di una coerente ed efficace politica legislativa, col risultato di rendere inevitabile la ricerca di soluzioni prevalentemente a livello processuale. In questo quadro l’A. esplora gli spazi disponibili per interventi di riforma compatibili con le problematiche connesse al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, individuando interessanti prospettive che al ri-
— 1556 — guardo possono essere offerte dagli istituti inglesi precedentemente analizzati (Vittorio Fanchiotti).
PECORELLA C., Il diritto penale dell’informatica, Padova, Cedam, 2000, pp. VII-404. L’A. delinea un quadro sistematico dei reati informatici introdotti nel codice penale dalla legge 23 dicembre 1993, n. 547. Rimangono fuori del campo d’indagine le figure di reato poste a tutela delle opere d’ingegno e delle topografie di prodotti a semiconduttori (le quali si limitano a incriminare moderne forme di sfruttamento a fini di lucro dell’idea originale altrui), delle banche dati e della riservatezza contro aggressioni connesse alla raccolta e al trattamento di informazioni « personali » (trattandosi di reati commissibili, anche senza l’ausilio di strumenti informatici), nonché i reati commessi attraverso Internet, posto che la rete costituisce solamente modalità di diffusione di fattispecie incriminatrici « classiche ». L’esame muove dalla ricostruzione delle specifiche esigenze repressive segnalate dall’esperienza criminologica (documentata attraverso dati empirici e casi tratti dalla giurisprudenza di diversi Paesi) e si snoda attraverso un sistematico confronto con le soluzioni legislative (e le interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali) raggiunte in altri ordinamenti. Trova spazio anche l’esame delle normative extrapenali che interferiscono con la disciplina dei computer crimes: così, ad esempio, si dà conto, nel capitolo dedicato al falso informatico, delle normative che fissano i criteri di validità dell’atto amministrativo informatico e della c.d. firma digitale. L’esegesi dei singoli requisiti di fattispecie è sempre condotta sulla base di un’illustrazione delle questioni « tecniche » sottese. Così, l’ambito di operatività della nozione di « corrispondenza informatica o telematica » (consistente, essenzialmente, nella trasmissione di messaggi attraverso la c.d. posta elettronica) è delimitato alla luce dei passaggi attraverso i quali tecnicamente si articola il processo di trasmissione del messaggio elettronico. Interessanti le considerazioni svolte dall’A. in merito al delitto di diffusione di programmi diretti a danneggiare un sistema informatico (ritenuto reato di pericolo eventualmente indiretto) e al delitto di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici (considerato reato di pericolo necessariamente indiretto). A parere dell’A., solo il primo reato risulta compatibile con il principio di proporzione, in considerazione dell’elevato rango del bene giuridico tutelato (integrità e buon funzionamento dei sistemi informatici) e del carattere tipicamente pericoloso rivestito, rispetto a tali beni, dalle condotte incriminate. Viceversa, il principio di proporzione appare compromesso dalla seconda figura di reato, dato il minor rango del bene giuridico oggetto di tutela (la riservatezza dei dati contenuti in un sistema informatico) (Carlo Ruga Riva).
ROMANO B., La tutela penale della sfera sessuale. Indagine alla luce delle recenti norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, Milano, Giuffrè, 2000, pp. 301. Anche fuori dall’ambito degli « addetti ai lavori » ha avuto notevole risonanza l’approvazione di due leggi fortemente sollecitata dalla stessa opinione pubblica: la legge 66/1996 contro la violenza sessuale, alla cui approvazione si è giunti dopo anni di discussioni in sede legislativa, e la legge 269/1998 contro lo « sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù », recependo le indicazioni contenute nella Convenzione dei diritti del fanciullo (New York 20.11.1989) e nella dichiarazione della Conferenza di Stoccolma (31.8.1996). Dalla considerazione della identità dei principi ispiratori e delle finalità repressive che stanno alla base delle due leggi prende le mosse l’indagine condotta dall’A., volta a fornire un primo bilancio sull’operatività delle norme introdotte e sulla loro idoneità a perseguire degli obiettivi prefissati.
— 1557 — La maggiore attenzione è dedicata alla legge sulla violenza sessuale, dal momento che essa rappresenta — o avrebbe dovuto rappresentare — il vero elemento di rottura con il passato. L’obiettivo della riforma era quello, osserva l’A., di introdurre norme più rispondenti ad una nuova concezione della sessualità, ritenuta ormai prevalente nell’opinione pubblica, per effetto della quale il bene protetto risulta essere la libera disposizione della propria sessualità: in quest’ottica andrebbe infatti letta la scelta del legislatore di collocare le nuove disposizioni tra i delitti contro la persona, e non più tra quelli contro la moralità pubblica e il buon costume. Integrano oggi il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) tutte quelle condotte che si pongono in contrasto con l’autodeterminazione sessuale: la condotta illecita consiste nel « costringere taluno a compiere o a subire atti sessuali » senza che sia più necessario distinguere tra congiunzione carnale e atti di libidine violenti. Ma è proprio questa unificazione, che costituiva una delle novità più attese della riforma, ad essere oggetto di critiche: sulla base delle varie tesi che nella locuzione atti sessuali vedono, a seconda dei casi, un ampliamento o una riduzione dell’area del penalmente rilevante, l’A. mette a fuoco la problematica conformità al principio di determinatezza. Chiara appare la posizione dell’A. che, facendo rientrare nella nozione di atti sessuali la congiunzione carnale e gli atti di libidine violenti, esclude l’incostituzionalità della norma, pur auspicando un intervento della Corte Costituzionale diretto a porre fine alle diverse interpretazioni fornite dalla giurisprudenza. Partendo dalla premessa che all’adozione della locuzione atti sessuali non corrisponda l’intenzione del legislatore di ampliare la sfera del penalmente rilevante, si segnala la necessità di porre una netta separazione tra violenza e molestie sessuali. Secondo l’A. tale separazione troverebbe origine nel diverso bene giuridico tutelato; infatti, mentre la previsione di cui all’art. 609-bis c.p. ha come tutela la libera disponibilità del proprio corpo, le molestie integrerebbero piuttosto una lesione della riservatezza e della discrezione sessuale. Sulla base di tale distinzione si auspica, in una prospettiva di riforma, l’introduzione del reato di molestie sessuali, prevedendo una duplice limitazione: che « qualsiasi contatto fisico dolosamente procurato e non consentito dalla vittima costituisca, se non integra i requisiti della violenza sessuale, almeno molestia sessuale » (p. 251 s.) e che le condotte che non si traducono in contatti fisici integrino la fattispecie di molestie solo se risultano connotate dalla ripetitività e dall’insistenza. Discutibile, perché sicuramente in contrasto con la concezione che sta alla base della riforma, è anche il mantenimento, nella configurazione della condotta vietata, della violenza e della minaccia, quali modalità di esplicazione della condotta stessa. L’A. sottolinea come la previsione del dissenso o della mancanza di consenso sarebbe stata più consona alla qualificazione del delitto di violenza sessuale: configurando un delitto contro la persona, la condotta risulta illecita per il semplice fatto di essere realizzata in dispregio della volontà della vittima, senza ulteriori elementi; semmai violenza e minaccia avrebbero potuto integrare una circostanza aggravante. In definitiva, ciò che l’A. rimprovera alla nuova legge è di non rispondere adeguatamente alle aspettative suscitate durante la lunga attesa della sua approvazione ed in particolare di non essere in grado di porre un freno alle interpretazioni in contrasto con la valutazione della libertà sessuale quale diritto fondamentale della persona: a fondamento di tale tesi si citano la mancata riproposizione del capo « dei delitti contro la libertà sessuale », ovviamente nel titolo dedicato ai delitti contro la persona, la sopravvivenza del titolo IX relativo ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, nonché la mancata riforma del delitto di incesto (Maria Teresa Frigerio).
SCHIAFFO F., Le situazioni « quasi scriminanti » nella sistematica teleologica del reato. Contributo ad uno studio sulla definizione di struttura e limiti della giustificazione, Napoli, Jovene, 1998, pp. XVIII-365. Oggetto di questo denso lavoro di Francesco Schiaffo è il fenomeno della realizzazione
— 1558 — parziale di fattispecie scriminanti, sinora oggetto di scarsissima attenzione da parte della dottrina italiana. Mentre in altri ordinamenti l’ipotesi in cui il fatto sia compiuto in presenza di alcuni soltanto dei requisiti di una causa di giustificazione è oggetto di espressa regolamentazione (come nel caso paradigmatico del codice penale spagnolo, che all’art. 21 n. 1 configura tale ipotesi come circostanza attenuante comune), la dottrina italiana — in assenza di esplicite indicazioni normative — si limita per lo più ad affermare il possibile rilievo del fenomeno ai fini della concessione delle attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., senza indagare ulteriormente sulla logica che presiede alla « giustificazione parziale » di un fatto già qualificato come « tipico » ai sensi di una norma incriminatrice. Indispensabile premessa ad uno studio sul tema è la definizione del ruolo della categoria dell’antigiuridicità nell’ambito di una sistematica « teleologica » del reato, alla cui ricostruzione l’Autore dedica l’intero primo capitolo dell’opera. Punto di partenza è rappresentato dalla rilettura delle tradizionali categorie della sistematica tripartita alla luce della loro specifica funzione nel processo di imputazione della pena e nel quadro dei principi costituzionali in materia di responsabilità penale. In tale ottica, l’Autore rileva criticamente come alla categoria dell’« antigiuridicità » la dottrina a tutt’oggi prevalente nel nostro Paese attribuisca una mera funzione di integrazione del sistema penale con l’intero ordinamento giuridico: il giudizio sull’« antigiuridicità » — si afferma comunemente — comporta il raffronto tra una condotta già qualificata come (penalmente) « tipica » e l’ordinamento giuridico nel suo complesso, dalle cui valutazioni verrebbe pertanto a dipendere il « secondo gradino » nella costruzione del reato. Ora, proprio tale caratterizzazione « ordinamentale » della categoria dell’« antigiuridicità » viene messa in discussione da Schiaffo, il quale ne propugna invece una lettura strettamente giuspositivistica ed essenzialmente « intrapenalistica », come locus sistematico nel quale la necessità della pena rispetto alle sue funzioni, « indiziata » dalla realizzazione di una condotta tipica, andrebbe nuovamente vagliata alla luce del « valore positivo » derivante alla condotta dalla sua finalità di salvaguardia di un bene prevalente rispetto a quello tutelato dalla norma incriminatrice. Una delle conseguenze più significative di tale ricostruzione in senso specificamente penalistico della categoria dell’antigiuridicità è rappresentata, in particolare, dalla necessaria rilevanza, ai fini della « giustificazione » di una condotta « tipica », di un particolare elemento soggettivo. In esito all’accurata ricostruzione storica dell’evoluzione della dottrina tedesca sul punto, svolta nel secondo capitolo, l’Autore giunge ad individuare tale elemento soggettivo nella rappresentazione della situazione scriminante e nell’effettivo influsso di tale rappresentazione sul processo motivazionale dell’autore. La sussistenza dei soli estremi oggettivi di una causa di giustificazione sarebbe, allora, inidonea a determinare la completa elisione dell’antigiuridicità del fatto; con la rilevante conseguenza pratica che la non punibilità di un tale fatto, sancita dall’art. 59 co. 1 c.p., non escluderebbe comunque — quanto meno de iure condito, e salva ogni riserva dell’Autore circa il sistema del « doppio binario » — la possibilità di applicare all’autore, ex art. 202 co. 1 c.p., una misura di sicurezza. Ulteriori ipotesi di realizzazione parziale di una causa di giustificazione — al cui approfondimento è dedicato il terzo capitolo della monografia — sono poi identificate da Schiaffo nell’eccesso colposo di cui all’art. 55 c.p., nonché in una serie di casi « prossimi al consenso », caratterizzati dalla presenza di un consenso della vittima inidoneo a spiegare piena efficacia scriminante per l’indisponibilità del bene o per la sussistenza di vizi nella formazione del consenso medesimo. Il lavoro si chiude con un’ampia riflessione sulle prospettive di una futura regolamentazione espressa della « giustificazione parziale », idonea a ricomprendere tutte le ipotesi esaminate, allo stato disorganicamente disciplinate ovvero — come nel caso del difetto dell’elemento soggettivo delle scriminanti — non disciplinate affatto. Dopo aver vagliato criticamente la possibilità di sancire in via generale la non punibilità della condotta nel caso di giustificazione solo parziale in applicazione del c.d. principio di « esiguità » (o « irrilevanza ») del fatto per i casi in cui a mancare sia un elemento diverso da quelli del tutto secondari e, dunque, irrilevanti per l’esclusione dell’illiceità specificamente penale del fatto tipico, l’Au-
— 1559 — tore propone l’introduzione di un’apposita circostanza attenuante comune modellata sul citato art. 21 n. 1 del codice spagnolo, da strutturarsi come circostanza a effetto speciale (con riduzione di pena superiore al terzo) e ad applicazione obbligatoria, in deroga al meccanismo del bilanciamento di cui all’attuale art. 69 c.p. (Francesco Viganò).
VIGANÒ F. Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, Giuffrè, 2000, pp. XIV-601. Ad una nuova riflessione sul tema dello stato di necessità è dedicata questa corposa monografia, nella quale l’Autore indaga la « classica » questione del fondamento e della natura dell’esimente, evidenziando i molteplici risvolti sistematici delle possibili opzioni teoriche ed assieme la loro dimensione politico-criminale, illuminata non — come spesso avviene nella letteratura sul tema — a mezzo di più o meno improbabili esempi di scuola, bensì di una ricca casistica tratta dall’esperienza giurisprudenziale italiana e straniera. Dopo avere per l’appunto passato in rassegna, nel capitolo introduttivo, alcune tra le più scottanti costellazioni di casi nei quali oggi si pone il problema dell’applicazione dello stato di necessità (dal nodo del trattamento sanitario necessario quoad vitam ma rifiutato dal paziente, ai ricorrenti tentativi di utilizzare lo stato di necessità quale principio fondante poteri extra ordinem in capo ad organi del potere esecutivo o giudiziario, alla sempre ricorrente tematica della « necessità economica »), l’Autore intraprende nel secondo capitolo un lungo viaggio attraverso la storia dell’istituto in alcuni tra i più significativi ordinamenti di civil e di common law, ponendo puntualmente in risalto le aporie ricostruttive che hanno da sempre e in ogni ordinamento accompagnato la riflessione sullo stato di necessità. Tali aporie possono essere sciolte, ad avviso di Viganò, soltanto ove si faccia chiarezza circa l’inquadramento dell’esimente tra le cause di giustificazione o le scusanti: categorie oggetto di un risalente ma sempre attuale dibattito in seno alla dottrina penalistica, al cui approfondimento l’Autore dedica l’intero terzo capitolo. Gli originali svolgimenti proposti da Viganò, soprattutto in materia di scusanti — la cui teoria generale è ancora, nel nostro Paese, ad uno stadio poco più che embrionale —, sono proposti sulla scorta di un riesame dell’alternativa di fondo tra « oggettivismo » e « soggettivismo » che si spalanca ad ogni sistema penale e che l’Autore analizza, in particolare, con riferimento ad alcuni nodi cruciali della teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti: dal « vecchio » problema degli elementi soggettivi delle cause di giustificazione, ai profili assai meno esplorati dei c.d. elementi oggettivi della colpevolezza, alla problematica ed attualissima questione della configurabilità di una categoria intermedia tra cause di giustificazione e scusanti, che sarebbe rappresentata dalle cause di esclusione della (mera) « antigiuridicità penale » del fatto. Chiarita la legittimità ed assieme l’utilità pratica della distinzione tra cause di giustificazione e scusanti, l’Autore passa ad esaminare, nel quarto capitolo, i risvolti sistematici e politico-criminali di una ipotetica configurazione dello stato di necessità quale causa di giustificazione, vagliando le ripercussioni che tale lettura avrebbe su ciascuna delle costellazioni di casi problematici presentate in apertura del lavoro. Anche sulla scorta dell’esperienza tedesca, dove è espressamente codificato uno stato di necessità « giustificante », l’Autore conclude nel senso della congenita imprecisione e pericolosità per lo Stato di diritto di una esimente in grado di sancire la generale liceità (o anche soltanto la non « antigiuridicità penale ») di qualsiasi condotta tipica che, nel caso concreto, appaia idonea a salvaguardare un interesse ritenuto prevalente o equivalente rispetto a quello sacrificato. L’Autore propugna, conseguentemente, una lettura esclusivamente « scusante » dello stato di necessità, la cui ratio andrebbe ravvisata nella comprensione dell’ordinamento per un fatto oggettivamente illecito (e, pertanto, legittimamente impedibile e sanzionabile in via extrapenale), ma compiuto sotto l’effetto dell’anormale pressione motivazionale scaturente dalla percezione di un grave pericolo. Una tale lettura — assai più indolore dal punto di vista
— 1560 — dei risvolti applicativi — renderebbe a priori inapplicabile lo stato di necessità al settore del trattamento medico, non essendo ipotizzabile in capo al sanitario alcuna anormale pressione motivazionale scaturente dalla percezione del pericolo in cui versa il malato. Le ipotesi di c.d. necessità medica appaiono peraltro, ad avviso dell’Autore, più propriamente inquadrabili entro il paradigma concettuale — assai poco studiato dalla dottrina penalistica italiana — del conflitto di doveri, alla cui peculiare logica, pertinente alla teoria generale del diritto più che del solo diritto penale, è dedicato il quinto capitolo. Nel capitolo conclusivo l’Autore traccia, infine, le linee essenziali di una lettura in senso scusante del vigente art. 54 c.p., passando analiticamente in rassegna i singoli requisiti dell’esimente e mostrandone la loro migliore compatibilità con una siffatta lettura anziché con quella, più familiare alla criminalistica italiana contemporanea, che muove dal fondamento « giustificante » dello stato di necessità (Luca Masera).
GIURISPRUDENZA
c) Giudizi di Merito
CORTE D’ASSISE DI FOGGIA — 9 febbraio 2000, n. 716 Pres. Bortone — Rel. Casiello Imputate Botticelli - Sica Imputabilità - Vizio di mente - Elementi di valutazione - Lucidità nella preparazione e nell’esecuzione del reato - Normalità della vita relazionale dell’imputato - Esclusione (C.p., artt. 88, 89). Circostanze - Futile motivo - Sproporzione tra il movente dell’azione criminosa e la gravità della stessa - Sussistenza (C.p., art. 61, n. 1). La complessa attività preparatoria del delitto che si sostanzi nella premeditazione dello stesso, nella manipolazione delle tracce, nella simulazione del suicidio della vittima, unitamente alla freddezza ed alla lucidità dimostrata dagli imputati nella preparazione, esecuzione del reato e nella successiva fase delle indagini, alla genesi della confessione motivata da mero calcolo difensivo, alle contraddizioni in cui essi cadono nel riferire i presunti fenomeni psichici anomali da cui sarebbero stati affetti, sono elementi tutti incompatibili con l’incapacità totale o parziale di intendere o di volere degli imputati al momento del fatto, quali che siano le loro attuali condizioni di salute (1). Una chiarificazione diagnostica del vizio di mente di cui sarebbero affetti gli imputati, offerta da questi in modo esibizionistico ed eclatante, unitamente ad una descrizione minuziosa e caratterizzata dall’utilizzo dell’appropriata terminologia dei disturbi che li concernerebbero, e ad una particolareggiata ricostruzione dell’episodio delittuoso e delle fasi che l’hanno preceduto e seguito, sono elementi tutti che depongono nel senso di una simulazione a meri fini defensionali dell’infermità di mente quale causa di esclusione dell’imputabilità (2). La circostanza per cui gli autori di un grave episodio delittuoso abbiano condotto prima durante e dopo lo stesso una normale vita relazionale, senza che su di essa abbia mai prodotto alcun riverbero il disturbo psichico di cui, a loro dire, sarebbero stati affetti, è incompatibile con il riconoscimento di una infermità di mente che possa in qualche modo aver influito sulla loro capacità di intendere e di volere(3). Il motivo futile è quello assolutamente sproporzionato rispetto all’azione delittuosa, tanto da apparire un pretesto piuttosto che la vera causa determinante del reato, rivelatore di un istinto criminale più spiccato, da punire quindi più gravemente(4). (Omissis). — Tutto quanto fin qui esposto porta, tra l’altro, all’incontroverti-
— 1562 — bile conclusione che le imputate, nel riferire dei presunti contatti con l’uomo del sogno, mentono, così come hanno mentito sugli altri punti di fatto rilevanti come non fossero pacifici sulla scorta delle risultanze delle captazioni ambientali, così come hanno mentito su quant’altro non fosse agevolmente ricavabile dalle altre indagini compiute o sicuramente da compiersi. La complessa attività preparatoria del delitto, il contenuto della lettera lasciata sul luogo del delitto, il contenuto delle captazioni ambientali, la genesi della confessione, l’attività di esecuzione materiale del delitto e di manipolazione delle tracce dello stesso compiuta subito dopo da esse stesse e da terzi che ora esse coprono consapevolmente (come concordato nel colloquio intercettato), gli scarichi di responsabilità che si rinvengono negli interrogatori, le contraddizioni in cui cadono nel riferire dei propri rapporti diretti od indiretti con l’uomo del sogno, sono elementi tutti incompatibili con l’incapacità totale o parziale di intendere o di volere delle imputate al momento del fatto, quali che fossero le loro attuali condizioni di salute. La perizia collegiale espletata nel corso delle indagini preliminari, pur rimanendo su di un piano strettamente psichiatrico e quindi non avendo fatto ricorso a tutte le argomentazioni che precedono, fondate su prove e valutazioni di prove, giunge alla stessa inequivoca conclusione. (Omissis). — Si tratta di rilievi decisivi perché entrambe le imputate sono apparse nel corso dei colloqui peritali, come già nel corso degli interrogatori resi a breve distanza dei fatti, perfettamente consapevoli di quanto loro accadeva o poteva accadere a seguito del procedimento in corso e perfettamente lucide. Così appare, infatti, la Botticelli ai periti: ‘‘lucida, vigile, orientata nel tempo e nello spazio e nei confronti delle persone, è consapevole del valore e del significato dell’indagine cui si sta sottoponendo. Accessibile al rapporto interlocutorio, vi collabora volentieri, mostra di comprendere correttamente le domande che le si rivolgono, risponde a tono e senza latenze patologiche, che eccedano cioè la normale ricerca della risposta o la riflessione per organizzare il contenuto. L’eloquio è fluido ben articolato, sintatticamente corretto’’ (Omissis). Così appare la Sica agli stessi periti: ‘‘ai vari colloqui la perizianda si presenta sufficientemente curata nella persona con un aspetto nel complesso ordinario, di aria domestica, senza ricercatezze o bizzarrie. Il volto aperto, mobile, vivace, così come lo sguardo, molto raramente e per brevissimo tempo cupo e sfuggente, confermano l’assenza di particolari alterazioni della mimica e della psicomotilità. Coopera all’esame senza alcuna difficoltà, senza reticenze o rifiuti alle domande che le vengono poste’’. (Omissis). — Allo stesso modo le imputate apparivano nel corso degli interrogatori resi innanzi al G.I.P. ed al P.M.; allo stesso modo nelle captazioni ambientali, nel corso delle quali, per altro, si riproponevano espressamente di lottare per la propria sorte processuale quand’anche si fosse scoperto che la Roccia non si era suicidata. Se di tutto questo si tiene conto, desta più che perplessità la lamentata ed ostentata situazione di semicoscienza o di irrealtà con la quale le imputate sostengono di avere vissuto determinate esperienze funzionali alla commissione dell’omicidio oggetto del presente procedimento e l’omicidio stesso, che sono, difatti, perfettamente in grado di rievocare ed addirittura di rappresentare mimicamente e materialmente senza alcun problema.
— 1563 — (Omissis). — È tanto premesso che bisogna affrontare il tema centrale di questo procedimento, a meno di non voler rimaner vittima della dichiarata e compiaciuta tendenza della Botticcelli a dire bugie, tendenza che, stando alla non condivisibile impostazione difensiva, risparmierebbe proprio e solo giudici e psichiatri nel momento senz’altro più critico della vita della Botticelli, quando più le gioverebbe avvalersene. Le menzogne della Botticelli non sono espressione di alcuna patologia, perché di esse la Botticelli, come già anticipato, non rimane mai vittima per sua stessa ammissione. Come insegna il Prof. Nino Costa: ‘‘mentire deriva da mente letteralmente, quindi una persona che mente vuol dire che non è fuori di mente, perché non potrebbe mentire se lo fosse, cioè i pazienti psicotici scompensati di solito proprio non riescono a mentire, nel senso che dicono apertamente quello che pensano e provano senza filtrare nulla. Vero è che c’è anche la dimensione della menzogna patologica che noi riscontriamo in alcune forme di studio di personalità grave, dove il mentire ha un effetto boomerang, nel senso che il soggetto poi finisce per credere alle menzogne che dice, ne resta come imprigionato, cioè lo dicevo prima che c’è questa tendenza a raccontare storie ma a restare poi impigliato nella rete della invenzione raccontata’’. Tuttavia di queste menzogne la Botticelli non resta mai prigioniera: insiste quando può e solo fin quando può su di esse. (Omissis). Ora, tenuto conto di quanto precede, pare più che ingenuo non leggere dietro le verbalizzazioni su elencate della Botticelli e più in generale dietro i riferimenti ai comandi dell’uomo dei sogni di cui sono pieni i suoi interrogatori, come quelli della Sica, una artata quanto rudimentale copertura dell’atto omicida, deliberato e voluto coscientemente dalle due imputate: il padre della Sica avrebbe condizionato la Botticelli e per il tramite di questa la Sica. Si tratta di un atteggiamento comune delle imputate, posto che anche la Sica mente sul peso del proprio apporto alla vicenda che ci occupa, mente come la Botticelli sui particolari di cui si è discusso ed in periodo non sospetto faceva anch’essa, in uno scritto più breve, le proprie riflessioni sull’arte della menzogna. Citando ancora il Prof. Costa: ‘‘c’è la loro capacità di simulare, la capacità di simulare vuol dire che le persone che dissimulano sono presenti a se stesse in quel momento’’. Siccome le imputate (entrambe per quel che si è scritto e si scriverà) simulano, rappresentano, inventano prima durante e dopo l’omicidio, sono sempre state presenti a se stesse. Insomma, quanto alla Botticelli, a parte disturbi di personalità irrilevanti sotto il profilo psichiatrico forense, non sono riscontrabili malattie di alcun tipo idonee ad incidere anche solo limitatamente sulla capacità di intendere o di volere. (Omissis) Sopra tutto: ‘‘i sogni poi non hanno mai turbato il corso della sua vita, a suo dire « noiosa, tranquilla, piatta, piattissima, mi sarebbe piaciuto frequentare discoteche, belle feste, pubs..., allora si avrei potuto dire di avere una vita movimentata ». Si tratta di sogni che avrebbero avuto inizio, nel suo racconto, ben cinque anni fa, ed anche se volessimo prendere in considerazione la loro incidenza dal momento della sua rivelazione a Mariena Sica (qui i dati non sono coerenti, vanno da uno a due anni prima dell’omicidio), si tratterebbe comunque di un ampio arco di tempo, entro il quale la vita della ragazza sembra scorrere come sempre, nonostante la rilevanza — almeno nelle sue parole — dei fenomeni che all’epoca, sempre secondo il suo racconto, sarebbero stati vissuti come reali. Inten-
— 1564 — diamo dire che se si accetta acriticamente la versione del sogno fornita dalla Botticelli, ella avrebbe convissuto con manifestazioni così eclatanti (che avrebbero addirittura assunto la connotazione allucinatoria complessa delle visioni) mantenendo una normale vita di relazione, nei rapporti intrafamiliari, nel rendimento scolastico e così via’’ (perizia Botticelli, fol. 129 e ss.). Tutto ciò di per sé determina ‘‘forti dubbi sulla dimensione psicotica (delirante ed allucinatoria) dei disturbi lamentati, anche perché questo « sogno » nel suo orizzonte quasi come sintomo isolato, una sorta di cattedrale nel deserto, quasi del tutto priva di sintomatologia di accompagnamento. Nonostante che si trattasse di un delirio così emotivamente importante (che giunge a suggerire per due volte di compiere azioni così implicanti come un omicidio), che si presentava tutte le sere per anni, questo non influisce sulla sua capacità di studio, di uscire e di godere del tempo libero, di gestire i rapporti con i familiari, con le amiche, non determina situazioni di allarme, altri sintomi non sono lamentati dal soggetto ma altresì rilevati dalle persone attorno a lei, come familiari, insegnanti, ecc., non la spingeva a chiedere aiuto, a fare ricorso a strategie per poterle neutralizzare’’ (perizia Botticelli, fol. 129 e ss.). (Omissis). — Analoghe palesi esagerazioni sono riscontrabili nel resoconto dell’azione omicidiaria offerto dalla Sica in sede di interrogatorio innanzi al G.I.P.: stando alla Sica ogni suo atto, fin anche quello di utilizzare la lucetta del proprio orologio per cercare la propria sciarpa od i propri occhiali al buio, o quello di indossare il cappotto prima di uscire dal garage di casa Botticelli, sarebbe derivato da un suggerimento-comando dell’amica, laddove se non altro la complessità dell’azione omicida condotta in prima persona dalla Sica ed al buio (per quello che riferisce lei stessa) non consentiva di per sé questo genere di dipendenza, che se tale fosse stata, del resto, non sarebbe stata rievocabile con la caparbia precisione indicata da chi ne fosse stato vittima. Si consideri poi che, quando si tratta di rimarcare una qualche differenza tra il tracollo morale della Botticelli ed il proprio nel corso dell’azione omicida, pur di riabilitare la propria immagine, la Sica non ha esitato, contraddittoriamente, quanto esplicitamente, ad attribuirsi capacità di autodeterminazione piena. Si consideri a tal fine quanto già riportato sub 11 a proposito del desiderio di Anna Maria di fare una iniezione letale a Nadia già in fin di vita: ‘‘tale siringa Anna Maria voleva iniettarla a Nadia già in fin di vita ma poiché io riuscii a farla desistere da questo intento me la consegnò’’ (interrogatorio P.G./Sica 16 marzo 1998, fol. 5). Si tratta di una affermazione che da sé smentisce l’ipotizzata dipendenza patologica della Sica dalla Botticelli in piena azione omicidiaria, proveniente dalla stessa imputata. Sta di fatto che anche altre verbalizzazioni, rese in sede di colloquio psichiatrico dalla Sica, sono oggettivamente contraddittorie rispetto all’assunto deducibile da quelle sopra criticate: ‘‘a questa verbalizzazione iniziale della Sica sono seguite in occasione dei colloqui successivi diverse versioni. La Sica è stata cioè in grado di criticare la Botticelli (ad es. non fidandosi di lei, ritenendola falsa, persona che esagerava nei racconti ecc...). In definitiva la Sica ha scelto di utilizzare le verbalizzazioni di dipendenza assoluta dalla Botticelli nel contatto iniziale con i periti ma le ha poi successivamente riprese solo in occasione dei colloqui sulla progettazione ed attuazione dell’omicidio di Nadia Roccia’’ (perizia Sica, foll. 93 e ss.).
— 1565 — (Omissis). — Sin dall’inizio le due ragazze avevano manifestata l’intenzione di far passare l’omicidio per suicidio, ve ne è profonda traccia nelle intercettazioni e soprattutto nella lettera e nella rappresentazione del ritrovamento del corpo di Nadia. Nelle captazioni Mariena parla apertamente dei fatti che si è dovuta inventare, si preoccupa dell’esito dell’autopsia e delle reazioni dei suoi interlocutori alla storia raccontata: ‘‘non c’è cioè distacco, indifferenza, distanza, disinteresse, insensibilità di marca psicotica, ma una partecipazione « naturale », quindi emotivamente elevata, intensa, sentita, preoccupata...’’ (perizia Sica, fol. 105). ‘‘Situazione ancora una volta ben distante dal quadro di indifferenza sull’esito della vicenda a noi presentato, con aspettattive quasi « miracolistiche » che il padre avrebbe provveduto a risolvere tutto’’ (perizia Sica, fol. 106). Anche per la decisione di confessare della Sica si può ripetere quanto sottolineato a proposito della Botticelli. Non vi è frattura o atteggiamento compatibile con la patologia denunciata che la giustifichi ‘‘la Sica decide di confessare non perché rivendichi la giustezza del proprio operato (come spesso avviene, ad es., nei deliranti lucidi di tipo paranoide, convinti come sono della fondatezza delle proprie ragioni e della ineluttabilità delle loro scelte), non perché indifferente, distaccata tanto per la scelta dell’omicidio commesso quanto per l’esito della propria confessione (come può fare lo schizofrenico, che rivela con assoluta indifferenza il più atroce dei delitti, immerso com’è nella dimensione irreale, psicotica del suo vissuto delirante), ma dopo aver lungamente negato, difeso la propria posizione, tremato e temuto (nell’intercettazione si legge: « stai calma, calma, dopo mi sarei calmata ») di essere scoperta. Confessa dopo una notte passata in bianco, stanca ed oramai consapevole delle contraddizioni messe in luce davanti agli investigatori ed anche per il timore — anche questo quanto mai fisiologico come il senso di colpa — che vengano coinvolte persone estranee ai fatti’’ (perizia Sica, foll. 107 e ss.). (Omissis). — ‘‘Il motivo futile non è sinonimo di motivo frivolo, sintomo di leggerezza, sebbene di stimolo assolutamente inadeguato all’azione, così lieve e sproporzionato da apparire piuttosto una scusa od un presupposto occasionale anziché come la causa determinante la condotta criminosa, la quale si manifesta in realtà come u libero sfogo di istinti criminosi’’ (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 3226 del 18 aprile 1983. rv. 158423). Così è nel senso che non necessariamente lo stimolo assolutamente inadeguato all’azione, idoneo ad integrare la circostanza di cui si discute, costituisce un motivo frivolo, e nel senso che un motivo frivolo che si accompagni al pretesto di per sé integrante l’aggravante, ne conferma l’esistenza nella sua massima gravità. Tanto è bene precisare perche nel caso di specie accanto alla pretestuosa individuazione di presunte colpe di Nadia della ragione del delitto, vi è una motivazione del delitto stesso che sfiora il frivolo. Al di là di quanto sin qui precisato, le imputate uccisero anche per gioco, e difatti si divertirono. Si pensi all’incontenuta feroce ironia che emerge dalla lettera attribuita a Nadia. In linea con quel contenuto tutti i progetti di uccisione di Nadia erano fonte di divertimento, come risulta da molte delle dichiarazioni già riportate e commentate. (Omissis). — La Corte ritiene di poter affermare, sulla scorta di quanto precede che, senza questa componente motivazionale per così dire frivola, l’azione omicida non sarebbe stata condotta nei modi indicati, che la gravità del reato è
— 1566 — enorme anche per questa componente, che da sé giustifica la sussistenza dell’aggravante dei futili motivi. — (Omissis). P.Q.M. — La Corte d’Assise di Foggia (omissis) dichiara Botticelli Anna Maria e Sica Maria Filomena colpevoli dei reati loro ascritti e condanna ciascuna di esse alla pena dell’ergastolo.
—————— (1-4)
Il lucido delirio e il futile motivo - Note in tema di imputabilità.
SOMMARIO: 1. Premessa: una pars destruens iper-argomentata ed una pars costruens ipo-motivata. — 2. La simulazione della infermità di mente ed il suo accertamento. — 3. Un improprio ‘‘onere di corretta qualificazione psichiatrica’’ della infermità allegata dalla difesa? La funzione della perizia ed il divieto di perizia criminologica. — 4. La ‘‘vetusta’’ concezione dell’infermità di mente come totale destrutturazione psichica della personalità. — 5. L’emergere della monomania omicida nella riflessione scientifica nei primi dell’ottocento e la sua successiva evoluzione storica. — 6. L’assenza o la futilità dei motivi come principale criterio di individuazione dei disturbi psichici borderline. L’‘‘ostacolo normativo’’ ai sensi dell’art. 61 n. 1 c.p.
1. Premessa: una pars destruens iper-argomentata ed una pars costruens ipo-motivata. — La decisione che si annota costituisce il primo punto di arrivo di una delle vicende giudiziarie che negli ultimi tempi maggiore eco hanno suscitato nell’opinione pubblica. L’assassinio di una giovane ragazza ad opera di una compagna di scuola e di una sua amica ha ingenerato un notevole clamore, assurgendo ben presto ad un vero e proprio ‘‘caso’’ di rilievo nazionale, oggetto dell’attenzione delle cronache durante tutto l’iter delle indagini prima e del processo di primo grado poi (1). La sentenza con la quale la Corte di Assise di Foggia ha riconosciuto la penale responsabilità delle due imputate e le ha condannate a scontare la pena dell’ergastolo è stata anch’essa al centro del dibattito successivamente sviluppatosi sui mass media, avendo suscitato clamore non solo l’entità della pena irrogata a due ventenni sino ad allora incensurate, ma altresì la recisa negazione che le peculiarità dell’episodio e la futilità dei motivi che l’avrebbero, a parere della Corte, determinato, possano aver in qualche modo inciso sulla imputabilità. Probabilmente, è nella sovraesposizione mediatica di tale vicenda la ragione delle ‘‘inusitate’’ dimensioni della decisione in commento. Essa consta di ben quattrocento pagine, delle quali la gran parte è dedicata alla dimostrazione delle falsità degli episodi dai quali si sarebbe dovuto desumere, a dire delle imputate, che queste soffrissero di seri disturbi psichici ed alla dimostrazione della piena capacità di intendere di volere delle stesse. Evidente è lo sforzo del giudicante teso ad eliminare ogni minimo dubbio sulla correttezza delle proprie conclusioni in un caso che si sapeva essere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale. Nonostante l’imponenza dell’apparato argomentativo utilizzato, esso, pur tuttavia, non appare esente da lacune e manchevolezze proprio in ordine al punto più delicato, quello relativo all’esclusione di un qualsiasi serio disturbo psichico che possa aver inciso sull’imputabilità delle due ree confesse. Per la precisione, nella sentenza in commento possono essere individuati due ben distinti ‘‘blocchi’’ argo(1) Per una ricostruzione di stampo giornalistico dell’intera vicenda, a sua volta chiaro sintomo del clamore suscitato nell’opinione pubblica dalla stessa, cfr. l’istant book DE NICOLA, Ragazzekiller, Foggia, 2000.
— 1567 — mentativi: il primo col quale si confuta la pretesa delle imputate e della loro difesa di essere affette da un rarissimo disturbo psichico, la c.d. follia a due, nel quale dovrebbe essere individuata la causa che le ha obnubilate ed indotte a premeditare ed a cagionare la morte della loro amica, ed il secondo con il quale si pretende di dimostrare la assoluta assenza di ogni pur minimo vizio di mente alla luce del complessivo comportamento, connotato da lucidità e padronanza di sé, tenuto dalle imputate prima, durante e dopo la realizzazione del fatto criminoso. Orbene, mentre la pars destruens delle motivazioni lascia scarsi margini di perplessità, la medesima cosa non può dirsi per la sua pars costruens alla luce dell’immagine dell’infermità di mente che ne è posta a fondamento. Per essa, infatti, pare che la imputabilità debba essere affermata ogni qual volta non risulti la totale destrutturazione psichica del soggetto attivo del reato, ogni qual volta il disturbo psichico che la difesa adduce essere stato all’origine dell’episodio delittuoso non si sia significativamente riverberato sul complesso della vita relazionale dell’agente. In sintesi l’infermo di mente sembra quasi debba essere restrittivamente ricondotto alla sola figura dell’alienato. Dalla decisione in questione emerge una concezione invero ‘‘vetusta’’ della tematica dell’imputabilità, tanto che essa è stata tacciata di essersi allineata ‘‘al settore più conservatore della giurisprudenza, giacché identifica ii vizio di mente, rilevante ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p. soltanto con le psicosi, attestandosi (...) sul c.d. paradigma medico, senza veruna apertura nei confronti dei più moderni paradigmi psicologico e sociologico’’ (2). In questa prospettiva si è sostenuto che una decisione di tal fatta possa essere stata emanata soltanto da chi ha una idea ormai del tutto superata di malattia di mente, ancorata ai pregiudizi ed a categorie ottocentesche in ordine al vizio di mente che non hanno oramai piu dignità nel moderno dibattito scientifico (3). Le presenti note si prefiggono il compito di analizzare partitamente le due componenti che sono state individuate nella sentenza, cercando poi di individuare le ragioni che precludono alle nostre corti di svolgere, in tema di imputabilità, argomentazioni e considerazioni che siano in linea con le più moderne acquisizioni delle scienze psicologiche e psichiatriche. In quest’ottica si porrà particolare attenzione a quelle che, alla luce della decisione in esame, risultano essere vere e proprie ‘‘barriere normative’’ ad una indagine sulla normalità del volere e dell’agire che assicuri l’ancoramento alla realtà del sapere penalistico (4). (2) Così MANNA, Diritto penale e psichiatria di fronte alla malattia mentale, di prossima pubblicazione in Rass. it. crim., p. 1 del dattiloscritto, sub nota 1. Per una ricostruzione dei diversi orientamenti giurisprudenziali in tema di infermità di mente cfr. FIORAVANTI, Le infermità psfchiche nella giurisprudenza penale, Padova, 1988. Per le più recenti evoluzioni della prassi cfr. BERTOLINO, Il nuovo volto dell’imputabilità penale dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzional-garantista, in Ind. pen., 1998, p. 367 e, quivi, p. 395 e ss.; CRESPI, Sub art. 88, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario breve al codice penale, Padova, 1999, p. 388 e ss. (3) In questo senso si esprime GALIMBERTI, Quei giurati venuti dall’800, in La Repubblica del 11 febbraio 2000, per il quale ‘‘siccome le due ragazze, a giudizio della giuria popolare composta da casalinghe e banchieri, sono in grado di intendere e di volere, la loro azione senza motivazione è perfettamente ragionevole, e allora le due devono finire immediatamente e per tutta la vita in carcere. Ma la malattia mentale, grazie a Dio, non è uno stato stabile che interdice perennemente la mente, impedendo alla persona di intendere e di volere. (...) Siccome si tratta della sorte definita di due ragazze di vent’anni non è possibile formare giurie popolari con persone competenti di come funziona la mente umana, di modo che non solo i colpevoli, ma anche i tribunali siano capaci di intendere e di volere? Perché senza competenza ogni giudizio che si emette sugli altri è un pre-giudizio’’. Considerazioni critiche sulla decisione in esame sono state altresì formulate da ZANCHETTI, Relazione al Convegno: ‘‘Emergenza criminalità e visione cristiana della pena’’, Foggia, 10 maggio 2000, il quale ha rilevato che proprio il fatto che la sentenza giudica le imputate perfettamente lucide ed integrate socialmente e, dunque, maggiormente colpevoli del delitto commesso, sembra, paradossalmente, l’espressione del meccanismo junghiano di ‘‘proiezione dell’ombra’’, nel senso che si addossa alle stesse l’intiera responsabilità del fatto-reato, liberando al contempo la collettività dal peso di una gravosa corresponsabilità sociale. (4) Di recente, individua nell’ancoramento alla realtà, tanto fisica quanto psicologica, uno dei
— 1568 — 2. La simulazione dell’infermità di mente ed il suo accertamento. — Il fatto storico che la Corte di Assise di Foggia si è trovata a dover giudicare è costituito da un omicidio premeditato realizzato ai danni della vittima N.R. ad opera delle imputate A.B., compagna di classe e di banco della persona offesa e dalla sua amica F.S., a sua volta compaesana della vittima. Le due complici, dopo aver invitato N.R. a studiare in casa di A.B., l’hanno qui strangolata attuando così un progetto da lungo tempo ideato. Tale episodio non ha peraltro costituito il primo tentativo di realizzazione dell’ideato piano omicida, atteso che vi era già stato un precedente tentativo di omicidio di N.R. mediante offerta a quest’ultima di una bibita analcolica nella quale era stato disciolto un potente pesticida, bibita che la futura vittima si è però ripetutamente rifiutata di bere. Una volta consumato l’omicidio, le due autrici hanno altresì simulato un suicidio da parte di N.R., rilasciando sul luogo del delitto una lettera di addio da loro precedentemente approntata. Ben presto però le risultanze delle indagini dimostrarono la assoluta infondatezza dell’ipotesi suicidiaria ed i sospetti si appuntarono immediatamente sulle due amiche, le uniche che erano state viste nelle ore del fatto in compagnia della vittima. Queste decisero allora di confessare sostenendo che erano state indotte a compiere l’azione criminosa dalle richieste in tal senso avanzate dal defunto padre di F.S., apparso ripetutamente in sogno a A.B. ed il quale avrebbe ripetutamente ordinato alle due amiche di uccidere N.R., quale unico modo per cementare il loro rapporto di amicizia e, soprattutto, per ottenere disponibilità finanziaria con la quale saldare i debiti contratti in vita dallo stesso, anche se in tali ‘‘sogni’’ non sarebbe mai stato delineato in maniera precisa l’iter eziologico che avrebbe dovuto legare la morte di N.R. con il conseguimento di tali risorse economiche. D’innanzi a tali ‘‘sorprendenti’’ dichiarazioni sorse il dubbio che le due ragazze fossero incapaci di intendere e di volere al momento del fatto, e di conseguenza il G.I.P., in sede di incidente probatorio, nominò tre illustri periti (proff. Nivoli, Tatarelli e Catanesi) per approfondire ed accertare tale questione. Questi ultimi conclusero per la piena capacità di intendere e di volere delle imputate al momento del fatto (p. 211 della sentenza), là dove il consulente di parte delle stesse (prof. Bruno) concluse nel senso che A.B. era affetta da un disturbo delirante che presentava caratteristiche prodromiche di schizofrenia, mentre su F.S. aveva accertato un disturbo depressivo anacritico, integrante una vera e propria succubanza psicologica nei confronti di A.B., complicato da gravi tratti caratteriali di dipendenza e di istrionismo. Ne conseguirebbe che entrambe le imputate presenterebbero un evidente quadro di ‘‘follia a due’’ e che pertanto esse sarebbero state totalmente incapaci di intendere e di volere al momento del fatto (p. 212 della sentenza). La prima parte della motivazione, dopo aver ricostruito il fatto e l’attività di indagine che ne ha accertato la realizzazione da parte delle imputate, è tutta dedicata a dimostrare la non ricorrenza della presunta follia a due e più in generale del quadro psichico che a dire della difesa avrebbe connotato la persona delle imputate al momento del fatto e che ne radicherebbe la non imputabilità. Prima ancora di analizzare e porre a confronto le diverse relazioni e conclusioni peritali, la corte pretende di desumere dalla medesime modalità realizzative del fatto delittuoso e dalla susseguente condotta, in ispecie quella tenuta nei concompiti imprescindibili della dogmatica affinché questa possa mantenere una legittima autonomia ed una funzione garantistica rispetto alla politica criminale EUSEBI, Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, relazione al Convegno ‘‘Le fattispecie dolose nel diritto penale dell’economia tra tradizioni dogmatiche e nuove prospettive di politica criminale’’, Trento, 9-10 ottobre 1998, p. 1 del dattiloscritto.
— 1569 — fronti degli inquirenti, la piena capacità di intendere e di volere delle imputate. Si afferma così, a proposito della pretesa sudditanza psicologica di F.S. nei confronti di A.B., che avendo la prima profferito frasi minacciose alla seconda qualora questa avesse confessato (come acquisito in base ad un’intercettazione ambientale), con ciò venga ‘‘liquidata ogni ipotesi di sudditanza psicologica’’ (p. 31 della motivazione). Ogni ipotesi di ‘‘condizionamento’’ psicologico viene ad essere demolita alla luce della considerazione che F.S. si dimostrava addirittura ‘‘euforica’’ a proposito del piano delittuoso ideato, come risulta dal diario di questa (p. 85 della motivazione). Non viene dato alcun credito ai pretesi sogni con apparizioni della figura paterna di una delle imputate, alla luce delle contraddizioni sui contenuti ed i particolari degli episodi onirici emergenti dalle dichiarazioni delle due ragazze (p. 199 della motivazione). Conclusivamente, si sostiene che ‘‘la complessa attività preparatoria del delitto, il contenuto della lettera lasciata sul luogo del delitto, il contenuto delle captazioni ambientali, la genesi della confessione, l’attivita di esecuzione materiale del delitto e di manipolazione delle tracce dello stesso compiuta subito dopo da esse stesse e da terzi che ora esse coprono consapevolmente (come concordato nel colloquio intercettato), gli scarichi di responsabilità che si rinvengono negli interrogatori, le contraddizioni in cui cadono nel riferire dei propri rapporti diretti od indiretti con l’uomo dei sogni, sono elementi tutti incompatibili con l’incapacità totale o parziale di intendere o di volere delle imputate al momento del fatto, quali che siano le loro attuali condizioni di salute’’ (p. 211 della motivazione). Successivamente il giudicante procede ad una ampia confutazione della tesi avanzata dal perito di parte, illustrandone le contraddizioni la insussistenza dei dati fattuali che potrebbero suffragarla e la difformità rispetto alla gran messe di altri dati fattuali incompatibili con il diagnosticato disturbo psichico. In primo luogo si osserva che il presunto stato di lucido delirio in cui sarebbero vissute le due ragazze nel periodo precedente l’omicidio non trova riscontro alcuno in quella che risulta essere stata la loro vita di relazione in quel periodo: essa si è svolta in perfetta normalità, fatta eccezione per un lieve calo di rendimento scolastico di A.B., pienamente comprensibile, per altro, alla luce dell’approssimarsi degli esami di maturità (p. 229 della sentenza). Per quanto attiene F.S. si afferma che, avendo tale imputata reso dichiarazioni minuziosissime per quanto concerne le sue azioni nella fase antecedente ed in quella concomitante con il delitto, dando luogo alla redazione di oltre quattrocento pagine di verbale, ciò è evidentemente incompatibile con il presunto stato ‘‘crepuscolare’’ in cui sarebbe vissuta a ridosso dell’omicidio (p. 238 della motivazione). Le discrepanze tra le dichiarazioni delle due imputate vengono poi ritenute una ulteriore riprova della insussistenza della tesi della follia a due avanzata dal consulente di parte (p. 244 della sentenza). Esaminate in negativo le ragioni che rendono inaccoglibili le conclusioni del consulente di parte, la Corte d’Assise di Foggia si sofferma poi sulle ragioni che in positivo militano per la condivisione della perizia d’ufficio, della quale sono ripercorsi i principali ‘‘snodi’’ e riprodotti numerosi stralci. Si ricorda così come le due imputate siano sempre apparse lucide sia ai consulenti d’ufficio che al P.M. ed al G.I.P., dimostrando sempre un pieno dominio di se (p. 254 e p. 257). Si sostiene che esse non possano aver vissuto in stato di irrealtà l’omicidio, atteso che ne ricordano a menadito tutti i minimi particolari (p. 258 della sentenza). Si rileva poi come lo psicotico e lo schizofrenico non mentono, al contrario di quanto le due imputate hanno fatto negando in un primo momento la responsabilità dell’omicidio e simulando un suicidio e che non può qui parlarsi neanche di una ipotesi di menzogna patologica atteso che il soggetto che ne soffre diventa ben presto ‘‘schiavo’’ della stessa, finendo per crederci, al contrario di quanto avvenuto nel caso di specie dove le due imputate sono sempre state consapevoli della mendacità
— 1570 — delle loro iniziali dichiarazioni (p. 266 della sentenza). È questo un punto centrale nella relazione peritale d’ufficio e nella parte della motivazione che la sintetizza. Si rileva poi come le due imputate abbiano sempre mentito con estrema freddezza, il che è incompatibile con qualsiasi tipo di psicosi (p. 269 della sentenza). Altro topos argomentativo centrale per l’esclusione di qualsiasi grado di infermità di mente è l’assoluta irrilevanza degli asseriti disturbi psichici sulla normale vita di relazione delle due imputate: ricorrente è l’affermazione che non avendo avuto i presunti episodi onirici alcun riverbero negativo sulla quotidianità delle imputate, ciò sia l’evidente riprova della insussistenza degli stessi (p. 276). Vengono poi riprodotti i passi della perizia d’ufficio da cui risulterebbe la simulazione della infermità di mente ad opera delle periziande. Si ricorda così come F.S. sin dal primo incontro abbia dichiarato di essere stata psicologicamente succuba di A.B. all’epoca dei fatti, laddove l’esperienza psichiatrica attesta che le persone psicologicamente dipendenti da altre sono molto ritrose a manifestare questa loro peculiare situazione psicologica (p. 285 delle motivazioni). Le imputate qualificano ‘‘folle’’ il proprio gesto, il che contrasta però con il comportamento del delirante lucido, il quale è pienamente convinto della fondatezza delle proprie ragioni (p. 293). Tutto ciò depone a favore della conclusione per cui ‘‘non vi è atteggiamento compatibile con la patologia denunciata’’ (p. 293 della sentenza). L’insieme delle argomentazioni sinora illustrate costituisce la pars destruens della sentenza, quella in cui viene ad essere confutata la sussistenza di una presunta ‘‘follia a due’’ in capo alle imputate. Essa appare la parte della sentenza maggiormente condivisibile, in ragione delle ampie motivazioni che la sorreggono. Per quanto sia vero come anche in questo caso il giudicante, in una ipotesi in cui si controverteva sull’esistenza di un vizio di mente, si sia pienamente uniformato alle conclusioni dei periti d’ufficio (5), ciò non è avvenuto acriticamente, limitandosi a sposarne le conclusioni, ma al contrario si è proceduto ad una ampia illustrazione delle ragioni e dei percorsi argomentativi che sorreggono l’esito cui si è pervenuti. In tal modo ci si è discostati da quel risalente filone giurisprudenziale che ritiene il giudice tenuto ad una ampia ed esaustiva motivazione in ordine alle conclusioni peritali d’ufficio solo allorché non le condivida, là dove il suo uniformarsi alle stesse non richiede alcuna argomentazione, in forza del principio di economicità, essendo sufficiente il mero rinvio ad esse (6). Tale ultimo orientamento giurisprudenziale è stato però sottoposto a penetranti osservazioni critiche in dottrina. Si è così rilevato come l’esonerare il giudice dal motivare la sua adesione alle conclusioni peritali d’ufficio significherebbe violare il fondamentale principio, sotteso all’obbligo di motivazione della sentenza, per cui l’estensore della stessa deve identificarsi con colui il quale ha formato la decisione giudiziaria, almeno nel senso che deve essere uno dei componenti il collegio che ha determinato la stessa (7). Si è altresì sostenuto che se il giudice non valutasse criticamente la perizia, la sua concordanza od eventuale dissonanza rispetto ai dati fattuali emersi in dibattimento, e si limitasse a ‘‘sposarne’’ sic et simpliciter le conclusioni, si assiste(5) BERTOLINO, L’imputabilità ed il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, p. 457 e ss., rileva come realisticamente nelle questioni relative all’accertamento della imputabilità sia il perito a ‘‘dirigere’’ il giudice e non viceversa, nel senso che al primo è di fatto attribuito il potere di pregiudicare la soluzione del caso sub judicio, essendogli in sostanza trasferita la competenza a decidere del processo. Analogamente cfr.: MONACO, Su teoria e prassi del rapporto tra diritto penale e criminologia, in Studi urbinati, 1984, p. 74. (6) In tale senso v. Cass. pen., sez. I, 7 marzo 1985, in Giust. pen., 1986, III, p. 175; Cass. pen., sez. 30 gennaio 1981, in Cass. pen., 1982, 1390; Cass. pen., 20 dicembre 1971, in Cass. pen. Mass., 1973, 382. In dottrina detta posizione è condivisa da VIROTTA, La perizia nel processo penale italiano, Padova, 1968, p. 575. (7) Per questo argomento cfr. AMODIO, Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 231.
— 1571 — rebbe ad un ritorno ad una sorta di prova legale (8). A tali considerazioni non è rimasta del tutto insensibile anche la più recente giurisprudenza di legittimità, nella quale si rinvengono decisioni per cui, là dove il giudice ritenga di condividere gli esiti peritali, ‘‘la sua adesione non deve risultare acritica e passiva, ma deve essere stata il frutto di attento e ragionato studio » (9). È nel quadro delineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità più attenta all’obbligo di motivazione che si è dunque mossa la sentenza in esame per quanto attiene alle conclusioni peritali d’ufficio, almeno per quanto concerne la confutazione della sussistenza in capo alle imputate di una presunta ‘‘follia a due ». Ben lungi dal risolversi in una acritica condivisione delle conclusioni dei periti di ufficio, si è invece, come poco sopra illustrato, passata in rassegna la intera gamma delle loro considerazioni, si sono appieno illustrati i dati di fatto posti a fondamento dell’iter logico da questi seguito e se ne è dimostrata la concordanza con le risultanze processuali. Un che di simile è avvenuto per quanto attiene alla confutazione della consulenza di parte. La Corte di Assise di Foggia non si è limitata a respingerne gli esiti in base alla incompatibilità logica con le risultanze della perizia di ufficio, come pure un certo orientamento della Corte regolatrice consente (10), ma, ut supra illustrato, ha ‘‘dissezionato’’ analiticamente la tesi in questione, evidenziandone le contraddizioni e le dissonanze rispetto ai dati acquisiti. Uno sguardo d’assieme alla prima parte di tale motivazione conduce alla conclusione che si sia d’innanzi ad un imponente sforzo argomentativo teso a dimostrare come le due imputate abbiano posto in atto una vera e propria simulazione di infermità di mente. Del resto, la simulazione del vizio di mente costituisce una delle più ricorrenti problematiche concernenti la perizia psichiatrica in ambito penale ed uno dei maggiori ostacoli ad un proficuo e corretto utilizzo della stessa. Come è stato da tempo evidenziato dalle indagini relative all’infermità di mente ed al suo accertamento, la perizia psichiatrica sconta fisiologicamente delle difficoltà e dei limiti strutturali che ne mettono seriamente in dubbio la capacità di riuscire ad essere un serio strumento diagnostico: la incongruenza temporale tra il momento della perizia e quello dello stato psichico che deve essere valutato (11), la compresenza nelle scienze psichiatriche di diversi paradigmi cui vengono ricondotti i disturbi psichici e dunque la mancanza di un concetto scientificamente univoco ed obiettivo di infermità di mente (12), l’atteggiamento ‘‘difensivo’’ dell’imputato-periziando che certo non considererà la perizia prevalentemente un mezzo terapeu(8) Così CORSO, Periti e perizia (diritto processuale penale), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, p. 89; RIVELLO, Perito e perizia, in Dig. disc. pen., IX, Torino, 1995, p. 468. (9) Cfr. Cass. pen., sez. I, 11 novembre 1993, in Mass. pen. cass., 1994, fasc. 3, 53. (10) Per Cass. pen., sez. IV, 20 dicembre 1983, in Giust. pen., 1985, III, 35, ‘‘non può ritenersi priva di motivazione la sentenza che accolga e faccia proprie le deduzioni e le argomentazium tecniche poste dal perito d’ufficio a base di un responso di natura scientifica, disattendendo le opposte considerazioni ed argomentazioni di un consulente di parte, nessuna delle quali appaia, al lume della comune logica, decisiva per ritenere erroneo il parere del perito d’ufficio, non potendosi pretendere che il giudice dia una dimostrazione superiore dell’esattezza dell’una od erroneità dell’altra delle due tesi peritali. È pertanto da ritenersi incensurabile in Cassazione la sentenza del giudice di appello che aderendo alle ragionate conclusioni del perito d’ufficio fonda la responsabilità dell’imputato prevalente su dette argomentazioni’’, e per Cass. pen., sez. I, 11 novembre 1993, in Mass. pen. cass., 1994, fasc. 3, 53 ‘‘in tema di valutazione delle risultanze peritali, quando le conclusioni del perito di ufficio non siano condivise da consulenti di parte, ed il giudice ritenga di aderire alla prime, non dovrà per ciò necessariamente fornire, in motivazione, la dimostrazione autonoma della loro esattezza scientifica e della erroneità, per converso, delle altre, dovendosi al contrario considerare sufficiente che egli dimostri di aver comunque criticamente valutato le conclusioni del perito di ufficio’’. (11) Per tale limite strutturale della perizia psichiatrica cfr., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, BERTOLINO, L’imputabilità, cit., p. 459. (12) Sulle diverse concezioni presenti nella scienza psicologica e psichiatrica e sulla conseguente
— 1572 — tico (13), sono tutti elementi che concorrono a rendere estremamente arduo il raggiungimento dell’obiettivo proprio della stessa. Di questi ostacoli la sentenza in commento ha dedicato una attenzione pressoché esclusiva all’ultimo citato, quello relativo all’atteggiamento ‘‘difensivo’’ della persona sottoposta a perizia psichiatrica. Esso costituisce indubitabilmente una delle maggiori difficoltà che si devono affrontare allorché ci si interroghi sulla capacità di intendere e di volere dell’autore di un fatto di reato. Come è stato efficacemente osservato, il periziando con il quale lo psichiatra forense viene ad interagire si comporta in maniera del tutto peculiare dato che: ‘‘a) il paziente è quasi sempre privo di libertà perché detenuto; b) il paziente ammette o nega di avere commesso un reato; c) il paziente spera di evitare (art. 88 c.p.) o di ridurre (art. 89 c.p.) la pena; d) il paziente è stato in varia misura addestrato dai suoi avvocati, dai suoi consulenti di parte e perfino da altri co-detenuti dotati di lunga esperienza giudiziaria e detentiva’’ (14). In questo contesto elevata è la possibilità di trovarsi innanzi ad una vera e propria simulazione di infermità di mente. La Corte d’Assise di Foggia ed i periti si sono dimostrati attentissimi a neutralizzare questo rischio. Nelle considerazioni dei giudici e dei consulenti d’ufficio riprese dai primi, largo spazio è assegnato alla ricerca dei sintomi che la migliore dottrina psichiatria indica quali ‘‘indizi’’ di una infermità mentale soltanto simulata. Per questa, il simulatore ‘‘inizia esibendo i propri disturbi patologici, a differenza del vero malato di mente che costantemente li dissimula o accuratamente li minimizza’’ (15), ed i periti d’ufficio prima ed il giudicante poi hanno accuratamente evidenziato ‘‘come le due imputate offrissero in modo esibizionistico ed eclatante una chiarificazione diagnostica accurata e precisa, là dove la realtà clinica attesta che nei casi di patologie cliniche di rilevanza psichiatrico forense i soggetti presentano in genere una certa discrezione, timidezza, sospettosità e titubanza e sicuramente non esibiscono, al primo approccio trattazioni ad un tempo spigliate, dettagliate e complete. Inoltre nella pratica clinica vengono descritti dai pazienti autentici soprattutto i sintomi e non tanto le conclusioni diagnostiche’’ (p. 285 della motivazione). Altra caratteristica tipica del simulatore consiste nella circostanza per cui egli ‘‘descrive deliri ed allucinazioni definendoli con i loro termini precisi ed appropriati: ora, un delirio ed una allucinazione che sono riconosciuti in maniera così esatta e cosciente dal malato cessano per ciò solo di esistere come disturbi psicopatologici’’ (16) e si è già ricordato come i periti d’ufficio e la Corte abbiano ben evidenziato come le due imputate abbiano definito ‘‘folle’’ il proprio gesto (p. 279 della sentenza), abbiano definito deliri ed allucinazioni i presunti sogni con protagonista il padre di F.S. (p. 294). Inoltre il simulatore spesso afferma di essere affetto da amnesie, ma queste ‘‘non sono uniformi, sono troppo estese e riguardano prevalentemente od esclusivamente episodi sfavorevoli a fini defensionali, mentre invece sono conservati gli aspetti vantaggiosi’’ (17), ed in uno stralcio della perizia di ufficio riprodotto nella sentenza si rileva come di fronte a pretese difficoltà a ri‘‘mobilità’’ ed incertezza che connota attualmente la categoria penalistica dell’imputabilità v., su posizioni diverse, BERTOLINO, La crisi del concetto di imputabilità, in questa Rivista, 1981, p. 190 e ss.; ID., Il nuovo volto dell’imputabilità penale, cit.; BALBI, Infermità di mente ed imputabilità, in questa Rivista, 1991, p. 844 e ss. (13) Su tale limite della perizia psichiatrica cfr. MERZAGORA, Il colloquio criminologico, in FERRACUTI (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, XIII, Milano, 1990, p. 449; INTRONA, Se e come siano da modificare le vigenti norme sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1999, p. 657 e ss., e, quivi, p. 715. (14) INTRONA, Se e come siano da modificare, cit., p. 715. (15) U. FORNARI, Psicopatologia e psichiatria forense, Torino, 1989, p. 146. (16) U. FORNARI, Psicopatologia e psichiatria forense, cit., p. 146. (17) U. FORNARI, Psicopatologia e psichiatria forense, cit., p. 147.
— 1573 — cordare fatti e circostanze, le imputate procedano poi a dichiarazioni ricche di particolari, di dettagli, dimostrandosi sempre in grado di cadenzare gli avvenimenti (p. 291 della sentenza). Infine, si è rilevato come ‘‘il simulatore quasi sempre si ammala e guarisce molto rapidamente, in correlazione con l’andamento del procedimento penale: traspare, in altre parole, il meccanismofinalistico volto ad evitare situazioni spiacevoli o dolorose o pericolose e responsabilità nei confronti del reato addebitatogli’’ (18), ed anche questa circostanza è stata riscontrata nel caso di specie, essendosi rilevato come F.S., la presunta ‘‘succuba’’, pochi giorni dopo l’omicidio, confessando dichiari di essere stata vittima di una suggestione psicologica da parte della amica, della quale ha comunque oramai preso piena coscienza, delineandosi così, a voler prestar fede a tale ricostruzione, una remissione spontanea, non farmacologicamente indotta e non determinata da modificazioni ambientali (p. 297 della sentenza). In definitiva, le oltre centocinquanta pagine della sentenza dedicate alla confutazione della diagnosi avanzata dal consulente delle imputate ed alla analisi delle conclusioni peritali d’ufficio appaiono notevolmente argomentate e coerenti. In esse non ci si limita acricamente a sposare le tesi dei periti di ufficio, ma, alla luce dell’insegnamento della dottrina e della giurisprudenza di legittimità più attente all’obbligo di motivazione ed all’esigenza di evitare surrettizi ritorni a forme di ‘‘prova legale’’, si procede ad un attenta ricostruzione dei passaggi argomentativi della perizia di ufficio, si illustrano le risultanze processuali con le quali essi si raccordano, si analizzano le tesi del consulente della difesa, se ne pongono in risalto le intime contraddizioni e le dissonanze rispetto al quadro emerso. Particolare attenzione è dedicata alla ipotesi, poi ritenuta confermata, di una simulazione di infermità di mente ad opera delle imputate. Le indicazioni dei cultori delle scienze psichiatriche e psicologiche per l’individuazione di ipotesi di simulazione del vizio di mente sono appieno valorizzate e con dovizia utilizzate, il tutto mediante un iter logico coerente e chiaramente esposto in motivazione. In sintesi, la pars destruens della sentenza, quella rivolta alla confutazione della tesi difensiva che le imputate fossero affette da una ipotesi di ‘‘follia a due’’, raro disturbo psichico riconducibile alla schizofrenia, e che pertanto le stesse non possano essere ritenute capaci di intendere e di volere al momento del fatto, risulta più che ampiamente motivata. Ciò che desta perplessità è l’impressione che la motivazione si sia a ciò limitata, che ad una pars destruens ricca ed articolata non segua una pars costruens di analoga fatta. 3. Un improprio ‘‘onere di corretta qualificazione psichiatrica’’ della infermità allegata dalla difesa? La funzione della perizia ed il divieto di perizia criminologica. — Le oltre centocinquanta pagine della motivazione dedicate alla questione della sussistenza della capacità di intendere e di volere delle imputate al momento del fatto sono tutte incentrate sulla confutazione dell’esistenza del presunto disturbo psichico di cui, a loro dire, le imputate sarebbero state affette. E nelle considerazioni della Corte, e negli stralci della perizia di ufficio, assolutamente dominante è la preoccupazione di individuare le aporie tra il presunto quadro clinico delineato dal consulente della difesa e le risultanze processuali, dedicando speciale attenzione alle contraddizioni nelle dichiarazioni rese dalle imputate che potessero attestare la simulazione dell’infermità di mente ad opera delle stesse. I giudici ed i periti di ufficio (almeno per quanto si può dedurre dagli stralci della loro relazione confluiti nella parte motiva della sentenza) si sono ‘‘limitati’’ a chiedersi se il disturbo psichico di cui le due ragazze sostenevano di essere affette al momento del fatto fosse suffragato da riscontri fattuali o se fosse in(18)
U. FORNARI, Psicopatologia e psichiatria forense, cit., p. 147.
— 1574 — vece da ritenersi essere il frutto di una mera linea difensiva. Una volta concluso in questo secondo senso, si è de plano ritenuto che le due imputate fossero pienamente capaci di intendere e di volere al momento del fatto. Il riconoscimento di piena imputabilità è stato un corollario immediato e diretto del disconoscimento della patologia denunciata. Nessuno sforzo è risultato rivolto alla individuazione di un disturbo psichico diverso da quest’ultimo e del quale le due ragazze potessero essere affette. Tale dubbio non è mai stato preso in considerazione, neppure in via di mera ipotesi, dalla Corte di Assise di Foggia e dai periti di ufficio (almeno alla luce di quella parte della loro relazione che è stata trasfusa in sentenza). Pare quasi che l’unico tipo di vizio di mente che dovesse essere preso in considerazione fosse quello da cui le imputate si dichiarassero affette e che il loro consulente avesse diagnosticato. Dal quadro appena delineato emerge chiaramente come la Corte abbia implicitamente ritenuto un onere meramente difensivo quello dell’individuazione del vizio di mente che potesse venire ad avere processuale rilievo. Nel far ciò la sentenza foggiana si è allineata a quell’invero risalente orientamento giurisprudenziale per il quale l’infermità di mente è oggetto esclusivo di un onere probatorio da parte dell’imputato (19). Detta impostazione non appare condivisibile, atteso che essa non si limita a ritenere ‘‘normale’’ il possesso della capacità di intendere e di volere da parte di una persona maggiorenne, ma ripone l’intera dimostrazione della sua insussistenza in capo alla difesa, fino a postulare implicitamente che essa abbia un ‘‘onere’’ di corretta qualificazione psichiatrica del disturbo psichico dell’imputato, il che appare in contrasto con le scelte ordinamentali in tema di onere della prova e perizia. Per quanto sia vero, infatti, che per le persone che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età si parli comunemente di ‘‘presunzione relativa di imputabilità’’ (20) col che si intende che ‘‘sarebbe eccessivo pretendere che in ogni giudizio si vada comunque alla ricerca di un ipotetico vizio di mente, anche quando non ne esista alcun indizio’’ (21), ciò non implica in alcun modo che all’imputato sia rimesso l’esclusivo onere della corretta qualificazione psichiatrica del disturbo della personalità, di modo che ‘‘il rischio dell’erroneità diagnostica’’ sia posto completamento a suo carico, nel senso che, una volta accertato che della malattia mentale individuata dalla difesa non ricorrano i principali indizi rivelatori, possa essere automaticamente affermata la piena capacità di intendere e di volere. Tale surrettizia ricostruzione di un così pregnante onere probatorio non contrasta soltanto con i connotati di fondo dell’attuale sistema processuale italiano, il quale non può certo ricondursi ad un modello accusatorio ‘‘puro’’ ed in cui rilevanti rimangono i poteri istruttori esercitabili ex officio dal giudice, col che si esclude che in esso possano trovar spazio rigorose forme di onere probatorio di pertinenza esclusiva della difesa, ma soprattutto si rivela incompatibile con l’istituto stesso della perizia e con la funzione che esso è chiamato a svolgere nel processo (22). La perizia è infatti disposta, ai sensi dell’art. 220 c.p.p., quando siano richieste specifiche competenze tecniche, scientifiche od artistiche. È il ‘‘tecnicismo’’, la particolare difficoltà (19) Per una rassegna di tale orientamento giurisprudenziale cfr. FIORAVANTI, Le infermità psichiche, cit., p. 53 e ss. L’autrice qualifica detta impostazione come dominante sino agli anni cinquanta, rilevando il suo successivo declino nella giurisprudenza più recente che ha ben distinto tra onere di allegazione dell’imputato ed un insussistente onere probatorio da parte sua. (20) Locuzione utilizzata da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, p. 290; MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 646, sostiene che la disciplina dell’imputabilità si incentra sul postulato logico dell’uomo adulto normalmente capace di libere scelte. (21) FIORAVANTI, Le infermità psichiche, cit., p. 54. (22) Sullo strumento della perizia e sugli scopi che con esso ci si prefigge di raggiungere, cfr. RIVELLO, Perito e perizia, cit., p. 468; GIANFROTTA, Sub art. 220, in CHIAVARIO (coordinato da), Commentorio al nuovo codice di procedura penale, II, Torino, 1990, p. 571 e ss.
— 1575 — di una certa questione che appare risolubile solo allo specialista in possesso di determinate cognizioni, che rende ragione dell’istituto della perizia. La risoluzione di detta questione non è per intero addossata alla difesa, come si evince da una vasta serie di indizi normativi. In primo luogo deve ricordarsi come la perizia possa essere disposta d’ufficio dal giudice, ai sensi dell’art. 508 c.p.p. (23). Un secondo ma decisivo rilievo consiste nell’osservazione che il perito nominato dal giudice non deve limitarsi ad assumere una atteggiamento meramente ‘‘reattivo’’ nei confronti delle prospettazioni avanzate dalle parti, ma, ben di più, è tenuto a svolgere una azione positiva per la risoluzione della questione connotata da peculiare difficoltà. Infatti, ai sensi dell’art. 220 c.p.p., egli deve svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni, tutte locuzioni che indicano un dovere di agire, di ricercare in proprio la soluzione al problema individuato, il che risulta pienamente confermato dalla presenza nel sistema dell’art. 228 c.p.p., il quale minuziosamente disciplina l’attività del perito (24). Del resto, che il perito nominato dal giudice non possa limitarsi alla confutazione delle tesi sostenute dal consulente della difesa e dall’imputato ma debba svolgere in proprio un’attività di indagine si desume chiaramente dalla medesima ratio dell’istituto peritale. Se con esso si intende far fronte ad una problematica la cui risoluzione appare particolarmente difficoltosa e perciò richiedente peculiari cognizioni e competenze specialistiche, il rimetterla surrettiziamente alle sole forze della difesa equivarrebbe ad esonerare la pubblica accusa ed il giudicante dalla dimostrazione di quei requisiti di punibilità il cui accertamento risulti notevolmente problematico, di modo che sarebbe delineato un singolare onere probatorio difensivo: quello attinente alle questioni maggiormente difficoltose, il che appare francamente paradossale. Da quanto appena illustrato discende che, in tema di perizia psichiatrica, compito della difesa sia quello di far emergere il dubbio che il fatto storico non sia avvenuto in situazione di normalità psichica dell’agente, visto che questa, rispetto all’uomo adulto, risulta oggetto di una ‘‘presunzione relativa’’. Non può però affermarsi che essa sia anche tenuta ad una ‘‘corretta’’ qualificazione psichiatrica del disturbo psichico dell’imputato, nel senso che sarebbe sufficiente dimostrare l’infondatezza del quadro patologico allegato per desumere la piena capacità di intendere e di volere. Occorre che i periti non si limitino, in negativo, ad una mera confutazione, ma svolgano, in positivo, una propria indagine sull’esservi o meno di un vizio di mente incidente sulla imputabilità. Di tutto ciò non vi è traccia nella sentenza in esame: per lo meno nella motivazione non è riprodotto alcun stralcio peritale nel quale vengano prese in considerazioni, anche solo al fine di confutarle, altre ipotesi di disturbo psichico diverse da quelle avanzate dalla difesa. La sentenza tace assolutamente sul punto: nessun tipo di disturbo psichico diverso dalla follia a due è preso in considerazione. Quali le ragioni di tale ‘‘carenza’’ motiva? Al di là di quei limiti che autorevole dottrina ha ravvisato in generale nel ‘‘registro usuale’’ delle motivazioni nostrane, caratterizzate da ‘‘clausole di stile’’, ‘‘lacune’’, ‘‘solo apparenti argomentazioni’’, e che discenderebbero dal fatto che ‘‘tutti, magistrati compresi, risentiamo più o meno fortemente del peso di un’idea di Stato che, proprio perché Stato, invera la razionalità. In quest’ottica la motivazione più convincente è quella che, se è così si è deciso, non poteva essere diversamente. È il contrario degli arcana imperii. È la decisione, chiaramente pubblicizzata, che conta; con la perentorietà che le discende dall’essere un atto dello Stato: Croce e Gentile e poi Spirito e poi..., (23) Su tale disposizione, v. il commento di MACCHIA, Sub art. 508, in CHIAVARIO (coordinato da), Commentario al nuovo codice di procedura penale, V, Torino, 1991, p. 392 e ss. (24) Sull’art. 228 c.p.p. v. MUSSO, Sub art. 228, in CHIAVARIO (coordinato da), Commentario al nuovo codice di procedura penale, II, Torino, 1991, p. 617 e ss.
— 1576 — ancora una volta, insegnano o, meglio, danno l’impronta ad un insegnamento’’ (25), verosimilmente un ruolo non piccolo ha giocato quella che sempre più viene avvertita come una lacuna ordinamentale: quella relativa alla perizia criminologica. La mancata considerazione di disturbi psichici diversi da quelli denunciati dalle due imputate può forse trovare una sua ragione d’essere nella non esplicitata preoccupazione che estendere il campo dell’indagine al di là di questi, richiedendo una analisi ‘‘a tutto campo’’ della personalità delle due ragazze, comportasse una violazione di quanto disposto dall’art. 220 c.p.p. 2o comma. Probabilmente, nel caso di specie, si è verificato l’opposto di quanto normalmente avviene nell’ambito dei rapporti tra perizia psichiatrica e criminologica. Se è vero, infatti, come ‘‘già oggi il divieto di perizia criminologica venga sovente aggirato con il ricorso alla perizia psichiatrica’’ (26), questo certo non è accaduto nella decisione in esame che, al contrario, riscontra un eccessivo ‘‘timore’’ ad esplorare ipotesi di disturbo psichico diverse da quelle dichiarate dalle imputate e che perciò avrebbero comportato una più approfondita indagine sulla loro personalità complessiva. Sono note le ragioni che hanno sconsigliato la introduzione nel codice di rito di tale moderno strumento di adeguamento della risposta punitiva alla personalità dell’imputato: dopo i favori ad esso rivolti dalla prevalente dottrina negli anni settanta ed ottanta (27), è succeduto un momento di revisione critica, nel quale sono prevalsi i timori relativi all’introduzione di questo nuovo strumento, consistenti nella difficoltà insita in questa tipo di indagine, nella incidenza sul suo esito dell’atteggiamento dell’imputato la cui collaborazione non è scontata, nell’effetto sfavorevole che un quadro ‘‘negativo’’ della personalità dell’imputato possa avere sul convincimento del giudice in tema di penale responsabilità del primo (28). La scelta legislativa espressa dall’art. 220 c.p.p. non ha però riscosso unanimi consensi in dottrina, essendosi ben presto levate le voci di chi lamentava che in tal modo si era rinunziato ad uno strumento che consente di dare piena attuazione al ‘‘compito di adeguamento delle sanzioni alla personalità di chi è riconosciuto penalmente responsabile ed alle esigenze di un suo recupero’’ (29), e ci si sia così ‘‘arresi’’ a che il giudizio sulla pericolosità sociale dell’infermo di mente sia rimesso al mero intuito del giudicante, senza che questi possa avvalersi di alcun supporto scientifico (30). Le riserve critiche nei confronti del divieto legislativo di perizia criminologica sembrano appieno avvalorate dall’analisi di una fattispecie concreta come quella qui esaminata. In un caso tanto oscuro, in cui si assiste ad un omicidio commesso (25) Così M. GALLO, Due cose che non piacciono (troppo), in Critica del diritto, 1999, p. 147. (26) Così si esprime GIANPROTTA, Sub art. 220, cit., p. 579. (27) Favorevoli all’introduzione della perizia criminologica si sono dichiarati CANEPA, Personalità e delinquenza, Milano, 1974; DE FAZIO, La perizia medico-legale e la perizia criminologica nel progetto preliminare del codice di procedura penale, in Quad. med. Legale, 1979, p. 119 e ss.; CORSO, Periti e perizia, cit., p. 89; GIANNITI, Prospettive criminologiche e processo penale, Milano, 1984; PONTI, Problemi medico legali e criminologici nella riforma del codice di procedura penale. La perizia criminologica, in Atti del XXVII Congresso nazionale della società italiana di medicina legale e delle assicurazioni, Milano, 1983, p. 381 e ss. (28) Individua in tali timori le ragioni che hanno sconsigliato il legislatore delegato del 1988 ad introdurre nel nostro sistema penale lo strumento della perizia criminologica, che pure non era espressamente vietata dalla legge delega, GIANFROTTA, Sub art. 220, cit., p. 578. Per una ricostruzione dell’iter legislativo e del dibattito dottrinario sotteso all’attuale formulazione dell’art. 220, 2o comma c.p.p. v. B. PANNAIN - M. ALBINO - M. PANNAIN, Il giudizio ‘‘tecnico’’ sulla personalità dell’imputato, in Studi in memoria di R. Pannain, Napoli, 1987, p. 101 e ss.; CALABRIA, Sul problema dell’accertamento della pericolosità sociale, in questa Rivista, 1990, p. 762 e ss.; G.D. PISAPIA, La perizia criminologica, in FERRACUTI (a cura di), Trattato di criminologia, cit., p. 395 e ss. (29) Si esprime in tal modo CHIAVARIO, La riforma del processo penale, Torino, 1990, p. 38. (30) Per tali critiche cfr. MANNA, L’imputabilità ed i nuovi modelli di sanzione. Dalle ‘‘funzioni giuridiche’’ alla ‘‘terapia sociale’’, Torino, 1997, p. 67 e ss.
— 1577 — per futili motivi, di fronte alla confutazione del quadro patologico descritto dalla difesa, tanto più opportuna sarebbe parsa una approfondita indagine sulla complessiva personalità delle imputate quanto meno appaiono sussistere ed aver ragion d’essere i pericoli che hanno in generale sconsigliato l’introduzione della perizia criminologica nel nostro sistema processuale. In particolar modo, il principale ‘‘limite strutturale’’ di questo tipo di perizia, il pre-giudizio che può venirsi a formare in capo al giudice nel caso in cui venga delineato un quadro negativo della personalità dell’imputato, non appare qui ricorrere, atteso che, da un lato le due imputate sono ree confesse e che, dall’altro, ben più negativo e pregiudizievole risulta essere un quadro personologico come quello che traspare dall’attuale verità processuale: due ventenni perfettamente capaci di intendere e di volere le quali hanno assassinato una loro coetanea per futili motivi. Ci pare molto improbabile che l’esito di una ipotetica perizia criminologica potesse determinare convincimenti maggiormente pregiudizievoli per le imputate. Anche da questa fattispecie concreta emerge dunque l’esigenza di una rimeditazione legislativa in tema di indagini sulla personalità dell’imputato. 4. La ‘‘vetusta’’ concezione dell’infermità di mente come totale destrutturazione psichica della personalità. — Al di là delle appena evidenziate ‘‘lacune’’ in tema di accertamento dell’imputabilità, la sentenza in commento desta la perplessità maggiore in capo al commentatore per la concezione dell’infermità di mente che in essa è presupposta. Se è vero che ogni motivazione è una fonte di indizi in ordine allo stato psicologico, a quello sociale, al livello culturale ed alle opinioni dell’autore (31), la immagine del vizio di mente che si ricava dalla decisione riflette un’opinione in ordine alla causa di esclusione dell’imputabilità di cui all’art. 88 c.p. quanto mai ‘‘vetusta’’ e distante non solo dalle più moderne acquisizioni delle scienze psicologiche e psichiatriche, ma da alcuni dei presupposti basilari che da ormai due secoli sono posti a fondamento delle stesse. La Corte d’Assise di Foggia, già al termine della ricostruzione in fatto della vicenda delittuosa oggetto della decisione, prima ancora di iniziare a considerare le tesi dei periti di ufficio e del consulente di parte, aveva affermato che le imputate, avendo confessato per mero calcolo difensivo, per ciò solo si erano dimostrate perfettamente capaci di intendere e di volere (p. 159 della sentenza), e che, più in generale, ‘‘la complessa attività preparatoria, il contenuto della lettera lasciata sul iuogo del delitto, il contenuto delle captazioni ambientali, la genesi della confessione l’attività di esecuzione materiale del delitto e di manipolazione delle tracce dello stesso compiuta subito dopo da esse stesse e da terzi che ora esse coprono consapevolmente (come concordato nel colloquio intercettato), gli scarichi di responsabilità che si rinvengono negli interrogatori, le contraddizioni in cui cadono nel riferire dei propri rapporti diretti od indiretti con l’uomo dei sogni, sono elementi tutti incompatibili con l’incapacità totale o parziale di intendere o di volere delle imputate al momento del fatto, quali che siano le loro attuali condizioni di salute’’ (p. 211 della motivazione). Tali affermazioni sembrano fondarsi sull’implicito postulato che la lucidità e la padronanza di sé nella realizzazione di un reato e nella successiva e conseguente fase delle indagini sia incompatibile con il vizio di mente di cui agli artt. 88 e 89 c.p. Tale convincimento risulta poi essere posto a fondamento anche della parte della motivazione in cui si riportano ampi stralci della perizia di ufficio per escludere categoricamente la sussistenza di qualsiasi disturbo psichico penalmente rilevante. Si nega così che possa essersi verificato alcun ‘‘fenomeno’’ psichico pecu(31) 43 e ss.
In questo senso si esprime TARUFFO, La motivazione nella sentenza civile, Padova, 1976, p.
— 1578 — liare alla luce della circostanza per cui le due imputate hanno continuato a condurre una normale vita di relazione prima, durante e dopo il delitto, ‘‘addirittura’’ iscrivendosi all’università (p. 262 e p. 274 della motivazione); si sostiene che la progettualità da esse dimostrata, la capacità di scelta e pianificazione non è conciliabile con gli stati di incertezza e di evanescenza che, a dir delle stesse, avrebbero connotato il periodo precedente il reato; si afferma che l’esser sempre stati lucidi e presenti a se stessi è incompatibile con qualsiasi tipo di psicosi (p. 269). Questa parte della sentenza non convince appieno, in quanto sembra riflettere una concezione della malattia di mente e degli ‘‘indizi’’ atti a svelarla che ben può definirsi ‘‘antiquata’’ al punto di essere superata non solo dalle evoluzioni della scienza psichiatrica ma anche nell’ambito di ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali. Per quanto attiene, infatti, alle reiterate asserzioni per cui la lucidità e la freddezza dimostrate dalle imputate nella preparazione e nella esecuzione del delitto costituirebbero quasi una sorta di dimostrazione in re ipsa della piena capacità di intendere e di volere, bisogna rilevare come in tal modo ci si rifaccia a criteri interpretativi ed argomentativi dei quali da tempo non si rinviene più traccia nella giurisprudenza (32). Il progressivo abbandono del solo paradigma medico-organicistico per l’individuazione e l’accertamento del vizio di mente escludente la punibilità e l’affiancarsi allo stesso dei più moderni paradigmi psicanalitici e sociali aveva infatti indotto il formarsi di orientamenti giurisprudenziali (33) e dottrinali (34) inclini a riconoscere anche le psicopatie ed in generale i disturbi psichici non inquadrabili con certezza nell’ambito delle ‘‘scolastiche’’ qualificazioni della manualistica psichiatrica tra i fattori che possono determinare l’incapacità di intendere e di volere. Per quanto tale nuova ‘‘sensibilità’’ non abbia certo comportato il definitivo ‘‘eclissarsi’’ dell’orientamento giurisprudenziale più ‘‘conservatore’’ che solo in presenza di un disturbo psichico con chiara sintomatologia ed a base organica riconosce il ‘‘valore di malattia’’ escludente la imputabilità ai sensi dell’art. 88 c.p. (35), essa pareva pur tuttavia aver determinato la scomparsa di quelle sentenze nelle quali la negazione del vizio di mente si fondava su apparati argomentativi di carattere ‘‘moralistico’’ afferenti la turpitudine dei motivi o le peculiari caratteristiche soggettive dell’agente, quali la scaltrezza e la lucidità nell’agire criminoso (36). Singolare appare pertanto la ‘‘riemersione’’ di tale armamentario motivazionale nella decisione in commento. (32) In tal senso v. FIORAVANTI, Le infermità psichiche, cit., p. 71. (33) Per una analisi del progressivo emergere in giurisprudenza di orientamenti inclini al superamento del solo paradigma medico-organicistico v. la più volte citata monografia della FIORAVANTI, Le infermità psichiche, cit., passim. (34) In dottrina la constatazione della insostenibilità del solo modello medico-organicistico è attualmente pressoché unanime. Ad esso viene rimproverato la sua immediata derivazione da impostazioni positiviste che, oltre ad essere del tutto superate in campo scientifico sin dall’emergere della psicanalisi freudiana, prestano il fianco a notevoli obiezioni per quanto attiene alla loro (in)compatibilità con il principio di colpevolezza. Per tali critiche: cfr., da ultimo e limitatamente alle opere monografiche, BERTOLINO, L’imputabilità ed il vizio di mente, cit., p. 411 e ss.; MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzione, cit., p. 10 e ss. Isolata in dottrina è rimasta la voce di BALDI, Imputabilità e vizio di mente, cit., p. 844 e ss., il quale propugna un radicale abbandono di ogni modello di spiegazione e di individuazione della malattia mentale diverso da quello tradizionale medico-organicistico in quanto questo sarebbe l’unico idoneo a configurare un concetto univoco di infermità di mente che sia in grado di assicurare una interpretazione ed applicazione delle fattispecie di cui agli artt. 88 e seguenti c.p. conformi al principio costituzionale di tassatività. (35) Ancor oggi minoritario viene ritenuto l’indirizzo giurisprudenziale che tende a rivendicare l’autonomia della valutazione giuridica dalle indicazioni medico-nosografiche (cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto pen., cit., p. 293). (36) Cfr. FIORAVANTI, Le infermità psichiche, cit. p. 71, per la quale caratteristiche soggettive quali la freddezza, la scaltrezza e l’astuzia dimostrate nell’azione criminosa erano intese come indizi sintomatici di una piena capacità di intendere e di volere solo nell’ambito della giurisprudenza formatasi prima degli anni sessanta, in aderenza a pregiudizi etici che non hanno più in seguito trovato ragion d’essere coll’af-
— 1579 — Ma ben altre sono le perplessità che i citati passaggi argomentativi della motivazione inducono a sollevare. Dai punti della sentenza illustrati emerge, sia pure implicitamente, una ben precisa immagine del vizio di mente che la Corte ritiene possa integrare una causa di esclusione dell’imputabilità. Per i giudici foggiani non può darsi infermità di mente penalmente rilevante che non importi una significativa alterazione della normale vita di relazione di chi ne è affetto, che non ne pregiudichi radicalmente la capacità di autocontrollo e la lucidità, che lo renda privo della capacità di confessare per mero calcolo difensivo. Al contrario, il tentativo di continuare post-delictum una vita il più possibile normale, iniziando gli studi universitari, sarebbe rivelatorio dalla più assoluta regolarità psichica. L’immagine del malato di mente che sottende le decisioni della Corte sembra essere quella del totale destrutturato psichico, colui il quale sia riconoscibile quasi ictu oculi come mentalmente insano atteso che le normali funzioni relazionali della sua psiche risultano pregiudicate, colui il quale è in tale stato di alterazione mentale permanente che non può certo pensarsi di lui che progetti razionalmente il proprio futuro iscrivendosi a corsi di istruzione superiore. La follia penalmente rilevante è quella che afferisce tutte le condotte umane, che pregiudica irrimediabilmente la possibilità di una futura vita sociale che possa essere ricondotta al paradigma della ‘‘normalità’’. Questa concezione della malattia mentale è però ormai da tempo rigettata dalle scienze psichiatriche. Proprio in sede di commento ‘‘a caldo’’ alla sentenza in questione si è evidenziato come la psichiatria sia pervenuta alla conclusione che ‘‘la follia non è uno stato permanente che impedisce di intendere e di volere, ma uno stato temporaneo di crisi’’ (37). Del resto questa è una osservazione che anche per il penalista non dovrebbe costituire certo un che di radicalmente nuovo (38). La possibilità di una follia transitoria non può certo ritenersi una nuova e recente acquisizione scientifica, non ancora ‘‘cristalizzata’’ e divenuta sapere comune al punto da poter essere utilizzata nella odierna prassi giudiziaria, atteso che essa risulta essere, al contrario, il presupposto indispensabile per il porsi stesso del tema dell’imputabilità come problema tanto a livello sostanziale quanto processuale. Se la capacità di intendere e di volere dovesse ritenersi esclusa solo nei casi di totale destrutturazione psichica dell’agente, nessuna problematicità presenterebbe la questione dell’imputabilità: essa, dal punto di vista del diritto sostanziale, sarebbe limitata a pochissimi episodi dal carattere del tutto eccezionale, e, per quanto attiene all’ambito processuale, di facilissimo accertamento (la stessa necessità di procedere ad una perizia psichiatrica dovrebbe essere negata dato che il totale destrutturato psichico è rilevabile prima facie da chiunque). Ben lungi dal costituire un tema centrale nel dibattito penalistico, essa dovrebbe essere relegata tra le questioni assolutamente secondarie in quanto statisticamente irrilevanti. Al di là dell’argomento per assurdo, deve rilevarsi come il problema penalistico dell’imputabilità sia sorto a cavallo del settecento e dell’ottocento solo quando si abbandonò il riduzionismo psichiatrico che identificava il vizio di mente con la totale destrutturazione psichica e si teorizzò la ‘‘follia parziale’’ quale causante esclusiva del crimine e non coinvolgente in maniera apprezzafermarsi delle nuove concezioni psichiatriche che riconoscevano la possibile influenza delle psicopatie sulla imputabilità. (37) Così GALIMBERTI, Quei giurati venuti dall’800, cit. (38) Cfr., sul punto, MARINI, Imputabilità, in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 255, per il quale il vizio di mente di cui agli artt. 88 e 89 c.p. non deve essere riduttivamente inteso come qualcosa di statico, di ben definito, di permanente, essendo con esso indicate anche le sole ipotesi di vizio transitorio. In tal senso si erano, del resto, espressi gli stessi lavori preparatori al codice, come ricordato da FIERRO CENDERELLI, Sulla rilevanza degli stati emotivi e passionali nell’ambito del giudizio di colpevolezza e di imputabilità, in questa Rivista 1975, p. 1348.
— 1580 — bile tutte le condotte umane dell’autore del reato (39). Solo allora sorse il problema di quali, tra i tanti e vari disturbi psichici, potessero escludere la imputabilità e dunque la punibilità. Pertanto, può a giusta ragione sostenersi che la configurabilità di uno stato di insania mentale transitorio e parziale sia ‘‘consustanziale’’ alla categoria stessa dell’imputabilità. Il ridurre il vizio di mente di cui agli artt. 88 e 89 c.p. a quello determinante una totale destrutturazione psichica della personalità del soggetto agente significa fornire una interpretazione quanto mai restrittiva di queste disposizioni al punto tale da espungere dalla loro portata quasi tutti i casi che pure vi sono comunemente riportati. La sentenza in esame appare del tutto scevra da questo genere di considerazioni. Essa, dopo aver constatato la simulazione della infermità di mente, rectius di uno specifico vizio di mente — quello allegato dalle imputate — non si fa carico della possibilità che vi siano altri disturbi psichici che possano aver giocato un ruolo non secondario nella vicenda: si ‘‘accontenta’’ della continuità dello svolgimento di una normale vita di relazione da parte delle due ragazze per affermarne la piena capacità di intendere e di volere. Eppure, la scienza psichiatrica ha da tempo evidenziato l’esistenza di vizii di mente parziali e transitori. La loro teorizzazione ha anzi costituito, come visto, uno dei ‘‘momenti fondativi’’ della moderna psichiatria forense (40) che, sin dall’inizio del XIX secolo, ha cominciato a studiare quella che era originariamente definita come ‘‘monomania omicida’’ (41). Quest’ultima costituisce un disturbo psichico che ben potrebbe, in astratto, connotare il caso in esame, punto la cui piena illustrazione richiede una sia pur sintetica disamina della ‘‘scoperta’’ di tale anomalia psichica e della successiva evoluzione del concetto nell’ambito delle scienze psichiatriche. 5. L’emergere della monomania omicida nella riflessione scientifica dei primi dell’ottocento e la sua successiva evoluzione storica. — In via di prima approssimazione può essere definita ‘‘monomania omicida’’ (42) quella follia par(39) Ricostruisce in tal modo il sorgere della moderna psichiatria quale scienza autonoma INTRONA, Se e come siano da modificare, cit., p. 657 e ss., il quale individua nelle opere di Georget J.E. apparse ad inizio ottocento il primo ed autentico approccio medico-legale, criminologico e psichiatrico-forense al tema della malattia mentale, dato che con esse si delinea, accanto al concetto di demenza quale follia totale idonea ad impregnare qualsiasi azione umana, una follia parziale, causativa solo della condotta criminosa e pur tuttavia in grado di escludere la responsabilità per la stessa. Si rinvia al citato scritto di Introna, oltre quanto sarà illustrato infra in tema di monomania omicida, per le indicazioni bibliografiche sulle opere di Georget J.E. e degli altri iniziatori settecenteschi ed ottocenteschi della moderna psichiatria forense. (40) Il sorgere della moderna scienza psichiatrica viene tradizionalmente ricondotto, come noto, a Philippe Pinel (1745-1826), che passò alla storia per aver liberato dai ceppi i malati di mente, avendo superato l’equazione malato di mente-delinquente. Fu proprio Pinel a coniare la locuzione ‘‘follia parziale’’ ed a utilizzarne ampiamente il concetto, avendo constatato che alcuni malati di mente erano in realtà ragionanti normalmente in tutto tranne che in un determinato settore, là dove erano come dominati da un vero e proprio ‘‘furore’’. Il relativo concetto era stato peraltro già utilizzato due secoli prima da Zacchia (1584-1659), uno dei ‘‘precursori’’ della moderna scienza psichiatrica, il quale già aveva rilevato come ‘‘molti malati di mente ragionano e non sbagliano che sull’oggetto della loro follia’’. Per tali informazioni di ordine storico cfr. U. FORNARI, Monomania omicida, Torino, 1997, p. 31 e ss.; MARCHETTI, Breve storia della psichiatria forense, in Riv. it. med. leg., 1986, p. 346. Per la più generale evoluzione del rapporto malato di mente società, v. FOCAULT, Storia della follia nell’età classica, Milano, 1978; CANOSA, Storia del manicomio in Italia dall’Unità ad oggi, Milano, 1979. (41) Su questo ‘‘disturbo psichico’’ v. la monografia di U. FORNARI, Monomania omicida, cit., passim. In tale opera è tracciato un approfondito quadro della ‘‘evoluzione storica’’ di questo peculiare vizio di mente, dalla iniziale ‘‘scoperta’’ ottocentesca al successivo dibattito scientifico sulla sua configurabilità e sul suo corretto inquadramento medico-clinico, nonché sui criteri del suo accertamento diagnostico. (42) Deve in questa sede osservarsi come la locuzione ‘‘monomania omicida’’ non sia più quella attualmente in uso presso i cultori di scienze psichiatriche per indicare il tipo di disturbo mentale in questione. Essa è stata sostituita da altre terminologie del cui formarsi sarà dato conto nel prosieguo, atteso che il loro stesso succedersi ed alternarsi è indice del difficile inquadramento medico-clinico del disturbo de quo, causa non ultima della sua difficile applicazione giurisprudenziale.
— 1581 — ziale, che afferisce cioè solo alcune e non tutte le condotte umane del soggetto psichicamente disturbato, che conduce all’assassinio di una o più persone travolgendo la capacità di autocontrollo dell’autore. Solo ad inizio ottocento si cominciò a dar credito alla ipotesi che alcuni casi di omicidio potessero essere ‘‘scusati’’ in quanto indotti da un vizio di mente diverso dalla ‘‘demenza’’, termine con il quale si alludeva al malato di mente che fosse oramai del tutto ‘‘alienato’’ ed irrelato dal normale contesto relazionale. Alcuni episodi di cronaca cominciarono così ad essere inquadrati in una nuova luce. Il primo caso di cui si ha storicamente notizia certa risale al 1807 allorché a Trieste due donne furono uccise da un uomo del tutto normale, tranquillo, serio e diligente, nella cui per il resto irreprensibile vita l’episodio delittuoso costituiva un unicum difficilmente comprensibile. L’autore dell’omicidio si riteneva del tutto irragionevolmente perseguitato dalle vittime per mezzo di artifici diabolici. Ciò che suscitò particolare scalpore fu la ripetuta proclamazione di essere folle da parte dell’imputato, unita alla più assoluta normalità nella condotta di vita prima, durante e dopo l’omicidio ed alla premeditazione dello stesso, le quali cose contrastavano con la tradizionale immagine del malato di mente come totalmente alienato. Dopo plurime decisioni di segno contrastante, l’imputato fu infine ritenuto infermo di mente dalla Corte Suprema di Vienna (43). Ben presto tale ‘‘nuovo’’ disturbo psichico cominciò ad essere ampiamente studiato. La psichiatria, specie quella francese, lo teorizzò ed analizzò ampiamente. Fu così individuato da Esquirol un particolare tipo di monomania, detta ‘‘intellettiva’’, caratterizzata da un disordine intellettivo su un solo oggetto, oltre al quale i malati ragionano perfettamente, di modo che da tale erroneo principio fanno derivare ‘‘logicamente’’ conseguenze delittuose. Tale tipo di mania viene accompagnato da ‘‘deliri ed allucinazioni’’ (44). Nel dibattito scientifico dell’epoca fu sostenuto che i monomani omicidi sono dominati da una ‘‘idea fissa’’, la quale è conoscibile (rendendosi conoscibile unicamente per questa via la stessa monomania) solo se essi stessi la confessano (45). Nonostante il livello di approfondimento raggiunto dalla riflessione scientifica, sul piano giurisprudenziale dovette registrarsi, dopo le prime iniziali aperture, una ‘‘inversione di rotta’’ di segno rigorista: rarissimi erano i casi in cui si perveniva a decisioni di infermità di mente in ipotesi diverse dalla totale destrutturazione della personalita (46). La ‘‘ritrosia’’ della prassi giudiziaria ad uniformarsi alle più recenti acquisizioni del dibattito scientifico del primo ottocento a proposito di ‘‘monomania omicida’’ era probabilmente da ricondursi alla vaghezza ed imprecisione di questo concetto che rendeva quanto mai labili i confini tra persone da ritenersi penalmente responsabili e soggetti incapaci di intendere e di volere ed introduceva pertanto un eccessivo coefficiente di incerteza nel sistema. Tale indeterminatezza non era a sua volta nient’altro che il riflesso in ambito penalistico della difficile delimitazione ed inquadramento di questo disturbo da parte della stessa scienza psichiatrica. Si può a buona ragione sostenere che, pressoché contemporaneamente alla ‘‘scoperta’’ di quella che fu originariamente definita monomania omicida, iniziò il dibattito in ordine a quale tipo di disturbo psichico essa fosse riconducibile e, conseguentemente, quali fossero i sintomi rivelatori della stessa. A questo proposito è dato constatare, tanto a livello sincronico quanto dia(43) Per tale vicenda e per una sua più approfondita ricostruzione storica cfr. U. FORNARI, Monomania omicida, cit., p. 27 e ss. (44) Sulle teorizzazioni di Esquirol v. U. FORNARI, Monomania omicida, cit., p. 37 e ss. L’autore rileva a p. 152 come anche per la psichiatria germanica ottocentesca la monomania fosse un mixtum compositum di idee deliranti di persecuzione e grandezza accompagnate da allucinazioni. (45) Per l’esposizione di tale posizione e per le ulteriori indicazioni bibliografiche per gli autori che le sostennero cfr. U. FORNARI, Monomania omicida, cit., p. 51 e ss. (46) Per questa constatazione v. INTRONA, Se e come siano da modificare, cit., p. 659.
— 1582 — cronico, un vivace pluralismo delle opinioni tra i cultori delle scienze psicologiche e psichiatriche. Si sono di volta in volta contesi il campo e successivamente alternatesi impostazioni che vi intravedevano forme di paranoia acuta, manifestazioni di una personalità psicopatica, casi di psicosi endogene, oppure nevrosi, psicosi, psicopatie o forme atipiche di schizofrenia: ad ognuna di queste diverse concezioni corrispondeva l’elaborazione di una diversa terminologia per indicare il fenomeno psichico in questione e l’individuazione di diversi contrassegni distintivi dello stesso (47). Ancora ai giorni nostri l’esatto inquadramento di tale disturbo psichico, per il quale la locuzione attualmente di comune uso presso i cultori delle scienze psichiatriche e psicologiche è ‘‘discontrollo episodico della personalità’’, non può certo ritenersi univoca. Esso non è caratterizzato da una sintomatologia precisa al punto da farlo inquadrare de plano nell’ambito di una delle categorie cliniche elaborate dalle scienze psichiatriche (48). Gli studi specialistici più recenti in materia sono pervenuti alla conclusione che esso sia da qualificarsi come un disturbo borderline, cioè un disturbo afferente a soggetti che normalmente si comportano in conformità alle regole e che solo occasionalmente mostrano un comportamento anomalo, e che risulta essere di ‘‘confine’’ tra varie altre più conosciute e tradizionali forme di anomalia psichica, delle quali richiama tratti ora dell’una ora dell’altra (49). Quella che era una volta conosciuta come monomania omicida presenterebbe così alcuni dei tratti peculiari di vari disturbi della personalità quali quello schizotipico, istrionico, narcisistico, antisociale (50). Essa sarebbe un disturbo borderline caratterizzato da confusioni oniriche, illusioni, allucinazioni che possono dar luogo ad un processo schizofrenico ad evoluzione cronica, connotato da assenza di rimorsi o di rimpianti (51). Il quadro appena tracciato di ciò che viene comunemente oggi definito ‘‘discontrollo episodico omicida’’ presenta, sia pure a livello di indicazioni appena ‘‘cursorie’’ (le uniche possibili in questa sede), parziali assonanze con quanto ac(47) Per l’esposizione di queste tesi si rinvia alla già citata opera monografica di U. FORNARI, Monamania omicida, cit., p. 149 e ss. (48) Del resto, non bisogna sopravvalutare la capacità della classificazione medica delle malattie, atteso che essa risponde prevalentemente ad esigenze didattico-scolastiche. Tali sistematizzazioni isolano tipi clinici ben precisi per offrirli agli studenti come esempi; ma è la stessa clinica medica a mettere in guardia lo studioso da una pretesa tassatività delle classificazioni mediche, atteso che la psicologia umana è infinita e multiforme al punto da rifiutare ogni categorico inquadramento in schemi astratti. Per tali considerazioni cfr. quanto riferito da FIORAVANTI, Le infermità psichiche, cit., p. 74. L’orientamento da ultimo prevalente nella scienza psichiatrica, infatti, rigettate forme rigide di classificazione e visioni eziologiche monocausali della malattia mentale, ne abbraccia un concetto ‘‘integrato’’, nell’ambito di un approccio multifattoriale caratterizzato dalla ricerca degli eterogenei e concorrenti fattori (biologici, sociologici, psicologici) che presiedono all’insorgere del disturbo psichico nel caso concreto. Su tali approcci multifattoriali e concezioni integrate della malattie mentale v. BERTOLINO, Il nuovo volto dell’imputabilità penale, cit., p. 379 e ss.; PONTI-MERZAGORA, Problemi dell’indagine peritale psichiatrica sull’imputato, in CANEPA (a cura di), Nuovi orizzonti della ricerca in medicina legale, Milano, 1995, p. 251; CARRIERI-CATANESI, Pschiatria e giustizia: una crisi di ‘‘crescita’’, in CERETTI-MERZAGORA (a cura di), Questioni sull’imputabilità, Padova, 1994, p. 89. Come è stato rilevato da GULOTTA, La questione imputabilità, in GULOTTA (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria, Milano, 1987, p. 126 e ss. ‘‘la tendenza in atto da parte della psichiatria è quella di ampliare notevolmente il campo degli stati psichici definibili come malattia mentale, classificando e descrivendo anche forme psicotiche prima d’ora non considerate o genericamente definite atipiche’’. Conformente a queste premesse, il più diffuso manuale diagnostico dei disturbi psichici, il DSM IV, elaborato dall’associazione statunitense degli psicologi, tradotto e pubblicato in Italia nel 1994 per i tipi della Masson, non presenta più una rigida classificazione nosografica, ma si connota piuttosto per una concezione integrata della malattia mentale. Di ciò costituisce riprova la sostituzione terminologica della più generica locuzione ‘‘disturbo psichico’’ a quella di ‘‘malattia mentale’’ (avvenuta già con il DSM III nel 1980) e con la inclusione, nel DSM IV, della categoria dei ‘‘disturbi della personalità’’ alla quale ricondurre una serie di anomalie psichiatriche che non si sa bene dove collocare. (49) Così U. FORNARI, Monomania omicida, cit., p. 193. (50) In tal senso cfr. AGUGLIA, Rilievi clinici e criminologici in tema di sindromi marginali, in Rassegna medico-forense, 1984, p. 242 e ss. (51) Cfr. U. FORNARI, Monomania omicida, cit., p. 200 e p. 215.
— 1583 — caduto nella vicenda oggetto della sentenza in esame e con il racconto fornitoci dalle autrici dell’episodio delittuoso: l’episodicità del gesto criminoso realizzato, la ‘‘incomprensibilità’’ dello stesso, gli stati di allucinazione onirica che a dire delle autrici lo avrebbero accompagnato, l’assenza di rimorsi sono tutti elementi che avrebbero dovuto indurre la Corte dauna ed i periti d’ufficio ad analizzare perlomeno la possibilità che ci si trovasse d’innanzi ad un disturbo della personalità atipico come quello appena delineato. Tutto ciò non è invece accaduto. Le ragioni di tale ‘‘omissione’’, peraltro, non sembra debbano essere prevalentemente individuate nella ‘‘inerzia’’ dei giudicanti e dai periti di ufficio, quanto piuttosto nel divieto di perizia criminologica, come visto, e nell’attuale disciplina codicistica delle cause di esclusione dell’imputabilità, la quale sembra frapporre delle a prima vista insuperabili ‘‘barriere’’ normative all’accertamento di disturbi psichici ‘‘di confine’’, dal difficile inquadramento medico-clinico. 6. L’assenza o la futilità dei motivi come principale criterio di individuazione dei disturbi psichici borderline. Lo ‘‘ostacolo normativo’’ ai sensi dell’art. 61 n. 1 c.p. — La Corte d’Assise di Foggia non si è in alcun modo domandata se in ipotesi le due imputate fossero affette da un disturbo della personalità diverso da quello ‘‘diagnosticato’’ dal loro consulente di parte. I disturbi psichici che potevano essere ‘‘presi in considerazione’’ erano probabilmente da identificarsi con quelli attinenti al fenomeno che con terminologia ottocentesca abbiamo definito ‘‘monomania omicida’’. Quest’ultimo è — come abbiamo visto — un disturbo psichico borderline, liminare a diverse altre tradizionali anomalie psichiche, che al contrario del primo sono ben conosciute e di sicuro inquadramento nosografico. Il vizio di mente che la Corte ed i periti d’ufficio avrebbero dovuto prendere in considerazione è, cioè, un disturbo psichico atipico: ma la individuazione e l’accertamento processuale di quanto fuoriesca dall’id quod plerunque accidit dei vizi di mente trova nel nostro ordinamento un ostacolo normativo non di poco peso, come vedremo. D’innanzi ad una anomalia del comportamento che richiama tratti distintivi dei più svariati disturbi psichici noti ai cultori delle scienze psicologiche e psichiatriche e sulla cui esatta delimitazione e spiegazione il dibattito tra questi è ben lungi dall’aver raggiunto condivise conclusioni, il criterio principe per l’accertamento se si sia in presenza di un quid che possa aver inciso sull’imputabilità è rappresentato dalla assenza di un vantaggio che l’agente possa conseguire dal delitto. Dalle prime teorizzazioni scientifiche in tema di monomania omicida sino ai giorni nostri è assodato che il contrassegno distintivo di questo peculiare disturbo della personalità è l’assenza di un significativo vantaggio che il soggetto attivo può sperare di trarre dal reato: ‘‘nella psichiatria moderna forense è consolidato un punto fondamentale della dottrina di Georget: il delitto è sintomo di patologia mentale quando l’autore non ricava da esso un vantaggio positivo. Infatti tutte le azioni della persona sana di mente sono finalizzate ad un vantaggio che può essere legittimo od illegittimo. Ne deriva che il buon cittadino ed il delinquente sono spinti da un interesse personale ad ottenere un vantaggio, differenziandosi il primo dal secondo quanto all’impiego dei mezzi ed alla non rilevanza penale delle conseguenze’’ (52). Consegue da ciò che assolutamente centrali per l’indagine sul vizio di mente, specie di quello atipico in quanto non riconducibile ad una chiara e precisa sintomatologia, siano l’accertamento del fatto che il delitto sia stato compiuto per un concreto vantaggio personale e se esso, tenuto conto del suo genere e della sua entità, aveva o no un motivo plausibile e proporzionato (53). Che sia (52) Così INTRONA, Se e come siano da modificare, cit. p. 659. (53) In tal senso v. INTRONA, Se e come siano da modificare, cit., p. 716. A p. 720 l’A. precisa che è questo l’indizio decisivo per l’individuazione dell’infermità di mente, atteso che tutti i malati di mente
— 1584 — l’assenza o la sproporzione dei motivo rispetto al crimine realizzato il criterio cardine cui rifarsi per l’individuazione di una sindrome atipica viene avvalorato dai più recenti orientamenti della psicologia, i quali hanno rivalutato il ruolo che gioca nell’agire umano l’elemento della ‘‘intenzionalità’’, inteso come orientamento alle conseguenze della condotta umana. Le più recenti tendenze della scienza psicologica (54) spiegano la volontà umana alla luce del concetto di intenzione: l’uomo vuole in quanto si attiva per il raggiungimento di uno scopo, il quale viene ad essere la causa psichica della sua condotta. Ciò che è volontario è tutto ciò che è finalizzato al raggiungimento di un dato obiettivo, che rende ragione e fornisce la motivazione dell’agire della persona. Non ha quindi senso parlare della volontà di una condotta avulsa dalla prospettiva che le dà causa (55). Diviene evidente, in quest’ottica, come una condotta dolosa priva di una qualsiasi ragionevole motivazione assurga al rango di un gigantesco non sense, indizio primo del suo discostarsi dalla normalità psichica del formarsi della volontà che è la radice ultima della imputabilità (56). Il principale criterio ‘‘diagnostico’’ di un disturbo psichico atipico (privo cioè di una sintomatologia rigorosamente descritta dalla scienza psichiatrica che ci permetta di inquadrarlo in una delle rigorose classificazioni cliniche elaborate da quest’ultima) è perciò rappresentato dall’analisi delle motivazioni dei gesto che si sospetta essere stato influenzato da un vizio di mente del genere. Se non risultano motivi per l’azione criminosa o questi sono palesemente sproporzionati rispetto alla stessa, ciò costituisce un importante ‘‘indizio’’ per l’accertamento di una infermità di mente incidente sulla capacità di autodeterminarsi. Ma questo tipo di indagine appare interdetta alle nostre Corti da un preciso ‘‘divieto’’ normativo, costituito dall’art. 61 n. 1 c.p. Ben lungi dal poter essere intesa ed utilizzata la futilità dei motivi come un contrassegno rivelatore di una anomala formazione del volere, secondo quanto indicatoci dalle scienza psicologiche, e per questa via come ‘‘sprone’’ per la ricerca di un eventuale disturbo psichico atipico che possa essere stata la vera ragione dell’episodio delittuoso, essa costituisce invece un’aggravante. Il legislatore non vi intravede certo un fattore di possibile esclusione della pena, ma viceversa una ragione di potenziamento della stessa. Questo è quanto puntualmente avvenuto nel caso di specie: la Corte d’Assise di Foggia ha ritenuto la sproporzione tra l’individuato movente dell’azione criminosa e la gravità della stessa integrante l’aggravante delineata dall’art. 61 n. 1 c.p. (salvo gravissimi psicotici destrutturati) ‘‘intendono’’ e ‘‘vogliono’’ ciò che fanno. Il problema è ‘‘come’’ intendono e ‘‘come’’ vogliono, cioè ‘‘come’’ essi usano le due funzioni psichiche considerate dalla norma penale. Analogamente cfr. U. FORNARI, Psicopatologia e psichiatria forense, cit., p. 126, per il quale la imputabilità deve essere esclusa nel caso di ‘‘reazioni abnormi’’, con ciò intendendosi tutto ciò che costituisce un evidente frattura rispetto all’ordinario stile di vita del soggetto, dalla breve durata e caratterizzato da una netta, chiara e rilevante sproporzione tra avvenimento casuale da un lato e intensità, tipo e durata della risposta dall’altro. (54) Ne riferisce ampiamente EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, p. 19 e ss., cui si rinvia anche per le ulteriori indicazioni bibliografiche. (55) In tal senso, molto chiaramente, cfr. EUSEBI, Il dolo come volontà, cit., p. 29. (56) Il legame tra una visione del comportamento umano come agire finalistico, caratterizzato cioè dall’intenzionalità, e la tematica della imputabilità è stato da ultimo posto in evidenza proprio da EUSEBI, Appunti sul confine tra dolo e colpa, cit., p. 42 e ss. del dattiloscritto. Sul presupposto che una condotta umana possa definirsi volontaria solo in quanto mezzo per realizzare un fine che costituisce soddisfacimento dei bisogni dell’agente, l’autore rileva che allorché essa non costituisca un mezzo per ottenere un qualsivoglia effetto autonomo dalla medesima (come sembra essersi verificato nei recenti casi di cronaca giornalisticamente noti come ‘‘lancio di sassi dal cavalcavia’’), ma sia voluta per se stessa, in forza del rischio che le è intrinseco (viene osservato come l’agente non manifesta il minimo interesse alle lesioni od ai danneggiamenti delle autovetture mediante condotte alternative), si sia in presenza di una situazione di formazione anomala del volere. L’assenza di qualsiasi prospettiva finalistica dell’azione non consente di affermare che il soggetto si trovi in quella situazione di normalità la quale contraddistingue, nel suo nucleo contenutistico, la categoria dell’imputabilità penale.
— 1585 — Per i giudici l’episodio delittuoso fu dovuto al fatto che la vittima, dopo aver promesso un viaggio in America e l’ospitalità presso un proprio zio ivi residente ad una delle assassine, non si sia in seguito adoperata per la realizzazione dello stesso (p. 334 e p. 347 della sentenza). Ciò avrebbe indotto A.B. e F.S. ad uccidere N.R., unitamente all’intenzione di saggiare in tal modo la propria velleità di potenza (p. 348) ed allo spirito ludico che le animava, atteso che ‘‘uccisero per gioco, ed infatti si divertirono, come risulta da molte delle dichiarazioni delle imputate’’ (p. 350). Tutto ciò integra, a parere della Corte foggiana, l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p., poiché il motivo futile è quello che presenta un evidente sproporzione rispetto al fatto realizzato, apparendo più un pretesto che l’effettiva motivazione della condotta criminosa (p. 345 della sentenza), la quale, in definitiva, nel caso di specie ha una motivazione ‘‘frivola’’ (p. 353). Tali motivazioni riecheggiano inequivocabilmente gli stilemi più diffusi nella prevalente giurisprudenza in ordine all’art. 61 n. 1 c.p. Nelle pronunzie del giudice di legittimità frequenti sono le asserzioni per cui ‘‘il motivo futile è quello assolutamente sproporzionato rispetto all’azione delittuosa, tanto da apparire un pretesto piuttosto che la vera causa determinante del reato, rivelatore di un istinto criminale più spiccato, da punire quindi più gravemente’’ (57) e per le quali ‘‘è futile, in sostanza, quel motivo così lieve e sproporzionato rispetto alla gravità del reato da apparire per la generalità delle persone assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa. Così che il delitto stesso non appare causato dal motivo, ma è unicamente riconducibile agli istinti criminali dell’agente’’ (58). Nell’ormai consolidato orientamento interpretativo della Corte regolatrice (59), dunque, la sproporzione del motivo rispetto alla gravità del reato conduce sì ad affermare che, pertanto, il secondo non può aver avuto causa psichica nel primo, ma ciò non induce a domandarsi se non si sia in presenza di un processo anomalo del formarsi del volere che può esser determinato da una vera e propria, per quanto atipica, infermità di mente, ma è semplicemente ritenuto fattore giustificante un aggravio di pena (60). Sembra quindi possa (57) Cass. pen., 10 febbraio 1997, in Cass. pen., 1998, 2346; Cass. pen., 14 gennaio 1997, in Cass. pen., 1998, 70. (58) Cass. pen., 22 ottobre 1990, in Cass. pen., 1992, 300; Cass. pen., 18 novembre 1982, in Giust. pen., 1983, II, 907; Cass. pen., 25 ottobre 1974, in Giust. pen., 1975, II, 598. Per una rassegna dottrinale e giurisprudenziale sull’art. 61 n. 1 c.p. v. PALERMO FABRIS, sub art. 61, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ (a cura di), Commentario, cit., p. 253 e ss. (59) In passato, non sono del tutto mancate decisioni giurisprudenziali di segno contario, le quali individuavano nella sproporzione dei motivi un ‘‘indizio’’ di infermità di mente. Per una illustrazione delle rare e risalenti pronunzie in tal senso v. FIORAVANTI, Le infermità psichiche, cit., p. 36. (60) Nettissimo in questo settore è pertanto il divario che viene a configurarsi tra la spiegazione dei comportamenti umani fornitaci dalle scienze extragiuridiche e quella delineata dal ramo penalistico dell’ordinamento. In questo punto il legislatore e la giurisprudenza sembrano essersi ispirati a quella che autorevole dottrina definì ‘‘concezione normativa’’ del diritto, consistente nell’escludere dal mondo giuridico l’indagine psicologica sul processo volitivo dovendo l’essenza dei fatti psichici essere individuata unicamente nella loro configurazione normativa. Per l’illustrazione di tale concezione v. MALIVERNI, Motivi (dir. pen.), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 298. Il chiaro autore esplicitò peraltro le ragioni che inducono oggi a ritenere superata detta impostazione, rilevando come la risoluzione delle difficoltà che si frappongono alla scienza penale è possibile solamente se si sapranno utilizzare le conoscenze forniteci dalla psicologia, ed in particolare quelle che rivelano i meccanismi motivazionali dei comportamenti. Questa ricerca consentirà di comprendere meglio le ragioni del comportamento criminoso e di apprestare quindi le tecniche pedagogicamente più adeguate per una rieducazione del reo (cfr. MALINVERNI, op. cit., p. 299). Da ultimo, in senso radicalmente critico verso ogni ‘‘tentazione’’ meramente normativista, v. EUSEBI, Appunti sul confine tra dolo e colpa, cit., p. 1 del dattiloscritto, sub nota 1, per il quale una dogmatica chiamata ad affinare i criteri applicativi tipici di una strategia di politica criminale conforme a standard elevati di civiltà deve ricostruire l’oggetto dell’intervento penalistico in modo che il reato sia recepito e valutato dal diritto secondo quanto effettivamente (sul piano della causalità come su quello della rappresentazione e della volizione) risulti accaduto e non secondo precomprensioni rispondenti a messaggi che giudici e lo stesso legislatore intendano lanciare alla pubblica opinione.
— 1586 — affermarsi che la presenza stessa nel sistema di una circostanza aggravante (61) come quella di cui all’art. 61 n. 1 c.p. sia un potente fattore ‘‘disincentivante’’ l’indagine sulla eventuale esistenza di un disturbo psichico atipico nel caso di specie. Questa latente ‘‘conflittualità’’ tra la circostanza aggravante dei futili motivi ed una concezione dell’imputabilità che riconosca la possibilità che anche vizi di mente non suscettibili di un preciso inquadramento medico-clinico possano aver influito sulla capacità di intendere e di volere, è del resto da tempo stata avvertita dalla dottrina maggiormente sensibile all’esigenza di integrale adeguamento del sistema penalistico al principio di colpevolezza. È stato così sostenuto che i giudizi di particolare riprovazione che sottendono l’aggravante delineata dall’art. 61 n. 1 c.p. ‘‘del tutto plausibili in base alla morale corrente, possono però rivelarsi privi di senso rispetto alla realtà psichica del singolo individuo, in quanto specialmente la futilità dei motivo può avere la sua radice in una grave deficienza mentale od in una provocazione lenta. Prima di ritenere sussistente l’aggravante occorre, perciò, affrontare seriamente il problema della imputabilità o del ruolo criminogeno della vittima’’ (62). Analoghe preoccupazioni sono probabilmente da rintracciarsi alla base di quell’orientamento che esclude la compatibilità del vizio parziale di mente con l’aggravante in questione, in quanto ‘‘se il motivo è l’espressione della infermità mentale, non v’è dubbio che quest’ultima deve comunque prevalere’’ (63). Queste indicazioni dottrinali, per quanto in toto condivisibili, non possono essere ritenute da sole sufficienti ad assicurare che i disturbi psichici atipici siano ricondotti tra le cause di esclusione dell’imputabilità. Ciò in quanto esse postulano, per la prevalenza della disciplina di cui agli artt. 88 e 89 c.p. su quella dell’art. 61 n. 1 c.p., che si conosca già la possibile efficacia eziologica di un vizio di mente su un dato episodio criminoso che altrimenti dovrebbe essere classificato tra quelli ‘‘futilmente’’ cagionati. Ma questa pre-comprensione è proprio quanto fa difetto per molti disturbi borderline dove è proprio la sproporzione tra movente e fatto realizzato uno dei principali strumenti diagnostici di una anomalia della psiche. Discende da quanto appena illustrato che se si vorrà fugare ogni dubbio sulla capacità di intendere e di volere degli autori di gravi delitti che abbiano apparentemente agito per ‘‘futili’’ motivi, dando così piena attuazione al principio di colpevolezza anche nel campo dell’imputabilità, dovrà essere ripensata l’intera disciplina codicistica afferente questo settore. Il caso appena analizzato sembra infatti fornire utili indicazioni nell’ambito dell’attuale dibattito sul se e come modificare la disciplina legislativa in tema di imputabilità. Come è noto, l’attuale fervere di proposte e suggerimenti in ordine alle radicali modifiche di cui necessita il nostro sistema penale (64) non ha mancato di interessare anche il delicato tema dell’im(61) Sulle circostanze v. da ultimo l’ampia ricerca di AL. MELCHIONDA, Le circostanze del reato, Padova, 2000. (62) Così MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 406. (63) MANNA, Circostanze del reato, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1993, p. 11. Nel medesimo senso si esprimono FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 386; NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 329. La compatibilità tra l’aggravante de quo ed il vizio parziale di mente è stata invece ritenuta da Cass. pen., 27 giugno 1974, in Mass. cass. pen., 1974, 281. (64) Non è certo questa la sede maggiormente appropriata per una illustrazione che possa definirsi in qualche modo esaustiva del pluridecennale dibattito su una organica riforma del sistema penale italiano attesa oramai da (troppi) anni. Pertanto, limitatamente ai progetti di un nuovo codice penale elaborati nell’ultimo decennio, cfr. il ‘‘progetto Pagliaro’’, dal nome del presidente la commissione ministeriale incaricata di formare lo schema di legge delega, pubblicato in Documenti Giustizia, 1992, 3, p. 305 e ss., nonché in PISANI (a cura di), Per un nuovo codice penale, Padova, 1993; il disegno di legge n. 2038 presentato al Senato della Repubblica il 2 agosto 1995, c.d. D.D.L. Riz dal nome del primo firmatario, pubblicato, insiema alla relazione illustrativa, in Ind. pen., 1995, p. 5 e ss. p. 680 e ss.; e la ‘‘relazione Grosso’’, dal nome del presidente la commissione ministeriale, illustrativa dei principi cui ci si atterrà nell’elaborazione di un nuovo disegno di legge delega, pubblicata in questa Rivista, 1999, p. 600 e ss., nonché,
— 1587 — putabilità (65). Di fronte ad una pluralità di voci che, lamentando la ‘‘antiquata’’ concezione dell’infermità di mente posta dal legislatore del 1930 a fondamento delle opzioni codicistiche, e sulla scia di quanto accaduto in altri ordinamenti (66), da tempo auspica un ampliamento della definizione legislativa relativa a tale concetto in grado di includervi anche le psicopatie e le altre anomalie psichiche di incerto inquadramento clinico (67), non sono mancate autorevoli voci che hanno sostenuto l’inutilità di tale modifica legislativa, in quanto la categoria legislativa di infermità di mente è talmente ad ampio e generico contenuto che già oggi è idonea a ricomprendere tutti i disturbi della personalità che le scienze psicologiche e psichiatriche via via enucleeranno nella loro evoluzione (68). Si argomenta che il sistema codicistico sull’imputabilità è imperniato su quel concetto di infermità di mente già adottato dal codice Zanardelli proprio per escludere il ‘‘recepimento’’ legislativo di precise classificazioni nosografiche, in modo da delineare sul punto un sistema giudiziario ‘‘aperto’’, sempre capace di adeguarsi alle ultime acquisizioni delle scienze extragiuridiche (69). La permanenza di tale cateunitamente ai documenti elaborati dalle sotto-commissioni e dai singoli commissari in C.F. GROSSO (a cura di), Per un nuovo codice penale II, Padova, 2000. (65) Per il dibattito che si è instaurato sui progetti di un nuovo codice penale di cui alla nota precedente, relativamente alla disciplina della imputabilità in essi disegnata, cfr. FIORAVANTI, Nuove prospettive di riforma del trattamento penale del sofferente psichico. A proposito del recente Schema di Disegno di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale, in BANDINI-LAGAZZI-VERDE (a cura di), La tutela giuridica del sofferente psichico, Milano, 1993, p. 389 e ss.; PONTI, L’imputabilità nel progetto di legge-delega per la riforma del codice penale, in Rass. it. crim., 1993, p. 103 e ss.; TAGLIARINI, L’imputabilità nel nuovo progetto di codice penale, in Ind. pen., 1994, p. 464 e ss.; MERZAGORA, L’imputabilità nel disegno di legge n. 2038 (Libro prinzo del codice penale), in Rass. it. crim., 1996, p. 227 e ss.; ARAGONABARNI-CANEPA-FORNARI-ZANZANI-INTRONA-CAVE BONDI-MERZAGORA-DE FAZIO, Per un nuovo ‘‘Libro primo del codice penale’’. Pareri medico-legali sul disegno di legge n. 2038/s del 1995, in Ind. pen., 1996, p. 810 e ss.; CARELLA PRADA-DEL VECCHIO-FERRARI DE STEFANO, Un parere medico-legale sulla nuova disciplina dell’imputabilità, in Giust. pen., 1996 II, 350; TRAVERSO-CIAPPI, Disegno di legge di riforma del Codice penale: note critiche a margine della nuova disciplina dell’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1997, p. 667 e ss.; MANNA, Imputabilità, pericolosità e misure di sicurezza: verso quale riforma?, in questa Rivista, 1994, p. 1326 e ss.; ID., Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore di reato e le prospettive di riforma, in Rass. it. crim., 1994, p. 269 e ss.; ID., Diritto penale e psichiatria, cit., spec. p. 13 e ss. del dattiloscritto, con peculiare riferimento alla ‘‘relazione Grosso’’. (66) Per le riforme che in tema di imputabilità hanno riguardato ordinamenti a noi vicini per cultura e tradizione giuridica e per la disciplina ivi vigente cfr. BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente, cit., p. 276 e ss.; BANDINI-LAGAZZI, Le basi normative e le prospettive della perizia psichiatrica nella realtà europea contemporanea: l’imputabilità del sofferente psichico, in CERETTI-MERZAGORA (a cura di), Questioni sull’imputabilità, cit.; INTRONA, Se e come siano da modificare, cit., p. 677 e ss.; MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli, cit., p. 42 e ss. e p. 203 e ss.; e, con particolare riguardo al modello tedesco, PASTI, Problemi attuali della psichiatria forense nella Repubblica federale di Germania, in FERRACUTI (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica, cit., XIII, Milano, 1990, p. 169 e ss. (67) In tal senso si sono espresse gran parte delle voci che si sono occupate da ultimo dell’imputabilità, specie in seno alla scienza penalistica, pur se non sempre esprimendosi in senso positivo sulle più ampie definizioni del concetto di infermità di mente contenute nei progetti di un nuovo codice penale presentati negli anni novanta. Cfr., ex plurimis, MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli, cit., p. 42 e ss. e p. 203 e ss.; ID., Imputabilita, pericolosità, cit., p. 1320; Aragona-Barni-Canepa-Fornari-Zangani-IntronaCave Bondi-Merzagora-De Fazio, Per un nuovo ‘‘Libro primo del codice penale’’, cit., p. 817; TRIAVERSOCIAPPI, Disegno di legge di riforma, cit., p. 669; TAGLIARINI, L’imputabilità nel progetto, cit., p. 464 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 292 e ss.; BORTONE, Semimputabilità e sistema del doppio binario, in Ind. pen., 1998, p. 439. La preferenza per definizioni legislative ‘‘aperte’’ del concetto di infermità di mente escludente l’imputabilità è ritenuta ‘‘generalizzata’’ da BERTOLINO, Il nuovo volto dell’imputabilità, cit., p. 410. (68) In tal senso si è espresso INTRONA, Se e come siano da modificare, cit., p. 720 e ss. (69) Così INTRONA, Se e come siano da modificare, cit., p. 720, per il quale ‘‘sembra invece una mera esercitazione dialettica (da aule congressuali e non da aule giudiziarie) disquisire su infermità, anomalia psichica o altra causa, perché la terminologia utilizzata dal nostro legislatore sin dal 1889 ha posto al centro del problema psichiatrico forense la capacità di intendere e di volere, espressione più esatta di quella utilizzata da altri codici. (...) Sta di fatto che la parola infermità è usata dal nostro legislatore nel codice penale, nel codice civile, in leggi previdenziali, assistenziali ecc. e la scelta di quel termine sta a significare che il giudicante non vuole essere coinvolto in disquisizioni nosografico-cliniche ma vuol solo sa-
— 1588 — goria quale cardine della disciplina dell’imputabilità anche nell’ambito del codice Rocco attesterebbe che non vi è nessun bisogno di una sua riforma per riconoscere valenza scusante anche alle psicopatie ad agli altri disturbi psichici atipici (70). Tale impostazione non appare pienamente persuasiva proprio alla luce di casi del tipo di quello considerato in questa sede. In esso ciò che osta alla indagine su una possibile anomalia psichica borderline non è certo la disciplina legislativa dettata specificamente in tema di imputabilità ma disposizioni collocate in altri ambiti ‘‘topografici’’ del codice e dalle quali pure si evince come questo sia improntato ad una visione della malattia di mente difficilmente compatibile con il riconoscimento della scusabilità di ogni disturbo psichico che possa aver influito sulla naturalistica capacità di intendere e di volere. L’art. 61 n. 1 c.p. svolge nel sistema una funzione similare a quella dell’art. 90 c.p.: come quest’ultimo esclude ogni rilevanza ai fini dell’imputabilità degli stati emotivi e passionali (71), con ciò escludendo la scusabilità di ciò che oggi viene definito psicopatia e anomalia mentale atipica, il primo esclude che possa essere utilizzato il principale strumento ‘‘diagnostico’’ di un vizio di mente del genere. Come l’art. 90 delinea una immagine del malato di mente riduttivamente inteso come alienato totale (72), analogamente è accaduto nella sentenza in esame, in cui tanta rilevanza ha assunto la futilità dei motivi per pervenire alla irrogazione della massima pena. Probabilmente dell’art. 61 n. 1 c.p. non può sic et simpliciter predicarsi la illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 27 1o comma della Costituzione come è avvenuto per l’art. 90 c.p. (73). Dell’aggravante in questione può fornirsi, pere se la infermità è tale da giustificare il riconoscimento di una pensione o per annullare un testamento o per interdire Tizio o non condannare Caio, ecc.’’. (70) Già la Bertolino, dopo aver ricordato in L’imputabilità e il vizio di mente, cit., p. 367, che il legislatore del 1889 utilizzò la locuzione ‘‘infermità di mente’’ per evitare una elencazione troppo casistica e per questo non esaustiva delle varie forme di disturbi mentali, di natura morbosa, ai quali riconoscere efficacia scusante, e dopo aver constatato a p. 378 che tra il codice Zanardelli ed il codice Rocco la disciplina sostanziale delle cause che escludono l’imputabilità per infermità di mente rimane quasi del tutto invariata per strutture e contenuti, (in senso analogo si esprimeva già DELITALA Le dottrine generali del resto nel progetto Rocco, oggi in ID., Diritto penale. Raccolta degli scritti, I, Milano, 1976, p. 320), afferma a p. 404-407 che già oggi gli art. 88 e 89 c.p. sono in grado di ricomprendere le altre gravi anomalie della personalità, come le psicopatie. Peraltro, da questo dato l’autrice non trae la conclusione dell’inopportunità di una riforma di tali disposizioni, in quanto, come rileva a p. 602 della sua monografia, la genericità del concetto di infermità di mente risulta contrastante con il principio di tassatività, configurando una vera e propria clausola generale. Per tanto viene propugnata una riforma legislativa in modo da consentire un metodo di giudizio a ‘‘doppio stadio’’: il primo di appannaggio del perito e relativo all’esistenza di un disturbo della personalità estensivamente inteso, e l’altro normativo, di competenza esclusiva del giudice, in cui questi dovrebbe determinare se ed in che modo la riscontrata anomalia psichica abbia influito sulla capacità di intendere e di volere. Tra i fautori di questo modello di disciplina dell’imputabilità cfr., oltre alla BERTOLINO, op. ult. cit., p. 665 e ss., soprattutto, PULITANÒ, L’imputabilità come problema giuridico, in AAVV., Curare e punire. Problemi e innovazioni nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale, Milano, 1988, p. 127 e ss. Condivide questa proposta anche MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli, cit., p. 49, il quale a p. 221 della citata monografia, ed in Diritto penale e psichiatria, cit., p. 7 del dattiloscritto, sviluppa tale impostazione suggerendo, in sede di auspicata riforma della disciplina dell’imputabilità, che si richieda un nesso eziologico tra l’accertata infermità ed il fatto di reato. (71) Sugli stati emotivi e passionali cfr. FERRACUTI-GIARRIZZO, Stati emotivi e passionali, in Enc. dir., XLVIII, Milano, 1990, p. 661 e ss.; FIERRO CENDERELLI, Sulla rilevanza degli stati emotivi e passionali, cit., RUGGIERO, La rilevanza giuridico-penale degli stati emotivi e passionali, Napoli, 1958; SINISCALCO, Considerazioni sugli stati emotivi e passionali e sulla loro rilevanza giuridica, in Giur. it., 1952, 329; VANNINI, Ancora sugli stati emotivi e passionali, in Riv. it. dir. penit., 1938, p. 326. (72) In tal senso v. MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli, cit. p. 18. L’A., a p. 16 rileva altresì come con tale disposizione il legislatore del ’30 intese escludere una volta per tutte e senza che residuasse più dubbio alcuno la rilevanza penalistica di ciò che i codici preunitari definivano ‘‘irresistibile impulso’’. Quest’ultima era la categoria normativa cui, come osserva U. FORNARI, Monomania omicida, cit., p. 96, era agganciato il dibattito ottocentesco sulla monomania. (73) Rileva MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli, cit., p. 37 e ss., e quivi spec. p. 44, come una volta che la concezione normativa della colpevolezza, come tale ricomprendente anche l’imputabilità, sia
— 1589 — infatti, una interpretazione che ne escluda la funzione di ‘‘sbarramento’’ rispetto ad una indagine che faccia del futile motivo un indizio di anormalità psichica. Tale sarebbe l’esegesi che ne restringesse la configurabilità rispetto alle sole fattispecie colpose (74). Se si dovesse ritenere la circostanza de qua configurabile rispetto ai reati colposi, non sarebbe necessitata la conclusione della sua illegittimità costituzionale, in un sistema improntato al pieno riconoscimento del principio di colpevolezza, in quanto preclusiva della possibilità di considerare la futilità dei motivi prezioso ‘‘strumento diagnostico’’ di un disturbo mentale atipico. Infatti, la riconosciuta rilevanza penalistica delle psicopatie e, in generale delle anomalie psichiche di incerto inquadramento nosografico, opererebbe come limite tacito della disposizione in questione, nel senso di restringerne l’applicabilità alle sole fattispecie colpose, di modo che, per quelle dolose, l’assenza o la futilità dei motivi possa essere considerata ed utilizzata come un prezioso sintomo rivelatore di un disturbo della personalità atipico. Ma, a ben vedere, la possibilità di fornire una interpretazione dell’aggravante dei futili motivi che non sia preclusiva di un’indagine volta ad accertare l’esistenza di un disturbo psichico borderline, non è esclusa neppure dalla compatibilità della stessa rispetto alle fattispecie dolose. L’attribuire all’assenza od alla futilità delle motivazioni di una azione delittuosa valore di significativo indizio per il riconoscimento che la stessa è stata, almeno in parte, determinata da un disturbo psichico, non implica necessariamente che, ogni qual volta un fatto doloso è stato posto in essere per realizzare un obiettivo sproporzionato rispetto al rango del bene sacrificato, ciò sia dovuto ad una infermità di mente. Al contrario, l’analisi criminologica attesta la possibilità di reati compiuti per il soddisfacimento di una propria egoistica esigenza immediata cui si accompagni la più totale indifferenza rispetto alla rilevanza dell’interesse pregiudicato ed alla sproporzione dello stesso rispetto a quello perseguito (si pensi agli esempi di scuola del furto commesso da persona abbiente, o a chi delinque per noia o per dimostrare la propria valentia). Peraltro — ed è quel che più rileva in questa sede — appare possibile fornire una interpretazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. che non pregiudichi la possibilità che l’assenza di motivazioni o l’evidente futilità delle stesse possano assurgere al rango di sintomi di una infermità di mente, pur non comportando ciò che si debba negare possano esservi fattispecie dolose motivate da ragioni futili. Ciò è desumibile alla luce della stessa ratio che ha indotto il legislatore ad elevare alcuni motivi del delinquere al rango di circostanze attenuanti, oggetto cioè di un giudizio di valore almeno parzialmente positivo, ed altri di circostanze aggravanti, oggetto di una valutazione di segno opposto. Come autorevole dottrina ha evidenziato, il motivo avrà qualificazione positiva o negativa a seconda che, nell’id quod plerumque accidit, esso induca a comportamenti considerati moralmente apprezzabili e socialmente utili o viceversa (75). Da ciò discende, in ordine alla circostanza aggravante in questione, che motivo futile dovrà essere considerato quello che riveli una chiara sproporzione tra l’interesse perseguito dal reo e quello pregiudicato dalla sua azione e che, in un stata (per quanto solo implicitamente) accolta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 364/1988, ne deriva l’incompatibilità con l’art. 27, 1o comma Cost. di tutte le finzioni di imputabilità presenti nel nostro codice, tra cui l’art. 90 c.p. (74) L’aggravante dei futili motivi è ritenuta pacificamente compatibile con le fattispecie dolose. La sua configurabilità rispetto alle imputazioni del fatto a titolo di colpa è maggiormente controversa: l’ammettono PALERMO FABRIS, Sub art. 61, cit., p. 254; MALINVERNI, Circostanze del reato, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 77; la nega SANTORO, Circostanza del reato (diritto penale comune), in Noviss. dig. it., III, Torino, 1958, p. 273. (75) In tal senso cfr. MALINVERNI, Motivi, cit., p. 295; BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1976, p. 498.
— 1590 — numero significativo di casi, induca a comportamenti offensivi per i beni protetti dall’ordinamento. In altri termini, il motivo che integrerà l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. (oltre, ovviamente, a quello abietto), dovrà si manifestare il significativo scarto tra l’obiettivo preso di mira dall’agente e quanto da questi sacrificato allo scopo (come nelle illustrate ipotesi di scuola), ma dovrà pur sempre iscriversi nella logica della regolarità comportamentale. Ciò in quanto solo ciò che il più delle volte (od in numero comunque non del tutto irrilevante di casi) determina una azione socialmente meritevole oppure dannosa ha ragione di essere elevato, rispettivamente, al rango di attenuante o di aggravante. Solo questa può essere la ratio criminalizzatrice del perseguimento psicologico di determinati obiettivi, atteso che solo essa risponde a logiche di stampo preventivo. Al contrario, se si ricostruisse la portata dell’art. 61 n. 1 c.p. come ricomprendente non solo il motivo sproporzionato ma anche quello del tutto estraneo all’id quod plerumque accidit, quello cioè da apparire, per la generalità delle persone, del tutto insufficiente a provocare l’azione delittuosa, e come tale rivelatore soltanto di un particolare istinto criminale dell’agente (76), ci si informa non già ad una logica di stampo preventivo ma ad una di tipo meramente neo-retribuzionistico (77), il che risulta non condivisibile atteso che, come da ultimo ricordato dalla stessa Corte costituzionale, della necessità costituzionale che la pena tenda a rieducare si deve tener conto fin dalla nascita di questa, dalla stessa astratta previsione normativa (78). Non può, pertanto, fornirsi dell’aggravante de qua una interpretazione che ricomprendendovi anche i motivi che non conducono al delitto in un numero significativo di casi, risponda a mere considerazioni di carattere retribuzionistico. Da quanto appena illustrato discende che, in forza di tutta una serie di considerazioni afferenti il finalismo sanzionatorio, le ragioni della qualificazione come attenuanti od aggravanti dei fatti psichici, il pieno riconoscimento del principio di colpevolezza, sia ben possibiie delineare una esegesi dell’aggravante de qua che eviti che essa funga da insormontabile barriera a che l’assenza o la tenuità delle motivazioni di un delitto possano ‘‘dare il la’’ ad una indagine volta ad acclarare se non si sia in presenza di un disturbo psichico atipico. Ciò dovrà avvenire qualora il fine perseguito dall’agente non solo risulti palesemente sproporzionato rispetto al bene sacrificato ma (oltre all’ipotesi in cui non sia possibile addirittura individuare alcun movente) risulti anche del tutto ‘‘singolare’’, irragionevole al punto che pressoché nessuno possa ritenersi indotto a commettere un crimine per il raggiungimento dello stesso. La rilevanza scusante delle psicopatie e dei disturbi borderline, corollario della avvenuta integrale costituzionalizazione del principio di colpevolezza, importa che l’art. 61 n. 1 c.p. sia connotato dal limite tacito rappresentato da tutti quegli iter motivazionali che non abbiano un certo tasso minimo di regolarità comportamentale, apparendo come qualcosa del tutto irragionevole ed assurda, tale da non permettere che il soggetto agente possa ritenersi es(76) Questa è la definizione di motivo futile che si riscontra in alcune decisioni giurisprudenziali. In tal senso cfr. Cass. pen., 22 ottobre 1490, in Cass. pen., 1992, 300; Cass. pen., 18 novembre 1982, in Giust. pen., 1983, II, 907. (77) Per una illustrazione ed una valutazione critica delle correnti neo-retribuzionistiche che animano il recente dibattito penalistico cfr. EUSEBI, La ‘‘nuova retribuzione’’, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 93 e ss. (78) Cfr. Corte Cost., sent. n. 313 del 1990, in Cass. pen., 1490, II, 221. Su detta sentenza v., con valutazioni differenti, DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, in questa Rivista, 1990, p. 810 e ss.; MONACO - PALIERO, Variazioni in tema di ‘‘crisi della sanzione’’: la diaspora del sistema-commisurativo, in questa Rivista, 1994, p. 421 e ss. In generale, sulla giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 27, 3o comma Cost., v., di recente, l’accurata disamina di BELFIORE, Profili della funzione rieducativa della pena nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1999.
— 1591 — sere in quella ‘‘situazione di normalità’’ che, secondo autorevole dottrina, costituisce il nucleo contenutistico della categoria dell’imputabilità penale (79). Questa è l’unica interpretazione dell’art. 61 n. 1 c.p. che, non facendone una rigida clausola di ‘‘sbarramento’’ all’utilizzo dell’assenza o della futilità dei motivi come ‘‘strumento diagnostico’’ di un disturbo della personalità borderline, risulti conforme al principio costituzionale di colpevolezza. Deve, però, rilevarsi come l’aggravante de qua sia stata in altro modo intesa dalla prevalente giurisprudenza, che non limita la sua configurabilità alle ipotesi di evidente sproporzione tra fine perseguito e bene sacrificato che siano pur sempre riconducibili alla logica dell’id quod plerumnque accidit (o per lo meno a ciò che accade in un numero non assolutamente esiguo di volte), ma che, come visto e come accaduto nella fattispecie concreta in esame, la applica anche là dove l’obiettivo preso di mira è tale da apparire del tutto insufficiente, alla generalità dei consociati, per provocare l’azione delittuosa, impedendo così che detta anomala situazione possa essere intesa come indizio di un disturbo psichico atipico. Nell’ambito del ‘‘diritto vivente’’, l’art. 61 n. 1 c.p. viene interpretato, unitamente all’art. 90 c.p., come recezione codicistica di un concetto di infermità di mente ormai superato dalla scienze psichiatriche, riduttivamente limitato ai disturbi psichici di sicuro inquadramento nosografico. Conclusivamente, si deve pertanto constatare come, al di là delle interpretazioni costituzionalmente conformi che è possibile fornire dell’aggravante de qua, essa si è rilevata, nella prassi giudiziaria, parte di una trama di disposizioni codicistiche che, al di là della ‘‘aperta’’ categoria di infermità di mente tramandatasi dal codice Zanardelli al Rocco, attestano come quest’ultimo sia improntato ad una concezione dell’anormalità psichica ormai superata dalle scienze psicologiche e psichiatriche, contrastante perciò con il principio di colpevolezza e pertanto urgentemente bisognosa di un ampio ‘‘ripensamento’’ (80). ENRICO INFANTE Dottorando di ricerca in Diritto penale Università degli Studi di Trento
(79) Cfr. M. ROMANO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano 1996, sub art. 85, p. 13. (80) Per una prima valutazione (almeno in parte critica) sulle proposte avanzate nella c.d. relazione Grosso in ordine al tema dell’imputabilità ed alle misure ivi previste per i soggetti autori di fatti di reato che risultassero non imputabili cfr. MANNA, Diritto penale e psichiatria, cit., p. 13 e ss. del dattiloscritto. Sul medesimo aspetto v., altresì, PAVARINI, L’imputabilità e il sistema delle pene, in Critica del diritto, 1999, p. 447.
TRIB. MONOCRATICO FOGGIA, sentenza I grado 10 maggio 2000, depositata 24 maggio 2000 Pret. Lucia Navazio — P.M. Dentamaro — Imp. Gesualdi e Rinaldi Omicidio colposo - Colpa professionale - Imperizia - Nesso di causalità. L’errata diagnosi di una malattia non porta automaticamente ad un giudizio di responsabilità per colpa in capo ai medici curanti, infatti, per acclarare la loro responsabilità è necessario effettuare una prognosi postuma ex ante ed astratta al fine di valutare se il reale decorso della malattia fosse prevedibile alla stregua della figura dell’agente modello. Da ciò scaturisce che l’assenza di una condotta alternativa che i medici curanti avrebbero dovuto tenere per evitare l’evento, dimostra l’assenza di qualsiasi profilo di responsabilità (1). La sentenza così motiva: ‘‘A seguito di richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal P.M. presso la Pretura Circondariale di Foggia, in data 12 marzo 1999, Gesualdi Sergio e Rinaldi Antonia sono tratti dinanzi al tribunale di Foggia, in composizione monocratica, per rispondere del reato loro ascritto in epigrafe. Con distinti atti depositati il 3 maggio 1999, ritualmente notificati, dichiarano l’intenzione di costituirsi parte civile Vivoli Aquilino Antonietta, madre del defunto Casarella Gianluca, Casarella Matteo, Casarella Francesca, Casarella Giuseppe e Casarella Rocco. Questi ultimi rispettivamente padre e fratelli di Casarella Gianluca; costituzione successivamente ammessa. All’udienza del 20 aprile 2000 gli imputati personalmente avanzano richiesta rito abbreviato, in ordine alla quale la parte civile si oppone, ritenendo il procedimento non definibile allo stato degli atti. Considerati gli elementi probatori già acquisiti agli atti, e, tra questi, in particolare la cartella clinica di Casarella Gianluca oggetto di sequestro da parte del P.M. in data 1o marzo 1996 presso l’ASL FG/3 ospedale ‘Colonnello D’Avanzo’ di Foggia; l’autopsia eseguita su incarico del P.M. del 14 marzo 1996, la c.t.u. disposta nella fase delle indagini con incidente probatorio, ammesso con ordinanza del G.I.P. il 9 dicembre 1996, il Giudice, ritenuta la decidibilità del procedimento, dispone che lo stesso prosegua con rito abbreviato. All’udienza del 10 maggio 2000, svoltasi alla presenza degli imputati e delle parti civili, udite le conclusioni rassegnate dalle parti, come riportate in epigrafe, il procedimento è definito con sentenza. Rileva il Giudicante che all’esito del giudizio non si evince la sussistenza di una condotta colposa ascrivibile ai prevenuti, idonea a cagionare la morte del Casarella, in tal senso le conclusioni rassegnate non soltanto dalla difesa degli imputati, ma anche dal P.M., che ha concluso richiedendo Pronuncia di assoluzione degli imputati con formula piena. Dall’esame della cartella clinica alla quale sono allegati tutti i referti delle indagini diagnostiche effettuate, si evince che Casarella Gianluca in data 5 marzo 1996 viene ricoverato presso l’ospedale ‘D’Avanzo’ di Foggia, dove viene, tra l’altro, riscontrato ‘uno stato febbrile (temperatura 38,5 gradi centigradi) e Tosse
— 1593 — prevalentemente secca’. Nella cartella clinica è altresì riportato l’esito di un rx torace, effettuato dal Casarella in data 22 febbraio 1996, che evidenziava ‘un tenue addensamento parenchimale in ilo-parailare inferiore sx’. In data 6 marzo 1996 è ripetuto l’esame radiologico, che evidenzia eguale ispessimento, indicando la presenza a un ‘quadro sovrapponibile al precedente del 22 febbraio 1996’. Il 6 marzo 1996 sono effettuati esami ematochimici, che segnalano un aumento dei valori VES, del sodio del potassio e delle transaminasi, mentre i valori dei globuli bianchi e dei globuli rossi rientrano nella norma. Continuando ad esaminare la cartella clinica, avvalendosi anche delle considerazioni medico-legali del c.t.u. Prof. Strada, rileva il giudicante che la formula leucocitaria del 6 marzo 1996 mostra dei valori normali e che il tracciato ECG, di cui non si rileva la data, è da considerare anch’esso aspecifico, mostrando solo alterazioni della ripolarizzazione in sede inferiore’. In data 7, 8, 9 marzo sono eseguiti controlli clinici che evidenziano il 9 marzo 1996 un ‘miglioramento clinico’, riscontrato come ‘persistente’ nel corso della visita dell’11 marzo 1996. In data 12 marzo 1996 alle ore 5.50 viene constatata assenza di attività cardiaca e respiratoria nel Casarella, rinvenuto dagli infermieri ‘a letto in atteggiamento come di sonno’. Precisa il c.t.u. che il Casarella passò ‘dal sonno alla morte senza accorgersi di nulla in seguito ad una crisi cardiaca (fibrillazione ventricolare)’. Non può trascurarsi che, così come ha pure riferito il Gesualdi dinanzi al Giudicante rendendo dichiarazioni spontanee, non soltanto il quadro diagnostico non appariva preoccupante, ma il paziente mostrava di versare in una condizione più che vitale, atteso che fino alla sera prima del decesso egli aveva passeggiato e si era trattenuto a giocare a carte con gli altri pazienti. Le cause del decesso all’esito dell’autopsia sono individuate nella ‘‘miocardite acuta interstiziale purulenta, in paziente affetto da tubercolosi caseosa polmonare’. Le patologie, riscontrate appunto all’esito dell’autopsia, non risultano diagnosticate dai medici curanti i quali ‘hanno evidenziato il processo pneumonico ed hanno curato questo solo, ma deducendo che esso fosse batterico c/o virale e suscettibile di trattamento antibiotico a largo spettro di azione e non che esso fosse tubercolare con caseosi e non hanno evidenziato e/o potuto evidenziare segno e/o sintomatologia dell’impegno miocardico acuto che si realizzava e che è stato causa di morte’. Partendo dai dati obiettivi raccolti in sede di autopsia, il c.t.u. aderisce alle conclusioni del consulente del P.M., individuando la causa del decesso nell’‘arresto cardiocircolatorio improvviso in corso di miocardite acuta interstiziale linfogranulocitaria associata a patologie polmonari ed epatiche preesistenti che si sono complicate per sovrapposizione di flogosi settica aspecifica’. Occorre a tal punto considerare, alla luce dei dati obiettivi innanzi riportati, la condotta tenuta dai sanitari e valutare se, secondo la diligenza richiesta a medici specializzati, la patologia causa dell’evento, cioè la miocardite aspecifica, era diagnosticabile in epoca precedente all’exitus, se vi è nesso causale tra condotta tenuta dai sanitari ed il decesso del Casarella. Ovviamente sul punto possono fare chiarezza solamente le considerazioni tecniche operate da altri sanitari, di cui vi e abbondanza in atti e di cui si dirà in prosieguo. Riguardo alla possibilità di diagnosi afferma il c.t.u., con riguardo alla mio-
— 1594 — cardite aspecifica, che non può dirsi in quale momento del ricovero essa si sia instaurata o se era preesistente al ricovero stesso, ma in forma iniziale. ‘Tali patologie — afferma il Prof. Strada — non danno alcun segno elettrocardiografico particolare, mentre possono essere presenti alcuni sintomi aspecifici (un aumento del ritmo, aritmie, disturbi della conduzione, riduzione dei voltaggi, alterazioni del tratto ST), che comunque non consentono di prospettare una diagnosi. Nel caso specifico il tracciato presente in cartella non indirizza verso un tipo di patologia specifica infiammatoria’. Quanto attiene alla patologia polmonare, continua Strada ‘i reperti radiografici polmonari all’ingresso non sono significativi di un processo acuto di tipo specifico, ma segnalano solo un addensamento paraillare inferiore sinistro. La VES indica un quadro di infiammazione aspecifica mentre la formula leucocitaria è del tutto negativa’. Evidenziato dal c.t.u. che la situazione apparente, anche desumibile dall’esito degli esami diagnostici ed ematochimici, giustificava da parte dei medici la valutazione di miglioramento delle condizioni del Casarella, emerge come l’insorgenza della miocardite sia stata subdola, e la mancata diagnosi ascrivibile non ad imperizia del medici curanti, ma ad una situazione diagnostica e clinica, che lasciava fondatamente ritenere conseguito da parte del paziente un miglioramento (si pensi che l’andamento febbrile era nel senso di un miglioramento, poiché la temperatura era scesa dai 38 gradi del momento del ricovero ai 36 gradi). In presenza del quadro diagnostico e clinico apparente, ‘di fronte a le risposte del laboratorio’ dice il c.t.u. ‘la terapia iniziata con la somministrazione di antibiotici e mucolitici appare giustificata’: non viene, dunque, individuata alcuna condotta alternativa che i medici curanti, in presenza del quadro diagnostico e clinico descritto, avrebbero dovuto tenere per evitare l’evento, nell’osservanza dei canoni di diligenza e perizia ad essi assegnati per la condizione specifica di medici specialisti. Nel capo di imputazione si ipotizza una responsabilità dei sanitari, ciascuno per individuale condotta colposa, consistente nell’omessa effettuazione ‘di ripetute ed adeguate indagini diagnostico-laboristiche’ e nel difetto di corretta interpretazione dei ‘dati sintomatologico clinico strumentali acquisiti, non approntando di riflesso adeguata terapia’. Le considerazioni innanzi riportate, acquisite dalla valutazione dell’elaborato peritale a carattere tecnico scientifico, hanno invece dimostrato come il Casarella fu quotidianamente seguito, gli esami diagnostici furono compiuti, fu approntata una terapia adeguata alle risultanze diagnostiche che mostravano un miglioramento apparente delle condizioni organiche, mentre in concreto la situazione peggiorava. Ai medici curanti, pertanto, non può ascriversi alcuna condotta colpevolmente omissiva, visto che i sanitari sottoposero il Casarella a visite ed accertamenti diagnostici nonché alle terapie adeguate all’esito degli accertamenti diagnostici ed alle, purtroppo solo apparenti, condizioni generali del paziente, il cui miglioramento giustificava l’omessa ripetizione delle indagini diagnostiche già compiute. Secondo la parte civile la miocardite poteva essere diagnosticata da indagini ulteriori che andavano eseguite all’esito delle anomalie evidenziate dall’elettrocardiogramma. Il punto sostenuto dalla difesa di parte civile, non viene in realtà sviluppato nella c.t. di parte civile, limitandosi il Prof. Albarello a riferire che ‘gli accertamenti radiologici, elettrocardiografici ed ematochimici avevano documentato elementi francamente patologici, che avrebbero dovuto suscitare nei sanitari una
— 1595 — maggiore attenzione specialistica’. Così come lo stesso P.M. ha indicato nel corso della requisitoria, il Prof. Albarello, ma neppure il dr. Silvestri ed il Prof. Di Mimmo, pure consultati dalla p.c., non indica le anomalie nei risultati diagnostici che avrebbero dovuto determinare i medici curanti a compiere diversi esami diagnostici e/o ripetere gli esami già fatti, né indica quali altri esami dovevano essere eseguiti. Sul punto è sicuramente più preciso il c.t.u., il quale afferma, come peraltro già innanzi riportato, ‘il tracciato presente in cartella non indirizza assolutamente verso un tipo di patologia specifica infiammatoria, né consente di sospettare disturbi di altro genere tanto da richiedere un ecocardiogramma, che, forse, avrebbe consentito di far prospettare una diagnosi’, così da far ritenere al Giudicante che le patologie non erano prevedibili anche da parte dei medici specializzati che avevano in cura il giovane, e, conseguentemente prevenibili. Altro punto sul quale la p.c. sofferma la propria attenzione è costituito dalla somministrazione nel Casarella del Deltacortene, farmaco immunodepressivo in soggetto, afferma la p.c., già fortemente debilitato. Sul punto si osserva che è prassi medica presso il D’Avanzo somministrare l’indicato farmaco in aggiunta alla cura antibiotica; che il Casarella non risultava soggetto immunodepresso, anche alla luce degli esami ematochimici, in cui valori, quali ad es. l’emocromo, risultavano nella norma. Si rileva inoltre che nessuna indicazione medico-legale agli atti pone il detto farmaco in nesso causale con l’evento. Occorre soffermarsi sulla perizia autoptica, disposta dal PM, ritenuta dalla p.c. elemento a sostegno della responsabilità degli imputati. L’attento esame dell’elaborato porta invece, a parere del Giudicante, all’opposta soluzione. Il dott. Castriota afferma ‘È sostanziale e appariscente la discrepanza tra patologie evidenziate al tavolo autoptico ed annotazioni cliniche e sintomatologia riportata in cartella clinica’. La considerazione, va letta, però, alla luce di altre considerazioni, che pure il dott. Castriotta fa nel corso del proprio elaborato. Egli afferma, peraltro commentando uno per uno gli esiti degli esami cui fu sottoposto il Casarella, che i reperti obiettivi strumentali al ricovero, quello radiografico ed elettrocardiografico, erano ‘per la loro espressività ed intensità... non significativi per una tubercolosi con caseosi... e per una miocardite acuta, ... tutte e due assolutamente non indicativi della gravità e dell’efficienza morbigena e tanatogena, che poi si è evidenziato, avevano’. Tali considerazioni valgono a far ritenere che le conclusioni del medico in sede autoptica e del c.t.u. siano del tutto coincidenti. Anche il Dott. Castriota riferisce che ‘un processo miocardico acuto per lo più si esprime con sintomatologia clinica lamentata dal paziente e con semeiotica obiettiva e strumentale del tutto apprezzabile ed indicativa’, situazione che nel caso del Casarella mancava; ‘la miocardite acuta interstiziale purulenta è processo patologico oggi inconsueto e per lo più accompagnato da sintomatologia clinica settica apprezzabile e palese’. Tali annotazioni, considerate alla luce delle conclusioni rassegnate dal c.t.u. in ordine alla adeguatezza della condotta tenuta dai sanitari, sulla base dei referti degli esami diagnostici ed ematochimici, oltre che dallo stato generale apparente del Casarella, fanno ritenere con elevato grado di certezza al Giudicante, condividendosi la prospettazioni dei fatti compiuta dal P.M., che ai sanitari non può essere addebitata alcuna imperizia, né negligenza nell’aver omesso di tenere condotte alternative che potevano essere individuate ex
— 1596 — ante, utilizzando quei parametri di conoscenze propri dei medici specializzati, idonee ad impedire l’evento. P.Q.M. — Visto l’art. 530 c.p.p. assolve Gesualdi Sergio e Rinaldi Antonia dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste’’. (1)
Aporie e contraddizioni in tema di colpa professionale.
SOMMARIO: 1. La descrizione dell’evento. — 2. Il requisito della prevedibilità. — 3. Il requisito dell’evitabilità. — 4. Il nesso causale. — 5. Conclusioni.
1. La descrizione dell’evento. — La sentenza in commento (1) s’inserisce in un ormai consolidato filone giurisprudenziale che ravvisa gli estremi della colpa nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento (2). Tale impostazione è pressoché dominante anche in dottrina (3), la quale attentamente aggiunge che il giudizio di prevedibilità-evitabilità debba essere effettuato su di un evento ridescritto, cui debbono essere inseriti quegli accadimenti ed aspetti ripetibili, mancando i quali si dovrebbe affermare che l’evento del tipo previsto dalla norma non si sarebbe verificato hic o non si sarebbe realizzato nunc (4). La descrizione dell’evento è operazione che condiziona il giudizio di prevedibilità (5), si può sostenere, infatti, che tale giudizio sia direttamente proporzionale all’ampiezza dell’evento descritto. Una volta identificato l’evento in maniera generica, senza alcuna specificazione degli antecedenti causali e delle modalità concrete di realizzazione, il giudizio di prevedibilità risulta ‘‘annacquato’’ fino a perdere la propria funzione di delimitazione della responsabilità colposa (6). A riprova di quanto sin qui sostenuto è opportuno soffermarsi sulla funzione delle regole di diligenza. Queste ultime non azzerano tutti i rischi insiti nelle azioni umane, ma hanno il compito di contenere il rischio all’interno di determinati parametri tollerati dall’ordinamento. Se ciò è esatto si deve di conseguenza ammettere che non tutti gli eventi possono essere impediti dalla norma cautelare, ma solo quelli che rientrano (1) Tribunale Foggia, sentenza 10 maggio 2000 n. 837. (2) Cass. pen., 20 gennaio 1986, in Foro it., Rep. 1987, voce Reato in genere, p. 43; Cass. pen., 10 dicembre 1982, ivi, Rep. 1984, voce cit., p. 50; Cass. pen., 17 novembre 1980, in Riv. pen., 1981, p. 669; Cass. pen., 18 settembre 1991, in ivi, 1991, p. 669; Cass. pen., 27 gennaio 1986, in Cass. pen., 1987, p. 1547; Cass. pen., 9 luglio 1962, in Giust. pen., 1963, p. 58; Cass. pen., 6 dicembre 1990, in Foro it., 1992, II, p. 36; Cass. pen., 27 febbraio 1987, in Cass. pen., 1988, p. 1712; Pret. Pordenone, 7 luglio 1992, in Foro it., 1992, II, p. 720; Pret. Crema, 12 febbraio 1996, in Giust. pen., 1996, II, p. 376. (3) GALLO, Colpa penale, in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1960, p. 637 ss. L’A. riconosce che la rappresentabilità e la prevedibilità dell’evento, abbiano la funzione di criteri individuatori della diligenza, prudenza e perizia dovute, e quindi del carattere colposo dell’azione. MARINUCCI, Colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1975, p. 174 ss. L’A. individua nella rappresentabilità ‘‘il canone logico fondamentale per la concretizzazione delle regole di condotta e la forma base e la matrice principale delle norme preventive’’. MANTOVANI, Colpa, in Dig. discipl. pen., vol. II, Torino, 1988, p. 307. Contra GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in questa Rivista, 1999, p. 94. L’A. riconosce alla prevedibilità ‘‘l’indubbio merito di cogliere il modus procedendi attraverso cui la regola cautelare viene concepita sotto il profilo della sua verità esperenziale e della sua efficacia preventiva’’, attribuisce a quest’ultima la ‘‘funzione di ponte tra le conoscenze causali disponibili e l’efficacia di un comportamento cautelare assunto in ipotesi’’, nondimeno ritiene che detta teoria ‘‘rischi di amplificare l’indeterminatezza della tipicità della colpa generica’’. Per questi motivi l’A. privilegia per l’individuazione delle regole cautelari il ricorso agli usi consolidati all’interno di determinati ambienti sociali. (GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilita colposa, Padova, 1993, p. 242 ss.). (4) STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1990, pp. 264-125. (5) STELLA, La descrizione dell’evento, Milano, 1970, p. 36. (6) FORNARI, Descrizione dell’evento e prevedibilità del decorso causale: passi avanti della giurisprudenza sul terreno dell’imputazione colposa, in questa Rivista, 1999, p. 725.
— 1597 — nello scopo di protezione della norma. Per dare risposta a quest’ultimo interrogativo (ovvero se l’evento rientra nello scopo di protezione della norma) si deve necessariamente tener conto dei decorsi causali ripetibili, la cui sussunzione sotto una legge generale di copertura consente di prevedere che a certe condizioni iniziali si possa concretizzare il rischio di verificazione dell’evento. Nella motivazione della sentenza che si commenta, manca l’iter logico che ridescrive l’evento, si ritiene, date le risultanze dell’esame autoptico, che l’evento tipico sia la miocardite, tralasciando gli eventuali rapporti con la tubercolosi (altra malattia che affliggeva il paziente e a causa della quale fu ricoverato). Sono prospettabili quattro modelli di ri-descrizione dell’evento: — Tubercolosi (evento)-miocardite (evento) patologie autonome ed indipendenti tra loro. — Tubercolosi (evento)-miocardite (sotto evento) patologie interdipendenti ad eziologia comune. — Tubercolosi (evento) - miocardite (sotto evento) patologie interdipendenti ad eziologia diversa. — Tubercolosi (evento) - miocardite (evento) patologia autonome ma interdipendenti. Nella prima ricostruzione si hanno due patologie autonome tra loro: se si prediligesse questa via, come sembra che il giudicante abbia fatto, si dovrebbe concludere per la penale irrilevanza delle condotte negligenti relative alla mancata cura della tubercolosi, in quanto l’evento fatale è causa di una patologia diversa e non diagnosticata. In quest’ipotesi la descrizione dell’evento risulterebbe: mancata diagnosi con conseguente mancata cura della miocardite da cui è scaturita la morte del paziente. Nella seconda ricostruzione le due patologie sarebbero interdipendenti, in quanto legate da una comune eziologia (7), si tratta di un’ipotesi di scuola sia perché rarissima sia perché dalla sentenza non si evince la comune eziologia delle patologie, l’una specifica (la tubercolosi), l’altra aspecifica (la miocardite). Quest’ipotesi ritornerà utile successivamente nell’analisi dello standard oggettivo di diligenza, perciò si opera un rinvio in quella sede. In questo caso, comunque, la descrizione dell’evento sarebbe stata: mancata diagnosi della tubercolosi con aggravamento della miocardite tubercolare (anch’essa eventualmente non diagnosticata) da cui è scaturita la morte del paziente. La terza ipotesi ricostruttiva ritiene che la patologia principale sia la tubercolosi, e che dalla mancata diagnosi di quest’ultima, in conseguenza delle errate cure apprestate, si sia verificato un eccessivo affaticamento con conseguente infiammazione del miocardio. La descrizione dell’evento in questa circostanza sarebbe: mancata diagnosi della tubercolosi con erronea terapia curativa e mancato controllo degli effetti della terapia sul miocardio. La quarta ipotesi ricostruttiva prevede che le due patologie siano autonome tra loro, presumibilmente presenti entrambi al momento del ricovero, ma interdipendenti in quanto le cure non adeguate a contrastare la prima patologia hanno irrimediabilmente affaticato il miocardio (già affetto da infiammazione) (8) quindi hanno accelerato il verificarsi dell’exitus. In quest’ipotesi la ri-descrizione dell’evento sarà: omessa diagnosi della tubercolosi accompagnata dall’omessa diagnosi della miocardite aggravata dalle erronee cure somministrate per la patologia polmonare. (7) Ci saremmo trovati di fronte ad un rarissimo caso di tubercolosi in aggiunta di miocardite tubercolare causati entrambi dal bacillo di Koch. (8) Si evince in sentenza che il tracciato dell’elettrocardiogramma sia risultato anch’esso aspecifico mostrando delle alterazioni della ripolarizzazione in sede inferiore.
— 1598 — A differenza del giudicante, lo scrivente propende per la quarta ipotesi ricostruttiva, ciò in virtù del fatto che dalle analisi compiute al momento del ricovero era emerso un generale quadro infiammatorio che coinvolgeva anche l’apparato cardio-circolatorio (9). Tralasciando la seconda ipotesi per le ragioni già esposte, si nota che la prima e la terza ricostruzione sono affette da un vizio logico di fondo. Entrambe le ricostruzioni non tengono in debito conto che al momento del ricovero il risultato dell’elettrocardiogramma era quanto meno aspecifico, perciò si può sostenere che sarebbe stato decisivo: o il ripetere l’esame o l’effettuare un ecocardiogramma. Considerando che quest’ultimo esame ‘‘avrebbe consentito di prospettare una diagnosi’’ (10), non si può non ritenere quest’omissione come un elemento fondamentale della catena causale che ha portato alla verificazione dell’esito infausto. 2. Il requisito della prevedibilità. — Le fattispecie colpose, sempre in continua ascesa nel diritto penale moderno, dimostrano sempre di più l’interesse del legislatore alla protezione dei beni giuridici. Tale protezione, infatti, non si arresta alla previsione di singole fattispecie incriminatrici dolose, ma si completa con la previsione di un nugolo di fattispecie colpose che apprestano una protezione maggiore per particolari beni giuridici. La nozione di colpa è codificata all’art. 43, comma 3 c.p. La dottrina più avveduta parla di ‘‘definizione di colpa’’ (11) una nozione, che a parere di autorevoli dogmatici (12), non è completa, in quanto scandisce l’oggetto della colpa, ma nulla dice circa il requisito psicologico, limitandosi a definirla in negativo: ‘‘contro l’intenzione’’ (13). Il richiamo sistematico a due tipi di colpa: generica e specifica, induce l’interprete a ritenere che debba sussistere un rapporto psicologico tra la condotta dell’agente e le regole di diligenza richiamate dalla definizione normativa. Quest’ultima asserzione doveva essere ben nota ad Engisch (14) quando sosteneva ‘‘homo tantum potest quantum scit’’. Il dibattito sulla colpa si è evoluto, tant’è che ormai non si parla più di colpa come semplice forma della colpevolezza, ma addirittura come elemento del Tatbe(9) DALLA VOLTA, Malattie del cuore e dei vasi, Milano, 1996, p. 437; ID., Manuale delle malattie del cuore e dell’aorta, Milano, 1992, cap. 23, p. 377; WYNN-BRAUNWALD, The cardiomyopaties and miocarditis, in Braunwald: Heart Disease. A testbook of cardiovascular medicine, Philadelphia, 1992, p. 344. (10) In tal senso v. le parole del consulente di parte civile risultanti alla sentenza. (11) FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, pp. 63 ss., spec. 105. (12) ALTAVILLA, La colpa. Il reato colposo riflessi civilistici, analisi psicologica, Roma, 1950, p. 13; MARINI, Colpa, Diritto penale, Enc. giur. Treccani, vol. VI, Roma, 1988, p. 3; MAZZACUVA, Il disvalore d’evento nell’illecito penale, Milano, 1983, p. 262. (13) È stato sostenuto che l’art. 43 comma 3o sia una definizione per esclusione rispetto al criterio di imputazione generale, cioè il dolo. FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 65. In particolare, l’A. evidenzia la definizione in negativo della colpa, attraverso il mancato riferimento alla ‘‘volontà’’. In tali termini, quindi, si ha dolo e non colpa quando vi è non solo la rappresentazione ma anche la violazione dell’‘‘evento’’. In effetti il problema non si pone nei casi di colpa incosciente e nelle ipotesi in cui il soggetto persegue effettivamente il risultato; individuandosi una costellazione di casi in cui la realizzazione dall’evento non può dirsi propriamente voluta (M. GALLO, voce Dolo, in Enc. dir., VIII, Milano, 1964, p. 768). Che il requisito delle volontà caratterizzi in negativo la colpa è stato sottolineato da EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, passim il quale, ricollegandosi agli studi psicologici sul tema, ha evidenziato come solo l’agire nella prospettive del risultato posso ritenersi doloso. Traendo spunto da tale ultima impostazione, recente dottrina (G. FORTE, Ai confini tra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in questa Rivista, 1999, pp. 267 ss., spec. 276-277) ritiene di individuare anche nel c.d. dolo eventuale (indipendentemente dal criterio preso in considerazione) un comportamento tipicamente colposo: in specie l’ipotesi aggravata di colpa ex art. 61 n. 3 c.p. (14) ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Farlässigkeit im Strafrecht, Berlin, 1930, p. 476.
— 1599 — stand (15). In quest’ottica si denota un rapporto che deve legare la condotta alle regole di diligenza richiamate dalla definizione codicistica. Questo rapporto è letto dalla più accreditata dottrina in chiave di ‘‘prevedibilità ed evitabilità dell’evento’’ (16). Da queste considerazioni non sembra discostarsi la sentenza che qui si critica. Questi due criteri saranno trattati separatamente per ragioni d’opportunità e chiarezza. È rimproverato ai sanitari il non aver riconosciuto la patologia di cui era affetto il paziente (diagnosticarono una polmonite invece di una forma di tubercolosi), e indi il non aver apprestato le cure adeguate per contrastare il diffondersi dell’infezione, e, nel non aver ancora, riconosciuto la presenza di una precedente miocardite aggravatasi dal dilagare della tabercolosi. È bene precisare come, quasi unanimemente (17) dottrina e giurisprudenza ritengono che la prevedibilità e l’evitabilità vadano valutate alla stregua dell’agente modello (18). Nel caso di specie si parla di medici specialisti, per questo ci si dovrà attendere una maggiore diligenza, prudenza e perizia nell’anamnesi della situazione del paziente (19). Per quel che concerne la malattia polmonare si apprende dalla sentenza come il paziente accusasse febbre alta (38 gradi centigradi) e tosse prevalentemente secca. Questi, purtroppo, sono sintomi sia della tubercolosi sia della polmonite, né varrebbe semplicisticamente sostenere che ‘‘lo specialista’’ debba in valore assoluto saper riconoscere la distinzione tra le due malattie. Sarebbe questa una conclusione inaccettabile che non tiene conto di possibili casi limite. A questo punto si rende doverosa un’analisi se la fattispecie in esame costituisca un caso limite. In altri termini si dovrà valutare se l’errore nella diagnosi da (15)
La rivalutazione della colpa in chiave di tipicità è dovuta soprattutto al contributo di MARI-
NUCCI, Il reato come azione critica di un dogma, Milano, 1971, p. 108; MARINUCCI, La colpa per inosser-
vanza di leggi, Milano, 1965, passim; FIANDACA MUSCO, Diritto penale, Bologna, 1995, p. 491. (16) CECCHI, Per una nuova teoria della colpa, in Riv. pen., 1940, p. 1190; BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1986, p. 521; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, 14a edizione, integrata ed aggiornata da Conti, Milano, 1997, p. 369; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 149; MANTOVANI, Colpa, cit., p. 308; MARINI, Colpa, cit., p. 5; GALLO, op. cit., p. 636. (17) La voce contraria è sostenuta con dovizia di particolari da GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, cit., p. 242 ‘‘... La regola esperenziale tende ad indirizzare il comportamento dei consociati secondo un criterio di normalità... Il parametro dell’agente modello, utilizzato con varietà di articolazioni sia dalla dottrina civilistica, sia da quella penalistica per dar corpo alla nozione di diligenza, condensa in una formula astratta il complesso delle valutazioni concrete che si sviluppano nel solco dell’id quod plerumque accidit... II criterio dell’homo eiusdem conditionis et professionis non annulla, ma relativizza soltanto il concetto di normalità. D’altro canto che la regola prudenziale presenti una dimensione sociologica prima ancora che giuridica, non pare dubitabile... quale che sia il circuito sociale in cui viene ad operare l’agente, questi ha come principale modello di riferimento il comportamento di quanti altri hanno svolto e svolgono la stessa attività. Così, il meccanismo che consente di trasmettere al singolo le regole di comportamento maturate sulla base dell’esperienza collettiva risulta funzionale, tra i suoi tanti effetti, anche al contenimento della pericolosità di determinate attività nella misura e nei modi comunemente praticati ed accettati’’. ID., Normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, cit., p. 96. Il riferimento alla figura dell’agente modello non è privo di inconvenienti... si pensi allo scarto tra agente reale ed agente modello, il carattere astratto ed ideale di quest’ultimo favorisce una semplificazione eccessiva dell’accertamento della colpa generica, che si traduce in una sostanziale fictio iuris. Nella giurisprudenza la figura dell’agente modello è utilizzata più per affermare la responsabilità colposa, che per escluderla. (18) MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, cit., p. 113; FIANDACA MUSCO, Diritto penale, cit., p. 496; ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, Milano, 1990, p. 386; DE FRANCESCO G.V., Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977-78, p. 399. (19) Si veda NAPOLEONI, Nuovi orientamenti del Supremo collegio in tema di responsabilità colposa nell’esercizio dell’arte sanitaria, in Mass. cass. pen., 1978, p. 1566, c.
— 1600 — cui è scaturito l’evento non sia riconducibile ad un’ipotesi di caso fortuito (45 c.p.). La migliore dottrina definisce il caso fortuito come ‘‘l’incrocio tra un accadimento nuturale ed una condotta umana’’ (20), superando i contrasti, sorti in precedenza nel dibattito accademico, sulla sua incidenza (21), ritenendolo un istituto polivalente capace di incidere sia sulla forma di colpevolezza e sia sul nesso di causalità (22). La presenza della combinazione tra un accadimento naturale ed una condotta umana, porta lo scrivente a condividere l’interpretazione della Corte di Cassazione, la quale nell’applicare l’art.45 c.p. richiede che l’accadimento naturale abbia un’eziologia preponderante rispetto all’azione umana nella verificazione dell’evento (23). In altri termini perché si possa invocare il caso fortuito è necessario che quest’ultimo debba risultare ‘‘totalmente svincolato sia dalla condotta dello stesso (agente) sia dalla di lui colpa, pertanto se l’accadimento, pur se eccezionale, ben poteva in concreto essere previsto ed evitato non è possibile parlare di caso fortuito in senso tecnico’’ (24). Seguendo quest’impostazione sembra che non si sia di fronte ad un’ipotesi di ‘‘caso fortuito’’, in quanto l’errore di diagnosi non è causa esclusiva di un accadimento naturale, bensì dipende, in maniera preponderante, dalla mancanza di analisi suppletive (25) che si rendevano necessarie in virtù dei risultati ‘‘apparentemente’’ aspecifici dei primi controlli (26). Gli esami effettuati all’ingresso in ospedale sono tutti funzionali all’accertamento del tipo di patologia polmonare (27), tranne l’elettrocardiogramma (28) che è effettuato per rilevare lo stato di salute generale dell’apparato cardiocircolatorio, al fine di adottare un tipo di trattamento farmacologico che non crei complicanze, o, che non affatichi eccessivamente il muscolo cardiaco. Per ragioni espositive si analizzeranno distintamente i risultati dei due tipi di analisi. (20) FIANDACA MUSCO, Diritto penale, cit., p. 188. (21) Alcuni ritenevano che il caso fortuito escludesse il nesso di causalità: SANTORO, Il caso fortuito in diritto penale, Torino, 1956, p. 236; ID., Il caso fortuito, in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, p. 992. Altri sotenevano che, invece, il caso fortuito impedisse di muovere un rimprovero di qualsiasi natura al soggetto: ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 382; CARACCIOLI, Colpa per imperizia, colpa per inosservanza di leggi e caso fortuito, in questa Rivista, 1959, p. 558; MARINUCCI, Il reato come azione: critica di un dogma, cit., pp. 223, 224, 225. L’A. interpreta il caso fortuito come ‘‘un’espressione riassuntiva di tutte le circostanze interne all’agente’’ che incidono sulla possibilità di agire in modo cosciente e volontario ex art. 42 comma 1 c.p. (22) FIANDACA, Caso fortuito, in Dig. discipl. pen., Torino, 1988, p. 107. (23) In questi termini: Cass.pen., sez. IV, 9 dicembre 1988, in Cass.pen., 1990, p. 1719, in Giust. pen., 1989, p. 688; Cass.pen., sez III, 6 giugno 1996, no 6954, in Dir. e Giur. Agr., 1997, p. 517 con nota di LAMATEA, in Giust. pen., 1997, p. 363, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1997, p. 1004; Cass.pen., sez.IV, 28 gennaio 1992, in Cass. pen., 1993, p. 1816, in Giust. pen., 1992, p. 488. (24) Cass. pen., sez. III, 18 dicembre 1997, no 1814. (25) Si tratta per quel che concerne la malattia polmonare della coltura e relativa analisi dell’espettorato al fine di individuare presenza del bacillo di Koch, non si tratta di un’analisi di routine, ma è resa doverosa da situazioni caratterizzate da incertezza (CARRATÙ-CATENA-GRASSI, Manuale di malattie dell’apparato respiratorio, Milano, 1995, p. 213). Nel caso della patologia cardiaca si trattava di effettuare ecocardiogramma, che è un esame di routine per accertare e verificare le risultanze dell’ecocardiogramma e per indagare che non vi siano situazioni degne di intervento (DALLA VOLTA, Malattie del cuore e dei vasi, cit., p. 437-438). (26) Dalle prime analisi approntate (raggi x al torace) si è evidenziato, per ben due volte, un ‘‘tenue addensamento parenchimale in ilo-parailare inferiore sinistro’’. In più gli esami ematochimici evidenziano alterazioni dei valori VES (sodio, potassio, transaminasi), mentre il quadro leucocitario è nella norma. (27) Dai raggi X e evidenziato ‘‘un tenue addensamento parenchimale in ilo-parailare inferiore sinistro’’. L’esame ematochimico segnala un aumento dei valori della VES, del sodio, del potassio e delle transaminasi. (28) Il tracciato dell’elettrocardiogramma è da considerare aspecifico e rileva delle alterazioni della ripolarizzazione in sede inferiore.
— 1601 — Per quel che concerne la patologia polmonare: — Seguendo il metro della prevedibilità si può arrivare ad affermare che la tubercolosi fosse prevedibile perché i dati apparentemente aspecifici avrebbero dovuto portare i sanitari ad effettuare un esame più particolareggiato (esame colturale dell’espettorato) che avrebbe consentito con tutta certezza una tempestiva diagnosi (29); — Seguendo il parametro degli usi sociali (30) non si riuscirebbe a muovere un rimprovero a titolo di colpa perché l’esame più specifico non rientra nella routine, non è mai effettuato all’ingresso del paziente in ospedale, ma si ricorre ad esso se dopo le prime somministrazioni di medicinali non si riscontra un miglioramento. Se si considera che un apparente miglioramento (sul valore e la spiegazione dell’apparente miglioramento si rinvia al nesso di causalità) ci fu, diventa impossibile censurare il comportamento dei sanitari. Per quel che concerne la miocardite i risultati non sono diversi: — Seguendo il parametro della prevedibilità dovrebbe condurre all’effettuazione di un esame più particolareggiato, come un eco-cardiogramma (31), che, tra l’altro, è considerato esame di routine. Dovendosi tenere in debito conto lo stato di salute del cuore in funzione della terapia farmacologica da somministrare a causa della prima patologia, sembra ravvisabile un quid di negligenza a carico dei sanitari. — Secondo il parametro degli usi sociali non si potrà censurare il comportamento del personale medico, in quanto c’è incertezza sul fatto che il dato aspecifico poteva essere un chiaro segnale di un inizio di miocardite (32). A ciò si aggiunga che non è prassi consolidata effettuare un ecocardiogramma in un paziente ricoverato per una malattia non legata all’apparato cardiocircolatorio (basta in quei casi un elettrocardiogramma). Optare per una o per l’altra soluzione significa giungere a conclusioni diametralmente opposte. Lo scrivente ritiene che la soluzione del problema dipenda dalla risposta a questa domanda: l’agente concreto deve valutare la validità empirica della norma di comportamento elaborata attraverso la sedimentazione dell’esperienza collettiva? Una parte minoritaria della dottrina risponde in termini negativi al quesito, motivando che si ribalterebbe nella forma e nei contenuti la posizione dell’agente che passerebbe da mero fruitore della norma cautelare a creatore di una nuova norma, col pericolo di suscitare pericolosi individualismi. Diversamente opinando, continua tale teorica, si esaspererebbe la valenza solidaristica insita nel dovere di diligenza, dato che si pretenderebbe dall’agente di incrementare le probabilità di salvezza del bene giuridico, migliorando l’efficacia delle norme cautelari (33). La dottrina maggioritaria, invece, risponde al quesito in maniera positiva si (29) HARRISON, Principi di medicina interna, Milano, 1995, p. 300 ss.; ROBBINS-COTRAN-KUMAR, Le basi patologiche delle malattie, Padova, 1994, p. 126; GOODMAN E GILMAN, Le basi farmacologiche della Terapia, Milano, 1992, p. 201 ss. (30) GIUNTA, op. ult. cit., p. 242. (31) MARIANI, Il manuale di cardiologia, Roma, 1990, p. 133; HARRISON, Principi di medicina interna, cit., p. 89-122; DALLA VOLTA, Malattie del cuore e dei vasi, cit., p. 440; ID., Le malattie del cuore e dell’aorta, cit., p. 216 e bibliografia ivi richiamata. (32) Si evince dalla sentenza come il c.t.u., non ritiene che la miocardite diagnosticabile con elettrocardiogramma, ma ammette che da quest’esame possono emergere risultati apsecifici (aumento del ritmo, aritmie, disturbi della conduzione, riduzione dei voltaggi, alterazioni del tratto ST) che non consentono una diagnosi. Viceversa il consulente di p.c. ritiene che un ecocardiogramma avrebbe consentito di prospettare una diagnosi. (33) GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, cit., p. 99; ID., Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, cit., p. 245.
— 1602 — sostiene, infatti, che la norma cautelare, e, quel che dettano gli usi possono essere fallaci se non vengono integrati da una rinnovata applicazione del principio di prevedibilità (34). Continua tale teorica che affinché l’agente possa sfuggire al rimprovero di aver agito in un certo modo, malgrado, la rappresentabilità dell’evento non potrà addurre a sua discolpa il fatto di essersi conformato alle regole della prassi individuate mediante il criterio di prevedibilità, perché è la prassi stessa ad evidenziarne il contenuto fallace, considerato il numero di volte in cui pur conformandosi ad esse l’evento lesivo si è verificato. La regola cautelare da osservare è quella che scaturisce da un nuovo ed indipendente giudizio sulla pericolosità della condotta, volto ad individuare nuovi e più efficaci strumenti di prevenzione (35). È preferibile la seconda delle due soluzioni prospettate per tre ordini di ragioni: — La tesi degli usi sociali restringerebbe eccessivamente il giudizio di colpa, e specialmente nei casi in cui a priori si è a conoscenza della fallacia della regola cautelare, preferendo l’inerzia al comportamento attivo volto a migliorare, in concreto, ove sia possibile, la regola di diligenza. Seguendo questa tesi sembrerebbe che si consentisse ad una diminuzione di tutela dei beni giuridici, in contrasto con la stessa funzione dei delitti colposi, che, a parere dello scrivente, dimostrano la volontà del legislatore di una protezione estesa anche a comportamenti lesivi non dolosi. — Sembra che la teoria degli usi sociali consenta l’ingresso della consuetudine con funzione integratrice del precetto penale. Una simile soluzione non può essere accolta: le regole di diligenza, di prudenza, di perizia non vanno desunte da ciò che normalmente si fa... bensì da ciò che si può pretendere... sulla base dell’agente modello (36). Se è vero che la media tende alla trascuratezza (37) chi si uniforma a tale prassi non può non rispondere per colpa. — Dal principio di affidamento (38) deriverebbe la regola secondo cui l’agente concreto deve valutare la portata della regola esperenziale, al fine di valutarne l’esattezza o la fallacia, ed in quest’ultimo caso sostituirla con una nuova regola che sarà il frutto di un rinnovato giudizio di prevedibilità ed evitabilità. Queste affermazioni troverebbero riscontro soprattutto analizzando la giurisprudenza (39) e la dottrina (40) relativa alla responsabilità medica in èquipe, infatti, la divisione dei compiti comporta un obbligo di non ingerenza nella sfera altrui, vige il principio dell’affidamento, secondo cui ogni membro dell’èquipe deve poter confidare nel corretto operato dei suoi collaboratori, con una eccezione qualora un componente del gruppo si accorga che un altro collaboratore stia commettendo un errore o stia tenendo un comportamento non conforme a diligenza, in(34) MARINUCCI, Colpa per inosservanza di leggi, cit., p. 178; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 489. (35) MARINUCCI, op. ult. cit., p. 179. (36) MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1999, p. 191. (37) FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 239. (38) MARINUCCI, Colpa per inosservanza, cit., 198; MANTOVANI. Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, cit., pp. 156-158. (39) Cass. pen., 20 marzo 1991, in Cass. pen., 1992, p. 2754; Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 1959; NIOSI, in questa Rivista, 1960, con nota di Dodero; Cass. pen., sez. V, 5 marzo 1952, in Giust. pen., 1952, II, p. 697; Cass. pen., sez. IV, 2 maggio 1989, ARGELLI, in Foro. it., 1989, II, p. 600; Cass. pen., sez. IV, 6 giugno 1981, FARAGGIANA, in Cass. pen., 1982, p. 1547; Cass. pen., sez. IV, 22 giugno 1982, BERIO, in Riv. pen., 1983, p. 345. (40) BELFIORE, Sulla responsabilità colposa nell’ambito dell’attività medico chirurgica in équipe, in Foro. it., 1983, II, p. 167; ID., Profili penali dell’attività medico chirurgica in èquipe, in Arch. pen., 1986, p. 266: BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1998, p. 421.
— 1603 — fatti, in questi casi, subentra un diverso obbligo: ‘‘quello di richiamare l’attenzione del collega o di intervenire ove ciò sia necessario e possibile in via di supplenza’’ (41). Queste conclusioni sembrano in sintonia con coloro i quali ravvisano l’esistenza di alcune eccezioni all’operatività del principio in esame (42), in virtù proprio di una perfezionabilità del dovere di diligenza, imposto dall’importanza del bene giuridico tutelato. Ad analoghi risultati si giunge considerando che il suindicato principio ha due limiti: uno esterno che coincide con il principio ad impossibilia nemo tenetur (per questo nessun rimprovero sarà possibile contro chi ha fatto tutto il possibile per impedire l’evento), e l’altro interno che coincide con il principio dell’homo eiusdem conditionis et professionis (secondo cui l’agente concreto dovrà relazionarsi alla figura modello al fine di prestare la diligenza richiesta). Il limite interno esige che il soggetto in possesso di capacità e conoscenze superiori (43) alla figura modello, le utilizzi al fine di agire secondo la diligenza richiesta e di conseguenza di non superare l’area di rischio consentito (44). L’impiego delle capacità e delle conoscenze non si potrebbe altrimenti spiegare se non con il ricorso ad una posizione di garanzia (45) che verrebbe a crearsi, e che coinciderebbe con l’obbligo giuridico di impedire l’evento ex art. 40 c.p.v.. Tali affermazioni sono in sintonia con le recenti indagini in materia, soprattutto di lingua tedesca, le quali ritengono che l’unico affidamento tutelato sia quello giustificato da elementi esterni in ordine alla sua fondatezza (46). Continua tale teorica sostenendo che una specificazione dell’affidamento giustificato sia l’affidamento necessario (47) (nella suddetta categoria rientrerebbe il rapporto medico paziente), quest’ultimo sarebbe caratterizzato dal fatto che colui che confida sulla diligenza di un altro soggetto non è in possesso delle conoscenze specifiche di quest’ultimo, il quale, però, è tenuto a fornirle in funzione della posizione di garanzia che viene a ricoprire (deve, cioè, fare tutto nei limiti del possibile, per impedire l’evento) (48). Da quanto sopra esposto scaturisce la regola secondo la quale: ogniqualvolta l’agente concreto (gravato dalla posizione di garanzia) si rappresenterà la regola cautelare e allo stesso tempo la fallacia del contenuto della stessa, sarà necessariamente tenuto a riformulare un giudizio di prevedibilità ed a ricercare una diversa (41) Pret. Genova, sent.23 novembre 1991, in Foro. it., 1992, II, p.586. (42) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 497, Gli AA. sostengono che il principio sortisca delle eccezioni nei casi in cui preventivamente si è a conoscenza che colui il quale dovrebbe avere il comportamento diligente, non può in concreto espletarlo, in second’ordine è possibile ravvisare un limite al suddetto principio tutte quelle volte in cui in capo ad un soggetto gravi una posizione di protezione, in modo da impedire che i suoi sottoposti si autoledano o danneggino beni circostanti. In senso difforme: MANTOVANI, Alcune puntualizzazioni sul principio d’affidamento, in questa Rivista, 1997, p. 1052. (43) Sul problema delle capacità e delle conoscenze superiori si veda: MARINUCCI, Colpa per inosservanza di leggi, cit., p. 194; ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, cit., p. 386; FIANDACAMUSCO, Diritto penale, cit., p. 496; FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 267; MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., pp. 71-77. (44) MANTOVANI, Il principio di affidamento, cit., pp.73-74 9. (45) Per ciò che attiene all’inquadramento dei medici in una posizione di garanzia si rinvia a: GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 317. (46) ELLMER, Betrug und Opfermitverantwortung, Berlin, 1985, 277. Secondo l’A. non solo l’affidamento cieco (blind) cioè non supportato da elementi esterni che giustifichino tale aspettativa non è suscettibile di protezione giuridica, ma anche l’affidamento giustificato quando il soggetto che fa affidamento all’atto di prestarlo non osserva la diligenza dovuta e richiesta. (47) ELLMER, op. ult. cit., p. 276; Contra: MANTOVANI, ll principio di affidamento, cit., p. 157. (48) Sul punto: BISORI L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e giurisprudenza italiane, in questa Rivista, 1997, pp. 1340-1352.
— 1604 — regola cautelare, e ciò sarà imposto dall’obbligo giuridico di impedire l’evento, che troverà un solo limite nell’ultra posse (49). Traendo le conclusioni si può risolvere il caso in commento; infatti, ci si doveva aspettare l’applicazione della regola esperenziale adatta al caso concreto, almeno per quel che concerne la patologia polmonare, in quanto i sanitari sono medici specialisti in queste malattie, perciò lo standard oggettivo di diligenza dovrà essere valutato prendendo come modello proprio la figura dello specialista. Più delicata è la questione relativa alla patologia cardiaca. Non si può giungere ad affermare che il grado della colpa vada valutato alla stregua del cardiologo specializzato, su ciò non sono ammessi dubbi. La soluzione del problema involge un tema più grande e molto dibattuto circa le capacità e soprattutto le conoscenze dell’agente (50). È stato sostenuto in dottrina che lo standard di diligenza dovesse essere valutato esclusivamente da un punto di vista oggettivo, in relazione alla categoria profefessionale o circolo d’appartenenza (51). Si può, però, obiettare che nei casi in cui il soggetto non possa adeguarsi allo standard richiesto dal circolo di appartenenza, si legittimerebbe una presunzione di colpa che contrasterebbe col principio di responsabilità personale e colpevole ex art.27 comma 1 Cost. È stato ribadito che l’accettazione dell’assunto soggettivista porterebbe ad un abbassamento di tutela dei beni giuridici in relazione a coloro che non possono uniformarsi allo standard richiesto (52). Si è ribattuto che ragionando secondo il modello oggettivista si deresponsabilizzerebbero coloro che possiedono conoscenze superiori allo standard di diligenza (53). Una soluzione intermedia è emersa in dottrina (54), secondo cui le capacità non potrebbero essere imputate al fine di aumentare lo standard di diligenza richiesto, perché il diritto penale non può sotto la minaccia della sanzione richiedere che il soggetto utilizzi tutte le sua capacità (55). Per le conoscenze, invece, si ritiene che debbano essere valutate al fine di individuare lo standard oggettivo di diligenza. Tale soluzione è condivisibile, però, a parere dello scrivente, anche le capacità andrebbero valutate ai fini dell’accertamento dello standard di diligenza, nei casi in cui l’ordinamento si aspetterebbe da quel soggetto l’utilizzo delle stesse (56). Fatte queste precisazioni si può cercare di risolvere la situazione in commento. Lo specialista in pneumologia non è in possesso di competenze specifiche in merito alla miocardite, della quale avrà contezza in base alla generica preparazione di medico. E, però, che la miocardite sia una patologia non pienamente conosciuta dai pneumologi è assunto vero solo in parte, infatti, questi ultimi hanno conoscenze specifiche circa una rarissima forma di miocardite di origine tubercolare (causata dal morbo di Koch), e la cui terapia è basata su di una sinergia tra (49) ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, cit., p. 385. (50) Per tutti ROMANO, Commentario, cit., p. 386. (51) MARINUCCI, Colpa per inosservanza, cit., p. 193. L’A. parla di ‘‘personificazione dell’ordinamento nella situazione concreta’’. GALLO, Colpa penale, in Enc. dir., Milano, 1960, p. 640; FORTI, Colpa ed evento, p. 238. (52) MARINUCCI, Colpa per inosservanza di leggi, cit., p. 196, l’A. afferma come i consociati tendano alla trascuratezza. (53) DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva, cit., p. 283; si veda altresì MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p.35. (54) ROMANO, Commentario, cit., p. 383. (55) ROMANO, op. ult. cit.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 496. (56) L’incidente commesso dal pilota campione del mondo di formula uno sarà valutato tenendo conto delle sue capacità se è avvenuto in pista, mentre, sarà valutato alla stregua delle sue conoscenze se e avvenuto in strada aperta alla circolazione pubblica. Si veda anche in dottrina: STRATENWERTH, L’individuazione della misura di diligenza nel delitto colposo, in questa Rivista, 1986, p. 651.
— 1605 — interventi farmacologici che interessano le regioni polmonari, ed altri che interessano le regioni miocardiche (57). La patologia cardiaca di cui si discute non appartiene al tipo poc’anzi illustrato (miocardite tubercolare), ma con essa il caso di specie ha dei punti in comune. In entrambe le ipotesi, infatti, si sarebbe dovuti intervenire con un trattamento farmacologico che avrebbe dovuto interessare entrambe le regioni infette, per fare ciò si rende indispensabile un quadro nitido sul reale stato di salute del miocardio, al fine di intraprendere la giusta terapia farmacologica che non vada ulteriormente ad affaticare quest’ultimo organo ed evitare rischi d’infarto. Nella valutazione dello standard oggettivo di diligenza, a parere dello scrivente, si dovrebbe tener conto del fatto che il sanitario è in possesso di conoscenze tali da poter affrontare in astratto una patologia che interessi la regione polmonare e quella cardiaca. 3. Il requisito dell’evitabilità. — Un ulteriore elemento per qualificare colposa la condotta di un soggetto è il requisito dell’evitabilità. In sentenza si afferma che non s’intravede un comportamento alternativo per i sanitari. Si vedrà, anche seguendo quanto fin qui sostenuto, come ciò non sia del tutto esatto. Procedendo con ordine, si precisa che il comportamento alternativo lecito, è dalla dottrina più accorta visto come il criterio indicatore dell’evitabilità (58). Deve ritenersi ormai superata l’interpretazione che vuole tale comportamento appartenente al nesso causale. Le ragioni che spingono ad accettare una simile ricostruzione sono individuate nella natura stessa della colpa. Se tale criterio d’imputazione è dovuto ad una maggiore protezione dei beni giuridici, e se ciò deve avvenire mediante un richiamo ad una regola cautelare è palese come il comportamento in essa prescritto debba essere idoneo ad escludere il verificarsi dell’evento. Argomentare diversamente significherebbe ammettere profili di colpa anche in situazioni dove la regola cautelare risulta fallimentare, dove la lesione del bene giuridico è dovuta dal semplice caso, col rischio, dunque, di legittimare il contrario principio del versari in re illicita. Un’ulteriore precisazione si rende doverosa, l’evitabilità non è un corollario della prevedibilità, perciò è inesatto il ragionamento che pretendesse di provarla mediante un richiamo costante alla prevedibilità (59). Un esempio chiarirà il tutto. Non è consentito sostenere che nel caso di specie l’errata diagnosi, qualora non ci fosse stata avrebbe sicuramente consentito una diagnosi corretta; e dunque (57) DALLA VOLTA, op. ult. cit., p. 438 anche per un’analisi casistica delle possibili cause eziologiche della miocardite e rispettive terapie da associare. (58) FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 653 ss. (59) GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, cit., pp. 384-385. L’A. opera un’ulteriore distinzione: ‘‘va da se che la nozione di evitabilità dell’evento trova una plausibile ragion d’essere in tanto che la sua identità concettuale si distingua da quella della negligenza; vale a dire, da quei giudizi di prevenibilità dell’offesa coagulati nella norma cautelare disattesa. Infatti, altro sono le valutazioni di prevedibilità e prevenibilità, che, cristallizzate in astratto nella regola di diligenza doverosa, attengono alla problematica della norma cautelare come modello di conciliazione tra la liceità dell’attività e il suo coefficiente di rischio; altro sono i giudizi di evitabilità che, attenendo alla problematica della violazione della regola cautelare come modello di ascrizione dell’evento, devono effettuarsi con riguardo all’efficacia preventiva della regola cautelare nel caso storicamente verificatosi. La distinzione sta nel fatto che nella prima ipotesi, essendo le valutazioni di rischio già implicite nella regola (...), l’evitabilità dell’evento si verifica appurando l’esistenza della regola cautelare doverosa e il suo contenuto precettivo; nella seconda ipotesi, l’evitabilità dell’evento è verificabile accertando se e come la violazione di quella regola (...) abbia inciso sulla verificazione dell’evento. (...) Solo tenendo distinti i due piani è possibile superare la logica del versari in re illicita nell’ascrizione dell’evento a titolo di colpa. (...) Anche ove vi fosse adottata la diligenza doverosa, l’evento si sarebbe ugualmente verificato, nel qual caso, seppure collegabile alla negligenza sotto un profilo condizionalistico, l’evento non risulta ad essa collegabile sul piano preventivo’’.
— 1606 — la possibilità di salvare il paziente. Per conferire autonomia a questo requisito è necessario provare che la condotta diligente era idonea ad evitare l’evento (60). Nel caso di specie, i sanitari diagnosticarono una broncopolmonite, con eziologia virale/batterica, che è stata curata con farmaci, antibiotici e mucolitici. In aggiunta al deltacortene. A questo punto si rendono doverose due indicazioni: — antibiotici e mucolitici sono potenzialmente curativi della polmonite, ma purtroppo in casi di tubercolosi possono avere al massimo efficacia paliativa, dovuta al fatto che entrambe le patologie hanno carattere infiammatorio, — il deltacortene è un forte antinfiammatorio circa 4 volte più efficace del cortisone, ma ha degli effetti collaterali sull’equilibrio elettrolitico, ed è sconsigliato in pazienti debilitati. Le ‘‘apparenti’’ migliorie del paziente sono dovute all’utilizzo di questi farmaci, che in quanto antinfiammatori hanno certamente attenuato la carica virulenta della tubercolosi, permettendo l’abbassamento febbrile, lo stesso dicasi per il deltacortene. Il problema sorge però in quanto l’errata cura e soprattutto il deltacortene e gli antibiotici, hanno nascosto, impedendo probabilmente di insorgere, i dolori al miocardio, sintomi della miocardite che intanto si celava con tutta la sua carica tanatogena (61). È difficile individuare una ricostruzione diversa e si evince dalle parole del perito autoptico che testualmente recita: ‘‘un processo miocardico acuto per lo più si esprime con sintomatologia clinica lamentata dal paziente e con semeiotica obiettiva e strumentale del tutto apprezzabile ed indicativa’’. Queste affermazioni pongono maggiormente in risalto ciò che è già stato, in precedenza, affermato circa il caso fortuito. Non è sostenibile, infatti, che l’errore nella diagnosi, ed inevitabilmente nella terapia, sia ascrivibile al caso fortuito, perché ragionando in questi termini non si terrebbero in debito conto i risultati ‘‘aspecifici’’ che erano evidenziati dalle prime analisi. Questi risultati, ricoprono una notevole importanza ai fini della ricostruzione del caso, e di ciò è riprova il dato letterale dell’art.45 c.p.. La norma, infatti, recita ‘‘non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito...’’, l’interpretazione letterale sembra lasciar intendere che l’accadimento naturale (fortuito) debba precedere l’azione umana e contestualmente condizionarla (62). Ciò è confortato dall’analisi della dottrina che ha cercato di distinguere il caso fortuito dalla forza maggiore (63). Si è sostenuto, infatti, che nella forza maggiore manchi l’azione del soggetto, agitur sed non agit, mentre nel caso fortuito l’azione del soggetto c’è, ma è viziata dall’accadimento naturale che si pone come scaturigine preponderante dell’evento (64). Se le premesse sono esatte si deve concludere nel senso che il caso fortuito, in questa fatti(60) Sull’autonomia del requisito dell’evitabilità: GIUNTA, Normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, cit., p. 90; GALLO, Colpa penale, cit., p. 637; MANTOVANI, Colpa, cit., p. 307. (61) DALLA VOLTA, op. ult. cit., p.438 analizza i sintomi più frequenti della miocardite, sintomatologia che potrebbe essere stata attenuata dai farmaci utilizzati per la cura della patologia polmonare, in quanto antibiotici, ma soprattutto il deltacortene sono farmaci utilizzati anche per una terapia di contrasto della miocardite. HARRISON, Principi di medicina interna, cit., p. 190, in tal senso sembra MARIANI, Manuale di cardilogia, cit., p.131. (62) DE MARSICO, Diritto penale, parte generale, Napoli, 1969, p. 154. Secondo l’A. il caso fortuito è un evento extra-umano che produce risultati mediante l’uomo. (63) PECORARO ALBANI, Caso e causalità, in Arch. pen., 1960, p. 81; ID., Caso fortuito, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960, p.390; SANTORO, Il caso fortuito, cit., p. 200; BECCARI, L’esimente della forza maggiore in tema di circolazione stradale, in Riv. circolaz., 1964, p. 452; ZUCCARO, La rilevanza della forza maggiore nella circolazione stradale, ivi, 1987, p.615; CARACCIOLI, Colpa per imperizia, per inosservanza di leggi e caso fortuito, cit., p. 560; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Torino, 1950, p. 714, vol. II, l950, p. 10. (64) TRAPANI, La divergenza tra il ‘‘voluto’’ e il ‘‘realizzato’’, Torino, 1988, p. 73 ss., 87.
— 1607 — specie concreta, non ha cittadinanza perché l’unico accadimento naturale (la malattia) ha lasciato dei segnali, che seppur ‘‘aspecifici’’, dovevano essere capitati da medici specialisti, o quantomeno, si sarebbero dovuti attivare per sceverare il campo da qualsiasi dubbio sull’eziologia delle patologie (65). Queste conclusioni permettono di individuare alcune regole di condotta tipizzate che non sarebbero state seguite dai sanitari. La classe medica, infatti, per regolamentare al meglio la difficile professione che svolge, si munisce di appositi codici deontologici che tracciano le direttive generali da seguire nello svolgimento dell’attività. In quest’ultimo caso si potrebbero ritenere violati alcuni articoli del codice deontologico (art. 18 Codice deontologico 1998 (66), gli articoli 23 Codice deontologico 1989 (67) e 12 (68) e 16 (69) Codice deontologico 1995), nonché una corrente prassi medica circa il modus operandi della diagnosi (70). La questione che sorge è relativa al valore giuridico dei codici deontologici. Una parte dottrina ha sostenuto che non possano rientrare nella nozione di discipline, prevista dall’art. 43 comma 3o, in quanto emanati dalla federazione nazionale degli ordini professionali nell’esercizio del loro potere di autotutela, in difesa del prestigio e del decoro dell’attività professionale. La riprova di un simile assunto è fornita dal fatto che l’inosservanza di tali doveri non dà luogo necessa(65) La diagnostica etiologica prevede: a) indagine indiretta, mirata alla risposta anticorpale indotta nell’ospite, ricorrendo a FC, AD, RIA, IF, ELISA; utile il rilievo di Ig M specifiche; b) indagine diretta, più complessa ed attendibile, invasiva se condotta su prelievo bioptico miocardico, ma suffragata da scarsissimi risultati pratici; sono l’isolamento e la coltura, la determinazione degli Ag precoci, l’impiego di Ab monoclonali, l’identificazione del genoma (PCR, Ibridizzazione in situ), la microscopia ottica con immunoistochimica, la microscopia elettronica. Nel sospetto di miocardite, va attuato un protocollo di indagini guidate dall’orientamento clinico, per definire l’etiologia in tempi brevissimi dall’esordio. In tale fase, infatti, il virus può isolarsi dal sangue, lavaggio faringeo, feci, urine, dal miocardio, pericardio, endocardio. Vanno ricercati gli Ag virali precoci e le IgM specifiche. Se sospettata una patologia da schizomiceti, vanno eseguite anche determinazioni degli indici di flogosi, ricerca degli Ab specifici; emocolture seriate per aerobi ed anaerobi, test al latex per Ag batterici. Il tampone faringeo è utile nel sospetto clinico di miocardite da esotossine, per l’esame batterioscopico e la CIE. Per l’identificazione dei virus, superata la fase acuta, sono più attendibili le ricerche del genoma dal tessuto cardiaco, la microscopia ottica con immunoistochimica, la microscopia elettronica. Riteniamo quindi indispensabile, anche nel solo sospetto clinico di miocardite, l’avvio di indagini mirate a chiarire la diagnosi etiologica che affiancheranno l’iter diagnostico tracciato dallo specialista cardiologo, al fine di poter impostare una terapia specifica e di poterne valutare l’efficacia a breve e lungo termine. DI TICCA-COMPARCOLA, Divisione malattie infettive ospedale Bambino Gesù di Roma; www. medicina.it/miocardite.htm. (66) Codice deontologico 3 ottobre 1998 art. 18 ‘‘... Egli (il medico) deve affrontare i problemi diagnostici con il massimo scrupolo, dedicandovi il tempo necessario per un approfondito colloquio e un adeguato esame obiettivo, avvalendosi delle indagini ritenute necessarie...’’. (67) ‘‘Il medico, nell’ambito di una formazione professionale permanente, è tenuto ad un continuo adeguamento delle proprie conoscenze e della propria competenza al progresso delle acquisizioni scientifiche nel campo dell’educazione sanitaria, della prevenzione, della diagnosi, della terapia, della riabilitazione e della deontologia professionale per garantire il diritto del paziente alla tutela della salute nel rispetto della dignità della persona’’. (68) ‘‘Ogni prescrizione ed ogni trattamento devono essere comunque ispirati ad aggiornare e sperimentare acquisizioni scentifiche, alla massima correttezza e all’osservanza del rapporto rischio beneficio’’ ... ‘‘Il medico è tenuto ad una adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle prevedibili reazioni individuali, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici che prescrive ed utilizza’’. (69) ‘‘Aggiornamento e formazione professionale permanente. Il medico ha il dovere dell’aggiornamento e della formazione professionale permanente, onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico e scientifico’’. (70) BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1998, p. 383. L’A. ritiene che il procedimento di diagnosi si debba scindere in tre fasi: 1) raccolta dei sintomi mediante anamnesi, esame obiettivo, esami strumentali e di laboratorio; 2) formazione più completa possibile del panorama sintomatologico con graduazione dei sintomi per importanza selezionando quelli che appaiono patognomici per determinate patologia; 3) inquadramento dei dati nei vari raggruppamenti nosologici con prospettazione delle possibili patologie; 4) individuazione della patologia certa o probabile con ricorso ai criteri della diagnosi differenziale, vedi anche sub nota n. 63.
— 1608 — riamente a condotte colpose di rilevanza penale o civile, ma solo disciplinare’’ (71). Tale teorica continua sostenendo, invece, che siano espressione del principio di adempiere le obbligazioni con la diligenza del buon padre di famiglia (72), tale soluzione sarebbe avvalorata non solo dal richiamo che molte norme disciplinari fanno all’art. 1176 c.c., ma soprattutto che vi sarebbe un unico parametro di valutazione della colpa, fornito per l’appunto dal richiamato articolo del codice civile. L’altra norma civilistica utile ai fini delle tesi che qui si criticano è l’art. 2236, quest’ultimo verrebbe interpretato come una specificazione del generale principio di cui all’art. 1176, altrimenti ragionando si incorrerebbe in contraddizioni difficilmente superabili (73). Questi ultimi due articoli, infine, dovranno essere letti in combinato disposto con l’art. 2043 c.c., espressione del principio generale del neminem laedere, in forza del quale una condotta colposa che provochi un altrui danno obbliga chi l’ha tenuta al risarcimento (74). Lo scrivente non contesta la valenza logica di tale ragionamento, al quale, anzi, aderisce, ma osserva come il principio dell’agente modello, altro non sia che il contraltare penalistico del suindicato principio di ascendenza civilistica. Se ciò è esatto, non si aggiungerebbe nulla di nuovo al dibattito in quanto le prescrizioni degli ordini professionali specificherebbero la figura dell’agente modello, o per dirla seguendo la tesi criticata degli usi sociali tipizzerebbero norme che rispecchiano gli usi presenti nella categoria professionale di appartenenza. A conclusioni diverse si dovrebbe giungere qualora si riuscisse a dimostrare che le prescrizioni deontologiche rientrerebbero nella nozione di discipline prevista dall’art.43 comma 3o c.p.. L’assunto di partenza della teoria in precedenza criticata, in altre parole, che (71) BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, cit., p. 379; IADECOLA, Il medico e la legge penale, Padova, 1993, p.36 ss. (72) BILANCETTI, op. ult. cit., p. 382. (73) Ci si riferisce al fatto che interpretando l’art. 2236 in maniera letterale, si giungerebbe alla conclusione che proprio nei casi di prestazioni altamente tecniche, dove si renderebbe opportuno un surplus di diligenza, il legislatore preveda una sorta di commodus discessus, restringendo la responsabilità risarcitoria al solo dolo o colpa grave. L’obiezione più insidiosa è, però, un’altra, infatti, interpretare in maniera distinta il grado della colpa: in maniera ordinaria ed unitaria secondo la lettera dell’art. 43 c.p., ed invece, in maniera distinta lieve e grave secondo la lettura del combinato disposto artt. 1176 e 2236 c.c., comporterebbe dei casi in cui accertata l’esistenza di un reato, non sia possibile chiedere il risarcimento dei danni, stante la restrizione dell’art. 2236 ai soli casi di dolo e colpa grave; tutto ciò in contrasto con il disposto dell’art. 185 c.p. tale tesi, però, non è rimasta senza seguito, anzi è stata dominante nella dottrina e soprattutto nella giurisprudenza degli anni ’70; CRESPI, Medico chirurgico, in Dig. discipl. pen., vol. VII, Torino, 1988, p. 598; Cass. 21 ottobre 1970, in questa Rivista, 1973, p. 255, con nota di CRESPI; Cass. pen., 30 ottobre 1979, in Cass. pen. Mass. ann., 1981, p. 557; Cass. pen., 4 febbraio 1972, ivi, 1973, p. 538. (74) Tale teoria proposta dal CATTANEO, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 72 e seguita dalla Cassazione nella sentenza 12 giugno 1981, in Foro it., 1982, II, p. 269, si propone di individuare una nozione unitaria di colpa all’interno dell’intiero sistema positivo. Lo iato tra colpa ordinaria ex art. 2043 e colpa grave ex art. 2236 c.c, verrebbe composto giungendo a sostenere che si tratti del medesimo fenomeno, valutato alla luce della specializzazione del professionista. ‘‘La difficoltà tecnica è appunto una circostanza pratica in relazione alla quale deve valutarsi nel caso concreto il comportamento. Essa non agisce allora nel senso di modificare il grado della colpa, bensì influisce sulla configurazione concreta del comportamento del prestatore d’opera. Vuol dire che se la prestazione è tecnicamente facile, si esige dal buon professionista il compimento di tutti gli atti idonei obiettivamente a perseguire il risultato, mentre se la prestazione è difficile si esigono da lui solo quegli atti — tra quelli astrattamente possibili in vista di quel risultato — che rientrano nella capacità del buon professionista della sua categoria. Proprio questo e non altro intende disporre il 2236 c.c. La colpa grave non è che la colpa lieve valutata tenendo conto della speciale difficoltà della prestazione’’. CATTANEO, La responsabilità del professionista, cit., p. 70, tale soluzione limita drasticamente l’area dell’irresponsabilità penale stabilita dall’art. 2236 c.c. ai soli casi di soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, interpretando questi ultimi come casi non ancora studiati e sperimentati. CATTANEO, op. ult. cit., p. 76.
— 1609 — le violazioni di tali prescrizioni farebbero sorgere esclusivamente una responsabilità disciplinare, non è incontrovertibile (75). È possibile, infatti, all’interno dei codici di deontologia operare una distinzione: da una parte norme a tutela degli interessi interni di categoria (quali il decoro, il prestigio, i rapporti tra colleghi, ecc.), dall’altra norme a tutela di interessi esterni alla categoria ed a tutela del paziente (quali l’obbligo di aggiornamento, al consenso informato, al segreto professionale ecc.). Le norme appartenenti al primo gruppo possono essere fonte esclusiva di responsabilità disciplinare, invece, quelle appartenenti al secondo gruppo possono essere fonte di responsabilità sia civile sia penale (76). Avendo queste ultime una funzione precettiva, svolgono il compito di mediare tra la discrezionalità di cui il sanitario deve godere per svolgere nel modo più libero ed efficiente la sua professione, che è sostanzialmente arte (77), e la tutela del paziente che verrebbe frustrata ogniqualvolta la discrezionalità si tramutasse in arbitrio. Seguendo questo ragionamento, si dovrebbe concludere che alcune norme deontologiche avrebbero il compito di fornire delle direttive, cui il medico deve attenersi, relative allo svolgimento della professione medica ed al rapporto tra l’esercizio di quest’ultima e la tutela dei beni giuridici con cui è in contatto. Ritenere il contrario equivale ad ammettere l’esistenza di una discrezionalità libera del medico, ai limiti con il puro arbitrio. Ciò porterebbe all’assurdo di non poter mai sindacare l’operato del medico, perché gli si offrirebbe sempre il pretesto di nascondersi dietro scelte insindacabili, arrivando a svilire quella tutela penale che l’ordinamento offre, non per accanimento contro la classe medica, ma per non lasciare soggetti che non operino lege artis, a ledere beni quali la vita e l’integrità fisica (78). Queste ragioni dovrebbero far propendere per la sussunzione di alcune norme deontologiche nel novero delle discipline, in quanto, a volte unica normativa atta a disciplinare il settore. Chiudendo questa breve parentesi, ci si può accorgere che è emersa con palese evidenza che un comportamento alternativo lecito era possibile. (75) LEGA, Ordinamenti professionali, in Noviss. Dig. it., Torino, 1965, p.153; ID., In tema di responsabilità civile del dentista, in Giur. it., 1967, p. 811. I doveri professionali del medico assumono rilevanza giuridica quando all’inottemperanza fa seguito l’irrogazione di una sanzione disciplinare da parte dell’Ordine professionale, ‘‘pertanto la normazione deontologica, sebbene abbia prevalentemente carattere etico sociale, può assumere anche rilevanza giuridica. Da ciò si evince che tra la deontologia professionale e l’ordinamento giuridico corrono stretti legami, specialmente se si considera l’ordinamento professionale (che è fonte di normazione deontologica) come una istituzione, ossia come un ordinamento giuridico particolare che opera con sufficiente autonomia, essendo dotato dallo Stato di propri poteri, entro l’ordinamento generale dello Stato’’. (76) In questo senso FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999, p. 508, ‘‘... L’ordine professionale nell’ordinamento italiano è configurato come un ente pubblico, cioè un ente ausiliario dello Stato classificato tra gli enti pubblici non economici; necessario, in quanto svolge una attività amministrativa nell’ambito di una potestà conferita con legge; ...l’ordine ha finalità di realizzare una duplice tutela: quella dei cittadini, cui garantisce che gli esercenti la professione siano in possesso dei requisiti previsti dalla legge e operino secondo le norme della deontologia; quella dei medici nei confronti dei comportamenti sleali dei colleghi e per favorire il miglioramento della qualità della professione. L’iscritto all’ordine è obbligato all’osservanza delle regole comportamentali di deontologia professionale... che costituiscono gli speciali doveri propri del professionista’’. (77) INTRONA, Metodologia medico legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, in Riv. it.med. leg., 1996, p. 1323 ‘‘... Infatti la medicina, benché tecnologizzata, conserva ancora una forte componente di arte cioè la personalizzazione che ogni medico conferisce al suo agire in ciascun singolo caso sulla base della propria esperienza e della propria sensibilità professionale. I protocolli, non possono avere carattere imperativo...’’, in senso conforme la giurisprudenza: App. Milano, sez. VI, 7 gennaio 1977, BARIATI, in Giur. it., 1978, p. 294; Cass. pen., sez. IV, 12 maggio 1977; BARIATI, in Giur. it., 1978, p. 298; Cass. pen., 11 settembre 1981; CALVO, in Cass. pen., 1983, p. 86. (78) Sulla stessa scorta la giurisprudenza della Corte d’Appello di Venezia del 14 marzo 1957, ed una più recente pronuncia della Pretura di Torino 22 marzo 1989, riportate con commento in: FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999, pp. 508-509.
— 1610 — È facilmente sostenibile, infatti, che i sanitari avrebbero potuto effettuare un ecocardiogramma e diagnosticare la patologia cardiaca, intervenendo su quest’ultima con una terapia farmacologica atta a contrastare il dilagare dell’infezione (79). A questo punto non rimane che da rispondere ad un ultimo interrogativo: agendo diversamente il paziente si sarebbe salvato? La risposta negativa all’interrogativo porterebbe alla non punibilità, perché l’osservanza della regola di condotta non avrebbe impedito l’evento, che in questo caso, sarebbe frutto di caso fortuito. S’incentrerà il discorso sulla miocardite (80) non solo perché è stata la causa dell’evento, ma anche perché questa patologia desta particolari problemi in sede d’evitabilità. La miocardite è in teoria curabile, però, anche se diagnosticata in tempo e somministrando le giuste cure lascia solo il 30% di successo, nulla esclude che entro un contenuto spazio temporale (81) avvenga la morte del paziente (per c.d. ricaduta) (82). Può ritenersi evitabile un evento che ha il 70% di possibilità di realizzarsi? La giurisprudenza risolve il problema in termini di nesso causale, trascurando il requisito dell’evitabilità (83). La Cassazione più volte ha ribadito che sussiste la responsabilità colposa anche quando l’operazione ha una percentuale bassa di riuscita (30%) (84). Il ragionamento della Corte è criticabile per due ordini di ragioni: — il ragionamento probabilistico, accettato dalla giurisprudenza (85) e da (79) La terapia si basa su due fasi, nella prima, vengono somministrati corticosteroidi (nel caso di specie sembra inopportuno somministrarli se come risulta dalla sentenza il paziente poteva essere immunodepresso), antinfiammatori e antibiotici, nella seconda fase, si somministrano digitale, diurerici e riduttori del sodio, secondo: HARRISON, Principi di medicina interna, cit., p. 233; il DALLA VOLTA, Malattie del cuore e dei vasi, cit., p. 439, invece, consiglia un utilizzo moderato e accorto della digitale, mentre è favorevole all’utilizzo di vasodilatatori e diuretici. WYNN-BRAUNWALD, op. ult. cit., p. 300, nella prima fase consigliano l’utilizzo anche di immunosoppressori, mentre per la seconda fase, c.d. terapia per lo scompenso ravvisano l’utile somministrazione della digitale. Sulla somministrazione dl tale farmaco: CHILDPERLOFF, Restrictive cardiomyopaties, in Cardiol Clinic, 1988, p. 289. (80) Si tralascia volutamente la tubercolosi con caseosi perché il fatto che abbia aggravato la miocardite attiene ad un profilo specifico di colpa (prevedibilità), ma non all’evitabilità che consta in un giudizio ex post in concreto sulla reale causa dell’evento infausto. (81) Ci si riferisce ad un periodo che viene inquadrato dai medici nell’ordine di 1-2 mesi. (82) Non esiste un’unica percentuale statistica di prognosi per la miocardite. Esistono, infatti, miocarditi curabili in alto numero di casi la cui morte per il DELLA VOLTA, op. ult. cit., p. 439 è dell’1% annuo, altre forme di patologia invece, più gravi, hanno una percentuale più alta sempre secondo l’autore pari al 6% annuo di esito infausto. La percentuale bassa utilizzata nel corso del commento è giustificata dal fatto che la miocardite è aspecifica, cioè non si conosce la eziologia, perciò l’intervento terapeutico sarà reso più difficile dalla mancanza del dato concernente la scaturigine del male. Per le analisi statistiche ci si può riferire al sito: www.Medscape.com/event.Ng/type cataloga le percentuali di successo su singole terapie seguite. Si veda altresì MARIANI, Il manuale di cardiologia, cit., p. 220; HARRISON, Principi di medicina interna, cit., p. 191 ss. (83) LAGEARD, Le maiattie da lavoro nel diritto penale, Torino, 2000, p. 251, nota 17; DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione per l’aumento del rischio. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici, in Riv. it. dir. proc. pen, 1999, p. 32. (84) Cass. pen., 12 luglio 1991, in Foro. it, 1992, p. 363. ‘‘Quanto, infine, al rapporto di causalità tra la condotta degli imputati e l’evento letale, la corte di merito, applicando il criterio probabilistico, si è uniformata alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento, in materia di responsabilità penale per colpa professionale sanitaria, al criterio della certezza si può sostituire quello della probabilità di tale effetto — anche limitata al 30% — e dell’idoneità della condotta a produrli; quindi il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata, con una certa probabilità salvata’’. Si veda anche Cass. pen., 7 gennaio 1983, in Foro it., 1986, p. 351; Cass. pen., 19 dicembre 1985, no 6506. (85) Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 1987, ZILOTTO, in Cass. pen., 1989, p. 72; Cass. pen., sez. IV, 8
— 1611 — una parte della dottrina (86), relativamente alle basse percentuali, andrebbe a sfociare in un giudizio di mera possibilità, contrastando con i principi di certezza del diritto e tassatività che devono presiedere la ricerca del rapporto di causalità (87); — inoltre, sembra dare ingresso, seppure surrettiziamente, alle letture dell’aumento del rischio e dell’imputazione oggettiva dell’evento, oggetto di vivaci critiche da una parte della dottrina italiana (88) (dell’argomento ci si occuperà ex professo nel paragrafo successivo). Di recente è, però, emersa in dottrina una posizione che sembra fornire maggiore chiarezza e sistematicità all’oggetto del dibattito (89). La soluzione proposta consente di distinguere tra causalità della condotta (art. 40 c.p.) e causalità della colpa (il problema relativo al comportamento alternativo lecito). Nell’indagine circa il nesso di causalità ex art. 40 c.p. si deve pretendere l’utilizzo di formule quali alta credibilità razionale o probabilità confinante con la certezza relativa non già alla salvezza del bene in senso assoluto, ma al verificarsi cogiugno 1988, MONTALBANO, in Riv. pen., 1989, p. 424; Cass. pen., sez. IV, 7 marzo 1989, PRINZIVALLI, in Riv. pen., 1990, p. 119; Cass. pen., sez. IV, 30 maggio 1990, BERARDINO, in C.E.D. Cass., n. 185086; Cass. pen., sez. IV, 5 giugno 1990, PASOLINI, in Giust. pen., 1991, II, p. 1083; Cass. pen., sez. IV, 13 giugno 1990, D’ERME, ivi, 1191, II, p. 157; Cass. pen., sez. IV, 18 ottobre 1990, ORIA, in Cass. pen., 1992, p. 2102; Cass. pen., sez. IV, 27 settembre 1993, ROSELLO, in Cass. pen., 1995, p. 291; Cass. pen., 31 ottobre 1991, REZZA, in Cass. pen., 1994, p. 1204; da ultimo Cass. pen., sez. V, 1 settembre 1998, CONSOLI, in Cass. pen., 2000, p. 1183 con nota di BLAIOTTA. (86) GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 386. L’A. ritiene che il giudizio di causalità nel reato omissivo sia doppiamiente ipotetico, perché mentre nel reato commissivo vi è un antecedente ed un evento reali, dunque risulterebbe ipotetico il solo giudizio controfattuale, nel reato omissivo ‘‘sia l’antecedente che il conseguente sono per definizione falsi’’. FIANDACA, Causalità, in Dig. discipl. pen., Torino, 1988, p. 126; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 539, in senso difforme STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, la condizione necessaria, in questa Rivista, 1988, p. 1256; ID., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., pp. 88, 101. L’A. obietta che la formula della probabilità confinante alla certezza è del tutto arbitraria, giacché gli enunciati causali relativi al reato omissivo debbono soddisfare il requisito dell’alto grado di credibilità razionale allo stesso modo di quanto richiesto per la causalità attiva. (87) ‘‘(...) Il concetto di causa maggiormente idoneo a soddisfare le esigenze del diritto penale coincide con la nozione di conditio sine qua non, intesa nel senso di condizione contingentemente necessaria; ...la determinazione di un nesso di condizionamento non può essere affidata al libero apprezzamento del giudice: per questa ragione si deve ammettere che l’espressione conditio sine qua non sottindente il rinvio al concetto di spiegazione mediante leggi e alla nozione nomologico-funzionale di causa... Il nesso di condizionamento e un requisito di fattispecie...’’. Tale requisito è determinato e determinabile mediante un rinvio alle leggi di natura che consentono di spiegare l’evento. Diventa chiaro il significato da attribuire ‘‘all’art. 40 comma 1 c.p.: anche a voler ammettere, infatti, che tale norma (...) possa costituire oggetto di una pluralità di interpretazioni diverse, si deve riconoscere che l’unica interpretazione conforme al principio di tassatività della fattispecie è quella che implica il rinvio alle leggi di natura’’. STELLA, Leggi scientifiche, cit., pp. 101, 102. (88) MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’imputazione oggettiva dell’evento e trasfigurazione nella colpevolezza?, in questa Rivista, 1991, p. 8, p.20 ss. L’A. giudica la dottrina dell’aumento del rischio una ‘‘banale e frivola moda’’ che viene a creare duplicazioni concettuali frutto di una incomprensione della dottrina tedesca circa il nesso tra colpa ed evento. L’A. riconduce i termini del dibattito nell’ambito della teoria della colpa, ed in particolare del rapporto tra colpa ed evento. La teoria criticata postula, per l’imputazione dell’evento all’agente, che l’azione di quest’ultimo abbia aumentato il rischio di verificazione dello stesso. In realtà secondo l’A. ciò non è altro che il primo rapporto tra colpa ed evento: in altri termini il rapporto che lega la norma cautelare all’evento, infatti, quest’ultimo deve essere ricondotto alla sfera di eventi che la norma tende di evitare. Ciò fonda un limite alla responsabilità colposa, infatti, perché l’evento possa essere imputato è necessario che anche l’azione sia sussumibile sotto il nugulo di azioni che la norma vieta di compiere. MORSELLI, Il problema della causalità in diritto penale, in Ind. pen., 1998, p. 888 ss. L’A. sostiene che tutte le teorie causali che si sovrappongono alla conditio sine qua non non sono vere teorie causali per la ragione che non fanno che anticipare, in termini impropriamente causali, problematiche e relative soluzioni che appartengono al momento dell’imputazione soggettiva del fatto. (89) DONINI, Causalità omissiva e l’imputazione per l’aumento del rischio, cit., pp. 41, spec. 7677-78.
— 1612 — munque della lesione in tempi e modi peggiorativi per effetto della condotta storica (90). In caso di indagine circa il comportamento alternativo lecito l’accertamento controfattuale ammetterebbe valutazioni più probabilistiche (91). L’autore fa dipendere questa soluzione dal fatto che si sia già riscontrato un nesso di causalità materiale tra condotta ed evento. Provata, infatti, la causalità della condotta, e provato che l’azione contrasti con la regola di diligenza, si imputerà all’agente un evento come fatto proprio, e si taciteranno le possibili critiche relative alla trasformazione dei reati d’evento in reati di condotta (92). La tesi si giustifica considerando che l’azione doverosa avrebbe avuto maggiori, rilevanti, significative probabilità di evitare l’offesa, il dubbio su tale circostanza, però, non attiene alla causalità, dove si deve richiedere una probabilità confinante con la certezza, ma attiene alla colpa (93), ed in particolare ad un giudizio ipotetico, indi si può accettare un discorso in termini di probabilità. La teoria dell’aumento del rischio, trasportata dall’area della causalità a quella dell’evitabilità (rectius colpa), avrebbe il compito di selezionare ulteriormente la responsabilità e dimostrare l’evitabilità, che non significa certezza di salvare il bene giuridico, ma probabilità, perciò sarà quest’ultimo parametro ad informare la ricerca. La teorica poc’anzi enunciata ha subito due obiezioni: — sarebbe iniqua perché mentre nei reati omissivi dovrebbe essere indagato anche il requisito dell’evitabilità, quest’ultimo difetterebbe nei reati commissivi dove ci si accontenterebbe anche di basse probabilità di salvezza del bene giuridico, tale impostazione non terrebbe conto che l’omissione testimonierebbe disinteresse per i valori costituzionali della vita e della solidarietà personale (94); — verrebbero parzialmente a coincidere il giudizio controfattuale nell’indagine del nesso di causalità e quello relativo al comportamento alternativo lecito. La sovrapposizione, però, non è completa in quanto differiscono le basi cognitive. Nel giudizio sul nesso causale, infatti, si prendono come riferimento le basi nomologiche al momento del giudizio, nell’indagine sulla colpa contano le conoscenze nomologiche che erano note o conoscibili al momento dell’azione (95). Circa la prima obiezione si può ritenere pregnante, infatti, pur ritenendo il reato d’azione avente un disvalore maggiore rispetto al reato omissivo, non si comprende il perché nell’uno (reato d’azione) si potrebbe prescindere dal giudizio sull’evitabilità (96), mentre nell’altro (reato omissivo) tale giudizio andrebbe a selezionare le condotte colpose provando l’evitabilità. Lo scrivente ritiene che il recupero dell’imputazione oggettiva dell’evento all’interno della teoria della colpa (rectius della colpevolezza), imponga un uguale parametro di valutazione del fattore evitabilità, che andrebbe ricercato in entrambe le ipotesi in base al metro della probabilità. (90) DONINI, La causalità, cit., p. 76. (91) DONINI, La causalità, cit., p. 77. (92) DONINI, La causalità, cit., p. 39; ID,, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p. 438, p. 445; ID., Teoria del reato, Padova, 1996, pp. 130-158. (93) FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 660. (94) BLAIOTTA, Causalità e colpa nella professione medica tra probabilità e certezza, in Cass. pen., 2000, p. 1215. (95) BLAIOTTA, op. ult. cit., p. 1216. (96) Ciò in realtà avviene per i reati dolosi, anch’essi consistono in una violazione di una regola obiettiva di diligenza, dunque, hanno un punto d’incontro con la colpa, ma mentre in quest’ultima si rende necessaria la valutazione dell’evitabilità perché si sfocerebbe nella colpa presunta qualora si punisse anche quando la regola di diligenza risulti fallimentare; nei reati dolosi l’evitabilità è assorbita dalla volizione, perché l’azione sarebbe sempre evitabile non volendola o non portandola a termine. Sulla tematica del dolo nella colpa e viceversa in linea generale MARINUCCI, Il reato come azione, cit., p. 98, nel settore specifico analizzato più ampiamente FORTI,Colpa ed evento, cit., p. 132.
— 1613 — La seconda obiezione sembra trovare una risposta nelle stesse parole dell’autore, infatti, solo apparentemente verrebbero a coincidere i due giudizi, in quanto basati su cognizioni nomologiche diverse. Il problema che in realtà si cela dietro l’obiezione mossa è più ampio e investe il tema stesso dell’accertamento probabilistico del requisito dell’evitabilità. L’autore sembra voler sostenere che anche in questo giudizio si debba pretendere un metro di giudizio confinante con la certezza. Se così fosse l’obiezione andrebbe rigettata, in virtù del fatto che il giudizio controfattuale sull’evitabilità è doppiamente ipotetico (97) e dunque accertabile unicamente in base ad un giudizio di probabilità logica (98). Lo scrivente addirittura ritiene che sia possibile, in alcuni casi e in presenza di particolari dati concreti, di dare ingresso ad ipotesi di probabilità attenuata, in tutti quei casi in cui si dimostri che l’azione doverosa avrebbe fatto si che l’evento non si sarebbe verificato hic o realizzato nunc, anche se probabilmente si potrebbe realizzare in un contesto spazio temporale apprezzabilmente diverso (99). Deve ritenersi che nel caso di specie sia possibile ravvisare profili di colpa, perché i sanitari non intervenendo adeguatamente hanno aumentato le possibilità che l’evento accadesse hic et nunc. Diversamente agendo, si sarebbero innalzate le possibilità di salvezza e in ogni caso la possibile futura complicanza miocardica non potrebbe in alcun modo essere ascritta ad un comportamento negligente dei sanitari. 4. Il nesso di causalità. — Una volta accertata una condotta colposa in capo ai soggetti agenti, è necessario indagare circa l’esistenza del nesso causale tra condotta contraria al dovere di diligenza ed evento. Nel caso di specie, trattandosi di una responsabilità colposa per omissione, il nesso causale consisterà tra ‘‘la condotta omissiva di mancato impedimento e l’evento non impedito’’ (100). La sentenza in commento, non avendo ravvisato profili di colpa, non si sofferma attentamente sul punto (salvo nel sostenere che l’utilizzo del deltacortene, alla luce di quanto emerso, non è da considerarsi in nesso causale con l’evento). Il rapporto di causalità registra un cospicuo numero di interpretazioni, che per ragioni di esposizione e senza pretesa di esaustività si enucleeranno in tre gruppi. Nel primo gruppo rientrano le interpretazioni giurisprudenziali (101) e dottrinali (102) (con alcune decisive differenze che segnaleremo) che interpretano il nesso di causalità in termini probabilistici; nel secondo gruppo si inserisce quella parte della dottrina (103) che ravvisa identità di natura tra causalità attiva ed omissiva, e, sostiene di provare il nesso di causalità in termini di alta credibilità (97) PALIERO, La causalità dell’omissione: formule e paradigmi assiologici, in Riv. it. med. leg.m 1992, p. 842. (98) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 226. (99) Sembra in sintonia con queste conclusioni la giurisprudenza che ravvede la fattispecie di omicidio colposo nell’accelerare i tempi della morte: Corte Ass. Cagliari, 10 marzo 1982, commenta nella manualistica tradizionale da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 544; FIADACA, Nota a sentenza della Corte d’Assise di Cagliari, del 10 marzo 1982, in Foro it., 1983, II, p. 27; Cass. pen., 8 marzo 1974; Cass. pen., 23 aprile 1969, in Giust. pen., 1970, p. 215; Cass. pen., 24 ottobre 1963, in Giust. pen., 1964, p. 381; Cass. pen., sent. 758 del 26 agosto 1969; Cass. pen., sent. 1314 del 14 febbraio 1973. Si veda CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale (con la dottrina), Padova, 1986, p. 921; CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale (con la giurisprudenza), Padova, 1994, p. 575 Diritto penale, cit., p. 539. (100) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 539. (101) Per la giurisprudenza si rinvia sub nota n. 86. (102) Per la dottrina si rinvia sub nota n. 86. (103) STELLA, Leggi scientifiche, cit., pp. 231, 311, 315; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, cit., pp. 355-359; PALIERO, La causalità, cit., p. 842; BLAIOTTA, Il Caso ATR-42, Causalità,
— 1614 — razionale, infine, il terzo gruppo che tenta di spiegare il rapporto di causalità ricorrendo alle teorie dell’imputazione oggettiva dell’evento (104). Per quel che concerne il primo gruppo, è da segnalare che è ormai orientamento giurisprudenziale consolidato quello che si accontenta di margini probabilistici nell’accertamento del nesso di causalità (105). Tale impostazione è condivisa, con alcune sfumature, anche dalla dottrina, che arriva a giustificare tali assunti con un percorso argomentativo diverso da quello utilizzato dalla giurisprudenza. Quest’ultima, infatti, influenzata anche dall’adesione alla teoria della causalità umana (106), spiega tale orientamento in funzione della particolare rilevanza dei beni giuridici tutelati: la vita umana è un bene primario che va salvaguardato sopra ad ogni cosa ed ad ogni costo (107), perciò il sanitario cui incombe una posizione di protezione, ha l’obbligo morale e giuridico di attivarsi ed adottare le misure necessarie ed il sapere scientifico al momento conosciuto per accertare con la massima esattezza possibile la stato fisiologico del paziente e scegliere la più appropriata via di intervento (108). Il ragionamento della giurisprudenza è ispirato da ragioni di prevenzione generale, infatti, facendo leva sulla particolare importanza del bene protetto ci si può sentire legittimati a ritenere provato il nesso di causalità (soprattutto ove sia incontrovertibile un rimprovero a titolo di colpa) anche in casi in cui il bene tutelato abbia poche probabilità di salvezza. Esemplare a tal proposito è la più volte citata pronuncia della Cassazione 12 luglio 1991 ‘‘Quanto, infine, al rapporto di causalità tra condotta omissiva degli imputati e l’evento letale,... nella ricerca del nesso di causalità tra condotta ed evento, in materia di responsabilità per colpa professionale sanitaria al criterio della certezza degli effetti della condotta, si può sostituire quello della probabilità di tale effetto — anche limitata (nel caso era del 30%) — e della idoneità della condotta a produrli, quindi il rapporto di causalità sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta avrebbe avuto non scienza, esperienza nel diritto penale, in Cass. pen., 1995, p. 2904; ID., Il realismo di K. Popper: un ideale di conoscenza oggettiva per il diritto penale, ivi, 1997, p. 3698. (104) HIRSCH, Sulla dottrina dell’imputazione oggettiva dell’evento, in questa Rivista, 1999, p. 746; DONINI, Letture sistematica della teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, in questa Rivista, 1989, pp. 589-1115; PAGLIARO, Imputazione oggettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, p. 779; CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, pp. 66, 69; ID., Linee politico criminali ed imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, in questa Rivista, 1987, p. 881. (105) Oltre le sentenze richiamate in nota n. 60 si veda altresì Cass. pen., 12 maggio 1983, MELIS, in Foro. it., 1986, p. 351 con nota di RENDA, Sull’accertamento della causalità omissiva nella responsabilità medica; GIACONA, Sull’accertamento del nesso di causalità tra colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente, in Foro it., 1992, p. 365; MAGRO, Orientamenti giurisprudenziali sul nesso di causalità, in Cass. pen., 1991, p. 336. (106) Per l’imputazione dell’evento occorrono due elementi: uno positivo e uno negativo. Il positivo e che l’uomo con la sua condotta abbia posto in essere un fattore causale del risultato, senza del quale l’evento non si sarebbe verificato, il negativo è che il risultato non sia conseguenza del concorso di fatti eccezionali (rarissimi). Solo quando concorrono queste due condizioni l’uomo può essere considerato autore dell’evento. Si imputano, infatti, all’uomo non solo gli eventi che ha calcolato, ma tutti gli elementi che può soggiogare ai suoi scopi, cioè tutti i fattori esterni che può dominare. La teoria si professa come un superamento dell’adeguatezza sociale, in quanto prescinderebbe dell’idoneità dell’azione, fondando il suo giudizio sui tipi d’evento. Questi ultimi dovranno essere divisi tra eventi che possono essere conseguenza dell’uomo ed eventi opera di fattori eccezionali, tale criterio è fornito dalla dominabilità degli eventi che escluderebbe l’imputazione di quelli verificatisi per fattori eccezionali incontrollabili. ANTOLISEI, Il rapporto di causalità nel diritto penale, Torino, 1960, p. 253. (107) VITALE, Responsabità e rischi professionali del chirurgo, Relazione tenuta al V Congresso nazionale di chirurgia ‘‘Chirurgia e processo tecnologico alle soglie del 2000’’, Vibo Valenzia, 25-26 giugno 1999, in Cass. pen., 2000, p. 1867. (108) BILANCETTI, La responsabilità penale e civile, cit., p. 60.
— 1615 — già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili, possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata, con una certa probabilità salvata’’ (109). Sembra evidente come il richiamo al bene vita legittimi la Corte ad accontentarsi di un criterio probabilistico attenuato, in realtà si parla di possibilità di successo. A seguire quest’orientamento anche nel caso di cui ci si occupa sarebbe ravvisabile un nesso di causalità. Provata la colpa dei sanitari, infatti, è apprezzabilmente possibile che il deltacortene, potendo avere effetti collaterali sull’equilibrio elettrolitico, sia causa dell’exitus. Lo stesso può essere sostenuto per un’ipotetica azione salvifica che avrebbe avuto quantomeno il 30% di possibilità di successo. Tale impostazione non è però condivisibile per una serie di ragioni: innanzi tutto, il nesso di causalità è unico e non sembra consentito mutare il grado di accertamento a seconda dei beni giuridici tutelati, tanto più che questo orientamento è utilizzato quasi esclusivamente nel settore della responsabilità del medico, ed ora tenta di essere esportato nel campo della responsabilità dell’imprenditore e del produttore (110); in second’ordine la posizione criticata apparentemente si muove nell’ambito della teoria condizionalistica, ma in realtà surrettiziamente sostituisce a questa un’imputazione oggettiva non causale dell’evento (111), controvertendo il principio del in dubio pro reo in contra reum (112). La dottrina appartenente al primo gruppo, invece, giustifica le sue posizioni osservando come mentre nel caso di causalità attiva il paragone avviene tra due entità reali (azione evento), nella causalità omissiva solo uno dei termini è reale (evento), essendo l’altro di natura ipotetica (aliud facere) (113). Altri partendo dal disposto dell’art. 40 c.p.v. dimostrano come ad essere ipotetici siano sia l’antecedente sia il conseguente, in virtù del fatto che l’evento tipico deve essere legato all’azione in base ad un giudizio contro fattuale (ipotetico per definizione), ma l’azione nei reati omissivi manca, il giudizio si incentra, infatti, sull’aliud facere formulata in termini ipotetici (114). Per quest’ultima posizione è addirittura inesatto parlare di rapporto di causalità nei reati omissivi, meglio si direbbe equivalente tipico della causalità, in ragione del fatto che la posi(109) In Foro. it., 1992, p. 363, con nota di GIACONA, cit. (110) DONINI, La causalità, cit., p. 50; PIERGALLINI, Attività produttive e impitazione per colpa: prove tecniche di diritto penale del rischio, in questa Rivista, 1997, p. 1447. (111) PALIERO, La causalità, cit., p. 836. (112) INTRONA, Note e riflessioni in tema di responsabilità penale medica, in AA.VV., Atti del convegno sulla responsabilità penale del medico, Foggia, 2000, p. 133: L’A. sostiene che ‘‘mancando studi epidemiologici e statistici, parlare di percentuali di riduzione della probabilità di successo (con riferimento alla sentenza della Cassazione sul 30%) è un vero e proprio non senso. In realtà le percentuali indicate non attestano il grado di colpevolezza del soggetto né tantomeno il riconoscimento percentuale delle prove a carico. Si tratta di fantomatiche percentuali di probabilità di successo che non avendo alcun fondamento scientifico, indicano con un numero opinabile, l’andamento del fenomeno in funzione della cultura medica corrente’’, secondo lo stesso autore sarebbe in questi casi più opportuno il ricorso al principio dell’id quod plerumque accidit, ‘‘considerando bene che non si tratta di percentuali e di probabilità pregni di precisi significati, ma di riduzione che potrà essere più o meno marcata, di una possibilità che normalmente si verifica in segtuto ad una azione in base alle conoscenze mediche del momento’’. (113) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 539; VITALE, Responsabilità e rischi professionali del chirurgo, cit., p. 1878. L’’A. sostiene che nella causalità omissiva ‘‘non vi è un fatto reale (l’atto operatorio) di cui si è chiamati ad apprezzare la correlazione causale con altro fatto reale (l’evento), ma si tratta di valutare se, accaduto un certo evento (il danno alla salute del paziente), esso qualora l’azione doverosa ed omessa fosse stata invece eseguita, si sarebbe verificato o meno... Il nesso di causalità non può che fondarsi su una prognosi, e cioè su un giudizio privo di riscontri concreti e, dunque necessariamente basato su un criterio di probabilità’’. (114) GRASSO, Il reato omissivo, cit., p. 386.
— 1616 — zione di garanzia ex art. 40 c.p.v., verrebbe qui a svolgere quella funzione di filtro delle condotte che nei reati commissivi è compiuta dal rapporto di causalità (115). Essendo tale rapporto di natura ipotetica perché almeno uno degli elementi è supposto: se all’omissione fosse sostituita l’azione, l’evento non si sarebbe verificato, è giocoforza ricostruirlo in chiave probabilistica, ma a differenza della giurisprudenza, consci dei margini d’incertezza di un simile giudizio e consapevoli che giammai si raggiungerà un rigore nell’accertamento simile a quello previsto per i reati commissivi, si richiede una probabilità vicina alla certezza (116). Seguendo quest’indirizzo, sembra quantomeno più problematico sostenere che la somministrazione del farmaco abbia con probabilità vicina alla certezza provocato l’exitus (ciò in virtù dell’assenza di dati ed analisi relativi all’utilizzo del deltacortene in relazione al quadro clinico e fisiologico del paziente). Diversamente, per quel che concerne l’aliud agere (l’azione che doveva essere posta in essere, ma che in concreto è mancata), si può sostenere che una adeguata terapia (indicata nel paragrafo precedente) avrebbe con probabilità vicino alla certezza, allontanato l’insorgere dell’exitus, e con una probabilità attenuata salvato completamente il paziente. Se si considera che l’evento tipico è quello che si realizza hic et nunc, a causa della condotta dell’agente, si deve ritenere che la causalità, in quest’ipotesi, sussista, a nulla rilevando che le percentuali di salvezza assolute sono medio basse, perché con probabilità vicina alla certezza l’exitus si sarebbe verificato quantomeno in un arco temporale diverso (117). Il secondo degli orientamenti presi in considerazione contesta i risultati interpretativi esposti dalla precedente dottrina, concludendo che tra causalità attiva ed omissiva non ci sia alcuna differenza (118). Si giunge a tale conclusione dimostrando che tra le due ipotesi di causalità vi sia un elemento comune che fonda in entrambe il giudizio di accertamento causale. Quest’elemento comune è dato dal giudizio contro fattuale, definito come ‘‘un condizionale congiuntivo enunciato in una situazione in cui il fatto ipotizzato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero; ed è proprio con giudizi di questo tipo, cioè pensando assente una determinata condizione e chiedendosi se, nella situazione così mutata, sarebbe stata da aspettarsi, oppure no, la medesima conseguenza, che una condizione può essere definita necessaria... tale che le possa essere imputata la conseguenza concreta’’ (119). La riprova dell’esattezza del ragionamento fin qui seguito verrebbe palesata dalle stesse modalità di realizzazione di un evento. Quest’ultimo, infatti, è provocato da un processo in cui vi è sinergia tra condizioni statiche e dinamiche. Essendo il nesso di causalità condizionato da processi od eventi, ed essendo la condizione statica un processo, giocoforza dovrà rientrarvi anche l’omissione (120). Queste premesse portano ad una riconsiderazione dell’intero rapporto di causalità, infatti, l’utilizzo di termini quali probabilità vicino alla certezza non possono essere consentiti per la ragione che costituirebbero clausole generali cui spetterebbe al giudice di riempire. Tale soluzione non può essere accettata, in quanto, la causalità è un requisito della fattispecie e pertanto che il suo accertamento sia (115) GRASSO, op. ult. cit., p. 416; RISICATO, La partecipazione mediante omissione al reato commissivo, in questa Rivista, l995, p. 1269 nota 11. (116) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., pp. 540-541. (117) Nel senso che la probabilità vada individuata in relazione non già alla salvezza del bene in senso assoluto, ma al verificarsi comunque della lesione in tempi e modi diversi e peggiorativi per effetto della condotta storica: DONINI, La causalità omissiva, cit., p. 76; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 503; FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 659; per la giurisprudenza sub nota 85. (118) STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1223. (119) STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1226. (120) STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1250.
— 1617 — rimesso ad un apprezzabile giudizio del caso concreto risulterebbe vietato dal principio di tassatività (121). Proseguendo nel ragionamento ci si accorge che la conditio sine qua non è formula vuota finché non viene riempita con leggi scientifiche (122). Solo così il giudizio contro fattuale potrà essere esplicato eliminando o riducendo la discrezionalità del giudice nell’accertamento causale. Le leggi causali, però, possono avere un carattere deduttivo (assoluto) oppure induttivo (probabilistico), si avrà il primo quando la legge universale di copertura spiega che, poste certe condizioni iniziali, al dato X succederà Y con costante regolarità e senza subire eccezioni; si avrà il secondo quando la legge statistica di copertura spiega che dato X si verificherà Y, non in termini di certezza, ma di probabilità, con un alto valore percentuale (123). Le probabilità si distinguono in statistiche e logiche: le prime sono il risultato di una verifica empirica della successione degli eventi, le seconde contengono una verifica dell’impiego della legge statistica nel caso concreto (124). Le prime possono essere fallaci perché pur dimostrando astrattamente e con alto valore percentuale che dato X si verificherà Y, in concreto Y può essere frutto di una diversa condizione. Le seconde, invece, sono utili al fine dell’accertamento causale perché pur fornendo una percentuale bassa rispetto alla connessione X-Y, comportano una verifica, del caso concreto, sulla inesistenza o inoperatività di altre cause eziologiche dell’evento Y. Perciò quando ci si imbatterà nell’accertamento del nesso di causalità non ci si dovrà semplicemente accontentare di una probabilità vicina alla certezza, ma che l’evento sia conseguenza dell’azione in termini di alta credibilità razionale (probabilità logica) (125). Tale tesi per quanto autorevolmente proposta e per quanto alto sia l’intento di conferire la massima certezza possibile nell’accertamento di un elemento della fattispecie, non sembra riuscire appieno nel suo intento dato il limitato numero di leggi scientifiche, oppure, al contrario, la presenza di più spiegazioni scientifiche dello stesso fenomeno, o ancora, l’imprecisione o l’inesattezza di alcune leggi solo in epoche successive confutate. La certezza è, dunque, un valore assoluto difficilmente raggiungibile, perciò il ruolo del giudice di mero ‘‘consumatore’’ e mai ‘‘produttore’’ (126) di leggi causali sarà un’ipotesi rara a vedersi. Il giudice non potrà ridursi ad un atteggiamento del tutto passivo, non creerà leggi causali, ma non le recepirà nemmeno acriticamente, anzi, dovrà valutare il livello di credibilità delle conclusioni da lui formulate. Queste affermazioni non sembrano contrastare con quello che poc’anzi è stato criticato, infatti, il richiedere nell’accertamento del nesso causale una probabilità logica, lascia ‘‘impregiudicata la determinazione dei canoni quali attingere ai fini del complessivo giudizio di credibilità’’ (127). Il giudice dovrà non solo verificare la genuinità dei singoli processi causali, ma dovrà controllare anche la correttezza delle generalizzazioni esplicative che costituiscono la chiave interpretativa di quei medesimi frammenti (128). L’unica via percorribile è dunque il ricorso a regole d’esperienza, ad un giu(121) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 90. (122) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 1. (123) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 278. (124) STELLA, Leggi scientifiche, cit., pp. 315-311. (125) STELLA, Scienza e norma nella pratica dell’igiene industriale, in questa Rivista, 1999, p. 386. (126) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 90. (127) BLAIOTTA, Il caso ATR-42, cit., p. 2906. (128) BLAIOTTA, op. ult. cit., p. 2906.
— 1618 — dizio cognitivo per interferenza basato su tali regole che siano consolidate ed affidabili (129). Tale conclusione sembra a prima vista essere in contrasto insolubile con la dottrina che auspicava l’utilizzo di leggi causali al fine di dare determinatezza e precisione ad un requisito oggettivo della fattispecie, e, così, omaggiare il principio di tassatività. Tale contrasto sembra più apparente che reale se si considera che non tutte le massime d’esperienza rientreranno nel giudizio d’interferenza (ne saranno escluse ad es. quelle che si risolvono in mere congetture o pregiudizi), ma solo quelle che svolgono un primario ruolo direttivo nella vita quotidiana e sono diffusamente utilizzate con successo nella vita quotidiana (130). Si aprirà, di conseguenza, il compito per il giudice di apprestare una giustificazione esterna della massima (131), di valutare, in altre parole, il grado di regolarità di cui è espressione ‘‘in modo da inferirne indicazioni a livello di plausibilità delle conclusioni dell’argomentazione’’ (132). Applicando i risultati di questo secondo filone interpretativo al caso in commento, si dovrà ritenere non sussistente il nesso di causalità (considerando, però, anche i pochi dati sul punto forniti dalla motivazione della sentenza), perché la somministrazione del farmaco e l’evento non possono essere ricondotti sotto una legge scientifica di copertura, anzi, quel farmaco è astrattamente idoneo anche nella cura della miocardite, è la particolare situazione concreta che avrebbe dovuto sconsigliarlo, optando per un diverso trattamento. La conclusione, per quel che riguarda, l’aliud facere (il riconoscimento della patologia e, di conseguenza, l’impiego di una idonea terapia di contrasto del male), sembra di segno opposto, infatti, la miocardite è astrattamente curabile, almeno nel 30% dei casi; perciò, se si concentra l’attenzione sull’evento si può sostenere che l’azione salvifica avrebbe con alta credibilità razionale aumentato le possibilità di successo o quanto meno l’exitus non si sarebbe verificato hic et nunc, si può giungere a sostenere che il nesso di causalità sussiste. Se, invece, si concentra l’attenzione sulle percentuali statistiche di pieno successo (30%), sembrerebbe più problematico affermare con un’alta credibilità razionale che l’evento non si sarebbe verificato. (129)
È questo l’orientamento della Cassazione (per tutti Cass. pen., SS.UU. 4 febbraio 1992, MU-
SUMECI, in Cass. pen., 1992, p. 2662) formatosi sul concetto di indizio, definito come un fatto certo dal
quale per interferenza logica basata su regole d’esperienza, si perviene a dimostrare un fatto incerto da provare secondo lo schema del sillogismo giudiziario. In dottrina si veda: TREVISON LUPACCHINI T., Indizio, segno equivoco o plurivoco per forza di connotazione?, in questa Rivista, 1995, p.310; BATTAGLIO, Indizio e prova indiziaria nel processo penale, in questa Rivista, 1995, p. 375. Il ricorso, tra l’altro, a massime d’espenenza non è questione relativa solo alla procedura penale, ma conosciuto anche dai sostanzialisti, ed utilizzato nella prova del dolo (Cass. pen., sez. I 24 giugno 1991, NICOLA, in Giust. pen., 1992, II, p. 269), del concorso morale (Cass. pen., sez. I 10 maggio 1993, ALGRANATI, in C.E.D Cass., n. 195772), medesimo disegno criminoso (Cass. pen., sez. VI 2 dicembre 1993, PIACENTINI, in C.E.D. Cass., n. 198977), reati di pericolo (Cass. pen., sez. I 7 luglio 1986, MAZZONI,in C.E.D. Cass., n. 174951), idoneità degli atti nel tentativo (Cass. pen., sez. II, 11 luglio 1984, BORCIOLO, in C.E.D Cass., n. 167303). (130) BLAIOTTA, Il caso ATR-42, cit., p. 2912. L’A., riferendosi al pensiero di Popper, e accettando la conclusione che non possa parlarsi di certezza in termini assoluti, né tanto meno di scienza come una serie di teorie esatte, quest’ultima è soprattutto, insegna Popper, storia dell’errore umano, perciò un’ipotesi scientifica potrà essere accettata quando sia provvista di un alto grado di conferma, basato sull’osservazione e sull’esperimento, oppure quando l’ipotesi abbia resistito ai tentativi di falsificazione e risulti corroborata in via provvisoria. Sulle stesse posizioni: STELLA, Scienza e norma, cit., p. 384. (131) NAPPI, Le ragioni del giudice in tema di struttura logica della motivazione e di valutazione della prova, in Cass. pen., 1987, p. 1796. Sulla stessa scorta: BATTAGLIO, Indizio e prova indiziaria nel processo penale, cit., p. 380; LORUSSO, La valutazione della chiamata in correità ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che legittimano l’adozione di una misura cautelare personale, in questa Rivista, 1996, p. 183; MOLINARI, Considerazioni in tema di gravi indizi di colpevolezza e chiamata di correità ai fini dell’applicazione delle misure cautelari, in questa Rivista, 1996, p. 1147. (132) BLAIOTTA, op. ult. cit., 2912.
— 1619 — La soluzione deve necessariamente essere trovata all’interno del requisito dell’alta credibilità razionale, nel senso che si renderebbe doveroso al fine di provare il nesso causale, in casi di percentuali basse, l’accertamento di altri fattori esterni (quali la tempra, la costituzione fisica, la sensibilità al trattamento farmacologico ecc.) che vadano ad aumentare la percentuale statistica e forniscano una giustificazione esterna, mediante un processo di inferenza delle regole d’esperienza utilizzate per risolvere la questione. La mancanza di una regola d’esperienza integratrice, che aumenti il valore percentuale, non consentirà in queste ipotesi la formulazione di un giudizio positivo sull’esistenza del nesso di causalità. Il terzo, ed ultimo, orientamento interpretativo è costituito dai fautori della teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento (133). Il presupposto di tale teoria è contenuto in una breve ma efficace riflessione di Roxin: ‘‘Un evento causato dall’autore è imputabile al Tatbestand oggettivo solo nei casi in cui il comportamento del soggetto agente abbia creato un pericolo per l’oggetto dell’azione non coperto dal rischio consentito e questo pericolo si sia anche realizzato nell’evento concreto’’ (134). Il presupposto indefettibile per imputare un evento all’autore sta nella creazione di un rischio giuridicamente rilevante, di tale intensità che l’ordinamento non può tollerare e contro il quale presuppone misure repressive. Il rischio viene ad assumere il ruolo di selezionatore nomologico delle condotte prive di quella carica di offensività, che si sostanziano al di qua dell’area di rischio consentito. Le teorie che appartengono a questa categoria sono state oggetto di vivaci critiche (135) in passato per due ragioni: 1) la teoria in esame tramuterebbe i reati d’evento in reati di mera condotta; 2) violerebbe la regola dell’in dubio pro reo in quanto tramuterebbe le fattispecie commissive colpose in altrettante fattispecie omissive improprie. È stata fornita una risposta alle obiezioni mosse, infatti, si è sostenuto che per quel che concerne la prima obiezione questo sarebbe vero qualora si intendesse sostituire l’imputazione oggettiva a quella condizionalistica, ma al contrario il criterio in esame vuol fungere da correttivo della teoria condizionalistica (136). Per quel che concerne la seconda obiezione si è risposto che la teoria dell’aumento del rischio non viola il principio in dubio pro reo, infatti, la mera possibilità dell’eguale produzione dell’evento non è sufficiente ad escludere l’imputazione sul presupposto dell’invariabilità del quantum di pericolo (137). (133) CASTALDO, L’imputazione oggettiva dell’evento nel delitto colposo, cit., p. 59 ss.; DONINI, Letture sistematiche delle teorie dell’imputazione obiettiva dell’evento, parte I, cit., p. 589, con note ivi richiamate per la dottrina d’oltralpe; ID., Letture sistematiche dell’imputazione oggettiva dell’evento, parte II, cit., 1115, con analisi critica circa il risultato di sostituire la causalità con un diverso metro d’imputazione basato sulla condotta, in assenza di espressa disposizione normativa; ID., Causalità omissiva e l’imputazione per l’aumento del rischio, cit., p. 33 ss.; si veda anche sub nota nn. 86, 87, 88. Da ultimo sia consentito un rinvio a SALCUNI, Responsabilità penale del medico: brevi considerazioni, in Temi Romana, 2000, p. 310. (134) ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale, Napoli, 1986, p. 21. (135) DONINI, Letture sistematiche, cit., p. 1117; ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, Milano, 1990, p.347; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 215; STELLA, Scienza e norma, cit., p. 388. L’A. sostiene che in alcuni settori le fattispecie causalmente orientate mostrano tutta la loro scarsa efficacia. È dimostrabile, infatti, che mediante studi sulla popolazione, l’esposizione a certe sostanze sia causa di determinate alterazioni organiche di eziologia tumorale, ma e impossibile utilizzare tali studi per imputare causalmente il singolo tumore o la singola malattia professionale all’esposizione. Per superare l’ostacolo si preferisce, in assenza di fattispecie preventive ad hoc, ricorrere all’aumento del rischio, con una conseguenziale trasformazione dei reati di danno in altrettanti reati di pericolo, realizzando, così, un attentato al principio di legalità. Tale soluzione, infatti non può rappresentare una scelta politico criminale affidata al giudice. Si veda anche le critiche di MARINUCCI e di MORSELLI sub nota n. 88. (136) CASTALDO, L’imputazione oggettiva, cit., p. 152. (137) Secondo i più recenti e ormai prevalenti sviluppi della teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, il dettame dell’in dubio pro reo, sarebbe rispettato ove il giudice pervenisse alla assoluzione tutte
— 1620 — Poiché si versa nel campo dell’ipotetico, soltanto gli accadimenti alternativi di sicura verificazione possono essere presi in considerazione ai fini della valutazione dell’aumento del rischio (138). Queste considerazioni conducono alla possibilità di paragonare la teoria in esame con quella in precedenza criticata che perfezionava la teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche, con l’utilizzo di massime d’esperienza. Non c’è dubbio che il criterio della sussunzione sotto leggi sia la via maestra da seguire, ma è altrettanto vero che non sempre si avrà una legge scientifica idonea al caso concreto, perciò sarà opportuno etero-integrare tale costruzione con altrettanti correttivi: massime d’esperienza, aumento del rischio. La questione si sposta sul significato e la valenza giuridica della locuzione aumento del rischio. Per impostare in termini corretti la questione, sembra opportuno far partire l’analisi dalla teoria dell’adeguatezza sociale (139), secondo tale teorica l’attività medica è di per se un’azione socialmente adeguata, ma tale requisito non è presunto, ma deve essere riscontrato in concreto, in altri termini, l’azione deve potersi meritare il giudizio di adeguatezza (140). L’azione di per se è neutra (141), acquista un valore positivo o negativo in funzione del modo in cui si pone rispetto ai parametri di tolleranza del rischio che la società si pone. In questi termini l’aumento del rischio diviene la cartina di tornasole per individuare se l’azione sia o no socialmente adeguata, ed in caso di risposta negativa imputargli l’evento conseguenza dell’azione. Nella valutazione di quest’elemento si dovrebbe ricorrere ad una procedura democratica che valuti il rischio tenendo in considerazione, non solo i valori scientifici, ma anche i valori etici e la percezione sociale del rischio (142). Sembra seguire questa impostazione il criterio fondato su di una valutazione cost-benefts (143), che dovrà necessariamente fare riferimento ad ulteriori parametri di configurazione quali: la frequenza, l’utilità sociale, la species di pericoli. La mera interdipendenza tra effetti dannosi e fattori causali che li determinano assume una valenza ridotta ai fini della concretizzazione del rischio giuridicamente rilevante. Il dato preoccupante consiste non nel rapporto causale tout court, ma piuttosto nell’incidenza ripetitiva dello stesso. La frequenza è l’indice che consente una reale misurazione del rischio, anziché il referente del potenziale collegamento tra comportamento umano e danno. L’analisi statistica del verificarsi di risultati lesivi per l’ordinamento, si rileverà decisiva per l’assorbimento o no dell’azione sospetta nell’ambito del rischio rilevante (144). ‘‘La maggiore tollerabilità è una diretta e logica conseguenza del vantaggio sociale insito nell’espletamento dell’attività. La condotta rischiosa ma utile è, inle volte in cui non avesse raggiunto la prova che la violazione della diligenza abbia determinato un sostanziale aumento del rischio. Non basterebbe, cioè, ai fini dell’imputazione, avere accertato la possibilità di aumento del rischio; un tale aumento dovrebbe essere provato in effetti FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 701, GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., p. 407. (138) CASTALDO, op. ult. cit., p. 156. (139) WELZEL, La posizione dogmatica della dottrina penalistica dell’azione, in Riv. it. dir. pen., 1951, p. 13 ss.; FIORE, Azione socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, GREGORI, Adeguatezza sociale e teoria del reato, Padova, 1969, nel campo medico segnatamente per queste problematiche si rinvia a MANNA, Trattamento medico chirurgico, in Enc. dir., Milano, 1990, p. 1287; ID., Profili penalistici del trattamento medico chirurgico, Milano, 1984, p.91. (140) RUSSETTI, La responsabilità civile e penale del medico, in AA. VV., Atti del Convegno sulla responsabilità professionale del medico, Foggia, 2000, p. 94. (141) CASTALDO, La concretizzazione del rischio giuridicamente rilevante, cit., p. 1097. (142) STELLA, Scienza e norma, cit., p. 383. (143) CASTALDO, L’imputazione oggettiva, cit., p. 66; ID., La concretizzazione del rischio giuridicamente rilevante, in questa Rivista, l999, p. 1098 ss.. (144) CASTALDO, La concretizzazione del rischio, cit., p. 1098; FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 255.
— 1621 — fatti, vista con maggiore favore della condotta priva di benefici per la collettività’’ (145). La species di pericoli è un elemento che influenza fortemente la risposta ordinamentale. Il solo parametro della frequenza potrebbe ,infatti, rilevarsi un dato fuorviante qualora non venisse abbinata alla tipologia degli eventi producibili. Il settore dell’energia atomica rappresenta un caso emblematico di applicazione pratica: la pericolosità ridotta di incidenti nucleari è controbilanciata dalla gravità degli stessi, sicché l’area di rischio non più tollerato aumenta in virtù del tipo particolare di pericolo (146). Due regole sembrerebbero emergere al fine di valutare se un’azione rientri o no all’interno dell’area di rischio permesso dall’ordinamento: 1) l’area di rischio consentito è inversamente proporzionale alla valenza del bene giuridico tutelato; 2) l’area di rischio consentito è direttamente proporzionale all’utilità sociale della condotta. Applicando queste regole al settore medico si dovrebbe giungere alla conclusione che nei casi in cui il pericolo può sfociare in una lesione personale l’area di rischio sarà più ampia rispetto ai casi in cui il pericolo possa sfociare nella morte del soggetto. È però, da aggiungere che qualora l’azione sia caratterizzata da utilità sociale l’area di rischio sarebbe suscettibile di ampliamento. Seguendo questa impostazione, però, si perde quell’aggancio ad un parametro oggettivo che regoli il nesso di causalità, limitando le possibili ingerenze discrezionali del giudice, sempre possibili quando si interpretano concetti labili quali il rischio o il valore del bene giuridico tutelato. Ci si accorge come sia possibile instaurare una similitudine tra la posizione della giurisprudenza che spiega l’utilizzo del parametro probabilistico in forza del bene giuridico tutelato, e la tesi che qui è oggetto di critica. Entrambe, infatti, tralasciano surrettiziamente il campo della causalità, per fondare l’imputazione sul pericolo insito nella condotta. La giurisprudenza, infatti, premettendo che si tutela il bene della vita deve necessariamente concludere per la rilevanza penale di tutte quelle condotte che aumentino, anche di pochi punti percentuale, il rischio per il bene protetto, l’imputazione oggettiva dell’evento sulla stessa scorta disciplina l’area del rischio in funzione del bene giuridico e dell’utilità sociale della condotta, termini vaghi e suscettibili di interpretazioni discrezionali che mirano ad imputare, non causalmente, l’evento ad un’azione di per sé colposa, giustificando tale soluzione col fatto che l’azione colposa non potrebbe considerarsi socialmenle (145) CASTALDO, op. ult. cit., ibidem. L’A. relativamente all’utilità sociale la scompone in alcuni corollari: la relatività, la legge del minimo mezzo, l’opportunità condizionata, la legge di reciprocità. Quanto al primo dei suddetti corollari, l’A. definisce l’utilità come l’idoneità di una cosa a soddisfare un bisogno. Quest’ultimo, a sua volta, integra lo stato di disagio che muove l’individuo a procurarsi il mezzo per far cessare la situazione dolorosa. La variabilità dei bisogni e dei mezzi, spinge l’A. a sostenere che l’utilità sociale è temporalmente e personalmente relativa. Il secondo corollario si basa sull’assioma secondo cui l’intensità del bisogno è direttamente proporzionale alla facilità nel raggiungerlo, perciò il pericolo collegato all’attività strumentale per il conseguimento ne diminuisce l’appetibilità. La spinta alla realizzazione di un fine cresce con il diminuire dei sacrifici indispensabili per ottenerlo: l’utilità segue la legge del minimo mezzo. Il terzo corollario prevede l’utilità come opportunità condizionata da fattori quali la surrogabilità, economicità e differibilità dell’azione. L’attività, in sé idonea a soddisfare il bisogno diventa surrogabile rispetto ad un’altra meno rischiosa e capace di garantirne il risultato; la stessa sarà influenzata dal fattore costo che imporrà la scelta dell’azione meno costosa e dal fattore differibilità, qualora non vi sia necessità immediata di agire. Infine, La legge di reciprocità tra utilità e pericolosità sostiene che, a differenza della visione tradizionale monodirezionale, secondo cui l’utilità elevata giustifica quote ampie di rischio, anche il fattore rischio incide negativamente sull’utilità, diminuendo la spinta al soddisfacimento del bisogno. (146) CASTALDO, op. ult. cit., p. 1099.
— 1622 — utile, ed in più il valore del bene protetto non ammetterebbe ingiustificati aumenti della soglia di rischio. È facile notare come le due interpretazioni siano speculari, e perciò, si spiegano le critiche, già analizzate, sollevate da una parte della dottrina. L’imputazione oggettiva dell’evento, però, non esce svilita del suo valore da questa analisi, anzi, si è arricchita perché proprio per superare il suo limite di fondo (cioè l’imputazione di un evento in conseguenza del disvalore di condotta), è stata costretta a recuperare un parametro oggettivo che disciplini la portata e l’estensione della soglia di rischio consentito. Tale requisito oggettivo è la frequenza cioè l’indice che misura il numero percentuale di lesioni che un dato bene giuridico X, subisce da una data condotta Y. È stato sostenuto che non è possibile l’impiego di formule matematiche in grado di indicare con precisione i limiti dei rischi accettabili. Un metodo che pretendesse di razionalizzare una materia soggetta a giudizi di merito, e quindi all’inevitabile elasticità degli stessi, prima ancora che irrealizzabile sarebbe giuridicamente scorretto (147). Non sembra condivisibile tale soluzione, infatti, fondare la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento (rectius: la portata dell’area di rischio consentito) solo sul parametro cost-benefits, non sembra apportare un valore oggettivo che separi il giudizio di adeguatezza della condotta, dal giudizio causale della stessa a produrre l’evento. Le obiezioni indirizzate a tale teoria sono superabili solo con riferimento al suindicato parametro oggettivo, altrimenti si dovrà convenire con chi afferma che sia un’indebita anticipazione in termini causali di temi che appartengono all’imputazione soggettiva (148). La frequenza sarebbe l’equivalente dell’alto grado di credibità razionale previsto nella teoria di Stella, e solo in questi termini sembrerebbe possibile proporre l’imputazione oggettiva, non come sostituto della teoria causale, ma come correttivo di quest’ultima. Tale requisito è suscettibile di etero-integrazione da parte di leggi scientifiche e massime d’esperienza che stabiliscono la frequenza di lesioni che il bene ha da una certa condotta. Al di sotto dell’indice di frequenza l’azione sarà sempre coperta dal rischio consentito (in altri termini sarà socialmente adeguata), al di sopra dell’indice di frequenza si dovrà concludere che l’azione abbia aumentato il rischio di verificazione dell’evento e dunque imputarlo alla condotta dell’agente. Applicando queste considerazioni al caso in commento, si vede come l’azione salvifica abbia un indice di frequenza (di lesione) pari al 70%, contro un 30% che l’azione vada a buon fine. Le percentuali inferiori all’indice di frequenza di lesione rientrano nel rischio consentito, mentre qualora l’azione lo abbia aumentato, l’evento le sarà imputato. Stando così le cose, qualora non vi siano dati oggettivi che dimostrino che la mancata azione abbia aumentato l’indice di frequenza di lesione, il nesso di causalità non può ritenersi sussistere in quanto pur colposa l’azione non ha aumentato il rischio di verificazione dell’evento. La soluzione sarebbe stata diametralmente opposta se fosse intervenuta una legge o una massima d’esperienza che avrebbe consentito di valutare altre circostanze (tempra, sensibilità ai farmaci, ecc.), tali da poter dimostrare che l’indice di frequenza sia stato superato anche dell’1%, in questi casi, nessun dubbio è consentito, l’evento è conseguenza dell’azione o dell’omissione. 5.
Conclusioni. — Nel corso del commento si è evidenziato come fosse pos-
(147) CASTALDO, op. ult. cit., p. 1100. (148) MORSELLI, Il problema della causalità nel diritto penale, cit., p. 888, sulla stessa scia di MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, cit., p. 18 sub nota n. 88.
— 1623 — sibile ravvisare un comportamento colposo dei sanitari, di diverso avviso è stato l’organo giudicante che, invece, ha ritenuto essere al cospetto di un ‘‘caso limite’’, che escludeva la responsabilità dei medici perché lo stesso agente modello non avrebbe saputo riconoscere dai dati clinici ‘‘aspecifici’’ l’insorgere della patologia mortale. Nell’analisi della sentenza, lo scrivente ha preferito seguire un procedimento logico diverso, dando rilevanza all’assunto della parte civile secondo cui un ecocardiogramma avrebbe mostrato l’insorgenza di una miocardite. Altro argomento di discussione riguarda l’accertamento del nesso di causalità, poco approfondito in sentenza, che nel corso del commento si è cercato di analizzar meglio fornendo un quadro, seppur approssimativo, delle tesi e delle possibili sfumature interpretative. In questa sede non si vuole ritornare a disquisire sull’esattezza della decisione, ma si tenterà di dimostrare come, in alcuni settori particolari, sia arduo individuare il contenuto esatto della regola di condotta. In secondo luogo si cercherà di fornire una soluzione che possa risolvere i problemi relativi al nesso di causalità, tutelando maggiormente i pazienti da possibili vuoti di tutela che, a volte, i difficili accertamenti tecnici possono produrre. La prima questione è l’oggetto della prevedibilità: la regola di condotta. Nell’ipotesi di colpa generica, la figura dell’homo eiusdem conditionis et professionis non sempre aiuta ad individuare l’esatto contenuto della regola cautelare. Il riferimento a norme sedimentate nella cerchia sociale di appartenenza può risultare inadeguato in settori, come quello medico, in cui la prestazione ha carattere altamente tecnico e specialistico. Tale assunto non vuole riaprire il dibattito sull’applicabilità dell’art. 2236 c.c. in ambito penale (149), ma cerca di suggerire una soluzione che possa fornire un grado di certezza maggiore nell’accertamento della responsabilità medica. Lo scrivente propenderebbe per l’emanazione di un corpus di regole che disciplinino i settori nevralgici dell’arte medica, fornendo una regolamentazione del rischio non rimessa ai privati (150). Il ricorso alla colpa specifica, invocato da una parte della dottrina nel dibattito sul diritto penale del lavoro (151), sembra necessario soprattutto in una fase (149) Si rinvia sul punto al dibattito avutosi nel panorama scientifico: CRESPI, Il grado della colpa nella responsabilità penale del medico chirurgico, in Scuol. pos., 1960, p. 484; ID., La colpa grave nell’esercizio dell’attività medico chirurgica, in questa Rivista, 1973, p. 255; ID., La responsabilità penale del trattamento medico chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p. 90; AVECONE, La responsabilità penale del medico, Padova, 1981, p. 153; GRASSO, La responsabilità penale nell’attività medico chirurgica: orientamenti giurisprudenziali sul grado della colpa, in Riv. it. med. leg., 1979, p. 88; Cass. pen., sez. 4, 27 luglio 1968, DE GENNARO, in Zacchia, 1970, p. 432; Cass. pen., sez. 4, 20 dicembre 1985; PINEDDA, in Mass. Cass. pen., 1985, n. 171386; Cass. pen., sez. 4, 7 giugno 1983; SPECIALE SANTI, in Mass. Cass. pen., 1983, n. 159415; Cass. pen., sez. 4, 17 febbraio 1983; MASSIMO, in Mass. cass. pen.1983, n. 157496; Cass. pen., sez. 4, 6 giugno 1981; FARAGGIANA, in Cass. pen.,1982, p. 1547; Cass. pen., sez. 4, 7 luglio 1977; CASTOLDI, in Foro it., 1978, p. 481. MAZZACUVA, Responsabilità penale e grado della colpa nell’esercizio dell’attività medico chirurgica, in Temi, 1974, p. 15; MUSCOLO, La responsabilità penale del medico nella lesione e nell’omicidio colposi, in Giust. pen., 1984, p. 114, in Giurisprudenza Cass. pen., sez. 4, 22 ottobre 1981; TOMMASINI e altri, in Foro. it., 1982, p. 268; Cass. pen., sez. 4, 21 ottobre 1983; ROVACCHI, Mass. cass. pen., 1983, n. 160826; Cass. pen., sez. 4, 29 settembre 1983; DUÈ, in Mass. cass. pen., 1983, n. 160314; Cass. pen., sez. 4, 22 maggio 1984; CONTI, in Mass. cass. pen., 1984, n. 163320. MANNA, Trattamento medico chirurgico, cit., p. 1293; NAPOLEONI, Nuovi orientamenti del Supremo collegio in tema di responsabilità colposa nell’esercizio dell’arte sanitaria, in Mass. cass. pen., 1978, p. 1566. (150) STELLA, Scienza e norma, cit, p. 388; ID., Il decreto legislativo 626 e la Costituzione, Milano, 2000, pp.3-5. (151) STELLA, Scienza e norma, cit., p. 388. L’A. confronta il modello di legislazione italiano, basato sul ricorso alla norma in bianco, con il modello Americano della completa puntualizzazione normativa. In un altro lavoro (STELLA, Il decreto legislativo, cit., p. 5) sostiene apertamente l’incostituzionalità di un simile modo di legiferare, non solo per contrasto con i principi di riserva di legge, perché demandare il compito di disciplinare l’area del rischio al privato violerebbe le norme Costituzione artt. 1, 4, 41, 2 e 3 comma, in più ritiene lo scrivente l’art.25 perché delegherebbe il completamento della fattispecie ad una
— 1624 — cruciale del settore medico quale l’attività di diagnosi, in quanto altamente complessa e quindi esposta al rischio dell’errore (152). Queste affermazioni non vogliono portare all’esclusione della colpa generica (153), la quale manterrebbe il compito di integratrice della diligenza nei casi in cui non sia possibile racchiudere tutto il suo contenuto nella norma scritta (c.d. norme elastiche). Una serie di norme scritte (colpa specifica) possono consentire un grado di certezza maggiore e di controllo (ma mai d’ingerenza) sull’operato dei medici, portando ad un innalzamento della diligenza e della preparazione dei sanitari. L’enucleazione di regole obiettive di condotta non puo far altro che spingere i destinatari ad uniformarsi a queste ultime, le quali saranno la risultante dell’incontro tra regole presenti nel corpo sociale di appartenenza e tecniche, accorgimenti e esperienze professionali dei migliori esponenti della medicina. Sembra questa la strada da seguire per rendere obiettiva la soglia di rischio, demandando il compito di individuare e tipizzare l’area di rischio al diritto (154). Il settore medico, addirittura, potrebbe risultare corne banco di prova per la sperimentazione di una serie di regole di condotta a contenuto preventivo cautelare che ‘‘contengano il rischio fisiologico’’ al di sotto della soglia di rilevanza penale (155). Per quanto concerne il secondo aspetto, il nesso di causalità, si è potuto osservare come all’orientamento giurisprudenziale apertamente schierato in ambito probabilista, fino a sfociare in alcune pronunce in una imputazione oggettiva non causale, possibilista, faccia da contraltare la dottrina che è divisa tra probabilità vicina alla certezza od alta credibilità razionale. Lo scrivente condivide, in ultimo, la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, intepretandola in modo da valorizzare un requisito oggettivo: la frequenza, che superi un modello d’imputazione altrimenti basato solo sul disvalore di condotta. All’attento lettore, però, non sarà sfuggito che queste formulette limitino, ma non possano escludere la discrezionalità dell’inteprete nell’accertamento del decorso causale. Ciò è dovuto al fatto che in medicina non sempre sarà possibile ricorrere al calcolo matematico, biostatistico, sul modello del calcolo bayesiano con risultati in termini di sostanziale certezza, in molti altri settori della medicina (ad esempio la medicina legale) si dovrà necessariamente utilizzare un giudizio probabilistico, di natura soggettiva (discrezionale), che può essere solo limitato da fornorma di rango inferiore. L’A. soggiunge che si ravvisa un ulteriore profilo di incostituzionalità per violazione del principio di determinatezza e legalità, per la mancanza di criteri certi ed unanimi nella valutazione del rischio (STELLA, Il decreto legislativo, cit., p. 20). (152) ‘‘Si tratta di un giudizio induttivo che può essere scisso in una fase empirica ed in una fase razionale. Nella prima, l’errore può essere dovuto ad una anamnesi imprecisa o difettosa oppure quando l’esame obiettivo è incompleto nella raccolta dei sintomi o gli esami strumentali e di laboratorio sono stati eseguiti in modo non esatto o sono male interpretati. Nella seconda l’errore è riconducibile all’elaborazione, selezione, valutazione, comparazione dei dati raccolti’’. BILANCETTI, La responsabilità penale, cit., p. 384. (153) Sulla stessa scorta: INTRONA, Metodologia medico legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, in Riv. ita. med. leg., 1996, p. 1323 ‘‘... Infatti la medicina, benché tecnologizzata, conserva ancora una forte componente di arte cioè la personalizzazione che ogni medico conferisce al suo agire in ciascun singolo caso sulla base della propria esperienza e della propria sensibilità professionale. I protocolli, non possono avere carattere imperativo...’’. SGUBBI, I reati in materia di sicurezza e igiene del lavoro: connotati del sistema, in Ambiente salute e sicurezza, Torino, 1997, p. 259. (154) Soprattutto in materia di diritto penale del lavoro si sottolinea la tesi di STELLA, Il decreto legislativo 626, cit., p. 6; LAGEARD, Le malattie da lavoro, cit., p. 250. (155) La minimizzazione del rischio al di sotto di una certa soglia di rilevanza può essere prefissata solo in virtù di una valutazione e perciò non dalla tecnica ma dal diritto’’; SCHUNEMANN, Die Regeln der Technik in Strafrecht, in Festchrift für Karl Lackner, Berlin-New York, 1987, p. 367.
— 1625 — mule quali alta credibilità razionale, probabilità vicina alla certezza, frequenza di lesione (156). Lo stesso ricorso che alcuni autori fanno a massime d’esperienza ed a giudizi di inferenza (modello ipotetico deduttivo) (157) sono la riprova che l’accertamento causale, solo in rare ipotesi, sarà sorretto dalla certezza. La stessa soluzione dell’imputazione oggettiva fondata sulla frequenza ha bisogno di dati che, il più delle volte, indichino in termini probabilistici che l’azione ha superato l’area del rischio consentito. Del fatto che non si possa prescindere da un giudizio probabilistico è riprova il fatto che, nelle aule di Tribunale, il nesso di causalità è dimostrato dalle perizie medico legali, queste ultime necessariamente formulate in termini probabilistici, perché frutto di un giudizio induttivo-criteriologico (158). Compito dell’interprete sarà quello di convivere con la discrezionalità non di combatterla, per questo nell’accertamento del nesso causale sembrano preferibili le tesi della sussunzione sotto leggi e dell’imputazione oggettiva dell’evento (reinterpretata), perché riducono, ma non escludono, la discrezionalità. Prendendo spunto da altri settori dell’ordinamento (diritto penale del lavoro) è stato di recente evidenziato come l’eccessivo utilizzo di fattispecie causalmente orientate, frutto del clima culturale scientifico del ’30, abbia oscurato l’utilizzo di fattispecie a tutela anticipata e di reati di pericolo concreto (159). Non sono mancate altre interpretazioni, ancor più vicine al tema in discussione; si è suggerito, infatti, di superare i problemi relativi alla causalità omissiva, ricorrendo agli schemi del reato omissivo proprio, del reato di mera condotta, eventualmente con la condizione di punibilità del prevedibile verificarsi dell’evento lesivo (160), soluzioni cui sembrerebbe ispirata anche la riforma del codice penale (161). Non sembra che sia necessario spingersi verso soluzioni che apparentemente potrebbero contrastare con il principio di offensività (162) (reati di pericolo) o di colpevolezza (163) (condizioni obiettive di punibilità). L’interpretazione proposta della teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, infatti, verrebbe ad essere ulteriormente arricchita da una normativa specifica (colpa specifica) che quantifichi le percentuali di rischio. Tale soluzione sembra che risolva i problemi relativi all’accertamento causale, infatti, da una parte la violazione della norma cautelare proverebbe la causalità della colpa, dall’altra il saggio utilizzo della probabilità, al fine di rilevare la fre(156) BARNI, Il criterio della probabilità nella valutazione medico legale del nesso causale, in Riv. it. med. leg., 1991, p. 32; ID., Il giudizio medico legale della condotta sanitaria omissiva, in Riv. it. med. leg., 1994, p. 3. (157) BLAIOTTA, Causalità e colpa nella professione medica, cit., p. 1210; ID.,Il caso ATR-42, cit., p. 2904. (158) BARNI, Il medico legale e la causalità, in Riv. it. med. leg., 1979, p. 393; BLAIOTTA, Causalità e colpa, cit., p. 1209; FIORI, Il criterio di probabilità nella valutazione medico legale del nesso causale, in Riv. it. med. leg., 1991, p. 29. (159) STELLA, Scienza e norma, cit., p. 387. (160) BLAIOITA, Causalità e colpa nella professione medica, cit., p. 1219; si veda anche: MARRA, Responsabilità professionale del medico verso la responsabilità oggettiva e l’inversione dell’onere della prova, in Riv. it. med. leg., 1993, p. 224. (161) Relazione della Cornmissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. lo ottobre 1998, in questa Rivista, 1999, p. 611. (162) Sui rapporti tra reati di pericolo e principio di offensivita: MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., pp. 311 e spec. 413-420; PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, p. 318; ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, la struttura oggettiva, Milano, 1994, p. 218. (163) MARINUCCI-DOLCINI, op. ult. cit., pp. 319 spec. 331; ANGIONI, Condizioni obiettive di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, p. 1440; MORMANDO, L’evoluzione storico dogmatica delle condizioni obiettive di punibilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 610.
— 1626 — quenza di lesione, coadiuvato da dati esterni che giustifichino l’iter logico-decisionale, indicherebbero se l’azione abbia superato i margini di rischio, provando anche la causalità della condotta. GIANDOMENICO SALCUNI Università di Foggia
RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)
Verso una ‘‘legge organica’’. « ... 2. Fino all’emanazione di una legge organica in materia, l’estradizione per l’estero è disciplinata dalle Convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dagli artt. 696 e seguenti del codice di procedura penale. In assenza di convenzioni l’estradizione per l’estero non è ammessa se il fatto che forma oggetto della domanda non è preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge dello Stato richiedente ». (Dall’art. 4 delle Disposizioni di attuazione e coordinamento del Progetto preliminare di riforma del Codice penale approntato dalla Commissione Grosso) (1).
Verso il riconoscimento reciproco delle decisioni penali in ambito europeo. « L’articolo 31, lettera a) del trattato sull’Unione europea stabilisce che l’azione comune nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale comprende ‘‘la facilitazione e l’accelerazione della cooperazione tra i ministeri competenti e le autoritità giudiziarie o autorità omologhe degli Stati membri in relazione [...] all’esecuzione delle decisioni’’. La cooperazione giudiziaria tradizionale in materia penale si basa su diversi strumenti internazionali, caratterizzati essenzialmente da quello che può essere definito il principio della ‘‘richiesta’’: uno Stato sovrano presenta una richiesta ad un altro Stato sovrano, che decide di dare o non dare seguito a tale domanda. Le norme che regolano il seguito da dare ad una richiesta sono a volte piuttosto rigide, e non lasciano molta scelta; tuttavia, in altre occasioni, lo Stato richiesto è relativamente libero nell’adozione delle sue decisioni. In quasi tutti i casi, lo Stato richiedente deve attendere la risposta alla sua richiesta prima di ottenere gli elementi necessari alle sue autorità per avviare un procedimento penale. Tale sistema tradizionale presenta lo svantaggio di essere non solo lento, ma anche complesso. Inoltre, gli esiti di una richiesta formulata da un giudice o da una Procura sono spesso incerti. Di conseguenza, sulla base di concetti che sono stati molto utili per la creazione del mercato unico, è nata l’idea che la cooperazione giudiziaria potrebbe anch’essa trarre vantaggio dalla nozione del riconoscimento reciproco che, in parole povere, significa che un determinato provvedimento, per esempio, una decisione adottata da un giudice nell’esercizio dei suoi poteri ufficiali in uno Stato membro, sarebbe automaticamente accettato in tutti gli Stati membri — nella misura in cui abbia implicazioni transnazionali — esplicandovi effetti identici o almeno analoghi. La Commissione è perfettamente consapevole del
(*) A cura di MARIO PISANI. (1) Nella Relazione (8.4) si parla dell’art. 4 come di previsione transitoria. Ricordiamo — con QUADRI, voce Estradizione (dir. intern.), vol. XVI, 1967, p. 13, nota 55 — che l’inclusione dell’art. 13 nel tit. I, l. I, del codice penale (1930), intitolato Della legge penale, ‘‘ha confuso le idee della dottrina o per dir meglio è il frutto della confusione di idee di cui la Relazione ministeriale è lo specchio fedele’’.
— 1628 — fatto che ciò che può sembrare semplice può, in seguito ad un esame più approfondito, rivelarsi una materia molto complessa, e uno dei principali obiettivi della presente comunicazione è di indicare come, secondo la Commissione, l’Unione europea potrebbe superare tali difficoltà. È opportuno ricordare la seguente dichiarazione del Consiglio europeo di Tampere [1999]: ‘‘Il rafforzamento del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e delle sentenze e il necessario ravvicinamento delle legislazioni faciliterebbero la cooperazione tra le autorità, come pure la tutela giudiziaria dei diritti dei singoli (2)’’. Il riconoscimento reciproco dovrebbe pertanto garantire non solo che le sentenze siano applicate, ma anche che lo siano in maniera tale da tutelare anche i diritti dei singoli. Al riguardo sarebbe, per esempio, opportuno dare esecuzione ad una sentenza in un altro Stato membro, se ciò consente un migliore reinserimento sociale del condannato’’. Abbiamo riportato la parte iniziale dell’introduzione ad un’ampia ‘‘comunicazione’’ della Commissione delle Comunità Europee, diretta, in data 26 luglio 2000, al Consiglio e al Parlamento europeo, con l’invito a formulare ‘‘osservazioni sulle misure proposte’’. L’argomento dovrà dunque essere ripreso in un prossimo futuro.
Sul trasferimento all’estero delle persone condannate (3). 1.1. Se è giusto pensare — come aveva ritenuto la Commissione inglese per la pena di morte del 1953 e come è scritto nell’art. 18 della Costituzione argentina — che si va in carcere come punizione, punizione rappresentata dalla perdita della libertà, e non per la punizione (‘‘... y no para castigo’’) e cioè la punizione ulteriore rispetto alla perdita di libertà, questo surplus di punizione (e, quindi, di sofferenza) è, comparativamente, tanto più elevato, almeno di solito, per il detenuto straniero. 1.2. Abolire il carcere? Qualcuno ha anche proposto un obiettivo del genere, ovviamente massimalistico, ed anche utopistico e, ad ogni modo, si può pure convenire, almeno in parte, con la puntualizzazione di Foucault, secondo cui la storia del carcere è un po’ la storia della sua abolizione. 1.3. Prima di allora, ad ogni modo, assume molta importanza, per il detenuto, non solo il carcere in sè e per sè, ma anche il come del carcere (si vuol dire l’habitat e il trattamento carcerario). E una buona parte di questo come è costituito dal dove del carcere. Infatti, se, per ogni detenuto, la sofferenza può nascere dalle condizioni esistenziali — molto tempo e poco spazio, incrociati dalla solitudine e dall’estraniamento — per il detenuto straniero solitudine ed estraniamento comportano, ovviamente, difficoltà in misura senz’altro più considerevole. 1.3.1. C’è voluto del tempo, perchè maturasse una consapevolezza del genere (prima, nessuno ci pensava). Quando, più tardi, ce se ne è accorti, da questa consapevolezza sono maturate delle conseguenze assai apprezzabili. Nella disciplina italiana dell’esecuzione carceraria, l’art. 33 del regolamento, del 1976, per l’esecuzione della legge (del 1975),a proposito dei detenuti ed internati stranieri e, più ampiamente, l’art. 35 del nuovo regolamento (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), invitano gli
(2) Si trattava della conclusione n. 33: v. in questa Rivista, 2000, p. 394. (3) Si tratta dello schema della parte introduttiva di una relazione svolta, il 29 agosto 2000, presso l’Università John F. Kennedy di Buenos Ayres. Per un recente excursus in ordine alla tematica in discorso v., da ultimo, in questa Rivista, 1999, pp. 359, 364, 731, 735, 1144, 1535; 2000, p. 857. In particolare v., inoltre, la raccolta dal titolo Convenzioni sul trasferimento delle persone condannate, a cura di E. Zanetti, 1999, pp. XII-276.
— 1629 — operatori a ‘‘tener conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali’’, a favorire ‘‘possibilità di contatto con le autorità consolari del loro Paese’’, e, inoltre, ‘‘l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato’’. Per l’appunto: difficoltà linguistiche, differenze culturali, precarietà di contatti e di apporti di tipo assistenziale rischiano di aggravare notevolmente la limitazione della libertà personale del detenuto straniero; e di aggravarla, non solo nella sua intensità punitiva, ma anche nella sua qualità, così da ridurla ad una mera detenzione di stampo repressivo, depotenziata delle sue virtualità di sviluppi positivi. 1.3.2. Sviluppi positivi, si intende, nel senso della rieducazione o, come altri testi normativi preferiscono dire, del reinserimento sociale. 2. Per tutte queste ragioni, in parallelo alla consapevolezza circa l’importanza del come, e del dove, è maturata la consapevolezza circa l’importanza del come, e del dove, della rieducazione e del reinserimento sociale. Rieducazione, ma dove? in vista di quale esito? E, soprattutto, reinserimento sociale: ma dove? in quale contesto sociale? Questi gli interrogativi di fondo. 3.1. Per fornire una risposta plausibile e soddisfacente a questi interrogativi è maturata una nuova forma di cooperazione internazionale in materia penale. 3.2. Per dirlo in breve: dalla species primigenia, rappresentata dall’estradizione, è nata, per una sorta di partenogenesi, l’assistenza giudiziaria in materia penale (in sostanza: l’estradizione delle cose, del materiale probatorio), agli inizi chiamata assistenza minore. Senonché da questa species è nato, e si è sviluppato, il più ampio genus della cooperazione internazionale in materia penale. E così sono progressivamente venuti in evidenza: — il tema della validità delle sentenze straniere; — il tema del trasferimento dei procedimenti all’estero; — il tema del trasferimento all’estero dei controlli sulle sospensioni condizionali della pena e sulle liberazioni condizionali; — il tema — ultimo stadio di sviluppo della materia — dell’esecuzione all’estero delle condanne alla pena detentiva (già prevista, piuttosto raramente e unilateralmente, in qualche codice). Si intende qui parlare del trasferimento delle persone a fini di esecuzione della condanna, e al di fuori della tematica dell’estradizione esecutiva; un trasferimento, dunque, da tenersi ben distinto dall’eventuale, e provvisorio, trasferimento di detenuti all’estero a fini di prova. 3.3. A quanto risulta da un’amplissima ed importante indagine di diritto comparato, quella svolta da MICHAL PLACHTA, pubblicata in Germania (a Friburgo) nel 1993, il primo trattato che ha previsto il trasferimento all’estero dei detenuti è quello intervenuto, nel 1951, tra Libano e Siria. Si trattava, dunque, di un trattato bilaterale, certamente avvantaggiato dalla vicinanza geografica, e verosimilmente anche dall’intensità del contenzioso correlativo. 3.4. Ma un vero e proprio ‘‘salto di quantità’’, ed anche di qualità, fu realizzato alcuni anni dopo, con la convenzione, sul trasferimento delle persone condannate, del Consiglio d’Europa, aperta alla firma nel 1983. Salto di quantità perchè si trattava, e si tratta, di una convenzione multilaterale e per di più (come vedremo) con vocazione universale. 3.4.1. La Convenzione è entrata in vigore, sul piano internazionale, il 1o luglio 1985, a seguito del deposito di tre strumenti di ratifica: e ciò è avvenuto, contemporaneamente (lo stesso giorno), da parte di Francia, Spagna e Svezia. 3.4.2. Per quanto concerne l’Italia, che pure l’aveva firmato nel 1984, la convenzione di Strasburgo è entrata in vigore solo nel 1989, per effetto di una maggiore sensibilità al pro-
— 1630 — blema, maturata in correlazione alle trattative, ed al trattato, di cooperazione tra Italia e Thailandia per l’esecuzione delle sentenze penali: una cooperazione resasi particolarmente intensa per via delle condanne in materia di droga. Quel trattato — la legge di ratifica era del 1988 — ha fatto un po’ da battistrada per il deposito dello strumento di ratifica, disposto lo stesso anno, della convenzione di Strasburgo. 3.4.3. Si diceva della ‘‘vocazione universale’’ di questa Convenzione: essa emerge dall’intendimento (reso palese dal ‘‘Rapporto esplicativo’’, al § 11), di omettere, nell’intestazione, l’aggettivo Convenzione europea, previsto, invece, da tutte le precedenti convenzioni elaborate in sede di Consiglio d’Europa (un esempio poi seguito nella convenzione del 1990, in tema di riciclaggio dei capitali). Vocazione universale, poi, che il quadro delle ratifiche ci presenta come assecondato in misura soddisfacente: si pensi che, al di là dell’ambito dei 41 Paesi del Consiglio d’Europa, la convenzione in discorso è stata ratificata da Bahamas, Canada, Cile, Costarica, Georgia, Israele, Trinidad e Tobago, Stati Uniti d’America. 4. Il discorso sarebbe anche meno completo se non si ricordasse che il VII Congresso ONU per la prevenzione del crimine, svoltosi a Milano nel 1985 (per un resoconto v. in Ind. pen., 1985, p. 661 ss.), ha adottato un accordo-tipo per il trasferimento dei detenuti stranieri (e, insieme, delle raccomandazioni relative al trattamento dei detenuti stranieri), largamente ispirato alla convenzione di Strasburgo. Con risoluzione n. 40/32 del 29 novembre 1985, l’Assemblea generale delle N.U. ha dato la sua approvazione. 5. Ma per venire all’America Latina, ricordo che nell’autunno del 1992 si era svolto, nello Stato di Rio de Janeiro (a Valença), un seminario di studi che aveva visto riunite delle delegazioni giunte, oltre che dal Brasile, dall’Argentina, dal Paraguay e dall’Uruguay. Alla fine dei lavori è stato approvato un o.d.g. che — nella prospettiva dei Paesi del Mercosur — auspicava, tra l’altro, l’elaborazione di trattati bi- e multi-laterali per il trasferimento dei detenuti (v. Ind. pen., 1993, p. 452). 6. Ignoro quanto sia poi avvenuto, e vorrei piuttosto ricordare come la Spagna, che, come si è detto, già nel 1985 aveva ratificato la convenzione multilaterale di Strasburgo (contribuendo in modo determinante alla sua entrata in vigore), ha sottoscritto tre trattati bilaterali con altrettanti Paesi dell’America Latina: — nel 1986 (25 febbraio) col Perù; — nel 1987, prima col Messico (6 febbraio) e poi (29 ottobre) con l’Argentina. E non a caso ha ricordato, nei vari preamboli dei rispettivi trattati, i ‘‘profundos vinculos historicos’’ tra le Nazioni contraenti e ‘‘la rehabilitación social de las personas condenadas’’ come obiettivo delle pene (detentive). (A questo punto l’ulteriore sviluppo dell’esposizione si è incentrato su un parallelo tra la convenzione multilaterale di Strasburgo e il trattato Spagna-Argentina del 1987).
Argentina: la legge sulla cooperazione internazionale in materia penale. In sostituzione dell’antica disciplina dell’estradizione contenuta nella legge n. 1612 del 1885 e, poi, in un capitolo del Codigo de Procedimientos en Materia Penal (artt. 646-671), nella Repubblica Argentina è stata approvata la Ley 13 gennaio 1997 n. 24.767, intitolata ‘‘Cooperación internacional en materia penal - Extradición’’ (B.O. 16 gennaio 1997). Già dalla rubrica risulta chiaro l’intendimento di ampliare la disciplina della materia. La legge è divisa in sei parti. La I è dedicata alle disposizioni generali; la II, all’estradizione (‘‘pasiva’’: artt. 6 ss. e ‘‘activa’’: artt. 62 ss.); la III, all’assistenza internazionale (‘‘en la investigación y juzgamiento de delitos’’: artt. 67 ss.); la IV all’esecuzione delle condanne nella prospettiva internazionale (l’esecuzione in Argentina delle condanne emesse all’estero
— 1631 — — art. 82 ss. — e l’esecuzione all’estero, a seguito di ‘‘traslado del condenado’’, delle condanne emesse in Argentina: artt. 105 ss.). Le parti V e VI (artt. 111-125) sono dedicate, rispettivamente, alle norme di competenza e alle disposizioni transitorie. Per un importante apporto interpretativo della nuova disciplina v. il saggio La nueva Ley de extradición y cooperación en materia penal, in La Ley, 1997 - C., Sec. doctrina, p. 1175, a firma di A.J. D’ALESSIO, G.A. DE PAOLI, A.L. TAMINI, estensori del testo del progetto. Sulla convenzione Italia - Argentina del 9 dicembre 1987 v.Ind.pen 1990, p. 758.
‘‘Insider trading’’ e non collaborazione (4). ‘‘... Tuttavia, a fronte dell’intensa attività svolta dalla Consob, in Procura i risultati sono prossimi allo zero: nessun processo per insider, nessuna condanna. Pensare che fra qualche mese la legge contro l’insider trading compie dieci anni.’’ Dottor Greco, che cosa non va? ‘‘Alcuni patteggiamenti, per la verità, ci sono stati. Ma non basta. I problemi sono fondamentalmente tre: tempi d’indagine troppo lunghi, grande frammentazione delle operazioni e scarsa collaborazione dall’estero. Quando arrivano a noi, i fascicoli sono in un certo senso superati: in genere riguardano operazioni vecchie di anni, sulle quali incombe il rischio della prescrizione. Inoltre, le grandi operazioni attorno alle quali può svilupparsi l’insider miliardario non passano mai per un solo canale. Sono distribuite su centinaia di ordini e decine di committenti difficili da individuare’’. E il terzo problema? La barriera costituita dall’estero. Quando l’ordine passa attraverso un circuito off-shore, spesso l’azione investigativa si blocca. Perché, in genere, o i colleghi esteri non collaborano o, se lo fanno, i tempi di risposta alle nostre rogatorie sono lunghissimi. Così si archivia perché non si riesce a scovare il committente. Ma quand’anche riuscissimo, non è facile provare il legame con la notizia riservata’’. La legge, dunque, serve a poco. ‘‘No, non lo penso. La legge ha introdotto un principio irrinunciabile. Il fatto che sia poco efficace non significa che non doveva essere adottata. Anzi. Abbiamo fatto il primo passo, bisogna ora proseguire nel cammino dotando gli organi competenti degli strumenti adeguati per poterla utilmente applicare. Purtroppo il nostro è un mercato giovane, immaturo, dobbiamo fare i conti con questo handicap. Ma avere una legge è sempre meglio che niente.’’ Lei parla come il presidente della Consob, Luigi Spaventa... ‘‘Diciamo che condivido molte sue scelte. Come quella di sviluppare accordi bilaterali con Paesi che prevedono questo reato, così almeno i tempi di risposta alle nostre richieste d’informazione saranno più brevi’’. Ma se da questi accordi bilaterali resta fuori anche un solo Paese, come per esempio il Liechtenstein, gli insider andranno tutti lì. ‘‘Vero, ma insisto: sempre meglio di niente’’. (da un’intervista del sostituto della Procura della Repubblica milanese dott. F. Greco a A. PASQUALETTO, pubblicata in il Giornale del 24 ottobre 2000, p. 29, sotto il titolo: « Perché la legge sull’insider non potrà mai funzionare »).
(4) Sul tema v. L’‘‘insider trading’’ sui titoli U.S. Shoe e la ‘‘mutua assitenza’’ Italia-Stati Uniti, in questa Rivista 1995, p. 795; Svizzera-Stati Uniti d’America: assistenza giudiziaria penale in tema di insider trading, ibid., 1997, p. 1496. Tra i vari contributi sotto il profilo del diritto penale interno v. VASSALLI, La punizione dell’insider trading, in Studi in memoria di Franco Piga, vol. II, 1992, p. 1969.
— 1632 — ‘‘Insider trading’’: in tema di presupposti e condizioni della cooperazione Francia-Svizzera. Dalla Semaine judiciaire (SJ) di Ginevra del 24 ottobre 2000 (n. 33) attingiamo, traducendolo dall’originale francese, il testo delle ‘‘massime’’ relative alla elaboratissima sentenza (pp. 517-526) di pari data del Tribunale Federale elvetico (presid. Wurzburger, nella causa A. c. Commissione Federale delle Banche). ‘‘1. I componenti della Commissione francese delle operazioni di borsa (COB) sono vincolati dal segreto professionale relativamente ai fatti, agli atti ed alle informazioni di cui essi hanno preso conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni. In tal modo è così soddisfatta l’esigenza della ‘‘confidenzialità’’ imposta dall’art. 38 al. 2. lett. b) della legge federale sulle borse e il commercio dei valori mobiliari (LBVM). 2. L’art. 38 al. 2 lett. c) LBVM impone all’autorità requirente, prima di ogni trasmissione di informazioni ad una qualsiasi autorità non penale, di richiedere il consenso della Commissione Federale delle Banche. 3. La trasmissione di informazioni alle autorità penali straniere è consentita solo se sono realizzate le condizioni dell’assistenza giudiziaria in materia penale’’ (5).
Svizzera-Federazione russa: in tema di cernita e di ‘‘utilità potenziale dei documenti sequestrati’’. 1. Cominciamo col dar conto della ‘‘massima’’ ufficiale (nella versione italiana) tratta dalla sentenza 19 giugno 2000 del Tribunale federale elvetico (ATF 126 II 258), intervenuta nella causa Forus ed altri c. il Ministero pubblico della Confederazione (ricorso di diritto amministrativo): ‘‘(...) Le persone toccate da una misura di assistenza hanno l’obbligo di partecipare alla cernita dei documenti sequestrati presso di loro dal momento dell’esecuzione della domanda e di motivare, in modo preciso, le loro obiezioni alla trasmissione (consid. 9b e c)’’ 2. Presentiamo poi, in una nostra traduzione italiana, il testo della narrativa in linea di fatto: ‘‘La Federazione russa ha richiesto l’assistenza giudiziaria alla Svizzera nel quadro del procedimento penale contro i cittadini russi B.A. Berezovski, N.A. Glouchkov e A.S. Krasnenker, per frode e riciclaggio di danaro, delitti previsti e puniti dagli artt. 159 e 174 del codice penale russo. Secondo l’esposizione dei fatti formulata nella richiesta (6), B., G. e K. sono sospettati d’aver stornato, a loro vantaggio, una parte degli utili della società Aeroflot. Il compendio sarebbe stato avviato su dei conti aperti a nome di società del gruppo Forus. B. e G. erano
(5) Come ricordano, sempre con riferimento alla Svizzera, PONCET e LOMBARDINI (Segreto bancario e modifiche recenti nel diritto di cooperazione penale nella Confederazione Elvetica, in Banca, borsa e tit. di credito, 1998, p. 490, n. 13), se, in linea di principio, una rogatoria in materia penale deve provenire dall’autorità giudiziaria penale, si segnalano però casi di decisioni su rogatorie provenienti da autorità di vigilanza del mercato borsistico, in quanto fornite di specifici ed estesi poteri di investigazione. Gli AA. ricordano — v. anche la precedente nota (4), relativa ad un caso del 1992 — quanto alla SEC statunitense, la sentenza del Tribunale Federale del 18 luglio 1994, in SJ, 1995, p. 13 (adde: altra sentenza del 24 novembre 1999) e, quanto alla COB francese, la sentenza del 10 maggio 1995, ibid., 1996, p. 190. Sull’obbligo, per l’Italia, di dare esecuzione a rogatorie provenienti dalla SEC v. i riferimenti indicati nella nostra nota dal titolo: Italia-Stati Uniti: la materia penale nel trattato di « mutua assistenza », in Ind. pen., 1995, p. 160. (6) Alla stregua dell’art. 64 della Legge federale sull’assistenza internazionale in materia penale, i provvedimenti coercitivi in materia ‘‘possono essere ordinati soltanto ove dall’esposizione dei fatti risulti che l’atto perseguito all’estero denota gli elementi obiettivi di una fattispecie punibile secondo il diritto svizzero. Essi devono essere eseguiti secondo il diritto svizzero’’.
— 1633 — stati l’azionista e gli amministratori delle società del gruppo Forus e gli aventi diritto dei conti in questione. La richiesta mirava alla consegna di tutta la documentazione relativa alle attività della società Forus in ordine ai fatti descritti nella richiesta stessa, così come alla consegna della documentazione riguardante i conti bancari richiamati nella richiesta e di cui i sospettati sarebbero i beneficiari. Le autorità russe hanno pure chiesto che venissero sentiti i testimoni. Il Ministero pubblico della Confederazaone, al quale l’Ufficio federale di polizia aveva delegato l’esecuzione della richiesta, ha proceduto al sequestro dei documenti ed all’audizione dei testimoni. Le società Forus, così come tre testimoni, hanno inoltrato, contro le decisioni del Ministero pubblico, un ricorso di diritto amministrativo, che il Tribunale federale ha respinto per la parte ritenuta ammissibile’’. 3. Facciamo seguire, sempre in traduzione, i passaggi della motivazione che ci preme mettere a fuoco: ‘‘(...) 9-b) Con un primo motivo, i ricorrenti lamentavano che il Ministero pubblico non ha proceduto alla cernita dei documenti da trasmettere allo Stato richiedente. aa) La partecipazione del detentore alla cernita dei documenti da trasmettere allo Stato richiedente discende, in primo luogo, dal suo diritto di essere sentito (ATF 116 Ib 190 consid. 5 b p. 191/192). Questa partecipazione dev’essere intesa anche come corollario della regola della buona fede che regge i reciproci rapporti tra lo Stato e i privati (art. 5 al. 3 Cost.) (7), nel senso che questi sono tenuti a collaborare alla corretta applicazione del diritto da parte dell’autorità. In materia di assistenza giudiziaria, ciò comporta, per la persona sottoposta a misure coercitive, l’obbligo di collaborare con l’autorità di esecuzione, soprattutto per evitare che questa ordini delle misure sproporzionate, e perciò incostituzionali (8). Pertanto, la persona interessata dalla perquisizione e dal sequestro dei documenti che le appartengono è tenuta, a pena di decadenza, ad indicare all’autorità di esecuzione quali documenti, a suo giudizio, e per quali ragioni, non dovrebbero essere trasmessi. Questo dovere di collaborazione discende dal fatto che il detentore dei documenti ne conosce il contenuto meglio dell’autorità; egli facilita e semplifica il compito di questa, e così concorre al rispetto del principio di celerità della procedura, ancorato all’art. 17 a al. 1 della legge sull’assistenza internazionale in materia penale (9). La previsione di tale obbligo è applicabile non solo nella procedura del ricorso di diritto amministrativo (ATF 122 II 367 consid. 2 d p. 371/372), ma anche allo stadio di esecuzione della richiesta. Nell’ottica della buona fede, non è infatti ammissibile che il detentore dei documenti sequestrati lasci che l’autorità d’esecuzione proceda da sola alla cernita delle carte, senza prestarle alcuna collaborazione, per poi, a cose fatte, nel quadro di un ricorso, rimproverarle d’aver disconosciuto il principio di proporzionalità. In questo senso, e contrariamente a quanto pretendono i ricorrenti, la cernita della documentazione non è affare esclusivo dell’autorità di esecuzione. D’altro canto, è necessario che quest’ultima offra al detentore l’occasione, concreta ed effettiva, di prendere posizione a tale riguardo, al fine di consentirgli di esercitare il suo diritto d’essere ascoltato e di soddisfare l’obbligo di cooperazione all’esecuzione della richiesta (...). I ricorrenti, avendo assunto il rischio di non prendere posizione, come avrebbero dovuto fare, davanti al Ministero pubblico, devono subirne le conseguenze’’. 4. E così continua la sentenza: ‘‘c) Ma anche a ipotizzare che la presa di posizione del 1o febbraio 2000 non sia stata tardiva, essa, ad ogni modo, sarebbe motivata in misura insufficiente.
(7)
L’art. 25 della nuova Costituzione della Confederazione elvetica, in questa Rivista, 2000, p.
851. (8) Art. 5, al. 2. Cost.: ‘‘L’attività dello Stato deve rispondere al pubblico interesse ed essere proporzionata allo scopo’’. (9) Svizzera: modifiche alla legge federale sulla cooperazione internazionale in materia penale, in Ind. pen., 1996, p. 793.
— 1634 — Quando i ricorrenti intendono opporsi alla trasmissione di un certo documento, è sempre per la ragione che, a loro modo di vedere, esso non sarebbe attinente alle operazioni con Aeroflot. Questo criterio non è condivisibile, perchè non consente di determinare in modo chiaro quali documenti potrebbero venire trasmessi e quali no. Da un lato, la sola menzione del nome Aeroflot in un documento non significa ancora che esso abbia a che fare con i rapporti tra il gruppo Forus e Aeroflot. Dall’altro lato, dei documenti che non riportano nessuno di questi nomi potrebbero ben rispondere al criterio preconizzato dai ricorrenti. Questi sembrano partire dalla premessa — erronea — che la richiesta [di assistenza] concerna esclusivamente le informazioni e i documenti riguardanti, da vicino o da lontano, i rapporti tra le società Forus e Aeroflot. Una tale concezione misconosce il principio detto della ‘‘utilità potenziale’’, secondo cui il Ministero pubblico deve trasmettere dei documenti concernenti altre persone, società o conti, anche se non menzionati nella richiesta, sempre che questi ragguagli possano essere utili alla procedura aperta nello Stato richiedente (10), e che siano rispettate le condizioni della cooperazione internazionale. Non basta dunque dire, in maniera generale ed indifferenziata, che i documenti non riguardano la procedura straniera, ma occorre piuttosto provvedere a delle indicazioni precise, documento per documento. Orbene, i ricorrenti non lo hanno fatto. E non spetta certo al Tribunale federale di rimediare, ex officio, alle manchevolezze del ricorso al riguardo (cfr. ATF 122 II 367 consid. 2 d p. 371/372) e di difendere al loro posto gli interessi dei ricorrenti’’.
Trasferimento a Stati esteri di valori patrimoniali confiscati a Ginevra. ‘‘Il Consiglio di Stato ha disposto la seguente procedura in tema di trasferimenti a Stati esteri di valori patrimoniali confiscati, devoluti allo Stato [al Cantone] di Ginevra, a seguito di atti di corruzione o di gestione infedele di interessi pubblici compiuti a loro danno: 1. La decisione è assunta dal Consiglio di Stato, su previo parere del procuratore generale, a seguito di richiesta dello Stato estero interessato, sempre che sia garantita la reciprocità. 2. La sentenza penale che dispone la confisca di tali valori — o l’appostazione di un credito in compensazione — e la loro devoluzione allo Stato di Ginevra deve essere esecutiva. 3. Il fatto che i valori patrimoniali considerati rappresentino — o, in caso di credito compensativo, vadano a neutralizzare — il profitto di atti di corruzione o di gestione infedele di interessi pubblici compiuti ai danni di uno Stato estero, costituisce, di regola, un motivo sufficiente per trasferire tali valori a questo Stato. 4. Il Consiglio di Stato può disporre che una parte di tali valori siano trattenuti a copertura delle spese di indagine e di procedura sopportati dallo Stato di Ginevra e/o subordinare il trasferimento alle condizioni o agli oneri giustificati dalle circostanze. 5. Restano impregiudicate le misure di cooperazione internazionale di competenza delle autorità giudiziarie e dell’Ufficio federale di polizia. (Traduz. da FAO del 22 settembre 2000.).
Il caso Lojacono: una nuova fase. In attesa di leggere, se sarà possibile, la decisione della Chambre d’accusation di Bastia
(10) Utilità deducibile, verosimilmente, dalle opportune valutazioni condotte in ordine alla ‘‘esposizione dei fatti’ di cui alla nota (6).
— 1635 — (Corsica), alla quale dovremo fare riferimento, limitiamoci alle cronache (sia pure con le dovute riserve): 1. ‘‘La stella a cinque punte tatuata nel palmo della mano sinistra — tra pollice e indice — è stata solo l’ultima conferma. Quel signore che si era appena tolto la maglietta azzurra per prendere il sole sulla spiaggia dell’Ile Rousse, Corsica, era proprio Alvaro Lojacono. L’ultimo brigatista del commando di via Fani ad essere condannato all’ergastolo (primo dicembre 1994). Un irriducibile. I tre poliziotti gli si sono avvicinati. Un’occhiata alla mano, poi un cenno agli altri agenti, tutti in costume, sotto gli ombrelloni. La vacanza di quello che è nella lista dei nove super ricercati delle Brigate rosse è finita. La latitanza invece durava dall’8 ottobre 1999, da quando Lojacono, che nel 1986 ha ottenuto la doppia cittadinanza (la madre, Ornella Baragiola, è svizzera) era uscito dal carcere di Ginevra. Quel giorno si era parlato di lui, perché era l’ultimo dei condannati per il caso Moro ad essere in detenzione « piena ». Il fascicolo della sua storia criminale è alto una spanna, con un ergastolo per il caso Moro e condanne per altri quattro omicidi. Quarantacinque anni, di famiglia benestante, nel 1981 è stato condannato a 16 anni per l’omicidio dello studente missino Mikis Mantakas, ucciso con un colpo di pistola alla testa il 28 febbraio 1975, durante l’assalto alla sede Msi di via Ottaviano a Roma. Il 10 ottobre 1978 il giudice romano Girolamo Tartaglione venne ammazzato con due colpi di pistola alla nuca sulle scale di casa. Aveva dato parere negativo alla scarcerazione della Br Besuschio durante la trattativa per la liberazione di Moro. È per questo delitto che Lojacono — fuggito nel Canton Ticino all’inizio degli anni ottanta — viene arrestato in una sera di primavera del 1988 all’uscita di un ristorante cinese di Friburgo. Viveva nella splendida « villa Orizzonte » di proprietà della madre. All’inizio è ergastolo (11), poi la pena viene ridotta a 17 anni e diventa semilibertà nel 1997. Intanto (è diventato cittadino svizzero) le autorità elvetiche continuano a negare la sua estradizione per il delitto Moro, anche se Valerio Morucci — 10 novembre ’93 — ammette in aula che Lojacono era in via Fani. Un anno dopo arriva l’ergastolo.’’ (Corrispondenza da Milano, a firma di M. IMARISIO, e sotto il titolo Preso in Corsica il br Lojacono, in Corriere della Sera del 3 giugno 2000, p. 15). 2. ‘‘Niente estradizione in Italia per Alvaro Lojacono: in aperta polemica con il sistema giudiziario italiano un tribunale di Bastia in Corsica ha ordinato ieri mattina l’immediata scarcerazione dell’ex brigatista rosso coinvolto nel sequestro Moro e in molti altri sanguinosi episodi di terrorismo. Malgrado le numerose condanne all’ergastolo la Chambre d’accusation ha detto no al trasferimento dell’ex brigatista per una semplice ragione: in Italia si pratica il processo in contumacia, in assenza cioè dell’imputato. Una procedura « lesiva dei diritti della difesa », in contrasto con « un principio fondamentale del diritto francese ». Se estradato, Lojacono — latitante dalla fine degli anni settanta — sarebbe infatti finito direttamente in carcere, senza altri processi: una prassi a cui i giudici francesi guardano con orrore. « Il verdetto della Chambre d’accusation è definitivo, si impone a Francia e a Italia. E di conseguenza Alvaro Lojacono torna libero », hanno subito esultato Irene Terrel e Jean-Jacques Defelice, i due avvocati dell’ex brigatista che su richiesta italiana era stato arrestato il 2 giugno (...). Durante le udienze sulla richiesta di estradizione, avanzata formalmente dall’Italia ai primi di luglio, i due legali hanno cavalcato il cavallo di battaglia della contumacia e hanno insistito anche su un altro tasto: l’ex brigatista rosso ha già pagato e non può essere punito una seconda volta per una militanza che gli è già costata una prima, pesante condanna in Svizzera’’. (Corrispondenza non firmata da Parigi, sotto il titolo No all’estradizione del br. Lojacono, in Corriere della Sera del 12 ottobre 2000, p. 15).
(11) Su tale condanna v. Cittadinanza straniera sopravvenuta (ex parte matris) e divieto di estradizione, in Ind. pen., 1990, p. 406. V. inoltre, Cittadinanza sopravvenuta ed applicabilità del codice penale svizzero (ancora sul caso Lojacono), ibid., 1993, p. 176.
— 1636 — 3. C’è però rischio — e non sarebbe del resto la prima volta — che i giudici francesi, a quanto sembrerebbe in preda ad ‘‘orrore’’, abbiano guardato ai processi italiani in contumacia, nei confronti di un latitante, confondendo la nostra disciplina della contumacia con la loro. Una disciplina, si vuol dire, che testualmente esclude il ruolo del difensore e, inoltre, la possibilità di ricorrere per cassazione: v. art. 630 e art. 636 c.p.p. francese. (Proprio anche ad evitare equivoci di questo tipo è stata verosimilmente ispirata la figura del ‘‘magistrato di collegamento’’: un magistrato francese in Italia e un magistrato italiano in Francia). Sempre a proposito di ‘‘orrore’’, non possiamo neanche dimenticare che la Francia, fino alla recentissima legge del 15 giugno 2000, ignorava l’istituto dell’appello per le sentenze di corte d’assise. (12).
Lotta al terrorismo e cooperazione internazionale. Nei giorni 22-24 settembre 2000 l’ISPAC (International Scientific and Professional Advisory Council) del Crime Prevention and Criminal Justice Programme delle Nazioni Unite ha promosso e organizzato a Courmayeur una conferenza internazionale dal titolo: ‘‘La lotta al terrorismo attraverso il rafforzamento della cooperazione internazionale’’. Pubblichiamo il programma della conferenza (che si è svolta sotto gli auspici dei nostri ministeri degli interni e della giustizia): ‘‘Il terrorismo rappresenta una forma molto particolare di criminalità in quanto spesso mescola la politica con la guerriglia e la propaganda. Particolare rilievo ha assunto il fenomeno negli ultimi anni in quanto alcuni analisti hanno constatato che alcune azioni terroristiche hanno come obbiettivo principale quello di causare un alto numero di vittime. Se da un lato si assiste all’esaurirsi di alcune forme di terrorismo quali quello di matrice social-rivoluzionaria e quello finanziato e strumentalizzato dai Governi, dall’altro il terrorismo basato sul fondamentalismo religioso, dell’estremismo di destra, su base individuale e separatista sembra invece essere in aumento. Recentemente diverse organizzazioni terroristiche hanno, anche, manifestato interesse ad impadronirsi di armi chimiche, biologiche e nucleari. Il venir meno della sicurezza in alcuni Paesi, un tempo appartenenti all’Unione Sovietica, e l’ignota dislocazione di decine di testate atomiche russe creano nuovi problemi di sicurezza sul piano legislativo e della difesa. In alcuni Paesi, soprattutto quelli in transizione da un regime autoritario ad un regime democratico, le forze dell’ordine non sono riuscite a snidare le organizzazioni estremiste clandestine che per le loro operazioni si avvalgono di infrastrutture finanziarie e informatiche internazionali. A causa della frammentazione dei vari movimenti terroristici, quelle organizzazioni che agiscono senza l’appoggio di un paese specifico sono particolarmente difficili da individuare e combattere dato che non è facilmente localizzabile la base dalla quale esse operano. La formazione di comunità di migranti e di rifugiati ha permesso la creazione di teste di ponte che consentono ai terroristi di nascondersi all’estero fra i propri compatrioti. Ciò ha portato alla cosiddetta ‘‘mobilità dei conflitti interni’’. Per i terroristi le comunità di emigrati stranieri rappresentano non solo un riparo sicuro e una fonte garantita di finanziamenti, ma anche una base operativa. Il terrorismo a livello internazionale rappresenta comunque soltanto una parte minima
(12) PISANI, Il nuovo article préliminaire del c.p.p. francese, in Riv. dir. proc., 2000, p. 1006. V. inoltre, e in particolare, ANGEVIN Mort d’un dogme, in La Semaine juridique (Éd. Gén.), n. 40, 4 ottobre 2000, p. 1795. Alcuni particolari sulla latitanza di Lojacono (quattro anni trascorsi in Algeria, un paio d’anni in Brasile, in attesa della nuova disciplina elvetica sulla cittadinanza) sono stati offerti dall’interessato in una recente intervista parigina a G. Bianconi, pubblicata sotto il titolo: Il br Lojacono: ‘‘Fuggii con l’aiuto del Pci’’, in Corriere della Sera del 22 ottobre 2000, p. 14. (Ne è seguita una polemica in sede politica, subito spenta...).
— 1637 — dei fenomeni terroristici. I turisti stranieri, gli uomini d’affari, i funzionari delle organizzazioni internazionali e il personale diplomatico non sono l’unico obbiettivo dei terroristi. Il maggior numero di persone rapite, prese in ostaggio, uccise e ferite sono coloro che vivono nelle zone di conflitto o nelle loro vicinanze, quali l’Algeria, la Cecenia, la Colombia e lo Sri Lanka. Non è possibile né capire né prevenire il terrorismo internazionale senza tenere in debita considerazione le radici del nazionalismo etnico interno, del separatismo e dell’attivismo, del fondamentalismo religioso. Se non viene represso, il terrorismo interno rischia di contagiare anche gli altri Paesi. I proventi del commercio della droga e delle altre attività criminali vengono utilizzati per finanziare le reti del terrorismo. Gli stretti legami fra produzione e commercio illecito di droga, da un lato, e criminalità organizzata e conflitti politici armati, dall’altro, sono più che evidenti in numerosi conflitti cruenti. Mentre il terrorismo svolge la funzione di braccio armato di alcuni movimenti politici con il fine di provocare un radicale mutamento politico, altri usano atti terroristici come paravento per le attività criminali. Altri ancora si servono di atti terroristici quali i rapimenti, per finanziare insurrezioni o per perpetrare atrocità che intimidiscano e scoraggino alcuni settori delle comunità locali o di immigrati. I servizi segreti sono sempre stati in prima linea nella lotta al terrorismo. Ma gli sviluppi in materia di criptazione della telefonia mobile e Internet hanno tuttavia generato nuovi problemi per le forze dell’ordine. Le nuove tecnologie informatiche servono tanto ai terroristi quanto a coloro che li combattono sia nel ‘‘ciberspazio’’ che sul terreno. Le forze armate e i servizi segreti sono sempre di più coinvolti nella lotta al terrorismo, trovandosi a dover, di volta in volta, decidere quando operare nel rispetto del sistema di ‘‘giustizia penale’’ e quando passare a ‘‘metodi di guerra’’ per combattere il terrorismo. Questo anche in virtù del fatto che le motivazioni del terrorismo, le sue strategie, il finanziamento, la logistica e il modus operandi sono in costante evoluzione. I nuovi sviluppi — dagli attacchi suicidi agli atti apparentemente casuali di gruppi autonomi, all’arruolamento via Internet — rendono imperativo procedere ad una rassegna delle manifestazioni in essere del terrorismo per migliorare le strategie internazionali di lotta al fenomeno. In un mondo sempre più aperto e interdipendente il terrorismo potrà essere contrastato efficacemente solo attraverso una migliore cooperazione internazionale. La Conferenza dell’ISPAC si propone di passare in rassegna gli attuali sviluppi e le tendenze che si vanno delineando. Una ventina di esperti si rivolgeranno ad un pubblico formato da esponenti delle forze dell’ordine, da rappresentanti di organizzazioni intergovernative, non governative e di associazioni accademiche e professionali allo scopo di allargare la gamma delle risposte da dare, per creare nuove strategie per la prevenzione e il controllo di questa disumana forma di conflitto’’ (13).
(13)
Per un resoconto della Conferenza v. SERON, in Cahiers de Défense Sociale, 2000.